Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Rossi:
la ragione conversazionale di Romolo; o lo storicismo – la scuola di Torino. filosofia
piemontese -- filosofia italiana – l’astuzia della ragione converszionale di
Weber e Grice -- Luigi Speranza (Torino).
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piamonte. Studia a Torino sotto ABBAGNANO, Napoli, e Milano.
Insegna a Cagliari e Torino. Studia lo storicismo, l’illuminismo, e il
positivismo. Saggi: Lo storicismo, Einaudi, Torino; “Storia e storicismo, Lerici,
Milano; La storiografia Saggiatore, Milano; “Oltre lo storicismo, Saggiatore,
Milano; “Storia della filosofia”, Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cf. Grice, “Speranza e l’opera di Grice in Italia.”
CLASSICI DELLA FILOSOFIA COLLEZIONE FONDATA D’ABBAGNANO DIRETTA DA GREGORY
CLASSICI UTET, Tipografia ‘Toso, via Capelli, Torino. È difficile isolare,
nell'àmbito della filosofia contemporanea, un indirizzo che possa essere
caratterizzato in maniera univoca, e al tempo stesso esaustiva, con la
designazione di storicismo ». Ciò
dipende in primo luogo dal fatto che il termine
storicismo » — così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni
’20, dapprima in Germania e poi in Italia — è stato impiegato per indicare
posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando con sé quasi
sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che gli ha impedito per
lungo tempo di essere assunto a contrassegno di un’impostazione di pensiero o
di diventare una designazione storiografica comunemente accettata. Nella
cultura tedesca lo storicismo è stato infatti identificato originariamente con
una considerazione storica dei diversi campi della vita e della cultura fondata
su un atteggiamento relativistico, che comportava quindi una relativizzazione
dei valori alla particolare cultura o al particolare periodo storico nel quale si
sono formati. Nella cultura italiana esso è invece servito a indicare
soprattutto, almeno fino alla seconda guerra mondiale, una concezione della
storia (di derivazione hegeliana) che affermava la fondamentale storicità di
tutto il reale, e di conseguenza la riduzione di ogni conoscenza a conoscenza
storica. In altri paesi, eccetto in quelli di lingua spagnola, il termine ha
avuto scarso successo: nella cultura francese è rimasto sostanzialmente assente
— tant'è vero che il primo studio organico del movimento storicistico tedesco,
cioè il libro di Aron, è intitolato alla
filosofia critica della storia
anziché allo storicismo — mentre nella cultura anglosassone ha
acquistato, in virtù della polemica di Karl Popper contro la miseria dello storicismo , un significato
quasi sempre negativo. In epoca più recente, cioè nel corso degli anni ’60, è
subentrata una tendenza piuttosto diffusa a identificare lo storicismo con la
concezione marxistica della storia, vale a dire con il materialismo storico:
tendenza chiaramente connessa con il processo di rinnovamento del marxismo
contemporaneo, operato attraverso il recupero di autori come il Lukdcs di
Geschichte und Klassenbewusstsein e il Gramsci dei Quaderni del carcere, nonché
attraverso l’incontro con altri orientamenti del pensiero contemporaneo, in
primo luogo con l'’esistenzialismo. AI di lì di queste considerazioni relative
al significato del termine, e ben più importanti di esse, vi sono però altri
due ordini di motivi i quali spiegano la difficoltà di cui si diceva. Il primo
ordine di motivi consiste in una caratteristica intrinseca allo storicismo,
ossia nel fatto che esso non è soltanto, né principalmente, una dottrina o un
complesso di dottrine filosofiche, ma è pure un movimento che ha avuto larga
influenza sulla ricerca storica e sulle scienze sociali, e che presenta
connessioni tutt'altro che irrilevanti con le vicende politiche europee del
secolo xx. Le formulazioni più propriamente teoriche dello storicismo
contemporaneo come la teoria della
conoscenza storica e l’analisi della struttura storica del mondo umano e della
relazione dell'uomo con i valori sono
quindi aspetti di un fenomeno più vasto, al quale continuamente rimandano. Il
secondo ordine di motivi risiede invece nel legame ricorrente dello storicismo
con altri indirizzi della filosofia contemporanea: per un verso con
l’idealismo in tutte le versioni che si
richiamano, direttamente o indirettamente, alla concezione hegeliana della
storia e per l’altro verso con il
neocriticismo o con l’esistenzialismo o con il marxismo o con il pragmatismo,
magari (in qualche caso) perfino con il neopositivismo. Risulta così
impossibile determinare un nucleo dottrinale al quale siano riconducibili le
diverse manifestazioni dello storicismo contemporaneo, e che sia più o meno
presente in tutte: al contrario, le varie forme di storicismo divergono anche
su questioni d'importanza fondamentale. La possibilità di individuare lo,
storicismo come un indirizzo a sé stante della filosofia contemporanea appare
perciò problematica sia per quanto concerne i rapporti tra pensiero filosofico
e altri campi culturali, sia all’interno dello stesso pensiero fiosofico. Sarà
opportuno soffermarci più da vicino su questi nessi. Già dal punto di vista
biografico gli esponenti dello storicismo contemporaneo che siano filosofi di
professione, e nient'altro che filosofi, sono assai rari, e non certamente i
più importanti. Dilthey, pur insegnando filosofia, è stato però insieme
studioso di psicologia e di pedagogia, e ha soprattutto dedicato gran parte
della propria attività all’analisi e alla ricostruzione storica di alcuni
momenti centrali di sviluppo della cultura moderna, dal Rinascimento alla
Riforma, dall’Illuminismo al mondo romantico. Georg Simmel e Max Weber occupano
un posto di grande rilievo nella sociologia contemporanea; inoltre, mentre il
primo è autore di numerosi saggi di argomento artistico, letterario ed
estetico, e ha ripetutamente affrontato i problemi concernenti la fisionomia e
il significato della cultura moderna, il secondo è pervenuto all'analisi
metodologica delle scienze sociali muovendo da studi sulle società commerciali
del Medioevo, sul diritto agrario romano, sulle condizioni dei contadini nella
Germania e, infine, sulla scuola storica di economia. Ernst Troeltsch è stato
in primo luogo un teologo, e tutta la prima fase della sua attività speculativa
è ispirata da preoccupazioni tipicamente teologiche: la sua successiva
riflessione sulla storia e sulla conoscenza storica è anch’essa radicata in una
problematica religiosa, e prende le mosse dalla consapevolezza dell’urto della
coscienza storica moderna sulla validità della fede cristiana. Friedrich
Meinecke è giunto ai problemi dello storicismo attraverso l’analisi del
processo di formazione dello stato nazionale tedesco e della struttura della
ragion di stato nell'età moderna; anche
professionalmente, egli è stato uno storico, e solo in secondo luogo un
filosofo, In quanto a Benedetto Croce, anch'egli è stato all'inizio com'è noto
soprattutto studioso di storia e di critica letteraria, e il suo sforzo
di elaborazione filosofica è proceduto di pari passo con l’approfondimento di
temi di storia etico-politica, dî estetica e di linguistica. E
l’esemplificazione potrebbe agevolmente continuare. Ma la connessione con altri
campi culturali non è soltanto un dato biografico; essa è pure una dimensione
intrinseca dello storicismo contemporaneo. Da un lato, infatti, la
consapevolezza del fondamentale carattere storico dell’uomo e della realtà
sociale ha condotto all’analisi dei momenti decisivi della storia culturale
europea, nel duplice intento di delineare
secondo il programma indicato da Dilthey
la vicenda dello spirito
europeo e di porre in luce le relazioni
reciproche tra settori diversi del processo storico, c contemporaneamente ha
promosso il ricorso alle prospettive concettuali che erano offerte dalle
scienze sociali, in particolare dalla sociologia. Dall'altro lato il
riconoscimento della storicità della filosofia, del suo legame con le altre
manifestazioni culturali di un’epoca, della sua dipendenza dai risultati della
ricerca condotta dalle scienze particolari, ha mostrato l'impossibilità di una
filosofia che pretenda di configurarsi come una forma autosufficiente di
sapere, fornita di validità incondizionata. Non meno arduo è discriminare lo
storicismo dai diversi indirizzi della filosofia contemporanea con i quali è
quasi sempre intrecciato. Ciò vale sia per il legame con l’idealismo, che
risulta essenziale al pensiero di Croce (o del suo discepolo inglese R. G.
Collingwood), sia per il nesso con l’esistenzialismo o con il marxismo o ancora
con il pragmatismo, allorché la problematica storicistica s’innesta su una
piattaforma dottrinale diversa e rispondente ad altri interessi. È vero che
Croce si è proposto fin dal saggio Ciò
che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel (1906) e dalla Logica
come scienza del concetto puro (1909) di
differenziare la propria impostazione filosofica da quella di Hegel, eliminando
la distinzione hegeliana tra idea, natura e spirito e risolvendo quindi i primi
due momenti nel terzo, che viene così fatto coincidere con la realtà intera, in
maniera da identificare il processo di realizzazione dello spirito con lo
sviluppo storico e da interpretare ogni fatto come fatto storico. Cionondimeno
il crociano storicismo assoluto si
configura come una ripresa intenzionale della concezione della storia formulata
dall’idealismo del primo Ottocento e soprattutto da Hegel, dal quale deriva il
postulato fondamentale della razionalità dello sviluppo storico e
l'affermazione del suo carattere progressivo. Del resto, la stessa
qualificazione di storicismo è stata
adottata da Croce molto tardi, nel corso degli anni ’30, durante il trapasso
dal sistema della filosofia dello spirito alla posizione
de La storia come pensiero e come azione e degli scritti successivi: il saggio
/! concetto della filosofia come storicismo assoluto è, difatti, del 1939. Nel
pensiero di Croce lo storicismo sorge quindi sulla base di un’impostazione
chiaramente idealistica, ed è inseparabile da questa. La stessa definizione
della filosofia come metodologia della storiografia ha ben poco in comune con
una concezione metodologica della filosofia (quale si è sviluppata partendo da
una prospettiva neocriticistica), ma poggia su una concezione idealistica anzi,neoidealistica del sapere la quale nega il carattere
conoscitivo delle scienze naturali, interpretandole come prodotto della forma
economica dello spirito, e perciò riduce la conoscenza a conoscenza storica,
vale a dire a conoscenza dello sviluppo dello spirito nella serie infinita
delle sue manifestazioni finite. Anche in vari altri autori lo storicismo si
presenta come un approccio ai problemi della storia e della conoscenza storica
condizionato dall’assunzione di presupposti propri di orientamenti di pensiero
eterogenei, ed è lungi dal configurarsi in modo autonomo. Per esempio, la
concezione heideggeriana della storicità dell’esserci è strettamente dipendente
dalla teoria diltheyana della storicità; ma questa viene ricondotta a un quadro
ontologico del tutto estraneo alla filosofia di Dilthey, risolvendosi in un
elemento dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit. Analogamente, se è vero
che Karl Jaspers si è richiamato con insistenza a Max Weber (fino ad asserire
che egli non ha insegnato una filosofia,
ma era una filosofia , anzi la filosofia per eccellenza del suo tempo), la
problematica storicistica occupa un posto del tutto secondario
nell’esistenzialismo jaspersiano. Né le cose stanno in maniera diversa nel caso
del marxismo. Molte delle categorie interpretative di Geschichte und
Klassenbewusstsein, in primo luogo quella di
possibilità oggettiva , sono di origine weberiana; ma il rinnovamento
del marxismo intrapreso da Lukdcs poggia non già su un’accettazione
dell’impostazione metodologica di Weber, bensì su uno sforzo di replica a
Weber, cioè sullosforzo di sottrarre il materialismo storico alla critica a cui
egli lo aveva sottoposto. Anche la recezione di posizioni storicistiche nel
clima filosofico-culturale francese degli anni ’60, caratterizzato in misura
prevalente dall'incontro tra esistenzialismo e marxismo basti pensare alla Critigue de la raison
dialectigue di Jean-Paul Sartre, apparsa nel 1960 non può certo essere scambiata per una forma
vera e propria di storicismo. Al di fuori della cultura europea, poi,
l'affermazione dell'identità tra esperienza e storia e del carattere
problematico dell’esperienza in quanto sequenza di eventi storici, formulata da
John Dewey in Experience and Nature (1925), sviluppa in modo originale temi
propri del pragmatismo americano, € può caso mai essere ricondotta a una
matrice hegeliana filtrata attraverso un’interpretazione naturalistica, non già
a una piattaforma storicistica. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a
forme d'incontro tra storicismo e altri indirizzi filosofici (se non
addirittura, come nell’ultimo, a un'affinità piuttosto remota), in cui esso
perde inevitabilmente qualsiasi specificità. Se si vuole individuare,
nell’ìmbito della filosofia contemporanea, un movimento storicistico che abbia
proprie caratteristiche distintive, e che non sia subordinato ad altre
impostazioni teoriche, occorre cercarlo nella cultura tedesca degli ultimi due
decenni del secolo xix e dei primi decenni di questo secolo, fino alla vigilia
della seconda guerra mondiale. Soltanto entro tale contesto si può
legittimamente parlare di uno storicismo contemporaneo, cioè di uno storicismo
che non sia la ripresa o la rielaborazione di una concezione della storia
formulata nel primo Ottocento (quale quella hegeliana), e che d'altra parte non
costituisca un semplice elemento di una costruzione filosofica fondata su
presupposti eterogenei. Con ciò non si vuol dire affatto che esso esaurisca il
panorama dello storicismo nella filosofia contemporanea, in cui rientrano a
buon diritto anche le altre forme a cui si è accennato; si vuol piuttosto
affermare che è la sola forma di storicismo che possegga una sua
caratterizzazione autonoma rispetto ad altri indirizzi filosofici, che cioè sia
sorto fin dall’inizio come un movimento indipendente. Anche se lo storicismo
tedesco appare legato, soprattutto nella sua fase iniziale di sviluppo, con il
neocriticismo sviluppatosi a partire dal
1860 sulla base del programma di ritorno a Kant avanzato da Kuno Fischer, da
Otto Liebmann e da Hermann von Helmbholtz, il suo rapporto con questo è un
rapporto non tanto di derivazione o di dipendenza, quanto di differenziazione,
che comporta quindi un crescente distacco dai presupposti e dall'impostazione
gnoseologica del neocriticismo. E in seguito, già a partire dal primo decennio
di questo secolo, tale legame appare come un'eredità del passato, che
sopravvive soltanto in figure piuttosto marginali del movimento storicistico
(per esempio nel vecchio Rickert). Perciò la scelta presentata in questo volume
si limita ai principali esponenti dello storicismo tedesco, lasciando da parte
autori che trovano la loro collocazione primaria in altri orientamenti della
filosofia contemporanea. II. Lo storicismo tedesco contemporaneo prende le
mosse dal dibattito metodologico sulla conoscenza storica, cioè dalla
discussione sul carattere peculiare, sul metodo e sull’oggetto delle discipline
che studiano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Alla
base di tale dibattito c'è chiaramente un'esigenza critica in senso kantiano,
vale a dire l'esigenza di determinare le condizioni che rendono possibile la
conoscenza e che ne garantiscono la validità. Se quest’esigenza è comune pure
al movimento neocriticistico nelle sue varie manifestazioni, è invece
caratteristico dello storicismo il proposito di estendere l’ìmbito
dell’indagine critica a un campo del sapere che era rimasto estraneo sia alla
considerazione di Kant sia agli interessi propri del neocriticismo, Agli occhi
di Dilthey, ma anche di Windelband o di Rickert o di Simmel, il limite della
critica kantiana consiste nel fatto che essa si riferisca esclusivamente alle
scienze naturali, alla conoscenza fisico-matematica nella sistemazione datane
da Newton, senza rendersi ancora conto che un analogo problema di fondazione
critica si pone pure per la conoscenza scientifica dell’uomo e del mondo umano,
considerato nel suo sviluppo storico. Questo limite trova certamente una base
di giustificazione nella situazione del sapere all’epoca di Kant, cioè in
un’epoca in cui le scienze storico-sociali facevano appena i primi passi. Ma a
distanza di un secolo il primo (e unico)
volume dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften di Dilthey compare nel
1883, poco più di cent'anni dopo la pubblicazione della Kritik der reinen
Vernunft e cioè dopo i progressi
decisivi che queste discipline hanno compiuto nella prima metà dell’Ottocento,
soprattutto ad opera della scuola storica, esso risulta ormai privo di
fondamento. Dilthey si trova dinanzi a un edificio concettuale nuovo, che si è
venuto in larga misura costituendo dopo Kant, e che non trova posto nel quadro
categoriale della critica della ragion
pura ; perciò si propone di affiancare ad essa una critica della ragione
storica , vale a dire un'indagine concernente le condizioni di possibilità
della conoscenza storica. Al problema kantiano della possibilità della natura
(e della conoscenza scientifica della natura) fa riscontro il problema della
possibilità della storia (e delle scienze storico-sociali). Questa è
l'ispirazione comune, pur nella diversità di formulazioni e anche di
presupposti, alla prima fase di sviluppo del movimento storicistico. Su tale
base Io storicismo prende posizione contemporaneamente nei confronti del positivismo
e del neocriticismo. Sorto in un periodo in cui il positivismo veniva
diffondendosi anche nella cultura tedesca, soprattutto nell’àmbito degli studi
psicologici e psico-sociologici
particolarmente importante è, a questo proposito, l’opera di Wilhelm
Wundt esso accoglie l’esigenza
positivistica di un’analisi scientifica dei fenomeni del mondo umano, e quindi
il rifiuto di una considerazione metafisica dell’uomo e della storia. Da ciò la
sua diffidenza, se non l'ostilità, nei confronti della concezione idealistica
della storia; da ciò la polemica sotterranea ma non meno accentuata verso Hegel
e la visione hegeliana del processo storico come realizzazione progressiva
dello spirito del mondo , che soltanto
molto più tardi cederà il posto a un tentativo di recupero dell'eredità
dell’idealismo condotto da Dilthey sul
terreno storiografico attraverso lo
studio degli scritti giovanili di Hegel, e da Windelband piuttosto sul piano
teorico, attraverso la proclamazione della necessità di un rinnovamento dell’hegelismo (come suona il titolo di un saggio del 1910).
Ma lo storicismo respinge, al tempo stesso, la riduzione dello spirito a natura
che gli sembra implicita nel positivismo classico; e soprattutto respinge il tentativo
di ricondurre la conoscenza dell’uomo e del mondo umano a un modello di
spiegazione comune a tutto il sapere, che comportava l’assimilazione delle
scienze storico-sociali al procedimento delle scienze naturali. Il distacco dal
positivismo — nella versione che ne avevano dato Auguste Comte nel Cours de
philosophie positive o John Stuart Mill nel System of Logic, Ratiocinative and
Inductive — si esprime proprio nella rivendicazione dell'autonomia metodologica
della conoscenza storica, nell’affermazione della sua irriducibilità alla conoscenza
della natura, e quindi nella tesi di una fondamentale dicotomia del sapere:
scienze della natura e scienze dello spirito in Dilthey, scienze nomotetiche e
scienze idiografiche in Windelband, conoscenza naturale e scienze storiche della cultura in Rickert. Il modello milliano di
spiegazione causale è valido, secondo Dilthey, per le scienze della natura:
così per Windelband e per Rickert la conoscenza è, e dev'essere, orientata in
vista della determinazione di leggi generali organizzate in un sistema di
leggi, a cui possano venir ricondotti i fenomeni. Ma quel modello non è
applicabile alla conoscenza dell’uomo e della realtà, che ha per Dilthey un
diverso fondamento e si serve di altre categorie; e le leggi non trovano
diritto di cittadinanza nelle scienze storico-sociali, o per lo meno non
possono costituirne il fine ultimo. Ma attraverso la critica al positivismo si
compiva anche un netto distacco dalle prospettive neocriticistiche. Come nella
Kritik der retnen Vernunft, così nelle opere dei neocriticisti della fine
dell’Ottocento in particolare in quelle
della scuola di Marburg, rappresentata soprattutto da Hermann Cohen e da Paul
Natorp non trovava posto la dicotomia
del sapere che il nascente movimento storicistico sosteneva: nella permanente
identificazione della conoscenza con la conoscenza fisico-matematica questo non
poteva non scorgere una sostanziale incapacità di adeguazione al mutamento di
orizzonte scientifico intervenuto dopo Kant. Anche in Windelband e in Rickert,
che rimangono più legati all’impostazione gnoseologica generale del
neocriticismo, questa divergenza è esplicita: a un secolo di distanza dalla
critica kantiana il compito della teoria della conoscenza è quello di estendere
il proprio ambito alla conoscenza storica, determinando anche per questa il
fondamento che ne garantisce la validità. Ben più nettamente, nell’Einleitung
in die Geisteswissenschaften Dilthey si propone di fare per le scienze
storico-sociali ciò che Kant aveva fatto per le scienze della natura; e, al
pari di Kant, muove dal riconoscimento dell’esistenza di un complesso di
discipline organizzate, dinanzi alle quali non ha senso chiedersi se siano
valide oppure no, ma occorre invece andare alla ricerca del fondamento della
loro validità, cioè chiedersi come siano possibili e di quali princìpi si
avvalgono nell’organizzare concettualmente il dato empirico. È un decennio
dopo, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892), Simmel affronterà il
compito di determinare le categorie della conoscenza storica e i suoi rapporti
con le scienze sociali. Tuttavia l'allargamento o se si vuole
il completamento della teoria della conoscenza formulata da Kant
costituisce soltanto un aspetto, e forse neppure il più importante, del
distacco dal neocriticismo. L'altro aspetto, diversamente presente nei singoli
autori, riguarda la stessa impostazione gnoseologica del neocriticismo, vale a
dire il tipo e i presupposti dell'indagine critica. Come si è accennato,
Windelband e Rickert rimangono sostanzialmente fedeli a questa impostazione:
nei primi saggi teorici windelbandiani a
partire da Was ist Philosophie? e da Normen und Naturgesetze (entrambi del
1882) e dagli altri scritti che compongono la prima edizione dei Pràludien
(apparsa l’anno successivo) il distacco
dal neocriticismo avviene nella direzione di una teoria dei valori che
attribuisce alla filosofia il compito di individuare i princìpi a priori
dell'attività umana in tutti i campi, e quindi anche nell’ambito conoscitivo, e
che li interpreta appunto come
valori forniti di una loro
intrinseca validità indipendente dall’esperienza, sulla base della distinzione
tra essere e dover essere, tra la necessità empirica (propria delle leggi
naturali, oggetto della scienza) e la validità ideale delle norme (di esclusiva
pertinenza della filosofia). Il soggetto del conoscere rimane quindi il
soggetto trascendentale, capace di pervenire a una verità incondizionata sulla
base della conformità alle norme proprie dell’attività conoscitiva; rimane il
soggetto trascendentale sottratto come
Rickert ribadisce in Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung
(1896-1902) a ogni determinazione
empirica. La conoscenza storica trova il fondamento della propria validità, di
una validità altrettanto universale e necessaria di quella della conoscenza
naturale, nella presenza di valori incondizionati che costituiscono i princìpi
della sua elaborazione concettuale. Le cose stanno ben diversamente per
Dilthey, e anche per Simmel. Entrambi respingono infatti il postulato di un
soggetto trascendentale per rivendicare il carattere empirico dell'io che
indaga la storia; perciò respingono anche l’attribuzione alla conoscenza
storica di una validità indipendente dall'esperienza. Per Dilthey la
conoscenza quella delle scienze dello
spirito ancor più di quella delle scienze della natura è inseparabile dal complesso della vita
umana, è cioè una funzione dell’esistenza concreta dell’uomo in quanto
individuo empirico e della situazione storico-culturale in cui egli vive: di
conseguenza la validità di ogni sapere è condizionata dalla struttura
complessiva della coscienza, dal suo radicarsi nell’esperienza vissuta. Perciò
negli anni ’go, e ancora nei suoi ultimi scritti, Dilthey sarà condotto ad
affrontare appunto l’analisi di questa struttura, nell'intento di mostrare come
da essa scaturisca il procedimento conoscitivo proprio delle scienze
storico-sociali e come in essa siano presenti le condizioni che ne fanno una
forma oggettivamente valida di sapere. Nello stesso periodo Simmel opera una
netta riduzione della conoscenza storica alla comprensione psicologica,
assumendo così un punto di vista radicalmente opposto a quello del
neocriticismo: dal momento che i fenomeni a cui si riferisce tale conoscenza
hanno la loro radice nella vita psichica degli individui, essa deve sempre
risalire da certi dati esterni, oggetto di osservazione empirica,
all’interiorità spirituale degli individui che in questi si manifesta. La
conoscenza storica si riassume quindi nell'atto psicologico dell’intendere,
cioè in un atto che comporta la proiezione di un processo psichico vissuto dal
soggetto conoscente a un'altra personalità, alla quale esso viene attribuito. E
le categorie di cui si avvale nell'organizzare concettualmente il dato empirico
non sono princìpi 4 priori, eterogenei a questo dato, ma INTRODUZIONE 19 sono
semplici presupposti psicologici, forniti di una validità puramente ipotetica:
anch’esse derivano, seppure in maniera indiretta, dall'esperienza. AI di là del
limite rappresentato dall’esclusiva considerazione delle scienze naturali,
l'impostazione gnoseologica del neocriticismo appariva perciò scarsamente
idonea al compito di fondazione della conoscenza storica, che il movimento
storicistico si proponeva. Il mutamento di àmbito dell’indagine critica
trascinava con sé anche un mutamento dei presupposti di quest’'indagine. E qui
entra in gioco un’altra componente, non meno essenziale, dello storicismo
tedesco: il richiamo all’opera della scuola storica, alla quale viene
attribuito secondo le parole di
Dilthey il merito di una definitiva costituzione della scienza storica
e, mediante questa, delle scienze dello spirito . Si può anzi rilevare una correlazione
precisa tra tale richiamo e il distacco dal neocriticismo. In Windelband e in
Rickert, che accolgono l'impostazione gnoseologica del neocriticismo, l'eredità
della scuola storica è sostanzialmente assente: anche quando, nel primo
decennio del Novecento, essi cercheranno nelpassato le premesse di una
concezione della storia coerente con la teoria dei valori, queste saranno
rintracciate piuttosto nell’orientamento storico dell’idealismo post-kantiano,
nella visione storica della realtà presente nei successori di Kant e
particolarmente in Hegel. In Dilthey, invece, l’abbandono dei presupposti
neocriticistici si accompagna alla consapevole recezione dei risultati e della
stessa impostazione di ricerca della scuola storica. Tra questa e il programma
di una critica della ragione storica non
esiste, per Dilthey, una soluzione di continuità: lo storicismo accoglie il
lavoro compiuto dalla scuola storica e il suo edificio concettuale per
indagarne criticamente le condizioni di possibilità, in maniera analoga a
quella in cui Kant si era rifatto alla sistemazione newtoniana. Dilthey compie
così una scelta esplicita tra le due grandi direzioni di sviluppo della
concezione della storia che si possono individuare nella cultura tedesca della
prima metà del secolo quella
rappresentata dall’idealismo post-kantiano, che era culminata nella filosofia
della storia di Hegel, e quella rappresentata dalla scuola storica, che trova
il suo approdo nella Weltgeschichte di Leopold von Ranke; ed è una scelta in
favore della seconda, cioè opposta alla scelta di Windelband e di Rickert.
Tuttavia il richiamo all'opera della scuola storica non va disgiunto da uno
sforzo diretto a metterne tra parentesi i presupposti più tipicamente
romantici. Nello stesso modo in cui recupererà in seguito il concetto hegeliano
di spirito oggettivo, ma interpretandolo come il prodotto dell’oggettivazione
della vita, cioè come il complesso delle manifestazioni dell’attività umana nel
mondo sensibile, fin dagli scritti precedenti all’Einleitung in die
Geisteswissenschaften Dilthey lascia cadere la nozione di spirito del popolo di cui Savigny e altri esponenti della scuola
storica si erano serviti per indicare il principio creativo unitario della vita
di un popolo, considerata nel suo sviluppo storico. E anche l’individualità di
ogni epoca storica, lungi dall’esprimere
come per Ranke il suo rapporto
diretto con Dio, verrà a designare, nella fase conclusiva del pensiero
diltheyano, il suo carattere di autocentralità, vale a dire l'orizzonte entro
il quale si collocano tutte le manifestazioni culturali, politiche, sociali di
un’epoca, derivando da esso il loro significato specifico. Polemica contro il
positivismo e contro il
riduzionismo metodologico
implicito nell’assunzione di un modello unitario di spiegazione dei fenomeni;
distacco dal neocriticismo e dalla sua stessa impostazione gnoseologica;
richiamo all’opera della scuola storica, ma contemporaneo abbandono dei suoi
presupposti romantici queste sono le
coordinate del movimento storicistico nella sua prima fase di sviluppo. E in
relazione ad esse si determina la posizione che i principali esponenti dello
storicismo assumono nel tentativo di pervenire a una fondazione critica della
conoscenza storica. La stessa polemica tra Dilthey e Windelband, che ha inizio
nel 1894, dev’essere collocata su questo sfondo. La rivendicazione
dell’autonomia della conoscenza storica si configura, in Dilthey, nella forma
di una distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Fin dal
1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom
Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, Dilthey aveva sostenuto il carattere
peculiare di queste discipline e l’inapplicabilità al loro sviluppo della legge
di progresso scientifico enunciata da Comte nel Cours de philosophie positive.
Da tale punto di vista le scienze dello spirito costituiscono una totalità
caratterizzata in contrapposizione alle
scienze della natura dall’appartenenza
del soggetto conoscente allo stesso mondo, cioè al mondo umano, che è oggetto
della loro indagine. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello
spirito è quindi fondata, in ultima analisi, su un diverso rapporto del
soggetINTRODUZIONE 21 to conoscente con il loro oggetto: un rapporto di
estraneità nel primo caso, un rapporto dall’interno e quindi di fondamentale identità nel secondo caso. Da questa differenza
derivano le varie antitesi mediante le quali Dilthey ha cercato,
nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, di definire la fisionomia
rispettiva delle scienze della natura e delle scienze dello spirito. Dal punto
di vista dell’oggetto, le prime studiano una realtà esterna all’uomo, mentre le
seconde si riferiscono al mondo umano considerato nella sua dimensione storica.
Dal punto di vista della fonte da cui proviene il dato empirico, le prime muovono
dall’esperienza esterna, cioè dall’osservazione sensibile, mentre le seconde si
radicano nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé, della propria vita
interiore e dei propri rapporti con gli altri. Dal punto di vista del
procedimento, le prime tendono a fornire una spiegazione causale dei fenomeni,
mentre le seconde si propongono di intenderli , avvalendosi di categorie
eterogenee a quelle della conoscenza naturale. Così caratterizzato, l’edificio
delle scienze dello spirito si presenta come un complesso di discipline che
abbracciano lo studio dell’individuo al pari di quello della società, l’analisi
delle strutture del mondo umano (sistemi di cultura e sistemi di organizzazione
esterna della società) al pari dell’analisi del suo sviluppo storico, cioè
delle sue varie epoche. Universale e
particolare , studio comparativo delle uniformità presenti nella
struttura psichica o nella struttura del mondo umano e studio delle sue
manifestazioni singole, considerate nella loro individualità, costituiscono
perciò i due scopi conoscitivi, tra loro inscindibili, delle scienze dello spirito.
Proprio contro questa conclusione si rivolge la polemica di Wildelband,
allorché egli affronta, undici anni dopo
nel saggio Geschichte und Naturwissenschaft (1894) il problema della conoscenza storica. Anche
Windelband intende garantire l’autonomia della conoscenza storica rispetto alla
scienza naturale, ma il criterio di distinzione tra di esse viene cercato sul
terreno puramente metolologico, vale a dire nella diversità del loro
orientamento. Da un lato vi sono scienze che mirano alla costruzione di leggi
generali (le scienze nomotetiche), dall’altro vi sono invece scienze che mirano
alla determinazione della fisionomia di un fenomeno nella sua individualità (le
scienze idiografiche). Le prime costituiscono, nel loro insieme, la conoscenza
naturale; le seconde costituiscono la conoscenza storica. Una distinzione
siffatta risulta perciò indifferen22 INTRODUZIONE te al carattere naturale
o spirituale dei fenomeni studiati, su cui aveva insistito
Dilthey; anzi, la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze
dello spirito non poteva non apparire, agli occhi di Windelband, come l’eredità
di un’antitesi metafisica. Le scienze naturali sono tali non già in quanto
studino fenomeni ontologicamente distinti da quelli spirituali, ma in quanto sono
orientate verso la conoscenza di rapporti generali, esprimibili sotto forma di
leggi; e la conoscenza storica si differenzia da esse in quanto cerca in ogni
fenomeno ciò che gli è proprio, vale a dire la sua individualità. Quando
Windelband criticava il criterio di distinzione formulato da Dilthey, questi
era ormai impegnato in uno sforzo di approfondimento della posizione
dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. In un saggio apparso nello stesso
anno, cioè nelle Ideen dider cine beschreibende und zergliedernde Psychologie
(1894), egli muoveva dal rapporto tra scienze dello spirito ed esperienza
vissuta per affrontare l’analisi della struttura della vita psichica: se il
compito di queste discipline è un compito non già di spiegazione, ma di comprensione
dei fenomeni, e se la comprensione riposa sulla conoscenza che l’uomo ha di sé,
ossia sull’introspezione, allora lo studio di tale struttura assume
un'importanza centrale per la fondazione delle scienze dello spirito. L'analisi
della struttura della vita psichica, condotta dalla psicologia, viene perciò a
coincidere con l’indagine critica delle condizioni di possibilità delle scienze
dello spirito. Dilthey perviene così in
significativa consonanza con le tesi espresse due anni prima da Simmel a privilegiare la psicologia come scienza
fondamentale , facendone la base e il punto di partenza di ogni conoscenza
dell’uomo e del mondo umano. Ma la psicologia capace di assolvere questa
funzione non è la psicologia associazionistica della tradizione herbartiana,
diffusa nella cultura tedesca di fine Ottocento, che Dilthey respinge in
quanto esplicativa e costruttiva: è una
nuova psicologia descrittiva e analitica che deve porre in luce la struttura della
vita psichica, analizzarne i diversi elementi e i loro rapporti, senza
pretendere di offrirne una spiegazione che avrebbe inevitabilmente carattere
naturalistico. L'attribuzione alla psicologia di un compito di fondazione
critica era esposta alle obiezioni di Windelband in misura ancora maggiore di
quanto non lo fossero le formulazioni dell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften. Di ciò Dilthey era consapevole: e difatti egli
abbandonerà ben presto tale strada, per affrontare direttamente la polemica con
Wildelband nei Beitràge zum Studium der Individualitit (1895-96). Nel
respingere la distinzione windelbandiana tra scienze nomotetiche e scienze
idiografiche Dilthey è condotto non soltanto a lasciar cadere la pretesa di
assegnare alle scienze dello spirito un fondamento psicologico, ma anche ad
approfondire l'analisi del loro procedimento di ricerca. Se nell’Einlestung in
die Geisteswissenschaften uniformità e individualità rappresentavano due
aspetti distinti della struttura del mondo umano, ai quali corrispondevano due
scopi conoscitivi diversi delle scienze dello spirito, ora il secondo termine
acquista un’importanza preminente. Il problema centrale dell'analisi
metodologica diltheyana diventa quello del sorgere dell’individuazione sulla
base dell’uniformità, vale a dire del configurarsi in forma singolare di
fenomeni che pur presentano caratteristiche analoghe. Dilthey lo risolve
inserendo tra uniformità e individuazione un termine medio, il tipo, che
costituisce al tempo stesso l’elemento comune a una molteplicità di fenomeni e
la loro norma intrinseca. L’uniformità deriva dal legame con la realtà
naturale, con il mondo fisico e biologico che condiziona il sorgere dei
fenomeni spirituali; sulla sua base si realizza l'individuazione, resa
possibile da un insieme di forme fondamentali che sono appunto i vari tipi di
questi fenomeni. Il compito delle scienze dello spirito viene riposto non più
nello studio separato dell’uniformità e dell’individuazione, ma nello studio
del loro rapporto: ma in tal modo il tipo diventa il termine di riferimento del
processo dell’intendere, il quale cessa di identificarsi con
l’introspezione o di essere
riconducibile ad essa per configurarsi
soprattutto come comprensione degli altri individui e delle loro manifestazioni
di vita. Il procedimento delle scienze dello spirito viene quindi a coincidere
con la comprensione, vale a dire con la riproduzione di stati interiori altrui,
i quali vengono rivissuti dall’individuo sulla base della propria
esperienza. Alla distinzione tra conoscenza delle leggi e conoscenza
dell’individuale, formulata da Windelband, Dilthey contrappone pertanto
l’antitesi tra spiegazione causale e comprensione; ma all’interno di questa
impostazione confluisce una nuova esigenza, quella di affermare il carattere
individuale in ultima analisi del mondo umano. Spetterà però a un allievo
di Windelband, Heinrich Rickert, concludere, per quanto provvisoriamente,
questo dibattito in Die 24 INTRODUZIONE Grenzen der naturwissenschaftlichen
Begriffsbildung e nella contemporanea, più breve trattazione di Kulturwissenschaft
und Naturwissenschaft (1899): due opere scolastiche che avranno però larga
fortuna, e che saranno più volte ripubblicate con modifiche e ampliamenti (di
particolare rilievo saranno, per i Grenzen, la seconda edizione del 1913 e la
terza del ’21). Rickert riprende la distinzione windelbandiana, cercando di
ricondurla a un quadro sistematico. Il procedimento della conoscenza storica e
la sua autonomia vengono dedotti
attraverso un'analisi dei limiti propri della scienza naturale, cioè mostrando
che l’ideale di quest’ultima l'ideale di
un’integrale spiegazione meccanica della realtà, da conseguire mediante la
costruzione di un sistema di leggi di sempre maggiore generalità si lascia sfuggire l’individualità di ogni
fenomeno nella sua immediatezza empirica. Da ciò la necessità di un’altra forma
di conoscenza che si riferisca proprio a questa individualità, e che risulta
irriducibile alla scienza naturale e al suo tipo di elaborazione concettuale
del dato. In questa prospettiva la distinzione tra le due forme di
conoscenza scienza naturale e conoscenza
storica rimane fondata su una differenza
di metodo: la medesima realtà può essere oggetto di entrambe, indipendentemente
dall’eventuale determinazione ontologica dei fenomeni, ed anzi si presenta come
natura quando è considerata in riferimento a leggi generali e come storia
quando è considerata in riferimento al particolare. Ma l’individualità storica
non coincide con l'immediatezza empirica del dato; anch’essa è infatti il
risultato di un procedimento di elaborazione concettuale, sebbene differente da
quello della scienza naturale. Rickert indica la base di tale procedimento
nella relazione ai valori, vale a dire nel rapporto con valori forniti di
validità incondizionata, i quali presiedono alla scelta del dato empirico e
alla costruzione un individuo storico.
L’individualità di un oggetto risulta così fondata sul suo riferimento ai
valori, che ne costituisce il significato. In tal modo la conoscenza storica
viene a differenziarsi dalla scienza naturale anche ‘per quanto riguarda il
campo di ricerca; e questo è identificato con la cultura, cioè con una realtà
che abbraccia tutti i possibili fenomeni a cui viene attribuito un significato
in virtù della relazione a qualche valore. Il dibattito metodologico degli
ultimi due decenni dell’Ottocento mette perciò capo a un approfondimento di
rilievo delle posizioni iniziali degli studiosi che vi hanno preso parte.
Dinanzi alla critica INTRODUZIONE 25 di Windelband, Dilthey è condotto ad
accentuare l’importanza dell'individualità e a riformulare la distinzione tra
scienze della natura e scienze dello spirito nei termini di un’antitesi tra
spiegazione e comprensione, dalla quale prenderà le mosse l’elaborazione
conclusiva del suo pensiero, contenuta negli scritti del periodo 1905-1911.
D'altra parte la distinzione enunciata da Windelband nel °94 trova in Rickert
uno sviluppo sistematico nell’ambito della teoria filosofica dei valori; e in
questo quadro Rickert è costretto a riconoscere all’antitesi tra scienza
naturale e conoscenza storica anche una dimensione oggettiva, che il suo
maestro aveva inteso escludere. Anzi, la conoscenza storica risulta nient'altro
che il complesso delle scienze della
cultura , cioè il complesso delle discipline che hanno per oggetto fenomeni forniti
di significato, di un significato che può essere stabilito com’egli dirà nel 1913, richiamandosi
esplicitamente a Dilthey mediante
l’intendere . Erano così poste le premesse perché venisse messa in disparte la
questione se l’autonomia della conoscenza storica abbia un fondamento oggettivo
oppure una base puramente metodologica, mentre d’altra parte nuovi problemi,
suscitati dal costituirsi di nuove discipline e dall'incontro con altri
indirizzi di pensiero, si affacciavano ormai all'orizzonte dello storicismo
tedesco. III. Quando Dilthey scriveva l’Einleitung in die
Geisteswissenschaften, la sociologia era ancora una scienza estranea
all'ambiente culturale tedesco. In un capitolo di quell’opera egli conduce una
critica radicale dell’impostazione sociologica comtiana, coinvolgendo la
sociologia nella medesima condanna della filosofia della storia. Filosofia
della storia e sociologia rappresentano, ai suoi occhi, due espressioni di un
medesimo atteggiamento metafisico nei confronti del processo storico, cioè di
un atteggiamento che pretende di fare a meno del paziente lavoro delle
discipline particolari per attingere di colpo la totalità della storia, per
determinarne le leggi costitutive, le fasi e la direzione di sviluppo. È vero
che alla base della filosofia della storia c'è una prospettiva
teologico-religiosa, esplicita da Agostino a Bossuet e poi implicita da Vico e
da Lessing fino a Hegel, mentre la sociologia poggia su una concezione
naturalistica; ma anch'essa non è altro che una forma di metafisica, e
precisamen26 INTRODUZIONE te una metafisica naturalistica della storia che
presuppone la subordinazione dei
fenomeni spirituali all'insieme della conoscenza della natura . Contro la
sociologia nella formulazione datane da Comte
ma la critica vale, in fondo, per tutta la sociologia positivistica Dilthey fa valere la tesi che il processo
storico può essere conosciuto soltanto attraverso l’analisi dei suoi diversi
aspetti, compiuta da una pluralità di discipline particolari, non già
attraverso la pretesa illusoria di abbracciarlo nella sua totalità. Anche in
seguito lo storicismo tedesco manterrà la posizione critica verso la sociologia
positivistica, enunciata da Dilthey. Ma pochi anni dopo, nel 1887, un giovane
studioso di formazione filosofica, Ferdinand Ténnies, pubblicava un libro
destinato a inaugurare un tipo di sociologia svincolato dai presupposti del
positivismo, dal titolo Gemeinschaft und Gesellschaft. Esso si proponeva di
mostrare l’esistenza di due diverse forme di organizzazione, designate appunto
la prima come comunità e la seconda come società , e fondate rispettivamente su
rapporti di carattere organico e su rapporti di carattere meccanico tra gli
individui che ne fanno parte. Attraverso l’analisi comparativa delle due forme
di organizzazione Tonnies perveniva a delineare due modelli differenti di
relazioni tra gli uomini e, al tempo stesso, due momenti storicamente successivi
nello sviluppo dell'umanità. Il modello della comunità è quello di una
relazione organica tra i membri del corpo sociale, la quale riposa su un’unità
fondamentale delle volontà individuali e si esprime dapprima nell’ambito della
parentela, del vicinato e dell’amicizia: è la forma originaria di
organizzazione, che comporta il possesso e il godimento in comune dei beni,
nonché l’azione solidale del gruppo nella difesa come nell’offesa. Il modello
della società è invece quello di una relazione meccanica, e quindi arbitraria ,
la quale riposa sull'incontro e sulla somma di volontà individuali separate e
sulla stipulazione di un contratto che le vincola all’osservanza di determinate
norme: è una forma derivata di organizzazione, che si esprime soprattutto nei
rapporti di scambio. La comunità è universalmente diffusa, e caratterizza in
modo esclusivo ogni tipo di associazione primitiva: è propria del villaggio, ma
si ritrova anche nella città antica e in quella medievale, organizzata sulla
base di un'economia corporativa. La società è, al contrario, la forma
specificamente capitalistica di associazione tra gli individui: essa è definita
dalla divisione del lavoro, dall’equivalenza tra lavoro e merce, dalla
proprietà privata, dal sorgere di un’economia monetaria, dallo sviluppo del
capitalismo e dall’allargamento del mercato fino a dimensioni mondiali. In
quest’analisi Tònnies proseguiva indubbiamente lo sforzo della sociologia
positivistica di individuare le caratteristiche strutturali della società
industriale moderna, distinguendola dalle precedenti forme di organizzazione
sociale: sotto tale profilo il suo rapporto con Comte (e in qualche misura
anche con Spencer) è esplicito, ancorché non privo di sostanziali riserve. Ma
egli si richiamava soprattutto ad altri due filoni culturali, dai quali
desumeva gli elementi per determinare la fisionomia rispettiva della comunità e
della società. Nel caratterizzare la comunità egli si rifaceva infatti per il tramite di Otto von Gierke e della sua
opera Das deutsche Genossenschaftsrecht, apparsa tra il 1868 e il 1881 alla scuola storica: la comunità tònnesiana non è altro, in fondo, che la
trasposizione in termini analitici dell'ideale romantico di una società
organica, fondata sull’unità dello
spirito del popolo . Ma in tal modo questo ideale veniva per così dire
storicizzato, e le categorie di cui la scuola storica si era servita per
costruire la propria concezione della società venivano utilizzate per definire
una forma specifica di organizzazione sociale. Nel caratterizzare la società
Ténnies si rifaceva, assai più che alla sociologia positivistica, per un verso
a Hobbes e per l’altro verso a Marx. Dal primo egli derivava la visione di
un’organizzazione su base contrattuale, a cui gli individui partecipano in
quanto individui, mossi dalla duplice aspirazione alla potenza e al guadagno;
dal secondo traeva gli strumenti per individuare il contenuto economico della
società moderna e per identificarla quindi con il capitalismo. Sul rapporto con
la scuola storica che tanta importanza
riveste in Dilthey si innestava così il
riferimento a Marx e alla sua interpretazione della società moderna come
società capitalistica. Bisognerà tuttavia attendere l’ultimo decennio del
secolo perché il materialismo storico, fin allora rimasto un indirizzo eterodosso ed emarginato dagli ambienti
accademici, entri nella cultura tedesca. Nel 1894, annunciando la pubblicazione
del terzo e ultimo volume di Das Kapital (a cura di Engels), Werner Sombart
richiamava gli studiosi tedeschi a una diversa considerazione dell’opera di
Marx, e insisteva sulla necessità di tener conto dell’analisi che questa
offriva del processo capitalistico di produzione. E proprio sul28 INTRODUZIONE
terreno dell'interpretazione del capitalismo e della sua struttura economica
doveva compiersi l’incontro tra il pensiero marxistico e la storiografia
economica ufficiale, rappresentata soprattutto dalla suola di Gustav von
Schmoller. In un paese che, seppur parecchi decenni dopo l’Inghilterra e anche
dopo altre nazioni continentali come il Belgio c la Francia, aveva conosciuto
un rapido e fiorente sviluppo capitalistico
fino a diventare ormai una delle potenze dominatrici del mercato
mondiale il problema delle origini del
capitalismo e dei suoi caratteri distintivi rispetto ad altre forme di
economia, nonché dei rapporti tra l'economia capitalistica e gli altri aspetti
fondamentali della società moderna, acquistava un rilievo preminente. Ed esso
costituirà, all’inizio del nuovo secolo, il terna centrale delle maggiori opere
di Sombart, a partire da Der moderne Kapitalismus (1902), e delle contemporanee
ricerche di Max Weber sul condizionamento reciproco tra religione e sviluppo
economico. Nell'ultimo decennio dell’Ottocento lo storicismo tedesco si trova
perciò inserito in un panorama culturale in rapida trasformazione. Esso non
deve più fare i conti soltanto con l’eredità della scuola storica e con
l’edificio concettuale che essa aveva costruito, ma ha davanti a sé una
sociologia che sta sorgendo sulla base di presupposti diversi da quelli della
sociologia positivistica, ha davanti a sé altre scienze sociali che si
propongono di sviluppare un’analisi empirica di particolari settori della
società; e sullo sfondo comincia a profilarsi l'ombra scomoda del materialismo
storico. Nuovi problemi si impongono quindi alla sua riflessione: non più
quello dell’autonomia della conoscenza storica e della sua distinzione dalle
scienze della natura che appaiono ormai
cosa acquisita ma i problemi dei
rapporti tra la sociologia e le altre discipline, tra le scienze sociali e la
ricerca storica, tra l’interpretazione economica della storia e altre direzioni
di analisi. Ad essi rivolge la propria attenzione Georg Simmel, dal saggio Uber
soziale Differenzierung (1890) al volume Die Probleme der Geschichtsphilosophie
(1892) e alla contemporanea, ampia E:nleitung in die Moralwissenschaft
(1892-93), dalla Philosophie des Geldes (1900) alla Soziologie (1908). Simmel
muove dal presupposto del compito descrittivo delle scienze sociali. In esso si
manifesta il suo atteggiamento ambivalente verso il positivismo, dal quale
accoglie il postulato della possibilità di una descrizione empirica dei
fenomeni sociali ma di cui respinge, al tempo stesso, l’assunzione di una
struttura legale della INTRODUZIONE 209 realtà alla quale la conoscenza
scientifica debba, in ultima analisi, riferirsi. Con ciò Simmel non giunge a
negare l’esistenza di una struttura del genere, ma la considera inattingibile
alla conoscenza, e quindi irrilevante. Le leggi dei fenomeni sociali questa tesi è formulata fin dal 1890 sono leggi non macroscopiche ma
microscopiche, e regolano non già il comportamento e il processo evolutivo
delle varie forme di associazione e di organizzazione, bensì i rapporti tra gli
individui che ne costituiscono gli elementi ultimi. Non esistono quindi o, se
anche esistono, non si possono determinare
il che è la medesima cosa leggi
di sviluppo della società in quanto tale, considerata nella sua totalità: al
massimo, esistono leggi psicologiche a cui si conforma l’azione degli
individui. All’antitesi diltheyana tra spiegazione e comprensione Simmel
sostituisce così la distinzione tra un procedimento esplicativo, fondato su
leggi generali, e un procedimento rivolto alla descrizione dei fenomeni; e
questo gli appare l’unico legittimo nell’ambito delle scienze sociali come
nella ricerca storica. Tuttavia la descrizione non costituisce la semplice
riproduzione di una realtà oggettivamente sussistente: essa comporta
un’elaborazione del dato empirico che può avvenire solo sulla base di
categorie. Queste rappresentano l’elemento formale della conoscenza, distinto
dal contenuto: la loro funzione è di organizzare il dato, e quindi di
determinare la direzione di ricerca delle varie discipline. Ma l’apriorità
delle categorie, la loro differenza rispetto al contenuto della conoscenza, non
significa affatto che esse siano forme universali e necessarie dell’intelletto:
al contrario, anch'esse derivano dall'esperienza e sono diverse da una
disciplina all’altra. Compito dell'indagine critica è perciò quella di
individuare tali categorie, di stabilirne la funzione, di accertare il modo in
cui operano nelle varie scienze sociali, attraverso un’analisi del procedimento
concreto € del campo di ricerca di ogni disciplina. Simmel ha condotto
quest'analisi non tanto in termini generali, quanto in riferimento a problemi
specifici; né è possibile rintracciare nelle sue varie opere una linea coerente
e unitaria di sviluppo. In Die Probleme der Geschichtsphilosophie egli affronta
l'esame dei rapporti tra psicologia e ricerca storica, cercando di determinare
i presupposti psicologici sui quali poggia il procedimento di comprensione di
quest’ultima, per giungere infine alla negazione del carattere scientifico
delle leggi storiche a cui viene
riconosciuto un valore puramente ipotetico e anticipatorio e al rifiuto dei vari tentativi di scoprire
un senso
della storia scientificamente valido. Nell’Einleitung in die
Moralwissenschaft egli si propone di dimostrare la possibilità di una
conoscenza scientifica della vita morale e di individuarne il campo di ricerca,
ai confini tra psicologia, scienze sociali e ricerca storica. Nella Philosophie
des Geldes egli prende in considerazione un concetto economico fondamentale,
quello di denaro, per analizzare il processo attraverso il quale il valore
economico diventa un'entità misurabile e trova quindi la propria unità di
misura appunto nel denaro. Più tardi, nel 1908, Simmel perverrà ad affrontare
il problema dell'autonomia della sociologia nei confronti delle altre scienze
sociali, proponendone una concezione svincolata sia dai presupposti
positivistici sia dall’impostazione storico-tipologica ch’essa aveva trovato
nell’opera di Tònnies, La concezione simmeliana è fondata sull’affermazione del
carattere puramente formale della sociologia. Dal punto di vista del contenuto
non è possibile differenziare la sociologia dalle altre scienze sociali: i
fenomeni che esse studiano sono pur sempre i medesimi, e sono riconducibili a
processi psichici individuali. Ma la sociologia rappresenta un nuovo tipo di
considerazione di questi fenomeni, in quanto essa li studia non già come fenomeni
morali o economici o politici, e via dicendo, bensì nei modi di relazione in certa misura permanenti tra gli individui, da cui hanno origine i
processi di associazione . La sociologia
prescinde dal contenuto dei fenomeni sociali, che sono sempre variabili, per
limitarsi all'analisi delle forme di associazione; essa è la dottrina dell’essere-società dell'umanità .
In altri termini, mentre le singole scienze sociali studiano i fenomeni sociali
in quanto qualificati nel loro contenuto, la sociologia indaga i processi in
cui i rapporti reciproci tra gli uomini dànno luogo alle strutture della
società. Il suo oggetto specifico consiste perciò nelle forme di associazione,
che costituiscono l’elemento formale onnipresente nella vita sociale e che, pur
essendo anch'esse sottoposte a un mutamento e a una trasformazione, posseggono
tuttavia un grado di permanenza superiore al ritmo della vita individuale.
Quando Simmel pubblicherà la Soziologie, questa disciplina avrà ormai trovato
una piena legittimazione nella cultura tedesca; e lo stesso Dilthey in contrasto soltanto apparente con la
posizione assunta nell’Einl/eitung in die Geisteswissenschaften avrà parole di apprezzamento per la
prospettiva simmeliana. Nel corso degli INTRODUZIONE 3I anni ’90 e nei primi
anni del nuovo secolo la sociologia aveva cercato non soltanto di definire
teoricamente il proprio compito e i propri metodi, ma si era impegnata in uno
sforzo di analisi empirica di diversi aspetti della realtà tedesca
contemporanea, Molto tempo era trascorso da quando Heinrich von Treitschke
aveva sbrigativamente asserito che la conoscenza della società si esaurisce
nella scienza politica, in quanto ogni aspetto della vita sociale è
riconducibile allo stato: i problemi della struttura economico-sociale della
Germania post-bismarckiana richiedevano un altro tipo di considerazione, che
era appunto offerto dalla nuova scienza. In questo contesto si viene compiendo
la formazione di una delle più importanti personalità del movimento
storicistico, cioè di Max Weber. Partito da studi a cavallo tra storia del
diritto e storia economica, il giovane Weber prende ben presto parte a
un'inchiesta sulla situazione del lavoro agricolo in Germania, promossa
dal Verein fir Sozialpolitik ,
analizzando nel volume Die Verhaltnisse
der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (1892) il processo di trasformazione
dell’agricoltura tedesca nelle regioni orientali e i problemi, anche politici,
che ne derivavano; in seguito altri aspetti dell’economia capitalistica
contemporanea attraggono la sua attenzione, finché nel ’97 una grave crisi
nervosa non lo costringe a interrompere per vari anni ogni attività. Ma già in
questo primo, intenso periodo di lavoro intellettuale viene a delinearsi il
posto centrale che, negli studi successivi di Weber, assumerà il problema del
capitalismo moderno e della sua individualità storica, cioè della sua
specificità rispetto alle altre forme di economia. Nel medesimo tempo
l’emergere di sempre più marcati interessi metodologici lo spinge a seguire da
vicino la discussione sul materialismo storico, che proprio verso la metà degli
anni ’go si estende dalla Germania verso altri paesi europei, e ad avvertire
l’esigenza di definire il procedimento delle scienze sociali. Così egli si
accosta alla problematica dello storicismo, al cui sviluppo offrirà poi un
contributo decisivo agli inizi del nuovo secolo. IV. Nel 1905, dopo quasi un
decennio dedicato prevalentemente all'analisi dei principali momenti di
sviluppo della cultura moderna, Dilthey riprendeva il progetto di una critica
della ragione 32 INTRODUZIONE storica , formulato nell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften. Egli si rendeva certamente conto ne sono prova i tentativi piuttosto disparati
di prosecuzione, compiuti negli anni ’90
di non essere riuscito a realizzare quella fondazione delle scienze
dello spirito che si era proposto. Anzi, si rendeva anche conto che la
soluzione prospettata nel 1883 rischiava di vanificare la validità oggettiva di
tali discipline, riducendole all’immediatezza dell’esperienza vissuta. Infatti,
se le scienze dello spirito hanno la propria base nell’esperienza vissuta che
l’uomo ha di sé e degli altri, e se la comprensione degli altri poggia sulla
capacità di rivivere gli stati interiori altrui
com'era asserito nei Beitràge zum Studium der Individualitit è chiaro che la validità della conoscenza
storica e delle discipline che la costituiscono rimane confinata al piano
psicologico. Per dare alle scienze dello spirito un fondamento conoscitivo
adeguato era necessario abbandonare questo piano, e garantire in qualche modo
l’oggettività dell’intendere, la partecipabilità dei suoi risultati. Ancora una
volta il punto di partenza era offerto dall'analisi della struttura della vita
psichica, alla quale sono dedicate in massima parte le tre Studien zur
Grundlegung der Geisteswissenschaften (1905-10). Ma in quest’analisi Dilthey
non soggiace più, come nelle Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde
Psychologie, alla tentazione di risolvere il compito di fondazione critica delle
scienze dello spirito in una descrizione psicologica del loro procedimento.
Un’impostazione del genere non poteva ormai non apparirgli inficiata di
psicologismo, cioè di una confusione arbitraria tra determinazione delle
condizioni di validità del conoscere e analisi delle sue condizioni psichiche;
e proprio lo psicologismo era stato sottoposto pochi anni prima a una critica
spietata da parte di Edmund Husserl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901),
l’opera che segna l'inizio del movimento fenomenologico. Come aveva rilevato
Husserl, la psicologia è una scienza sperimentale, che non può avanzare alcuna
pretesa di fondazione; anzi, essa stessa richiede di esser fondata nella sua
validità, Dilthey, che aveva letto attentamente le Logische Untersuchungen,
recepisce questa critica: se il punto di partenza della fondazione delle
scienze dello spirito consiste nell’analisi della struttura della vita
psichica, essa non è tuttavia riducibile a quest’analisi. L'indagine critica
concerne la validità delle scienze dello spirito: al di là della descrizione
delle varie operazioni conoscitive, sulla cui base si costituiscono le singole
discipline, si pone appunto un altro problema, quello della fondazione del loro
metodo e dei loro risultati. In questo contesto anche l’esperienza vissuta
viene in qualche modo ridimensionata nella sua importanza. Certamente, ogni
manifestazione della vita psichica ha la sua radice in essa, cioè nel corso
ininterrotto dell’ErleZer, nella successione di stati interiori da cui questo è
formato. Ma l’Erleben possiede una sua struttura, rappresentata dalla relazione
tra atto e contenuto; e dai diversi modi di questa relazione sorgono le varie
forme di atteggiamento della vita psichica, i suoi sistemi» cioè l'apprendimento oggettivo, il sentimento
e la volontà. La conoscenza coincide appunto col primo di questi sistemi, nel
quale è presente una tendenza verso l’oggetto, verso un oggetto concepito e qui è evidente la suggestione di
Husserl come parzialmente trascendente » rispetto all’esperienza
vissuta. Perciò essa si sviluppa su un piano ulteriore rispetto all’Erleben: su
questo piano sorgono le operazioni comuni a ogni specie di apprendimento
oggettivo, da quelle elementari (come la comparazione, la distinzione, la
relazione) a quelle proprie del pensiero discorsivo (come la riproduzione
memorativa di uno stato passato, il rapporto tra espressione e ciò che è
espresso, il giudizio, il concetto, il sillogismo), e si compie altresì la
differenziazione tra i metodi delle varie discipline, in particolare tra
scienze della natura e scienze dello spirito. In tale prospettiva Dilthey
affronta, nell’ultima delle Studier zur Grundlegung der Geisteswissenschaften
e, più ampiamente, in Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften (1910), il duplice problema della delimitazione delle
scienze dello spirito e della loro fondazione critica, Esso viene impostato
individuando il fondamento di queste discipline non più nell’esperienza
vissuta, ma nel nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere comune sia all’introspezione sia alla
comprensione storica, vale a dire sia alla conoscenza di sé sia alla conoscenza
degli altri. Ogni elemento del mondo umano è infatti, per Dilthey,
l’espressione di un'esperienza vissuta, l’espressione della vita di un
individuo. Ma questa espressione, la quale comporta la realizzazione
dell’esperienza vissuta all’esterno, in forme sensibili, è una realtà oggettiva
e osservabile: a questa realtà, non alla vita psichica nella sua immediatezza,
si rivolge il processo dell'intendere. L’intendere non si riduce 3. STORICISMO
TEDESCO. 34 INTRODUZIONE quindi a un atto di penetrazione simpatetica , al
rivivere un certo stato interiore proprio o di un altro individuo; tanto meno
si riduce all’introspezione, poiché come
Dilthey afferma esplicitamente l’uomo si
conosce soltanto nella storia, mai mediante l’introspezione . Tuttavia
intendere un elemento della realtà spirituale vuol dire pur sempre riportarlo
all’esperienza vissuta da cui è scaturito, ossia considerarlo come espressione
della vita: l’intendere non è altro che un ritrovamento dell’io nel tu, la
scoperta, in tutte le manifestazioni storiche, della vita psichica dalla quale
procedono. Il nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere viene quindi
a configurarsi come un nesso circolare: come l’espressione deriva
dall’esperienza vissuta e l’intendere si riferisce all’espressione, così
l’intendere deve anche risalire per il
tramite dell’espressione all’esperienza
vissuta. Essendo fondate su tale nesso, le scienze dello spirito risultano
caratterizzate da un riferimento retrospettivo all’esperienza vissuta. Come già
nell’Ein/eitung in die Geisteswissenschaften, così anche nell'ultima fase del
pensiero diltheyano esse poggiano dunque sul presupposto di un’identità
fondamentale tra soggetto e oggetto, e la loro possibilità deriva appunto dal
fatto che la vita coglie qui la vita. La loro certezza non è più immediata ma
mediata, in quanto trova una garanzia nel rapporto tra esperienza vissuta,
espressione e intendere; tuttavia anche questa garanzia trae origine, in ultima
analisi, dall’appartenenza dell’uomo allo stesso mondo studiato dalle scienze
dello spirito, vale a dire dalla struttura dell’uomo come essere storico.
Perciò le categorie della ragione storica, i modi di apprendimento del mondo
umano, coincidono con le forme strutturali di tale mondo: esse ne costituiscono
la semplice traduzione concettuale. Dilthey rimaneva così legato, anche
nell’ultima fase del suo pensiero, all’eredità metodologica della scuola
storica. L’insistenza sull’esperienza vissuta come radice di tutta la vita
psichica, sul costante riferimento
retrospettivo ad essa delle scienze
dello spirito, e nel medesimo tempo il privilegiamento della vita considerata
come la dimensione fondamentale del mondo umano
che ha fornito lo spunto a un’interpretazione metafisica della filosofia
di Dilthey, senza dubbio arbitraria ma tuttavia sintomatica ne sono una chiara dimostrazione. Non del
tutto a torto Husserl estendeva allo storicismo diltheyano, nel saggio
Philosophie als strenge Wissenschaft (1910), la critica rivolta allo
psicologismo. La costruzione
INTRODUZIONE 35 del mondo storico
delineata negli scritti del periodo 1905-11 rimane sempre in un
difficile, precario equilibrio tra lo sforzo di svincolarsi dal piano
dell’immediatezza, dalla tendenziale riduzione della conoscenza storica
all’esperienza vissuta, e il permanente legame con la scuola storica e con i
suoi presupposti metodologici. Ma nei medesimi anni in cui il vecchio Dilthey
esponeva all'Accademia delle Scienze di Berlino i risultati conclusivi della
sua analisi delle scienze dello spirito, quei presupposti subivano una critica
radicale e definitiva da parte di Max Weber
di trent'anni più giovane sulle
colonne prima dello Schmollers
Jahrbuch e poi del rinnovato Archiv fir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik . Se per Dilthey la conoscenza storica coincideva pur sempre con
l’edificio concettuale della scuola storica, per Weber s’identificava ormai con
un complesso di discipline che si erano costituite la sociologia in primo luogo, ma anche la
scienza economica nella versione marginalistica
distaccandosi da tale edificio e respingendone sia l’impostazione
generale sia la pretesa di onnicomprensività. A queste discipline, al loro
procedimento concreto e ai loro rapporti si riferisce l’analisi metodologica di
Weber, che non a caso prende le mosse dalla polemica contro la scuola storica
di economia. Quando Weber ritorna agli studi nel 1901, il suo interesse è
attratto soprattutto dal problema
largamente dibattuto in quel periodo
del metodo della scienza economica; e a questo è dedicato il suo primo
saggio metodologico, Roscher und Knies und die logischen Probleme der
historischen Nationalbkonomie (1903-06). Da circa mezzo secolo la scuola
storica dominava gli studi di economia negli ambienti accademici tedeschi: essa
si proponeva, in opposizione all'economia classica di Smith o di Ricardo, di indagare
i fenomeni economici nel loro sviluppo, come parte integrante della totalità
della vita di un popolo. Ciò facendo Roscher, Hildebrand, Knies avevano in
realtà trasferito all'ambito economico l’impostazione organicistica della
scuola storica, la visione del processo storico come prodotto di uno spirito del popolo che garantisce, in ogni momento di sviluppo,
la connessione dei diversi aspetti della realtà sociale. Questa impostazione
era stata criticata fin dal 1883 da Karl Menger nelle Untersuchungen ùiber die
Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere,
un’opera che aveva dato inizio a una celebre disputa. Weber riprende le
obiezioni di Menger, respingendo la pretesa di determinare 36 INTRODUZIONE
leggi di sviluppo economico, cioè tendenze evolutive dei fenomeni economici
fornite di significato legale. Ma la sua critica si estende subito all’intera
eredità metodologica della scuola storica, all’edificio concettuale che essa
aveva costruito. E a tal fine egli si richiama a un’altra opera apparsa da
poco, ai Grenzen di Rickert, accogliendo la distinzione che egli aveva
formulato tra scienze naturali e scienze della cultura, Rickert gli offriva
infatti gli strumenti per condurre una duplice polemica: da un lato contro
l’oggettivismo storico, cioè contro la dottrina che ripone il fondamento
dell’autonomia della conoscenza storica in una determinazione oggettiva del
campo di ricerca, cioè in una presunta specificità ontologica dei fenomeni
storici, dall’altro contro l’intuizionismo storico, cioè contro la dottrina che
cerca tale fondamento in qualche forma di comprensione intesa come intuizione
immediata. Se Dilthey non è nominato, cadono invece sotto i colpi della
polemica di Weber autori come Wundt, Miinsterberg, Lipps, come il Simmel dei
Probleme der Geschichtsphilosophie e il Croce dell’Estetica. Il richiamo a
Rickert aveva però anche una portata positiva. Accogliendo un criterio
puramente metodologico di distinzione tra scienze naturali e scienze
storico-sociali Weber lasciava da parte l’antitesi di origine diltheyana tra spiegazione e comprensione, e poteva
rivendicare anche alla conoscenza storica un compito di spiegazione causale.
Soltanto che questa assumeva una connotazione particolare. Nelle scienze
naturali, infatti, la spiegazione consiste nel riportare un fenomeno a leggi
generali, di cui esso costituisce un semplice caso particolare: tra
l'avvenimento da spiegare e le leggi vi è un rapporto di sussunzione . Nelle scienze storico-sociali
la spiegazione riveste invece un carattere individuale: essa è rivolta alla
determinazione del rapporto causale specifico che intercorre tra due o più
fenomeni individuali, ossia tra momenti successivi di uno stesso processo
individuale di sviluppo. Sulla strada indicata da Rickert era quindi possibile
attribuire un compito esplicativo anche alle scienze storico-sociali, ma
asserirne al tempo stesso la diversità da quello delle scienze naturali. La
metodologia storiografica di origine romantica e al pari di essa anche il positivismo avevano identificato la
causalità con la legalità; rifiutando tale identificazione Weber affermava, al
contrario, la specificità della spiegazione causale-individuale e la sua
compatibilità con il processo dell’intendere. Egli perveniva così a recuperare
un elemento centrale delINTRODUZIONE 37 l'impostazione diltheyana: la conoscenza
storica deve, a differenza delle scienze naturali, comprendere il proprio
oggetto. Ma questa comprensione è inseparabile dalla spiegazione causale. Più
precisamente, la comprensione consiste nella formulazione di ipotesi
interpretative concernenti il senso degli avvenimenti, che occorre poi verificare
attraverso il ricorso alla spiegazione causale. Si compie in tal modo
l’incontro tra due orientamenti di analisi metodologica, che nel corso degli
anni ’90 erano apparsi inconciliabili: da una parte la spiegazione causale
viene svincolata dal riferimento esclusivo a leggi generali, e si riconosce la
possibilità di un tipo di spiegazione proprio della conoscenza storica,
orientato in senso individualizzante; dall’altra l’intendere acquista una
propria autonomia metodologica nei confronti dell'esperienza vissuta, e il suo
procedimento viene ricondotto a regole oggettive. Su questa base Weber
affronta, nel saggio Uber die
Objektivitàt sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntis
(1904) e nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen
Logik (1906), il problema dell’oggettività delle scienze storico-sociali che rimarrà centrale nella sua riflessione
metodologica. Le condizioni di tale oggettività vengono determinate per un verso
nell’esclusione dei giudizi di valore, per l’altro verso nel ricorso alla
spiegazione causale. Weber accoglie infatti la distinzione rickertiana tra
giudizio di valore e relazione ai valori, per affermare l’estraneità del primo
a ogni forma di conoscenza e per individuare nella presenza o nell’assenza di
quest’ultima la differenza principale tra conoscenza storica e scienze
naturali. Le scienze storico-sociali poggiano su una relazione ai valori che
designa il riferimento a certi criteri di scelta del dato rilevante per la loro
indagine, i quali presiedono quindi alla sua elaborazione concettuale. Ma
nell’analisi di questa relazione Weber si distacca nettamente da Rickert,
lasciando cadere il presupposto della validità incondizionata dei valori. Egli
muove, al contrario, dall’affermazione della relatività dei criteri di scelta
impiegati dalle scienze storico-sociali, e perciò dalla constatazione del
carattere inevitabilmente soggettivo delle loro premesse, cioè del loro
condizionamento culturale. Si pone così il problema di stabilire come, date
queste premesse soggettive, le scienze storico-sociali possano tuttavia
pervenire a risultati validi oggettivamente. La garanzia di tale validità è
rintracciata nel principio di causalità, che vale seppure in forma diversa sia nelle 38 INTRODUZIONE scienze naturali
sia nelle scienze storico-sociali. Ma la relatività dei criteri di scelta
incide, in realtà, sullo stesso procedimento di spiegazione causale. Essa rende
impossibile in linea di principio, e non solamente di fatto, determinare tutti
gli elementi del processo causale da cui scaturisce un certo evento: ogni
spiegazione è sempre parziale, in quanto individua una particolare serie di
antecedenti e mai la totalità degli antecedenti di un fenomeno. Ciò implica che
il rapporto tra una certa condizione o un certo complesso di condizioni
(considerate come cause del fenomeno) e il fenomeno da spiegare non è
esprimibile in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il quale asserisca
che, data quella condizione o quel complesso di condizioni, ne deriva
immancabilmente come suo effetto quel fenomeno; esso deve venir formulato su
una diversa base categoriale, cioè in un giudizio di possibilità oggettiva, La
spiegazione di un avvenimento consiste perciò nella determinazione delle
condizioni che lo hanno reso oggettivamente possibile, nonché del grado di
rilevanza di ognuna di queste condizioni; tant'è vero che i giudizi di
possibili tà oggettiva si dispongono lungo una scala i cui estremi sono
costituiti dalla causazione
adeguata e dalla causazione accidentale , cioè dalla
determinazione rispettivamente dell’indispensabilità o della
non-indispensabilità di una certa condizione per il verificarsi del fenomeno da
spiegare. Un oggetto storico, considerato nella sua individualità, non è
soltanto come si è visto indeducibile da un sistema di leggi generali,
ma non è neppure suscettibile di una spiegazione esaustiva. Le scienze
storico-sociali possono spiegarlo sempre in maniera parziale, riportandolo a
una o più serie particolari di condizioni; e i giudizi che enunciano tale
rapporto sono appunto giudizi di possibilità oggettiva. Affermando
l’orientamento individualizzante della spiegazione storica Weber non ha però
inteso escludere il riferimento a leggi generali, o per lo meno a uniformità di
comportamento dei fenomeni sociali : il sapere nomologico è anzi presupposto
indispensabile per la stessa formulazione di giudizi di possibilità oggettiva.
Ma esso ha una funzione puramente strumentale, nel senso che quelle che Weber
chiama regole generali dell’esperienza
intervengono nel procedimento esplicativo soltanto come supporto per la
costruzione di processi tipico-ideali con i quali comparare il processo reale,
e sono impiegate in vista della determinazione di un nesso causale tra fenomeni
individuali. La relazione tra generale e individuale si INTRODUZIONE 39
presenta così in maniera inversa nelle scienze naturali e nelle scienze
storico-sociali. Nelle prime il fenomeno viene ridotto a caso particolare di
una legge, e anche il rapporto di causa ed effetto tra due fenomeni viene
considerato come una semplice specificazione di un rapporto esprimibile in
forma generale, cioè in forma di legge. Nelle seconde il riferimento a regole
empiriche generali serve invece come mezzo: il sapere nomologico di cui la
conoscenza storica si avvale è costituito del resto da tipi ideali, cioè da
concetti formati attraverso un processo di astrazione dalla realtà empirica e
di accentuazione unilaterale di alcuni suoi elementi. Weber non si è però limitato
a fornire una caratterizzazione del procedimento esplicativo delle scienze
storico-sociali in termini individualizzanti, sulla linea tracciata da Rickert;
gli ha anche dato una struttura categoriale diversa da quello delle scienze
naturali. Lo schema di spiegazione della conoscenza storica, definito in
termini di giudizi di possibilità oggettiva, si presenta infatti come uno
schema condizionale . Sotto questo
profilo che è probabilmente il più
importante la teoria weberiana della
spiegazione rappresenta un radicale rifiuto del postulato di una struttura
legale della realtà sociale, che il positivismo ottocentesco aveva sovente
associato al modello di spiegazione su base deduttiva formulato da John Stuart
Mill. Per Weber la realtà sociale non è il dominio di leggi necessarie: in esse
si possono ritrovare soltanto uniformità di comportamento verificabili
empiricamente, la cui elaborazione concettuale dà luogo alle leggi che
costituiscono l'apparato teorico delle scienze storico-sociali. Perciò il procedimento
esplicativo di queste discipline poggia non già su relazioni invariabili, bensì
su possibilità oggettive; e i rapporti che esso pone in luce sono rapporti di
condizionamento i quali esprimono il grado maggiore o minore di probabilità del
verificarsi, sulla base di condizioni date, di un determinato fenomeno. Mentre
Dilthey concludeva una fase del dibattito metodologico dello storicismo
tedesco, Weber ne apriva contemporaneamente un’altra. Ci troviamo qui di fronte
a una svolta decisiva nello sviluppo del movimento storicistico, a una svolta
caratterizzata non soltanto dalla consapevole rottura con l'eredità della
scuola storica, ma anche dallo sforzo di risolvere l'indagine critica
nell’analisi metodologica del procedimento concreto delle scienze
storico-sociali e del loro tipo di spiegazione, abbandonando le ambizioni di
una loro fondazione filosofica. L'impostazione weberiana avrà
conseguenze durature, e di ampia portata, sullo sviluppo di queste discipline,
in primo luogo della sociologia. Del resto lo stesso Weber simpegnerà in
seguito, sulla linea tracciata nei suoi primi saggi metodologici, nella
definizione del compito e delle categorie della
sociologia comprendente , indicando il suo oggetto specifico nelle
uniformità dell'agire umano dotate di senso e affermandone l’autonomia, anzi
l’antitesi relativa, nei confronti della ricerca storica. Su questa base egli
giungerà a fornire, in quella che è rimasta fino ad oggi l’opera più importante
della sociologia novecentesca cioè in
Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicata postuma nel 1921 una sistemazione organica della teoria
sociologica e dei principali campi d’indagine della nuova scienza. V. La
problematica dello storicismo tedesco non si esaurisce tuttavia nel dibattito
metodologico al quale abbiamo finora limitato la nostra attenzione. Al
contrario, alla discussione sul metodo della conoscenza storica, sulla sua
autonomia rispetto alle scienze naturali e sui suoi rapporti con le scienze
sociali si affianca, fin dall’inizio, la consapevolezza che lo sviluppo di
questo nuovo tipo di sapere non può non incidere sull'immagine dell’uomo e
della realtà, la consapevolezza che la dimensione storica deve in qualche modo
trovare diritto di cittadinanza in una concezione filosofica generale. Molti
anni prima dell’Etz/eitung in die Geisteswissenschaften, in una lettera che
risale al 1860, Dilthey aveva individuato la caratteristica fondamentale di
questa nuova concezione filosofica nello sforzo di comprendere l’uomo come un essere
essenzialmente storico, la cui esistenza si realizza soltanto nella comunità. E
in base a questo egli assumeva fin da allora una duplice posizione critica: da
una parte nei confronti di ogni metafisica la quale pretenda di cogliere il
significato della storia ancorandolo a un piano provvidenziale divino,
dall’altra nei confronti di qualsiasi tentativo di ricondurre il processo
storico a un principio assoluto ad esso immanente, Il rifiuto
dell’interpretazione teologica della storia diventerà esplicito nell’Einleitung
in die Geisteswissenschaften, in cui il sorgere delle scienze dello spirito
viene collegato al processo di liberazione del sapere dalla metafisica
tradizionale; ma era già implicito negli INTRODUZIONE 4Iscritti precedenti,
nella stessa adesione del giovane Dilthey ai presupposti metodologici della
scuola storica. Ad esso si accompagna però l'atteggiamento polemico verso
Hegel, il rifiuto del postulato della razionalità della storia e di una visione
del processo storico come successione razionalmente ordinata di incarnazioni
dello spirito del mondo . Fin dal 1864,
affrontando il problema dell’essenza della storia, Dilthey la identificava con
il puro e semplice movimento storico ,
inteso come il lavorare di una generazione per la successiva, il concretarsi
dell'individuo in rapporti sociali ricchi di contenuto, per cui egli lavora .
Questa presa di posizione anti-metafisica, sorretta dal richiamo alle
prospettive neocriticistiche, verrà poi chiaramente in luce nell’Einleitung in
die Geisteswissenschaften, in cui è asserita in modo esplicito la storicità
dell’individuo e del mondo umano nel suo complesso, e in cui viene compiuto il
tentativo di dare una definizione della storia che prescinda dal riferimento a
princìpi speculativi. La vita dell’uomo si risolve nel processo storico,
nell’instaurazione di rapporti con gli altri individui e nella costruzione dei
sistemi di cultura e dei sistemi di organizzazione esterna della società; e
ogni stato sociale è inserito in questo processo, per cui risulta uno stato storico . La storicità viene in
tale maniera assunta a dimensione costitutiva non soltanto dell’uomo in quanto
individuo, ma dello stesso mondo umano che è oggetto delle scienze dello
spirito. Dilthey ritornerà più tardi, nell’ultima fase del suo pensiero, su
queste implicazioni più generali della propria filosofia, cercando di darne una
sistemazione organica. Ma già prima esse erano ben percepibili. Che lo
storicismo avesse conseguenze di ampia portata
e soprattutto conseguenze negative
sulla considerazione di tutti gli aspetti della vita umana, che non
soltanto richiedesse nuove prospettive di analisi ma mettesse
contemporaneamente in crisi credenze e sistemi tradizionali, appariva chiaro
già pochi anni dopo la pubblicazione dell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften. Ed era quasi inevitabile che il primo terreno a venirne
investito dovesse essere quello religioso. La consapevolezza delle implicazioni
filosofiche dello storicismo poneva infatti in questione il postulato del
valore assoluto della fede cristiana e, insieme ad esso, la possibilità di una
teologia. Dalla coscienza di questa crisi prende le mosse la speculazione di
Ernst Troeltsch. Erede della teologia liberale, allievo di Albrecht Ritschl,
Troeltsch avverte il carattere antinomico del rapporto tra storia e religione:
se ogni forma di vita religiosa è storicamente condizionata, se può esser
compresa soltanto in relazione ai diversi aspetti di una certa cultura o di una
certa epoca, nessuna religione può aspirare a una validità incondizionata. E
quindi anche il Cristianesimo diventa una religione come le altre, ossia un
prodotto dello sviluppo storico, privo perciò di quel fondamento soprannaturale
che doveva distinguerlo dalle religioni non cristiane. In questa prospettiva
Troeltsch affronta a partire dal saggio
Christentum und Religionsgeschichte (1897)
il problema della specificità e della validità del Cristianesimo. Di
questo problema Troeltsch ha dato soluzioni oscillanti e non sempre coerenti,
dapprima indicando nel Cristianesimo non già la religione assoluta ma la
religione più alta alla quale l’umanità sia pervenuta nel suo sviluppo storico,
e recuperando così un quadro storico-evolutivo che aveva respinto nella sua
polemica contro il tentativo di conciliazione
tra storia e religione compiuto dalla concezione romantica, poi andando
in cerca di un @ priori proprio della vita religiosa che ne garantisca
l’irriducibilità alle altre forme di attività umana e affermando la presenza di
valori assoluti all’interno del processo storico. Pur nel variare delle soluzioni,
l'orientamento del suo pensiero rimane abbastanza determinato. Esso muove
infatti dal riconoscimento che, con il sorgere della coscienza storica moderna,
anche la considerazione della religione e quindi la costruzione di una teologia
devono collocarsi sul terreno della storia. Che cosa sia il Cristianesimo,
quale sia la sua origine, se sia giustificata la sua pretesa di validità
universale, se abbia ancora senso una teologia
tutte queste sono questioni da affrontare sulla base di una prospettiva
storica, facendo rientrare il Cristianesimo nell’ambito di una storia generale
della religione. Nel volume Die Absolutheit des Christentums und die
Religionsgeschichte (1902) Troeltsch lascia cadere il tentativo di ricondurre
tutte le religioni a un nucleo comune o a una linea unitaria di sviluppo, per
guardare invece al Cristianesimo come a un fenomeno storico individuale, nel
quale si realizza non già il possesso — impossibile in linea di principio — ma
il grado più elevato di partecipazione alla verità religiosa. Il Cristianesimo
è interpretato quindi come una religione storicamente condizionata, da indagare
nel suo sviluppo e nelle sue diverse manifestazioni: qualsiasi fondazione della
fede cristiana deve procedere ormai da questo riconoscimento, senza di cui essa
è destinata a INTRODUZIONE 43 naufragare di fronte alla coscienza storica.
Tuttavia la storia non costituisce, per Troeltsch, una realtà autosufficiente e
chiusa in se stessa: al contrario, può riferirsi a valori assoluti, a una
realtà trascendente che si colloca al di fuori del processo storico e che è
accessibile soltanto in maniera parziale e in forme differenti. Troeltsch trova
così nella teoria dei valori il punto di partenza di una giustificazione della
vita religiosa. Fin dal saggio Die Selbstdindigkeit der Religion (1895) egli si
era richiamato al neocriticismo; cercando il fondamento della religione e della
sua autonomia in un principio trascendentale distinto da quelli che presiedono
alla conoscenza o alla moralità o all'arte: ma un fondamento del genere
rimaneva puramente formale, e non garantiva affatto la validità oggettiva delle
credenze religiose, tanto meno quella di una determinata forma storica di
religione. Anche in seguito il compito della filosofia della religione è
additato nella determinazione della possibilità della vita religiosa come sfera
a sé stante dell’attività umana; ma questa viene individuata non tanto nella
struttura della vita psichica — come farà Dilthey nei saggi dedicati alla
teoria dell’intuizione del mondo e, in particolare, nel breve saggio Das Wesen
der Religion (1911) — quanto nella relazione con valori trascendenti. In tal
modo il rapporto tra coscienza religiosa e valori si configura come un caso
specifico di un rapporto più generale, cioè del rapporto tra l’uomo nella sua
esistenza storica e un mondo al di là della storia, dal quale egli deve trarre
i propri criteri normativi. La posizione assunta da ’Troeltsch negli scritti di
filosofia della religione degli anni ’90 e dei primi anni del nuovo secolo era,
per molti aspetti, emblematica. Nell’intento di salvaguardare la vita religiosa
dall’urto della coscienza storica e dalle conseguenze relativizzanti che essa
sembrava comportare, Troeltsch iniziava un processo di recupero di prospettive
metafisiche all’insegna della teoria dei valori, che sarebbe stato ripreso con
maggior coerenza dall'ultimo Windelband e dal Rickert del dopoguerra (oltre che
da lui stesso, nei successivi scritti di filosofia della storia). Egli si
rendeva ben conto che il riconoscimento della storicità dell’uomo e del mondo
umano era un'acquisizione definitiva, e che per ritrovare nuove certezze
occorreva pur sempre muovere da tale base. Il tentativo idealistico di
conciliare storia e religione — comune a Schleiermacher e allo Hegel delle
Vorlesungen tiber die Philosophie der Religion — gli appariva una sostanziale
mistificazione della vita religiosa e della 44 INTRODUZIONE sua storia,
arbitrariamente interpretata come la manifestazione progressiva di un’ipotetica
essenza della religione. Agli occhi di Troeltsch la realtà storica era una
realtà finita, distinta dal mondo trascendente dei valori e in un rapporto
problematico con questi; di conseguenza, il divino gli si presentava come
qualcosa di lontano, di accessibile soltanto parzialmente e con fatica, in una
dimensione diversa da quella del sapere scientifico. La concezione romantica
della storia, la concezione del processo storico come sede di realizzazione di
un piano provvidenziale, era così respinta esplicitamente: tanto la filosofia
hegeliana della storia, che nella successione dei singoli spiriti dei popoli
scorgeva la marcia incessante dello
spirito del mondo , quanto la visione rankiana che in ogni epoca
ritrovava un rapporto immediato con la divinità, appartenevano per lui a un
passato ormai concluso. Il nuovo storicismo veniva perciò a differenziarsi
nettamente, nella sua concezione della storia, da quello della prima metà del
secolo XIX; e questa eterogeneità traspariva con chiarezza dalla presa di
posizione nei confronti di Hegel, Esso era così destinato a incontrarsi in un dialogo che non cesserà mai di essere
più o meno polemico con il materialismo
storico, il quale pure aveva preso le mosse dalla crisi della filosofia
idealistica della storia e dalla critica dei suoi presupposti. Negli anni in
cui l'emergere del problema del capitalismo moderno, della sua origine e delle
sue caratteristiche distintive costringeva la cultura accademica tedesca a fare
i conti con l’analisi marxiana (ed engelsiana) del sistema capitalistico e del
suo sviluppo, il materialismo storico si trovava da parte sua impegnato in un
difficile compito di revisione delle proprie prospettive. Il crollo del
capitalismo, che nel 1848 era potuto sembrare imminente, si allontanava sempre
più nel tempo, trasformandosi in un obiettivo di lungo periodo; il sistema
capitalistico si rivelava in grado di assorbire le spinte del movimento operaio
e di sopravvivere ai periodi di depressione economica; la previsione di un
progressivo accentuarsi della divisione della società in due classi
contrapposte appariva priva di fondamento. Lo stesso Engels era costretto a
riconoscere, nel 1895, la discrepanza tra teoria e realtà, tra le aspettative
rivoluzionarie e il consolidamento del capitalismo. In questa situazione uno
dei maggiori esponenti della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein,
avviava tra il 1896 e il 99 un processo di revisione dei princìpi dottrinali
del marxismo, i cui risultati pubblicati
dapprima sulla rivista INTRODUZIONE 45
Neue Zeit confluiranno in seguito
nel volume Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der
Sozialdemokratie (1889). La polemica di Bernstein si rivolge contro le
interpretazioni del materialismo storico in chiave deterministica, contro la
trasformazione della teoria materialistica della storia in una dottrina della
necessità storica, esprimibile in presunte leggi di sviluppo. A tale polemica
si accompagna lo sforzo di sottrarre il materialismo storico al postulato della
riconducibilità di ogni fenomeno a cause (in ultima analisi) economiche, di cui
gli altri aspetti della vita sociale sarebbero semplici manifestazioni
sovra-strutturali, Contro la distinzione tra struttura economica e
sovrastruttura Bernstein fa valere infatti la tesi della molteplicità dei fattori
del processo storico, rivendicando quindi l’autonomia della sfera
politica e soprattutto della sfera ideologica rispetto ai processi economici.
Ogni fenomeno dev'essere spiegato come il risultato dell'incontro e della
cooperazione di cause diverse, tra cui quelle economiche rivestono certamente
un’importanza essenziale, ma in nessun modo esclusiva e determinante. Questa
riformulazione del materialismo storico, che tendeva chiaramente a presentarlo
non più come una concezione generale ma come una teoria scientifica della
storia, era destinata ad avere larga risonanza
fin dai primi anni del nuovo secolo
anche nell’ambito del movimento storicistico. Certo non in Dilthey,
concentrato nella realizzazione del programma di una critica della ragione
storica , e neppure in Windelband o in Rickert, che si proponevano di
sviluppare una filosofia della storia sulla base della teoria dei valori; ma
piuttosto nei suoi esponenti più giovani, da Max Weber allo stesso Troeltsch. E
ancora una volta la religione diventava il terreno principale di questa
discussione, il terreno sul quale lo storicismo, impegnato in
un’interpretazione storica dei fenomeni religiosi, doveva però evitare al tempo
stesso la loro riduzione a processi puramente economici e assicurarne in
qualche modo l'autonomia. Fin dal 1904 Max Weber, ritornato al lavoro dopo una
parentesi di alcuni anni, affrontava il problema dell’origine del capitalismo e
dello spirito capitalistico , e formulava la celebre tesi della derivazione di
quest’ultimo dalla ricerca calvinistica di una conferma della salvezza
individuale attraverso il successo conseguito nell’agire mondano, in
particolare nell’attività professionale. In questa prospettiva il rapporto tra
fenomeni economici e fenomeni religiosi risultava 46 INTRODUZIONE rovesciato: lungi
dal determinare lo sviluppo della religione, il capitalismo è esso stesso
condizionato all’origine in uno dei suoi
elementi costitutivi da un fenomeno
religioso qual è l’etica calvinistica. Tuttavia Weber era ben lontano da una
concezione spiritualistica della storia, del tipo di quella enunciata da Rudolf
Stammler in Wirtschaft und Recht nach der materialistischen
Geschichtsauffassung (1896) nei cui
confronti egli assumerà anzi una posizione aspramente critica in un saggio del
1907. Weber concepiva piuttosto la relazione tra economia e religione (al pari
di quella tra l’economia e qualsiasi altra sfera della realtà sociale) come un
nesso di condizionamento reciproco, del quale si deve di volta in volta
indagare la direzione e la portata. Riconducendo l’origine non già del
capitalismo ma di una sua particolare componente, cioè dello spirito
capitalistico, all’etica calvinistica, Weber respingeva il materialismo storico
come concezione generale della storia, ma riconosceva la sua validità (e fecondità)
in quanto principio euristico, in quanto ipotesi interpretativa. In una
sostanziale convergenza con Bernstein
anche se muovendo da una posizione di critica al materialismo storico,
non già di revisione interna egli
rifiutava di ammettere un condizionamento univoco dei processi storici, e
quindi anche di quelli religiosi, da parte di una presunta struttura economica
della storia, e affermava l’impossibilità di ricondurre qualsiasi fenomeno a
cause solamente economiche; ma rivendicava l’importanza di un’indagine diretta
ad accertare il peso del condizionamento economico sulle diverse sfere della
vita sociale. L’unilateralità del materialismo storico gli appariva nient’altro
che un caso specifico della unilateralità di ogni criterio di interpretazione:
non la sua limitatezza, ma la sua assolutizzazione è da respingere. E difatti
nei successivi saggi sull’etica economica delle religioni universali che confluiranno nei Gesammelte Aufsitze zur
Religionssoziologie (1920) Weber
allargherà il proprio ambito di considerazione, affrontando lo studio sia delle
influenze che la situazione economica e i rapporti di classe e di ceto
esercitano sulla formazione e sullo sviluppo delle dottrine religiose, sia del
modo in cui queste orientano l’attività economica di determinati gruppi
sociali, il loro atteggiamento tradizionalistico o razionalistico nei confronti
del guadagno e del lavoro professionale. In quei medesimi anni anche Troeltsch
si accingeva a un’analisi storica delle dottrine economico-sociali sorte sul
terreno del Cristiane INTRODUZIONE 47 simo. Lo separava da Weber non soltanto
un’originaria diversità di interessi, ma anche una differente valutazione della
Riforma protestante, che questi considerava un elemento decisivo per la
formazione dello spirito capitalistico e quindi della civiltà moderna, mentre
Troeltsch vi scorgeva piuttosto nel
volume Die Bedeutung des Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt
(1906) la continuazione di una cultura
su base teologica quale quella medievale. Ma la lunga consuetudine degli anni
di Heidelberg, dove Troeltsch insegnò dal 1894 al 1915, lo portò ad attenuare
questo giudizio e a riconoscere le possibilità di sviluppo in senso liberale e
democratico del Calvinismo, contrapposto al Luteranesimo conservatore. Così,
mentre Weber estendeva la propria analisi alle religioni della Cina e
dell’India, oltre che alla religiosità ebraica, Troeltsch dedicava alla
sociologia del Cristianesimo un’opera di ampio respiro, Die Soziallehren der
christlichen Kirchen und Gruppen (1908-12). Anch’egli si proponeva di indagare
lo sviluppo del Cristianesimo, dall’epoca primitiva al Cattolicesimo medievale
e poi alla Riforma, nei suoi mutevoli rapporti con la vita economica e con
l’organizzazione della società, ponendo in luce il trapasso dall’originario
atteggiamento di indifferenza rispetto al
mondo a uno sforzo sistematico di
subordinarlo a fini religiosi. E in quest’impresa si trovava a dover fare i
conti con il materialismo storico, a rivendicare nei suoi confronti
quell’autonomia della religione che costituiva la preoccupazione dominante
degli scritti degli anni '90. Ma la posizione di Troeltsch veniva a divergere
in maniera significativa al di là delle
dichiarazioni di principio da quella di
Weber, in quanto egli postulava l’esistenza di una causalità autonoma della
vita religiosa e concepiva così il condizionamento reciproco tra i vari tipi di
fenomeni storici come incontro di serie causali indipendenti. Se la critica di
Weber si collocava sullo stesso versante metodologico di Bernstein, quella di
'Troeltsch era piuttosto assimilabile alla concezione spiritualistica di uno
Stammler, in quanto si richiamava a una definizione ontologica della struttura
del processo storico. Questa divergenza, ancora celata negli anni fino al 1915,
verrà chiaramente in luce più tardi, condizionando l’elaborazione della
filosofia della storia di Troeltsch e orientandola verso un esito assai diverso
da quello a cui era pervenuto Weber. 48 INTRODUZIONE VI. Allargando la propria
considerazione dal metodo della conoscenza storica alla struttura oggettiva
della realtà studiata dalle scienze storico-sociali, il movimento storicistico
si trovava impegnato nella critica delle concezioni della storia prodotte dalla
cultura filosofica della seconda metà del Settecento e della prima metà
dell’Ottocento, In tale maniera si compiva, da un lato attraverso il rifiuto
della visione del processo storico come manifestazione o realizzazione di un
principio assoluto, dall’altro attraverso la riduzione del materialismo storico
in termini metodologici, la dissoluzione della
storia universale . Il processo storico tendeva ad articolarsi in una
molteplicità di processi particolari, in una molteplicità di rapporti e di
direzioni di sviluppo non riconducibili a una matrice unitaria sia essa il cammino dello spirito del mondo o la presenza della divinità o anche soltanto
l’azione determinante della struttura economica. Non più la storia come
totalità, ma la storicità dell’uomo e del mondo umano nelle sue dimensioni
concrete diventava il centro di riferimento di una considerazione filosofica
della storia. Il problema del senso della storia, di un senso inerente al
processo storico in quanto tale ed esprimibile in una direzione di sviluppo o
in un termine ultimo, lasciava perciò posto alla ricerca del significato dei
singoli avvenimenti, delle singole epoche e dei loro rapporti reciproci. Questo
mutamento di impostazione non rivestiva soltanto un carattere negativo: al
contrario, esso dava luogo a un'analisi strutturale del mondo umano e della sua
storicità, alla determinazione dei modi concreti in cui questa permea la vita
degli individui e della società. Tale sforzo speculativo accomuna, al di là
delle differenze, autori come Dilthey o Simmel o lo stesso Weber, e costituisce accanto al dibattito sul metodo della
conoscenza storica il secondo nucleo
problematico dello storicismo tedesco.L'analisi strutturale dell’uomo e del
mondo umano viene condotta lungo tre direttrici principali. La prima è
rappresentata da Dilthey, il quale tende sempre più chiaramente dopo l’Einleitung in die
Geisteswissenschaften a trasformare la
critica della ragione storica in una filosofia dell’uomo come essere storico,
riportando le categorie delle scienze dello spirito alla struttura del mondo
umano che costituisce il loro oggetto complessivo. La seconda è rappresentata
da Simmel che, dopo il 1910, compie il trapasso dalla prospettiva relativistica
formulata nel periodo precedente a una metafisica di tipo immanentistico, la
quale individua nel rapporto tra la
vita e le sue forme
la struttura fondamentale dell’esistenza. La terza è rappresentata da Weber,
il quale muove dall’analisi della relazione ai valori per definire su tale base
l’esistenza dell’uomo, e con essa il significato da un lato della scienza e
dall’altro della politica. Le tre direttrici di analisi si distinguono, già a
prima vista, per il diverso atteggiamento che assumono nei confronti del
relativismo. Dilthey afferma la relatività di ogni fenomeno storico e
l'immanenza dei valori alla storia; ma il suo relativismo è enunciato
soprattutto in chiave negativa, e viene a coincidere con il riconoscimento
della finitudine dell’uomo e del mondo umano
in sostanza, esso non è altro che il rifiuto di una concezione
metafisica della storia la quale pretenda di determinarne il senso attraverso
il riferimento a qualche principio assoluto. In Simmel lo storicismo viene
invece identificato col relativismo, e la conseguenza di ciò è che
l’affermazione della relatività della vita si trasforma nella sua assunzione a
fondamento di ogni realtà: dal relativismo, teorizzato in forma positiva, si
sviluppa così una filosofia della vita di stampo chiaramente romantico. Un
esplicito atteggiamento anti-relativistico caratterizza invece il pensiero di
Weber: ai suoi occhi il relativismo poggia su una teoria organicistica, che
egli respinge per sostenere l’irriducibilità dei valori al processo storico e
per qualificare il rapporto dell’uomo con i valori come una presa di posizione
che comporta una scelta tra i diversi valori e le diverse sfere di valori. Il
riferimento ai valori perde quindi quella funzione di garanzia della validità
incondizionata della conoscenza e dell’agire umano, che Windelband e Rickert
gli avevano attribuito. Fin dall’Einleitung in die Geisteswissenschaften
Dilthey si è proposto di determinare, sia pure in maniera sommaria, la
struttura del mondo umano come realtà storica. Questa struttura è
caratterizzata dalla polarità tra l'individuo e i sistemi costituiti in virtù
delle relazioni che si instaurano tra gli individui. L'individuo è il nucleo
fondamentale, il Grundkòrper del mondo umano, e quindi della storia. Ma
l’individuo assume un’esistenza storica soltanto nella misura in cui entra in
rapporto con altri individui, cercando di soddisfare i propri bisogni
attraverso la divisione del lavoro e nel corso delle generazioni. Da
quest’azione reciproca, da queste relazioni che acquistano una loro consistenza
autonoma rispetto ai singoli uomini, sorgono due tipi di sistemi, i sistemi di
cultura e i sistemi di organizzazione esterna della società. I sistemi di
cultura vale a dire l’arte, la
religione, la filosofia, la scienza e così via
nascono da una comunanza di scopi presenti in una molteplicità di
individui, che vi trovano la base della loro cooperazione. I sistemi di
organizzazione sociale cioè le varie
istituzioni, dalla famiglia allo stato e alla chiesa si reggono invece non soltanto su interessi
comuni, ma anche su rapporti di dominio e di subordinazione, e hanno quindi
sempre un carattere più o meno coercitivo. Gli uni e gli altri si sviluppano
nel corso temporale della vita, hanno cioè una dimensione storica: anche se il
grado della loro permanenza nel tempo è assai superiore a quello dell’esistenza
individuale, non per questo acquistano un’esistenza metastorica. Questa
struttura del mondo umano si riflette nell’edificio delle scienze dello
spirito, il quale comprende da un lato due discipline la psicologia e l’antropologia che studiano in modo specifico l’individuo,
dall’altro la ricerca storica e le scienze dei vari sistemi di cultura e di
organizzazione sociale. In seguito, negli scritti del periodo 1905-1911,
Dilthey è pervenuto a concepire le categorie delle scienze dello spirito come
la traduzione delle forme strutturali del mondo umano. La vita, la temporalità,
l'essenza e lo sviluppo, il valore, lo scopo, il significato non sono categorie
astratte, applicabili a un oggetto qualsiasi; esse sono radicate nella
struttura stessa del mondo umano, la quale condiziona perciò il procedimento conoscitivo
delle scienze dello spirito. Su questa base il mondo umano viene inteso come il
prodotto del processo di oggettivazione della vita, vale a dire come spirito oggettivo anche se in senso del tutto differente da
quello hegeliano, ossia come il complesso delle manifestazioni storiche
dell’attività umana e la sua struttura è
definita facendo ricorso alla nozione di
connessione dinamica . Questa nozione, introdotta dapprima per
caratterizzare la struttura della vita psichica e in seguito estesa a ogni
espressione della vita, designa un insieme organizzato di elementi che ha il
proprio centro in se stesso, che si prefigge scopi suoi propri e che produce
valori peculiari. È quindi una connessione dinamica sia il mondo umano nel suo
complesso sia ogni suo elemento singolo, dall’individuo ai sistemi di cultura e
ai sistemi di organizzazione sociale; anzi, il mondo umano è una connessione
dinamica la quale si articola, al suo interno, in una INTRODUZIONE SI
molteplicità di connessioni che ne ripetono i caratteri strutturali. Non
soltanto la vita storica è orientata in vista di determinati scopi e crea
valori, ma ogni connessione dinamica è contraddistinta da scopi e valori
particolari, che la differenziano da tutte le altre. Riprendendo i risultati
dell'analisi strutturale condotta nell’Ein/eitung in die Geisteswissenschaften,
Dilthey riconduce i vari elementi del mondo umano al concetto unificante di
connessione dinamica. Ma accanto ai sistemi di cultura e ai sistemi di
organizzazione sociale si collocano ora anche le epoche storiche, che vengono a
costituire la struttura diacronica del mondo umano: se i due tipi di sistemi
rappresentano le forme permanenti di relazione tra gli individui, le epoche
storiche dànno alla loro attività una fisionomia diversa nel tempo. E difatti
ogni epoca, pur essendo collegata da molteplici rapporti sia con quelle
precedenti sia con quella che la segue
come Dilthey pone in luce analizzando l’esempio dell’Illuminismo è caratterizzata da un proprio orizzonte, nel
quale rientrano tutte le sue manifestazioni. Di conseguenza, queste traggono il
loro significato dall’appartenenza a una data epoca, e possono essere comprese
soltanto in relazione ai suoi scopi e ai suoi valori peculiari. La tesi
dell’autocentralità delle epoche storiche sfocia quindi nell’affermazione della
relatività di ogni fenomeno storico. Questa conclusione vale anche per il
sapere, e più specificamente per la filosofia. Negli ultimi anni di vita
Dilthey ha cercato di porre in luce le implicazioni che il riconoscimento della
fondamentale storicità dell’uomo e del mondo umano comporta per la filosofia e
per la sua tradizionale aspirazione a una validità universale. Dapprima nel
saggio Das Wesen der Philosophie (1905), in seguito in Das geschichtliche
Bewusstsein und die Weltanschauungen e in Die Typen der Weltanschauung und ihre
Ausbildung in den metaphysischen Systemen (entrambi del rgri), Dilthey ha
tracciato le linee di una filosofia della filosofia impostata sulla considerazione della
filosofia come una forma non già di sapere scientifico, bensì di intuizione del
mondo. La filosofia, infatti, non è in grado di offrire alcuna conoscenza
oggettiva: il suo sforzo di affrontare il mistero del mondo e della vita è
accostabile più a quello dell’arte e della religione che non al procedimento
d'indagine delle scienze della natura o delle scienze dello spirito. Arte,
religione e filosofia trovano così la loro unità non nello spirito assoluto a cui Hegel le aveva ricondotte, bensì
nell’intuizione del mondo, cioè in un atteggiamento di fronte alla vita che è
caratterizzato da un complesso di conoscenze, di modi di sentire e di princìpi
di condotta. Tutte e tre sorgono su questa base, proponendosi di dare per vie
diverse unarisposta al mistero del mondo e della vita: l’arte lo fa in forma
intuitiva, la religione andando in cerca di un rapporto con l’invisibile, la
filosofia formulando soluzioni che aspirano a una validità universale. Perciò
la filosofia risulta anch’essa condizionata dal tipo di intuizione del mondo
che esprime, e la sua pretesa di dare una soluzione del problema della realtà
che valga per sempre è contraddetta dalla stessa molteplicità delle dottrine
filosofiche. Questo condizionamento è però duplice, in quanto procede per un
verso dalla struttura della vita psichica e per l’altro verso dal processo
storico. In quanto esprime concettualmente un'intuizione del mondo, ogni
dottrina filosofica rientra in un tipo particolare di visione della realtà,
caratterizzata dall’importanza preminente accordata a un certo aspetto della
struttura psichica; rientra cioè nell’ambito o del naturalismo o dell'idealismo
oggettivo o dell'idealismo della libertà, che corrispondono alle tre possibili
forme di atteggiamento dell’uomo nei confronti del mondo. Nel medesimo tempo
ogni dottrina filosofica, appartenendo a una data epoca storica, ne riflette i
problemi e le caratteristiche peculiari. La storia della filosofia viene perciò
a configurarsi come lo sviluppo e la lotta reciproca di tre tipi fondamentali
di metafisica, che ricorrono in veste nuova nelle varie epoche. Da
quest’analisi Dilthey trae la conclusione che la filosofia deve abbandonare la
pretesa metafisica di determinare un principio incondizionato della realtà.
Anch’essa deve, in altri termini, riconoscere la propria storicità, accogliendo
i risultati della coscienza storica moderna. Dilthey riprende così, a proposito
della filosofia, le considerazioni che Troeltsch aveva formulato in riferimento
alla religione. Ma, a differenza di Troeltsch, egli si guarda bene dal proporsi
una fondazione della filosofia che ne ristabilisca la
validità universale, rivelatasi ormai illusoria: egli intende piuttosto
costruire una filosofia della
filosofia intesa come l’autoriflessione
storica della filosofia sopra di sé, che si sviluppa in primo luogo attraverso
l’approfondimento del significato storico delle diverse dottrine filosofiche.
In questa prospettiva si inquadrano i molteplici studi che Dilthey è venuto
conducendo, soprattutto dopo il 1890, sulla concezione dell’uomo nel Rinascimento
e nella Riforma, sull’età di Leibniz e sulla cultura illuministica tedesca, e
infine sulla concezione INTRODUZIONE 53 filosofica romantica e sull’influenza
che questa ha esercitato sulla formazione di Hegel. La relatività della
filosofia è considerata non già come la conseguenza negativa della coscienza
storica moderna, come una conclusione paralizzante a cui ci si debba sottrarre,
ma come la condizione indispensabile di una nuova impostazione di ricerca
filosofica. Nei medesimi anni a partire
dalla Philosophie des Geldes (1900) fino agli Hauptprobleme der Philosophie
(1910) e alla raccolta di saggi PAilosophische Kultur (1911) anche Simmel era impegnato nel delineare una
prospettiva rigorosamente relativistica. Ma il relativismo di Simmel aveva una
base più psicologica che storica, ed era alimentato dal richiamo ad autori di
matrice romantica come Goethe, Schopenhauer e soprattutto Nietzsche. Il suo
punto di partenza era infatti rappresentato da un’interpretazione psicologica
delle categorie: anche se le forme del conoscere assolvono una funzione
distinta dal contenuto, e servono anzi a organizzarlo, non per questo sono
eterogenee rispetto ad esso. Le categorie derivano dall’esperienza, e hanno
quindi un'origine psicologica, non già un carattere trascendentale. Questa
impostazione che comportava un netto
distacco dal neocriticismo e dal suo sforzo di distinguere il piano della
validità del conoscere da quello del procedimento psicologico con cui lo si
attinge conduceva Simmel ad affermare la
relatività non soltanto della conoscenza, ma di ogni attività umana. La verità
scientifica è relativa all'assunzione di determinati presupposti, i quali
rivestono carattere psicologico e non posseggono alcuna validità universale;
analogamente, il valore di un'azione morale o di un atto economico dev'essere
commisurato a criteri che sono anch'essi sempre relativi. La stessa filosofia
può pervenire a una verità soltanto relativa, la quale consiste nella capacità
di esprimere l'elemento tipico di una certa persona e di renderlo comunicabile
ad altri individui. In questo relativismo Simmel individuava l’essenza della
civiltà moderna, il risultato di un secolare processo di distacco dalla fede in
una verità universale e in valori incondizionati. Lo stesso rovesciamento dei
valori proclamato da Nietzsche era
interpretato in maniera storicamente
discutibile come l’affermazione della
relatività di ogni criterio di condotta etica. Ma il relativismo simmeliano del
primo decennio del secolo era pur sempre definito in modo prevalentemente
negativo; e in ciò stava la sua genericità e 54 INTRODUZIONE insieme la sua
ambiguità. Infatti il riconoscimento della relatività di tutti gli aspetti
della vita umana tendeva a trasformarsi in un principio assoluto, ed esprimeva
né più né meno che l’impossibilità di trascendere la vita, considerata come
l’orizzonte onnicomprensivo di ogni attività umana. Erano così poste le
premesse per il passaggio da una prospettiva relativistica a una metafisica
della vita, che Simmel compie negli anni successivi al 1910 e che si manifesta
soprattutto nei saggi apparsi su Logos,
nel volume Kan: und Goethe (1916) e infine nella Lebensanschuung (1918). Di
questa metafisica egli rintraccia i presupposti remoti nella concezione
romantica della realtà, in particolare nell’organicismo di Goethe; e da Goethe,
l’antitesi del razionalismo kantiano, trae la visione della vita come un
processo continuo che si realizza in una molteplicità di forme, le quali si
distaccano dal divenire per acquistare una propria autonoma consistenza. La
dialettica tra la vita e le forme diventa così il tema centrale dell'ultima
fase del pensiero simmeliano. La vita è intesa come un corso infinito e
ininterrotto, che produce forme finite e che, dopo averle create, tende a
distruggerle. Le forme nascono così dal divenire della vita ma nel medesimo
tempo gli si contrappongono, e devono quindi resistere allo sforzo incessante
che la vita fa per riassorbirle in sé e per produrre altre forme. La vita è per
Simmel contemporaneamente più-vita (Me4rLeben) e
più-che-vita (Me4r-als-Leben):
è più-vita nel senso che è continuo superamento di ogni
limite che essa stessa pone; è
più-che-vita nel senso che si
auto-trascende producendo una molteplicità di forme finite le quali diventano
indipendenti da essa. Da questa dialettica emergono i mondi ideali , prodotto dell’organizzazione
sistematica delle forme, che nel loro insieme costituiscono lo spirito: ognuno
di questi mondi è trascendente rispetto al puro e semplice divenire della vita,
e ha la propria base in un principio fondamentale comune a tutte le sue forme,
Tra questi mondi ideali vi è anche il mondo della storia, nel cui ambito gli
avvenimenti acquistano un proprio significato elevandosi al di sopra del
divenire della vita. In tal modo la storicità, lungi dall'essere un attributo o
una dimensione della vita, viene a qualificare un piano di realtà trascendente
rispetto ad essa, in cui la temporalità del divenire non dissimile dalla durata reale di Bergson,
un filosofo verso il quale Simmel nutriva una non casuale simpatia lascia posto al tempo propriamente storico.
Ben diverso è l’esito a cui perviene Weber riprendendo in esame, durante e dopo
la guerra, il problema del rapporto con i valori, e dando ad esso una portata
più generale. Dopo i grandi saggi metodologici degli anni 1903-06 Weber aveva
concentrato i suoi interessi da un lato sull’analisi dell'etica economica delle
religioni universali, in riferimento al problema dell'individualità del capitalismo
moderno, dall’altro sulla determinazione delle categorie sociologiche (alla
quale è dedicato il saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie
del *13). Lo scoppio del conflitto aveva poi accentuato come vedremo
il suo impegno politico, che farà di lui, fino alla morte, uno dei
maggiori protagonisti del dibattito post-bellico in Germania. Sollecitato da
questo impegno, egli ritorna nel 1917, in un saggio dal titolo Der Sinn
der Wertfreiheit der soziologischen und òkonomischen
Wissenschaften, sul tema della
avalutatività delle scienze
storico-sociali, per ribadire la differenza di principio tra il compito di
queste discipline e la funzione dei giudizi di valore. Ma il discorso si
allarga ben presto a un tentativo di enucleare le implicazioni filosofiche
della propria impostazione metodologica, che Weber sviluppa sia in quel saggio
sia in due conferenze tenute a Monaco nel 1919 sulla scienza come professione e sulla
politica come professione . Diversamente da Dilthey (c anche da Simmel),
Weber non si propone di fornire un'analisi strutturale del mondo umano muovendo
dall’analisi del procedimento delle scienze storico-sociali: il campo di
ricerca di queste discipline non può essere per lui oggetto di un tipo di
considerazione distinto da quella metodologica, ma può essere individuato nelle
sue relazioni interne soltanto nell’ambito di questa, In altri termini, non
esiste una struttura oggettiva del mondo umano o della realtà storica a cui la
filosofia possa riferirsi prescindendo dal
o pretendendo di andare oltre il
lavoro delle varie discipline, in un tentativo di unificarne i
molteplici (e anche variabili) punti di vista. Tuttavia la relazione di valore
inerente al procedimento conoscitivo delle scienze storico-sociali offre la
base per un discorso più ampio, che assume il rapporto con i valori come
fondamento di un’analisi dell’esistenza umana e della sua stessa storicità.
Come si è visto, Weber si era avvalso della nozione rickertiana di relazione ai
valori per distinguere le scienze storico-sociali per un verso dalle scienze
naturali, per l’altro verso dalla presa di posizione pratica che è costitutiva
della politica e dai giudizi di valore in 56 INTRODUZIONE cui questa si
esprime. Le scienze storico-sociali si differenziano dalle scienze naturali in
quanto hanno a loro fondamento una relazione con certi valori i quali
presiedono alla selezione del dato empirico, orientando la ricerca in una
determinata direzione; si differenziano dall’agire politico in quanto sono
neutrali nei confronti dei fenomeni che esse studiano. L’oggettività delle
scienze storico-sociali è perciò garantita, in primo luogo, dal fatto che il
loro rapporto con i valori è eterogeneo rispetto a quello implicito nei giudizi
di valore. Ne deriva una duplice conseguenza, e cioè che prescindendo dalle scienze naturali, a
proposito delle quali Weber accoglie acriticamente l’interpretazione che ne
aveva dato il positivismo ottocentesco
l’attività umana è qualificata, in generale, da un rapporto con i
valori, ma che questo rapporto assume una configurazione diversa nelle sue
varie sfere. Si pone così a Weber il problema, fin allora rimasto in ombra, di
determinare le forme di tale relazione e di ricondurle eventualmente a una
comune modalità. La risposta a questo problema segna il distacco definitivo di
Weber dalla teoria dei valori qual era stata elaborata da Windelband e da
Rickert, e soprattutto dal suo sviluppo in senso metafisico, verso cui Rickert
si avviava in quello stesso periodo, Per Weber il rapporto con i valori non
rappresenta più in alcun modo un fondamento assoluto, capace di garantire la
validità incondizionata del sapere o dell’agire umano: al contrario, in ogni
momento della propria esistenza l’uomo si trova a dover compiere una scelta tra
valori e tra sfere di valori in conflitto reciproco. I valori cessano infatti
di apparire come un mondo organizzato sistematicamente, fornito di una propria
coerenza interna: le sfere di valori sono molteplici e non riconducibili a un
ordine gerarchico, così come i valori che appartengono a ogni sfera possono essere
non soltanto diversi, ma addirittura inconciliabili tra loro. Nel suo rapporto
con i valori l’uomo è obbligato a una scelta incessante, poiché l'assunzione di
determinati valori come criterio di orientamento del processo conoscitivo o
dell’agire politico comporta nel medesimo tempo la negazione o il rifiuto di
altri. La relazione tra l’uomo e i valori viene perciò a configurarsi sempre
come una relazione problematica, definita in termini di scelta da parte
dell’uomo. Su questa base Weber ha cercato di individuare il senso della
scienza e, parallelamente ad esso, il senso della politica. La scienza riveste
ovviamente un'importanza tecnica, in quanto consente l’elaborazione di
determinati strumenti suscettibili di uso pratico. Ma il suo significato non si
esaurisce in questo; anzi, la stessa funzione tecnica della scienza si tratti di scienze naturali oppure di
scienze storico-sociali rimanda alla
questione se si debba o no dominare tecnicamente la vita, e in vista di quali
scopi. Muovendo da quest’analisi Weber ha indicato, nel saggio Wissenschaft als
Beruf (1919), il senso della scienza nella sua capacità di fornire all’uomo la
chiarezza , vale a dire la consapevolezza del proprio agire e soprattutto del
rapporto tra gli scopi che si prefigge e i mezzi dei quali si serve per
conseguirli, In tal modo la scienza, pur non potendo formulare giudizi di
valore, assolve una funzione critica nei confronti dei valori, in quanto pone
in luce le condizioni e le conseguenze della loro realizzazione: se non la validità,
almeno la realizzabilità dei valori cade quindi sotto la sua considerazione. Ma
anche il senso della politica risulta definito in base a un rapporto con i
valori, seppure di diverso genere. Nel saggio Politik als Beruf (anch’esso del
’19) Weber muove dalla constatazione che la politica consiste sempre in
rapporti di forza, in quanto ogni agire politico è diretto all’acquisizione o
al mantenimento di un potere garantito coercitivamente; ma perviene a
riconoscerne il senso nella dedizione a una causa, a un compito che dev'essere
assolto appunto attraverso la conquista e l’esercizio del potere. Il semplice
dominio sugli altri non costituisce lo scopo ultimo dell’agire politico più di
quanto l’utilizzazione tecnica di certi strumenti non costituisca il fine
principale della scienza: anch'esso acquista significato soltanto se vien posto
in rapporto con i valori. E infatti la dedizione a una causa , che dà all’agire politico la sua
coerenza interna, coincide sempre con una presa di posizione in favore di determinati
valori e contro altri. Così stando le cose, l’agire politico non può non
entrare in una relazione positiva o negativa con l’etica. E infatti il rapporto
tra etica e politica diventa un tema centrale nell'ultima fase della
riflessione filosofica di Weber fin
dall'articolo Zwischen zwei Gesetzen del 1916
intrecciandosi strettamente con l’analisi del rapporto dell’uomo con i
valori. Weber muove dalla distinzione tra due forme fondamentali di etica, che
obbediscono a criteri del tutto differenti: l’etica della coscienza
o dell’intenzione e l’etica della responsabilità, La prima è
caratterizzata dall'assunzione di un certo valore come scopo assoluto, da
perseguire sempre e in ogni caso, senza tener conto dei mezzi che occorrono per
la sua realizzazione; la seconda è caratterizzata invece dalla considerazione
del rapporto tra il valore assunto come fine e le sue condizioni o, una volta
che sia realizzato, con le sue conseguenze. L'etica dell’intenzione si esprime
in norme incondizionate, le quali prescrivono un determinato comportamento
prescindendo dalla possibilità di attuarlo di fatto: la sua manifestazione più
elevata è indicata da Weber nel Sermone della montagna, nell’etica evangelica
indifferente alle condizioni del mondo .
Essa è un'etica irrelativa, che non tiene conto dell’esistenza di altre sfere
di valori o, al massimo, pretende di subordinarle tutte al proprio imperativo
assoluto: come tale, è indifferente anche alla politica, se non addirittura
ostile ad essa. Al contrario, l’etica della responsabilità si esprime in norme
le quali tengono presenti sia le condizioni di realizzazione dei valori a cui
l'agire si riferisce, sia le conseguenze che questa comporta: il suo interesse
è rivolto non soltanto al perseguimento, ma anche all’attuazione effettiva di
tali valori. Essa riconosce quindi l’esistenza di altre sfere di valori, e in
particolare l'importanza dell’agire politico. Tra queste due forme di etica non
c'è possibilità di conciliazione e neppure d’incontro, ma c’è piuttosto un
contrasto permanente. Non diversamente dalle altre sfere di valori, anche
quella etica contiene in sé una scissione che le impedisce di offrire agli
individui delle regole univoche e incontrovertibili di comportamento. Così
l’uomo risulta sempre coinvolto nel conflitto tra i valori, e questi vengono a
loro volta a dipendere dall’assunzione o dal rifiuto che di essi compiono, in
una situazione concreta, i singoli individui. La stessa storicità
dell’esistenza umana viene a coincidere con questa presa di posizione di fronte
ai valori, mediante la quale l’uomo è impegnato a dare un senso al mondo.
D’altra parte la validità dei valori è definita dal loro rapporto con la
storicità, in quanto lo sviluppo storico è il terreno della loro possibile
realizzazione. In tale maniera i valori perdono quella trascendenza ontologica
che aveva loro attribuito Rickert, ma mantengono una trascendenza che si può
dire normativa, nel senso che assolvono una funzione di orientamento e di guida
per l'agire umano. La loro validità, se da un lato non è certo incondizionata,
dall’altro non è neppure circoscritta a una singola epoca o a un particolare
ambito culturale. Ciò spiega perché Weber abbia sempre respinto il relativismo,
scorgendo in esso il prodotto di una concezione organicistica che conduce a
INTRODUZIONE 59 eliminare la relazione problematica dell’uomo con i valori. Se
la filosofia dei valori ne postulava arbitrariamente la validità per tutte le
epoche e per tutte le culture, il relativismo presuppone non meno
arbitrariamente un legame necessario tra i valori e l'orizzonte storico di una
singola epoca o di una singola cultura: in entrambi i casi i valori cessano di
essere il termine di riferimento di una scelta da parte dell’uomo, per
configurarsi come una struttura determinante della sua esistenza.
Coerentemente, perciò, il distacco definitivo da un’interpretazione metafisica
dei valori si accompagnava negli ultimi saggi filosofici di Weber con la
polemica anti-relativistica, e con l’esplicito richiamo alla dottrina platonica
secondo cui l’anima sceglie il suo proprio destino e cioè il senso del suo agire e del suo
essere . VII. Nel corso del conflitto mondiale il panorama dello storicismo
tedesco si trasforma rapidamente. Scompaiono intanto, in breve volger di tempo,
i maggiori rappresentanti della sua prima generazione. Nel 1grr era morto
Dilthey, dopo aver dedicato la sua lunga esistenza al tentativo sempre
rinnovato di costruire una critica della ragione storica e dopo averne dato
negli ultimi anni la formulazione più compiuta. Nell'ottobre 1915 moriva
Windelband e tre anni dopo, nel settembre 1918, lo seguiva Simmel. Weber e
Troeltsch, che appartenevano ormai a una generazione successiva in quanto erano nati rispettivamente nel 1864
e nel 1865 sopravviveranno ancora per
qualche anno, il primo fino al 1gzo e il secondo fino al 1923; e saranno per
entrambi anni di intensa attività intellettuale e di impegno politico. Rickert
vivrà invece più a lungo, fino al 1936; ma le sue opere, a partire da Die
Philosophie des Lebens del ’20, sono sempre più caratterizzate dallo sforzo di
affermare l’autonomia ontologica dei valori e di fornirne un’elaborazione
sistematica, e si collocano ormai al di fuori del movimento storicistico.
Accanto a questi elementi biografici, un altro fattore interviene a modificare
in maniera profonda il panorama dello storicismo tedesco: l’importanza decisiva
che la politica e i suoi problemi assumono nel dibattito filosofico. Dilthey,
Windelband, Rickert, in fondo lo stesso Simmel (pur così attento allo sviluppo
delle scienze sociali) 60 INTRODUZIONE avevano prestato scarsa attenzione alle
vicende della Germania bismarckiana e post-bismarckiana, o per lo meno i loro
interessi politici non si erano mai tradotti in uno sforzo di formulazione
teorica. La stessa esaltazione del passato tedesco, che si può trovare nel
lavoro di ricostruzione storica di Dilthey, e il risalto da lui dato alle
peculiarità della tradizione culturale tedesca rispetto a quella francese o
inglese esprimevano assai più il richiamo retrospettivo al mondo romantico
anziché un'adesione al processo di unificazione politica della Germania, Del
resto, la formazione di Dilthey si era compiuta prima dell'avvento di Bismarck
al potere, in un ambiente ancora permeato di motivi liberali su cui aleggiava
il recente ricordo dell'assemblea di Francoforte. Più in generale, il prevalere
del problema dell’autonomia e delle condizioni di validità della conoscenza
storica e la connessione tra analisi metodologica e analisi strutturale avevano
contribuito a dare allo storicismo tedesco un’impronta sostanzialmente
apolitica; e i suoi esponenti erano stati difatti filosofi accademici, inseriti
nella vita universitaria tedesca ma scarsamente partecipi a ciò che avveniva al
di fuori. Questo stato di cose cambia del tutto con la prima guerra mondiale:
anche Windelband, poco prima di morire, dedica il suo ultimo scritto, la lezione di guerra sulla Geschicktsphilosophie (apparsa postuma
nel 1916), alla ricerca di un senso razionale della storia, impostandola in
riferimento allo scoppio del conflitto e alla rottura della solidarietà morale
tra i popoli che esso comporta. Il richiamo all’idea di umanità, intesa come
principio regolativo del processo storico, rappresenta la sua risposta al venir
meno della fiducia in uno sviluppo ordinato e pacifico del genere umano, che la
guerra aveva drammaticamente messo in questione. Sarebbe tuttavia errato far
coincidere l'emergere degli interessi politici in seno al movimento
storicistico con la crisi del 1914-18. Già prima, infatti, il processo di
unificazione politica della Germania e la soluzione bismarckiana erano stati
oggetto della riflessione sia di Weber che di uno storico a lui quasi coetaneo,
Friedrich Meinecke. Figlio di un deputato liberale, Weber aveva esordito sulla
scena politica tedesca da posizioni nazionalistico-conservatrici, ma ben presto
se ne era distaccato per avvicinarsi al gruppo dei socialisti della cattedra . Nei saggi del
periodo 1893-95, che traevano le conclusioni dell'inchiesta condotta sulla
situazione del lavoro agricolo nella Germania orientale, egli poneva in rilievo
il decadere dell’aristocrazia fondiaria prussiana in un ceto di imprenditori
capitalistici, ormai incapace di assolvere la funzione politica di un tempo.
Negli anni successivi la sua opposizione al regime personale di Guglielmo II e
alla politica imperialistica divenne sempre più aperta; e con essa maturava
anche una valutazione più positiva del sistema parlamentare, favorita dallo
studio e dall’esperienza diretta della democrazia americana. Meinecke muove
anch'egli da una sostanziale adesione a posizioni conservatrici, condividendo
il giudizio della scuola storica prussiana sul modo in cui la monarchia degli
Hohenzollern e Bismarck avevano realizzato l’unità politica della Germania.
Allievo di Droysen, di Sybel, di Treitschke, egli è il continuatore della loro
impostazione storiografica e al tempo stessso l’erede della loro visione
politica; anzi, le sue indagini si ispirano a un preciso obiettivo di
giustificazione storico-politica del processo di formazione dello stato
nazionale tedesco. Fin dalla biografia dedicata a uno degli eroi delle guerre
anti-napoleoniche, il maresciallo Hermann von Boyen (pubblicata nel 1886-99),
l’analisi di questo processo è diretta a mostrare il carattere positivo, e storicamente
inevitabile, della soluzione prussiana, in contrapposizione alla vanità dei
tentativi compiuti dal liberalismo riformatore del ’48. Non soltanto l’edificio
politico bismarckiano, ma in generale il concretarsi delle aspirazioni
nazionali tedesche in un’organica struttura statale diventa dal volume Das Zeitalter der deutschen
Erhebung (1906) ai saggi raccolti sotto il titolo Von Stein zu Bismarck (1909)
e a Radowitz und die deutsche Revolution (1913)
il centro di riferimento delle successive ricerche di Meinecke.
Bisognerà attendere la guerra e la sconfitta tedesca perché egli avverta
finalmente i limiti della costruzione di Bisrmarck e si impegni in una sostanziale
revisione delle prospettive della scuola storica prussiana. La prima grande
opera di Meinecke, Weltbirgertum und Nationalstaat (1908), costituisce infatti
il tentativo più compiuto di giustificare l’edificio politico bismarckiano,
considerato come il punto di confluenza e d’incontro tra la nazione
culturale tedesca e la nazione territoriale prussiana. Meinecke si propone qui di
mostrare come da una parte le aspirazioni della cultura tedesca al
conseguimento dell'unità nazionale si siano gradualmente svincolate dalle idee
universalistiche di origine settecentesca, e come dall'altra lo stato prussiano
sia diventato, dopo il 1848, l’interprete di tali aspirazioni e abbia saputo
realizzarle concretamente. Da Wilhelm von 62 INTRODUZIONE Humboldt a Novalis, a
Friedrich Schlegel, a Fichte, a Miiller, a Savigny, e infine a Ranke momento conclusivo di questo processo la nazione culturale tedesca acquista coscienza della propria
individualità e del proprio diritto di costituirsi in una struttura statale
unitaria; e tale coscienza comporta appunto il progressivo abbandono della
visione cosmopolitica dell'Illuminismo e del suo astratto ideale di umanità.
Contemporaneamente la Prussia subordina i propri interessi particolari a quelli
della causa nazionale tedesca, assumendo l’egemonia del processo di
unificazione politica della Germania. Dopo il fallimento del ’48 Bismarck dà
così esistenza storica all’ideale nazionale che la cultura romantica aveva
proclamato, innestandolo sulla struttura dello stato prussiano. Questa
giustificazione dell’edificio politico bismarckiano era però destinata a
rivelare la sua intrinseca debolezza al momento della sconfitta tedesca. Già
prima e durante il conflitto Weber aveva denunciato i limiti della costruzione
di Bismarck, imputando ad essa la mancanza di una classe politica in grado di
dirigere il paese e di controllare il potere della burocrazia. In numerosi
saggi scritti nel corso della guerra, e soprattutto nel volume Parlament und
Regierung im neugeordneten Deutschland (1917), egli insisteva sulla necessità
di tener distinti i compiti del funzionario e del politico, ossia di non
ridurre la vita politica ad amministrazione; e ciò lo conduceva a sottolineare
la funzione dei partiti e del parlamento come sede di formazione di una classe
politica. La situazione della Germania guglielmina, con la sua dipendenza
diretta della burocrazia dal potere monarchico, gli appariva caratterizzata da
uno pseudo-costituzionalismo che sottraeva al parlamento la direzione e il
controllo dell'amministrazione pubblica. Se in Weber la critica a Bismarck e
all’eredità politica bismarckiana si innestava su una linea di sviluppo che
risaliva all’ultimo decennio dell'Ottocento, in Meinecke la sconfitta tedesca
aveva invece un effetto traumatico, e lo costringeva a un profondo processo
autocritico. Il suo originario conservatorismo lasciava posto alla
rivendicazione del regime democratico, la quale si accompagnava alla denuncia
del militarismo prussiano e del fallimento dei suoi sogni imperialistici.
Venivano così in luce i difetti insanabili, già indicati da Weber, di una
costruzione che non era riuscita a modificare il vecchio ordinamento
economico-sociale di origine feudale né a rendere le masse popolari partecipi
alla vita politica. Quella che un decennio prima era INTRODUZIONE 63 potuta
sembrare una felice sintesi tra nazione
culturale e nazione territoriale , tra le aspirazioni
della cultura romantica all’unità nazionale e gli interessi della monarchia
prussiana, si rivelava ora a Meinecke come una soluzione debole, come un
compromesso instabile realizzato all’insegna di una politica di potenza che avrebbe condotto al
fallimento del 1918. Avanzata per la prima volta nel saggio Kultur,
Machtpolitik und Militarismus (1915), sviluppata più ampiamente nei saggi di
Nach der Revolution (1919), questa critica sfocierà in seguito in Das preussisch-deutsche Problem im Jahre
1921 — nella revisione del quadro storiografico tracciato in Weltbiirgertum und
Nationalstaat. Più tardi ancora, nel 1924, Meinecke ne trarrà spunto per
affrontare il problema dell’antitesi tra potenza e spirito, considerati come i
momenti antinomici della vita politica. Mentre Weber e Meinecke si portavano
(al pari di Troeltsch) su posizioni apertamente democratiche, appoggiando la
repubblica di Weimar e prendendo parte alla sua travagliata esistenza, la
coscienza della sconfitta tedesca trovava un'espressione emblematica in
un’opera destinata ad avere larghissima fortuna — in Der Untergang des
Abendlandes di Oswald Spengler, apparsa tra il '18 e il ’22. A differenza degli
altri esponenti del movimento storicistico, Spengler viveva ai margini della
cultura accademica: dopo aver conseguito il dottorato aveva dapprima insegnato
in liceo, e si era quindi dedicato all'attività pubblicistica. La sua stessa
formazione filosofica non era priva di aspetti dilettanteschi: i suoi autori
prediletti erano Goethe e Nietzsche, ma l’uno e l’altro subivano
nell’opera spengleriana un sostanziale travisamento. Accanto alla loro presenza
non è difficile cogliere alcuni temi caratteristici dell’ultimo Dilthey e di
Simmel: anzi, i presupposti fondamentali di Der Untergang des Abendlandes
mostrano chiaramente la loro derivazione da Dilthey, anche se si tratta di un
Dilthey interpretato (e il più delle volte frainteso) in senso relativistico.
Spengler accoglie infatti la distinzione diltheyana tra scienze della natura e
scienze dello spirito, trasformandola nell’antitesi tra il mondo come natura e il mondo come storia e affermando l’irriducibilità della
conoscenza storica al metodo della scienza naturale; analogamente, egli fa
propria la tesi dell’autocentralità delle epoche storiche, traducendola nel
postulato della radicale eterogeneità delle culture e della loro reciproca
incomunicabilità. Su questa piattaforma s'innesta il richiamo alla 64
INTRODUZIONE prospettiva organicistica di Goethe, in virtù del quale ogni
cultura viene interpretata come un organismo biologico che deve necessariamente
percorrere il ciclo vitale proprio della specie alla quale appartiene. Dalla
visione della storia come sviluppo di una molteplicità di culture chiuse in se stesse,
destinate a morire dopo aver esaurito il complesso di possibilità che le
caratterizza al momento della nascita, deriva la profezia spengleriana
dell’imminente tramonto dell'Occidente ,
nella quale il crollo della potenza della Germania si trasfigura
nell’inevitabile destino di morte di un'intera civiltà. L’impianto dottrinale
di Der Untergang des Abendlandes si regge in primo luogo, come si è accennato,
sull’antitesi tra il mondo come natura e
il mondo come storia ; e questa vien
fatta coincidere con la contrapposizione goethiana tra divenuto e divenire.
Il mondo come natura è infatti il mondo del divenire,
caratterizzato dall’estensione spaziale e dalla necessità causale, che trova la
propria formulazione nella legge matematica; il
mondo come storia è il mondo del
divenire, caratterizzato dalla direzione del corso temporale e dalla necessità
organica, che si esprime nella forma vivente. La loro conoscenza comporta
perciò due specie differenti di logica: la natura può essere appresa
avvalendosi di una logica meccanica, che si regge sul principio di causalità e
sulla determinazione di rapporti matematici, mentre la storia può essere colta
soltanto attraverso la logica organica, che si regge sull’intuizione della
forma vivente. Spengler riprende quindi da Dilthey la distinzione tra
spiegazione e comprensione, ma riduce al tempo stesso quest’ultima procedendo in senso opposto a Weber a un atto intuitivo, all’immediatezza dello sguardo storico . Il rifiuto del metodo
naturalistico e della spiegazione causale mette così capo all’antitesi tra due
tipi di conoscenza, che vengono rispettivamente designati come sistematica e
come fisiognomica. C'è però ancora un’altra differenza, non meno importante. I
due tipi di conoscenza non si pongono più sullo stesso piano, come avveniva in
Dilthey: dal momento che ogni divenuto procede dal divenire, il mondo come
storia acquista una preminenza
ontologica rispetto al mondo come natura
, e l’immagine della natura viene a dipendere dalla concezione del mondo,
storicamente condizionata, delle singole culture. Su questa base Spengler si
propone di realizzare una morfologia
della storia universale , concepita come studio delle forme INTRODUZIONE 65
viventi del divenire storico. Ma la
storia universale si articola, ai
suoi occhi, in una molteplicità di forme non riconducibili a una superiore
unità. Il divenire storico non è il progressivo dispiegamento di un principio
unitario, ma coincide con la ripetizione necessaria di una medesima vicenda,
che è poi il ciclo biologico delle culture. La struttura portante del mondo come storia è perciò non il singolo individuo e neppure
l'umanità nel suo complesso, ma la singola cultura, nel suo sorgere attraverso
il distacco dall’umanità primitiva
astorica per definizione e nel
suo successivo sviluppo fino alla morte inevitabile, a una morte cui non può
sottrarsi come non può sottrarvisi nessun altro organismo. La storia è quindi
storia di culture, e l’esistenza storica dell’individuo è definita dalla sua
appartenenza a una cultura e al suo particolare mondo simbolico. Infatti, se è
vero che tutte le culture percorrono uno stesso ciclo, esse si differenziano
d’altra parte tra loro per quanto riguarda la concezione del mondo. Ogni
cultura è infatti caratterizzata, fin dalla nascita, da un complesso di
possibilità, da una propria eredità biologica che è diversa da quella delle
altre culture. La visione organicistica della storia e l'affermazione della
relatività delle culture e dei loro rispettivi mondi simbolici rappresentano
così i due aspetti strettamente
connessi dell’impostazione di Der
Untergang des Abendlandes. "Tra le varie manifestazioni delle culture vi è
sì una corrispondenza formale, che consente di stabilire analogie e di dar
luogo a uno studio comparativo, ma c’è anche una radicale eterogeneità di
contenuto: la matematica occidentale e la matematica indiana, tanto per fare un
esempio, non hanno alcun rapporto tra loro. Non soltanto non esiste alcuna
verità assoluta, ma ogni prodotto storico
e quindi anche ogni teoria scientifica, ogni dottrina filosofica o
religiosa, ogni norma etica non è altro
che l’espressione di una data cultura in un particolare momento del suo
sviluppo. Di conseguenza, la sua validità è circoscritta all'ambito della
cultura che l’ha prodotta, ed è ulteriormente limitata a una certa fase del suo
processo evolutivo. Ogni cultura ha un proprio orizzonte che abbraccia tutte le
sue manifestazioni, e che le rende perfino incomunicabili alle altre culture.
Spengler perviene in tal modo a preannunciare l'imminente tramonto
dell’Occidente. L'analisi del processo evolutivo della cultura occidentale
rivela infatti che essa non soltanto ha da tempo concluso la sua fase creativa,
ma è ormai prossima alla fine. Anzi, essa non è pro3. STORICISMO TEDESCO. 66
INTRODUZIONE priamente più una cultura, ma è una cultura meccanizzata e divenuta, una
cultura-in-declino
(Zivilisation): ne è prova il rovesciamento dei valori che caratterizza
l’epoca moderna, al pari di qualsiasi epoca di declino di una cultura. Spengler
accoglie così la diagnosi che della civiltà contemporanea avevano dato i
critici aristocratici della seconda metà dell'Ottocento, da Burckhardt a
Nietzsche, i quali avevano guardato con timore e preoccupazione all’avvento
della democrazia e del socialismo, all’irrompere delle masse sulla scena
storica, all’importanza crescente del sapere scientifico e della tecnica. La
stessa contrapposizione tra Kultur e Zivilisation esprime per un verso la
predilezione, tipicamente romantica, per i valori originari e primitivi
della cultura, per l’altro verso la valutazione negativa dell’azione
uniformante della civiltà industriale moderna e delle tendenze egualitarie che
tendono a eliminare le differenze di ceto. Anche per Spengler la dissoluzione
del vecchio ordine sociale, il mutamento dei rapporti tra le classi, il declino
dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia, la preminenza dell’economia sulla
politica, l’onnipotenza del denaro sono aspetti di una crisi che investe non
soltanto la Germania, ma l’intero Occidente. A questa crisi è impossibile
sottrarsi, in quanto essa è il portato inevitabile del ciclo biologico delle
culture e si colloca quindi sotto il segno del destino. L'individuo può
soltanto riconoscerne la necessità, e cercare di disporsi nella direzione del
processo storico anziché pretendere vanamente di opporglisi. L’opera di
Spengler esprimeva la crisi politico-culturale della Germania sconfitta, ma
rivelava altresì l'incapacità di analizzarne i motivi storici concreti e la
tendenza a trasporla su un piano metafisico. Attraverso la polemica contro la
democrazia e il socialismo, attraverso l’esaltazione degli aspetti primitivi
della storia e il rifiuto della civiltà industriale moderna, Spengler forniva
elementi preziosi all'elaborazione dell’ideologia nazista. In una serie di
volumi di più immediato intento politico
da Preussentum und Sozialismus (1919) a Der Mensch und die Technik
(1931) e a Jahre der Entscheidung (1933)
egli avanzava infatti la proposta di un
socialismo prussiano capace di
restaurare l’autorità dello stato, e concepito come la continuazione
dell’ideale germanico della subordinazione dell'individuo alla volontà
collettiva del corpo sociale. Anche se Spengler guarderà sempre con diffidenza
a Hitler, rifiutando di riconoscersi nel movimento che andava al potere nel
°33, non per questo si può negare l’affinità profonda tra la sua posizione
anti-democratica (e anti-marxista) e l’ideologia del nazismo. La stessa
affermazione del dovere etico di accettare il destino poteva facilmente tradursi
in un atteggiamento di convinta adesione al nuovo regime, esaltato come il
segno dei tempi nuovi e lo strumento della riscossa tedesca. Su un versante
diverso, le conclusioni relativistiche di Der Untergang des Abendlandes
ponevano in luce un’altra crisi, quella dello storicismo; ponevano cioè in luce
il pericolo di una vanificazione dei valori a cui questo era esposto. Non a
caso lo stesso Weber, e con lui Troeltsch e Meinecke, si affrettarono a
prendere le distanze da Spengler e a denunciare le aporie della sua opera. Dopo
di allora l'ombra del relativismo graverà sempre minacciosa sulla cultura
filosofica tedesca, spingendola verso una restaurazione dei valori che ne
salvaguardasse, in qualche modo, la validità oltre l'ambito della singola
cultura o della singola epoca storica. VIII. Toccherà a ‘Troeltsch e a Meinecke
tentare una risposta alla crisi dello storicismo. Partiti da interessi e da
esperienze culturali differenti, essi si trovano alla fine del conflitto
impegnati in una comune battaglia contro le conseguenze relativistiche dello
storicismo e contro l’ anarchia dei valori
che questo sembra comportare. Lasciata Heidelberg nel 1915, Troeltsch si
era trasferito a Berlino passando contemporaneamente dall’insegnamento della
teologia sistematica a una cattedra di filosofia; e qui egli incontrava
Meinecke, che era approdato alla capitale l'anno precedente. S’inizia così tra
loro un periodo d’intensa collaborazione filosofica a cui porrà termine, nel
febbraio 1923, la morte di Troeltschj; e la piattaforma dottrinale definita in
questi anni continuerà a ispirare per lungo tempo l’elaborazione teorica di
Meinecke, ancora sotto il regime nazista e negli anni successivi alla seconda
guerra mondiale. Comune a entrambi è la consapevolezza della crisi dello storicismo,
intesa secondo la formulazione di
Troeltsch, che Meinecke sostanzialmente condivide non già come una crisi della ricerca storica
ma come una crisi del pensiero storico ,
e cioè del significato che la storia riveste per la concezione del mondo. Lo storicismo
si configura ai loro occhi come una concezione generale della realtà, che
procede dalla fondamentale
storicizzazione del nostro sapere e del nostro pensiero: non tanto uno sforzo
di analisi metodologica delle scienze storico-sociali o di analisi strutturale
del mondo umano, quanto una visione complessiva del mondo e della vita. Comune
a Troeltsch e a Meinecke è pure l’intento di sottrarsi alla crisi dello
storicismo attraverso una restaurazione dei valori che ne recuperi
l’assolutezza un’assolutezza senza la
quale l’uomo rimane privo di criteri di orientamento per il proprio agire. La
riduzione dei valori a prodotto storico, nella quale Dilthey aveva visto una
conquista positiva dello storicismo, appare invece una sua conseguenza
negativa, che mette in pericolo la stessa possibilità di norme etiche. Perciò
essi cercano nella teoria dei valori un punto di appoggio per opporsi all’esito
relativistico dello storicismo, che l’opera di Spengler esprimeva in modo
emblematico. Già nel 1904, al suo primo approccio ai problemi della filosofia
della storia, Troeltsch si era richiamato alla definizione rickertiana
dell’oggetto storico, indicandone il fondamento nella relazione ai valori.
Anche nel periodo berlinese in Der
Historismus und seine Probleme (1922) e poi nei saggi postumi raccolti sotto il
titolo Der Historismus und seine Uberwindung (1924) la teoria dei valori costituisce lo sfondo
dell’elaborazione filosofica di Troeltsch. Il punto di partenza del suo
tentativo di restaurazione dei valori è rappresentato infatti dalla
caratterizzazione dell'oggetto storico come una totalità individuale , a cui è
inerente una connessione di senso che la distingue in maniera radicale
dall'oggetto della conoscenza naturale. A differenza dei processi naturali, l’oggetto
storico è costituito da un rapporto con i valori che ne garantisce l’unità,
anzi un'unità di significato la quale abbraccia i molteplici elementi che lo
compongono. Troeltsch afferma così la presenza nell’oggetto storico di un senso
immanente, il quale viene identificato con il valore (individuale) di tale
oggetto. Ciò comporta un mutamento rilevante, ancorché non esplicito, rispetto
alla posizione di Rickert. Mentre per quest'ultimo il senso dell’oggetto
storico consisteva nel riferimento a valori incondizionati che si realizzano
storicamente ma che sussistono indipendentemente dalla storia, per Troeltsch
senso e valore coincidono: il mondo dei valori non è più un mondo fornito di
autonomia ontologica, ma diventa la connessione significativa inerente allo
sviluppo storico. Al pari del singolo oggetto storico nella sua individualità,
anche lo sviluppo storico nel suo complesso risulta costituito dalla presenza
immanente dei valori. Questi diventano perciò la struttura assiologica della
storia, la sua struttura per così dire
assoluta . Il recupero dell’assolutezza dei valori avviene postulandone
non più la trascendenza metafisica ma l'immanenza, e quindi ‘attraverso il
ritorno alla nozione romantica di individualità. In questa impostazione
Meinecke poteva trovare una sostanziale continuità rispetto al punto di vista
espresso in Welrbirgertum und Nationalstaat. Quando nel 1918, nel saggio
Persònlichkeit und geschichiliche Welt, egli affronta per la prima volta il
problema del rapporto tra storia e valori, è proprio la nozione romantica di
individualità che gli permette di riconoscere da un lato l’autonomia della
singola persona e dall’altro la presenza nella storia di forze sovra-personali
che s'intrecciano dando vita ai fenomeni storici. Lo sviluppo storico gli
appare un processo nel quale l'uomo, pur essendo inserito in una molteplicità
di serie causali, produce tuttavia un mondo di valori spirituali che,
collocandosi oltre il livello dell’esistenza naturale, si contrappongono alla
causalità della natura. Si ripropone così, sul terreno della storia, il
problema kantiano del rapporto tra necessità e libertà, concepito in termini
per un verso di antitesi e per l’altro verso di connessione. Per Meinecke lo
sviluppo storico è infatti un intreccio indissolubile di necessità e di
libertà, dove il primo termine è identificato con l’azione causale delle
condizioni naturali e il secondo con la capacità di creare valori culturali. Ma
quest’intreccio è tutt'altro che una coesistenza armonica: al contrario, la
realizzazione dei valori comporta una lotta costante contro le condizioni
naturali e quindi lo sforzo di rompere il quadro della loro causalità. La
drammaticità di questo rapporto è stata posta in luce da Meinecke soprattutto a
proposito del mondo della politica e, in particolare, dell’esistenza dello
stato. Nella sua seconda grande opera storica, Die Idee der Staatsrison in der
neueren Geschichte (iniziata durante la guerra ma pubblicata soltanto nel ’24),
egli ha additato nell’antitesi tra potenza e spirito la struttura fondamentale
della politica e l’essenza stessa della
ragion di stato . Ma quest’antitesi non è altro che una manifestazione
del contrasto tra necessità e libertà. Da una parte la politica è legata a
condizioni naturali: al pari di ogni organismo, lo stato tende
all’autoconservazione e, per conservarsi, deve affermare la propria potenza nei
confronti degli altri stati e, occorrendo, in conflitto con essi, Dall'altra
parte la 70 INTRODUZIONE politica è in rapporto con i valori: anche lo stato si
propone di produrre o quanto meno di salvaguardare i valori culturali,
procedendo oltre la propria base naturale e abbracciando in sé la vita etica,
giuridica, religiosa, artistica di un popolo. Lo stato ha così un'essenza in
qualche modo duplice: esso è insieme necessità e libertà, natura e spirito, o
più precisamente krdtos e é:h05 vale a
dire aspirazione alla potenza e aspirazione alla realizzazione di valori
culturali. La sua esistenza si svolge tra due poli, tra il polo della
naturalità da cui prende le mosse e il polo della spiritualità verso cui si
eleva. Questo contrasto intrinseco al mondo della politica costituisce
l’antinomia della ragion di stato , nel suo sempre rinnovato tentativo di
conciliare due termini tra loro inconciliabili. Che questo tentativo sia
aleatorio, e dia luogo soltanto a sintesi provvisorie, è dimostrato soprattutto
dalla tendenza del primo termine a prevalere sul primo, cioè dalla tendenza
dell'impulso alla potenza a subordinare a sé i valori culturali. La potenza è
infatti indifferente ai valori culturali e alla loro realizzazione, è indifferente rispetto al bene e al male. Ma
quest'amoralità della potenza trapassa di continuo come dimostra la storia dell'idea di ragion di stato , da Machiavelli fino a
Treitschke nell’immoralità, ossia nel
rifiuto o nella soppressione dei valori culturali, Il diritto dello stato alla
propria conservazione e al proprio accrescimento lo spinge verso una politica
di potenza di stampo bismarckiano, nella quale l'autonomia dei valori va
inevitabilmente perduta. L’antinomia tra &rdtos e éthos appare quindi, in
sostanza, un aspetto particolare dell’antitesi tra il fondamento naturale della
storia e l’aspirazione a valori culturali; e l'esigenza di garantire
l’autonomia di questi ultimi nei confronti dell’opposta aspirazione alla
potenza coincide con l’esigenza di salvaguardarne l’assolutezza che, essa sola,
può evitare che la relatività dei valori
degeneri in un relativismo dei valori . In Der Historismus und seine Probleme
(apparso due anni prima di Die Idee der Staatsrison) Troeltsch si proponeva di
offrire una via di uscita da questa difficoltà attraverso la formulazione di
una filosofia materiale della storia. Compito della filosofia della
storia è, in generale, quello di elaborare una
sintesi culturale adeguata a una
certa situazione storica, e capace perciò di indicare agli individui la
direzione di sviluppo da percorrere in riferimento ad essa. Anche per l’epoca
contemporanea si pone un problema del genere: non diversamente dal passato, la
filosofia deve oggi proporre agli uomini un ideale di civiltà costruito
attraverso una critica immanente del processo evolutivo della cultura
occidentale e la determinazione delle sue possibilità di sviluppo. Perciò la sintesi culturale contemporanea non può non essere condizionata
dai valori specifici di un certo ambito di civiltà, ed anzi esprimere questi
valori assumendoli a criterio direttivo per il futuro. Ancora una volta,
quindi, i valori rivelano la loro intrinseca relatività; e il rapporto con l'assoluto,
lungi dal configurarsi come un dato incontrovertibile, si presenta piuttosto
come un compito da realizzare. Il divenire storico, con la molteplicità e la
variabilità delle sue forme, si incontra e si scontra con il bisogno
insopprimibile di trovare delle norme in grado di fornire un orientamento
sicuro all’agire umano. Ma allora come
risulta chiaramente dai saggi postumi di Der Historismus und seine
Uberwindung la conciliazione tra
relatività storica e assolutezza rimane sempre problematica. Essa è fondata, in
ultima analisi, su una convinzione personale, su un atto di fede. Una posizione
del genere era senza dubbio assai debole; né i tentativi di approfondimento
compiuti in quegli stessi anni da Meinecke
nei saggi Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus (1923) e
Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924)
riuscivano a darle una base più solida. La stessa distinzione tra
causalità naturale e causalità etico-spirituale, che riposava sull’identificazione
di quest'ultima con lo sforzo umano di realizzazione dei valori culturali, si
richiamava sempre alla nozione romantica di individualità, mettendo capo
all’affermazione dell’individualità del valore e della sua inerenza al processo
storico. Non a caso, un decennio più tardi, l’adesione allo storicismo e lo
sforzo di sottrarlo alle spire mortali del relativismo si compongono non tanto
sul terreno teorico, quanto in un nostalgico quadro retrospettivo delle origini
dello storicismo. In Die Entstehung des Historismus (1936) Meinecke muove dalla
convinzione che lo storicismo costituisca la maggiore rivoluzione culturale dell’età moderna, in virtù della
quale la fede giusnaturalistica in una ragione eterna e atemporale ha lasciato
il posto al duplice riconoscimento dell’individualità dei singoli momenti del
mondo umano e della loro appartenenza a un processo di sviluppo che tutti li
comprende. Il diritto naturale elemento
costante della tradizione filosofica occidentale, dal pensiero antico al
Cristianesimo, dal Rinascimento all'Illuminismo
è consi72 INTRODUZIONE derato da Meinecke il grande antagonista dello
storicismo, e al tempo stesso il suo immediato antecedente storico. Sorto
attraverso un secolare distacco dall’impostazione giusnaturalistica, che ha
avuto inizio con il trapasso dal razionalismo seicentesco alla cultura
illuministica, lo storicismo è giunto alla sua piena maturità nel pensiero
tedesco di fine Settecento con Herder, con Mîser, con Goethe. In questa
prospettiva il rapporto tra Illuminismo e storicismo si presenta come un rapporto
di opposizione, ma anche di continuità: la cultura illuministica ha messo in
crisi, dall’interno, la fiducia nell’esistenza di norme razionali immutabili,
creando così le premesse di un nuovo senso della storia. Perciò lo storicismo
di cui Meinecke delinea il processo genetico è pur sempre identificato con la
concezione romantica della storia e con l’elaborazione dottrinale che questa ha
subìto da parte della scuola storica tedesca, in particolare ad opera di Ranke.
E nel richiamo a Ranke, il quale concepisce
Dio al di sopra del mondo, il mondo creato da lui, ma anche percorso dal
suo spirito, e perciò affine a Dio e al tempo stesso anche sempre imperfetto in
quanto terreno , Meinecke cerca il modo di sottrarre lo storicismo al suo esito
relativistico. Contro l’idealismo post-kantiano e contro la filosofia della
storia di Hegel egli ribadisce in
polemica con Croce, che aveva sostenuto l’ascendenza hegeliana dello storicismo
e la sua identità col razionalismo concreto
l'impossibilità di ricondurre il processo storico a un principio
razionale; contemporaneamente egli rivendica nei confronti del movimento
storicistico degli ultimi decenni l’assolutezza dei valori, un’assolutezza operante
nell’ambito della storia che designa (rankianamente) la presenza di Dio in ogni
epoca storica. Questa impostazione, esplicitamente formulata in una serie di
saggi poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte
(1939) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (1942), segnava la
conclusione dello sforzo speculativo dello storicismo tedesco contemporaneo. Ma
ne segnava anche, in larga misura, il fallimento. L'ombra del relativismo dava
luogo a un tentativo di restaurazione dei valori che si risolveva, in fondo,
nel ritorno alla visione romantica della storia, a quella visione da cui il
movimento storicistico aveva cercato a
partire da Dilthey di svincolarsi. E
significativamente l’affermazione della presenza dell’assoluto in ogni momento
del processo storico veniva a coincidere proprio con quella relativizzazione
dei valori che Troeltsch e Meinecke si erano proposti di evitare. La via di
uscita dal relativismo era trovata in un vago e generico rinvio al senso ignoto
della storia, alla possibilità di conciliare immanenza e trascendenza su un
piano inaccessibile alla logica umana. Caratteristico prodotto di un’epoca che
aveva guardato alla storia con fiducia, di un’epoca che aveva visto il
consolidarsi del capitalismo industriale e l’affermazione della potenza del
nuovo stato nazionale tedesco, di un’epoca che aspirava a penetrare
scientificamente i processi storici senza però ridurli naturalisticamente a
processi biologici o psicologici, il movimento storicistico non ha retto al
trauma della guerra e della sconfitta. Anche se i rapporti tra la crisi politico-culturale
della Germania post-bellica e la crisi dello storicismo tedesco sono tutt'altro
che diretti, e sfuggono in ogni caso a troppo facili semplificazioni del tipo di quelle predilette dal Luk&cs
della Zerstorung der Vernunft non si può
negarne né la sostanziale contemporaneità né la correlazione. Intorno al 1920
il movimento storicistico ha ormai esaurito la sua carica produttiva; e la
morte di Weber può essere assunta come data emblematica di questa svolta. Da
allora esso guarda al futuro con timore, con il timore che il processo storico
porti non già all’accrescimento ma alla perdita del patrimonio culturale che la
storia precedente ha trasmesso. Da ciò il ripiegamento sul passato che spinge
Troeltsch e Meinecke a idealizzare l’eredità del pensiero romantico e a
cercarvi un rifugio. Il grandioso quadro storiografico di Die Enzstehung des
Historismus è sì un esame di coscienza dello storicismo, ma ne costituisce
anche quasi inconsapevolmente l’elogio funebre. In una Germania dominata
dal nazismo, la quale si apprestava a tentare una rivincita che avrebbe
condotto a un nuovo più grave disastro, in unclima culturale ormai
caratterizzato dalla presenza di altri orientamenti filosofici in primo luogo la fenomenologia e
l’esistenzialismo non c’era più posto
per lo sforzo di analisi metodologica e di analisi strutturale che lo
storicismo aveva perseguito. Il ritorno alla concezione romantica, al senso di
uno sviluppo pervaso da forze irrazionali mai completamente eliminabili,
rappresentava la resa dinanzi al presente, e insieme un tentativo di fuga dalla
sua opprimente e disperata realtà. Non per questo, tuttavia, l’eredità del
movimento storicistico 74 INTRODUZIONE andava perduta. Nella breve e
travagliata stagione della repubblica di Weimar esso aveva fecondato per vie
diverse il sorgere dell’esistenzialismo, il rinnovamento del pensiero
marxistico, lo sviluppo lella sociologia del sapere. Dalla Psychologie der
Weltanschauungen (1919) di Jaspers a Sein und Zeit (1927) di Heidegger, da
Geschichte und Klassenbewusstsein (1923) di Luk&cs a Ideologie und Utopie
(1929) di Mannheim, esso ha contribuito in maniera decisiva al delinearsi di
nuove prospettive filosofiche e di nuove direzioni d'indagine
storico-sociologica. Anche più tardi, quando il nazismo sarà pervenuto al
potere, il movimento storicistico continuerà ad agire soprattutto fuori dei
confini tedeschi, e un'intera generazione di studiosi più giovani educati nell'immediato dopoguerra e costretti
all'esilio all’inizio degli anni ’30
recherà all’estero l'insegnamento di Dilthey, di Simmel e soprattutto di
Weber, Così lo storicismo tedesco è sopravvissuto in forme molteplici alla
propria crisi, mostrando la sua non ancora cessata capacità di trasfigurazione.
NOTA BIBLIOGRAFICA Vengono qui indicate soltanto opere di carattere generale,
che si riferiscono in tutto o in parte allo storicismo tedesco contemporaneo e
ai suoi rapporti con la cultura filosofica otto-novecentesca. Le monografie
dedicate a singoli autori sono menzionate nelle rispettive note bibliografiche.
R. Aron,
Essai sur la théorie de l'histoire dans l’ Allemagne contemporaine (La
philosophie critique de l’histoire), Paris, 1938, 19502. M. ManpeLsaum, The
Problem of Historical Knowledge, New York, 1938, parte I. C. Antoni, Dallo
storicismo alla sociologia, Firenze, 1939 (ristampa 1973). H. R. von SrBik,
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1950-51. G.
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Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, 1971?. H. Stuart
HucHes, Consciousness and Society (The Reorientation of European Social
Thought), New York, 1958; tr. it. Torino,
1967. P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano,
1960. I. S. Kon, Die Geschichtsphilosophie des 20. Jahrhunderts Kritischer
Abriss (tr. dal russo), Berlin, 1964. G. ScHmipr, Deutscher Historismus und der
Ùbergang zur parlamentarischen Demokratie: Untersuchungen zu den politischen
Gedanken von Meinecke, Troeltsch, Max Weber, Liùbeck-Hamburg, 1964. M. C. Branps, MHistorisme
als Ideologie: Het onpolitieke en
anti-normative Element in de
Duitse Geschiedwetenschap, Assen, 1965. G. G. Iccers, The German Conception of History: The
National Tradition of Historical Thought from Herder to Present, Middletown
(Conn.), 1968; tr. tedesca col titolo Deussche Geschichtswissenschaft,
Miinchen, 1971. 76 NOTA
BIBLIOGRAFICA F. Tessitore, Lo storicismo, nella Storia delle idee politiche,
economiche e sociali, Torino, vol. IV, 1972, pp. 27-126. Sulla storia e sui
significati del termine storicismo si rimanda ai seguenti studi: E. RorHacger,
Historismus, Schmollers Jahrbuch , LXII,
1938, pp. 388-99. D.
E. Lee e R. N. Beck, The Meaning of
Historicism , American Historical
Review , LIX, 1953-54, pp. 568-77. C. G. Ranp, Two Meanings of Historicism in
the Writings of Dilthey, Troeltsch and Meinecke, Journal of the History of Ideas, XXV, 1964,
pp. 503-18. P. Rosst, Storicismo,
nella Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, vol. XIV : Filosofia, Milano, 1966, pp.
446-72. M.
ManpeLBAUM, Historicism, in The Encyclopedia of Philosophy, New York, 1967,
vol. IV, pp. 22-25. G. G. Iccers, Historicism, nel Dictionary of the History of
Ideas, New York, 1973, vol. II,
pp. 456-64. La presente edizione I testi compresi in questo volume sono stati
tradotti ex mzovo anche quando ne esisteva un'altra traduzione italiana. Si è
fatta eccezione soltanto per gli scritti filosofici di Dilthey e per i saggi
metodologici di Weber, a suo tempo tradotti dal curatore in due volumi
della Biblioteca di cultura filosofica
di Einaudi, nonché per il primo capitolo della Soziologie di Simmel, del quale
si è utilizzata la traduzione (non ancora pubblicata) di Giorgio Giordano per i Classici della sociologia delle Edizioni di Comunità, e per l’altro
saggio weberiano Wissenschaft als Beruf, del quale si è utilizzata l'ottima
traduzione di Antonio Giolitti. Anche in questi casi, però, la traduzione è
stata sottoposta a una revisione accurata, e in diversi passi modificata a
scopo di uniformità terminologica. Il curatore desidera ringraziare
pubblicamente Sandro Barbera, che ha prestato la sua valida opera di
traduttore, nonché Claudio Magris, Massimo Mori ed Enzo Randone, che lo hanno
aiutato a rintracciare alcune citazioni. Un particolare ringraziamento va a
Massimo Mori, che ha contribuito alla correzione delle bozze. DILTHEY nasce a
Biebrich am Rhein, nel ducato di Nassau, figlio di un pastore calvinista. Dopo
aver compiuto gli studi liceali a Wiesbaden, si iscrive a Heidelberg e quindi a
quella di Berlino. A Heidelberg è allievo dello storico della filosofia Fischer,
a Berlino di alcuni dei maggiori maestri della scuola storica come il filologo
classico Boeckh, lo storico Ranke, il geografo Ritter, nonché di un altro
illustre storico della filosofia, Trendelenburg. In virtù del loro insegnamento
la partecipazione di Dilthey al mondo della cultura romantica, soprattutto alla
poesia e alla musica da un lato e alla religiosità dall’altro partecipazione di cui è testimonianza il
diario, pubblicato dalla figlia Clara Misch Dilthey col titolo Dilthey
(Leipzig-Berlin; Gottingen) si traduce
nell’interesse storico per la concezione del mondo e per le manifestazioni
artisticoletterarie, religiose, filosofiche del Romanticismo tedesco. Da questo
interesse prese le mosse una serie di studi su Hamann e su Schleiermacher, che
metteranno capo dietro suggerimento di
Trendelenburg prima alla dissertazione
di dottorato De principiis ethices Schleiermacheri (Berlin, 1964; tr. it.
Napoli, 1974) e poi al primo volume di un'ampia biografia rimasta incompiuta,
il Leben Schleiermachers (Berlin, 1867-70; 2° ed. a cura di H. Mulert,
Berlin-Leipzig, 1922; 3* ed. a cura di M. Redeker, Berlin, 1970). Dopo aver
ottenuto l'abilitazione a Berlino, Dilthey diventa professore di filosofia a
Basilea nel 1867, per poi trasferirsi a Kiel nel 1868 e a Breslau nel 1871. In
quest'ultima città egli stringe amicizia col conte Paul Yorck von Wartenburg,
con il quale egli avrà un intenso e fecondo scambio intellettuale fino alla morte
di lui: testimonianza di questo scambio sono le lettere pubblicate postume (nel
Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von Wartenburg,
Halle, 1923). Nel 1882, infine, Dilthey fu chiamato a succedere a Hermann Lotze
all’Università di Berlino, dove insegnò fino al 1906. Priva di avvenimenti
esteriori di rilievo (Dilthey non partecipò mai alla vita politica tedesca), la
vita di Dilthey coincide sostanzialmente con la sua carriera accademica e con
la sua attività intellettuale. Morì a Siusi (Bolzano) il 1° ottobre 1911. Negli
anni dal 1864 (in cui scrive il VersucA einer Analyse der moralischen
Bewusstsein, presentato come lavoro di dissertazione) al 1875 (in cui pubblica
il saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der
Gesellschaft und dem Staat) Dilthey ha elaborato i presupposti della propria
impostazione filosofica, staccandosi gradualmente dalle posizioni romantiche
della sua gioventù e avvicinandosi al movimento neoccriticistico.
L'Habilitationsschrift del 1864, dedicata a un'analisi della coscienza morale
che riflette da vicino l'insegnamento di Trendelenburg, vuol rivendicare nei
confronti dell'etica kantiana il carattere storico delle prescrizioni in cui si
esprime l’imperativo categorico, e quindi la variabilità del contenuto della
morale. In seguito, la prolusione con la quale Dilthey dà inizio nel 1867 al
suo insegnamento a Basilea (Die dichterische und philosophische Bewegung in
Deutschland 1770-1800), se da un lato pone in rilievo l’importanza del
contributo che la cultura tedesca di fine Settecento, da Lessing a Hegel, ha
dato alla comprensione delle manifestazioni storiche del mondo umano,
dall’altro fa valere l'esigenza di estendere l’indagine critica alle scienze
che studiano la realtà storico-sociale. Il saggio del 1875 riprende questi temi
impostando per la prima volta in termini espliciti il problema della fondazione
critica di queste discipline, ossia delle
scienze dello spirito . Questo problema costituisce il punto di partenza
di tutta la successiva produzione filosofica diltheyana del periodo berlinese.
Nel 1883 compare il primo (e anche unico) volume dell’Ein/eitung in die
Gersteswissenschaften (tr. it. Firenze, 1974), in cui Dilthey si propone di
rivendicare l'autonomia delle scienze storico-sociali nei confronti delle
scienze naturali, determinandone le caratteristiche specifiche e quindi le
condizioni che ne garantiscono la validità. Le scienze della natura e le
scienze dello spirito si differenziano
secondo l'analisi diltheyana in
primo luogo per il loro oggetto, in quanto le prime studiano un complesso di
fenomeni esterni all'uomo, mentre le seconde studiano invece un dominio di cui
l’uomo è parte integrante e di cui possiede una coscienza immediata. A questa
differenza di oggetto si accompagna perciò una differenza di carattere
gnoscologico, dal momento che i dati delle scienze della natura provengono
dall'osservazione esterna e i dati delle scienze dello spirito derivano, in
primo luogo, dall'esperienza interna, dall'esperienza vissuta (Er/ebnis) che
l'uomo ha di sé e dalla comprensione che può avere degli altri uomini; inoltre,
mentre le prime si propongono di fornire una spiegazione causale, le seconde si
avvalgono di categorie peculiari come quelle di significato, di scopo, di
valore ecc. Entrambi questi criteri di distinzione riconducono però a una
differenWILHELM DILTHEY 8I za di rapporto tra soggetto e oggetto: nelle scienze
della natura i due termini sono eterogenei tra loro, mentre nelle scienze dello
spirito il soggetto conoscente appartiene allo stesso mondo umano che
costituisce l'oggetto dell'indagine. Ma non soltanto il rapporto tra soggetto e
oggetto, bensì la stessa struttura del mondo umano presenta un proprio
carattere specifico. Il mondo umano ha il suo nucleo elementare, il suo
Grundkéòrper (come Dilthey lo chiama), nell’individuo, e appare costitui to da
un complesso di rapporti storicamente condizionati, dai quali sorgono i sistemi
di cultura e i sistemi di organizzazione sociale. Gli uni e gli altri devono essere
compresi nella loro esistenza storica, in quanto la struttura del mondo umano è
appunto storica. Da ciò deriva l’articolazione sistematica dell’edificio delle
scienze dello spirito. Da una parte la ricerca storica indaga le manifestazioni
del mondo umano nella loro individualità; dall’altra le discipline di tipo
generalizzante cercano di scoprire le uniformità del mondo umano. E di queste
fanno parte sia la psicologia e l’antropologia, che hanno per oggetto
l'individuo, sia le scienze dei sistemi di cultura e le scienze
dell’organizzazione esterna della società, le quali studiano rispettivamente le
forme culturali (arte, religione, filosofia, scienza ecc.) e le istituzioni
politiche, economiche, giuridiche in cui si strutturano i rapporti tra gli uomini.
L'Einleitung in die Geisteswissenschaften segna così la data d'inizio, per così
dire, del movimento storicistico tedesco. Le due direzioni di ricerca che in
essa si intrecciano, cioè l’analisi metodologica delle scienze dello spirito e
l’analisi della struttura del mondo umano come mondo storico-sociale, vengono
riprese da Dilthey in una serie di saggi successivi, particolarmente nelle
/deen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1804) e nei
Beitrige zum Studium der Individualitit (1895-96). Nel primo, partendo dalla
determinazione della struttura della vita psichica, Dilthey formula il
programma di una psicologia descrittiva e analitica che si contrappone alla
psicologia esplicativa e costruttiva di impostazione positivistica, e attribuisce
ad essa un compito di fondazione rispetto alle altre scienze dello spirito compito che verrà in seguito messo in
disparte. Nel secondo egli addita nella spiegazione e nella comprensione i
procedimenti caratteristici propri rispettivamente delle scienze della natura e
delle scienze dello spirito e, respingendo la distinzione tra scienze
nomotetiche e scienze idiografiche che Windelband aveva formulato (come
vedremo) nel 1894, determina il compito delle scienze dello spirito nello
studio dell’individuazione storica, quale essa sorge sulla base dell'uniformità
attraverso la mediazione del tipo. Negli scritti del periodo 1905-1911 (cioè,
all'incirca, del periodo successivo alla conclusione dell’insegnamento
berlinese) il problema della fondazione delle scienze dello spirito trova la
sua più matura formulazio 6. STORICISMO TEDESCO. 82 WILHELM DILTHEY ne.
Soprattutto nelle Studien zur Grundlegung der Geisteswissenchaften (1905-10),
in Der Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910) e
negli appunti manoscritti che ne costituiscono il Plan der Fortsetzung
(1910-11) Dilthey realizza nella sua forma definiti va il progetto, perseguito
fin dalla gioventù, di una critica della ragione storica (tr. it. Torino, 1954). Attraverso l’analisi
delle scienze dello spirito egli perviene a individuare il fondamento della
loro validità nel nesso tra l’Erleben (ossia il divenire della vita, di cui il
soggetto è immediatamente consapevole), l’espressione della vita e l’intendere:
la vita si realizza in un complesso di manifestazioni oggettive o di oggettivazioni che devono essere intese, cioè che devono
costituire il termine di riferimento dello sforzo umano di comprensione. La conoscenza
del mondo umano, fornita dalle scienze dello spirito, si configura pertanto
come una conoscenza dall’interno, che è opera dell’uomo stesso; però questa
conoscenza non è data immediatamente nell’introspezione, ma può essere ottenuta
soltanto attraverso lo studio dei prodotti storici dell'attività umana.
L’intendere implica un riferimento retrospettivo all’Erleben, il quale è
mediato dall'espressione; esso esprime la consapevolezza dello scaturire di
tutte le manifestazioni storiche dal processo produttivo della vita. D'altra
parte il mondo umano si configura come l’oggettivazione dello spirito, cioè
come spirito oggettivo anche se in senso ben diverso da quello
hegeliano. E l’analisi di questa struttura pone in luce che ogni fenomeno del
mondo umano è una connessione dinamica, la quale produce valori e realizza
scopi, avendo il proprio centro in se stessa. Di tale specie sono non soltanto
i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale, ma anche le epoche
storiche, le quali si differenziano per i loro valori e fini particolari e sono
caratterizzate ognuna da un proprio orizzonte; cosicché ogni epoca deve essere
compresa in base al suo sistema di valori, il quale costituisce il criterio di
valutazione di ogni sua manifestazione. Attraverso quest'analisi della
struttura del mondo umano Dilthey perviene, negli scritti del periodo
1905-1911, a riconoscerne la fondamentale storicità: già l'individuo in quanto
tale è un essere storico, e storicamente condizionati sono tutti i fenomeni del
mondo umano. La critica della ragione storica sfocia così in una critica storica
della ragione, vale a dire in una filosofia dell’uomo come essere
storico. La storicità del mondo umano coinvolge la stessa filosofia, che
risulta qualificata come una forma particolare di intuizione del mondo. Nel
saggio Das Wesen der Philosophie (1907; tr. it. Torino, 1954) e negli altri due
saggi dedicati al medesimo tema, Das geschichtliche Bewusstscin und die
Weltanschauungen e Dice Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den
metaphysischen Systemen, Dilthey ha definito il rapporto tra filosofia e
intuizione del mondo. Arte, religione e filosofia sono tutti e tre modi di
esprimere un'’intuizione del mondo che non è soltanto una forma di conoscenza
della realtà, ma anche un complesso di valori, di fini e di regole di condotta,
ossia un atteggiamento di fronte alla vita; e la filosofia si
distinguedall’artee dalla religione per la sua aspirazione a una validità
incondizionata un’aspirazione che è però
contraddetta dalla coscienza storica, la quale pone in luce il condizionamento
storico di tutte le dottrine filosofiche. Su questa base Dilthey individua le
forme tipiche di intuizione del mondo (e quindi anche di filosofia) nel
naturalismo, nell’idealismo oggettivo e nell’idealismo della libertà, e
interpreta la storia della filosofia come una lotta tra questi tre tipi
ricorrenti. Tra la pretesa di validità incondizionata della filosofia e la
coscienza storica si determina quindi un’antinomia, la quale trova la propria
soluzione in una filosofia della
filosofia intesa come indagine critica
sulla possibilità e sui limiti della filosofia. Essa deve porre in luce il
carattere illegittimo della pretesa metafisica di offrire una spiegazione
globale della realtà, e richiamare la ricerca filosofica alla consapevolezza
della propria relatività storica. Questa concezione della filosofia e della sua
storia ispira anche le numerose opere di storiografia filosofica a cui Dilthey
ha dedicato gran parte della sua attività. Dai primi studi su alcune figure del
mondo culturale romantico e dalla biografia di Schleiermacher egli è venuto
allargando il proprio campo di ricerca al Rinascimento, alla Riforma,
all’Illuminismo, per poi ritornare all’analisi del Romanticismo tedesco e
dell’idealismo post-kantiano. Un primo gruppo di saggi, pubblicati per la
maggior parte negli anni 1891-94 e quindi raccolti sotto il titolo generale
Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation (tr.
it. Firenze, 1927), è dedicato al Rinascimento e alla Riforma, nonché al
processo di fondazione del sistema
naturale delle scienze dello spirito nel
secolo xvi. Un secondo gruppo concerne invece la cultura filosofica del
Settecento, con particolare riguardo a Leibniz e a Federico Il: particolarmente
importante tra di essi è quello dedicato alla concezione illuministica della
storia, Das achtzehnte Jahr hundert und die geschichiliche Welt (1901; tr. it.
Milano, 1967). Un terzo gruppo riguarda invece gli aspetti poetici e musicali
della cultura romantica tedesca, considerati nel loro rapporto con l'intuizione
del mondo propria del Romanticismo: essi sono raccolti in Das Erlebnis und die
Dichtung (Leipzig, 1906; tr. it. Milano, 1947) e nel volume postumo Von
deutscher Dichtung und Musik (Leipzig, 1933). A questo filone di studi si
collega l’ultimo dei lavori storici di Dilthey, cioè l'ampia biografia del
giovane Hegel tracciata in Die Jugendgeschichte Hegels (1905-6), nella quale la
formazione del pensiero hegeliano viene studiata nei suoi 84 WILHELM DILTHEY
legami con l’ambiente culturale del Romanticismo tedesco e indagata nei suoi
motivi teologici . Al centro di tutti
questi scritti sta la connessione tra la filosofia e l'intuizione del mondo
propria delle varie epoche, analizzata nel ripresentarsi di certe posizioni
fondamentali corrispondenti ai vari tipi
di intuizione del mondo che fanno della
successione delle diverse dottrine un processo storico unitario. Le opere di
Dilthey sono state raccolte nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa
editrice Teubner in undici volumi (vol. IIX e XI-XII) dal 1914 al 1936. Dopo la
guerra, la casa Vandenhoeck und Ruprecht di Géttingen ha ristampato più volte
le opere di Dilthey, aggiungendovi nuovi volumi: la raccolta è tuttora da
completare. Il primo volume (a cura di B. Groethuysen) comprende l'Einlcitung
in die Geisteswissenschaften; il secondo (a cura di G. Misch) racchiude gli
studi sul Rinascimento e sulla Riforma, sotto il titolo Weltanschauung und
Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation; il terzo (a cura di P.
Ritter) raccoglie gli studi sull’età di Leibniz, sull'età di Federico il Grande
e il saggio Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt, sotto il
titolo Studien zur Geschichte des deutschen Geistes; il quarto (a cura di H.
Nohl) comprende la Jugendgeschichte HRegels und andere Abhandlungen zur Geschichte
des deutschen Idealismus; il quinto e il sesto (a cura di G. Misch, che vi ha
premesso un ampio e importante Vorbericht) raccolgono, sotto il titolo
complessivo Die geistige Welt: Einleitung in die Philosophie des Lebens, alcuni
saggi fondamentali tra cui Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften
vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, i Beitrige zur Lòsung der Frage
vom Ursprung unseres Glaubens an die Realitàt der Aussenwelt und seinem Recht,
le Ideen iiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, i Beitrige zum
Studium der Individualitit, Das Wesen der Philosophie, nonché diversi altri
saggi di poetica e di estetica; il settimo (a cura di B. Groethuysen)
racchiude, sotto il titolo Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften, le tre Studien zur Grundlegung der
Geisteswissenschaften, l'ampio saggio che dà il titolo al volume e il relativo
Plan der Fortsetzung; l'ottavo (a cura di B. Groethuysen) comprende i saggi
dedicati alla Weltanschauungslehre, e cioè Das geschichtliche Bewusstsein und
die Weltanschauungen e Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den
metaphysischen Systemen; il nono (a cura di O. F. Bollnow) è dedicato alla
Pidagogik; il decimo (a cura di H. Nohl, e apparso nel 1958) racchiude il
System der Ethik; l'undicesimo (a cura di E. Weniger) raccoglie, sotto il
titolo complessivo Vom Ausgang des geschichtlichen Bewusst86 WILHELM DILTHEY
sein, numerosi saggi giovanili su storici tedeschi dell'Ottocento; il
dodicesimo (a cura di E. Weniger) comprende vari saggi Zur politischen
Geschichte, a cui fa seguito l'elenco completo degli scritti di Dilthey fino al
1883 (pp. 208-12); il quattordicesimo (a cura di M. Redeker, e apparso nel
1966, su licenza dell’editore de Gruyter) contiene il vol. II del Leben
Schleiermachers; il sedicesimo (a cura di U. Herrmann, e apparso nel 1972)
raccoglie, sotto il titolo complessivo Zur Geistesgeschichte des 19.
Jahrhunderts, una serie di articoli e di recensioni del periodo 1859-74.
Rimangono al di fuori delle Gesammelte Schriften i seguenti volumi, già
menzionati nella nota biografica: Der junge Dilthey. Ein Lebensbild in Briefen
und Tagebiichern (1852-1870), Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 1960?; Das
Erlebnis und die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1906, 1907”, 1g1o3, e Géttingen,
1965 4; Von deutscher Dichtung und Musik, Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen,
19572. Il Leben Schleiermachers è stato completato con la pubblicazione del
secondo volume, Schleiermachers System als Philosophie und Theologie (a cura di
M. Redeker), Berlin, 1966; lo stesso Redeker ha in seguito dato una nuova
edizione critica del primo volume, Berlin, 1970? Rimangono inoltre al di fuori
delle Gesammelte Schriften varie raccolte di lettere, e precisamente: il
Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von Wartenburg
(1877-1897), Halle, 1923; i Briefe Wilhelm Diltheys an Beyrnhardt und Luise
Scholz (1859-1864), Sitzungsberichte der
Preussischen Akademie der Wissenschaften , Philosophisch-historische Klasse,
1933, n. 10, pp. 416-71; i Briefe Wilhelm Diltheys an Rudolf Haym
(1861-1873), Abhandlungen der
Preussischen Akademie der Wissenschaften , Berlin, 1936. Si veda inoltre W.
Biemel, Einleitende Bemerkung zum Briefwvechsel Dilthey-Husserl, Man-World , I, 1968, pp. 428-46. Tra l'ormai
vasta letteratura critica dedicata all'opera e al pensiero di Dilthey
segnaliamo gli studi seguenti: B. GroetHursen, Wilhelm Dilthey, Deutsche Rundschau , CLIV, n. 4, 1913, pp.
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col titolo Der Begriff des Verstehen bei Dilthey, Tiibingen, 1926. B.
ScHarpnact, Diltheys Verhdltnis zur Geschichte, Berlin, 1927. L. Lanporese,
Wilhelm Diltheys Theorie der Geisteswissenchaften, Halle, 1928. G. MiscH,
Lebensphilosophie und Phinomenologie. Eine Auscinandersetzung der Diltheyschen
Richtung mit Heidegger und Husserl, Bonn, 1930, e Leipzig-Berlin, 1931, infine
Stuttgart, 1967?. WILHELM DILTHEY 87 K. Karsuse, Wilhelm Diltheys Methode der
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Leipzig-Berlin, 1934. J. Hennic, Lebensbegriff und Lebenskategorie. Studien zur
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besonderer Beriicksichtigung Wilhelm Diltheys, Aachen, 1934. J. StenzeL,
Dilthey und die deutsche Philosophie der Gegenwart, Philosophische Vortrige der Kant-Gesellschaft
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Geistesgeschichte, Deutsche
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la comprensione del mondo umano, Milano, 1965. P. Gorsen, Zur Phinomenologie
des Bewusstseinsstroms. Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel und die
lebensphilosophischen Antinomien, Bonn, 1966. P. Hiunermann, Der Durchbruch
geschichtlichen Denkens im 19. Jahrhundert: Johann Gustav Droysen, Wilhelm
Dilthey, Graf Paul Yorck von Wartenburg, Freiburg i.B., 1967. G. Catasrò, Dilthey e il diritto naturale,
Napoli, 1968. P. Krausser, Kritik der endlichen Vernunft. Wilhelm Diltheys Revolution der
allgemeinen Wissenschaftsund Handlungstheorie, Frankfurt a.M., 1968. R.E.
Parmer, Hermeneutics: Interpretation Theory in Schleiermacher, Dilthey,
Heidegger and Gadamer, Evanston (IIl.), 1969. F. Robi, Morphologie und Hermeneutik.
Zur Methode von Diltheys Asthetik, Stuttgart, 1969. WILHELM DILTHEY 89 H. N.
TurtLe, Wilhelm Dilthey's Philosophy of Historical Understanding, Leiden, 1969.
F. Branco, Dilthey e
Schleiermacher, Proteus , I, 1970, pp.
87-133, poi raccolto nel volume Storicismo ed ermeneutica, Roma, 1974, pp.
77-123. G. Marini, Dilthey e il giovane Hegel, nel volume Incidenza di Hegel (a
cura di F. Tessitore), Napoli, 1970, pp. 793-841. F. Branco, Dilthey e la
genesi della critica storica della ragione, Milano, 1971. U. Hernmanw, Die
Pédagogik Wilhelm Diltheys, Gòttingen, 1971. G. Marini, Dilthey filosofo della
musica, Napoli, 1973. Un'ampia bibliografia si trova in F. Diaz pe Cerro Ruiz,
W. Dilthey y el problema del mundo histérico, cit., pp. xrx-Lv. Del medesimo
autore si veda però ora il saggio Bibliografia de W. Dilthey, Pensamiento , XXIV, 1968, pp. 195-258. Ma il
lavoro più completo è quello di U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Diltheys:
Quellen und Literatur, Wernheim/Bergstr.-Berlin-Basel, 1969. SCIENZE DELLO
SPIRITO E SCIENZE DELLA NATURA * I. LE SCIENZE DELLO SPIRITO: UN COMPLESSO
AUTONOMO ACCANTO ALLE SCIENZE DELLA NATURA Il complesso delle scienze che hanno
come loro oggetto la realtà storico-sociale viene qui compreso sotto la
designazione di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtù
del quale esse costituiscono un complesso unitario, e la delimitazione di tale
complesso nei confronti delle scienze della natura potranno essere spiegati e
fondati in maniera definitiva soltanto nel corso dell’analisi; all'inizio ci
limitiamo a stabilire il significato in cui impiegheremo l’espressione e a
indicare provvisoriamente l'insieme dei fatti sul quale si fonda la
delimitazione di tale complesso unitario delle scienze dello spirito nei
confronti delle scienze della natura. L’uso linguistico comprende sotto il nome
di scienza un insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, cioè
perfettamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensiero e
forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in cui infine le
parti sono reciprocamente connesse in una totalità allo scopo di poter
comunicare, cosicché un elemento della realtà può essere concepito nella sua
compiutezza in virtù di questa connessione di proposizione oppure un ramo
dell'attività umana può esser regolato in base ad essa. Indichiamo perciò *
Einleitung in die Geisteswissenschaften, libro I: Ubersicht tiber den
Zusammenhang der Einzelwissenschaften des Geistes, Leipzig, Duncker und
Humblot, 1883, capitoli u-vir, pp. 5-35, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig
und Berlin, vol. I, 1914, PP. 4-28 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro
Rossi). qui col termine scienza ogni insieme di fatti spirituali in cui si
ritrovano le caratteristiche sopra indicate e a cui dunque generalmente viene
applicato il nome di scienza: in modo corrispondente presentiamo
provvisoriamente il nostro compito. Questi fatti spirituali, quali si sono
storicamente sviluppati nell’umanità, e ai quali è stata tramandata secondo un comune uso linguistico la denominazione di scienze dell’uomo, della
storia, della società, costituiscono realtà che noi non vogliamo dominare, ma
anzitutto comprendere. Il metodo empirico esige che anche in questo settore
delle scienze venga determinato in modo storico-critico il valore dei singoli
procedimenti di cui il pensiero qui si serve per la soluzione dei suoi compiti,
e che venga chiarita, nell’intuizione di questo grande processo che ha per
soggetto l’umanità stessa, la natura del sapere e del conoscere relativi a
questo campo. Un tale metodo sta in antitesi a quell'altro di recente troppo di frequente praticato dai
cosiddetti positivisti che deriva il
contenuto del concetto di scienza da una determinazione concettuale del sapere
sorta per lo più sul terreno delle attività proprie delle scienze della natura,
e che in base ad essa decide quali siano le attività intellettuali a cui spetta
il nome e il rango di scienza. In tal modo alcuni, prendendo le mosse da un
concetto arbitrario di sapere, hanno con miopia e presunzione negato alla
storiografia, qual è stata praticata da grandi maestri, il rango di scienza;
altri hanno creduto di dover trasformare in conoscenza della realtà quelle
scienze che hanno a loro fondamento imperativi, e non già giudizi sulla realtà.
L'insieme dei fatti spirituali che ricadono sotto questo concetto di scienza
viene di solito suddiviso in due rami. L’uno è designato col nome di scienza naturale ; per quanto riguarda
l’altro non si dispone, abbastanza stranamente, di una designazione
universalmente riconosciuta. Aderisco qui all’uso linguistico di quegli
studiosi che indicano quest'altra metà del globus intellectualis con
l’espressione di scienze dello spirito. Da una parte questa designazione è
diventata e non poco lo deve all’ampia
diffusione del System of Logic di John Stuart Mill! abituale e universalmente intelligibile.
D’al1. Il System of Logic, Ratiocinative and Inductive di Mill tra parte,
confrontata con tutte le altre designazioni inadeguate tra cui è possibile
scegliere, essa appare la meno impropria. ‘È pur vero che essa esprime molto
incompiutamente l’oggetto di questo studio, giacché in esso i fatti della vita
spirituale non sono separati dalla vivente unità psico-fisica della natura
umana. Una teoria che voglia descrivere e analizzare i fatti storico-sociali
non può prescindere da questa totalità della natura umana e limitarsi
all'elemento spirituale. Ma l’espressione ha in comune questo difetto con tutte
le altre che si sono applicate: scienza della società (sociologia), scienze
morali, scienze storiche, scienze della cultura
tutte queste designazioni soffrono del medesimo errore, di essere cioè
troppo ristrette in rapporto all’oggetto che devono esprimere. Il nome che qui
si è scelto ha per lo meno il vantaggio di designare adeguatamente l'ambito
centrale di fatti a partire dal quale è stata vista in realtà l’unità di queste
scienze, abbozzato il loro ambito, compiuta
benché ancora in maniera assai incompleta la loro delimitazione rispetto alle scienze
della natura. Il motivo di cui è derivata l’abitudine di delimitare queste scienze
rispetto a quelle della natura, intendendole come una unità, è radicato nella
profondità e nella totalità dell’autocoscienza umana. Ancor prima di procedere
a indagini sull’origine del mondo spirituale, l’uomo trova in questa
autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni,
una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella libertà
della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli si
ritrova infatti, in questa natura per
impiegare un'espressione spinoziana come
un Imperium in imperio®. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fata.
Pascal esprime in modo molto geniale questo sentimento della vita nelle
Pensées: Tutte queste miserie provano la
sua grandezza: sono miserie da gran signore, miserie di un re spodestato (I, 3).
Noi abbiamo fu pubblicato a Londra nel 1843 e tradotto in tedesco da I.
Schiel nel 1849. Questa traduzione utilizza appunto il termine
Geistessvissenschaften per rendere l'espressione milliana moral sciences: così,
per esempio, il titolo del sesto libro (On the Logic of Moral Sciences) risulta
tradotto Logik der Geisteswissenschaften. Dilthcy fa ricorso per la prima volta
al termine Geistestvissenschaften proprio in riferimento a Mill, nel saggio
Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der
Gesellschaft und dem Staat (1875), ora raccolto in Gesammelte Schriften, vol.
V, pp. 31-73. 94 WILHELM DILTHEY to della sua coscienza, ogni valore e ogni
scopo della vita risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in
maniera autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione di
fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un regno della
storia, nel quale in mezzo alla connessione
di una necessità oggettiva, che costituisce la natura la libertà emerge in innumerevoli punti. In
antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il quale già contiene fin
dall’inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono
realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro sacrifici, del
cui significato l'individuo è consapevole nella propria esperienza; essi
suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia nell’umanità attraverso e oltre la vuota e desolata ripetizione
del corso della natura nella coscienza, della cui rappresentazione come ideale
di progresso storico si compiacciono gli adoratori dello sviluppo
intellettuale. Invano l’epoca metafisica, per la quale questa differenza nelle
basi di spiegazione si configurava immediatamente come una differenza
sostanziale inerente alla struttura dell’universo, ha lottato per stabilire e
giustificare formule in vista della fondazione di questa differenza dei fatti
della vita spirituale da quelli del corso naturale. Tra tutte le trasformazioni
che la metafisica antica ha conosciuto presso i pensatori medievali, nulla è
stato più ricco di conseguenze del fatto che in questo periodo, in connessione
con tutti i movimenti religiosi e teologici dominanti in cui erano inseriti
questi pensatori, s’introdusse nel nucleo centrale del sistema la
determinazione della differenza tra mondo degli spiriti e mondo dei corpi, e
quindi la relazione di entrambi questi mondi con la divinità. La principale
opera metafisica del Medioevo, la Summa de veritate catholicae fidei di
Tommaso, abbozzaa partire dal secondo libro
una struttura del mondo creato in cui l’essenza (essentia quidditas) è
distinta dall’essere (esse), mentre in Dio i due momenti sono una sola cosa*.
Essa dimostra che nella gerarchia del un'idea così grande dell'anima umana che
non possiamo sopportare di esserne disprezzati, di non esserne stimati (I, 5) (Oeuvres complètes, Paris, 1866, vol.
I, pp. 248-49). a. Summa contra Gentiles, libro I, cap. xxt1; cfr. pure libro
II, cap. LIV. WILHELM DILTHEY 95 creato c'è un elemento necessario superiore,
costituito dalle sostanze spirituali che non risultano dall’unione di forma e
materia ma sono incorporee per sé gli
angeli e dalle quali si distinguono le
sostanze intellettuali o forme incorporee che, per il completamento della loro
specie (cioè della specie uomo ),
abbisognano dei corpi. Su tale base essa elabora in polemica con la filosofia
araba una metafisica dello spirito umano
la cui influenza può venir seguita fino agli ultimi scrittori metafisici nei
giorni nostri*; da questo mondo di sostanze imperiture si distingue la parte
del creato che ha la propria essenza nell’unione di forma e materia. Questa
metafisica dello spirito (psicologia razionale) fu posta poi da altri eminenti
metafisici in relazione con la concezione meccanicistica della natura e con la
filosofia corpuscolare, non appena queste ultime diventarono dominanti. Ma ogni
tentativo di elaborare sul fondamento di questa dottrina delle sostanze, e con
i mezzi della nuova concezione della natura, una rappresentazione sostenibile
dei rapporti tra spirito e corpo naufragò. Quando Descartes sviluppò sulla base
delle proprietà chiare e distinte dei corpi in quanto grandezze spaziali la sua
rappresentazione della natura come un immenso meccanismo, considerando costanti
le grandezze di movimento presenti in questo complesso, si introdusse nel
sistema insieme con l’ipotesi che una
sola anima imprime dall’esterno un movimento in questo sistema materiale la contraddizione. L’impossibilità di
rappresentare un'influenza da parte di sostanze non-spaziali su questo sistema
esteso non veniva certo diminuita dal fatto che Descartes raccolse in un punto
il luogo spaziale di tale azione reciproca
come se potesse con ciò far scomparire la difficoltà. L’avventurosità
della concezione secondo cui la divinità sorreggerebbe con ripetuti interventi
questo gioco di azioni reciproche, oppure di quell’altra, secondo cui invece
Dio avrebbe, come il più abile degli artefici, predisposto fin dall’inizio i
due orologi del sistema materiale e del mondo degli spiriti in modo tale che un
avvenimento naturale produca una sensazione e un atto di volontà realizzi una
trasformazione del mondo esterno, dimostrano nel modo più chiaro
l’inconciliabilità della nuova metafisica della natura con a. Summa contra
Gentiles, libro II, cap. xvi. la precedente metafisica delle sostanze
spirituali. Cosicché tale problema operò come pungolo sempre stimolante,
favorendo la dissoluzione del punto di vista metafisico in generale. Questa
dissoluzione si completerà nella conoscenza
che si svilupperà più tardi che
l’Erlebnis dell’autocoscienza è il punto di partenza del concetto di sostanza,
che questo concetto sorge dall’adattamento di tale Erlebris alle esperienze
esterne prodotto dal conoscere che
procede secondo il principio di ragion sufficiente e che in tal modo questa dottrina delle
sostanze spirituali altro non è che un riportare il concetto, formatosi in tale
metamorfosi, all’ErleBnis entro cui era originariamente dato il suo
presupposto. In luogo dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze
spirituali subentrò quella tra il mondo esterno dato nella percezione esterna
(sensation) mediante i sensi, e mondo interiore, dato primariamente in virtù
dell’apprendimento interno degli eventi e delle attività psichiche
(reffection)?. Il problema assume in tal modo un aspetto più modesto, che
implica però la possibilità di un'impostazione empirica. Di fronte al nuovo e
migliore metodo si fanno ora valere gli Erlebrisse che avevano trovato
un'espressione scientificamente insostenibile nella dottrina delle sostanze
propria della psicologia razionale. Per la costituzione in forma autonoma delle
scienze dello spirito occorre anzitutto che
in base a questo punto di vista critico
da quei processi i quali sono formati mediante un collegamento
concettuale sulla base del dato sensibile, e soltanto di questo, si
distinguano, come un ambito particolare di fatti, quegli altri processi che
sono invece dati primariamente nell’esperienza interna, cioè senza alcuna
cooperazione dei sensi, e sono quindi formati sulla base del materiale
dell’esperienza interna, dato in modo primario, in occasione di processi
naturali esterni, per esser sottoposti a questi mediante un procedimento
equivalente, per la sua funzione, al ragionamento analogico. Nasce così un
particolare dominio di esperienze che ha la sua origine autonoma e il suo
materiale nell’Erlebnis interiore, e che diventa quindi spontaneamente oggetto
di una partico2. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra sensazione e riflessione
formulata da Locke. WILHELM DILTHEY 97 lare scienza di esperienza. E finché
qualcuno non asserirà di essere in grado di derivare dalla struttura del
cervello di Goethe e dalle qualità del suo corpo e di rendere così meglio conoscibile l'insieme di passioni, di figure poetiche e
di invenzione concettuale che noi indichiamo come la vita di Goethe, non sarà
neppure contestata la posizione autonoma di una scienza siffatta. Orbene, ciò
che per noi qui esiste, ed esiste in virtù di questa esperienza interna, ciò
che per noi ha valore o costituisce uno scopo ci è dato soltanto nell’Er/ebnis
del nostro sentimento e della nostra volontà: in questa scienza sono così
contenuti i princìpi del nostro conoscere, che determinano in quale misura la
natura può esistere per noi, e i princìpi del nostro agire, che spiegano
l’esistenza di scopi, di beni, di valori su cui è fondato ogni commercio
pratico con la natura. Una fondazione più approfondita della posizione autonoma
delle scienze dello spirito accanto alle scienze della natura, che costituisce
qui il nucleo della costruzione delle scienze dello spirito, sarà compiuta più
avanti, gradualmente, nella misura in cui si procederà nell’analisi
dell’Erlebnis complessivo del mondo spirituale nella sua incomparabilità con
ogni esperienza sensibile concernente la natura. Mi limito qui a chiarire il
problema, facendo cenno al duplice senso in cui si può asserire
l’incompatibilità dei due ambiti di fatti: corrispondentemente, anche il
concetto dei limiti della conoscenza della natura acquista un duplice
significato. Uno dei nostri maggiori scienziati ha intrapreso la determinazione
di questi limiti in un trattato assai discusso, e ha di recente illustrato
questa determinazione dei limiti della sua scienza®. Supponiamo di aver tutte
le trasformazioni del mondo corporeo in movimenti di atomi, causati dalle loro
forze centrali costanti: in questo caso la totalità del mondo sarebbe
conosciuta in base alle scienze della natura.
Uno spirito a. E. Du
Bors-ReyMonp, Uber die Grenzen des Naturerkennens, Leipzig, 4° ed. 1872: dello
stesso autore si veda pure Die sieben Weltritsel, Berlin, 18813. 3. Emil Du
Bois-Reymond (1818-1896), fisiologo positivista, autore delle due opere citate
da Dilthey, sostenne l'impossibilità per l’uomo di risolvere gli enigmi trascendenti
e la necessità di attenersi al principio dell’ignorabimus. egli prende
le mosse da quest'immagine di Laplace
che per un dato istante conoscesse tutte le forze operanti della natura,
e la reciproca posizione degli esseri di cui essa consta, € che inoltre fosse
anche abbastanza sapiente da sottomettere ad analisi questi dati, sarebbe in
grado di comprendere in una medesima formula i movimenti dei massimi corpi
celesti come dell’atomo più leggero ®.
Siccome l'intelligenza umana nella scienza astronomica è una debole copia di uno spirito di tal fatta, Du
Bois-Reymond indica la conoscenza di un sistema materiale prospettata da
Laplace come conoscenza astronomica. Partendo da tale immagine si approda di
fatto a una concezione assai chiara dei limiti entro cui è racchiusa la
tendenza dello spirito proprio delle scienze naturali. Ci sia ora concesso di
introdurre in questa considerazione del problema una distinzione relativa al
concetto di limite della conoscenza naturale. Dal momento che la realtà, in
quanto correlato dell’esperienza, ci è data nella cooperazione della struttura
dei nostri sensi con l’esperienza interna, dalla differenza di provenienza dei
suoi elementi costitutivi che ne deriva scaturisce un'incomparabilità tra gli
elementi del nostro calcolo scientifico, la quale esclude la derivazione dei
fatti di una determinata provenienza da quelli di provenienza diversa. Dalle
qualità dell'elemento spaziale perveniamo così attraverso la fatticità del
senso del tatto nel quale viene esperita
la resistenza alla rappresentazione
della materia; ogni senso è racchiuso entro il suo specifico ambito di qualità;
e se dobbiamo apprendere uno stato della coscienza in un momento determinato,
siamo costretti a passare dalla sensibilità alla percezione degli stati
interni. Pertanto noi possiamo soltanto accogliere i dati nell’incomparabilità
in cui essi si presentano a seguito dela. P. S. LarLace, Essai philosophique
sur les probabilités, Paris, 1814, p. 3°. 4. Pierre-Simon Laplace (1749-1827), matematico e
astronomo francese, autore dell'Exposition du système du monde (1796), del
Traité de mécanique céleste (1798-1825), della TAéorie analytique des
probabilités (1812) e del saggio citato da Dilthey, diede un contributo
decisivo alla formulazione della teoria
già enunciata da Kant
dell'origine del sistema solare da una massa gassosa. L'Essai sviluppa
le implicazioni filosofiche del calcolo delle probabilità. la loro diversa
provenienza; la loro esistenza di fatto rimane per noi priva di giustificazione;
ogni nostro conoscere è limitato alla constatazione di uniformità nella
successione e nella contemporaneità, secondo le quali esse sono in relazioni
reciproche nella nostra esperienza. Si tratta di limiti inerenti alle
condizioni stesse del nostro esperire, cioè di limiti che sussistono in ogni
punto della scienza della natura, non già di barriere esterne in cui urti la
conoscenza della natura, bensì di condizioni immanenti allo stesso esperire. La
presenza di questi confini immanenti della conoscenza non costituisce però
impedimento alcuno per la funzione del conoscere. Se col termine comprendere si
designa una completa trasparenza nell’apprendimento di una connessione, allora
ci troviamo di fronte a barriere contro cui urta il comprendere. Ma, sia che la
scienza sottometta al suo calcolo, riconducendo i mutamenti della realtà a
movimenti di atomi, delle qualità oppure dei fatti della coscienza sempre che questi si lascino sottomettere l’inderivabilità non costituisce impedimento
alcuno alle sue operazioni. È tanto poco possibile trovare un passaggio da una
determinatezza meramente matematica o da una grandezza di movimento a un colore
o a un suono, quanto a un evento della coscienza: non posso spiegare la luce
azzurra mediante il corrispondente numero di oscillazioni più di quel che possa
spiegare il giudizio negativo mediante un processo che accade nel cervello.
Come la fisica cede alla fisiologia il compito di spiegare la qualità sensibile
dell’ azzurro , così la fisiologia che
nel movimento di parti materiali non possiede neppur essa un mezzo per far
apparire d’incanto l'azzurro trasmette
alla psicologia il suo compito, che rimane in definitiva, come in un gioco di
specchi magici, affidato alla psicologia. Ma l’ipotesi che le qualità sorgano
dal processo della sensazione è di per sé solamente un mezzo ausiliario di
calcolo, che riconduce le trasformazioni della realtà quali si dànno nella mia esperienza a una certa classe di trasformazioni al suo
interno che costituisce un contenuto parziale della mia esperienza, per poterle
collocare in certo modo su uno stesso piano a scopo di conoscenza. Se fosse
possibile sostituire a fatti definiti in maniera determinata, che nel contesto
della considerazione meccanicistica della natura occupano un posto stabilito,
fatti di coscienza definiti in modo costante e determinato, e con ciò
stabilire conformemente al sistema di
uniformità in cui si trovano i primi il
presentarsi dei processi della coscienza in un accordo completo con
l’esperienza, allora questi fatti di coscienza sarebbero inseriti nella
connessione della conoscenza naturale allo stesso modo di un qualsiasi suono o
colore. Ma proprio a questo punto l’incomparabilità tra processi materiali e
processi spirituali assume un diverso senso, e pone alla conoscenza naturale
limiti di tutt'altro genere. L’impossibilità di derivare i fatti spirituali da
quelli dell'ordine meccanico della natura, che si fonda sulla diversità della
loro provenienza, non impedirebbe l’inserimento dei primi nel sistema dei
secondi. Soltanto quando le relazioni tra i fatti del mondo spirituale si
presentano incomparabili nella loro specie con le uniformità della natura,
viene esclusa una subordinazione dei fatti spirituali a quelli accertati dalla
conoscenza meccanica della natura: infatti qui non ci si trova di fronte a
confini immanenti al conoscere empirico, bensì a limiti in cui la conoscenza
naturale finisce e ha invece inizio un’autonoma scienza dello spirito, che si
costituisce intorno a un proprio centro. Il problema fondamentale consiste
pertanto nello stabilire quella data specie di incomparabilità tra le relazioni
dei fatti spirituali e le uniformità dei processi materiali che esclude la
subordinazione dei primi e una loro interpretazione come qualità e aspetti
della materia, e che dev'essere di tutt’altro genere della differenza
sussistente tra i diversi ambiti particolari di leggi della materia così come queste si presentano nella
matematica, nella fisica, nella chimica e nella fisiologia, sotto forma di un
rapporto di subordinazione che si sviluppa in modo coerente. L’esclusione dei
fatti spirituali dalla connessione della materia, delle sue qualità e delle sue
leggi presupporrà sempre un contrasto che si manifesta, in qualsiasi tentativo
di subordinazione siffatta, tra le relazioni dei fatti di un campo e quelle di
un altro. E ciò appare chiaro quando l'incomparabilità della realtà spirituale
viene ricondotta ai fatti dell’autocoscienza e dell’unità della coscienza ad
essa inerente, alla libertà e ai fatti della vita normale ad essa collegati, in
antitesi all’organizzazione spaziale e alla divisibilità della materia nonché
alla necessità meccanica a cui soggiace il comportamento di ogni sua parte.
Vecchi WILHELM DILTHEY IOI quasi quanto la riflessione rigorosa sulla posizione
dello spirito rispetto alla natura sono i tentativi di formulare questo tipo di
incomparabilità dell’elemento spirituale con qualsiasi ordine naturale, sulla
base dei fatti dell’unità della coscienza e della spontaneità del volere. Nella
misura in cui nell'esposizione di questo illustre scienziato viene introdotta
la distinzione tra i confini immanenti dell’esperire e i limiti della
subordinazione dei fatti alla connessione della conoscenza naturale, i concetti
di limite e di inesplicabilità acquistano un senso esattamente definibile, e
scompaiono quindi difficoltà che si sono fatte ampiamente rilevare nella
polemica intorno ai limiti della conoscenza naturale provocata da questo
scritto. L'esistenza di confini immanenti all’esperienza non è affatto decisiva
rispetto alla questione riguardante la subordinazione di fatti spirituali alla
connessione della conoscenza della materia. Se ci si propone come nel caso di Haeckel5 e di altri
scienziati di inserire i fatti
spirituali nella connessione della natura, assumendo l’esistenza di una vita
psichica negli elementi in base ai quali si costituisce l'organismo, tra un
tentativo del genere e la conoscenza dei confini immanenti di ogni esperienza
non sussiste assolutamente alcun rapporto di esclusione; su di esso decide
soltanto il secondo tipo di indagine sui limiti del conoscere naturale. Per
questo anche Du Bois-Reymond ha proseguito nel secondo tipo di indagine, e
nella sua dimostrazione si è servito dell’argomento dell’unità della coscienza
così come dell’argomento della spontaneità del volere. La dimostrazione della
tesi che gli elementi spirituali non possono mai essere compresi sulla base
delle Ioro condizioni materiali ° viene condotta come segue. Anche nel caso di
una conoscenza compiuta di tutte le parti del sistema materiale, della loro
reciproca posizione e del loro movimento, a. E. Du Bors-RexMonD, op. cit., p.
28. 5. Ernest Heinrich Hacckel (1834-1919), biologo e filosofo positivista,
autore di numerose opere di argomento zoologico e di una Generelle Morphologie
der Organismen (1866), nonché di vari volumi sulla teoria dell'evoluzione, fu
uno dei maggiori esponenti del darwinismo in Germania. Il libro Die Welrétse!
(1899), scritto in polemica con Du Bois-Reymond, rappresenterà un tentativo di
risposta in chiave positivistica a quelli che Du Bois-Reymond aveva indicato
come gli enigmi insolubili del mondo. rimane però del tutto incomprensibile
perché a un certo numero di atomi di carbonio, d’idrogeno, di azoto, di
ossigeno, non dovrebbe essere indifferente in qual modo essi sono collocati e
si muovono. L'impossibilità di spiegare l'elemento spirituale rimane tuttavia
immutata anche se ognuno di questi elementi è corredato di coscienza al pari
delle monadi; in base a quest’ipotesi non si può spiegare la coscienza unitaria
dell’individuo*. a. E. Du Bois-RerMonD, op. cit., pp. 29-30; cfr. anche Die
sieben Weltritsel cit., p. 7. Quest'argomentazione ha del resto valore
conclusivo soltanto se alla meccanica atomistica si attribuisce una validità per
così dire metafisica. Alla sua storia, accennata da Du Bois-Reymond, si può
avvicinare anche la formulazione che troviamo nel classico della psicologia
razionale, Moses Mendelssohn? Leggiamo per esempio in Schriften, Leipzig, 1880,
vol. I, p. 277: 1) Tutto quanto
distingue il corpo umano da un blocco di marmo può essere ricondotto a
movimento. Ma il movimento non è altro che il mutamento del luogo o della
posizione. È evidente che tutti i mutamenti di luogo possibili al mondo, per
quanto possano essere raccolti insieme, non comportano affatto la percezione di
questi mutamenti di luogo. 2) Tutta la
materia è costituita da più parti. Se le singole rappresentazioni fossero
isolate nelle parti dell'anima così come gli oggetti lo sono nella natura, non
si incontrerebbe mai la totalità. Noi non potremmo paragonare tra loro le
impressioni dei vari sensi, confrontare le rappresentazioni, percepire
rapporti, riconoscere relazioni. Ne deriva chiaramente che non soltanto nel
pensiero, ma anche nella sensazione la molteplicità deve convergere nell'unità.
Dal momento però che la materia non è mai un soggetto singolo ecc. . Kant
sviluppa questo tallone d'Achille di
ogni conclusione dialettica della dottrina pura dell’anima come il secondo paralogismo della psicologia
trascendentale. In Lotze? questi atti
del sapere relazionante sono stati
svilupppati in vari scritti (da ultimo nella Metaphysik, Leipzig, 1841, p. 476)
come il fondamento insuperabile, su cui può riposare con sicurezza la
convinzione dell'autonomia dell'anima , e costituiscono la base di questa parte
del suo sistema metafisico. 6. Moses Mendelssohn (1729-1786), autore dei
P/ilosophische Gespriche (1755), dei Briefe tiber die Empfindungen (1755), del
Phédon (1767), delle Morgenstunden (1785) c di varie altre opere, fu uno dei
maggiori esponenti della filosofia
popolare di ispitazione illuministica;
amico di Lessing, lo difese dall'attribuzione di spinozismo sostcnuta da
Jacobi. Dilthey si riferisce qui al tentativo di dimostrazione dell'immortalità
dell’anima, criticato da Kant nella Critica della ragion pura. 7. Rudolph
Hermann Lotze (1817-1881), autore della MetapAysik (1841), della Logi% (1843),
del Mikrokosnus (1856-58), del System der Philosophie (1874-79) e di numerose
altre opere, alcune delle quali pubblicate postume, fu il maggiore
rappresentante dello spiritualismo ottocentesco tedesco: il suo pensiero ebbe
larga diffusione, influenzando la cultura filosofica della seconda metà del
sccolo in senso anti-positivistico c antipsicologistico. WILHELM DILTHEY 103
Già la sua tesi contiene in quel non
possono mai essere compresi un doppio
senso che ha come conseguenza l'emergere, nella dimostrazione stessa, di due
argomenti di portata ben differente. Da un lato egli afferma che il tentativo
di derivare fatti spirituali da trasformazioni materiali (attualmente caduto in
oblio in quanto rozzo materialismo, e compiuto ancora soltanto attraverso
l’ipotesi dell’esistenza di proprietà psichiche negli elementi) non può
eliminare i confini immanenti di ogni esperienza: il che è certo, ma non
decisivo contro la subordinazione dello spirito alla conoscenza naturale. Egli
afferma allora che tale tentativo deve naufragare davanti alla contraddizione
tra la nostra rappresentazione della materia e il carattere di unità che è
proprio della nostra coscienza. Nella sua posteriore polemica con Haeckel, a
quest'argomento aggiunge quell’altro che, se si mantiene tale ipotesi, si ha
un’ulteriore contraddizione tra il modo in cui un elemento materiale è
meccanicamente condizionato nella connessione naturale e l’Er/ebnis della
spontaneità del volere; una volontà presente negli elementi della materia
che deve volere, voglia o non voglia, e
ciò in rapporto diretto al prodotto delle masse e in rapporto inverso al
quadrato delle distanze è una
contradictio in adiecto. In un ambito più ampio, però, le scienze dello spirito
comprendono in sé fatti naturali, hanno a fondamento la conoscenza della
natura. Se si concepissero esseri puramente spirituali in un regno di persone
costituito soltanto da essi, il loro venire alla luce, la loro conservazione e
il loro sviluppo, al pari della loro scomparsa (in qualsiasi modo ci si
rappresenti lo sfondo da cui provengono e a cui sono destinati a fare ritorno),
sarebbero legati a condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe
fondato sulla loro posizione rispetto al mondo spirituale; la loro connessione
reciproca, le loro origini si compirebbero con mezzi puraa. E. Dv Bois-Revmonp,
Die sieben Weltritsel. mente spirituali e gli effetti durevoli di tali azioni
sarebbero anch'essi di tipo puramente spirituale; lo stesso loro ritrarsi dal
regno delle persone avrebbe il suo fondamento nell’elemento spirituale. Un
sistema composto da individui siffatti potrebbe venir conosciuto da pure
scienze dello spirito. In realtà un individuo nasce, si conserva e si sviluppa
sulla base delle funzioni dell’organismo animale e delle sue relazioni col
corso naturale dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte,
fondato su queste funzioni; le sue impressioni sono condizionate dagli organi
di senso e dalle influenze del mondo esterno; la ricchezza e la mobilità delle
sue rappresentazioni, la forza e la direzione dei suoi atti di volontà
dipendono sovente dalle modificazioni del suo sistema nervoso. L'impulso della
sua volontà comporta un accorciamento delle fibre muscolari, cosicché l’agire
verso l’esterno è connesso ai mutamenti di posizione delle particelle
dell’organismo, e le conseguenze durevoli delle sue azioni volontarie esistono
soltanto nella forma di trasformazioni all’interno del mondo materiale. La vita
spirituale di un uomo è perciò una parte
separabile solo in virtù di un’astrazione della vivente unità psico-fisica in cui si
manifesta un'esistenza e una vita umana, Il sistema di queste unità viventi è
la realtà che costituisce l’oggetto delle scienze storicosociali. In virtù del
duplice punto di vista del nostro apprendimento, l'uomo come unità vivente è
per noi (quale che sia il suo stato metafisico) una connessione di fatti
spirituali fin dove giunge la consapevolezza interiore, ed è invece un
complesso corporeo nella misura in cui apprendiamo per mezzo dei sensi. La
consapevolezza interiore e l'apprendimento esterno non si compiranno mai nello
stesso atto, e quindi il fatto della vita spirituale non ci è mai dato
contemporancamente a quello del corpo. Ne derivano necessariamente per la
coscienza scientifica che voglia cogliere i i fatti spirituali e il mondo
corporeo nella loro connessione, di cui è espressione la vivente unità psico-fisidue
punti di vista differenti, e tra loro irriducibili. Se procedo dall’esperienza
interna, troverò l’intero mondo esterno dato nella mia coscienza: le leggi di
questo complesso naturale sottostanno alle condizioni della mia coscienza e
dipendono quindi da esse. Questo è il punto di vista che la filosofia tedesca a
cavallo tra il secolo xvi e il nostro designava come filosofia trascendentale.
Se invece assumo la connessione della natura quale essa mi si offre come realtà
nel mio apprendimento naturale, e percepisco i fatti psichici come inseriti
nella successione temporale di questo mondo esterno nonché nella sua
suddivisione spaziale, troverò che le trasformazioni della vita spirituale
dipendono dall’intervento della natura o dell’esperimento, consistente in
trasformazioni materiali provocate agendo sul sistema nervoso: un'osservazione
dello sviluppo della vita e degli stati morbosi allarga queste esperienze in un
quadro complessivo del condizionamento dell’elemento spirituale da parte
dell’elemento corporeo. Sorge allora il modo di concepire proprio dello
scienziato che procede dall’esterno ver-so l’interno, dalle trasformazioni
materiali alle trasformazioni spirituali. Così l’antagonismo tra il filosofo e
lo scienziato è condizionato dall’antitesi dei loro rispettivi punti di
partenza. ‘Procediamo ora dal tipo di considerazione proprio della scienza
naturale. Finché questo tipo di considerazione rimane consapevole dei propri
limiti, i suoi risultati sono incontestabili. Essi ricevono una più precisa
determinazione del loro valore conoscitivo soltanto dal punto di vista
dell'esperienza interna. La scienza della natura analizza la connessione
causale del corso naturale. Laddove quest’analisi ha raggiunto il punto in cui
una situazione o una trasformazione materiale è legata in maniera regolare con
una situazione o una trasformazione psichica, senza che sia possibile rinvenire
tra loro un ulteriore elemento intermedio, allora si può soltanto constatare
questa relazione regolare, ma non si può applicare a tale relazione il rapporto
di causa ed effetto. Noi scopriamo che le uniformità di un ambito di vita sono
regolarmente collegate con uniformità dell’altro, e l’espressione di questo
rapporto è dato dal concetto matematico di funzione. Una concezione di tale rapporto,
che consenta di paragonare il corso delle trasformazioni spirituali e di quelle
corporee alla marcia di due orologi caricati in modo identico, è in accordo con
l’esperienza tanto quanto una concezione che assuma come base esplicativa uno
solo dei due orologi, considerando entrambi gli ambiti di esperienza come
manifestazioni diverse di uno stesso fondamento. La dipendenDI za dell’elemento
spirituale dalla connessione della natura è 106 WILHELM DILTHEY quindi il
rapporto secondo il quale la connessione universale della natura condiziona
causalmente quelle situazioni e trasformazioni materiali che sono per noi
collegate regolarmente, e senza un’ulteriore mediazione, con situazioni e
trasformazioni spirituali. In tal modo la conoscenza naturale vede la concatenazione
delle cause spingere i suoi effetti fino alla vita psico-fisica; qui sorge una
trasformazione in cui la relazione tra materiale e psichico si sottrae alla
concezione causale, e questa trasformazione ne richiama a sua volta una nel
mondo materiale. In questo contesto l’importanza della struttura del sistema
nervoso si rivela all’esperimento del fisiologo. I confusi fenomeni della vita
vengono dipanati in una chiara rappresentazione dei rapporti di dipendenza,
nella cui successione il corso naturale spinge le sue trasformazioni fino
all’uomo; queste poi penetrano, attraverso le porte degli organi di senso, nel
sistema nervoso: sorgono la sensazione, la rappresentazione, il sentimento e il
desiderio, che hanno poi un’azione retroattiva sul corso della natura. La
stessa unità vivente, che ci riempie col sentimento immediato della nostra
inscindibile esistenza, viene risolta in un sistema di relazioni tra i fatti
della nostra coscienza e la struttura e le funzioni del sistema nervoso che
possono essere empiricamente accertate: infatti ogni azione psichica si mostra
collegata con una trasformazione all’interno del nostro corpo soltanto
attraverso il sistema nervoso, e da parte sua la trasformazione corporea è
accompagnata da un mutamento del nostro stato psichico soltanto attraverso
l’effetto che ha sul sistema nervoso. Da quest’analisi delle viventi unità
psico-fisiche sorge ora una più chiara rappresentazione della loro dipendenza
dalla connessione complessiva della natura, all’interno della quale esse
compaiono e operano, e dalla quale nuovamente si ritraggono, nonché dalla
dipendenza dello studio della realtà storico-sociale dalla conoscenza della
natura. Su questa base si può stabilire il grado di attendibilità delle teorie
di Comte e di Spencer in merito alla posizione di queste scienze all’interno
della gerarchia della scienza nel suo insieme, da essi formulata. Poiché questo
scritto si propone di fondare la relativa autonomia delle scienze dello
spirito, esso deve pure sviluppare in
quanto aspetto complementare della loro posizione nel complesso delle WILHELM
DILTHEY 107 scienze il sistema delle
dipendenze in virtù del quale esse sono condizionate dalla conoscenza naturale
e costituiscono quindi il momento ultimo e supremo della costruzione che ha
inizio con la fondazione matematica. I fatti dello spirito sono i limiti
superiori dei fatti della natura; i fatti della natura costituiscono le
condizioni inferiori della vita spirituale. Proprio perché il regno delle
persone, cioè la società umana, è la manifestazione suprema del mondo
dell’esperienza terrena, la sua conoscenza ha bisogno in innumerevoli punti
della conoscenza del sistema di presupposti che risiedono, per il suo sviluppo,
nella natura. E invero l’uomo, in virtù della sua posizione entro la
connessione causale della natura, è condizionato da questa secondo una duplice
relazione. Come abbiamo visto, l’unità psico-fisica riceve continuamente
influenze, per il tramite del sistema nervoso, dal corso universale della
natura, e a sua volta agisce su di esso. È tuttavia proprio della sua natura
che le influenze che da essa procedono assumano principalmente la forma di un
agire diretto da scopi. Per questa unità psico-fisica il corso della natura e
la sua qualità da un lato determina la formazione degli scopi, dall'altro
contribuisce al raggiungimento di questi scopi come un sistema di mezzi. E
perciò noi stessi esistiamo là dove vogliamo, dove operiamo sulla natura,
appunto perché non siamo forze cieche, bensì volontà che stabiliscono
riflessivamente i loro scopi indipendenti dalla connessione della natura.
Pertanto le unità psico-fisiche si trovano in una duplice dipendenza rispetto
al corso naturale. Da una parte questo condiziona, in quanto sistema di
cause a partire dal posto della terra
nell'insieme del cosmo la realtà
storico-sociale, e il grande problema del rapporto tra connessione naturale e
libertà all'interno di tale realtà si scompone, per lo scienziato empirico, in
innumerevoli questioni particolari riguardanti il rapporto tra fatti dello
spirito e influenze della natura. D'altra parte, dagli scopi di questo regno di
persone scaturiscono effetti retroattivi sulla matura, sulla terra che l’uomo considera in questo senso come
propria abitazione, e in cui agisce per accomodarvisi; anche questi effetti
retroattivi sono legati all’utilizzazione della connessione legale della
natura. Tutti gli scopi si presentano in definitiva all'uomo soltanto
all’interno del processo spirituale, giacché solo in esso esiste qualcosa per
lui; ma lo scopo cerca i suoi mezzi nella connessione della natura. Quanto poco
percepibile è spesso la trasformazione prodotta nel mondo esterno dalla potenza
creatrice dello spirito! E tuttavia soltanto su di essa poggia la mediazione in
virtù della quale il valore così creato esiste anche per gli altri. I pochi
fogli che, come residuo materiale di un più profondo lavoro intellettuale degli
antichi nella direzione dell’ipotesi di un movimento della terra, pervennero
nelle mani di Copernico, sono diventati il punto di partenza di una rivoluzione
nella nostra visione del mondo. A questo punto si può intuire quanto sia
relativa la reciproca delimitazione di queste due classi di scienze. Polemiche
come quelle condotte a proposito della posizione della linguistica generale
sono infruttuose. In entrambi i luoghi di trapasso che conducono dallo studio
della natura a quello dello spirito, nei punti in cui la connessione della
natura influenza lo sviluppo dell’elemento spirituale e negli altri in cui
invece riceve l’influenza dell'elemento spirituale oppure costituisce il luogo
di passaggio per l’influenza su un altro elemento spirituale, le conoscenze
relative alle due classi di scienze si mescolano sempre. Le conoscenze delle
scienze naturali si mescolano con quelle delle scienze dello spirito. E infatti
in questa connessione in conformità alla
duplice relazione con cui il corso naturale condiziona la vita dello
spirito la conoscenza dell'influenza
formativa della natura si intreccia spesso con la constatazione dell’influenza
che essa esercita come materiale dell’agire. Così dalla conoscenza delle leggi
naturali di formazione dei suoni deriva una parte importante della grammatica e
della teoria musicale, e il genio del linguaggio o della musica è a sua volta
legato a queste leggi naturali: lo studio delle sue funzioni è quindi
condizionato dalla comprensione di tale dipendenza. A questo punto si può
inoltre intuire che la conoscenza delle condizioni presenti nella natura, e
formulate dalla scienza naturale, costituisce in larga misura il fondamento
dello studio dei fatti spirituali. Come lo sviluppo ‘dell’uomo singolo, così
anche la diffusione del genere umano sulla terra e la formazione dei suoi
destini nella storia sono condizionate dall’intera connessione cosmica. Per
esempio, le guerre costituiscono un elemento fondamentale di ogni storia: in
quanto storia politica, essa ha a che fare con la volontà di stati, ma questa
si presenta in armi e si impone per mezzo loro. La teoria della guerra dipende
però in primo luogo dalla conoscenza dell’elemento fisico, che offre terreno e
mezzi alle volontà in conflitto: la guerra persegue infatti lo scopo di imporre
al nemico la nostra volontà con i mezzi della violenza fisica. Ciò implica che
l’avversario dev'essere costretto, fino a essere privo di difesa che è lo scopo teorico di quell’atto di
violenza designato come guerra cioè fino
al punto in cui la sua situazione diventa più svantaggiosa del sacrificio che
gli si richiede, e può essere scambiata soltanto con una situazione ancor più
svantaggiosa. In questo grande calcolo, dunque, i numeri che risultano più
importanti per la scienza, e di cui essa si occupa in primo luogo, sono le
condizioni e i mezzi fisici, mentre c'è assai poco da dire circa i fattori
psichici. Le scienze dell’uomo, della società e della storia hanno dunque a
loro fondamento le scienze della natura, anzitutto perché le stesse unità
psico-fisiche possono essere studiate soltanto con l’aiuto della biologia, e
inoltre perché il mezzo in cui ha luogo il loro sviluppo e la loro attività
teleologica, e al cui dominio tale attività si riferisce in gran parte, è la
natura. Sotto il primo aspetto, il loro fondamento è costituito dalle scienze
dell’organismo, sotto il secondo prevalentemente da quelle della natura
inorganica. La connessione che si deve spiegare in questi termini poggia da una
parte sul fatto che queste condizioni naturali determinano lo sviluppo e la
distribuzione della vita spirituale sulla superficie terrestre, dall'altra sul
fatto che l’attività teologica dell’uomo è legata alle leggi della natura e
quindi condizionata dalla loro conoscenza e utilizzazione. Il primo rapporto
indica pertanto solo una dipendenza dell’uomo dalla natura, mentre il secondo
contiene questa dipendenza soltanto come aspetto complementare della storia del
suo crescente dominio sulla terra. Quella parte del primo rapporto che
racchiude in sé le relazioni dell’uomo con la natura circostante è stata
sottoposta da Ritter al metodo comparativo. Brillanti intuizioni, e in
particolare la sua valutazione comparativa dei continenti in base alla
struttura dei loro contorni, lasciavano intravvedere una predestinazione della
storia universale fissata II10 WILHELM DILTHEY nei rapporti spaziali della
terra. I lavori successivi non hanno però confermato quest’intuizione,
concepita da Ritter" come una teleologia della storia universale, e poi
posta da Buckle® al servizio del naturalismo: al posto della rappresentazione
di una dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali è subentrata la
rappresentazione più prudente secondo cui la lotta delle forze etico-spirituali
contro le condizioni della morta spazialità ha continuamente diminuito nei
popoli storici a differenza dai popoli
privi di storia il rapporto di
dipendenza. Anche qui si è affermata una scienza autonoma della realtà
storico-sociale, che utilizza a scopo di spiegazione le condizioni naturali.
L’altro rapporto mostra invece con la
dipendenza inerente all’adattamento alle condizioni naturali che il dominio della spazialità è così legato
al pensiero scientifico e alla tecnica che l'umanità nella sua storia riesce a
prevalere proprio in virtù della subordinazione. Natura enim non nisi parendo
vincitur®. Il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la
conoscenza della natura può quindi esser considerato risolto soltanto se si
risolve l’antitesi, dalla quale siamo partiti, tra il punto di vista
trascendentale, secondo cui la natura è sottoposta alle condizioni della
coscienza, e il punto di vista oggettivo-empirico, secondo cui lo sviluppo
dell’elemento spirituale è sottoposto alle condizioni della totalità della
natura. Questo compito costituisce un aspetto del problema della conoscenza. Se
si isola questo problema per le scienze dello spirito, non appare impossibile
una soluzione convincente per tutti. Le sue condizioni sarebbero la
dimostrazione della realtà oggettiva dell’esperienza interna e la comprova
dell’esistenza di un mondo esterno; pera. Bacone, De interpretatione naturae et
regno hominis, aforisma 3. 8. Karl Ritter (1779-1859) fu uno dei maggiori
gcografi tedeschi della prima metà dell'Ottocento: la sua opera principale è
Die ErdAunde im Verhiltnis zur Natur und Geschichte des Menschen (1817-18, 2°
cd. 1822-58), che offre una descrizione sistematica del Vecchio Mondo, ispirata
al presupposto (di origine herderiana) dell’individualità dei continenti e alla
considerazione dell'azione trasformatrice dell'ambiente da parte dell’uomo. 9.
Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una History of
Civilization in England (1857-61) di ispirazione positivistica. tanto in questo
mondo esterno fatti ed esseri spirituali esistono in virtù di un processo di
trasposizione della nostra interiorità in essi. Come l'occhio accecato dal sole
ne ripete in modo variopinto l’immagine nei luoghi più vari dello spazio, così
il nostro apprendimento moltiplica l’immagine della nostra vita interiore e la
colloca in svariate maniere nei più diversi luoghi della natura circostante:
questo processo può essere però esposto e giustificato logicamente come
un’inferenza analogica da questa vita interiore originaliter data in modo
immediato soltanto a noi, attraverso le rappresentazioni delle manifestazioni
ad essa concatenate, a qualcosa di affine corrispondente a manifestazioni
affini del mondo esterno, che sta a loro fondamento. Qualunque cosa sia la
natura in se stessa, lo studio delle cause della realtà spirituale può
accontentarsi del fatto che in ogni caso i suoi fenomeni possono venir
concepiti e utilizzati come segni del reale, e le uniformità presenti nei suoi
rapporti di coesistenza e di successione possono venir concepite come segni di
uniformità presenti nel reale. Se però ci si introduce nel mondo dello spirito
e si indaga la natura o in quanto contenuto dello spirito o in quanto scopo o
mezzo intessuto nelle volontà, per lo spirito la natura è appunto ciò che essa
è in lui, e qui è del tutto indifferente quale possa essere in sé. È
sufficiente che lo spirito possa far conto nel suo agire, comunque la natura
gli sia data, sulla sua legalità, e possa gustare la bella apparenza della sua
esistenza. III. PROSPETTIVE SULLE SCIENZE DELLO SPIRITO Le scienze dello
spirito non si sono ancora costituite a complesso unitario; esse non sono
ancora in grado di stabilire una connessione in cui le singole verità siano
ordinate secondo i loro rapporti di dipendenza da altre verità e
dall'esperienza. Queste scienze sono cresciute nella prassi stessa della vita,
sviluppandosi in base alle esigenze della formazione professionale, e la
sistematicità delle facoltà al servizio di tale formazione è quindi la forma
spontanea della loro connessione. I loro primi concetti e le loro prime regole
sono state quindi trovate per lo più nell’esercizio delle funzioni sociali.
Jhering!® ha dimostrato che il pensiero giuridico ha prodotto i concetti
fondamentali del diritto romano mediante un cosciente lavoro spirituale
compiutosi nella stessa vita del diritto. Anche l’analisi delle più antiche
costituzioni greche indica in esse i precipitati dell’ammirevole forza di un
pensiero politico consapevole fondato su concetti e princìpi chiari. L'idea
fondamentale in base alla quale la libertà dell’individuo viene riposta nella
sua partecipazione al potere politico, ma questa è regolata dall’ordinamento
statale in conformità alla funzione che l’individuo assolve per il tutto, è
stata dapprima decisiva per l’arte politica, e soltanto in seguito è stata
elaborata in forma scientifica dai grandi teorici della scuola socratica. Il
progredire verso teorie scientifiche comprensive si appoggiava quindi
prevalentemente sul bisogno di una formazione professionale dei ceti dirigenti.
Così già nella Grecia, dai compiti di un insegnamento politico superiore
sorsero, nell’età dei Sofisti, la retorica e la politica; e la storia della
maggior parte delle scienze dello spirito nei popoli moderni mostra l’influenza
dominante del medesimo rapporto fondamentale. La letteratura dei Romani
riguardo alla loro comunità ricevette la sua struttura più antica dal fatto di
essersi sviluppata in forma di istruzioni per i sacerdoti e per i singoli
magistrati®. Perciò la sistematica di quelle scienze dello spirito che
contengono la base per la formazione professionale degli organi dirigenti della
società, come anche l’esposizione di tale sistematica in veste enciclopedica, è
emersa in definitiva dal bisogno di un compendio su quanto occorre a tale
propedeutica; e la forma più naturale delle enciclopedie sarà sempre come Schleiermacher ha magistralmente
mostrato a proposito della teologia
quella che si articola con la coscienza di tale scopo. Con queste
condizioni limitative, chi penetri nelle a. Cir. T. Mommsen, Romisches
Staatsrecht, Leipzig, vol. I, 1871, p. 3 SBg10. Rudolph von Jhering
(1818-1892), giurista c filosofo del diritto tedesco, autore di Der Geist des ròmischen
Rechts (1852-65), di Der Kampf ums Recht (1872), di Der Zweck im Recht
(1877-84) c di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate postume,
diede un contributo fondamentale alla considerazione storico-istituzionale del
diritto c, in particolare, all'analisi del diritto romano. scienze dello
spirito troverà nelle opere enciclopediche uno sguardo d’insieme sui singoli
gruppi importanti di queste scienze?. Vari tentativi che vanno al di là di queste funzioni di scoprire la struttura complessiva delle
scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale hanno preso le mosse
dalla filosofia. In quanto cercavano di derivare questa connessione da princìpi
metafisici, essi sono ricaduti nel destino che tocca a ogni metafisica. Già
Bacone si servì di un metodo migliore, ponendo le scienze dello spirito allora
esistenti in relazione con il problema di una conoscenza della realtà sulla
base dell’esperienza, e commisurò a questo compito le loro funzioni e i loro
difetti. Comenio" si propose, con la sua
pansofia, di derivare dal rapporto di reciproca dipendenza interna delle
verità la successione di gradi in cui esse devono presentarsi
nell’insegnamento; e poiché in tal modo, opponendosi al falso concetto di una
istruzione formale, scoprì il principio fondamentale di un’educazione futura
(purtroppo al di là da venire ancor oggi), con il principio della dipendenza
reciproca delle verità preparò anche una struttura appropriata delle scienze.
Comte, sottoponendo a indagine la relazione tra questo rapporto logico di
dipendenza in cui stanno tra loro le verità e il rapporto storico di
successione in cui esse compaiono, creò il fondamento per un'autentica
filosofia delle scienze. Egli consia. Per uno sguardo d'insieme di questo tipo
su particolari campi delle scienze dello spirito, si rimanda alle seguenti
enciclopedie: R. von MoHI, Enzyklopidie der Staatswissenschaften, Tubingen,
1859, 2° ed. non riveduta 1873; 3* ed. 1881 (si veda inoltre la panoramica e la
valutazione di altre enciclopedie nella sua Geschichte und Literatur der
Staatswissenschaften in Monographien dargestellt, Erlangen, vol. I, 1855, pp.
111-46); L. A. WarNnKONIG, /uristische EnzyKlopéidie oder organische
Darstellung der Rechtswissenschaft, Erlangen, 1853; F. E. D. ScHLErERMAcHER,
Kurze Darstellung des theologischen Studiums, Berlin, 1810, 2° ed. riveduta
1830; A. Bòcgn, Enzyklopidie und Methodologie der philologischen Wissenschaften
(a cura di E. Bratuschek), Leipzig, 1877. 11. Jan Amos Komensky, lat. Comenius
(1592-1670), filosofo e pedagogista moravo, autore della Didactica magna (1631)
e di varie altre opere, appartenne alla comunità dei Fratelli Boemi e fu
coinvolto nelle guerre di religione, che lo costrinsero all'esilio. Il suo
pensiero, ispirato all'ideale della
pansofia , ha ispirato un largo movimento di riforma educativa, in
Germania e fuori. derò la costituzione delle scienze delle realtà
storico-sociali come il fine del suo grande lavoro, e di fatto la sua opera
diede luogo a un forte movimento in questa direzione: John Stuart Mill,
Littré!”, Herbert Spencer hanno ripreso il problema della connessione delle
scienze storico-sociali®. Questi lavori assicurano a colui che si introduca
nelle scienze dello spirito uno sguardo d'insieme di tipo completamente diverso
da quello che offre la sistematica degli studi professionali. Essi collocano le
scienze dello spirito nella connessione della conoscenza, ne colgono il
problema nel suo ambito complessivo e ne intraprendono la soluzione entro una
costruzione scientifica che comprende tutta la realtà storico-sociale. Però,
pieni della smania temeraria di costruzione scientifica oggi dominante in
Inghilterra e in Francia, privi dell’intimo sentimento della realtà storica che
si forma solamente in base a una consuetudine pluriena. Uno sguardo d'insieme
sui problemi delle scienze dello spirito, secondo la connessione interna in cui
stanno tra loro in rapporto sotto il profilo metodologico e in cui si può
quindi ottenerne una coerente soluzione, si trova abbozzata in A. Comte, Cours
de philosophie positive, Paris, 182042 (nei volumi IV-VI). Le sue opere
successive, che contengono un punto di vista modificato, non possono servire a
questo scopo. Il più importante abbozzo di sistema delle scienze ad esso
opposto è quello di Herbert Spencer. Al primo attacco a Comte (in Essays, prima
serie, London, 1858) Spencer faceva seguire un'esposizione più precisa in The
Classification of the Sciences, London, 1864 (cfr. la difesa di Comte in E.
Lirtré, Auguste Comte et la philosophie positive, Paris, 1863). Ma la più
compiuta esposizione del complesso delle scienze dello spirito è ora offerta
dal suo System of Synthetic Philosophy, del quale sono apparsi per primi, nel
1855, i Principles of Psychology, e poi a partire dal ’76 i Principles of
Sociology (in relazione all'opera Descriptive Sociology); la parte conclusiva,
i Principles of Ethics e Spencer stesso
dichiara di ritenerli quelli per cui tutti i precedenti costituiscono soltanto
il fondamento tratta nel primo volume,
apparso nel 1879, i fatti
dell'etica [The Data of Ethics, London,
1879]. Accanto a questo tentativo di delineare una teoria della realtà
storico-sociale, merita ancora di essere menzionato quello di John Stuart Mill,
contenuto nel sesto libro di A System of Logic, Ratiocinative and Inductive,
London, 1851 (che tratta della logica delle scienze dello spirito o scienze
morali), e nello scritto August Comte and Positivism, London, 1866. 12.
Maximilien-Paul-Emile Littré (1801-1881), scienziato e filosofo francese, fu
allievo e divulgatore del pensiero di Comte, a cui dedicò vari scritti; si
distaccò tuttavia dal maestro, rifiutando l'esito religioso della filosofia
comtiana, WILHELM DILTHEY 115 nale con questa realtà nella ricerca particolare,
i positivisti non hanno trovato quel punto di partenza per i loro lavori che
avrebbe dovuto corrispondere al loro principio della connessione delle scienze
particolari. Essi avrebbero dovuto cominciare il loro lavoro studiando
l’architettonica dell'immenso edificio delle scienze positive, continuamente
ampliato da aggiunte, sempre trasformato dall'interno, sorto a poco a poco
attraverso i millenni, renderlo comprensibile attraverso l’approfondimento del
suo piano di costruzione e così render giustizia — con un’intuizione feconda
per la ragione della storia alla
molteplicità di aspetti con cui si sono effettivamente sviluppate queste
scienze. Essi hanno invece innalzato un edificio provvisorio che non è
sostenibile più di quanto lo siano le temerarie speculazioni di Schelling o di
un Oken” sulla natura. È così accaduto che le filosofie dello spirito
tedesche sviluppate sulla base di un
principio metafisico di Hegel, di
Schleiermacher e del tardo Schelling impieghino l’acquisizione delle scienze
positive dello spirito con una penetrazione più profonda dei lavori di questi
filosofi positivi. Dall’approfondimento dei compiti delle scienze dello stato
hanno preso le mosse in Germania altri tentativi di fornire una struttura
comprensiva nel campo delle scienze dello spirito, provocando però ovviamente
un'unilateralità del punto di vista ?. Le scienze dello spirito non
costituiscono un complesso fornito di una costituzione logica analoga alla
struttura della conoa. Il punto di partenza è rappresentato dalle discussioni
sul concetto di società e sul compito delle scienze sociali, nelle quali si è
cercata un'integrazione alle scienze dello stato. La spinta è stata data da L.
von STEIN, Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig,
2° ed. 1848, e da R. von Mont, Gesellschafts-Wissenschaften und Staats-Wissenschaften, Zeitschrift fr die gesamte Staatswissenschaft
, VII, 1851, PP. 3-71, ripreso nella sua Geschichte und Literatur der
Staatswissenschaften, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 67-110. Indichiamo come
particolarmente rilevanti due tentativi di articolazione, cioè quelli di L. von
STEIN, System der Staatswissenschaft, Stuttgart, 1852-56, e di A. ScHarrLe, Bau
und Leben des sozialen Kòrpers, Tùbingen, 1875-78. 13. Lorenz Oken (1779-1851),
naturalista, autore di numerose opere di filosofia della natura che si ispirano
all’organicismo schellinghiano. scenza naturale. La loro connessione si è
sviluppata diversamente e deve quindi essere considerata ora così come è
storicamente cresciuta. IV. IL MATERIALE DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO Il
materiale di queste scienze è costituito dalla realtà storico-' sociale in
quanto essa è conservata nella coscienza dell’umanità come un insieme di
conoscenze storiche, ed è stata resa accessibile alla scienza sotto forma di
una conoscenza sociale che va al di là della situazione attuale. Per quanto
sterminato sia questo materiale, salta tuttavia agli occhi la sua
incompiutezza. Interessi in nessun modo corrispondenti all'esigenza della
scienza e condizionati dalla tradizione
pure privi di qualsiasi relazione con quest’esigenza hanno determinato lo stato della nostra
conoscenza storica. Fin dall'epoca in cui, raccolti intorno al fuoco
dell’accampamento, i compagni di tribù e d’arme narravano le gesta dei loro
eroi e l’origine divina della loro stirpe, il forte interesse della vita in
comune ha salvato e conservato alcuni fatti dall’oscuro fluire della vita umana
abituale. L'interesse dell’epoca successiva e la vicenda storica hanno deciso
che cosa di questi fatti dovesse giungere fino a noi. La storiografia come
libera arte espositiva accoglie una parte di questo sterminato complesso, cioè
quella che appare fornita di interesse da un qualche punto vista. Ne consegue
che la società odierna vive, per così dire, sugli strati e sulle rovine del
passato; i precipitati del lavoro culturale presenti nel linguaggio e nella
superstizione, nel costume e nel diritto, come pure nelle trasformazioni
materiali che vanno oltre le testimonianze, contengono tutti una tradizione che
sorregge le testimonianze in modo inestimabile. Anche per la loro conservazione
ha deciso la mano della vicenda storica. Soltanto in due punti si trova uno
stato del materiale che corrisponde alle esigenze della scienza. Il corso dei
movimenti spirituali nell'Europa moderna è conservato con sufficiente
compiutezza negli scritti che ne sono parte costitutiva. Così pure i lavori
della statistica consentono per il breve
periodo e il ristretto ambito di paesi WILHELM DILTHEY II7 in cui sono stati
applicati di gettare uno sguardo
numericamente fondato nei fatti della società che quei lavori accolgono: essi
permettono di fornire alla conoscenza dello stato attuale della società un
fondamento esatto. L’impossibilità di penetrare nella connessione di questo
materiale sterminato conduce a tale lacunosità; anzi ha contribuito non poco a
rafforzarla. Non appena lo spirito umano cominciò a sottoporre la realtà ai
suoi principi, esso si rivolse anzitutto, preso dallo stupore, al cielo; questa
vòlta al di sopra di noi, che sembra poggiare sul cerchio dell’orizzonte, lo
occupò tutto: una totalità spaziale in sé conclusa che sempre e dovunque
avvolge gli uomini. Così l’orientamento nell'edificio del mondo fu il punto di
partenza della ricerca scientifica, nei paesi orientali come in Europa. Il
cosmo dei fatti spirituali non si offre invece alla vista nella sua immensità,
ma si offre soltanto allo spirito raccoglitore del ricercatore; esso emerge in
alcune parti singole, dove uno studioso collega dei fatti, li esamina e li
accerta: allora esso si costituisce nell’interiorità dell'animo. Un vaglio
critico delle tradizioni, l'accertamento dei fatti e la loro raccolta
costituiscono quindi un primo lavoro comprensivo delle scienze dello spirito.
Dopo che la filologia elaborò una tecnica esemplare sulla materia più difficile
e bella della storia, l’antichità, questo lavoro in parte viene condotto in
innumerevoli ricerche particolari, in parte viene a costituire un elemento di
indagini ulteriori. La connessione di questa pura descrizione della realtà
storico-sociale in quanto si propone,
sulla base della fisica della terra, con l'ausilio della geografia, di
descrivere la distribuzione dell’elemento spirituale e delle sue differenze
sulla terra, nel tempo e nello spazio può
acquistare la sua capacità di penetrazione sempre soltanto se la riconduce a
chiare misure spaziali, a rapporti numerici, a determinazioni temporali, con
strumenti di rappresentazione grafica. La semplice raccolta e il semplice
vaglio del materiale si trasformano qui gradualmente in una sua elaborazione e
articolazione concettuale. Le scienze dello spirito, così come esse sono e
operano, in virtù della ragione immanente che agisce nella loro storia non già nel modo che desiderano alcuni
architetti temerari, i quali vorrebbero costruirle su nuova base congiungono in sé tre distinte classi di
asserzioni. Le asserzioni della prima classe esprimono un reale che è dato
nella percezione: esse contengono l’elemento storico della conoscenza. Le
asserzioni della seconda classe enunciano il comportamento uniforme delle parti
di questa realtà, isolate mediante un’astrazione: esse formano l'elemento
teorico di essa. Le asserzioni dell’ultima classe esprimono giudizi di valore e
prescrivono regole: in esse è racchiuso l'elemento pratico delle scienze dello
spirito. Fatti, teoremi, giudizi di valore e regole da queste tre classi di proposizioni sono
costituite le scienze dello spirito. E la relazione tra orientamento storico,
orientamento teorico astratto e orientamento pratico si presenta come un
rapporto fondamentalmente comune a tutte queste discipline. La comprensione del
singolare, dell’individuale rappresenta in esse uno scopo ultimo e in ciò esse sono la costante confutazione
del principio spinoziano omnis determinatio est negatio al pari della formulazione di uniformità
astratte. Dalla sua prima radice nella coscienza fino alla vetta suprema, la
connessione dei giudizi di valore e degli imperativi è indipendente dalla
connessione delle prime due classi. La relazione reciproca di questi tre
compiti nella scienza pensante può essere sviluppata soltanto nel corso di
un'analisi di teoria della conoscenza (o, in senso più ampio,
dell’auto-riflessione). In ogni caso le osservazioni concernenti la realtà
rimangono separate dai giudizi di valore e dagli imperativi anche alla radice:
sorgono così due tipi di proposizioni, che sono distinte in linea di principio.
Al tempo stesso si deve riconoscere che questa distinzione all’interno delle
scienze dello spirito ha come conseguenza una loro duplice connessione. Una
volta sviluppate, le scienze dello spirito contengono, accanto alla conoscenza
di ciò che è, la coscienza della connessione dei giudizi di valore e degli
imperativi, nella quale si congiungono WILHELM DILTHEY 119 valori, ideali,
regole, nonché la tendenza alla formazione del futuro. Un giudizio politico che
respinge un'istituzione non è né vero né falso, ma è giusto o ingiusto, in
quanto se ne valuta la tendenza, il fine; vero o falso può essere invece un
giudizio politico che illustri le relazioni di questa istituzione con altre
istituzioni. Soltanto se si assume questa prospettiva per interpretare la
proposizione, l’asserzione, il giudizio, si può fondare una teoria della
conoscenza che non comprima la realtà oggettiva delle scienze dello spirito nei
limiti ristretti di una conoscenza di uniformità, secondo l’analogia con le
scienze della natura, venendo pertanto a mutilarle, ma che le comprenda e dia
loro un fondamento così com’esse si sono sviluppate. Gli scopi delle scienze
dello spirito cogliere l’aspetto
singolare e individuale delle realtà storico-sociale, conoscere le uniformità
operanti della sua formazione, determinare fini e regole per il suo ulteriore
sviluppo possono essere conseguiti
soltanto mediante gli strumenti del pensiero, cioè mediante l’analisi e
l’astrazione. L'espressione astratta in cui si prescinde da determinati aspetti
della situazione, mentre se ne sviluppano altri, non è il fine ultimo esclusivo
di queste scienze, ma è il loro mezzo indispensabile. Come il conoscere che
procede per astrazione non può risolvere in sé l’autonomia degli altri scopi di
queste scienze, così né la conoscenza storica né quella teorica né lo sviluppo
delle regole che dirigono di fatto la società possono far a meno di tale
conoscere. La disputa tra la scuola storica e la scuola astratta è sorta in
quanto la scuola astratta ha commesso il primo di questi errori, e la scuola
storica l’altro. Ogni scienza particolare sorge soltanto mediante l’artificio
dell'isolamento di una parte dall’insieme della realtà storico-sociale. La
storia prescinde da quei caratteri della vita di un particolare uomo o di una
particolare società che si presentano identici, nell’epoca da essa indagata,
con quelli di tutte le altre epoche; il suo sguardo è diretto a quel che c’è di
distintivo e di singolare. In ciò il singolo storico può ingannarsi, in quanto
da 120 WILHELM DILTHEY tale direzione del suo sguardo già deriva la selezione
di certi aspetti nelle sue fonti; ma chi mette a confronto il procedimento
effettivo dello storico con il complesso della realtà storico-sociale, dovrà
ben riconoscerlo. Da ciò deriva l'importante principio che ogni scienza
particolare dello spirito conosce la realtà storico-sociale solo relativamente,
in quanto ha coscienza della propria relazione con le altre scienze dello
spirito. L’organizzazione di queste scienze e il loro corretto sviluppo nella
loro particolarità dipendono pertanto dalla capacità di tener presente la
relazione di ognuna delle loro verità con il complesso della realtà della quale
fanno parte, nonché della costante consapevolezza dell’astrazione in virtù
della quale queste verità sussistono e del limitato valore conoscitivo che ad
esse spetta a causa di questo loro carattere astratto. Tre diversi compiti deve
assolvere la fondazione delle scienze dello spirito. Essa determina il
carattere generale della connessione in cui, sulla base del dato, sorge in
questo campo un sapere universalmente valido: si tratta qui della struttura
logica generale delle scienze dello spirito. Occorre poi illustrare la
costruzione del mondo spirituale nei suoi campi particolari, quale avviene
nelle scienze dello spirito attraverso l’intreccio delle loro operazioni.
Questo è il secondo compito, e nel corso della sua soluzione verrà gradualmente
in luce, per astrazione dal loro stesso procedimento, la dottrina del metodo
delle scienze dello spirito. Infine si cercherà quale sia il valore conoscitivo
di queste operazioni delle scienze dello spirito e in quale misura sia
possibile, mediante la loro cooperazione, un sapere oggettivo intorno ai fenomeni
spirituali. Tra questi due ultimi compiti c'è una stretta connessione interna.
La distinzione delle varie operazioni rende possibile provarne il valore
conoscitivo, e questo esame mostra in quale misura sia possibile, in virtù di
esse, tradurre in sapere la realtà che è oggetto delle scienze dello spirito e
la connessione reale in essa sussistente: in tale maniera si otterrà un
fondamento autonomo della conoscenza per il nostro campo, mentre * Der Aufbau
der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, parte III: Allgemeine
Sitze fiber den Zusammenhang der Geisteswissenschaften, Abhandlungen der kSniglich Preussischen
Akademie der Wissenschaften
(Philosophisch-historische Classe), 1910, pp. 49-123, ora in Gesammelte
Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 120-188 (La costruzione del
mondo storico nelle scienze dello spirito, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica
della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, pp. 200-289). si apre la
possibilità di una connessione generale della teoria della conoscenza, il cui
punto di partenza risieda nelle scienze dello spirito. Il carattere generale
della connessione nelle scienze dello spirito è dunque il nostro prossimo
problema. Il punto di partenza è la dottrina della struttura dell’apprendimento
oggettivo in genere. Essa mostra in ogni apprendimento una linea progressiva
dal dato ai rapporti fondamentali della realtà, che al di lù di quello si
rivelano al pensiero concettuale. Le medesime forme di pensiero e le medesime
classi di operazioni di pensiero, ad esse subordinate, rendono possibile la
connessione scientifica nelle scienze della natura e nelle scienze dello
spirito. Su questa base sorgono poi, nell’applicazione di quelle forme e di
quelle operazioni di pensiero ai compiti particolari e sotto le condizioni
particolari delle scienze dello spirito, i metodi specifici di queste. E poiché
i compiti delle scienze producono i metodi di soluzione, i singoli procedimenti
costituiscono una connessione interna, condizionata dallo scopo del sapere.
L'apprendimento oggettivo costituisce un sistema di relazioni, nel quale sono
contenuti percezioni ed Er/ebnisse, rappresentazioni della memoria, giudizi,
concetti, deduzioni, insieme alle loro forme composte. A tutte queste
operazioni nel sistema dell'apprendimento oggettivo è comune la presenza in
esse soltanto di relazioni di fatto: così nel sillogismo sono presenti soltanto
i contenuti e le loro relazioni senza che lo accompagni alcuna coscienza di
operazioni di pensiero. Il procedimento che suppone al di sotto del dato, come
sue condizioni di coscienza, singoli atti che vengono concepiti come
corrispondenti alle relazioni di fatto, derivando dalla loro cooperazione la
realtà dell'apprendimento oggettivo, contiene un'ipotesi che non può mai essere
verificata. I vari Erlebnisse entro questo apprendimento oggettivo sono
elementi di una totalità determinata dalla connessione psichica. In questa
connessione psichica la conoscenza oggettiva della realtà è la condizione per
l’esatta constatazione dei valori e per l’agire conforme allo scopo. Così il
percepire, il rappresentare, il giudicare, il dedurre sono operazioni che
collaborano nella teleologia della connessione dell’apprendimento, la quale
assume quindi il suo posto nella connessione della vita. 1. La prima operazione
dell’apprendimento oggettivo sul dato eleva a coscienza distinta ciò che in
esso è contenuto, senza far subire un mutamento alla forma della datità. Io
chiamo primaria questa operazione, in quanto l’analisi che muove dal pensiero
discorsivo non ritrova nessuna operazione più semplice. Essa sta al di là del
pensiero discorsivo, il quale è legato al linguaggio e si svolge nei giudizi;
poiché gli oggetti, su cui si giudica, presuppongono già operazioni di
pensiero. Comincio qui con l’operazione della comparazione. Io trovo il simile
e il dissimile, concepisco gradi di distinzione. Davanti a me stanno due
foglioline di diverso colore grigio: si osserva la diversità e il grado di
diversità nel colore non in base a una riflessione sul dato ma come un elemento
di fatto, poiché il colore stesso è uno stato di fatto. Del pari distinguo,
nella mia esperienza immediata, gradi di piacere, quando passo dal tocco di un
tono determinato e della sua ottava a una completa armonia. Questa operazione
di pensiero, con cui soltanto la logica ha che fare, è semplice. E il suo
risultato, in rapporto al suo valore di verità, non è diverso dall’osservare un
colore o un suono; qualcosa che esiste diventa osservabile. Identità e
differenza non sono qualità delle cose come l’estensione o il colore: esse
sorgono in quanto l’unità psichica reca a coscienza rapporti che sono contenuti
nel dato. E poiché l’affermazione dell’identità e l'affermazione della
differenza trovano soltanto ciò che è dato, così come sono dati l'estensione e
il colore, esse costituiscono un analogo della percezione stessa; ma in quanto
creano concetti di rapporti logici come quelli di identità, di differenza, di
grado, di affinità, contenuti nella percezione ma non dati in questa, esse
appartengono al pensiero. Sulla base della comparazione sorge un’altra
operazione. Quando separo due stati di fatto siamo di fronte, dal punto di
vista logico e non si tratta affatto di
processi psicologici a un'operazione di
pensiero diversa dalla distinzione. Nel dato sono contenuti separatamente due
stati di fatto, e viene colta la loro estraneità. Così in un bosco una voce
umana, il rumore del vento, il canto di un uccello vengono colti non solo come
distinti tra di loro, ma anche come una pluralità. Quando un suono della stessa
qualità, cioè della stessa altezza, dello stesso timbro, della stessa intensità
e della stessa durata, ritorna una seconda volta in un altro punto del corso
temporale, in questa seconda operazione di pensiero sorge la coscienza che il
secondo suono è altro dal primo. Un ulteriore rapporto è concepito in un
secondo caso di separazione. In una foglia verde posso separare tra loro colore
e forma, e allora ciò che coerisce nell’unità dell’oggetto, e che non può venir
realmente separato, diventa tuttavia separabile idealmente. Anche quando le
condizioni preliminari di quest'operazione di separazione sono molto complesse,
l'operazione stessa è tuttavia semplice. Essa è determinata, al pari della
comparazione, dal contenuto di fatto che reca a conoscenza. E qui si apre la
prospettiva sul processo di astrazione, così importante per la costruzione
della logica. La distinzione delle membra di un corpo inerisce alla realtà
concreta del corpo; in ognuna delle sue parti è mantenuta questa realtà
concreta, ma quando estensione e colore vengono tra loro separati, e il
pensiero si rivolge al colore, allora da tale distinzione sorge l’operazione
dell’astrazione: di ciò che è stato idealmente separato viene posto in evidenza
un aspetto. L'unione di vari elementi distinti si può compiere solo sulla base
di una relazione tra questi vari elementi. Noi cogliamo il rapporto spaziale
tra stati di fatto distinti,o gli intervalli in cui i processi si susseguono
temporalmente. Anche questo collegare e questo unire portano soltanto a coscienza
rapporti che già sussistono; ma ciò avviene mediante operazioni di pensiero che
hanno a base relazioni, come quelle di spazio e di tempo, di fare e subire.
Questo prendere insieme è la condizione perché si costituisca l'intuizione del
tempo. Quando il battito di un orologio si succede varie volte, davanti a me
sta soltanto il susseguirsi di tali impressioni, ma solo prendendole insieme
diventa possibile comprendere questa successione. Questo prendere insieme dà
luogo al rapporto logico di una totalità con le sue parti. Sulla base dei
rapporti di separazione e della graduale differenza delle relazioni contenute
nel sistema di suoni sorge, in questo collegamento, un complesso così
condizionato che viene però in luce soltanto nel collegamento stesso, e cioè
l'accordo o la melodia. Qui appare particolarmente chiaro come il prendere
insieme avviene entro ciò che è contenuto nell’Erlebnis di percezione o di
ricordo, e come tuttavia sorge in esso qualcosa che non esisteva senza quel
prendere insieme. Noi ci troviamo qui ai limiti che conducono al di sopra della
constatazione di ciò che è contenuto in tali rapporti, nella regione della
libera fantasia. Questi esempi e non si
tratta di nulla di più dimostrano che le
operazioni elementari del pensiero spiegazo il dato. Precedendo il pensiero
discorsivo, esse ne contengono le premesse, in quanto nella comparazione si
preparano la formazione dei giudizi e dei concetti generali e il procedimento
comparativo, nella separazione le astrazioni e il procedimento analitico, e
infine nelle relazioni ogni specie di operazioni sintetiche. Così un’interna
connessione fondante va dalle operazioni elementari di pensiero al pensiero
discorsivo, dall’apprendimento del contenuto di fatto degli oggetti ai giudizi
su di essi. Ciò che è percepito sensibilmente o immediatamente vissuto
trapassa, a un ulteriore grado di coscienza, nella rappresentazione della
memoria. In essa si compie un'ulteriore operazione dell'apprendimento
oggettivo, a cui corrisponde un particolare rapporto della nuova formazione con
il suo fondamento. Questo rapporto della rappresentazione della memoria con il
contenuto dell’apprendimento sensibile e dell’Erlebnis è un rapporto di
riproduzione. Infatti la libera mobilità delle rappresentazioni è, nel campo
dell’apprendimento oggettivo, limitata dall’intenzione di adeguarsi alla realtà
e tutti i modi di formazione delle rappresentazioni sono determinati da questo
orientamento verso la realtà. In esso sorgono rappresentazioni totali e
rappresentazioni generali, preparando un nuovo grado della coscienza. Questo
nuovo grado viene alla luce nel pensiero discorsivo: il rapporto di
riproduzione cede qui il posto a un’altra relazione entro l'apprendimento
oggettivo.Il pensiero discorsivo è legato all’espressione, in primo luogo al
linguaggio. In ciò consiste la relazione dell’espressione con ciò che è
espresso, mediante la quale sorgono forme linguistiche sulla base dei movimenti
degli organi linguistici e delle rappresentazioni dei loro prodotti. La
relazione con ciò che in esse viene espresso costituisce la loro funzione: esse
hanno un significato come elementi della proposizione, mentre la proposizione
medesima ha un senso. La direzione dell’apprendimento va dalla parola e dalla
proposizione all'oggetto che esse esprimono: in tal modo sorge la relazione tra
Gi proposizione grammaticale, o l’espressione effettuata mediante altri segni,
e il giudizio che produce tutte le parti del pensiero discorsivo. Qual è ora il
rapporto tra il dato o il contenuto rappresentativo, condizionato dalle
precedenti operazioni degli Erlebnisse di apprendimento, e il giudizio? In
questo uno stato di fatto viene predicato di un oggetto: da ciò deriva che non
si può qui parlare di una riproduzione del dato o del contenuto
rappresentativo. Dalla connessione di pensiero procedo alla determinazione
positiva del rapporto. Ogni giudizio è analiticamente contenuto in essa, e
viene inteso come suo elemento. Nella connessione dell’apprendimento oggettivo
ogni sua parte si riferisce, per il tramite della connessione in cui è
inserito, al fatto di essere contenuto nella realtà. Questa è infatti la regola
suprema a cui sottostà ogni giudizio: esso deve essere contenuto nel dato
secondo le leggi formali del pensiero e secondo le forme del pensiero. Anche
giudizi che esprimono qualità o azioni di Zeus o di Amleto sono riferiti nella
connessione del pensiero a un dato. Così tra il giudizio e le forme finora
illustrate dell’apprendimento oggettivo sorge un nuovo rapporto, il quale
mostra due aspetti. Questa duplicità è determinata dal fatto che il giudizio da
una parte è fondato nel dato, ma dall'altra rende esplicito ciò che in questo è
contenuto solo implicitamente, ma in forma esplicitabile. Nella prima relazione
sorge il rapporto di rappresentazione: il giudizio rappresenta per mezzo di
contenuti di fatto, racchiusi nel dato, elementi del pensiero che soddisfano le
esigenze di costanza, chiarezza, distinzione, legame stabile con i segni
verbali che sono inerenti al sapere. D'altro lato, i giudizi realizzano l’intenzione
dell’apprendimento oggettivo di avvicinarsi dal condizionato, dal particolare e
dal mutevole ai rapporti fondamentali della realtà. Il rapporto di
rappresentazione si estende all’intera connessione del pensiero discorsivo
entro l'apprendimento oggettivo, in quanto questo si compie mediante il
giudicare. Il dato nella sua concreta intuitività e il mondo di
rappresentazioni che lo riproduce sono in ogni forma del pensiero discorsivo
rappresentati da un sistema di relazioni tra elementi stabili del pensiero. E a
ciò corrisponde, nella direzione inversa, che quando si ritorna all’oggetto
questo conferma e verifica, nella pienezza della sua esistenza intuitiva, il
giudizio o il concetto. Proprio per le scienze dello spirito è particolarmente
importante che l’intera freschezza e l’intera forza dell’Er/ebris ritornino poi
direttamente, o nella direzione dall’intendere all'Erleden. Il rapporto di
rappresentazione implica che, in determinati limiti, il dato e il pensato
discorsivo siano scambiabili. Se si sottopone ad analisi la connessione del
pensiero discorsivo, si presentano in questa dei modi di relazione, i quali
ritornano regolarmente prescindendo dal mutamento dei contenuti del pensiero e
sussistono al tempo stesso in ogni luogo della connessione del pensiero, nonché
in rapporto interno tra di loro; tali forme del pensiero sono il giudizio, il
concetto e il sillogismo, che si presentano in ogni parte della connessione del
pensiero discorsivo e formano la sua intelaiatura. Ma anche le classi di
operazioni del pensiero discorsivo, subordinate a queste forme elementari la comparazione, l'analogia, l’induzione, la
partizione, la definizione, e infine la connessione fondante sono indipendenti dalla delimitazione dei
singoli campi del pensiero, in particolare dalla reciproca delimitazione delle
scienze della natura e delle scienze dello spirito. Esse si distinguono secondo
i compiti dell’intera connessione del pensiero, che la realtà pone secondo i
suoi rapporti generali, mentre sono le forme particolari del metodo a esser
condizionate dalle qualità dei singoli campi. Alla regolarità di queste forme
corrisponde la validità del loro lavoro concettuale, e di questa acquistiamo
certezza mediante la coscienza dell’evidenza. E le qualità più generali a cui è
legata la validità di queste diverse forme, indipendente dal mutare degli
oggetti e costante nel venire e nell’andare degli Erlebnisse di pensiero e dei
loro soggetti, si esprimono nelle leggi del pensiero. Noi non abbiamo bisogno
di superare il rapporto di rappresentazione, quando passiamo dai giudizi di
realtà ai giudizi necessari. Un assioma di geometria è necessario in quanto
esso esprime i rapporti fondamentali ovunque constatabili con l’analisi
dell’intuizione spaziale, e del pari il carattere di necessità delle leggi del
pensiero è abbastanza spiegato dal fatto che esse sono ovunque contenute
analiticamente nella connessione del pensiero. Un metodo scientifico sorge in
quanto le forme e le operazione generali del pensiero vengono collegate in un
tutto composto mediante lo scopo racchiuso nella soluzione di un determinato
compito scientifico. Se si presentano problemi simili a questo compito, allora
il metodo applicato a un campo limitato si rivelerà fecondo anche per un campo
più ampio. Spesso un metodo, nello spirito del suo scopritore, non è ancora
legato alla coscienza del carattere logico e della portata che lo
caratterizzano: questa coscienza sorge soltanto in seguito. Essendosi il
concetto di metodo sviluppato per secoli particolarmente nell’uso linguistico
dello studioso della natura, anche il procedimento che tratta una questione di
dettaglio, ed è quindi assai più complesso, può venir designato come metodo.
Quando si aprono differenti vie per la soluzione dello stesso problema, esse
vengono differenziate come metodi diversi. Dove le forme di procedere di uno
spirito mostrano qualità comuni, la storia delle scienze parla di un metodo di
Cuvier! nella paleontologia o di un metodo di Niebuhr? nella critica storica.
Con la dottrina del metodo entriamo nel campo in cui comincia a farsi valere il
carattere particolare delle scienze dello spirito. 1.
Gcorges-Léopold-Chrétien-Frédéric Dagobert barone di Cuvier (1769-1832),
naturalista frapcese, autore del Tableau élfmentaire de l'histoire naturelle
(1798), delle Legons d’anatomie comparée (1800), delle Recherches sur les
ossements fossiles des quadrupèdes (1812), de Le règne animal distribué après
son organisation (1817) e di numerose altre opere, si dedicò a studi di
zoologia, con particolare riguardo all'analisi della struttura dci molluschi e
dei pesci, e di paleontologia. Le sue indagini hanno aperto la strada
all'esplorazione degli animali fossili. 2. Barthold Georg Niebuhr (1776-1831),
storico tedesco, autore di una fondamentale Rémische Geschichte (1811-32), impostò
la propria analisi del mondo antico sulla base di una critica sistematica delle
fonti; il suo scetticismo mise capo a una radicale svalutazione delle
testimonianze antiche sulla storia romana. Tutti gli Erlebnisse
dell’apprendimento oggettivo sono, entro la sua connessione teleologica,
diretti alla penetrazione di ciò che è, vale a dire della realtà. Il sapere
forma una gradualità di operazioni: il dato è spiegato nelle operazioni
elementari del pensiero, riprodotto nelle rappresentazioni, tradotto nel
pensiero discorsivo e così rappresentato in differenti modi. Perciò la
spiegazione del dato mediante le operazioni elementari del pensiero, la
riproduzione nella rappresentazione rammemorata e la traduzione nel pensiero
discorsivo possono venir racchiuse entro il più ampio concetto di
rappresentazione. Tempo e ricordo liberano l'apprendimento della dipendenza dal
dato e compiono una scelta di ciò che è significativo per l’apprendimento; il
particolare viene sottoposto agli scopi dell’apprendimento della realtà
mediante la relazione col tutto e mediante la subordinazione sotto il generale;
la mutabilità del dato intuitivo viene elevata a rappresentazione
universalmente valida in una relazione concettuale; mediante l’astrazione e il
procedimento analitico il concreto viene inserito in serie uniformi che
consentono asserzioni di regolarità, oppure penetrato nella sua articolazione
attraverso un’opera di suddivisione. L’apprendimento tende così a esaurire
sempre di più ciò che ci è accessibile nel dato. 2. In due direzioni sono
logicamente collegati gli Er/ebnisse che appartengono all’apprendimento
oggettivo: nell’una gli Erlebnisse sono in rapporto tra loro in quanto, come
gradi nell’apprendimento del medesimo oggetto, cercano di esaurire mediante
esso ciò che è contenuto nell’Erlebez o nell’intuire, e nell'altra
l'apprendimento collega un elemento di fatto con l’altro mediante le relazioni
reciproche che vengono colte. Là si ha un approfondimento nell’oggetto
particolare e qui un’estensione universale: approfondimento ed estensione che
sono in dipendenza reciproca. Intuizione, ricordo, rappresentazione totale,
denominazione, giudizio, subordinazione del particolare all’universale,
collegamento delle parti in un tutto queste
sono forme dell’apprendimento: senza che l’oggetto debba mutare, cambia il modo
e la forma di coscienza in cui esso esiste per noi, quando si passa
dall'intuizione al ricordo o al giudizio. La direzione verso lo stesso oggetto,
che è loro comune, le collega in una connessione teleologica, in cui hanno
posto solo quegli Erlebnisse che compiono qualche operazione nella tendenza a
cogliere questo determinato elemento oggettivo. Questo carattere teleologico
della connessione, che qui si presenta, condiziona il passaggio da un elemento
all’altro entro di essa. E finché l’Erlebnis non è pienamente esaurito, o
l’oggettività data parzialmente e unilateralmente nelle intuizioni particolari
non è ancora pervenuta a pieno apprendimento e a compiuta espressione, vi è
sempre un clemento di insoddisfazione, e questo esige che si proceda oltre. Le
percezioni che riguardano lo stesso oggetto sono tra loro legate in una
connessione teleologica, in quanto procedono riferendosi al medesimo oggetto.
Così una particolare osservazione sensibile ne richiede sempre più altre, che
vengono a completare l'apprendimento dell’oggetto; e in questo processo di
completamento si esige già il ricordo, come ulteriore forma di apprendimento.
Esso sta, entro la connessione dell'apprendimento oggettivo, in un saldo
rapporto con il fondamento intuitivo, in maniera che ha la funzione di
riprodurre, ricordare e mantenere così utilizzabile questo fondamento per
l'apprendimento oggettivo. Qui appare assai chiaramente la distinzione tra
l'apprendimento dell’Erlebris della memoria che studia il processo che sta a
base di esso nelle sue uniformità, e la nostra considerazione della memoria
secondo la sua funzione nella connessione dell’apprendimento, per cui esso
riproduce ciò che è immediatamente vissuto o appreso. La memoria può accogliere
in sé, sotto un’impressione o sotto l'influenza di uno stato d'animo,
molteplici contenuti distinti dal loro fondamento, e proprio qui hanno la loro
origine le immagini estetiche della fantasia: ma la memoria presente in tale
connessione teleologica, basata sulla penetrazione dell’oggetto, possiede la
tendenza verso l’identità con il contenuto intuitivo o vissuto
dell’apprendimento oggettivo. E che la memoria abbia compiuto la sua funzione
nell’apprendimento oggettivo risulta dalla possibilità di constatare la sua
somiglianza con il fondamento percettivo dell’apprendimento. In questa tendenza
degli Erlebnisse conoscitivi verso un oggetto particolare è già presente il
procedere verso qualcosa di sempre nuovo. I mutamenti nell’oggetto mostrano la
connessione dinamica in cui esso si trova, e, in quanto il contenuto di fatto
può venir spiegato solo mediante nomi, concetti, giudizi, è richiesto un
ulteriore passaggio dall’intuizione particolare all’universale. A questa
tendenza verso la totalità, l’elemento attivo, l’universale, corrisponde il
procedere delle relazioni rintracciabili nel singolo oggetto a quelle che hanno
luogo in più grandi connessioni oggettive. In tal modo la prima tendenza delle
relazioni conduce alla seconda. Nella prima tendenza erano tra loro collegati
quegli Erlebnisse di apprendimento che tendono a cogliere in maniera sempre più
adeguata lo stesso oggetto mediante diverse forme di rappresentazione. Nella
seconda sono invece collegati gli Er/ebnisse che si estendono a sempre nuovi
oggetti e penetrano leloro relazioni reciproche, sia nella stessa forma di
apprendimento sia attraverso l’unione di diverse sue forme. Sorgono così
rapporti complessi, i quali risultano particolarmente chiari nei sistemi
omogenei, che rappresentano cioè rapporti di spazio, di suono o di numero ®.
Ogni scienza si riferisce a un’oggettività suscettibile di delimitazione, in
cui risiede la sua unità, e la connessione del campo scientifico dà ai principi
che esso racchiude la loro coerenza reciproca. Il completamento di tutte le
relazioni contenute in ciò che è immediatamente vissuto o intuito costituirebbe
il concetto di mondo: in esso è racchiusa la pretesa di esprimere tutto ciò che
può venir immediatamente vissuto o intuito mediante la connessione delle
relazioni di fatto in esso racchiuse. Questo concetto di mondo è l’esplicazione
che è data anzitutto nell'orizzonte spaziale. Spiegazione, riproduzione e
rappresentazione sono gradi della relazione col dato, in cui l’apprendimento
oggettivo si approssima al concetto di mondo. Essi sono gradi, poiché in ognuna
di queste posizioni dell’apprendimento oggettivo quella precedente costituisce
la base di quella successiva. a. Ideen tiber eine beschreibende und
zergliedernde Psychologie,
Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften
, 1894, p. 1352 (ora in Gesammelte Schriften, vol. V, p. 132]. b. Qui lo
sguardo si dirige anche al compito logico di riduzione delle forme del pensiero
discorsivo a forme di espressione dei rapporti presenti nel dato, così come
vengono posti in luce dalle operazioni elementari del pensiero. Dai fatti
contenuti nel campo dell’apprendimento sensibile noi Allorché questa
connessione dell’apprendimento oggettivo sottostà alle condizioni contenute
nelle scienze dello spirito, viene a delinearsi la particolare struttura di
tali discipline. Sulla base delle forme e delle operazioni generali del
pensiero si fanno qui valere compiti specifici, che trovano la loro soluzione
nell’intreccio di metodi propri. Nell’elaborazione di queste forme di
procedimento le scienze dello spirito sono state ovunque influenzate dalle
scienze della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro metodi, si è
avuto in larga misura un adattamento di essi ai compiti delle scienze dello
spirito. In due punti ciò risulta particolarmente evidente: nella biologia sono
stati scoperti per siamo condotti a considerare l’immanenza dell'ordine entro
la materia della nostra esperienza sensibile, e la distinzione della materia
delle impressioni dalle forme di collegamento si rivela un mero strumento di
astrazione. Il principio di identità dice che ogni proposizione vale
indipendentemente dal posto mutevole che essa occupa entro la connessione del
pensiero e dal mutamento che avviene nei soggetti delle asserzioni; e il
principio di contraddizione ha a suo fondamento quello di identità. In questo
al principio di identità si aggiunge la negazione, che è soltanto il rifiuto di
un'assunzione che si presenta in noi o al di fuori di noi, e si riferisce
sempre a un’asserzione già formulata, sia questa contenuta in un atto cosciente
del pensiero o in un'altra forma. Il principio di identità esige per la
proposizione una validità costante; e perciò viene esclusa l'eliminazione di
tale proposizione. Noi non possiamo al tempo stesso affermarla e negarla, in
quanto viene alla coscienza il rapporto di contraddizione. E quando dichiaro
falso il giudizio negativo, io rifiuto di eliminare la proposizione, e ne
risulta confermata l’'asserzione affermativa: il principio del terzo escluso
esprime questo fatto. Così le leggi del pensiero non designano alcuna
condizione aprioristica per il nostro pensiero; e i rapporti racchiusi nella
comparazione, nella separazione, nell’astrazione, nella relazione, si ritrovano
poi nelle operazioni del pensiero discorsivo e nelle categorie formali, di cui
si parlerà poi. Non è necessario ritenere che il giudizio presupponga il
subentrare del rapporto categoriale tra cosa e qualità, poiché questo può venir
inteso in base alla relazione tra l'oggetto e ciò che da esso è predicato. la
prima volta i metodi comparativi poi sempre maggiormente applicati alle scienze
sistematiche dello spirito, e i metodi sperimentali elaborati dall’astronomia e
dalla fisiologia sono stati trasferiti alla psicologia, all'estetica e alla
pedagogia. Anche oggi, nello sforzo di soluzione di compiti particolari, lo
studioso di psicologia di pedagogia, di linguistica o di estetica si chiederà
spesso se i mezzi e i metodi scoperti nelle scienze della natura per la
soluzione di problemi analoghi possano venir sfruttati nel proprio campo. Ma,
nonostante tali punti particolari di contatto, la connessione delle forme di
procedimento delle scienze dello spirito è, fin dal suo inizio, diversa dalla
connessione delle scienze della natura. Qui vengono considerati soltanto i
principi generali necessari per la penetrazione della connessione delle scienze
dello spirito, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della
costruzione delle scienze dello spirito. Due spiegazioni terminologiche devono
essere qui anticipate: per unità della vita psichica intendo gli elementi del
mondo storico-sociale, e con struttura psichica designo la connessione in cui,
nelle unità della Vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni. 1. La
vita. Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erledn:s, espressione e
intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dall’approfondimento degli
Erlebnisse sia dalla crescente tendenza all'esaurimento del loro contenuto, ed
è nel medesimo tempo condizionato dall’estensione dell’intendere all'intera
oggettiva zione dello spirito e dalla capacità di cogliere in modo sempre più
compiuto e metodico il contenuto spirituale delle diverse manifestazioni della
vita. Il complesso di ciò che ci si rivela nell’Erleden e nell’intendere è la
vita come connessione che comprende il genere umano. E quando per la prima
volta ci troviamo di fronte a que134 WILHELM DILTHEY sto grande fatto, che per
noi è il punto di partenza non soltanto delle scienze dello spirito ma anche della
filosofia, occorre andar oltre la sua elaborazione scientifica e penetrare il
fatto stesso nella sua costituzione grezza. Infatti, dove la vita ci si
presenta come uno stato di fatto proprio del mondo umano, noi incontriamo le
sue determinazioni nelle varie unità della vita; incontriamo rapporti vitali,
presa di posizione, l’atteggiamento, la creazione effettuata sulle cose e sugli
uomini e la sofferenza che ne deriva. Nello sfondo permanente da cui emergono
le operazioni differenziate, non c'è nulla che non contenga un rapporto vitale
dell'io. Come tutto ha qui una posizione di fronte ad esso, altrettanto viene
però a mutare la situazione dell’io secondo il rapporto che le cose e gli
uomini hanno con esso: non esistono nessun uomo e nessuna cosa che siano
soltanto oggetti per me, e che non racchiudano una pressione o un vantaggio, il
fine di una tendenza o un’obbligazione del volere, un'importanza, una pretesa
di esser preso in considerazione, una vicinanza interna o una resistenza, una
distanza e una estraneità. Il rapporto vitale, sia esso limitato a un dato
momento o duraturo, fa sì che tali uomini e tali oggetti mi rechino felicità,
estendano la mia esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a limitare
in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a esercitare una pressione su
di me, a diminuire la mia forza. E ai predicati che le cose acquistano soltanto
nel rapporto vitale con me corrisponde il mutare degli stati in me stesso che
ne scaturisce. Su questo sfondo della vita emergono poi l'apprendimento
oggettivo, la valutazione, la posizione di scopi, come tipi di atteggiamento
che hanno luogo in innumerevoli sfumature che passano l’una nell'altra: essi
sono legati nel corso della vita in interne connessioni, le quali comprendono e
determinano ogni occupazione e ogni sviluppo. Se illustriamo ciò con il modo in
cui il poeta lirico reca a espressione l’Erlebnis, si vede che egli muove da
una situazione e raffigura uomini e cose nel rapporto vitale con un io ideale,
in cui la sua esistenza e entro di essa il corso della sua esperienza vengono
accentuate nella fantasia; questo rapporto di vita determina ciò che il vero
lirico vede ed esprime degli uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta
epico può dire soltanto ciò che emerge in un rapporto di vita da lui
raffigurato. Oppure, quando lo storico descrive situazioni e persone storiche,
egli desterà un'impressione della vita reale, tanto più forte quanto meglio
raffigura tali rapporti di vita. Egli deve porre in luce le qualità degli
uomini e delle cose che scaturiscono e operano in tali rapporti di vita e, si potrebbe dire, dare alle persone, alle
cose, ai processi, la forma e il colore in cui essi hanno dato forma, dal punto
di vista del rapporto di vita, a percezioni e a immagini di memoria nella vita
stessa. 2. L'esperienza della vita. L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo,
e così in esso sono già contenute immagini di memoria. E in quanto ciò che è
immediatamente vissuto cresce continuamente e sempre più svanisce con il
progredire del tempo, sorge il ricordo del corso della propria vita. Parimenti,
sulla base della comprensione di altre persone, si formano i ricordi dei loro
stati e le immagini esistenziali delle diverse situazioni; e certo in tutti
questi ricordi la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenuti
di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione di ciò che in tal
modo si presenta insieme sorge l’esperienza di vita dell’individuo. Essa sorge
in forme di procedimento equivalenti a quelle dell’induzione. Il numero dei
casi, in base ai quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso
della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono sempre corrette. La
sicurezza che spetta all'esperienza personale della vita è distinta dalla
validità universale di tipo scientifico: infatti queste generalizzazioni non
sono compiute metodicamente e non possono venir racchiuse in formule rigorose.
Il punto di vista individuale, inerente all’esperienza personale della vita, si
corregge e si amplia nell’esperienza generale della vita: con questa io intendo
i princìpi che si formano in qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco
e che sono comuni ad esse. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di
giudizi di valore, di regole della condotta di vita, di determinazioni di scopi
e di beni: il loro contrassegno sta nel fatto che esse sono creazioni della
vita collettiva, le quali riguardano tanto la vita dell’uomo singolo quanto la
vita delle comunità. 136 WILHELM DILTHEY Sotto il primo aspetto, in quanto
costume, abitudine e, in riferimento alla persona individuale, come opinione
pubblica, esse esercitano, per il prevalere del numero e per il sopravvivere
della comunità alla persona singola, un potere su di questa e sulla sua
esperienza o forza di vita, che sovrasta di solito la volontà di vita
dell’individuo. La sicurezza di questa esperienza generale della vita rispetto
a quella personale è maggiore, in quanto i punti di vista individuali
pervengono in essa a un equilibrio e cresce il numero dei casi che stanno a
base dell’induzione. D'altra parte in questa esperienza generale si rivela, in
modo ancor più forte che in quella individuale, l’incontrollabilità
dell'origine del suo sapere dalla vita. 3. La distinzione delle forme di
atteggiamento nella vita e le classi di asserzioni nell'esperienza della vita.
Nell’esperienza della vita si presentano ora diverse classi di asserzioni, le
quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento nella vita. Infatti la vita
non è solo la fonte del sapere, considerata nel suo contenuto d'esperienza; le
tipiche forme di atteggiamento dell’uomo condizionano pure le diverse classi di
asserzioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di questa
relazione tra la diversità di atteggiamento della vita e le asserzioni
dell’esperienza della vita. Nei singoli rapporti di fatto della vita, che si
presentano tra l'io da un lato e le cose e gli uomini dall’altro, sorgono i
diversi stati della vita: situazioni differenziate dell’io, sentimenti di
pressione o di accrescimento dell’esistenza, desiderio di un oggetto, timore o
speranza. E come cose o uomini esercitanti una pretesa sull'io assumono uno
spazio nella sua esistenza, come sono portatori di vantaggi o di impedimenti,
come sono oggetti di desiderio, di aspirazione, di distacco, così da questi
rapporti vitali derivano le determinazioni a essi relative, che si aggiungono
all’apprendimento oggettivo di uomini e di cose. Tutte queste determinazioni
dell’io e degli oggetti o delle persone, quali scaturiscono dai rapporti della
vita, vengono elevate a riflessione ed espresse nel linguaggio: così nascono in
esso di-stinzioni come asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, imWILHELM
DILTHEY 137 erativo. Se si prendono ora in esame le espressioni che si
riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di posizione
dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che esse rientrano in certe
classi supreme. Esse constatano una realtà, valutano, designano una posizione
di scopo, formulano una regola, esprimono il significato di un fatto in base
alla più ampia connessione in cui esso è inserito. Inoltre vengono in luce Je
relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell’esperienza della vita:
gli atti di penetrazione della realtà formano uno strato sul quale poggiano le
valutazioni, e questo strato è a sua volta la base per le posizioni di scopo.
Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i loro prodotti
vengono oggettivati nelle asserzioni che constatano tali forme in quanto stati
di fatto; analogamente vengono rese indipendenti le predicazioni di uomini e di
cose, che scaturiscono dai rapporti vitali. Questi stati di fatto sono
nell’esperienza della vita elevati a sapere universale mediante un procedimento
equivalente all’induzione: così sorgono le molteplici proposizioni, poste in
luce nella saggezza generalizzante del popolo e nella letteratura sotto forma
di proverbi, di regole di vita, di riflessioni sulle passioni, sui caratteri e
sui valori della vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono
osservate nell’espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre forme
di atteggiamento. Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni
dell’esperienza della vita. Già nella vita medesima la conoscenza della realtà,
la valutazione, l’elaborazione di regole, la posizione di scopi si sviluppano
in differenti gradi, di cui ognuno è il presupposto del successivo. Essi sono
stati indicati per l’apprendimento oggettivo; ma sussistono del pari nelle
altre forme di atteggiamento. Così la stima dei valori dinamici di cose o di
uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di recar utile o
danno racchiuse negli oggetti, e una decisione diventa possibile solo mediante
la ponderazione del rapporto delle rappresentazioni di fine con la realtà e i
mezzi, in essa dati, di realizzare tali rappresentazioni. Le unità ideali come
sostegni della vita e dell'esperienza della vita. Un’infinita ricchezza di vita
si sviluppa nell’esistenza indivi duale delle varie persone, attraverso i loro
rapporti con l’ambiente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni singolo individuo
è nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che pervadono gli
individui e sussistono in essi, ma sovrastano la loro vita e posseggono
un'esistenza autonoma e un proprio sviluppo per il contenuto, il valore, lo
scopo che vi si realizza. Sono cioè soggetti di tipo ideale: a essi è
intrinseco qualche sapere intorno alla realtà; in essi si sviluppano punti di
vista di valutazione; in essi si realizzano scopi; per cui acquistano e
mantengono un significato nella connessione del mondo spirituale. Ciò avviene
già in alcuni sistemi di cultura nei quali non c'è un’organizzazione che
racchiuda i suoi elementi, come in generale nell'arte e nella filosofia.
Altrove sorgono però unioni organizzate. Così la vita economica crea le sue
associazioni, e nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi
compiti, e le religioni dànno vita alle organizzazioni più salde tra tutti i
sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme intermedie tra questa e
lo stato, nello stato medesimo si trova poi la suprema elaborazione di
un’unitaria posizione di scopi entro una comunità. Ogni unità organizzata di
uno stato sviluppa una conoscenza di se stesso e delle regole, a cui è legata
la sua sussistenza, così come della sua situazione di fronte al tutto. Essa
gode dei valori sviluppatisi nel suo grembo; essa attua gli scopi che riposano
sul suo essere e che servono alla conservazione e alla promozione della sua
esistenza. Essa stessa è un bene dell’umanità, realizza beni e acquista un
significato specifico entro la connessione dell'umanità. Arriva ora il punto in
cui si presentano al nostro sguardo la società e la storia. Sarebbe però
erroneo voler limitare la storia al cooperare degli uomini in vista di scopi
comuni. L'uomo singolo, nella sua esistenza individuale che poggia su se
stessa, è un essere storico. Egli è determinato dalla sua posizione nella linea
del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazioWILHELM DILTHEY 139 ne
nell’azione reciproca dei sistemi di cultura e delle comunità. Lo storico deve
quindi intendere l’intera vita degli individui com’essa si manifesta in un
determinato tempo e in un determinato luogo. Proprio l’intera connessione che
va dagli individui, in quanto orientati verso lo sviluppo della propria
esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, e infine all’umanità,
costituisce la natura della società e della storia. I soggetti logici, a cui ci
si riferisce nella storia, sono tanto gli individui particolari quanto le
comunità e le connessioni. 5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla
vita degli individui e delle comunità. La vita, l’esperienza della vita e le
scienze dello spirito stanno dunque in una costante connessione interna e in un
costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale costituisce il
fondamento delle scienze dello spirito, ma la consapevolezza di uno stato
psichico nella sua totalità e il suo ritrovamento nel rivivere. La vita coglie
qui la vita, e la forza con cui vengono compiute le due operazioni elementari
delle scienze dello spirito è la condizione preliminare della loro compiutezza
in ogni parte di esse. Così anche in questo punto si nota una differenza
decisiva tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In quelle la
distinzione del nostro rapporto con il mondo esterno avviene sulla base del
pensiero naturalistico, le cui operazioni produttive hanno un riferimento
esterno, mentre in queste si mantiene una connessione tra vita e scienza, per
cui il lavoro della vita nell’elaborazione del pensiero costituisce la base per
la creazione scientifica. L’approfondimento in se stesso perviene nella vita,
sotto certe circostanze, a una perfezione a cui neppure Carlyle? è pervenuto, e
la comprensione degli altri viene qui condotta a un livello di virtuosismo che
neppur Ran3. Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo romantico inglese,
autore del Sartor Resartus (1833-34), della History of the French Revolution
(1838), di On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History (1841) c di varie
altre opere, contribuì in misura rilevante all’introduzione dell'idealismo
tedesco, in particolare del pensiero di Schelling, nella cultura inglese. La
sua concezione della storia mette in risalto l’importanza decisiva degli eroi . 140 WILHELM DILTHEY ke' ha raggiunto.
Da una parte le grandi nature religiose, come Agostino e Pascal, sono gli
eterni modelli per l’esperienza che si nutre del proprio Erlebnis, e
dall’altra, nella comprensione delle altre persone, la corte e la politica
educano a un'arte che guarda al di là di ogni apparenza; un uomo di azione come
Bismarck, al quale sono sempre presenti per natura i suoi fini in ogni lettera
che scrive e in ogni colloquio, non può venir eguagliato da nessun interprete
di atti politici e da nessun critico di narrazioni storiche per ciò che
riguarda l’arte di leggere le intenzioni che stanno al di là dell’espressione.
Tra la penetrazione di un dramma da parte di un ascoltatore di forte
sensibilità poetica e la più eccellente analisi di storia letteraria non c’è,
in parecchi casi, alcuna distanza. E anche l’elaborazione concettuale è
continuamente determinata, nelle scienze storico-sociali, dalla vita medesima:
mi riferisco alla connessione che conduce continuamente dalla vita,
dall’elaborazione concettuale intorno al destino, ai caratteri, alle passioni,
ai valori e agli scopi dell’esistenza, fino alla storia come disciplina
scientifica. Nell’epoca in cui, in Francia, l’azione politica era fondata più
sulla conoscenza degli uomini e delle personalità eminenti che su uno studio
scientifico del diritto, dell'economia e dello stato, e la posizione nella vita
di corte poggiava su tale arte, anche la forma letteraria delle memorie e degli
scritti sui caratteri e sulle passioni è pervenuta a un’altezza non più
raggiunta in seguito, ed è stata coltivata da persone poco influenzate dallo
studio scientifico della psicologia e della storia. Una connessione interna
unisce qui l'osservazione della società illustre, i letterati e i poeti che da
essa imparano, i filosofi sistematici o gli storici scientifici che si formano
sulla base della poesia e della letteratura. Si è visto, agli inizi della
scienza politica in Grecia, che lo sviluppo dei concetti relativi alle
costituzioni e alle funzioni politiche ha preso le mosse dallo stesso 4.
Leopold von Ranke (1795-1886), storico tedesco, autore della Geschichte der
romanischen und germanischen Vélker von 1494 bis 1535 (1824) seguita dalla
celebre dissertazione Zur Kritik neuerer Geschichtsschreiber, di Die ròmischen
Pùpste, ihre Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert (1834-36), della
Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation (1839-47) e di numerose altre
opere, è la principale figura della scuola storica tedesca. La sua attività
storiografica culmina nelle conferenze dedicate alle Epochen der neueren
Geschichte (1854) e nella Weltgeschichte (1881-1885), rimasta incompleta.
sviluppo della vita statale, e che muove creazioni in questa hanno poi condotto
a nuove teorie. Questo rapporto risulta quanto mai evidente nei più antichi
stadi della scienza giuridica tanto romana quanto germanica. 6. La connessione
delle scienze dello spirito con la vita e il loro compito di validità
universale. Così il sorgere dalla vita e la perdurante connessione con essa
costituisce il primo tratto fondamentale della struttura delle scienze dello
spirito; esse poggiano infatti sull’Er/eden, sull’intendere e sull’esperienza
della vita. Questo rapporto immediato, in cui stanno tra loro la vita e le
scienze dello spirito, conduce in tali discipline a un’antitesi tra le tendenze
della vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli
economisti, i teorici del diritto pubblico, gli studiosi della religione sono
inseriti nella vita, vogliono anche influire su di essa. Essi sottopongono al
loro giudizio persone storiche, movimenti di massa, tendenze, ma tale giudizio
è condizionato dalla loro individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal
tempo in cui vivono. Anche quando credono di procedere senza presupposti, essi
sono determinati da questo loro orizzonte: ogni analisi intrapresa sui concetti
di una generazione passata mostra che in questi sono contenuti elementi, i
quali derivano dai presupposti dell’epoca. Però nel medesimo tempo in ogni scienza
come tale è contenuta l'esigenza della validità universale. Se debbono esserci
scienze dello spirito nel significato ristretto del termine, esse debbono porsi
questo fine in maniera sempre più cosciente e più critica. Sull’antitesi di
queste due tendenze si basa gran parte dei contrasti scientifici che si sono
manifestati, negli ultimi tempi, nella logica delle scienze dello spirito. Tale
antitesi si esprime nella maniera più forte entro la scienza storica, che è
diventata il punto centrale in questa discussione. La soluzione di questa
antitesi si compie soltanto nella costruzione delle scienze dello spirito; gli
ulteriori principi generali sulla connessione delle scienze dello spirito già
contengono il principio di tale soluzione. Il risultato finora da noi
conseguito permane. La vita e l’esperienza della vita sono le fonti 142 WILHELM
DILTHEY sempre nuove della comprensione del mondo storico-sociale; la
comprensione procede dalla vita verso sempre maggiori profondità; e soltanto
nella reazione sulla vita e sulla società le scienze dello spirito pervengono
al loro più alto significato, che è in continuo accrescimento. Ma la strada
verso questa azione deve passare attraverso l’oggettività della conoscenza
scientifica. La coscienza di ciò era già operante nella grande epoca creatrice
delle scienze dello spirito. In seguito a vari disturbi che si possono
riscontrare nel corso del nostro sviluppo nazionale, ma anche nell’applicazione
di un ideale culturale unilaterale dopo Burckhardt®, noi cerchiamo ora di elaborare
questa oggettività delle scienze dello spirito in maniera sempre più priva di
presupposti, più critica, più rigorosa. Io trovo il principio per la soluzione
dell’antitesi che si presenta in queste scienze nella comprensione del mondo
storico come una connessione dinamica, la quale è centrata in se stessa, in
quanto ogni connessione dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, in
virtù della posizione e della realizzazione di valori, il proprio centro, ma
tutte sono strutturalmente unite in una totalità nella quale il senso della
connessione del mondo storico-sociale deriva dalla significatività delle
singole parti; cosicché ogni giudizio di valore e ogni posizione di scopi
diretta verso il futuro, devono essere fondati esclusivamente su questa connessione
strutturale. A questo principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti princìpi
generali sulla connessione delle scienze dello spirito. La connessione delle
scienze dello spirito è determinata dal suo fondamento nell’Erlebden e
nell’intendere, e tanto nell’uno 5. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico
svizzero, autore di Die Zeit Constantins des Grossen (1853), di Die Cultur der
Renaissance in Italien (1860) e di una postuma Griechische Kulturgeschichte
(1898-1902), nonché di varie altre opere, è uno dei maggiori esponenti della
storiografia post-romantica; il suo libro sulla civiltà del Rinascimento ha
rinnovato l'interpretazione di questo periodo storico. Le sue idee sulla storia
sono esposte nel corso di lezioni Uber das Studium der Geschichte, pubblicato
postumo col titolo Weltgeschichiliche Betrachtungen (1905). WILHELM DILTHEY 143
quanto nell’altro si fanno subito valere importanti differenze rispetto alle
scienze della natura, le quali dànno un carattere proprio alla costruzione di
tali discipline. 1. La linca delle rappresentazioni che procede dall’Erlebnis.
Ogni immagine ottica è diversa da un’altra, che si riferisca al medesimo
oggetto, per il punto di vista e le condizioni dell’apprendimento: queste
immagini sono legate in un sistema di relazioni interne in virtù dei vari modi
di apprendimento oggettivo. La rappresentazione totale, che così sorge dalla
serie delle immagini secondo i rapporti fondamentali racchiusi nel contenuto di
fatto, è qualcosa di rappresentato e di pensato in aggiunta. Gli Erlebrisse
sono invece legati tra loro in un’unità di vita entro il corso temporale; e
ognuno di essi ha così il suo posto in un corso i cui elementi sono uniti
reciprocamente nella memoria. Non parlo qui ancora del problema della realtà di
questi Er/ebrisse, e tanto meno delle difficoltà inerenti all’apprendimento di
un Er/ebnis: basta che il modo in cui l’Erlebnis esiste per me sia del tutto
diverso dal modo in cui stanno davanti a me le immagini. La coscienza di un
Erlebnis e della sua qualità, il suo esistere-per-me e ciò che in esso esiste
per me, sono la stessa cosa: l’Er/ebrnis non si contrappone a chi lo apprende
come un oggetto, ma la sua esistenza per me non è distinta da ciò che in esso
esiste per me. Non vi sono diverse posizioni spaziali da cui possa venir visto
ciò che in esso esiste; e differenti punti di vista, da cui esso può venir
appreso, possono sorgere soltanto in seguito, mediante la riflessione, e non
incidono sul suo carattere di Erlebris. Esso è sottratto alla relatività di ciò
che è dato sensibilmente, per cui le immagini si riferiscono all'elemento
oggettivo soltanto nella relazione con il soggetto conoscente, con la sua
posizione nello spazio e con ciò che sta in mezzo tra lui e gli oggetti.
Dall’Erlebris una linea diretta di rappresentazioni procede fino all’ordine dei
concetti in cui esso viene appreso pensando. Esso viene anzitutto spiegato
mediante le operazioni elementari del pensiero; e qui trovano il loro
significato specifico i ricordi, in cui esso viene poi appreso. E che cosa
accade quando l’Erlebnis diviene oggetto della mia riflessione? Io sto sveglio
di notte, mi preoccupo 144 WILHELM DILTHEY della possibilità di terminare nella
mia vecchiaia i lavori iniziati, rifletto su ciò che vi è da fare. In questo
Erlebris c'è una connessione strutturale di coscienza: l’apprendimento
oggettivo costituisce il suo fondamento, su questo poggia una presa di
posizione come preoccupazione e come sofferenza provocata dall'elemento
soggettivamente appreso, e come tendenza a andare oltre di esso. E tutto ciò
esiste per me in questa sua connessione strutturale. Io reco a coscienza
distinta un certo stato, pongo in luce ciò che in esso è strutturalmente
collegato, lo isolo: ma tutto ciò che vengo in tal modo a trarne fuori è
contenuto nell’Erlebris stesso e viene in tal modo solo spiegato. Il mio
apprendimento dell’Erlebris stesso viene però sviluppato, sulla base dei
momenti in esso contenuti, in Er/ebrisse che, sebbene separati da un lungo
spazio di tempo, sono legati strutturalmente nel corso della vita con tali
momenti: io ho coscienza dei miei lavori in virtù di un esame precedente, e con
questo stanno in relazione, in un passato ancor più lontano, i processi da cui
sono sorti tali lavori. Un altro momento si dirige verso il futuro; ciò che ora
sussiste richiederà ancora un lavoro incalcolabile da parte mia; io ne sono
preoccupato e mi oriento internamente a tale operazione. Tutto questo s, di e
a, tutte queste relazioni di ciò che è immediatamente vissuto con ciò che è
ricordato e anche con il futuro, mi spinge
indietro e avanti. Essere trascinato in questa serie poggia
sull’esigenza di sempre nuovi elementi, richiesti, dall’Erleden; a ciò può
cooperare pure un interesse che deriva dalla forza emotiva di questo. È un
essere trascinato, non una volizione, tanto meno quell’astratta volontà di
sapere a cui si è fatto ricorso dopo la dialettica di Schleiermacher. Nella
serie, che in tal modo sorge, tanto il passato quanto il futuro o il possibile
sono trascendenti rispetto al momento riempito dall'Erlebnis: ma entrambi, il
passato e il futuro, sono legati all’Er/ebris in una serie che si articola
mediante tali relazioni in una totalità. Ogni passato è legato strutturalmente
come riproduzione a un Er/ebnis trascorso, in quanto il suo ricordo implica un
riconoscimento. Anche il possibile da venire è legato a tale serie mediante
l’ambito di possibilità da essa determinate. Così in questo processo sorge
l’intuizione della connessione psichica nel tempo, la quale costituisce il
corso della vita, in cui ogni singolo Erlebnis è legato a una totalità. E tale
connessione della vita non è una somma o un complesso di momenti successivi, ma
un’unità costituita da relazioni che uniscono tutte le parti. Muovendo dal
presente noi percorriamo indietro una serie di ricordi fin dove il nostro
piccolo, debole e informe io si perde nel crepuscolo, e ci spingiamo innanzi,
da questo presente, verso possibilità in esso racchiuse, che assumono vaghe ed
ampie dimensioni. Da ciò deriva un risultato importante per la connessione
delle scienze dello spirito. Gli elementi, le regolarità, le relazioni che
costituiscono l’intuizione del corso della vita, sono insieme contenuti nel
corso della vita; e al sapere relativo al corso della vita spetta quindi lo
stesso carattere di realtà proprio dell’Er/ebnis. 2. Il rapporto di reciproca
dipendenza nell’intendere. Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà della vita
nella molteplicità dei suoi rapporti, quel che ci appare, in questa
prospettiva, è sempre soltanto qualcosa di singolare, cioè la nostra propria
vita di cui siamo coscienti nell’Erleden. Tale sapere resta un sapere relativo
a qualcosa di irripetibile, e nessun strumento logico può superare la
limitazione alla singolarità contenuta nella forma di esperienza dell’Erleden.
Soltanto l’intendere elimina tale limitazione dell’Erlebnis individuale, come
d’altro lato conferisce agli Erlebnisse della persona il carattere di
esperienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni spirituali
e a varie comunità, esso amplia l’orizzonte della vita individuale e apre nelle
scienze dello spirito la via che reca, attraverso ciò che è comune, al
generale. L’intendersi reciproco ci assicura del rapporto di comunazza che
sussiste tra gli individui: questi sono infatti tra loro legati da una
comunanza in cui sono intrecciate appartenenza reciproca o connessione,
uniformità o affinità. La stessa relazione di connessione e di uniformità
pervade tutte le cerchie del mondo umano. Questa comunanza si esprime
nell’identità della ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva,
nell’obbligazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla
coscienza di ciò che deve essere. La comunanza delle unità viventi è il punto
di partenza per tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze
dello spirito. L'esperienza fondamentale della comunanza pervade l’intero
apprendimento del mondo spirituale, collegando la coscienza dell’io unitario e
la coscienza dell’uniformità con gli altri, l'identità della natura umana e
l’individualità. Essa costituisce il presupposto dell’intendere.
Dall’interpretazione elementare, che richiede soltanto Ia conoscenza del
significato delle parole e delle regolarità con cui esse sono legate in
proposizio-ni dotate di senso, cioè la comunanza del linguaggio e del pensare,
l'ambito di ciò che è comune si estende di continuo, rendendo possibile il
processo di comprensione nella misura in cui il suo oggetto è costituito da
nessi superiori di manifestazioni della vita. Dall'analisi dell’intendere
risulta però un secondo rapporto fondamentale, che è determinante per la
struttura della connessione delle scienze dello spirito. Noi abbiamo visto come
le verità delle scienze dello spirito poggiano sull’Erlede e sull’intendere: ma
l’intendere presuppone d'altra parte l’utilizzazione delle verità delle scienze
dello spirito. Per illustrare ciò con un esempio si prenda il compito di
comprendere Bismarck: una straordinaria quantità di lettere, di documenti, di
narrazioni e di racconti su di lui costituisce il materiale che si riferisce al
corso della sua vita. Lo storico deve ampliare il confine di questo materiale,
per cogliere ciò che ha influito sul grande uomo di stato e ciò che egli ha
prodotto. Fin quando dura il processo dell’intendere, la delimitazione del materiale
non è ancora conclusa. Già per conoscere uomini, avvenimenti, situazioni come
appartenenti a questa connessione dinamica, egli ha bisogno di princìpi
generali, i quali stanno anche a base della sua comprensione di Bismarck,
estendendosi dalle qualità comuni dell’uomo alle qualità di classi particolari.
Lo storico darà a Bismarck un posto tra gli uomini d’azione in base alla
psicologia individuale, seguendo in lui la specifica combinazione dei tratti
che sono loro comuni. Da un altro punto di vista si ritroveranno nella
sovranità del suo essere, nell’abitudine a comandare e a dirigere,
nell’inflessibilità del volere, le qualità fondamentali del nobile prussiano
latifondista. E, in quanto la sua lunga vita ha occupato un posto determinato
nel corso WILHELM DILTHEY 147 della storia prussiana, ecco di nuovo un altro
gruppo di princìpi generali da cui sono determinati i tratti comuni agli uomini
di questo tempo. L'enorme pressione che si esercitava, secondo la situazione
dello stato, sulla consapevolezza politica produceva naturalmente le più
diverse forme di reazione. La comprensione di queste esige princìpi generali
sulla pressione che una certa situazione esercita su una totalità politica e
sui suoi elementi, nonché sulle sue ripercussioni. I gradi di sicurezza
metodica nella comprensione dipendono dallo sviluppo delle verità generali
mediante cui tale rapporto consegue il suo fondamento. Risulta ora chiaramente
che questo grande uomo di azione, il quale ha avuto le sue radici completamente
nella Prussia c nel suo regno, dovrà sentire in modo particolare la pressione
che si esercita su di essa dall’esterno. Egli dovrà pure valutare le questioni
interne della costituzione di questo stato principalmente dal punto di vista
del potere statale. In quanto poi è il punto di incontro di comunità quali lo
stato, la religione, l'ordine giuridico, e in quanto ha pure, come personalità
storica, determinato e mosso în modo eminente una di queste comunità, e nel
medesimo tempo opera in esse, egli richiede da parte dello storico una
conoscenza generale intorno a queste comunità. In breve, il suo intendimento
giungerà a compimento solo in virtù della relazione col complesso di tutte le
scienze dello spirito. Ogni relazione, che deve essere elaborata nella
rappresentazione di questa personalità storica, acquista la massima sicurezza e
distinzione solo attraverso la sua determinazione mediante i concetti
scientifici relativi ai vari campi. E il rapporto reciproco di questi campi è
fondato infine su una intuizione totale del mondo storico. Così il nostro
esempio ci illustra la duplice relazione insita nell’intendere: l’intendere
presuppone l’Erleben, e l’Erlebnis si eleva a esperienza della vita solo in
quanto l’intendere conduce al di fuori della ristrettezza e della soggettività dell’Erleben,
nella regione della totalità e dell’universale. Inoltre, la comprensione della
personalità singola esige per la sua compiutezza il sapere sistematico, come
d'altra parte il sapere sistematico dipende dalla viva penetrazione della
singola unità vitale. La conoscenza della natura inorganica si compie in una
costru148 WILHELM DILTHEY zione scientifica nella quale il grado sottostante è
sempre indipendente da quello che esso fonda: invece nelle scienze dello
spirito tutto, a partire dal processo dell’intendere, è determinato dal
rapporto di reciproca dipendenza. A ciò corrisponde il corso storico di queste
discipline. La storiografia è in ogni punto condizionata dalla conoscenza delle
connessioni sistematiche che si intrecciano nel corso storico, e la cui
profonda investigazione determina il progredire dell’intendere storico.
Tucidide si fondava sul sapere politico sorto nella prassi dei liberi stati
greci, e sulle dottrine intorno allo stato sviluppatesi nel periodo sofistico.
Polibio ha riunito in sé l'intera saggezza politica dell’aristocrazia romana,
che in questo tempo era al culmine del suo sviluppo sociale e spirituale, con
lo studio delle opere politiche greche da Platone fino allo Stoicismo. L’unione
della saggezza politica fiorentina e veneziana, sviluppatasi in una élite assai
evoluta e piena di vivaci dibattiti politici, con il rinnovamento e la
prosecuzione delle dottrine antiche ha reso possibile la storiografia di
Machiavelli e di Guicciardini. La storiografia ecclesiastica di Eusebio”, dei
sostenitori e degli avversari della Riforma, come Neander” e Ritschl*, è piena
di concetti sistematici riguardanti il processo religioso e il diritto
ecclesiastico. E infine la fondazione della storiografia moderna nella scuola
storica e in Hegel aveva dietro di sé da un lato il legame della scienza
giuridica moderna con le esperienze dell’età rivoluzionaria e dall’altro
l’intera sistematica delle scienze dello spirito sorte da poco. Quando Ranke
sembra avvicinarsi alle cose con ingenua gioia di narra6. Eusebio di Cesarca
(265-339), padre della Chiesa ispirato dal neoplatonismo, autore del Chronicon,
della Historia ecclesiastica, della Praeparatio evangelica, della Demonstratio
evangelica, del De ecclesiastica theologia e di vari altri scritti, è una delle
fonti principali per la storia del Cristianesimo primitivo. Scrisse parecchi
pampAlets di polemica anti-pagana, e prese parte alla controversia tra Ario e
Alessandro sull’interpretazione della trinità. 7. Johann August Wilhelm Neander
(1789-1850), storico della chiesa e teologo tedesco, autore di diversi volumi
sull’imperatore Giuliano, su Bernardo di Chiaravalle, su Giovanni Crisostomo,
su Tertulliano, nonché di una Allgemeine Geschichte der christlichen Religion
und Kirche (1825-45) rimasta incompiuta. 8. Albrecht Ritschl (1822-1889),
teologo protestante tedesco, autore di Die Ent stehung der altkatholischen
Kirche (1850), di Die christliche Lehre von Rechifertigung und Versohnung
(1870-74), della Geschichte des Pietismus (1880-86), di Theologie und Metaphysik
(1881) e di varie altre opere. WILHELM DILTHEY 149 tore, la sua storiografia
può venir tuttavia intesa solo se si ripercorrono le molteplici fonti di
pensiero sistematico, che si sono incontrate nella sua formazione. E questa
reciproca dipendenza dell’elemento storico e dell’elemento sistematico cresce
sempre di più avvicinandoci al presente. Proprio la critica storica, nei suoi
lavori fondamentali, ha mostrato la sua dipendenza non solo dallo sviluppo
formale dei metodi ma anche dalla più profonda penetrazione delle connessioni
sistematiche, dai progressi della grammatica, dallo studio della connessione
del discorso, quale si è sviluppato dapprima nella retorica, e inoltre dalla
nuova concezione della poesia come ci
appare sempre più chiaramente nel caso dei precursori di Wolf° che hanno
derivato le loro conclusioni su Omero da una nuova poetica e dalla nuova cultura estetica nel medesimo
F. A. Wolf, dalle considerazioni economiche, giuridiche e politiche in Niebuhr,
dalla nuova filosofia congeniale con Platone in Schleiermacher, e in Baur!°
dalla comprensione del processo in cui si sono formati i dogmi, come l’avevano
sviluppata Schleiermacher e Hegel. E, viceversa, il progresso nelle scienze
sistematiche dello spirito è stato sempre condizionato dal movimento
dell’Er/ebez verso nuove profondità, dall’allargarsi dell’intendere in un
maggiore ambito di manifestazioni della vita storica, dalla scoperta di fonti
storiche fin allora ignote o dall’emergere di grandi masse di esperienze in
nuove situazioni storiche. Ciò è già dimostrato dalla formazione delle prime
linee di una scienza politica nell’età dei Sofisti, di Platone e di Aristotele,
così 9. Friedrich August Wolf (1759-1824), pedagogista e filologo tedesco,
autore della Geschichte der ròmischen Literatur (1787), dei Prolecomena ad
Homerum (1794), di una Enzyklopidie der Philologie pubblicata postuma (1830),
nonché di diversi altri volumi di argomento classicistico 0 pedagogico, occupa
un posto importante nella storia della critica omerica. 1o. Ferdinand Christian
Baur (1792-1860), storico e teologo tedesco, autore di Das manichdische
Religionssystem (1831), di Die christliche Gnosis oder die christliche
Religionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklune (1835), del LeArbuch
der christlichen Dogmengeschichte (1837), di Paulus der Apostel Jesu Christi
(1845), di Die Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung (1852-55) e di
numerose altre opere, tra cui le postume Vorlesungen ùber die christliche
Dogmengeschichte (1865-67), è il maggiore esponente dell'atteggiamento
razionalistico nella storiografia religiosa della prima metà dell'Ottocento, La
sua concezione della religione e della storia della religione si ispira in
larga misura a Hegel. 150 WILHELM DILTHEY come dall’origine di una retorica e
di una poetica in quanto teoria della creazione spirituale nella medesima
epoca. Sempre tale intreccio dell’Erleben con la comprensione di persone
singole o di comunità come soggetti sovra-individuali è stata determinante nei
grandi progressi delle scienze dello spirito. I geni dell’arte narrativa come
Tucidide, Guicciardini, Gibbon, Macaulay ", Ranke producono anche nella
loro limitazione opere storiche non soggette al tempo; e nella totalità delle
scienze dello spirito vi è dunque un progresso, in quanto viene gradualmente
conquistata alla coscienza storica la penetrazione delle connessioni che
cooperano nella storia, la storiografia si immerge nelle loro relazioni che
costituiscono una nazione, un'epoca, una linea di sviluppo storico, e di qui si
dischiudono poi profondità della vita, quali sono esistite nelle varie
situazioni storiche, che vanno al di Îà di ogni intendere precedente. Come
potrebbe venir comparata quella passata con la comprensione che uno storico
odierno ha di artisti, poeti, scrittori? 3. La spiegazione graduale delle
manifestazioni della vita attraverso la costante azione reciproca deî due
orientamenti scientifici. Il rapporto di condizionamento reciproco ci appare
dunque come rapporto fondamentale tra l’Erleden e l’intendere. Più da vicino,
esso viene a determinarsi come rapporto di spiegazione graduale nella costante
azione reciproca tra le due classi di verità. L’oscurità dell’Erlebris viene
chiarita, gli errori derivanti dalla ristretta comprensione del soggetto
vengono corretti, l’Erlebnis medesimo è ampliato e completato nell’intendimento
di altre persone, come d’altra parte le altre persone sono intese mediante i
propri Erlebnisse. L'intendere allarga sempre più l'ambito del sapere storico
mediante la più intensa utilizzazione delle fonti, mediante il ritorno indietro
nel passato finora non compreso, e infine mediante il progredire della storia
medesima, che produce sempre nuovi avvenimenti estendendo così 11. Thomas
Babington Macaulay (1800-1859), uomo politico e storico inglese, autore della
History of England from the Accession of James II (1849-61), nonché di numerosi
Essays e Biographical Essays, recò nella sua storiografia un'impostazione
liberale: Dilthey si riferisce qui soprattutto alle suc grandi qualità
narrative. WILHELM DILTHEY ISI l'oggetto dell’intendere. In tale procedere
l'ampliamento di ambito richiede sempre nuove verità generali per la
penetrazione di questo mondo della singolarità; e l’estensione dell’orizzonte
storico rende nel medesimo tempo possibile l'elaborazione di concetti sempre
più generali e sempre più fecondi. Così in ogni punto e in ogni tempo si
presenta, nel lavoro delle scienze dello spirito, una circolarità di Erleden,
di intendere e di rappresentazione del mondo spirituale in concetti generali. E
ogni grado di questo lavoro possiede un’unità interna nel suo apprendimento del
mondo spirituale, poiché la conoscenza storica del singolare e le verità
generali si sviluppano in un'azione reciproca e quindi appartengono alla stessa
unità dell’apprendimento. A ogni grado l’intendimento del mondo spirituale è
qualcosa di omogeneo e unitario, dalla concezione del mondo spirituale ai
metodi di critica e di indagine particolare. Qui possiamo rivolgere ancora uno
sguardo all’epoca in cui è sorta la moderna coscienza storica. Essa è stata
realizzata quando l'elaborazione concettuale delle scienze sistematiche si è
coscientemente fondata sullo studio della vita storica, e la conoscenza del
singolare è stata coscientemente fecondata dalle discipline sistematiche dell'economia
politica, del diritto, dello stato, della religione. A questo punto poteva
sorgere la comprensione metodica della connessione delle scienze dello spirito:
il medesimo mondo spirituale diventa, secondo la diversità del punto di vista
da cui è considerato, oggetto di due classi di discipline. La storia universale
come connessione singolare, il cui oggetto è l’umanità, e il sistema di scienze
dello spirito indipendenti che si riferiscono all’uomo, al linguaggio,
all’economia, allo stato, al diritto, alla religione e all’arte, si completano
reciprocamente. Esse sono distinte dal fine e dai metodi che questo determina,
ma al tempo stesso cooperano nel loro costante legame alla costruzione del
sapere relativo al mondo spirituale: Erleben, rivivere e verità generali sono
legati dall’operazione fondamentale dell’intendere. L'elaborazione concettuale
non è fondata su norme o valori che si presentano al di lì dell’apprendimento
oggettivo, ma sorge dal carattere dominante di ogni pensiero concettuale, cioè dalla
tendenza a porre in luce ciò che è stabile e duraturo entro il corso del
divenire, Il metodo si muove così in una duplice direzione: nella tendenza
verso il singolare procede dalla parte al tutto e da questo di nuovo alla
parte, e nella tendenza verso il generale tra questo e il particolare ha luogo
la medesima azione reciproca. III. L’OGGETTIVAZIONE DELLA VITA 1. Se
abbracciamo l’insieme di tutte le operazioni dell’intendere, allora appare in
esso, di fronte alla soggettività dell'Er/ednis, l’oggettivazione della vita.
Accanto all’Erlebris l’intuizione dell’oggettività della vita, e del suo
manifestarsi in molteplici connessioni strutturali, diventa il fondamento delle
scienze dello spirito. L'individuo, le comunità e le opere in cui si sono
trasposti la vita e lo spirito, costituiscono il dominio esterno dello spirito.
Queste manifestazioni della vita, quali si presentano nel mondo esterno alla
comprensione, sono per così dire inserite nella connessione della natura.
Questa grande realtà esterna dello spirito ci circonda sempre: essa è una
realizzazione dello spirito nel mondo sensibile, a partire dall’espressione
fuggevole fino al dominio secolare di una costituzione o di un testo giuridico.
Ogni manifestazione particolare della vita rappresenta, nel campo di tale
spirito oggettivo, ur elemento comune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni
gesto e ogni formula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono
comprensibili solamente in quanto un rapporto di comunanza unisce chi in essi
si esprime con chi li intende; l’individuo vive, pensa e agisce di continuo in
una sfera di comunanza, e solo in questa può intendere. Tutto ciò che viene
inteso reca, per così dire, il marchio della sua conoscibilità in base a questa
comunanza: noi viviamo in questa atmosfera, che ci circonda costantemente, e
siamo immersi in essa. Noi siamo ovunque a casa in questo mondo storico che
intendiamo, ne penetriamo il senso e il significato, siamo coinvolti in questi
rapporti di comunanza. Il mutare delle manifestazioni della vita, che agiscono
su di Noi, ci spinge di continuo a una nuova comprensione; ma nel medesimo
tempo anche nell’intendere si ha, poiché ogni manifestazione della vita e la
sua comprensione sono legate ad altre, un movimento che progredisce secondo i
rapporti di WILHELM DILTHEY 153 affinità dal singolo individuo dato verso il
tutto. E, crescendo le relazioni tra ciò che è affine, aumentano nel medesimo
tempo le possibilità di generalizzazione già racchiuse nella comunanza come
determinazione di ciò che è inteso. Nell’intendere si fa valere anche
un'ulteriore qualità dell’oggettivazione della vita, che determina tanto
l'articolazione secondo affinità quanto la tendenza della generalizzazione.
L’oggettivazione della vita contiene in sé una molteplicità di ordini
articolati. Dalla distinzione delle razze fino alla diversità delle forme di
espressione e dei costumi in una stirpe, in una città, vi è un'articolazione di
differenze spirituali condizionata su base naturale. Differenze di altro tipo
si presentano nei sistemi di cultura, altre separano tra loro le epoche in breve, molte linee che delimitano da
qualche punto di vista ambiti di vita affine attraversano il mondo dello
spirito oggettivo e si incrociano in esso. La pienezza della vita si manifesta
in innumerevoli sfumature e viene compresa mediante il ricorrere di tali
differenze. Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi perveniamo per
la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di ciò che è storico. Tutto è
qui sorto dall’attività spirituale e reca quindi il carattere della storicità:
perfino nel mondo sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla
distribuzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case in una
strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino alla sentenza del
tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto. Ciò che lo
spirito immette oggi del proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è
domani, quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi siamo
attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai castelli della monarchia
assoluta. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal
presente a causa della sua distanza nel tempo. Guardiamo il risultato: le
scienze dello spirito hanno, come loro datità complessiva, l’oggettivazione
della vita. Ma in quanto l’oggettivazione della vita diventa per noi qualcosa
di inteso, essa racchiude sempre, in quanto tale, la relazione dell’esterno
all’interno. Perciò tale oggettivazione è ovunque legata nell’intendere
all’Er/eben, in cui all'unità della vita si dischiude 154 WILHELM DILTHEY il
suo contenuto, permettendo così ad essa di interpretare quello di tutte le
altre. Dal momento che qui stanno i dati delle scienze dello spirito, risulta
pure che tutto ciò che è stabile ed estraneo, in quanto proprio alle immagini
del mondo fisico, deve venir eliminato dal concetto del dato proprio di questo
campo. Tutto il dato è qui venuto alla luce, e quindi è storico; è inteso, e
quindi contiene in sé un elemento comune; è noto in quanto è inteso, e contiene
in sé un raggruppamento del molteplice, poiché già l’interpretazione del
manifestarsi della vita nell’intendere superiore poggia su un raggruppamento.
Anche il procedimento di classificazione di tali manifestazioni è quindi già
presente nei dati delle scienze dello spirito. E qui viene a completarsi il
concetto delle scienze dello spirito. Il loro ambito si estende quanto
l’intendere, e l’intendere ha il suo oggetto unitario nell’oggettivazione della
vita. Così il concetto di scienza dello spirito è determinato, in base
all’ambito dei fenomeni che rientrano in essa, mediante l’oggettivazione della
vita nel mondo esterno. Lo spirito intende soltanto ciò che esso stesso ha
creato. La natura, cioè l’oggetto della scienza naturale, comprende la realtà
prodotta indipendentemente dall’opera dello spirito. Tutto ciò in cui l'uomo ha
impresso, operando, la sua impronta, costituisce l’oggetto delle scienze dello
spirito. E anche l’espressione scienza
dello spirito riceve a questo punto la
sua giustificazione. Si è nel passato discorso dello spirito delle leggi, del
diritto, della costituzione: ora possiamo dire che tutto ciò in cui lo spirito
si è oggettivato, rientra nell’ambito delle scienze dello spirito. 2. Io ho
finora designato questa oggettivazione della vita anche con il nome di spirito
oggettivo: tale termine è stato profondamente e felicemente coniato da Hegel.
Debbo però indicare anche con precisione il senso in cui lo uso, distinguendolo
da quello che Hegel gli attribuisce. Tale distinzione riguarda tanto il posto
sistematico del concetto quanto la sua finalità e il suo ambito. Nel sistema
hegeliano il termine designa un grado nello sviluppo dello spirito, un grado
posto tra lo spirito soggettivo e lo spirito assoluto. Il concetto di spirito
oggettivo ha pertanto presso di lui il suo posto nella costruzione ideale dello
sviluppo dello spirito, la quale trova il suo substrato reale nella realtà
storica e nelle relazioni che in essa sussistono e si propone di comprenderla
speculativamente, lasciando così alle sue spalle le relazioni temporali,
empiriche, storiche. L'idea, la quale nella natura si manifesta nel suo essere
altro, estraniandosi da sé, ritorna in se stessa nello spirito, sul fondamento
di tale natura. Lo spirito del mondo ritorna alla sua pura idealità,
realizzando la sua libertà nel suo sviluppo. Come spirito soggettivo esso è la
molteplicità degli spiriti individuali; e poiché in questa il volere si
realizza sulla base della conoscenza dello scopo razionale attuantesi nel
mondo, nello spirito individuale si compie il passaggio alla libertà. In tal
modo è dato il fondamento per la filosofia dello spirito oggettivo. Questa
mostra come la volontà libera razionale, e quindi in sé universale, viene a oggettivarsi
in un mondo etico: questa libertà, che ha il contenuto e lo scopo della
libertà, è anzitutto soltanto concetto, principio dello spirito e del cuore, ed
è destinata a svilupparsi come oggettività, come realtà giuridica, etica e
religiosa e come realtà scientifica *.
In tal modo è posto lo sviluppo dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto:
lo spirito oggettivo è l’idea assoluta, ma solo come idea che è in sé; e in
quanto esso è sul terreno della finitudine, la sua razionalità reale conserva in
sé l’aspetto dell’apparenza esterna È.
L'oggettivazione dello spirito si compie nel diritto, nella moralità e
nell’eticità. L’eticità realizza la volontà razionale universale nella
famiglia, nella società civile e nello stato; e lo stato realizza nella storia
universale la sua essenza, in quanto realtà esterna dell'idea etica. In tal
modo la costruzione ideale del mondo storico ha raggiunto il punto in cui i due
gradi dello spirito, la volontà razionale universale del soggetto singolo e la
sua oggettivazione nel mondo etico come sua superiore unità, rendono possibile
a. Hecet, Werke, vol. VII, parte II (1845), p. 375 [EnzyK/opadie der
philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 482]. b. Op. cit., p. 376
[EnzyKWopidie der philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 483]. l’ultimo e
massimo grado: il sapere che lo spirito ha di se stesso come forza creatrice di
ogni realtà nell’arte, nella religione e nella filosofia. Lo spirito soggettivo
e oggettivo devono esser considerati il cammino su cui si costituisce la
suprema realtà dello spirito, lo spirito assoluto. Qual è stata la posizione e
l’importanza storica di questo concetto dello spirito oggettivo, scoperto da
Hegel? L’Illuminismo tedesco, troppo spesso disconosciuto, aveva posto in luce
il significato dello stato come il più ampio ente collettivo che realizza
l’eticità intrinseca degli individui. Mai dopo i giorni dei Greci e dei Romani
la comprensione dello stato e del diritto è stata più fortemente e
profondamente espressa come in Carmen, Svarez, Klein, Zedlitz, Herzberg, i
massimi funzionari dello stato federiciano!. Questa intuizione dell’essenza e
del valore dello stato si è unita in Hegel con le idee antiche di eticità e di
stato, e con la penetrazione della realtà di queste idee nel mondo antico: egli
ha fatto così valere il significato dei rapporti di comunanza nella storia. La
scuola storica perveniva nello stesso tempo, sulla strada della ricerca
storica, alla scoperta dello spirito collettivo, a cui Hegel era giunto
mediante una propria specie di intuizione storico-metafisica. Anch'essa
perveniva a una comprensione, che andava oltre i filosofi idealistici greci,
dell’essenza della comunità, quale si manifesta nel costume, nello stato, nel
diritto e nella fede, e che non può venir derivata dal cooperare degli
individui. In tal modo sorgeva in Germania la coscienza storica. Hegel ha
raccolto il risultato di tutto questo movimento in un solo concetto nel concetto di spirito oggettivo. Ma i 12.
Johann Heinrich Casimir barone von Carmer (1720-1801), fu dal 1779 al 1795 gran
cancelliere e presidente della Commissione Icgislativa dello stato prussiano;
sotto la sua direzione fu pubblicato, nel 1780-81, il primo volume del Corpus
iuris Friedericianum. Karl Gottlieb
Svarez (1746-1798), collaborò alla redazione del codice prussiano, Ernst Ferdinand Klein (1744-1810), anch'egli
collaboratore di Carmer nella redazione del codicc prussiano, autore dei
Grundsùtze des gemeinen deutschen peinlichen Rechts (1799) e di mumerose altre
opere giuridiche, soprattutto di carattere penalistico. Karl Abraham barone von Zedlitz (1731-1793),
ministro di Federico II, ebbe gran parte nella riforma del sistema scolastico
prussiano. Ewald Herzberg (17251795),
anch'egli ministro sotto il regno di Federico II, autore del Mémoire raisonné
con cui il sovrano cercò di giustificare nel 1756 l'invasione della Sassonia,
che diede inizio alla Guerra dei sette anni. presupposti sui quali Hegel ha
fondato questo concetto non possono più venir mantenuti. Egli ha costruito le
comunità sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo oggi
muovere dalla realtà della vita, poiché nella vita opera la totalità della
connessione psichica. Hegel ha costruito metafisicamente; noi analizziamo il
dato. E l’analisi attuale dell’esistenza umana suscita in tutti noi la
coscienza della fragilità, della forza dell'impulso oscuro, della sofferenza
derivante dalle tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto
ciò che è vita, anche dove da essa derivano le supreme forme della vita della
comunità. Non possiamo quindi intendere lo spirito oggettivo sulla base della
ragione, ma dobbiamo rifarci alla connessione strutturale delle unità viventi
che si continua nelle comunità. E non possiamo costringere lo spirito oggettivo
entro una costruzione ideale, ma dobbiamo piuttosto porre a base la sua realtà
nella storia. Noi cerchiamo di intendere e di rappresentare con concetti
adeguati questa realtà. E in quanto lo spirito oggettivo viene così liberato
dalla sua fondazione unilaterale in una ragione universale, che esprimeva
l’essenza dello spirito del mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale,
diventa allora possibile un nuovo concetto di esso, il quale comprende il
linguaggio, il costume, ogni specie di forma della vita e di stile di vita al
pari della famiglia, della società civile, dello stato e del diritto. Così cade
anche quello che Hegel ha distinto, rispetto allo spirito oggettivo, come
spirito assoluto: arte, religione e filosofia rientrano in questo concetto,
poiché proprio in esse l'individuo creatore si mostra nel medesimo tempo come
rappresentante della comunanza spirituale, e lo spirito si oggettiva proprio in
tali forme vigorose, e può esservi riconosciuto. Questo spirito oggettivo
contiene certo in sé un’articolazione, che va dall’umanità fino ai tipi di
minore estensione: in esso agisce questa articolazione, cioè il principio di
individuazione. E quando l’individuale viene appreso nell’intendere, in base a
ciò che è universalmente umano e attraverso la sua mediazione, si ha un
rivivere della connessione interna che conduce da ciò che è universalmente
umano alla sua individuazione. Questo movimento viene appreso nella
riflessione, e la psicologia individuale abbozza la teoria che fonda la
possibilità dell’individuazione *. A base delle scienze sistematiche dello
spirito sta pertanto lo stesso rapporto tra le uniformità, che stanno a
fondamento, e l'individuazione che sorge sulla loro base cioè il rapporto tra teorie generali e procedimenti
comparativi. Le verità generali, quali possono esservi accertate a proposito
della vita etica o della poesia, diventano così il fondamento per la
penetrazione delle differenze dell’ideale morale o dell’attività poetica. E in
questo spirito oggettivo tutte le realtà del passato, in cui si sono formate le
grandi forze totali della storia, sono diventate presente. L'individuo, come
portatore e rappresentante dei rapporti di comunanza che in lui sono
intrecciati, gode e penetra la storia in cui essi sono sorti. Esso intende la
storia perché è un essere storico. In un ultimo punto il concetto qui formulato
di spirito oggettivo si distingue da quello di Hegel. Sostituendo alla ragione
universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Er/ebnis, l’intendere, la
connessione della vita storica, la forza dell’irrazionale in essa presente,
sorge il problema della possibilità della scienza storica. Per Hegel questo
problema non esisteva: la sua metafisica, nella quale lo spirito del mondo, la
natura come sua alienazione, lo spirito oggettivo come sua realizzazione e lo
spirito assoluto fino alla filosofia come attuazione della sua autocoscienza
interiore sono identici, lascia alle sue spalle questo problema. Ma oggi
occorre viceversa riconoscere il dato delle manifestazioni storiche della vita
come il vero fondamento del sapere storico, e trovare un metodo per affrontare
la questione della possibilità di un sapere universalmente valido intorno al
mondo storico sulla base di questo dato. IV. IL MonDo SPIRITUALE COME
CONNESSIONE DINAMICA Così nell’Erleben e nell’intendere attraverso l’oggettivazione della vita si apre dinanzi a noi il mondo spirituale. E
a. Cfr. il mio saggio Beitrige zum Studium der Individualitàt, Sitzungsberichte der koniglich Preussischen
Akademie der Wissenschaften , 1896, pp. 295-335 [ora in Ges. Schr., vol. V, pp.
241-316]. WILHELM DILTHEY 159 il nostro compito è ora quello di determinare più
da vicino nella sua essenza questo mondo dello spirito, questo mondo storico e
sociale, in quanto oggetto delle scienze dello spirito. Riprendiamo anzitutto i
risultati delle indagini precedenti in rapporto alla connessione delle scienze
dello spirito. Questa connessione poggia sul rapporto tra Erleben e intendere,
e da ciò derivano tre princìpi fondamentali. L'ampliamento del nostro sapere intorno
a ciò che è dato nell’Erleder si compie mediante l’interpretazione delle
oggettivazioni della vita, e questa interpretazione è a sua volta possibile
soltanto sulla base della profondità soggettiva dell’Erledez. Così pure la
comprensione del singolare è possibile soltanto mediante la presenza in esso
del sapere generale, e questo ha a sua volta il proprio presupposto
nell’intendere. Infine, la comprensione di una parte del corso storico si
compie pienamente solo mediante la relazione della parte col tutto, e l’analisi
storico-universale della totalità presuppone la comprensione delle parti che
sono in essa unite. In tal modo viene in luce la reciproca dipendenza in cui
stanno tra loro l'apprendimento di ogni particolare elemento oggettivo delle
scienze dello spirito nella totalità storico-sociale di cui l'elemento fa
parte, e la rappresentazione concettuale di questa totalità nelle scienze
sistematiche dello spirito. Così nel progresso delle scienze dello spirito, in
ogni punto del loro corso, si rivelano l’azione reciproca dell’Erleben e
dell'intendere nell’apprendimento del mondo spirituale, la dipendenza reciproca
del sapere generale e del sapere singolare, e infine la graduale spiegazione
del mondo spirituale. Perciò noi li ritroviamo in tutte le operazioni delle
scienze dello spirito, in quanto formano in generale il substrato della loro
struttura. Così noi dovremo riconoscere la dipendenza reciproca di
interpretazione, critica, collegamento delle fonti, sintesi di una connessione
storica: un rapporto simile sussiste nella formazione dei concetti di soggetti
quali l'economia, il diritto, la filosofia, l’arte, la religione, che designano
le connessioni dinamiche di diverse persone in una operazione comune. Ogni
volta che il pensiero scientifico cerca di compiere un’elaborazione
concettuale, la determinazione dei segni distintivi costituenti il concetto
presuppone pure la constatazione degli stati di fatto che devono 160 WILHELM
DILTHEY esser compresi nel concetto; e la constatazione e la scelta di questi
stati di fatto esige segni distintivi, sulla base dei quali poter decidere
sulla loro appartenenza all'ambito del concetto. Per determinare il concetto di
poesia, io debbo trarlo da quegli stati di fatto che costituiscono l’ambito di
tale concetto, e per constatare quali opere appartengano alla poesia debbo già
possedere un segno distintivo sulla base del quale l’opera può venir
riconosciuta come poetica. Questo rapporto è quindi il carattere più generale
della struttura delle scienze dello spirito. 1. Carattere generale della
connessione dinamica del mondo spirituale. Da ciò deriva il compito di
concepire il mondo spirituale come una connessione dinamica, cioè come una
connessione contenuta nei suoi prodozti duraturi. Le scienze dello spirito
hanno il loro oggetto in questa connessione dinamica e nelle sue creazioni.
Esse analizzano sia tale connessione sia quella logica, estetica, religiosa,
che si manifesta in solide formazioni e che caratterizza i vari tipi di queste,
sia la connessione presente in una costituzione o in un libro giuridico, che si
riferisce poi appunto alla connessione dinamica da cui è sorta. Questa
connessione dinamica si distingue dalla connessione causale della natura in
quanto, conformemente alla struttura della vita psichica, essa produce valori e
realizza scopi. E invero non è un fatto occasionale, ma dipende dalla struttura
stessa dello spirito che questo produca valori e realizzi scopi nella propria
connessione dinamica, sulla base dell’apprendimento: tale carattere può venir
definito il carattere teleologico immanente delle connessioni dinamiche dello
spirito. Con ciò intendo una connessione di operazioni, che è fondata nella
struttura di una connessione dinamica. La vita storica crea; essa è
continuamente attiva nella produzione di beni e di valori, e tutti i concetti
relativi sono soltanto riflessi di questa sua attività. I portatori di questa
costante creazione di valori e di beni nel mondo spirituale sono individui,
comunità e sistemi di cultura in cui gli individui agiscono insieme. La
cooperazione tra gli individui è determinata dal fatto che essi si
sottopongoWilhelm Dilthey intorno al 190 WILHELM DILTHEY 16I no a regole per la
realizzazione dei valori e si prefiggono degli scopi. Così in ogni specie di
questa cooperazione c’è un rapporto vitale, che inerisce all’essenza dell’uomo
e lega tra loro gli individui quasi come
un nucleo che non si può afferrare psicologicamente, ma che si manifesta in
ogni sistema di relazioni tra uomini. L’azione entro di esso è condizionata
dalla connessione strutturale tra l'apprendimento, gli stati psichici che si
esprimono nella scelta di valori e quelli che consistono nella posizione di
scopi, di beni e di norme. Questa connessione dinamica si rivela in primo luogo
negli individui. In quanto poi essi sono punti di incrocio tra sistemi di
relazioni, di cui ognuno costituisce un centro permanente di attività, entro
tali sistemi vengono a svilupparsi beni comuni e forme di attuazione di tali
beni secondo regole, a cui viene attribuita una specie di validità
incondizionata. Ogni relazione permanente tra individui racchiude perciò in sé
uno sviluppo nel quale valori, regole e scopi vengono prodotti, elevati a
coscienza e consolidati nel corso dei processi del pensiero. Questa creazione
che si compie in individui, comunità, sistemi di cultura, nazioni, sotto le
condizioni naturali che sempre offrono a essa il suo materiale e la sua spinta,
perviene nelle scienze dello spirito alla riflessione su se stessa. Da tale
connessione strutturale deriva poi che ogni unità spirituale 4a il suo centro
in se stessa. Come l’individuo, così anche ogni sistema di cultura e ogni
comunità ha il suo centro entro di sé; in virtù di esso l’apprendimento della
realtà, la valutazione e la produzione di beni sono collegati in un complesso
unitario. Ora si presenta un nuovo rapporto fondamentale nella connessione
dinamica che costituisce l'oggetto delle scienze dello spirito. I diversi
soggetti creativi sono intrecciati in più ampie connessioni storico-sociali,
come le nazioni, le età, i periodi storici. Così sorgono forme più complicate
di connessione storica. I valori, gli scopi, i nessi che in esse si presentano,
portati da individui, comunità, sistemi di relazioni, debbono essere
compenetrati dallo storico. Essi debbono venir comparati, ponendo in luce
l'elemento comune che è in essi e raccogliendo le diverse connessioni dinamiche
in sintesi. E qui dall’autocentralità, intrinseca a ogni unità storica, deriva
un’altra forma di 11. STORICISMO TEDESCO. 162 WILHELM DILTHEY unità. Ciò che
opera nel medesimo tempo in un nesso reciproco, come individui e sistemi di
cultura e comunità, vive in un continuo scambio spirituale e completa anzitutto
la sua vita psichica con quella altrui: già le nazioni vivono più sovente in
una forte chiusura reciproca e hanno perciò il loro orizzonte proprio; se però
considero un periodo come quello medievale, il suo ambito visuale è separato da
quello dei periodi precedenti. Anche quando i risultati di tali periodi
mantengono la loro influenza, essi vengono tuttavia assimilati nel sistema del
mondo medievale. Questo ha così un orizzonte chiuso. E un'epoca è così
incentrata in se stessa în un muovo senso. Le varie persone dell’epoca hanno il
criterio di misura del loro operare in un elemento comune. Il nesso delle
connessioni dinamiche nella società dell’epoca ha tratti simili. Le relazioni
dell’apprendimento oggettivo mostrano in essa una interna affinità; il modo di
sentire, la vita dell'animo, gli impulsi che ne derivano sono affini tra loro.
E così anche il volere si sceglie scopi uniformi, mira agli stessi beni e si
trova vincolato in maniera simile. È compito dell’analisi storica ritrovare
negli scopi, nei valori, nei modi di pensare concreti la concordanza in un
elemento comune che domina l’epoca. Proprio da questo elemento comune sono
determinate anche le antitesi che qui si presentano. Così ogni azione, ogni
pensiero, ogni creazione comune, in breve ogni parte di questa totalità storica
acquista la propria significatività in virtù del suo rapporto con la totalità
dell’epoca o dell’età. E quando lo storico giudica, egli constata ciò che
l'individuo ha compiuto in tale connessione, e anche in quale misura il suo
sguardo e il suo operare sono andati già oltre di essa. Il mondo storico come
una totalità, questa totalità come una connessione dinamica, questa connessione
dinamica come produttrice di valori e di scopi, cioè creatrice, quindi la
comprensione di questa totalità in base a se stessa, infine l’autocentralità
dei valori e degli scopi nelle età, nelle epoche, nella storia universale questi sono i punti di vista da cui deve
essere concepita la connessione, a cui dobbiamo pervenire, delle scienze dello
spirito. Così il rapporto immediato della vita, dei suoi valori e dei suoi
scopi con l’oggetto storico viene gradualmente sostituito nella scienza, in
base alla sua tendenza alla validità universale, dall'esperienza delle
relazioni immanenti che sussistono nella connessione dinamica del mondo storico
tra la forza attiva, i valori, gli scopi, il significato e il senso. Soltanto
su questo terreno della storia oggettiva può sorgere il problema se e come
siano possibili le previsioni sul futuro e sulla subordinazione della nostra
vita a fini comuni dell’umanità. L’apprendimento della connessione dinamica si forma
in primo luogo in chi ne ha coscienza immediata, per il quale la successione
del divenire interiore si sviluppa in relazioni strutturali. E tale connessione
è poi ritrovata, mediante l’intendere, in altri individui. La forma
fondamentale della connessione sorge così nell’individuo, riunendo il presente,
il passato e le possibilità del futuro in un corso vitale: questo corso si
riproduce poi nel corso storico, in cui sono inserite le unità della vita. In
quanto lo spettatore di un avvenimento vede connessioni più ampie o una
narrazione le racconta, sorge l'apprendimento dei fatti storici. E in quanto
questi assumono un posto nel corso temporale, presupponendo in ogni punto
l’azione del passato e spingendo le loro conseguenze fin nel futuro, ogni
avvenimento implica un movimento ulteriore e il presente conduce avanti verso
il futuro. Altri modi di connessione sussistono in opere che, scisse dai loro
autori, recano in sé la propria vita e la propria legge. Prima di spingerci
entro la connessione dinamica da cui esse sono sorte, noi cogliamo le
connessioni sussistenti nell’opera compiuta. Nell’intendere sorge la
connessione logica in cui sono legati tra di loro i princìpi giuridici che
formano un libro di diritto. Se leggiamo una commedia di Shakespeare, troviamo
che gli elementi di un accadimento, legati secondo i rapporti di tempo e di
azione, sono qui elevati secondo le leggi della composizione poetica a un’unità
che li solleva, all’inizio e alla fine, al di fuori del corso dinamico
collegando le loro parti in una totalità. 2. La connessione dinamica come
concetto fondamentale delle scienze dello spirito. Nelle scienze dello spirito
noi cogliamo il mondo spirituale sotto forma di connessioni che si formano nel
corso temporale. 164 WILHELM DILTHEY Operare, energia, corso temporale,
accadere sono quindi i momenti che caratterizzano l’elaborazione concettuale
delle scienze dello spirito. Da queste determinazioni di contenuto non dipende
però la funzione generale del concetto nella connessione delle scienze dello spirito,
la quale richiede determinatezza e costanza in tutti i giudizi. I caratteri di
un concetto, il cui nesso ne forma il contenuto, debbono soddisfare tali
esigenze; e le asserzioni, in cui i concetti sono collegati, non debbono
contenere contraddizioni né entro di sé né tra di loro. Questa validità
indipendente dal corso temporale, che sussiste in tal modo nella connessione
del pensiero e determina la forma dei concetti, non ha alcun rapporto con il
fatto che il contenuto dei concetti propri delle scienze dello spirito può
rappresentare il corso temporale, l’operare, l'energia e l’accadere. Noi
vediamo operante nella struttura dell'individuo una tendenza o una forza
impulsiva che si partecipa a tutte le forme più complesse del mondo spirituale.
In questo mondo si presentano forze collettive che si fanno valere in una
determinata direzione nella connessione storica. Tutti i concetti delle scienze
dello spirito, in quanto rappresentano qualche elemento della connessione
dinamica, contengono in sé questo carattere di processo, di corso, di accadere
o di agire. E quando le oggettivazioni della vita spirituale vengono analizzate
come qualcosa di compiuto, quasi di fisso, resta sempre il compito ulteriore di
penetrare la connessione dinamica in cui tali oggettivazioni sono sorte. In un
ambito più vasto i concetti delle scienze dellospirito sono rappresentazioni
fissate di un procedere, e costituiscono la solidificazione nel pensiero di ciò
che è corso o direzione di movimento. Pure le scienze sistematiche dello spirito
racchiudono il compito di un'elaborazione concettuale, che esprime la tendenza
insita nella vita, la sua mutabilità e la sua mobilità, ma soprattutto la
finalità che vi si realizza. E nelle scienze dello spirito, sia storiche sia
sistematiche, si presenta il compito ulteriore di dare alle relazioni una
corrispondente elaborazione concettuale. È stato merito di Hegel aver cercato
di esprimere nella sua logica l'incessante corrente dell’accadere. Ma è stato
suo errore ritenere che tale esigenza fosse inconciliabile con il principio di
contraddizione: contraddizioni non risolubili sorgono soltanto se si vuol
spiegare il fatto del fluire della vita. E altrettanto erroneo è stato, ed è,
giungere da tale presupposto al rifiuto dell’elaborazione concettuale
sistematica nel campo storico. Così nel metodo dialettico di Hegel la varietà
della vita storica è venuta a irrigidirsi, mentre gli avversari
dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico lasciano
sprofondare in una profondità irrappresentabile della vita la molteplicità
dell’esistenza. A questo punto si può comprendere la più profonda intenzione di
Fichte. Nel faticoso approfondirsi dell’io in se medesimo, esso si ritrova non
come sostanza, essere, datità, ma come vita, attività, energia. In tale modo
egli aveva già elaborato i concetti che esprimono l’energia del mondo storico.
3. Il procedimento di determinazione delle connessioni dinamiche particolari.
La connessione dinamica è in sé sempre complessa. Il punto di partenza è
un’azione particolare, per la quale cerchiamo
procedendo indietro i momenti
causanti. Tra i molti fattori, ne è determinabile soltanto un numero limitato
che abbia importanza per questa azione. Quando ricerchiamo l'intreccio delle
cause del mutamento della nostra letteratura, in virtù del quale è stato
superato l’Illuminismo, distinguiamo allora gruppi di cause, ci sforziamo di
misurarne l'influenza, e delimitiamo in qualche modo lo sconfinato contesto
causale secondo il significato dei momenti e secondo i nostri scopi. Così
poniamo in luce una connessione dinamica per spiegare il mutamento in
questione. D'altra parte noi distinguiamo, in un'analisi metodica condotta da
diversi punti di vista, le connessioni particolari presenti nella concreta
connessione dinamica; e su questa analisi poggia precisamente il progresso che
ha luogo sia nelle scienze sistematiche dello spirito sia nella storia.
L’induzione, che constata i fatti e i nessi causali, la sintesi che lega tra
loro con l’aiuto dell’induzione le connessioni causali, l’analisi che distingue
tra loro singole connessioni dinamiche, la comparazione questi, o equivalenti, sono i modi in cui si
costituisce in prevalenza la nostra conoscenza della connessione dinamica. E
noi applichiamo gli stessi metodi quando indaghiamo le creazioni durature
scaturite da questa connessione dinamica
quadri, statue, drammi, sistemi filosofici, scritti religiosi, libri
giuridici. La connessione in essi presente è diversa secondo il loro carattere,
ma anche qui l’analisi dell’insieme dell’opera su base induttiva e la
ricostruzione sintetica della totalità in base alla relazione delle sue parti,
sempre su base induttiva, si intrecciano tra loro con la costante presenza di
verità generali. A questa tendenza del pensiero verso la connessione è legata
nelle scienze dello spirito un’altra tendenza che, procedendo dal particolare
al generale e viceversa, indaga le regolarità presenti nelle connessioni
dinamiche. Qui si manifesta il più ampio rapporto di reciproca dipendenza tra
le forme di procedimento. Le generalizzazioni servono a formare delle
connessioni, e l’analisi della concreta connessione universale in connessioni
particolari è la strada più feconda per la scoperta di verità generali. Se si
tiene presente il procedimento di constatazione delle connessioni dinamiche
nelle scienze dello spirito, viene in luce la grande differenza che lo separa
da quello che ha reso possibili gli enormi successi delle scienze della natura.
Le scienze della natura hanno a proprio fondamento la connessione spaziale dei
fenomeni: la numerabilità e la misurabilità di ciò che si estende spazialmente
o si muove nello spazio rendono in esse possibile la scoperta di leggi generali
esatte. Ma l’interna connessione dinamica è solo aggiunta dal pensiero, e i
suoi elementi ultimi non possono venir indicati. Invece, come abbiamo visto, le
unità ultime del mondo storico sono date nell’Erleden e nell’intendere. Il loro
carattere di unità è fondato nella connessione strutturale in cui sono
collegati l'apprendimento oggettivo, i valori e la posizione di scopi. Noi
abbiamo un’esperienza vissuta di questo carattere dell'unità vivente anche per
il fatto che può costituire uno scopo soltanto ciò che è posto nel suo volere,
che è vero soltanto ciò che trova conferma di fronte al suo pensiero, e che
possiede valore per essa soltanto ciò che ha un rapporto positivo con il suo
sentire. Il correlato di questa unità vivente è il corpo che si muove e opera
in base a un impulso interno. Il mondo storico-sociale dell’uomo è costituito
da queste viventi unità psico-fisiche: tale è il risultato sicuro dell’analisi.
E anche la connessione dinamica di queste unità mostra poi qualità particolari
che non sono esaurite dai rapporti di unità e di pluralità, di tutto e di
parte, di composizione e di azione reciproca. Procedendo, l’unità vivente
risulta una connessione dinamica che si pone al di là della natura in quanto
viene immediatamente vissuta, ma le cui parti attive non possono venir misurate
secondo la loro intensità bensì solo valutate, e la cui individualità non può
venir scissa dall’elemento umano comune, di modo che l’umanità è soltanto un
tipo indeterminato. Pertanto ogni stato particolare nella vita psichica è una
nuova posizione dell’intera unità vivente, un rapporto della sua totalità con
le cose e con gli uomini; e, in quanto ogni manifestazione della vita
procedente da una comunità o appartenente alla connessione dinamica di un
sistema di cultura è il prodotto del cooperare di varie unità viventi, gli
elementi di queste forme composte rivestono un carattere corrispondente. Per
quanto ogni processo psichico appartenente a tale totalità possa dipendere
dall'intenzione della connessione dinamica, tuttavia questo processo non è mai
determinato da essa in maniera esclusiva. L'individuo, in cui esso si compie,
si inserisce come unità vivente nella connessione dinamica; e nella sua
manifestazione esso opera come totalità. La natura, per la differenziazione dei
sensi di cui ognuno racchiude un ambito di qualità sensibili omogenee, è
distinta in diversi sistemi ognuno dei quali è internamente omogeneo. Lo stesso
oggetto, una campana ad esempio, è duro, bronzeo, capace di produrre al
rintocco una serie di suoni; e ognuna delle sue proprietà occupa un posto in
uno dei sistemi dell’apprendimento sensibile, senza che ci sia data una
connessione interna tra queste qualità. Nell’Erlebder io esisto a me stesso
come connessione. Ogni situazione mutata produce una nuova posizione della vita
intera. Del pari in ogni manifestazione della vita, che appare dinanzi alla
nostra comprensione, opera sempre tutta la vita. Perciò né nell’Erleden né
nell’intendere ci sono dati sistemi omogenei, che ci consentano scoprire leggi
di mutamento. Comunanza e affinità si presentano a noi nell’intendere, e questo
ci porta d’altro lato a cogliere innumerevoli sfumature di differenziazione,
dalle grandi distinzioni tra razze, stirpi e popoli, fino all’infinita
molteplicità degli individui. Perciò nelle scienze della natura domina la legge
dei 168 WILHELM DILTHEY mutamenti, mentre nel mondo spirituale domina la
comprensione dell’individualità, dalla persona singola all'umanità intera,
nonché il procedimento comparativo, che cerca di ordinare concettualmente
questa molteplicità individuale. Da questi rapporti derivano i limiti della
conoscenza spirituale in rapporto sia allo studio della psicologia sia alle
discipline sistematiche, che dovranno essere illustrati più da vicino nella
dottrina del metodo. Da un punto di vista generale è evidente che sia la
psicologia sia le singole discipline sistematiche avranno un prevalente
carattere descrittivo e analitico; e qui possono servire le mie precedenti
considerazioni sul procedimento analitico nella psicologia e nelle scienze
sistematiche dello spirito, a cui mi rifaccio nell’insieme *. 4. La storia e la
sua comprensione per mezzo delle scienze sistematiche dello spirito: il sapere
storico. La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraverso la
reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistematiche; e poiché
l'intenzione dell’intendere precede in ogni caso l'elaborazione concettuale,
noi cominciamo con le proprietà generali del sapere storico. L'apprendimento
della connessione dinamica, costituita dalla storia, sorge anzitutto in base a
punti particolari, in cui i resti raccolti del passato vengono tra loro
collegati nell’intendere mediante la relazione con l’esperienza della vita; ciò
che ci circonda da vicino diventa mezzo per comprendere ciò che sta lontano ed
è passato. La condizione di questa interpretazione dei resti storici risiede
nel carattere di persistenza nel tempo e di universale validità umana di ciò
che noi vi rechiamo dentro. Così noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei
costumi, delle abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi;
e il a. Cfr. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen
Akademie der Wissenschaften , 1894, pp. 1309-1407 [ora in Gesammelte Schriften,
vol. V, pp. 139237]. Si vedano inoltre le Studien zur Grundlegung der
Geisteswissenschaften: Erste Studie,
Sitzungsberichte cit., 1905, vol.
II, pp. 322-43 [ora in Gesammelte Schriften, vol. VII, pp. 3-23], l’Eiz/eitung
in die Geistewissenschaften, e C. Siwart, Logik, Tubingen, vol. II, 3° ed.
1904, p. 633 sgg. WILHELM DILTHEY 169 presupposto ultimo di questa
trasposizione è costituito sempre dalle connessioni che lo storico ha vissuto
in sé. La cellula originaria del mondo storico è l’Erlebnis, nel quale il
soggetto si trova in rapporto al suo ambiente nella connessione dinamica della
vita. Questo ambiente opera sul soggetto e ne subisce l'influenza: esso è
composto dall'ambiente fisico e spirituale. In ogni parte del mondo storico vi
è quindi la medesima connessione del corso di un accadere psichico in rapporto
dinamico con il suo ambiente. Qui sorge il problema di valutare le influenze
naturali sull'uomo e di constatare pure l’azione che su di lui esercita
l’ambiente spirituale. Come la materia prima viene nell’industria sottoposta a
diversi modi di lavorazione, così anche i resti del passato vengono elevati a
piena comprensione storica mediante diverse procedure. La critica,
l’interpretazione e il procedimento che reca unità nella comprensione di un
processo storico si collegano tra di loro. L'aspetto caratteristico sta però
anche qui nel fatto che non si ha una semplice fondazione di un’operazione
sull’altra: la critica, l’interpretazione e il collegamento concettuale hanno
compiti diversi; ma la soluzione di ogni compito richiede continuamente
cognizioni ottenute per altre vie. Proprio questo rapporto ha però come
conseguenza che la fondazione della connessione storica dipende sempre da un
intreccio di operazioni che non può venir illustrato logicamente in modo
completo, e che mai può giustificarsi di fronte allo scetticismo storico
mediante prove incontestabili. Si pensi alle grandi scoperte di Niebuhr
sull’antica storia romana. La sua critica è in ogni punto inseparabile dalla
sua ricostruzione del corso effettivo. Egli ha dovuto constatare come sia sorta
la tradizione della più antica storia romana e quali conclusioni si possano
trarre sul suo valore storico in base a tale origine. Egli ha dovuto nel
medesimo tempo cercar di trarre da un’argomentazione oggettiva i lineamenti
fondamentali della storia reale. Senza dubbio questo procedimento metodico si
muove in un circolo, se si applicano le regole di una dimostrazione rigorosa. E
quando Niebuhr si è contemporaneamente servito della conclusione analogica da
processi di sviluppo affini, la conoscenza di tali processi sottostà allo
stesso circolo, e la conclusione analogica qui impiegata non dà nessuna
certezza rigorosa. 170 WILHELM DILTHEY Anche le narrazioni contemporanee
debbono prima venir esaminate in riferimento alla concezione dell’autore, alla
sua attendibilità e al suo rapporto con il processo in questione. E quanto più
le narrazioni vengono a distare temporalmente dall'avvenimento, tanto più
diminuisce la loro credibilità, se il loro valore non può venir accertato
mediante una riduzione ad altre più antiche e contemporanee all’avvenimento
stesso. La storia politica del mondo antico ha una base sicura dove esistono
dei documenti, e così pure la storia politica del mondo moderno dove sono
conservati gli atti che fanno parte del corso di un avvenimento storico. Con le
raccolte critico-metodiche dei documenti e il libero accesso degli storici agli
archivi è cominciata per la prima volta una conoscenza sicura della storia
politica. Questo può arrestare completamente lo scetticismo storico di fronte
ai fatti, di modo che su tali fondamenti sicuri viene a costruirsi, con l’aiuto
dell’analisi delle narrazioni in rapporto alle loro fonti, e dell'esame dei
punti di vista dei narratori, una ricostruzione che possiede probabilità
storica e la cui utilità può venir negata soltanto da menti spiritose ma non
scientifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a un sapere sicuro
intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi perviene intorno alle
azioni e agli avvenimenti, e gli errori a cui sempre rimaniamo esposti per i fatti
particolari non mettono in dubbio l'insieme. In posizione assai più favorevole
che nella comprensione del corso politico la storiografia si trova di fronte ai
fenomeni di massa, ma soprattutto quando si tratta di opere artistiche o
scientifiche che si possono sottoporre ad analisi. 5. I gradi della
comprensione storica. Il graduale assoggettamento del materiale storico si
compie per diversi gradi, che sono sempre più immersi nelle profondità della
storia. Molteplici interessi spingono anzitutto alla narrazione di ciò che è
accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il bisogno originario di
curiosità per le cose umane, in particolare per quelle della propria patria; e
si fa pure valere la consapevolezza della nazione e dello stato. In tal modo
sorge l’arte narrativa, il cui modello per ogni tempo resta Erodoto. Ma poi
viene in primo piano la tendenza alla spiegazione. La cultura ateniese nell’età
di Tucidide ha per la prima volta offerto le condizioni indispensabili per tale
spiegazione. Le azioni sono state derivate, mediante un’acuta osservazione, da
motivi psicologici; le lotte tra gli stati, il loro corso e il loro esito sono
stati spiegati in base alle forze militari e politiche, e sono stati studiati
gli effetti delle costituzioni statali. E quando un grande pensatore politico
come Tucidide spiega il passato mediante il sobrio studio della connessione
dinamica in esso presente, ne deriva contemporaneamente che la storia ammaestra
anche intorno al futuro. Per conclusione analogica, quando si è riconosciuto un
corso dinamico antecedente e si è mostrata l'affinità con esso dei primi stadi
di un processo, si può prevedere il ripresentarsi di un simile corso in
seguito. Questa conclusione, sulla quale Tucidide ha fondato la capacità della
storia di ammaestrare sul futuro, è infatti di decisiva importanza per il
pensiero politico. Come nelle scienze naturali, così anche nella storia una
regolarità entro la connessione dinamica consente di effettuare asserzioni € di
svolgere un’azione fondata sul sapere. Se già il contemporaneo dei Sofisti
aveva studiato le costituzioni come forze politiche, in Polibio ci si presenta
una storiografia in cui la trasposizione metodica delle scienze sistematiche
dello spirito nella spiegazione della connessione dinamica della storia
consente di introdurre nel procedimento esplicativo l’azione di forze
permanenti, come la costituzione e l’organizzazione militare o le finanze.
L'oggetto di Polibio è stata l’azione reciproca degli stati che, dall’inizio
della lotta tra Roma e Cartagine fino alla distruzione di Cartagine e di
Corinto, costituirono per lo spirito europeo il mondo storico; egli ha quindi
cercato di derivare dallo studio delle forze permanenti in essi operanti i
singoli processi politici. Il suo punto di vista diventa storico-universale, in
quanto egli riunisce in sé la cultura teoretica greca, lo studio della
raffinata politica e della condotta militare della sua patria, con una
conoscenza di Roma che era resa possibile soltanto dal contatto con i maggiori
uomini di stato della nuova potenza mondiale. E numerose forze spirituali
operano nel tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in primo
luogo l’approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e 172 WILHELM
DILTHEY nello stesso tempo l'estensione dell’orizzonte storico; ma i due grandi
storici italiani restano affini a Polibio nel loro procedimento. Un nuovo
livello è stato raggiunto dalla storiografia soltanto nel secolo xvitr. Allora
sono stati introdotti due grandi princìpi, in quanto la connessione dinamica
concreta, estratta come oggetto storico dal grande fluire della storia, è stata
424 lizzata in connessioni particolari, come quelle del diritto, della
religione, della poesia, comprese nell’unità di un’epoca. Ciò presupponeva che
lo sguardo dello storico mirasse, al di là della storia politica, alla storia
della civiltà, che per ogni suo campo fosse già conosciuta, mediante le scienze
sistematiche dello spirito, la funzione che esso esercita, e che si fosse già
formata una comprensione del cooperare di tali sistemi di cultura. La
storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di Voltaire. E in seguito è stato
introdotto un nuovo principio, quello di sviluppo, a opera di Winckelmann”, di
Justus Méser" e di Herder: esso afferma che in una connessione dinamica
storica è racchiusa, come nuova qualità fondamentale che essa percorra in virtù della sua essenza una serie di mutamenti di cui ognuno è
possibile soltanto sulla base dei precedenti. Questi diversi gradi designano
momenti che, una volta conquistati, sono rimasti vitali nella storiografia.
L'arte narrativa di intrattenimento, la spiegazione acuta, l’applicazione ad
essa del sapere sistematico, l’analisi in connessioni dinamiche particolari e
il principio dello sviluppo questi
momenti sono venuti a sommarsi e a rafforzarsi reciprocamente. 13. Johann.
Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte tedesco, autore
della Geschichte der Kunst des Altertums (1764) e di varie altre opere, fu il
maggior teorico del classicismo settecentesco: la sua dottrina del bello ebbe
larga influenza sull'estetica di fine Settecento c della prima metà
dell'Ottocento. 14. Justus Mser (1720-1794), storico tedesco, autore della
Osnabriickische Geschichte (1768-1824) e di altre opere, fu un rappresentante della
reazione anti-illuministica del pensiero tedesco della seconda metà del
Settecento: la sua impostazione storiografica, fondata suli’csaltazione della
struttura feudale e patrimoniale della vecchia Germania c quindi orientata in
senso fortemente conservatore, è stata considerata un importante momento
preparatorio dello storicismo romantico. L’isolamento di una connessione
dinamica dal punto di vista dell'oggetto storico. Sempre più chiaro ci appare
il significato dell’analisi della concreta connessione dinamica e della sintesi
scientifica delle singole connessioni dinamiche in essa contenute. Lo storico
non segue all’infinito, partendo da un punto, il nesso degli avvenimenti in
tutte le direzioni; piuttosto nell’unità di un oggetto, che costituisce il suo tema,
risiede un principio di selezione che è dato proprio insieme al compito
dell’apprendimento di tale oggetto. Infatti la trattazione dell’oggetto storico
non richiede soltanto il suo isolamento dalla vastità della concreta
connessione dinamica, ma l’oggetto contiene al tempo stesso un principio di
selezione. La caduta di Roma, la liberazione dell'Olanda, la Rivoluzione
francese richiedono la selezione di processi e di connessioni che racchiudano
le cause tanto particolari quanto generali, cioè le forze operanti in tutte le
loro trasformazioni, per la rovina dell’Impero romano o per la liberazione
dell'Olanda o per il compiersi della rivoluzione. Lo storico che lavora con
connessioni dinamiche deve distinguerle e collegarle in maniera che nessun
dettaglio vada smarrito, poiché ogni particolare viene rappresentato nei forti
tratti della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste soltanto la
sua capacità rappresentativa, ma questa è piuttosto il risultato di un
determinato modo di vedere. Quando si indagano queste salde e profonde
connessioni, risulta anche qui che la loro comprensione deriva dal nesso tra il
progredire dell’intendere storico delle fonti con una sempre più profonda
penetrazione delle connessioni della vita psichica. Se ci si avvicina poi alla
specie di connessione dinamica che sì presenta nei maggiori avvenimenti
storici, le origini del Cristianesimo o la Riforma o la Rivoluzione francese o
le guerre di liberazione nazionale, la si può concepire come opera di una forza
totale che supera, nella sua tendenza unitaria, tutti gli ostacoli. E si
troverà sempre che in essa operano due specie di forze. L'una è costituita da
tensioni che risiedono nel sentimento di bisogni imperiosi e non soddisfatti
dalla situazione presente, in nostalgie di ogni specie, nell’accrescersi degli
attriti e delle lotte, e anche nella coscienza di un'insufficienza delle
capacità di difen174 WILHELM DILTHEY dere ciò che esiste. L’altra è costituita
dalle energie che spingono in avanti, da un volere e un potere e un credere di
carattere positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono
manifestati e rafforzati da Erlebnisse di personalità importanti. In quanto
tali tendenze positive derivano dal passato per dirigersi verso il futuro, esse
sono creatrici: racchiudono in sé degli ideali, la loro forma è l’entusiasmo, e
in questo è insita una forma peculiare di parteciparsi e di estendersi. Da ciò
deriviamo il principio generale che nella connessione dinamica di grandi
avvenimenti storici i rapporti tra pressione, tensione, sentimento di
insufficienza dello stato di fatto cioè
sentimenti con segni negativi e con forme di rifiuto costituiscono il fondamento per l’azione,
sorretta da sentimenti positivi di valore, da fini da raggiungere e da
determinazioni di scopo. Quando entrambi gli elementi cooperano, si verificano
i grandi mutamenti del mondo. Nella connessione dinamica l’agente peculiare è
perciò costituito dagli stati psichici che si esprimono nel valore, nel bene e
nello scopo, e tra i quali non si debbono considerare come forze operanti
soltanto le tendenze verso i beni di cultura, ma anche la volontà di potenza,
anche l’inclinazione a opprimere gli altri. 7. I sistemi di cultura. Da ciò
risulta che già la determinazione dell’oggetto di un’opera storica implica una
selezione degli avvenimenti e delle connessioni. Ma la storia racchiude un
sistema coerente per cui la sua concreta connessione dinamica riposa su campi
particolari isolabili, in cui sono compiute operazioni separate, di modo che i
processi svolgentisi negli individui in rapporto a un’operazione comune
costituiscono una connessione dinamica unitaria e omogenea. Tale relazione è
già stata illustrata da me in precedenza ®: su di essa poggia l'elaborazione
concettuale mediante cui diventano conoscibili, nell’indagine storica,
connessioni di carattere generale. L’analisi e l'isolamento mediante cui
vengono poste in luce tali connessioni dinamiche è quindi il a. Einleitung in
die Geistestissenschaften, p. 52 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p.
42 sgg.]. procedimento decisivo che l’analisi logica delle scienze dello
spirito deve prendere in esame. Appare subito evidente l’affinità di tale
analisi con quella in cui viene scoperta la connessione strutturale dell’unità
della vita psichica. Le più semplici e omogenee connessioni dinamiche, che
compiono una funzione culturale, sono l’educazione, la vita economica, il
diritto, le funzioni politiche, le religioni, la socialità, l’arte, la
filosofia, la scienza. Io prendo ora in esame le qualità di un sistema
siffatto. In esso viene compiuta un’operazione. Così il diritto realizza le
condizioni coercitive per l’attuazione dei rapporti della vita. La poesia ha la
sua essenza nell’espressione di ciò che è immediatamente vissuto e nella
rappresentazione dell’oggettivazione della vita, in maniera tale che
l'avvenimento isolato dal poeta si presenta, nel suo significato per la
totalità della vita, ricco di conseguenze. In questa operazione gli individui
sono legati tra di loro. I processi particolari, che in essi hanno luogo, si
riferiscono alla connessione dinamica costituita da tale operazione e le
appartengono: così essi sono membri di una connessione che realizza
l'operazione. Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo in cui le
parti avverse discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a un'eredità, secondo
le regole del testo legislativo, la decisione del tribunale e la sua esecuzione
costituiscono una lunga serie di processi psichici particolari, che si
distribuiscono e si intrecciano in diverse persone, per risolvere infine il
compito inerente al diritto relativamente a un determinato rapporto della vita.
Il compimento della funzione poetica è, in grado assai maggiore, legato al
processo unitario che avviene nell’animo del poeta; ma nessun poeta è il
creatore esclusivo della sua opera, in quanto egli trae un avvenimento dalla
saga, si trova davanti la forma epica in cui lo eleva a poesia, studia
l’efficacia di scene particolari nei suoi predecessori, impiega una misura
metrica, deriva la sua concezione del significato della vita dalla coscienza
popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascoltatori che godano
nell’accogliere in sé l'impressione dei suoi versi e nell’attuare così il suo
sogno di influenza. Così la funzione del diritto, della poesia o di un altro
sistema di scopi della cultura si realizza in una connessione dinamica che
riposa su determinati processi, legati da tale operazione, i quali hanna luogo
in certi individui. Nella connessione dinamica di un sistema di cultura si fa
valere anche una seconda qualità. Il giudice, oltre a esplicare la sua funzione
nell’ordine giuridico, è inserito anche in varie altre connessioni dinamiche;
agisce nell’interesse della sua famiglia, deve realizzare una funzione
economica, esercita la sua finzione politica, forse scrive pure dei versi.
Perciò gli individui non sono legati nella loro totalità a tale connessione
dinamica, ma nella molteplicità dei rapporti dinamici sono uniti tra loro
soltanto quei processi che appartengono a un determinato sistema, e l’individuo
è inserito in diverse connessioni dinamiche. La connessione dinamica di un tale
sistema di cultura si realizza mediante una posizione differenziata dei suoi
membri. La solida impalcatura di ognuno di essi è formata da persone in cui i
processi, che servono a tale funzione, costituiscono l’occupazione principale
della loro vita, sia per inclinazione sia per motivo professionale. Tra di esse
emergono poi le persone che incorporano in sé, per così dire, l'intenzione
verso tale funzione, e che per la loro unione di talento e di professione
diventano i rappresentanti di questo sistema di cultura. E infine i portatori
veri e propri della creazione che ha luogo in tale campo sono le nature
produttive i fondatori delle religioni,
gli scopritori di una nuova intuizione filosofica del mondo, gli scopritori
scientifici. Così in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intreccio:
le tensioni, accumulate in un vasto ambito, spingono al soddisfacimeno del
bisogno; l'energia produttiva trova la strada per la quale si compie tale
soddisfacimento o suscita l’idea creatrice che spinge in avanti la società;
infine si aggiungono i collaboratori e poi i molti che l’accolgono. Procedendo
nell’analisi, ognuno di tali sistemi di cultura, che realizza un’operazione,
attua un valore comune a tutti coloro che sono ad essa indirizzati. Ciò di cui
l’individuo ha bisogno, e che non può mai realizzare, gli proviene dall’ agire
della totalità: un valore creato in comune, a cui egli può partecipare.
L'individuo ha bisogno delia sicurezza della sua vita, della sua proprietà,
dell'insieme della sua famiglia; ma soltanto una forza indipendente della
comunità soddisfa il suo bisogno mediante il mantenimento di regole coercitive
della vita comune, che rendono possibile la protezione di questi beni.
L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione di forze indomabili
intorno a lui, di forze cioè che stanno al di là dell’ambito ristretto di
attività della sua stirpe o del suo popolo; ma una diminuzione di tale pressione
è ottenuta solo mediante la creazione della fede da parte dello spirito
collettivo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dall'operazione a cui mira la
connessione dinamica deriva un ordine dei valori; questo viene creato nel
lavoro comune compiuto in vista di essa; sorgono oggettivazioni della vita in
cui il lavoro si è condensato; e sorgono pure organizzazioni che servono alla
realizzazione delle varie operazioni nei sistemi di cultura libri giuridici, opere filosofiche, poesie.
Il bene, che la funzione doveva realizzare, è ora creato e sarà sempre più
perfezionato. Le parti di tale connessione dinamica acquistano una
significatività nel loro rapporto con la totalità quale portatrice di valori e
di scopi. Anzitutto le parti del corso della vita hanno un significato in base
al loro rapporto con la vita, con i suoi valori e con i suoi scopi, con lo
spazio che qualcosa occupa in essa. E quindi gli avvenimenti storici diventano
significativi in quanto sono elementi di una connessione dinamica, cooperando
alla realizzazione di valori e di scopi della totalità insieme ad altre parti.
Mentre noi ci troviamo perplessi di fronte alla complessa connessione
dell’accadere storico, senza percepire in esso né una struttura né delle
regolarità né uno sviluppo, ogni connessione dinamica, che realizza una
funzione culturale, ha una propria struttura. Se concepiamo la filosofia come
connessione dinamica, essa si presenta anzitutto come una molteplicità di
operazioni: elevazione delle intuizioni del mondo a validità universale,
riflessione del sapere su se stesso, relazione della nostra attività conforme a
uno scopo e del sapere pratico con la connessione della conoscenza, spirito
critico sempre presente nell’intera cultura, opera di collegamento e di
fondazione. L’indagine storica mostra però che abbiamo qui da fare ovunque con
specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni storiche, ma che
sono alla fine fondate su una funzione unitaria propria della filosofia. Essa è
riflessione universale che procede continuamente verso le più alte
generalizzazioni e le fondazioni ultime. La struttura della filosofia sta
quindi nel rapporto di questo suo carattere fondamentale con le funzioni
particolari, in base alle condizioni temporali. Così la metafisica si sviluppa
sempre nell’interna connessione della vita, dell’esperienza della vita e
dell’intuizione del mondo. In quanto la tendenza a un saldo fondamento, che in
noi lotta continuamente contro l’accidentalità della nostra esistenza, non
trova alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche di
intuizione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare l'intuizione del
mondo a sapere universalmente valido. Inoltre nella connessione dinamica di un
sistema di cultura si può ogni volta rintracciare un’articolazione in forme
particolari. Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla base
della sua funzione, della sua struttura, delle sue regolarità. Mentre nel
concreto corso dell’accadere non si può trovare nessuna legge di sviluppo, la
sua analisi in connessioni dinamiche particolari e omogenee rivela la
successione di stati determinati dall’interno, che si presuppongono l’un
l’altro in maniera che dallo strato sottostante ne emerge ogni volta uno
superiore, e che procedono a una crescente differenziazione e a un crescente
collegamento. 8. Le organizzazioni esterne e l'insieme politico: le nazioni
organizzate politicamente. a) Sulla base dell’articolazione naturale
dell'umanità e dei processi storici si sviluppano gli stati del mondo civile,
ognuno dei quali riunisce in sé connessioni dinamiche di sistemi di cultura, e
soprattutto le nazioni organizzate in forma statale. L'analisi si limita qui a
questa forma tipica dell’attuale organizzazione politica. Ognuno di questi
stati è un’organizzazione composta da varie comunità: la coesione delle
comunità in esso racchiuse è quindi il potere sovrano dello stato, al di sopra
del quale non esiste nessun'altra istanza. E chi potrebbe negare che il senso
della storia, fondato nella vita, venga a esplicarsi tanto nella volontà di
potenza che riempie questi stati, nel bisogno di WILHELM DILTHEY 179 dominio
verso l’interno e verso l’esterno, quanto nei sistemi di cultura? E a tutto
questo aspetto di brutalità, di temibilità, di distruzione, che è contenuto nella
volontà di potenza, a tutta la pressione e a tutta la coercizione intrinseche
al rapporto di dominio e di obbedienza, non è forse legata la coscienza della
comunità, dell’appartenenza reciproca, la gioiosa partecipazione al potere
dell'insieme politico, tutti Erlebrisse propri dei supremi valori umani? Il
lamento sulla brutalità del potere dello stato è fuori luogo poiché, come Kant
ha visto, il più difficile compito del genere umano sta proprio nel riuscire a
contenere il volere individuale e la sua tendenza a estendere la propria sfera
di potenza e di godimento mediante la volontà collettiva e la coercizione che
essa esercita, e inoltre perché per tale volontà, in caso di conflitto, la
decisione risiede soltanto nella guerra, e anche all’interno la coercizione
resta l’ultima istanza. Sul terreno di questa volontà di potenza, intrinseca
all’organizzazione politica, sorgono le condizioni che rendono possibili i
sistemi di cultura. Così si presenta qui una struttura complessa, nella quale i
rapporti di forza e le relazioni dei sistemi di scopo sono legati in un’unità
superiore, e la comunanza sorge anzitutto dall’azione reciproca dei sistemi di
cultura. Io cerco ora di illustrare tutto questo rifacendomi alla più antica
società germanica a noi nota, quale ce la descrivono Cesare e Tacito. Qui la
vita economica, lo stato e il diritto si trovano legati alla lingua, al mito,
alla religiosità e alla poesia proprio come in ogni epoca successiva: tra le
qualità dei singoli campi della vita c'è un’azione reciproca che pervade in un
dato tempo la totalità. Così, nella Germania di Tacito, dallo spirito guerriero
è sorta la poesia eroica che già magnificava Arminio"! nei suoi canti, e
questa poesia a sua volta rafforzava lo spirito guerriero. Da questo spirito guerriero
è derivata pure l’inumanità presente nella sfera religiosa, come mostrano il
sacrificio dei prigionieri e l’impiccagione dei loro cadaveri in luoghi sacri.
Proprio tale spirito influiva sulla posizione del dio della guerra 15. Arminio
(17 a. C.-21 d. C.), principe dei Cherusci, sconfisse le legioni romane,
guidate da Quintilio Varo, nella Foresta di Teutoburgo nel 9 d. C., e in
seguito guidò la resistenza germanica contro l'invasore, costringendo i Romani
ad abbandonare la frontiera dell'Elba per ritirarsi sul Reno. La sua figura fu
esaltata come quella di un eroe nazionale tedesco. entro il mondo divino, e da
ciò risultava di nuovo una ripercussione sul sentimento bellico. Così viene a
costituirsi una concordanza tra i diversi campi della vita, la quale è così
forte che dallo stato di uno di essi possiamo compiere un’illazione sullo stato
di un altro. Ma quest’azione reciproca non spiega compiutamente i rapporti di
comunanza che collegano tra loro le diverse operazioni di una nazione. Che tra
economia, guerra, costituzione, diritto, linguaggio, mito, religiosità e poesia
vi sia in questa età una straordinaria concordanza e una straordinaria armonia,
non deriva dal fatto che una funzione fondamentale qualsiasi, sia essa anche la
vita economica o l’attività bellica, abbia condizionato le altre. Il fatto non
può venir considerato neppure come prodotto dell’azione reciproca dei diversi
campi nella loro situazione in quel dato periodo. In termini generali, quali
che siano le influenze derivanti dalla forza € dalle proprietà di certe
operazioni, tuttavia l’affinità che lega tra loro i diversi campi della vita
entro una nazione deriva da una profondità comune che nessuna descrizione può
esaurire. Essa esiste per noi soltanto nelle manifestazioni della vita che scaturiscono
da tale profondità e che la esprimono. È l’uomo, facente parte di una certa
nazione in un dato tempo, che inserisce in ogni manifestazione della vita entro
un determinato campo della civiltà qualcosa della sua particolare essenza;
poiché i momenti della vita degli individui, legati nella connessione delle
operazioni, non procedono da essa esclusivamente come abbiamo visto, ma l’uomo
intero è sempre operante in ognuna di queste attività e partecipa loro le
proprie qualità peculiari. E poiché l’organizzazione statale racchiude in sé
diverse comunità fin giù alla famiglia, l'ambito più vasto della vita nazionale
racchiude pure piccole connessioni e comunità che hanno propri movimenti, e
tutte queste connessioni dinamiche si incrociano nei singoli individui. Più
ancora lo stato attrae l’attività che ha luogo nei sistemi di cultura; e la
Prussia di Federico è l'esempio tipico di tale estremo aumento di intensità e
di estensione dell’influenza statale. Accanto alle forze indipendenti, che
collaborano nei sistemi di cultura, agiscono in essi anche le attività che
procedono dallo stato; e nei processi appartenenti a tale totalità statale,
l’attività autonoma e il condizionamento da parte della totalità sono sempre
legati tra loro. WILHELM DILTHEY 181 5) Il movimento proprio di ogni cerchia
particolare in questa grande connessione dinamica è determinato dalla tendenza
a compiere la propria funzione. Questa forza attiva ha in sé la duplicità della
tensione e di un’energia positiva volta alla posizione di scopi: tutte le
connessioni dinamiche concordano in ciò, ma ognuna ha pure la sua peculiare
struttura, dipendente dall’operazione che compie. Molto differente è infatti la
struttura di un sistema di cultura, in cui si realizza una connessione
articolata di operazioni, in cui i processi individuali vengono mossi da tale
connessione, in cui lo sviluppo dei valori, dei beni, delle regole, degli scopi
è determinato dall’essenza immanente di questa funzione, da quella propria
della connessione dinamica di un’organizzazione politica, poiché in questa non
esiste tale legge di sviluppo immanente in una funzione, i fini mutano in
genere secondo la natura delle organizzazioni, la macchina è per così dire
impiegata per attuare un altro compito, mentre vengono risolti compiti del
tutto eterogenei e realizzati valori di classe totalmente differente. Da tale
articolazione del mondo storico in connessioni dinamiche particolari risulta
una conclusione, che ci fornisce l’indicazione per l'ulteriore soluzione del
problema contenuto nel mondo storico. La conoscenza del significato e del senso
del mondo storico è stata spesso ottenuta, per esempio da Hegel o da Comte,
mediante la determinazione di una direzione generale del movimento della storia
universale; questa operazione riunisce il cooperare di diversi momenti in
un'intuizione indeterminata. In realtà risulta che il movimento storico si
compie nelle connessioni dinamiche particolari; e inoltre appare chiaro che
l’intera problematica diretta a porre in luce un fine della storia è del tutto
unilaterale. Il senso manifesto della storia deve essere cercato anzitutto in
ciò che sussiste sempre, in ciò che ricorre nelle relazioni strutturali, nelle
connessioni dinamiche, nella formazione di valori e di scopi entro di esse,
nell'ordine interno in cui stanno tra loro
dalla struttura della vita individuale fino all’ultima più vasta unità:
questo è il senso che la storia ha sempre e ovunque, che poggia sulla struttura
dell’esistenza individuale e che si manifesta nella struttura delle connessioni
dinamiche più complesse entro l’oggettivazio ne della vita. Tale regolarità ha
determinato anche lo sviluppo 182 WILHELM DILTHEY passato e ad essa è
sottoposto il futuro. L'analisi della costruzione del mondo spirituale avrà
soprattutto il compito di mostrare tali uniformità nella struttura del mondo
storico. In tal modo viene pure eliminata la concezione che ha visto il compito
della storia nel progresso da valori, obbligazioni, norme, beni relativi ad
altri incondizionati: con essa ci trasferiremmo dal campo delle scienze
empiriche al campo della speculazione. Infatti la storia assiste pure alla
posizione di un elemento incondizionato, sotto forma di valore, di norma o di
bene. Elementi del genere si presentano sempre in essa sia come dati nella volontà divina, sia come
dati in un concetto razionale di perfezione, in una connessione teleologica del
mondo, in una norma universalmente valida del nostro agire, fondata su base
trascendentale. Ma l’esperienza storica ha conoscenza soltanto dei processi, per
essa così importanti, in virtù dei quali questi elementi vengono posti: essa
non sa nulla, di per sé, in merito a una loro validità universale. Seguendo il
corso in cui si elaborano tali valori, beni o norme incondizionate, essa
osserva per diversi di essi il modo in cui la vita li ha prodotti; la posizione
incondizionata è stata possibile solo in virtù della limitazione dell’orizzonte
temporale. Essa guarda di qui alla totalità della vita nella pienezza delle sue
manifestazioni storiche, e osserva la disputa mai appianata che si svolge tra
queste posizioni incondizionate. La questione se la subordinazione a tale
elemento incondizionato, che è appunto un fatto storico, debba essere
ricondotta in maniera logicamente necessaria a una condizione generale, non limitata
temporalmente, insita nell'uomo, o se sia da considerare come prodotto della
storia, conduce alle estreme profondità della filosofia trascendentale, che
stanno al di là dall’ambito dell’esperienza storica e a cui neppur la filosofia
è in grado di fornire una risposta sicura. E se anche tale questione fosse
decisa nel primo, ciò non potrebbe servire allo storico per la selezione, la
comprensione, la scoperta di qualche connessione, qualora non potesse venir
determinato il contenuto di tale elemento incondizionato: così l'intervento
della speculazione nel campo di esperienza dello storico difficilmente potrà
avere successo. Lo storico non può rinunciare al tentativo di intendere la
storia in base a se stessa, in base all’analisi delle varie connessioni
dinamiche. Così una nazione organizzata in forma statale può venir concepita
come un’unità strutturale individualmente determinata di connessioni dinamiche.
Il carattere comune delle nazioni organizzate in forma statale poggia su
regolarità che consistono nella forma di movimento delle connessioni dinamiche,
nelle loro relazioni reciproche e, poiché esse sono creatrici di valori e di
scopi, nel rapporto tra connessione dinamica, determinazione di valori,
posizione di scopi e connessione di significato entro un’organizzazione
politica. Ognuna di queste connessioni dinamiche è incentrata in se stessa in
un modo particolare, e su ciò è fondata la regola interna del suo sviluppo.
Sulla base di tali regolarità, che pervadono tutte le nazioni organizzate
statalmente, si elevano le loro forme individuali, lottando e cooperando nella
storia per la loro vita e la loro validità. In ogni nazione organizzata in
forma statale l’analisi e soltanto
questa, non già la storia dell'origine delle nazioni interviene in tale
connessione distingue vari momenti. Tra
gli individui in essa racchiusi, che stanno tra loro in un rapporto di azione
reciproca, esistono uniformità di carattere e di manifestazioni della vita;
essi hanno coscienza di queste uniformità e dell’appartenenza reciproca che su
queste riposa; in essi vive perciò una tendenza a rafforzare tale appartenenza
reciproca. Queste uniformità possono venir constatate negli individui singoli,
ma pervadono e caratterizzano anche tutte le connessioni esistenti entro la
nazione. L'analisi mostra inoltre in ogni nazione un nesso di connessioni
dinamiche particolari. Il potere esterno e interno dello stato fa della nazione
un'unità che opera in forma autonoma. Entro questa unità si sovrappongono vari
gruppi sociali, e ognuno costituisce una connessione dinamica relativamente
indipendente. I sistemi strutturali, che procedono al di là della singola
nazione, si presentano qui in rapporto con altre connessioni dinamiche, e sono
modificati dalle uniformità che pervadono l’intero popolo; e la forza della
loro azione è accresciuta dai gruppi che si costituiscono in base alla loro
tendenza a una determinata funzione. Così sorge la complessa struttura di una
nazione organizzata in forma statale: ad essa corrisponde una nuova interna
disposizione di questa totalità. In essa viene vissuto un valore per tutti;
l’agire degli individui ha in essa un fine comune. La sua unità si oggettiva
nella letteratu184 WILHELM DILTHEY ra, nei costumi, nell'ordinamento giuridico
e negli organi della volontà collettiva, manifestandosi pure nella connessione
dello sviluppo nazionale. Voglio ora illustrare in alcuni punti fondamentali la
cooperazione dei diversi momenti che fanno parte di una totalità statale
organizzata, così come sono stati determinati, nella vita nazionale di una
certa epoca. A tale scopo mi rifaccio ai Germani dell’età di Tacito. Quando
Tacito scriveva, il fondamento della vita germanica era sempre l'unione della
guerra con lo sfruttamento del terreno, della caccia con l’allevamento del
bestiame e con l’agricoltura. L’'arrestarsi della diffusione delle stirpi
germaniche ha accelerato il corso naturale verso la fissazione del domicilio, e
la Germania è divenuta un paese agricolo. Da questo rapporto con il suolo e il
terreno nella caccia, nell'allevamento del bestiame e nell’agricoltura, è
derivato il legame dei Germani di allora con la terra e con ciò che su di
essa-cresce e vive: tale legame è il primo momento decisivo per la vita
spirituale dei Germani in questa epoca, Altrettanto chiara è l’influenza
dell’altro fattore sociale, prima accennato, di questa età, cioè dello spirito
guerriero delle stirpi germaniche nella vita politica, negli ordinamenti
sociali e nella cultura intellettuale del tempo. I compiti della guerra
pervadevano tutti i settori della vita; si facevano valere nel rapporto delle
famiglie con l’ordinamento militare, cioè nelle centurie; incidevano sulla
posizione dei capi e dei prìncipi. Dallo spirito guerriero è sorto poi anche il
sistema del seguito, di importanza decisiva per lo sviluppo militare e
politico. Il principe è circondato da un seguito composto da gente libera, che
costituisce la sua corte militare: soltanto la guerra poteva nutrire tale
seguito. Esso era legato quindi al principe dal più saldo rapporto di fedeltà,
da un rapporto che a noi si rivela nel canto eroico e nell’epica popolare con
la sua bellezza propriamente germanica. Dalla guerra scaturisce poi il regno
militare di un Marbod". A questi fattori si aggiunge l’individualità dello
spirito nazionale. Le sue uniformità si fanno valere nel risultato delle
connessioni dinamiche. Lo spirito guerriero, che le stirpi germa16. Marbod,
principe dei Marcomanni, contemporanco e avversario di Arminio. niche di
quest'epoca hanno in comune con gli stadi primitivi di altri popoli, mostra
tuttavia presso di esse una forza e un carattere particolare. Il valore della
vita di una persona singola è riposto nelle sue qualità belliche. Da Tacito
appare che i migliori di essi vivevano in modo completo soltanto in guerra; la
cura della casa, del focolare e del campo era lasciata alle donne e agli
individui inadatti alla guerra. Un carattere peculiare spinge questi Germani a
operare nella pienezza del loro essere e ad abbandonarsi senza riserve alla
lotta. Il loro agire non è determinato e limitato da una posizione razionale di
scopi; in esso c'è una sovrabbondanza di energia che li spinge al di là dello
scopo, c'è qualcosa di irrazionale. Nella loro passione inconsumabile e
indomabile essi mettono in gioco con i dadi la loro persona e la loro libertà.
Nella battaglia si rallegrano del pericolo; dopo la lotta cadono in una pigra
quiete. Il loro mito e Ia loro saga eroica sono totalmente pervasi da questo
carattere ingenuo e inconscio che ripone il valore e il piacere maggiore dell’esistenza
non già nella serena intuizione del mondo propria dei Greci, non già nella
razionale determinazione di scopi propria dei Romani, ma nella manifestazione
illimitata della forza in quanto tale, nella scossa e nell’estensione e
nell’elevazione che ne deriva per la personalità. Questo aspetto, che trova la
sua suprema espressione nella gioia della lotta, esercita la sua influenza
sull'intero sviluppo dei nostri ordinamenti politici e della nostra vita
spirituale. L’ultimo tra i momenti contenuti in una totalità nazionale, e che
determinano il suo sviluppo, risiede nella subordinazione dei gruppi minori
alla totalità politica, quale essa sorge in virtù dei rapporti di dominio e di
obbedienza e dei rapporti di comunità compresi in una volontà statale sovrana.
Così in Germania vengono a susseguirsi il regno popolare in piccole comunità di
struttura imperfettamente differenziata, poi, sulla base della crescente
divisione del lavoro, l’articolazione professio nale e la distinzione dei ceti
in una totalità nazionale poco solida, la formazione della signoria
indipendente con la sua intensiva ed estesa attività statale negli stati
territoriali, che gradualmente stritola, in mezzo ai diritti individuali e alla
volontà di potenza dei prìncipi, l’ordinamento fondato sulle professioni e sui
ceti, e infine lo sviluppo di tali stati verso un continuo ampliamento dei
diritti individuali, dei diritti della comunità popolare nel sistema
rappresentativo, conforme a ordinamenti democratici, e d’altra parte la subordinazione
dei diritti principeschi all’impero nazionale. Se si guarda a tale sviluppo,
esso appare ovunque condizionato in duplice modo: da un lato esso dipende dal
rapporto mutevole delle forze entro il sistema statale, e dall’altro è
condizionato dai fattori dello sviluppo interno, propri dello stato
particolare, che noi abbiamo seguito. Così risulta chiara la possibilità di
sottoporre ad analisi la connessione dinamica che condiziona i momenti
particolari dello sviluppo di una nazione e lo sviluppo totale di essa,
distinguendola nei suoi fattori. Le regolarità presenti nella struttura della
totalità politica determinano le situazioni della totalità c i suoi mutamenti.
Vi sono quasi degli strati successivi nell’ordinamento di vita di questa
totalità, di cui il posteriore presuppone il precedente, come abbiamo visto dai
mutamenti dell’organizzazione politica. Ognuno mostra un ordine interno in cui,
a partire dall’individuo, le connessioni dinamiche formano valori, realizzano
scopi, raccolgono beni, sviluppano regole di condotta. I portatori e i fini di
tali operazioni sono però differenti. Così sorge il problema dell’interna
relazione reciproca tra tutte queste operazioni, dalla quale esse traggono il
loro significato. Pertanto l’analisi della connessione logica delle scienze
dello spirito ci conduce di fronte a un compito ulteriore, sulla cui soluzione
getterà luce la costruzione delle scienze dello spirito in virtù del
collegamento dei loro vari metodi. 9. Età ed epoche. In un determinato periodo
di tempo si possono quindi porre in luce analiticamente singole connessioni
dinamiche e mostrare i momenti di sviluppo in esse contenuti, determinando
inoltre le relazioni che uniscono tali connessioni in una totalità strutturale
e le uniformità presenti nelle parti di un insieme politico: così noi possiamo
pure intendere l’altro aspetto del mondo storico, la linea del corso temporale
e dei mutamenti che esso racchiude in riferimento alle connessioni dinamiche,
come una totalità continua e tuttavia separabile in sezioni temWILHELM DILTHEY
187 porali. Ciò che caratterizza anzitutto le generazioni, le età, le epoche *,
sono tendenze dominanti di profonda incidenza. Ciò che le caratterizza è la
concentrazione dell’intera cultura di un periodo in se stessa, cosicché nella
determinazione di valori, nella posizione di scopi, nelle regole di vita
dell’epoca risiede il criterio di giudizio, di valutazione e di stima delle
persone e degli orientamenti che attribuisce a una determinata epoca il suo
carattere. Un individuo, una tendenza, una comunità acquistano il proprio
significato in questa totalità in base al loro rapporto interno con lo spirito
del tempo. E in quanto ogni individuo è inserito in tale periodo, ne deriva
pure che il suo significato per la storia consiste in questo suo rapporto con
l'età. Quelle persone che procedono vigorosamente innanzi in un certo periodo
sono gli esponenti dell’età, i suoi rappresentanti. In questo senso si parla di
spirito di un’epoca, per esempio dello spirito del Medioevo o dell’Illuminismo.
Da ciò risulta pure che ognuna di tali epoche trova una limitazione in un
orizzonte di vita: con questo intendo la limitazione per cui gli uomini di
un'età vivono in rapporto al suo pensiero, al suo modo di sentire, alla sua
volontà. In essa c'è una relazione di vita, rapporti vitali, esperienza della
vita e formazione intellettuale, che mantiene e lega gli individui in un
determinato ambito di modificazioni dell’apprendimento, della formazione di
valori e della posizione di scopi. Elementi inevitabili sovrastano qui gli
individui particolari. Accanto alla grande tendenza che domina e pervade
un'intera età, dando a quel periodo il suo carattere, ve ne sono altre che si
contrappongono a essa. Esse mirano a conservare l’antico, osservano le
conseguenze dannose dell’unilateralità dello spia. Già nel 1865, nel saggio su
Novalis [ora in Er/ebnis und Dichtung] ho illustrato e impiegato il concetto
storico di generazione, usandolo più ampiamente nel primo volume del Leben
Schleiermachers e poi, nel 1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der
Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat [ora in Gesammelte
Schriften, vol. V, pp. 31-73], sviluppandolo insieme ai concetti ad esso
collegati. L’ulteriore determinazione dei concetti di continuità storica , movimento sto rico , generazione , età , epoca è possibile soltanto nell’illustrazione della
costruzione delle scienze dello spirito. rito dell’epoca e si rivolgono contro
di questo; se invece si presenta qualcosa di creativo e di nuovo, che sorge da
un altro sentimento della vita, allora comincia entro questo periodo il
movimento indirizzato a produrre una nuova età. Ogni contrapposizione resta
quindi sul terreno dell’età o dell’epoca; ciò che in essa si oppone ha nel
medesimo tempo la struttura di quell'età. In questo elemento creativo ha allora
inizio un nuovo rapporto di vita, di relazioni vitali, di esperienza della vita
e di formazione intellettuale. Così i rapporti di significato che esistono in
un periodo tra le forze storiche sono fondati in quella relazione reciproca
delle uniformità e delle connessioni dinamiche, che si possono designare come
tendenze, correnti, movimenti. Da esse si perviene per la prima volta al
problema più complicato di determinare analiticamente la connessione strutturale
di un’età o di un periodo. Tale problema può venire illustrato considerando
l’Illuminismo tedesco dal punto di vista di questa interna connessione:
compiendo l’analisi di un’età anzitutto in una nazione particolare, si viene
infatti a semplificare il compito. La scienza si era costituita nel secolo xvi.
Dalla scoperta di un ordine legale della natura e dall’applicazione di questa
conoscenza causale al dominio sulla natura era sorta la fiducia dello spirito
in un regolare progresso della conoscenza. In questo lavoro di indagine le
varie nazioni civili erano unite tra loro: così è sorta l’idea di un’umanità
unita nel progresso. Si formò l’ideale di un dominio della ragione sulla
società; esso ispirò le forze migliori; così queste si unirono in uno scopo comune,
lavorando in base agli stessi metodi e attendendo dal progresso del sapere il
miglioramento dell’intero ordinamento sociale. L'antico edificio alla cui
costruzione avevano cooperato il dominio della chiesa, i rapporti feudali, il
dispotismo illimitato, i capricci dei principi, l'inganno pretesco edificio sempre trasformato dai tempi e
sempre bisognoso di nuovi restauri
doveva venir mutato in una costruzione razionale chiara e simmetrica.
Questa è l’unità interna in cui sono legate in una totalità la vita spirituale
degli individui, la scienza, la religione, la filosofia e l’arte nella
connessione europea dell’Illuminismo. Questa unità si compì in modo differente
nei vari paesi, atteggiandosi in maniera particolarmente felice e solida in
Germania. Qui una tendenza generale si fece valere nella sua più alta vita
spirituale. Se ci si rifà indietro in Germania si può trovare, a partire da
Freidank”, la tendenza a subordinare coscientemente la vita a salde regole; e
se si volesse designarle come morali, il fatto sarebbe rappresentato da un
punto di vista unilaterale e determinato entro un ambito troppo ristretto. La
serietà dei popoli nordici è qui legata a un bisogno di riflessione, che deriva
da un orientamento verso l’interiorità della vita ed è senza dubbio connesso
con le situazioni politiche. Come nell’immobilità della vita statale le
clausole giuridiche, i privilegi, gli accordi ostacolano il libero movimento
della vita, così anche nell’individuo il sentimento dell’obbligazione sovrasta
la libera posizione di scopi: nel godimento della vita si scorge sempre
qualcosa di illecito. I potenti lo arraffano per sé, ma in esso c'è qualcosa
che mette in crisi la loro coscienza. Così nella filosofia tedesca del secolo
xviti vi è un tratto fondamentale che unisce tra loro Leibniz, Thomasius *,
Wolff”, Lessing, Federico il Grande, Kant e innumerevoli altri minori. Tale
tendenza all’obbligazione e al dovere era stata promossa dallo sviluppo del
Luteranesimo e della sua morale fin da Melantone. Essa era favorita dall’articolazione
della so17, Freidank, nome o (più probabilmente) pseudonimo di un poeta
didattico tedesco della prima metà del secolo x1tr, che seguì Federico II in
Palestina: il suo poema Bescheidenheit (pubblicato nel 1508) ebbc larga
fortuna. 18. Christian Thomasius (1655-1728), giurista e filosofo tedesco,
autore di tre libri Institutionum iurisprudentiue divinae (1688), della
Introductio in philosophiam ratio. nalem (1701), dei Fundamenta iuris naturae
et gentium (1705) e di numerose altre opere soprattutto di etica, fu uno dei
maggiori esponenti della scuola del diritto naturale alla fine del Seicento: la
sua opera si ispira in larga misura all'insegnamento di Pufendorf. 19.
Christian Wolff (1679-1754), filosofo tedesco, è il principale rappresentante
dell'Illuminismo di derivazione Icibniziana: fu autore di numerosi manuali
scientifici e di opere filosofiche come la Philosophia rationalis, sive logica
methodo scientifico pertractata (1728), la Philosophia prima sive Ontologia
(1729), la Cosmologia generalis (1731), la Psychologia empirica (1732), la
Psychologia rationalis (1734), la Theologia naturalis (1736-37), la Plilosophia
practica universalis (1738-39), lo Jus naturae methodo scientifico pertractatum
(1740-48), lo Ius gentium (1749), le Institutiones suris naturae (1750), la
Philosophia moralis sive Ethica (1750-53) e l'Oeconomica (1750). Il suo lavoro
di sistemazione del sapere filosofico ebbe larga influenza nella cultura
tedesca del Settecento, e ad esso si richiamerà anche Kant. 190 WILHELM DILTHEY
cietà in base al concetto di professione e di ufficio, che Lutero aveva
introdotto nell’età moderna. E nella misura in cui la tendenza all’autonomia
della persona progrediva nell’Illuminismo, la perfezione diventava dovere:
nella ragione vi è una legge naturale dello spirito, che richiede
dall’individuo la realizzazione della perfezione in sé e negli altri. Questa
esigenza è dovere: un dovere che non è imposto dalla divinità, ma che deriva
dalla legge della nostra propria natura e può venir stabilito su basi
razionali. Soltanto in seguito la regola razionale può venir riferita al
fondamento delle cose: questa è la dottrina di Wolff, che si rifà indietro a
Pufendorf ”, Leibniz, Thomasius, e che procede in avanti fino a Kant,
riempiendo tutta la letteratura dell’Illuminismo tedesco. In questa dottrina
risiede il legame che unisce i Tedeschi dell’Illuminismo con i Tedeschi del
secolo xvi, producendo uno spirito unitario in quest’epoca, un qualcosa di
imponderabile che, ovunque modificato e pur sempre il medesimo, pervade
l’intera nazione: una determinazione del valore della vita, che sta a base
della connessione vitale dell’Illuminismo tedesco. Il nuovo schema di movimento
dell’anima verso il suo valore supremo è fondato nel carattere razionale
dell’uomo. La persona individuale realizza il suo scopo in quanto divenuta
maggiorenne in virtù delle sue capacità razionali, realizza in sé il dominio
della ragione sulle passioni, e questo della ragione si manifesta come
perfezione. In quanto la ragione è poi universalmente valida e a tutti comune,
e la perfezione della totalità mediante la ragione è superiore alla perfezione
dell'individuo nel senso che la
perfezione di tutti ha un valore superiore a quella di una persona sola e sorge qui l'obbligazione suprema in virtù
della quale l’individuo è legato al bene della totalità, ne deriva la più
precisa determinazione di questo principio come principio di perfezione di
tutti gli individui, da raggiungersi mediante il progresso della totalità.
Questo principio dell'Illuminismo non ha la sua base nel puro pensiero, e il
suo dominio non poggia su questo, ma in 20. Samuel von Pufendorf (1632-1694),
giurista e filosofo tedesco, autore dei De iure naturae ei gentium libri octo
(1672), dei De officio hominis et civis iuxta legem natttralem libri duo (1673)
c di Eris scandica (1686), nonché di varie altre opere di argomento storico e
giuridico, è la maggiore figura del giusnaturalismo seicentesco. esso
pervengono a un'espressione astratta tutti i valori della vita di cui hanno esperienza
gli uomini dell’Illuminismo. Per queste menti, Wolff soprattutto, la perfezione
diventa quindi, in modo abbastanza strano, un dovere, la tendenza verso di essa
diventa una legge vincolante per l'individuo, e infine la divinità diventa per
Wolff e i suoi scolari oggetto di doveri i quali hanno il loro centro di
riferimento nella tendenza alla perfezione. La stessa esperienza della vita, in
cui sono fondate queste idee, può venir studiata in Leibniz nel modo migliore.
Essa poggia sull’Erlebnis della felicità dello sviluppo. E il grande pensatore,
come poi anche Lessing, ripone nel progredire medesimo la suprema felicità
dell’uomo, in quanto essa non può mai essergli offerta dal contenuto del
momento. E che tale progredire non si riferisca a questo o a quello scopo
particolare, ma allo sviluppo della persona individuale, comprendendo e legando
tutto ciò che vi è in essa, Leibniz per primo lo esprime mediante il suo
Er/eden. Questo Erlebnis è stato ovunque preparato dal fatto che l’individuo
nell’infelicità della vita nazionale veniva spinto sempre verso se stesso, e
indirizzato ai compiti culturali comuni. E così come Leibniz lo aveva
enunciato, esso agì dappertutto. Con i concetti di valore derivanti dalla vita
stessa, che Leibniz accoglieva, è determinato anche il compito che egli poneva
alla sua filosofia, cioè quello di derivare il significato della vita e il
senso del mondo dalla connessione dei valori individuali dell’esistenza. Così
nell’età dell’Illuminismo una connessione unitaria conduce dalla forma della
vita all'esperienza della vita, dagli Erlebnisse in essa contenuti alla loro
rappresentazione in concetti di valore, in imperativi del dovere, in
determinazioni di scopo, nella coscienza del significato della vita e del senso
del mondo. In questa connessione cresce la coscienza che tale epoca ha di sé, e
nel passaggio a formule astratte queste pervengono, mediante la dimostrazione
razionale, a un carattere assoluto; vengono formulati valori, obbligazioni,
doveri, beni incondizionati, mentre proprio qui lo storico percepisce
chiaramente la loro origine dalla vita medesima. Se nella riflessione
dell'individuo sulla vita troviamo in Germania una tendenza alla sua formazione
razionale, una tendenza analoga si sviluppa nel medesimo tempo nella vita
statale, sulla base delle condizioni particolari della connessione dinamica
della vita politica. Sempre più invadente diventava l’attività statale nello
sviluppo europeo dell’età moderna, in tutti i vari campi della cultura: nella
burocrazia, nella classe militare, nelle istituzioni finanziarie risiede il
centro di organizzazione di tutti i rapporti di forza, e l’attività dello stato
diventa una forza propulsiva del movimento culturale. Su questo processo
influiscono ovunque la lotta reciproca dei grandi stati per la potenza e per
l'ampliamento, e il bisogno interno di trasformare in una totalità unitaria le
parti messe insieme attraverso le guerre e le successioni ereditarie. L'unità
degli stati moderni si concentra nel monarca, nella sua burocrazia e nel suo
esercito. Ma essi debbono pervenire a una più salda articolazione dei loro
organi e a un impiego più intensivo delle loro forze. Ciò diventa possibile
soltanto con una più razionale condotta degli affari; il progresso politico non
avviene spontaneamente ma viene prodotto. Ogni attività dell’insieme è
determinata da una razionale posizione di scopi. Questo insieme include sempre
in sé vari compiti culturali la scuola,
la scienza, anche la vita ecclesiastica, ove essa può venir raggiunta. I
prìncipi rappresentano in sé non solo l’unità, ma anche l’orientamento
culturale di tutto lo stato. Le libere forze irrazionali della fedeltà della
persona alla persona vengono sostituite da altre operanti in modo più
calcolabile e più sicuro. Così anche nella vita statale si attua la relazione
di forze che dà all’età illuministica la sua unità. All’ordine razionale della
vita e all’utilizzazione razionale della natura, di cui lo stato ha bisogno,
viene incontro il movimento scientifico fondato nel secolo xvII, e questo trova
a sua volta nello stato l'organo necessario per sottoporre tutti i settori
della vita a una regolamentazione razionale, dall'impresa economica alle regole
del buon gusto nelle arti. Nessun paese era politicamente preparato come la
Germania a questa interna relazione, nella quale risiedeva l’essenza
dell’Illuminismo. I suoi piccoli stati dipendevano dallo sviluppo della
cultura, e la Prussia anche dal progredire delle forze spirituali necessarie
alla lotta per il potere. La circolazione delle forze religiose e scientifiche,
dalla vita delle comunità protestanti al sistema scolastico e alle università,
da queste allo sviluppo del pensiero religioso presso il clero e alle teorie
giuridiche presso i giuristi, e poi di nuovo giù giù fino al popolo, non fu mai
in alcun paese sviluppata come in esso. Nell’Illuminismo tedesco cooperano
forze di origine assai diversa, e connessioni dinamiche colte in stati assai
differenti del loro sviluppo. Mentre l’unità dello spirito dell’Illuminismo si
realizza nella scienza e nella riflessione filosofica come nella vita sociale,
essa viene ad attuarsi pure mediante l’efficacia di questo spirito in tutti i
singoli campi della vita spirituale. Nello sviluppo del diritto troviamo in
Germania un interessante esempio di tale fenomeno nell’origine della più
compiuta legislazione dell’epoca, il diritto territoriale. A Halle, dallo
spirito dello stato prussiano si forma un indirizzo autonomo del diritto
naturale e della giurisprudenza che su esso si fonda. Thomasius, Wolff, B6hmer?
e vari seguaci diffondono dappertutto, con i loro scritti, la concezione
giuridica di tale scuola. Essi formano i funzionari adatti, per l’unità e il
carattere nazionale del loro orientamento spirituale, a compiere l’opera
legislativa, a lungo bloccata, della Prussia. Sotto l’influenza di questo
diritto naturale stanno il re, che promuove tale opera, e i ministri e i
consiglieri che la eseguono. La stessa connessione interna si trova nel
movimento religioso dell’età illuministica: anch'esso mostra la duplicità
peculiare dell’Illuminismo tedesco, in quanto è a un tempo polemico e
costruttivo. La storia ecclesiastica, il diritto naturale e il diritto
ecclesiastico cooperano nel Protestantesimo tedesco a formare una visione del
Cristianesimo primitivo che in Bòhmer, Semler ”, Lessing, Pfaff” diventa la
forza produtti21. Johann Samuel Friedrich von Bòhmer (1704-1772), giurista
tedesco, autore degli Elementa iurisprudentiae criminalis (1733), delle
Observationes selectae ad B. Carpzovii Practicam novam rerum criminalium (1759)
e di Meditationes sulle recenti leggi penali (1770), fu uno dei più importanti
studiosi di diritto penale del Settecento. 22. Johann Salomon Semler
(1725-1791), teologo protestante tedesco, autore delle Vorbereitungen zur
theologischen Hermeneutik (1760-69), della /nstiturio brevior ad liberalem
eruditionem theologicam (1765-66), dell'Apparatus ad liberalem Novi Testamenti
interpretationem (1769), delle Asketische Vorlesungen zur Beforderung einer
verniinftiger Anwendung der christlichen Religion (1722) e di altre operc,
sostenne in polemica col Pietismo una teologia liberale, fondata sulla
distinzione della parola divina dalla parola della Bibbia. 23. Christoph Matthàus
Pfaff (1686-1760), teologo protestante tedesco, autore delle Institutiones
theologiae dogmaticae et moralis (1719), del De origine iuris ecclesiastici 13.
STORICISMO TEDESCO. 194 WILHELM DILTHEY va di un nuovo ideale della religiosità
e dell'ordinamento della chiesa. E anche qui si ha la medesima circolazione
delle idee che dall’insoddisfazione per lo stato presente e dalla forza
positiva delle nuove idee universali, attraverso le scuole e le università che
sono indipendenti dal potere dell'ortodossia ecclesiastica e che stanno in
connessione con lo spirito scientifico, conduce alla formazione del singolo
sacerdote che fa valere nella città o nella campagna un Cristianesimo
illuminato, affine allo spirito dell’epoca. La religiosità cristiana non ha mai
esercitato in nessun altro tempo all’infuori dell’Illuminismo tedesco un’influenza
così schietta, così coerente, così orientata verso le supreme idee morali e
religiose, e nel medesimo tempo così concorde con il teismo cristiano. Nuovi
valori religiosi di grande portata si sono allora formati nella vita
ecclesiastica e religiosa. Anche la poesia tedesca dell’epoca è determinata
dalla trasformazione dei valori e degli scopi che si compie nell’età
dell’Illuminismo. Negli stati indipendenti tedeschi l’Illuminismo incide sulla
creazione poetica. Muovendo dalla Francia, anche in Germania viene elaborata la
prosa moderna in rapporto con la società colta. Vengono assegnati ai generi
poetici le loro regole, e queste disciplinano la forma superiore di arte
fantastica di Shakespeare e di Cervantes in componimenti poetici articolati in
maniera strettamente logica. L'ideale di questa poesia diventa l’uomo
determinato dall’idea della perfezione e dell’Illuminismo; e la sua intuizione
del mondo è la fede nell’ordine teleologico del mondo a partire dalla natura.
La diretta espressione diquesto ideale e di questa intuizione del mondo diviene
la poesia didattica; ad essa seguono l’idillio e l’elegia. Non viene afferrato
il carattere tragico della vita: la commedia, il dramma e soprattutto il
romanzo diventano la suprema espressione poetica dell’epoca, e acquistano una
struttura corrispondente: un realismo guidato da idee ottimistiche pervade ogni
opera poetica. Questa connessione unitaria, nella quale si esprime nei diversi
campi della vita l'orientamento dominante dell’Illuminismo tedesco, non determina
però tutti gli uomini che apparten(1719), delle Institutiones iuris
ecclesiastici (1727) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori rappresentanti
della dottrina teologica della prima metà del Settecento. gono a tale età; e
anche là dove essa influisce, trova accanto a sé altre forze. Si fanno valere
le opposizioni delle età precedenti: particolarmente efficaci si mostrano le
forze che si riallacciano a situazioni e a idee antiche, cercando però di dare
loro una nuova forma. Nella sfera religiosa si è presentato così il Pietismo.
Esso è stato la più robusta tra le forze in cui l’antico ha assunto forme
nuove. Esso è affine all’Illuminismo nella crescente indifferenza per tutte le
forme ecclesiastiche esteriori e nell’esigenza di tolleranza, ma soprattutto
nel fatto che, al di là della tradizione e dell’autorità distrutte dalla
critica, cerca un semplice e chiaro fondamento di legittimità per la fede. Tale
fondamento risiede nel contatto con Dio e nell’esperienza religiosa che ne
deriva. Soltanto il convertito intende la Bibbia; a lui si rivela la parola
divina che gli è partecipata in essa; egli è in grado di fare delle scoperte,
per così dire, nel campo del Cristianesimo. La tolleranza del Pietismo sta nel
riconoscimento di ogni fede cristiana fondata sulla conversione: il Pietista
risvegliato da essa deve completare la propria esperienza religiosa mediante la
storia di conversioni altrui. E così vediamo che il Pietismo appartiene al
grande movimento individualistico, poiché esso procede oltre il Luteranesimo
escludendo la chiesa dal processo interiore della persona. Ma nel medesimo
tempo si contrappone all’Illuminismo per la sua adesione alla fiducia di Lutero
nell’esperienza religiosa derivante dal contatto con Dio. Il Pietismo si
ritrova poi in un rapporto interno con la compiutezza raggiunta dalla nostra
musica religiosa in J. S. Bach. Certo, Bach non era pietista, ma i canti
dell'anima cristiana, che accompagnano la rappresentazione della vita di
Cristo, mostrano già di per sé abbastanza chiaramente la sua connessione con la
soggettiva interiorità religiosa, che era venuta in luce nel movimento
pietistico. La medesima tendenza verso lo stato di cose esistente si manifesta
di fronte alle tendenze politiche del governo illuminato. Essa è diretta al
mantenimento del regno e dei privilegi di ceto nei singoli stati, e alla
conservazione degli antichi diritti. Ma anche queste tendenze raggiungono la
loro più alta coscienza e la loro fondazione mediante lo studio della
letteratura illuministica di teoria dello stato, e Ie proposte di Schlos196
WILHELM DILTHEY ser e di Méser cercano anche di soddisfare i nuovi bisogni e lo
spirito dell'Illuminismo. Le idee politiche dell'Illuminismo dovevano
circondare Méser quando egli, in base alla situazione presente, sviluppava la
sua comprensione di essa e le sue tendenze pratiche. Dall’esempio
dell’Illuminismo tedesco si comprende quindi la relazione interna delle
tendenze che hanno determinato le antitesi c la mutabilità in tale periodo,
allorquando si constatano i momenti che, entro il suo orientamento
fondamentale, rendono possibile rivolgersi verso il futuro. Proprio la tendenza
illuministica verso ciò che è regolare ha prodotto in diversi campi una
penetrazione degli avvenimenti storici, in cui sembrava essersi realizzata la
regola. Così nel Cristianesimo primitivo si trovava il tipo di una religiosità
più libera e questa rafforzava la tendenza al suo studio in Thomasius, in
B6hmer e in Semler. Le regole, che la critica contemporanea stabiliva
nell’arte, erano rafforzate dall’analisi approfondita del tipo dell’arte
antica, e da questo punto di vista Winckelmann e Lessing illustravano l’arte
antica e le leggi della creazione artistica, spiegando l’un termine con
l’altro. Un altro momento dell’orientamento verso i compiti del futuro stava
nel fatto che la comprensione della persona singola conduceva a porre l’accento
sull'individualità della creazione e del genio. Se ci chiediamo poi come, in
mezzo al corso degli eventi che trascina la Germania e procede dando luogo a
ininterrotti, continui mutamenti, possa venir delimitata tale unità, la
risposta è anzitutto questa: che ogni connessione dinamica reca in sé la sua
legge, e le sue epoche sono del tutto diverse da quelle delle altre in virtù di
tale legge. Così la musica ha un movimento peculiare, secondo cui lo stile
religioso che scaturiva dalla massima forza dell’ErleBnis cristiano raggiungeva
il suo culmine nella stessa età con Bach e con Hiindel, quando l’Illuminismo
era già la tendenza dominante in Germania. E nella stessa epoca in cui sorgono
le più importanti opere di Lessing 24. Johann Georg Schlosser (1739-1799),
giurista c uomo politico tedesco, autore del Kasechismus der Sittenlehre fiirs
Landvolk (1771), dell’Anti-Pope, oder Versuch tiber den natiirlichen Menschen
(1776), dei Politische Fragmente (1777), del saggio Uber Scelenwanderung
(1781), fu esponente dell'Illuminismo tedesco; polemizzò contro la filosofia
kantiana, WILHELM DILTHEY 197 nasce il nuovo movimento creatore dello Sturm nd
Drang, che segna l’inizio di un'epoca successiva nella letteratura. E se ci
chiediamo quali siano i legami che creano un’unità tra le diverse connessioni
dinamiche, la risposta è questa: essa non è un’unità esprimibile in un pensiero
fondamentale, ma piuttosto una connessione tra le tendenze della vita medesima,
che si costituisce nel suo corso. Nel corso storico si possono delimitare
periodi nei quali, dalla costituzione della vita fino alle idee supreme,
un'unità spirituale si forma, raggiunge il suo culmine e di nuovo si dissolve.
In ognuno di tali periodi vi è una struttura interna che esso ha in comune con
gli altri, e che determina la connessione delle parti del tutto, il corso e le
modificazioni nelle tendenze: noi vedremo in seguito a che cosa può servire il
metodo di comparazione per l'apprendimento della struttura. Nell’efficacia
costante dei rapporti strutturali generali ci si rivela anzitutto il
significato e il senso della storia. Nel modo in cui questi dominano in ogni
punto e in ogni età, determinando la vita dell’uomo, risiede in primo luogo il
senso del mondo spirituale. Il compito è ora quello di studiare
sistematicamente le regolarità che costituiscono la struttura della connessione
dinamica nei suoi portatori, a partire dall’individuo. In qual modo queste
leggi strutturali consentano di formulare asserzioni sul futuro, può venir
determinato solo se è posto tale fondamento. L'aspetto immutabile e regolare
dei processi storici è il primo oggetto di studio, e da ciò dipende la risposta
a tutte le questioni sul progresso nella storia, e sulla direzione in cui si
muove l'umanità. La struttura di una certa età si mostra quindi come una
connessione delle connessioni e dei movimenti particolari entro il grande
complesso dinamico di tale età. In base a momenti quanto mai molteplici e
mutevoli viene a costituirsi una totalità più complicata; e questa determina il
significato che riveste tutto ciò che agisce nell’epoca. Quando lo spirito di
tale età è nato da dolori e dissonanze, allora ogni individuo ha in esso e
mediante esso il suo significato. Da questa connessione sono in primo luogo
determinati i grandi uomini storici: la loro creazione non si muove a distanza
storica, ma assume i suoi fini dai valori e dalla connessione di significato
dell'età medesima. L'energia produttiva di una nazione in un dato 198 WILHELM
DILTHEY tempo riceve la sua forza maggiore proprio in quanto gli uomini di tale
età sono limitati entro il suo orizzonte; il loro lavoro serve alla
realizzazione di ciò che costituisce la tendenza fondamentale dell’ epoca. Così
essi diventano i loro rappresentanti. Tutto in un'età acquista il suo
significato dalla relazione con l’energia che dà ad essa il suo orientamento
fondamentale. Essa si esprime nella pietra, sulla tela, nelle azioni o nelle
parole; e si oggettiva nella costituzione e nella legislazione delle nazioni.
Pieno di essa, lo storico penetra le epoche passate, e il filosofo cerca in
base ad essa di interpretare il senso del mondo. Tutte le manifestazioni
dell'energia che determina l’epoca sono imparentate tra di loro. Qui si
presenta il compito dell’analisi, cioè il compito di riconoscere nelle diverse
manifestazioni della vita l’unità della determinazione di valore e della
tendenza verso uno scopo. E in quanto le manifestazioni di vita di questa
tendenza spingono verso valori e scopi assoluti, si chiude il cerchio in cui
sono racchiusi gli uomini di questa età; poiché in esso sono contenute pure le
tendenze che vi si contrappongono. Si è visto come il tempo imprime anche su di
esse la propria impronta e come la tendenza dominante ostacola il loro libero
sviluppo. Così l’intera connessione dinamica dell’epoca è determinata in forma
immanente dal nesso della vita, del mondo affettivo, della formazione di valori
e delle relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisca in questa
connessione: essa costituisce l'orizzonte dell’età, e da essa è determinato
infine il significato di ogni parte in questo sistema dell’epoca. Tale è
l’autocentralità delle età e delle epoche, in cui si risolve il problema del significato
e del senso che sì possono trovare nella storia. Ogni età contiene il
riferimento retrospettivo a quella precedente e continua le forze sviluppatesi
in quella, ma nel medesimo tempo è già presente in essa la tendenza creativa
che prepara l’età successiva. Come essa è sorta dall’insufficienza dell'età che
la precede, così reca con sé i limiti, le tensioni e la sofferenza che
preparano l’età posteriore. E poiché ogni forma della vita storica è finita,
deve esservi contenuta una mescolanza di forza gioiosa e di pressione, di
estensione dell’esistenza e di ristrettezza della vita, di soddisfacimento e di
bisogno. Il culmine degli effetti della sua tendenza fondamentale è breve; e da
un'età all’altra Ia fame passa attraverso tutti i modi di soddisfacimento,
senza mai poter essere saziata. Qualsiasi cosa ci risulti in merito al rapporto
delle età e dei periodi storici tra loro, in relazione alla crescente
complessità della struttura della vita storica, è proprio della natura finita
di tutte le forme della storia che esse siano accompagnate dall’atrofia e dalla
schiavitù, cioè da una brama insoddisfatta: e questo soprattutto in quanto i
rapporti di potere non possono venir eliminati dalla vita comune degli esseri
psico-fisici. Come lo stato sovrano dell’età illuministica produceva pure le
guerre di gabinetto e lo sfruttamento dei sudditi per il godimento della corte,
al pari della tendenza allo sviluppo razionale delle forze, così ogni altro
ordinamento dei rapporti di potere racchiude pure una siffatta duplicità di
effetti. E il senso della storia può venir cercato soltanto nel rapporto di
significato di tutte le forze legate nella connessione delle varie età. 10.
L'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche e dei rapporti di
comunanza. In quanto la comprensione della storia avviene mediante
l'applicazione ad essa delle scienze sistematiche dello spirito,
l’illustrazione precedente della connessione logica della storia ha già
rivelato i caratteri generali della sistematica delle scienze dello spirito. Infatti
l'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche, poste in luce entro la
storia, ha come proprio fine la scoperta dell’essenza di tali connessioni
dinamiche. Per ora mi limito a stabilire solo i seguenti tre punti di vista per
l'elaborazione sistematica. Lo studio della società poggia sull’analisi delle
connessioni dinamiche contenute nella storia. Quest’analisi procede dal
concreto all’astratto, dallo studio scientifico dell’articolazione naturale
dell'umanità e dei popoli verso la distinzione delle singole scienze della
cultura e la separazione dei campi dell’organizzazione esterna della società *.
Ogni sistema di cultura forma una connessione dinamica a. Ciò è trattato più
ampiamente nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, p. 44 sgg. [ora in
Gesammelte Schriften, vol. I, p. 35 sgg.]che poggia su rapporti di comunanza;
poiché la connessione compie un'operazione, essa ha un carattere teleologico.
Ma qui si presenta una difficoltà riguardante l’elaborazione concettuale che
avviene in queste scienze. Gli individui, che cooperano in tale operazione,
appartengono alla connessione soltanto nei processi in cui collaborano a
realizzare l’operazione stessa, ma tuttavia agiscono con tutto il loro essere,
e quindi un campo siffatto non si può mai costruire in base allo scopo
dell’operazione, poiché accanto all’energia orientata verso tale operazione
stanno sempre anche gli altri aspetti della matura umana; e si fa valere la sua
mutabilità storica. Qui risiede il problema logico fondamentale della scienza
dei sistemi di cultura; e vedremo come per la sua soluzione si sono formati e
combattuti metodi differenti. A questa difficoltà si aggiunge un limite che
riguarda l’elaborazione concettuale delle scienze dello spirito: esso deriva
dal fatto che le connessioni dinamiche realizzano operazioni e hanno un
carattere teleologico. L'elaborazione concettuale non è pertanto qui una
semplice generalizzazione che ricavi l’elemento comune dalla serie dei casi
particolari. Il concetto esprime un tipo, e sorge nel procedimento comparativo.
Ad esempio, io cerco di precisare il concetto di scienza, comprendendo sotto di
essa ogni connessione diretta a ottenere una conoscenza. Tuttavia entro i libri
dedicati a lavori scientifici vi è molto di infruttuoso e di illogico, cioè di
erroneo: ciò contraddice all’intenzione orientata verso la loro funzione.
L'elaborazione concettuale pone in luce quei tratti in cui è realizzata la
funzione di tale connessione: questo è il compito della dottrina della scienza.
Oppure, se voglio precisare il concetto di poesia, anche qui ha luogo una
costruzione concettuale a cui non tutti i versi possono venir subordinati. La
molteplicità dei fenomeni in un campo siffatto si raggruppa intorno a un punto
centrale, costituito dal caso ideale in cui l'operazione è realizzata in modo
compiuto. La discussione intorno alla connessione generale delle scienze dello
spirito è pertanto conclusa. L'analisi seguente della costruzione delle scienze
dello spirito illustrerà i metodi particolari in cui si realizza la connessione
logica generale. IL MONDO STORICO * 1. L'uomo storico!. Il mondo storico esiste
sempre, e l’individuo non lo considera soltanto dall’esterno, ma è intrecciato
in esso; né è possibile scindere queste relazioni. Ciò che rimarrebbe sarebbe soltanto
la condizione inafferrabile dalla quale si dovrebbero derivare, astratte dal
corso storico, le condizioni necessarie di questo corso in tutte le età insieme
con il dato: problema insolubile al pari di quello della possibilità della
conoscenza prima o indipendentemente dal conoscere stesso. Noi siamo esseri
storici prima di considerare la storia, e soltanto perché siamo quelli
diveniamo questi. Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo studio della
storia trascorsa fino a ciò che sussiste nel presente, in quanto questo è il
limite di ciò che rientra nella nostra esperienza relativa all'oggetto
costituito dall’umanità. Quello che può venir immediatamente vissuto, inteso e
tratto fuori dal passato nella coscienza, viene qui compreso: in tutto questo noi
cerchiamo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una ricerca dell’uo* Plan
der Fortsetzung zum Aufbau der geschichilichen Welt in den
Geisteswissenschaften: Zweîtes Projekt einer Fortsetzung, in Gesammelte
Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 277-282, 287-291 (Secondo
progetto: il problema della storia, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della
ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, PP. 372-384). Non sono stati tradotti alcuni paragrafi che,
per il loro carattere di puri e semplici appunti, nonché per le frequenti
interruzioni del discorso, sarebbero risultati di troppo difficile lettura. I
passi omessi vengono indicati di volta in volta nelle note. 1. Non è stata
tradotta la parte iniziale del paragrafo (Gesammelte Schriften. mo in ciò che
viene immediatamente vissuto e inteso, nelle espressioni e negli effetti che ne
derivano. Perciò ho indicato come compito fondamentale di ogni riflessione
sulle scienze dello spirito quello di una critica della ragione storica.
Occorre che la ragione storica risolva il compito rimasto fuori dall’ambito
visuale della critica della ragione di Kant, il cui problema è stato
determinato in riferimento ad Aristotele, secondo cui la conoscenza avviene nel
giudizio. Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e raffinata della critica della
ragione kantiana per adeguarci alla natura del tutto differente degli oggetti
storici. Qui si presentano le questioni seguenti: io ho esperienza immediata
delle mie situazioni e sono intrecciato nelle azioni reciproche della società come
punto di incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali sono sorti dalla stessa
natura umana che io vivo in me e intendo negli altri. La lingua in cui penso è
sorta nel tempo, i miei concetti si sono formati in esso: io sono, fino alla
profondità non più penetrabile del mio io, un essere storico. In tal modo si
presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo
della storia: la prima condizione di possibilità della scienza storica risiede
nel fatto che io stesso sono un essere storico, € che colui che indaga la
storia è il medesimo che fa la storia. Così sono possibili giudizi storici
sintetici e universalmente validi. Ma i princìpi della scienza storica non
possono essere formulati in princìpi astratti che esprimano equivalenze,
poiché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono poggiare su
rapporti fondati nell’Erleden. Nell'Erleben vi è la totalità del nostro essere,
che riproduciamo poi nell’intendere: qui è dato il principio della reciproca
affinità tra gli individui. 2. Il concetto storico.L’uomo si conosce soltanto
nella storia, mai mediante l’introspezione. In fondo noi tutti lo cerchiamo
nella storia, anzi vi cerchiamo anche l’elemento umano quale si manifesta nella
religione, ecc.: noi vogliamo sapere che cosa esso sia. Se vi fosse una scienza
dell’uomo, questa sarebbe un’antropologia capace di intendere la totalità degli
Erlebnisse secondo la loro connessione strutturale. L’uomo singolo realizza
sempre una WILHELM DILTHEY 203 sola possibilità del suo sviluppo, che poteva
sempre assumere un’altra direzione in base all'orientamento del suo volere.
L’uomo in generale esiste per noi solo sotto la condizione di certe possibilità
realizzate. Anche nei sistemi di cultura noi cerchiamo una struttura
antropologicamente determinata, nella quale si attua un x; e noi lo diciamo
essenza, ma questa è soltanto una parola per designare un procedimento
spirituale che costituisce una connessione concettuale in questo campo. Anche
qui le possibilità di tale campo non vengono esaurite. L'orizzonte si allarga.
Infatti, anche quando lo storico ha dinanzi a sé un materiale limitato, mille
fili lo conducono sempre più avanti nell’illimitatezza di tutti i ricordi del
genere umano. La storiografia comincia in quanto, muovendo dal presente e dal
proprio stato, si rappresenta ciò che ancora quasi vive nella memoria della
generazione presente; ciò costituisce un ricordo ancora in senso proprio.
Oppure vengono stesi degli annali in cui si registra, procedendo negli anni,
ciò che è accaduto. Col procedere della storia lo sguardo si allarga al di là
del proprio stato, e una sezione sempre più vasta del passato entra nel regno
dei morti della memoria. Di tutto ciò è rimasta l’espressione dopo che la vita
stessa è trascorsa, sia sotto forma di espressione diretta, con la quale certe
anime hanno manifestato ciò che sono state, sia sotto forma di narrazioni
relative ad azioni e a situazioni di individui, di comunità e di stati. E lo
storico sta in mezzo a tutti questi resti di cose passate, e di manifestazioni
di anime racchiuse in fatti, parole, suoni, immagini di anime che da tempo non
sono più. Come deve egli evocarle? Tutto il suo lavoro diretto a tal fine
poggia sull’interpretazione dei resti conservati. Si pensi a un uomo che non
abbia alcun ricordo del suo passato, ma che pensi o agisca soltanto in base a
ciò che questo passato ha prodotto in lui, senza esser cosciente di alcuna sua
parte: tale sarebbe anche la situazione delle nazioni, delle comunità,
dell'umanità medesima se essa non riuscisse a completare i resti, a
interpretare le espressioni, a ricondurre la narrazione dei fatti dal loro
isolamento alla connessione in cui sono sorti. Tutto questo è interpretazione,
ossia un’arte ermeneutica. Il problema è ora di vedere quale forma questa assuma
quando essa è completamente staccata dall’esistenza individua204 WILHELM
DILTHEY le, e si debbono formulare asserzioni su soggetti che costituiscono in
qualche senso delle connessioni di persone, cioè su sistemi di cultura, nazioni
o stati. Anzitutto occorre qui un metodo per ritrovare, in questa illimitata
azione reciproca tra esistenze individuali, delle rigorose delimitazioni,
quando queste mancano invece nell’unità vivente della persona. È come se si
dovessero tirare linee e disegnare figure che rimangono ferme nella corrente
continua di un fiume. Tra questa realtà e l’intelletto non sembra possibile
alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che è legato nel
fluire della vita e rappresenta qualcosa di valido universalmente e per sempre,
indipendentemente dalla mente che lo ha formulato, mentre il fluire della vita
è ovunque soltanto singolare, e ogni onda va e viene entro di esso. Questa
difficoltà, dopo che Hegel contrappose per primo la conoscenza intellettuale,
caratteristica dell’Illuminismo, all'essenza del mondo storico € umano,
costituisce il problema proprio del metodo storico. Ma questo problema può
venir risolto: non abbiamo bisogno di rifugiarci nell’intuizione e di
rinunciare ai concetti, ma dobbiamo invece rielaborare i concetti storici e
psicologici. È stato merito geniale di Fichte aver formulato tali concetti
adatti alla vita psichica e in generale allo spirito, mettendo l'energia al
posto della sostanza, e ponendo le attività spirituali in relazione con le
precedenti e in antitesi con quelle contemporanee, in modo che venga a
delinearsi un progredire che diventa possibile in virtù del tempo, dell’energia
che in questo opera e dell’unità che si differenzia. Tuttavia egli si è
limitato a formulare questo schema di dinamica psichica, ma la sua
realizzazione si richiama ai concetti kantiani anziché alla realtà. Herbart e
Hegel non sono pervenuti neppur essi all'aria aperta del mondo storico reale.
Tuttavia ciò è stato l’inizio di uno sconvolgimento di tutto il pensiero
relativo al mondo storico, in una connessione interna che scaturisce nella
maniera più chiara nel Romanticismo, prima con Niebuhr e poi con Hegel e con
Ranke, conducendo così alla moderna storiografia. Noi possiamo liberarci dalla
confusione concettuale in cui quest’antitesi tra realtà storica e conoscenza
intellettuale si esprimeva allora mediante concetti ispirati al principio di
identità, in quanto guardiamo alla natura stessa dei concetti storici. Il loro
carattere logico è l'indipendenza dell’asserzione dal soggetto in cui si
presentano e dal momento in cui essa ha luogo: la loro validità è indipendente
dal luogo e dal tempo in senso psicologico. Il loro contenuto è invece
l’accadere, il corso di qualsiasi specie; l’asserzione è indipendente dal
tempo, mentre ciò che viene espresso è il corso temporale. Anzi, non tutti i
concetti storici risultano correttamente formulati da questo punto di vista;
ma, soltanto in quanto lo sono, possono occupare un posto nell’apprendimento
del mondo storico. Nel medesimo tempo i concetti esistenti debbono spesso venir
rielaborati in modo che possa esprimersi in essi ciò che è mutevole e dinamico.
In fondo il problema appare simile a quello della matematica superiore, che
cerca di dominare i mutamenti della natura. Ogni parte della storia, ad esempio
un'età, non può venir colta mediante concetti che esprimano qualcosa di stabile
in essa, cioè in un sistema di relazioni tra qualità definite, quali sarebbero
state per l’età illuministica l'autonomia nello stato o l’Illuminismo nella vita
spirituale. In tal modo non si coglie la natura specifica del tempo, ma si
tratta piuttosto di un sistema di relazioni le cui parti sono dinamiche e
inoltre mostrano continui mutamenti qualitativi nell'azione reciproca. Infatti
le relazioni medesime, poggiando sull’azione reciproca tra forze, sono
mutevoli, cioè ognuna di esse racchiude in sé una regola di mutamento.
Applicando questo al periodo illuministico risulta che l’'ordine sociale che
era esistito fino al termine del secolo xvi e all’inizio del xvi diventa
impossibile poiché i contrasti tra gli interessi particolari della nobiltà, dei
ceti e del governo, e quelli tra gli interessi delle province tra di loro e in
rapporto all'insieme, non consentono in Germania il sorgere di una volontà
statale unitaria, una cura comune per il tutto e un continuo perseguimento
degli scopi statali. Diverse sono invece le epoche nelle quali, in Inghilterra,
in Francia e in Italia, si fa valere la medesima insufficienza dell’esistenza
politica. Essa diventava insopportabile verso l’esterno, poiché l'aspirazione
alla potenza in questi stati concorrenti si manifestava assai diversamente che
in qualsiasi epoca precedente. Essi erano sorti l’uno accanto all’altro,
condizionati nella loro forma soprattutto dall’eredità e dalla guerra, senza
ancora esser legati da nessuna letteratura unitaria e da nessuna lingua comune
sviluppatasi entro di questa. Tale letteratura, e tale lingua, fu creata per la
prima volta per gli Italiani da Dante. In tal modo sorse la tendenza all’unità
nazionale, che però non trovò alcuna possibilità di attuazione per la politica
contrastante dei tiranni e delle repubbliche, secondo la situazione delle
forze. Tale sviluppo ha avuto luogo altrimenti sia in Inghilterra sia in
Francia; mentre per la Germania il momento decisivo è stata la terribile
pressione che grandi stati quali la monarchia universale spagnola e la potenza
francese hanno esercitato su un paese che è stato in tal modo costretto a
cercare la sua unità nazionale. Sorge però ora la questione del modo in cui può
formarsi nello storico una connessione che non è prodotta da una mente né è
immediatamente vissuta, e neppure può venir ricondotta all’Erlebnis di una
persona, in base alle sue espressioni e alle asserzioni relative ad esse. Ciò
ha come presupposto la possibilità di formare soggetti logici, e non
psicologici. Devono quindi esserci strumenti per delimitarli e un fondamento di
legittimità per apprenderli come unità o connessione. Noi cerchiamo l’anima:
questo è l’ultimo punto a cui siamo pervenuti nel lungo sviluppo della
storiografia. Ma qui si pone il problema: certamente ogni azione reciproca
avviene tra unità psichiche, ma per quale via noi troviamo un’anima dove non
c'è anima individuale? La base più profonda è offerta dalla vita e da ciò che
da essa procede, dal raggiungimento della vitalità e, per così dire, dalla
melodia della vita psichica nell’eliminazione di ogni regola rigida”. 3. Il
progresso. Quando si parla della storia, il presupposto dell’intendere storico
sta nel fatto che vi sia un significato dei momenti storici e un senso del
corso storico. Secondo questo presupposto, anche se lo scopo della sua
esistenza è posto nell’individuo stesso, nella storia dovrebbe tuttavia esserci
un progredire della 2. Non sono stati tradotti i paragrafi sulle nazioni e
sullc ctà (Gesammelte Schriften, vol, VII, p. 282-87). WILHELM DILTHEY 207
felicità individuale e un estendersi della felicità a molti: questa è insomma
la concezione dei moderni storici inglesi. Ma tale concezione procede al di là
di se stessa: anche se qui il progresso della vita individuale di generazione
in generazione è concepito come un’azione quasi meccanica di accumulazione di
valori, viene in tal modo presupposto un modo di azione nella cui natura è
insito un progresso. Proprio in questa maniera agisce nella storia un rapporto
in virtù del quale il suo corso ha un senso; infatti questo termine designa
soltanto il presupposto in base al quale può venir inteso il corso storico, ma
non un’affermazione su qualche forza distinguibile dal modo di agire medesimo,
la quale possa conferire alle varie parti del corso il loro significato core
un'essenza immanente a questo corso. In ciò risiede soltanto la condizione
sotto cui può venir intesa la storia, e il prodotto e il risultato di questa è
la storia universale. Ma anche qui non c’è alcun presupposto ulteriore su
qualsiasi agente unitario nella storia, sia esso un agente immanente o una
condizione reale, il quale possa venir considerato nella filosofia della storia
come provvidenza o come scopo immanente o come forza di svolgimento storico. 4.
La connessione storica universale: dalla fatticità all’ideale. Le epoche sono
differenti tra loro per struttura. Ad esempio, il Medioevo contiene una
connessione di idee affini che dominano nei suoi vari campi, quali le idee di
fedeltà nel feudalesimo, la successione di Cristo come principio di obbedienza,
il cui contenuto è costituito dalla trascendenza dello spirito rispetto alla
natura in virtù dell’abnegazione, la successione teleologica di gradi nella
scienza. Ma si deve riconoscere che lo sfondo di queste idee è la violenza, che
questo mondo più alto non può superare. E ovunque è così: la fatticità della
razza, dello spazio e dei rapporti di violenza costituisce la base che non può
mai venir elevata spiritualmente. È stato un sogno di Hegel credere che queste
età costituiscano un grado dello sviluppo della ragione: rappresentare un’età
implica sempre un chiaro sguardo su tale fatticità, Ma c’è tuttavia una
connessione interna, la quale conduce dai rapporti condizionanti, dalla
fatticità, dalla lotta delle forze allo sviluppo degli ideali. Ogni situazione
data in questa serie senza fine condiziona un mutamento, poiché i bisogni, che
trasformano le energie esistenti în attività, non possono mai venir
soddisfatti, e il desiderio di ogni specie di soddisfacimento non può mai venir
saziato. Ogni forma della vita storica è finita, e contiene perciò un insieme
di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di ristrettezza
della vita, di soddisfazione e di penuria, provocando così le tensioni di forza
e una nuova distribuzione da cui derivano di continuo altre azioni. Inoltre,
soltanto in pochi punti della vita storica vi è un temporaneo stato di quiete,
le cui cause sono diverse equilibrio,
forze opposte, ecc.: ma la storia è movimento. Anche nello stesso procedere c’è
una felicità, poiché in esso si risolve la tensione e si realizza l’ideale. Tra
la morta necessità di fatto e Ja più alta vita spirituale sta il continuo
sviluppo dell’organizzazione, dell’istituzione, dell'impiego regolato della
forza: l'intelletto crea, per così dire, meccanismi che servono al
soddisfacimento dei bisogni, perfezionandoli di continuo. Lo scopo, che
l’intelletto pone, dà luogo a tali meccanismi, che possono essere tanto
ferrovie quanto armate, tanto fabbriche quanto miglioramenti costituzionali:
essi costituiscono il campo proprio dell'intelletto, che cerca mezzi per certi
scopi e calcola le azioni come cause. Qui appare una combinazione, la quale
rivela propriamente l’essenza della storia. La sua base è la fatticità
irrazionale, da cui deriva da un lato il parteciparsi della tensione fino ai
meccanismi e dall’altro la differenziazione in nazioni, in costumi, in forme di
pensiero, fino all’individualità su cui riposa la vera e propria storia dello
spirito. 5. Realtà, valori, cultura. Gli avvenimenti diventano significativi in
quanto si riferisco no a una connessione per la quale essi lo sono. Se mi formo
un concetto di connessione di valore fondata sovra-individualmente e
trascendentalmente poiché trascendentale
è ogni determinazione avente la sua base nel sovra-individuale allora sorge la WILHELM DILTHEY 209 questione
se tale procedimento sia possibile, anche se si intendessero soltanto punti di
riferimento formali, dotati di carattere incondizionato, per ciò che è
empirico. Ma se si lascia da parte tale fondazione mediante la filosofia
trascendentale, non c’è più alcun metodo per stabilire norme, valori o scopi
incondizionati: ve ne sono soltanto di quelli che avanzano la pretesa a una
validità incondizionata, ma che, per la loro origine, sono inficiati di
relatività. Noi attribuiamo invece un significato effettivo a qualsiasi
connessione di tipo reale o ideale, in rapporto a cui un uomo o un avvenimento acquisti
questo carattere. Quando considero nella connessione dinamica un luogo in
quanto tale, come fa Meyer?, e lo valuto in conformità al presente, dovrei però
avere prima un criterio che serva a determinare ciò che è significativo nel
presente, perché altrimenti sarebbe significativo tutto ciò che ha agito
sull’infinita serie delle situazioni presenti. E una cosa è chiara: che io
trovo significativo nel presente ciò che è fecondo per il futuro, per la mia
azione in esso, per il progredire della società verso tale futuro. E qui vedo
in maniera assai chiara, nella mia posizione pratica, che, se voglio regolare
il futuro, io parto da giudizi universalmente validi su ciò che deve essere
realizzato. Il presente non contiene situazioni, ma processi e connessioni
dinamiche, che racchiudono anche il procedere verso il futuro di qualcosa che
può venir prodotto. La frase di Bismarck, secondo cui egli sarebbe stato
collocato dalla sua religione e dal suo stato in una posizione nella quale il
servizio di tale stato era più importante di ogni altro compito culturale,
aveva per lui una validità universale in virtù del suo fondamento religioso. Da
ciò deriva che noi dobbiamo ammettere tale rapporto anche per il passato. In
un’età si sviluppano norme, valori, scopi universali, in rapporto ai quali deve
esser anzitutto compreso il significato delle azioni. Se questi debbano venir
determinati solo in una limitazione o incondizionatamente, è una questione
ulteriore. Sembra 3. Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco autore di una
monumentale Geschichte des Altertums (1884-1902), nonché di altri importanti
volumi sulla cronologia dell'antico Egitto, su Cesare e Pompeo, sulle origini
del Cristianesimo. Dilchey si riferisce qui alla tesi sostenuta in Zur TAcorie
und Methodik der Geschichte, Halle. che anche in una nazione abbia luogo un
antagonismo a proposito dei valori. In questa maniera si perviene al principio
che lo svilu po di tali idee si muove entro contrapposizioni (Kant, Hegel) che
sono contenute entro il corso dello svolgimento delle istituzioni, di modo che
il loro rapporto reciproco rende sempre possibile un’altra posizione più ampia
e più libera. Anzitutto non vi sono valori che valgano per tutte le nazioni.
Nell'Impero romano si è sviluppata una concezione aristocratica dell’umanità
come sostegno dell’humanitas; nel Cristianesimo l’umanità è divenuta soggetto
di valore; tale concezione si è poi trasformata nell’Illuminismo. La storia è
essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di valore, degli ideali
e degli scopi, in base a cui viene commisurato il significato di uomini e di
avvenimenti. In tale processo questo rapporto mostra una duplice direzione,
verso le epoche e verso il progresso dell'umanità. 6. Il problema del valore
nella storia. Si dice che in tal modo sorga soltanto la coscienza della
relatività storica. Senza dubbio la relatività è propria di ogni fenomeno
storico per fatto che esso è finito... Si pone però il problema seguente: ciò
che viene espresso nelle categorie storiche sussiste soltanto come momento del
movimento storico? in altri termini, nella storia è contenuto qualcosa che ha
valore solamente in quanto sorge, agisce e tramonta in questa connessione? ed è
possibile per caso una determinazione di valori separata da questo corso?
L’ultimo problema di una critica della ragione storica su questa direzione è il
seguente. Ovunque nella storia c’è formulazione e selezione nella ricerca della
connessione interna, ovunque c'è un progresso secondo i rapporti di finitudine,
dolore, forza, antitesi, accumulazione, che lega una parte della storia con le
altre, e la forza, il valore, il significato e lo scopo sono ovunque gli
elementi a cui è legata la connessione storica: ma la connessione, il valore,
il significato, lo scopo, quali essi vengono colti nell’esperienza,
costituiscono l’ultima parola dello storico? La strada che imbocco è
determinata dai seguenti princìpi: il concetto di valore deriva dalla vita, e
il criterio per ogni giudizio è offerto da concetti relativi di valore, di
significato e di scopo, propri di certe nazioni e di certe epoche. Occorre
perciò illustrare come questi si siano ampliati in qualcosa di assoluto: ciò
vuol dire, insomma, il pieno riconoscimento dell’immanenza dei valori e delle
norme, anche presentantisi come incondizionati, nella coscienza storica. 7.
Conclusione. La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di
ogni situazione umana o sociale, la coscienza della relatività di ogni specie
di fede è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo
perviene alla sovranità di trovare in ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi
a questo completamente, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o
religioso. La vita si libera dalla conoscenza concettuale; lo spirito diventa
sovrano rispetto a tutte le ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza,
ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono delle
prospettive che rivelano una realtà. E così pure accogliamo in noi tutto ciò
che c’è di malvagio, di terribile, di brutto, riconoscendo che occupa un posto
nel mondo e che racchiude in sé una realtà, la quale dev'essere giustificata
nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. E di
fronte alla relatività si fa valere, come il fatto storico essenziale, la
continuità della forza creatrice. Così dall’Erleden, dall’intendere, dalla
poesia e dalla storia deriva un'intuizione della vita, la quale esiste sempre
in e con questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza
concettuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene
riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione unilaterale, non
arbitraria cioè ma parziale, della vita, e la dottrina di un valore oggettivo
della vita come una metafisica che va oltre ogni possibile esperienza. Ma noi
abbiamo esperienza di una connessione della vita e della storia, in cui ogni
parte ha un significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia
hanno un senso, e come una particella o una coniugazione, nella vita e nella
storia vi sono momenti sintattici che hanno un significato. Ogni uomo procede
alla sua ricerca. Nel passato si è cercato di penetrare la vita in base al
mondo; ma c'è solo la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo,
e la vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione
storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti
alla possibilità che senso e significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua
storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico, poiché l’uomo è un
essere Storico. Tra i motivi che sempre dànno nuovo alimento allo scetticismo,
l’anarchia dei sistemi filosofici è uno dei più potenti. Tra la coscienza
storica della loro illimitata molteplicità e la pretesa di ognuno di essi a una
validità universale sussiste una contraddizione che sostiene lo spirito
scettico in misura maggiore di qualsiasi dimostrazione sistematica. Illimitata,
caotica, la molteplicità dei sistemi filosofici sta alle nostre spalle e si
estende intorno a noi: in ogni tempo, fin da quando esistono, essi si sono
esclusi e combattuti a vicenda. E non si intravvede alcuna speranza che si
possa giungere a una decisione tra di essi. La storia della filosofia conferma
questo effetto che l’antitesi dei sistemi filosofici, delle intuizioni
religiose e dei princìpi etici ha sull’incremento della scepsi. La lotta tra le
spiegazioni del mondo del pensiero greco più antico produsse la filosofia del
dubbio all’epoca dell’illuminismo greco. Quando le campagne di Alessandro e
l’unione di differenti popoli in regni più grandi misero davanti agli occhi dei
Greci le diversità dei costumi, delle religioni, delle visioni della vita e del
mondo, si * Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den
metaphysischen Systemen, nella raccolta Weltanschauung, Philosophie und
Religion in Darstellungen (a cura di M. Frischeisen-Kéhler), Berlin, Verlag
Reichl und Co., 1911, pp. 1-51, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und
Berlin, vol. VIII, 1931, pp. 75-118 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
214 WILHELM DILTHEY formarono le scuole scettiche, le quali estesero le loro
operazioni corrosive anche ai problemi della teologia il male e la teodicea, il conflitto tra la
personalità divina e la sua infinitezza e perfezione e alle assunzioni concernenti il fine etico
dell'uomo. Anche il sistema di credenze dei popoli europei moderni e la loro
dogmatica filosofica vennero seriamente scossi, nella loro universale validità,
dal momento in cui alla corte di
Federico II Hohenstaufen Maomettani e Cristiani
pervennero a un raffronto reciproco delle loro convinzioni e nell'orizzonte del
pensiero scolastico penetrò la filosofia di Averroè e di Aristotele. E quando
l’antichità risorse, quando gli scrittori greci e romani furono compresi nei
loro autentici motivi e l'epoca delle scoperte geografiche pervenne a conoscere
in misura crescente la varietà dei climi, dei popoli e dei loro modi di pensare
presenti sul nostro pianeta, scomparve del tutto la fiducia degli uomini nelle
credenze fin allora saldamente delimitate. Oggi i viaggiatori accertano e
annotano con cura i più diversi tipi di fede; noi registriamo e analizziamo i
potenti, grandi fenomeni delle convinzioni religiose e metafisiche che si
trovano presso i ceti sacerdotali dell'Oriente, nelle città-stato greche, nella
cultura araba. Noi guardiamo indietro alla sconfinata distesa di rovine delle
tradizioni religiose, delle affermazioni metafisiche, dei sistemi dimostrati:
lo spirito umano ha tentato e saggiato, nel corso di molti secoli, possibilità di
ogni tipo per fondare scientificamente la connessione delle cose, per
rappresentarla poeticamente o per annunciarla religiosamente; e la ricerca
storica condotta con metodo critico indaga ogni frammento, ogni residuo di
questo lungo lavoro compiuto dalla nostra specie. Ogni sistema esclude l’altro,
lo confuta; e nessuno riesce a dimostrare se stesso. Nelle fonti storiche non
ci è dato trovare nulla di analogo al sereno dialogo che caratterizza la Scuola
d’Atene dipinta da Raffaello, espressione della tendenza eclettica di quel
tempo. In tal modo la contraddizione tra la crescente coscienza storica e la
pretesa delle filosofie a una validità universale è diventata sempre più aspra,
e sempre più generale la disposizione alla curiosità dilettevole nei confronti
di nuovi sistemi filosofici, quale che sia il pubblico che possono raccogliere
intorno a sé e il tempo per cui possono trattenerlo. WILHELM DILTHEY 215 2.
Assai più in profondo delle conclusioni scettiche che muovono dal carattere
antitetico delle opinioni umane giungono però i dubbi cresciuti sul terreno
della progressiva formazione della coscienza storica. Era un tipo d’uomo
compiuto, dotato di un contenuto spirituale determinato, che costituiva il
presupposto dominante del pensiero storico dei Greci e dei Romani. Questo
stesso tipo stava alla base della dottrina cristiana del primo e del secondo
Adamo, del figlio dell'uomo. Il sistema naturale del secolo xvi era sorretto
dal medesimo presupposto. Il sistema naturale scoprì nel Cristianesimo un paradigma
astratto e durevole di religione — la teologia naturale; dalla giurisprudenza
romana astrasse la dottrina del diritto naturale e dalla produzione artistica
greca un modello di gusto. Secondo questo sistema naturale, in ogni diversità
storica erano quindi contenute forme fondamentali, costanti e universali, di
ordinamenti sociali e giuridici, di fede religiosa e di eticità. II metodo di
derivare dalla comparazione delle forme di vita storica un elemento comune, di
estrarre dalla molteplicità dei costumi, delle proposizioni giuridiche e delle
teologie, attraverso il concetto di un tipo supremo, un diritto naturale, una
teologia naturale e una morale razionale — secondo un procedimento che, a
partire da Ippia!, si era sviluppato attraverso lo Stoicismo e il pensiero
romano — dominava ancora il secolo della filosofia costruttiva. La dissoluzione
del sistema naturale ebbe inizio con lo spirito analitico del secolo xvi. Esso
prese l’avvìo dall'Inghilterra, dove la più libera prospettiva su forme di
vita, costumi e modi di pensare barbari e stranieri si incontrerà con le teorie
empiristiche e con l'applicazione del metodo analitico alla teoria della
conoscenza, alla morale, all'estetica. Con Voltaire e Montesquieu questo
spirito passò poi in Francia. Hume e d’Alembert, Condillac e Destutt de Tracy?
videro nel fascio I. Ippia di Elide, sofista vissuto tra la seconda metà del
secolo v e la prima del secolo Iv a. C., si occupò di problemi matematici e
astronomici, nonché di grammatica, di retorica e di dialettica. Dilthey si
riferisce qui alla distinzione tra leggi
scritte , proprie delle singole città, e le
leggi non scritte , comuni a tutti gli uomini e aventi il loro
fondamento nella natura. 2. Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836),
sviluppò la teoria della conoscenza di Condillac nell' ideologia , concepita
come analisi delle facoltà e del pro216 WILHELM DILTHEY di impulsi e di
associazioni — così concepirono l’uomo — illimitate possibilità di far emergere
le forme più svariate tra la diversità di clima, di costumi e di educazione.
L'espressione classica di questo modo di considerazione storica furono la
Natural History of Religion e i Dialogues concerning Natural Religion di Hume.
E dai lavori di questo secolo xvi scaturì già l’idea dello sviluppo, che doveva
poi dominare il secolo xix. Da Buffon? fino a Kant e a Lamarck* viene acquisita
la conoscenza dello sviluppo della terra, del succedersi su di essa di
differenti forme di vita. D'altra parte si formava, in lavori di importanza
decisiva, lo studio dei popoli civili: a partire da Winckelman, Lessing e
Herder, questi lavori applicarono ovunque l’idea di sviluppo. Da ultimo, nello
studio dei popoli primitivi si trovò l’elemento intermedio tra la dottrina
scientifica dello sviluppo e le conoscenze storico-evolutive fondate sulla vita
statale, sulla religione, sul diritto, sui costumi, sul linguaggio, sulla
poesia e sulla letteratura dei popoli. In tal modo il punto di vista
storico-evolutivo poteva venir realizzato nello studio dell’intero sviluppo naturale
e storico dell’uomo, e il tipo uomo si risolveva in questo processo di
sviluppo. La dottrina dello sviluppo così formatasi è necessariamente legata
alla conoscenza della relatività di ogni forma di vita storica. Di fronte allo
sguardo che abbraccia la terra e tutto il passato scompare la validità assoluta
di qualsiasi singola forma di vita, costituzione, religione o filosofia. Così
la formazione della coscienza storica distrugge, ancora più radicalmente della
disputa tra i vari sistemi, la fede nella validità universale di qualsiasi
filosofia che abbia voluto esprimere in modo rigoroso la connessione del mondo
mediante una connessione concettuacesso di formazione e di combinazione delle
idec. La sua opera principale è rappresentata dagli E/4ments d'idéologie
(1801-17). 3. Gcorges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), grande
naturalista autore di una monumentale Histoire naturelle, générale et
particuliòre (1749-1804), intraprese per primo un tentativo di classificazione
sisternatica delle specie viventi affermando la loro continuità nell’ambito
della catena degli esseri. 4. Jcan-Baptiste-Pierre-Antoine
de Monet de Lamarck (1744-1829), naturalista autore di numerose opere tra cui
la Philosophie zoologique (1809) e la Histoire naturelle des animaux sans
vertèbres (1815-22), fu tra i fondatori della teoria evoluzionistica: egli
affermò la capacità di trasformazione delle specie biologiche in conseguenza
del rapporto con l'ambiente, nonché la trasmissibilità dei caratteri acquisiti
nel corso della trasformazione. WILHELM DILTHEY 217 le. La filosofia deve
cercare non già nel mondo ma nell’uomo la connessione interna delle proprie
conoscenze. Intendere la vita vissuta dell’uomo
questa è l’aspirazione dell’uomo moderno. La molteplicità dei sistemi,
che hanno cercato di cogliere la connessione del mondo, è in connessione
manifesta con la vita; essa è una delle sue creazioni più importanti e più
istruttive, per cui la stessa formazione della coscienza storica, che ha esercitato
una funzione così distruttiva rispetto ai grandi sistemi, dovrà fornirci gli
strumenti per eliminare l’aspra contraddizione esistente tra la pretesa di
validità universale di ogni sistema filosofico e l'anarchia storica di questi
sistemi. I. VITA E INTUIZIONE DEL MONDO 1. La vita. La radice ultima
dell’intuizione del mondo è la vita. Diffusa sulla terra in innumerevoli corsi
di vita particolari, rivissuta in ogni individuo, saldamente assicurata nella
risonanza del ricordo dal momento che,
in quanto mero attimo del presente, si sottrae all’osservazione e d’altra parte afferrabile più compiutamente
in tutta la sua profondità, così come essa si è oggettivata nelle sue
manifestazioni, da parte dell’intendere e dell’interpretazione che non in
qualsiasi percezione interiore e in qualsiasi apprendimento del proprio
Er/ebris, la vita ci è presente nel nostro sapere in innumerevoli forme, e
mostra tuttavia ovunque gli stessi tratti comuni. Tra le sue diverse forme ne
metto in rilievo 24. Non spiego, non separo in parti; mi limito a descrivere lo
stato che ognuno può osservare in se stesso. Ogni pensiero, ogni azione interna
o esterna emerge come una punta raccolta e penetra avanti. Mi è però anche
possibile rivivere uno stato di quiete interiore; esso è sogno, gioco,
distrazione, sguardo all’intorno e lieve agilità come sostrato della vita. In esso comprendo
altri uomini e altre cose non soltanto come realtà che stanno con me e tra di
loro in una connessione causale: da me si dipartono in ogni direzione relazioni
vitali, io mi rapporto a uomini e cose, prendo posizione nei loro confronti,
soddisfo le loro esigenze verso di me e mi attendo da essi qualcosa. Le une mi
rendono felice, ampliano la mia esistenza, accrescono la mia forza; le altre
esercitano su di me una pressione e mi limitano, E dove la determinatezza della
singola tendenza che spinge in avanti lascia spazio all’uomo, egli nota e sente
queste relazioni. L'amico è per lui una forza che innalza la sua esistenza,
ogni membro della famiglia ha un posto determinato nella sua vita, e tutto quanto
lo circonda viene da lui inteso come vita e come spirito che si sono
oggettivati. La panca davanti alla porta di casa, l’albero ombroso, la casa e
il giardino hanno in questa oggettivazione la loro essenza e il loro
significato. È in questo modo che la vita di ogni individuo crea da sé il
proprio mondo. 2. L'esperienza della vita. Dalla riflessione sulla vita sorge
l’esperienza della vita. I singoli eventi, che il fascio di impulsi e di
sentimenti richiama in noi all'atto dell’incontro con il mondo circostante e
col destino, vengono in essa raccolti in un sapere oggettivo e universale.
Nello stesso modo in cui la natura umana è sempre la medesima, sono comuni a
tutti anche i tratti fondamentali dell'esperienza della vita: la transitorietà
delle cose umane e la nostra forza di godere l’attimo; la tendenza delle nature
forti o anche limitate a superare questa transitorietà con la costruzione di
una solida impalcatura della loro esistenza; l’insoddisfazione delle nature
meno resistenti o più pensierose di fronte ad essa e la nostalgia per un
elemento realmente duraturo in un mondo invisibile; la penetrante potenza delle
passioni che, come un sogno, creano immagini fantastiche finché in esse si
smarrisce l'illusione. Così l’esperienza della vita si forma in maniera
differente nei singoli individui. Il loro substrato comune in tutti è formato
dalle intuizioni della potenza del caso, della corruttibilità di tutto ciò che
possediamo, amiamo o anche odiamo e temiamo, della costante presenza della
morte, che determina onnipotente per ciascuno di noi il significato e il senso
della vita. Nella catena degli individui sorge l’esperienza universale della
vita. Sulla base della ripetizione regolare delle singole esperienze si
forma nella coesistenza e nella
successione deWILHELM DILTHEY 219 gli uomini
una tradizione di espressioni, che col trascorrere del tempo acquistano
una precisione e sicurezza sempre maggiore. La loro sicurezza poggia sul numero
sempre crescente dei casi da cui perveniamo a una conclusione, sulla loro
subordinazione a generalizzazioni precedenti e su una continua verifica. Anche
dove, in un singolo caso, i princìpi dell’esperienza della vita non vengono
recati a coscienza, essi agiscono su di noi. Tutto quanto ci domina sotto forma
di costume, di consuetudine, di tradizione, è fondato su tali esperienze della
vita. Ma sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali, il
tipo di certezza e il carattere della formulazione è assolutamente diverso
dalla validità universale propria della scienza. Il pensiero scientifico può
controllare il procedimento sul quale poggia la sua sicurezza, può formulare
esattamente e fondare le sue proposizioni: la nascita del nostro sapere dalla
vita non può essere controllato nello stesso modo, e non possiamo progettare
formule fisse per esprimerla. A queste esperienze della vita appartiene anche
il saldo sistema di relazioni entro cui l’identità dell'io è collegata con le
altre persone e con gli oggetti esterni. La realtà di se stesso, delle persone
estranee, delle cose intorno a noi, e le loro relazioni regolari formano
l’impalcatura dell’esperienza della vita e della coscienza empirica che in essa
si forma. L’io, le persone, le cose circostanti possono essere designati come
fattori della coscienza empirica, che ha la sua consistenza nelle relazioni
reciproche di questi fattori. E quali che siano le procedure del pensiero
filosofico mediante cui esso astrae dai singoli fattori o dalle loro relazioni,
questi rimangono i presupposti determinanti della vita stessa, indistruttibili
al pari di essa e non modificabili da alcun pensiero, in quanto sono fondati
nell'esperienza della vita di innumerevoli generazioni. Tra queste esperienze
della vita le più importanti sono quelle che fondano la realtà del mondo
esterno e le mie relazioni con esso, poiché limitano la mia esistenza,
esercitano su di essa una pressione che non posso eliminare e ostacolano le mie
intenzioni in una maniera inattesa e non modificabile. L’insieme delle mie
induzioni, la somma del mio sapere riposa su questi presupposti fondati nella
coscienza empirica. 220 WILHELM DILTHEY 3. Il mistero della vita. Dalle
mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’apprendimento orientato
verso la totalità, il volto della vita: volto contraddittorio, vitalità e al
tempo stesso legge, ragione e arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e
quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme.
L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della vita e le
esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al centro di tutte le cose
incomprensibili stanno la procreazione, la nascita, lo sviluppo e la morte. Il
vivente sa della morte, e non è tuttavia in grado di intenderla. Già dal primo
sguardo a un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò poggia
anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a qualcosa di altro, di
estraneo e di terribile. Nel fatto della morte vi è quindi una forza che
costringe a rappresentazioni fantastiche che hanno il compito di rendere
intelligibile questo fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei
trapassati generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa e
della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella misura in cui
l’uomo sperimenta nella società e nella natura una lotta permanente,
l’annientamento continuo di una creatura da parte di un’altra, la spietatezza
di ciò che opera nella natura. Emergono strane contraddizioni che
nell'esperienza della vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono
mai risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi presente verso
qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e l'autonomia del nostro volere,
tra la limitatezza di ogni cosa nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di
oltrepassare ogni limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e
babilonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di Hegel, il
Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. 4. La legge di formazione delle
intuizioni del mondo. Ogni grande impressione mostra all'uomo la vita in un
aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal momento che
queste esperienze si repetono e si connettono, sorgono le nostre disposizioni
interiori nei confronti della vita. WILHELM DILTHEY 221 Da una relazione vitale
la vita intera riceve una colorazione e un’interpretazione nelle anime
affettive o pensierose così sorgono le
disposizioni universali. Esse cambiano man mano che la vita mostra all'uomo aspetti
sempre nuovi; ma nei diversi individui predominano, secondo la loro essenza,
determinate disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete,
sensibili, e vivono nel godimento immediato; altri perseguono, attraverso il
caso e il destino, grandi scopi che dànno durata alla loro esistenza; vi sono
nature gravi che non sopportano la transitorietà di ciò che amano e posseggono,
e alle quali la vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità
e da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là di questa terra.
Le più universali tra le grandi disposizioni di vita sono l’ottimismo e il
pessimismo. Essi si differenziano però in svariate sfumature. A chi lo
contempla in qualità di spettatore, il mondo
estraneo appare come uno
spettacolo variopinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita
secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di casa: egli sta
nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso. Queste disposizioni di vita, le
innumerevoli sfumature della posizione di fronte al mondo, costituiscono il
terreno per laformazione delle intuizioni del mondo. In queste si compiono,
sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molteplici
relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i tentativi per
risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro forme superiori si fa
valere in modo particolare un procedimento: la comprensione di un dato
incomprensibile mediante uno più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di
comprensione o fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La
scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle situazioni
omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica originaria esprimono il
significato e il senso della totalità. Quella conosce, queste intendono. Una
tale interpretazione del mondo, che rende trasparente la sua essenza molteplice
attraverso un'essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per
svilupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un'intuizione mediante
un’altra affine che la rende in qualche senso più chiara, nella
personificazione che avvicina e rende comprensibile umanizzando, oppure
attraverso ragionamenti analogici, che determinano il meno noto a partire dal
più noto sulla base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifico.
Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica originaria cercano di
rendere qualcosa intelligibile e capace di suscitare impressione, ciò avviene
mediante il medesimo procedimento. |, 5. La struttura dell’intuizione del
mondo. Tutte le intuizioni del mondo, quando si propongono di fornire una
soluzione compiuta del mistero della vita, contengono di regola la stessa
struttura. Questa struttura è sempre una connessione in cui, sulla base di
un'immagine del mondo, vengono decise le questioni relative al significato e al
senso del mondo, e da essa vengono derivati l’ideale, il sommo bene, i princìpi
supremi della condotta della vita. Essa è determinata dalla legalità psichica
in virtù della quale l'apprendimento della realtà nel corso della vita
costituisce la base per la valutazione delle situazioni e degli oggetti secondo
i criteri di piacere e di dispiacere, di gradevole e di sgradevole, di
approvazione e di disapprovazione; e questa valutazione della vita forma quindi
a sua volta il substrato delle determinazioni del volere. Il nostro
comportamento attraversa regolarmente queste tre posizioni della coscienza, e
la natura peculiare della vita psichica si fa valere nel fatto che in tale
connessione dinamica persiste lo strato sottostante: le relazioni presenti
negli atteggiamenti in base a cui io giudico gli oggetti, provo piacere di
fronte ad essi e sono indirizzato alla realizzazione di qualcosa in essi,
determinano la costruzione di questi diversi strati e costituiscono in tal modo
la struttura delle formazioni in cui la connessione dinamica della vita
psichica. trova la propria espressione. La lirica mostra nella forma più
semplice questa connessione una
situazione, una successione di sentimenti da cui spesso scaturisce un
desiderio, una tensione, un'azione. Ogni rapporto vitale si sviluppa verso una
connessione in cui le medesime forme di atteggiamento sono legate
strutturalmente. Così anche le intuizioni del mondo sono formazioni regolari in
cui si esprime questa struttura della vita psichica. Il loro substrato è sempre
un'immagine del mondo; essa sorge dall’atteggiamento dell’apprendere quale si
presenta nella successione regolare dei gradi del conoscere. Noi osserviamo
processi interiori e oggetti esterni. Noi spieghiamo le percezioni che in
questo modo sorgono rendendo in esse trasparenti, mediante le funzioni
clementari del pensiero, i rapporti fondamentali del reale; quando le
percezioni svaniscono, esse vengono tuttavia riprodotte e ordinate nel nostro
universo di rappresentazioni, che ci solleva al di sopra dell’accidentalità
delle percezioni; la saldezza e la libertà che lo spirito acquisisce a questo
livello, il suo dominio sulla realtà giungono poi a compimento nella regione
dei giudizi e dei concetti, dove la connessione e l’essenza del reale vengono
colte come fornite di validità universale. Quando un’intuizione del mondo
giunge al suo pieno sviluppo, ciò avviene di regola a questi gradi di
conoscenza della realtà. A questo punto su di essa si costruisce un altro
atteggiamento tipico, in un’analoga regolare successione di livelli. Nel
sentimento di noi stessi assaporiamo il valore della nostra esistenza,
attribuiamo a persone e a oggetti che ci circondano una capacità di influenza
sulla nostra esistenza, in quanto la elevano e la estendono: quindi
determiniamo questi valori secondo le possibilità di recar giovamento 0 danno
che sono contenute negli oggetti, valutiamo tali possibilità e cerchiamo per
questa valutazione una misura incondizionata. In tal modo situazioni, persone e
cose acquistano un significato in rapporto al complesso della realtà, e questo
ne riceve un senso. Percorrendo questi gradi nell’ atteggiamento del sentire si
forma per così dire, nella struttura dell’intuizione del mondo, un secondo
strato; l’immagine del mondo diventa fondamento della vita e della comprensione
del mondo. Secondo la medesima legalità della vita psichica, dall’apprezzamento
della vita e dalla comprensione del mondo emerge uno stato supremo della
coscienza: gli ideali, il sommo bene e i princìpi supremi in cui l'intuizione
del mondo ottiene la sua energia pratica
come dire, la punta con cui essa si apre un varco nella vita umana, nel
mondo esterno e nella profondità dell'anima. L’intuizione del mondo si fa ora
formatrice, plasmatrice. riformatrice! E anche questo stato supremo
dell’intuizione del mondo si sviluppa attraverso gradi differenti.
Dall’intenzione, dalla tensione, dalla tendenza si sviluppano le posizioni di
scopo durevoli indirizzate alla realizzazione di una rappresentazione, il rapporto
tra scopi e mezzi, la scelta tra gli scopi, la selezione dei mezzi e infine la
connessione delle posizioni di scopo in un ordinamento supremo del nostro
comportamento pratico in un progetto
complessivo di vita, in un sommo bene, in norme supreme dell’agire, in un
ideale di formazione della vita personale e della società. Questa è la
struttura dell’intuizione del mondo. Ciò che è confusamente contenuto come un
fascio di compiti nel mistero della vita, viene qui elevato a una connessione
consapevole e necessaria di problemi e di soluzioni. Questa progressione si
svolge secondo gradi determinati in maniera regolare dall’interno: ne consegue
che ogni intuizione del mondo ha uno sviluppo e nel corso di questo perviene
all’esplicazione del suo contenuto; essa ottiene così gradualmente durata,
saldezza e potenza, nel corso del tempo: essa è un prodotto della storia. 6. La
molteplicità delle intuizioni del mondo. Le intuizioni del mondo si sviluppano
in condizioni differenti. Il clima, le razze, le nazioni determinate attraverso
la storia e la formazione degli stati, le delimitazioni temporalmente
condizionate secondo epoche ed età in cui le nazioni cooperano, si collegano
alle condizioni specifiche che producono la molteplicità delle intuizioni del
mondo. La vita, che nasce in queste condizioni specificate, ha moltissimi
aspetti; lo stesso vale per l’uomo che apprende la vita. A queste differenze
tipiche si aggiungono quelle delle singole individualità, del loro ambiente e
della loro esperienza di vita. Nello stesso modo in cui la terra è ricoperta di
innumerevoli forme viventi, tra le quali ha luogo una lotta continua per la
sopravvivenza e per lo spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di
intuizione del mondo, contendendosi tra loro il potere sull’anima. Si fa così
valere un rapporto regolare per cui l’anima, spinta dall’incessante mutamento
delle impressioni e dei destini, nonché dalla potenza del mondo esterno, deve
tendere a una saldezza interiore per potersi contrapporre a tutto ciò: essa
viene condotta dal mutamento, dalla discontinuità, dallo scivolare e dal fluire
della sua costituzione, delle sue intuizioni della vita, a una valutazione
durevole della vita e a fini ben definiti. Le intuizioni del mondo che
promuovono la comprensione della vita e conducono a fini utili, si conservano e
soppiantano quelle che meno rispondono a queste esigenze. Si compie così una
selezione tra di esse. E nella successione delle generazioni le intuizioni del
mondo più vitali si sviluppano verso una forma sempre più compiuta. E come
nella molteplicità della vita organica opera la stessa struttura, così anche le
intuizioni del mondo sono formate secondo un medesimo schema. Il profondo
mistero della loro specificazione ha la sua base nella regolarità che la
connessione teleologica della vita psichica imprime alla particolare struttura
delle formazioni di intuizione del mondo. i AI centro dell’apparente
accidentalità di queste formazioni vi è, in ognuna di esse, una connessione
teleologica che scaturisce dalla reciproca dipendenza delle questioni contenute
nel mistero della vita, e in modo particolare dal rapporto costante tra
immagine del mondo, apprezzamento della vita e fini della volontà. Una comune
natura umana e un ordine dell’individuazione stanno in salde relazioni vitali
con la realtà; e quest'ultima è sempre e dovunque la stessa, la vita mostra
sempre gli stessi aspetti. In questa regolarità della struttura dell’intuizione
del mondo e del suo differenziarsi in forme particolari si presenta un momento
impercettibile: le variazioni della vita, il mutamento delle epoche, le
trasformazioni della situazione scientifica, il genio delle nazioni e degli
individui. In virtù di ciò cambia incessantemente l’interesse ai problemi, la
potenza di determinate idee che sorgono dalla vita storica e che la dominano;
nelle intuizioni del mondo si fanno valere, secondo il luogo storico che
occupano, combinazioni sempre nuove dell’esperienza della vita, disposizioni
interiori e pensieri sempre nuovi: esse sono irregolari in conformità ai loro
elementi, alla forza e al significato che questi ultimi assumono nel complesso.
Tuttavia, a causa della legalità che opera nel profondo della struttura e della
regolarità logica, esse non sono aggregati ma formazioni. A questo punto,
sottoponendo queste formazioni a un procedimento comparativo, risulta inoltre
che esse si ordinano in gruppi all’interno dei quali sussiste una certa
affinità. Come le lingue, le religioni, gli stati rivelano in virtù del metodo comparativo certi tipi, certe linee di sviluppo e regole
di trasformazione, la stessa cosa si può mostrare anche nelle intuizioni del
mondo. Questi tipi attraversano la singolarità storica delle formazioni
particolari. Essi sono sempre condizionati dalla particolarità propria del
campo in cui sorgono. Ma volerli derivare da tale particolarità è stato un
grave errore, proprio del metodo costruttivo. Soltanto il procedimento storico
comparativo può accostarsi alla determinazione di questi tipi, delle loro
variazioni, dei loro sviluppi e incroci. La ricerca deve pertanto tener sempre
aperta, nei confronti dei suoi risultati, ogni possibilità di prosecuzione.
Qualsiasi analisi è solamente provvisoria. Essa è e rimane nient’altro che uno
strumento per vedere in modo storicamente più profondo. E al procedimento
storico comparativo si collega sempre la sua preparazione mediante
l’osservazione sistematica e l’interpretazione dell’elemento storico che ne
scaturisce. Anche quest’interpretazione psicologica e storico-sistematica della
realtà storica è esposta all'errore del pensiero costruttivo, che in ogni campo
dell’ordinamento vuol porre alla base un rapporto semplice, come se fosse un
impulso formativo in esso presente. Riassumiamo ora quanto è stato fin qui
posto in luce in un principio, che la considerazione storica comparativa
conferma in ogni punto. Le intuizioni del mondo non sono prodotti del pensiero;
esse non nascono dalla mera volontà di conoscenza. L'apprendimento della realtà
è certo un momento importante, ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono
dall’atteggiamento di vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della
nostra totalità psichica. L’elevazione della vita a coscienza nella conoscenza
della realtà, nella valutazione della vita e nell'operazione della volontà è il
lungo e difficile lavoro che l'umanità ha compiuto nello sviluppo delle
intuizioni della vita. Questo principio della dottrina delle intuizioni del
mondo riceve conferma se poniamo mente al corso della storia nel suo insieme:
mediante tale corso risulta confermata una conseguenza importante del nostro
principio, che ci riporta al punto di partenza di questo saggio. La formazione
delle intuizioni del mondo è determinata dalla volontà rivolta alla stabilità
dell’immagine del mondo, della valutazione della vita, dell’azione delWILHELM
DILTHEY 227 la volontà, derivante dal carattere fondamentale sopra descritto della successione di gradi dello sviluppo
psichico. Sia la religione sia la filosofia cercano la stabilità, l’efficacia,
il dominio, la validità universale. Ma su questa via l'umanità non ha fatto un
solo passo avanti. La lotta reciproca tra le intuizioni del mondo non è
pervenuta ad alcuna decisione in nessuno dei suoi punti nodali. Certamente la
storia compie una selezione tra di esse, ma i grandi tipi permangono autosufficienti,
indimostrabili e indistruttibili, gli uni accanto agli altri. Essi non devono
la loro origine ad alcuna dimostrazione, perché non possono essere risolti da
alcuna dimostrazione. I singoli gradi e le formazioni specifiche di un tipo
vengono sì confutate, ma la loro radice nella vita perdura, continua ad agire e
produce sempre nuove formazioni. II. I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO NELLA
RELIGIONE, NELLA POESIA E NELLA METAFISICA Prendo le mosse da una distinzione
tra le intuizioni del mondo che è condizionata dai campi della cultura in cui
esse compaiono. Il fondamento della cultura è formato dall’economia, dalla vita
sociale, dal diritto e dallo stato. In ciascun campo domina una divisione del
lavoro in virtù della quale la singola persona assolve, in un determinato luogo
storico del suo operare, una funzione determinata. Qui la volontà è inquadrata
in compiti delimitati che vengono ad essa assegnati dalla connessione
teleologica propria di un dato campo. La scienza introduce in questa connessione
pratica della vita, mediante la conoscenza, una regolamentazione razionale del
lavoro; in questo modo sta in connessione strettissima con la prassi e, poiché
anch'essa sottostà alla legge della divisione del lavoro, ogni scienziato si
prefigge, in un determinato campo e in un determinato punto del lavoro
conoscitivo, un compito limitato. La stessa filosofia è sottomessa, in una
parte dalle sue funzioni, a questa divisione del lavoro. Invece il genio
religioso, poetico o metafisico vive in una regione in cui è sottratto al
vincolo sociale, al lavoro racchiuso in compiti delimitati, alla subordinazione
a ciò che 228 WILHELM DILTHEY può venir raggiunto nei limiti del tempo e della
situazione storica. Ogni riguardo a tale vincolo falsifica anzi la sua comprensione
della vita, che deve porsi di fronte a ciò che è dato in piena spontaneità e
sovranità. Essa diventa non vera già a causa della limitazione della
prospettiva, del riferimento a una situazione temporale a causa di una qualsiasi tendenza. In questa
regione della libertà sorgono e si formano le intuizioni del mondo più valide e
più potenti. Le intuizioni del mondo sono però distinte nel genio religioso, in
quello artistico e in quello metafisico secondo la loro legge di formazione, la
loro struttura e i loro tipi. 1. L'intutzione religiosa del mondo. Le
intuizioni religiose del mondo scaturiscono da un particolare rapporto di vita
dell’uomo. Al di là della realtà dominabile in cui l’uomo primitivo in quanto guerriero, cacciatore, lavoratore e
fruitore del suolo produce
trasformazioni nel mondo esterno, mediante il suo agire fisico, in una
razionale posizione di scopi, il campo di tale operare si estende fino
all’inaccessibile, a ciò che non è attingibile da parte della conoscenza. E in
quanto di qui gli sembrano procedere effetti che gli procurano fortuna nella
caccia, successo nella guerra, mentre nella malattia, nella follia, nella
vecchiaia, nella morte, nella perdita della moglie, dei figli, del gregge, si
scopre dipendente da qualcosa di sconosciuto, nasce allora la tecnica diretta a
influenzare questa realtà incomprensibile
che non si lascia dominare dall’attività fisica con le proprie preghiere, con le proprie
offerte, con la propria subordinazione. Egli vuole accogliere in sé le forze di
esseri superiori, stabilire un buon rapporto con essi, unirsi ad essi. Le
azioni dirette a questo fine costituiscono il culto originario. Nasce la
professione dello stregone, del guaritore o del sacerdote; man mano che questo
ceto si organizza sempre più saldamente, in esso si concentrano abilità,
esperienza, sapere, e vi si forma un modo di vita particolare che lo separa
dagli altri membri della società. In questo modo nelle piccole comunità chiuse
dell’orda e della tribù nasce una tradizione di esperienza religiosa della
vita, che si è sviluppata nel rapporto con gli esseri superiori, e di
ordinamento spirituale di vita; e dalle pratiche del culto magico lo sviluppo
di questa religiosità superstiziosa perviene a poco a poco fino al processo
religioso, nel quale l'animo e la volontà dell’uomo vengono assoggettate
mediante una disciplina interiore al volere divino. II momento decisivo risiede
nel modo in cui le idee religiose primitive si sviluppano sulla base degli
Er/ebnisse, sempre e dovunque ricorrenti, della nascita, della morte, della
malattia, dei sogni, della follia, sulla base di interventi malvagi o benefici
dell'elemento demoniaco sul corso della vita, sulla base di strane commistioni
di ordine nella natura che comporta
sempre un rapporto teleologico di colui che apprende nei confronti di essa e infine sulla base del caso, della forza
distruttiva e del conflitto. Il secondo io presente nell’uomo, le forze divine
del cielo, nel sole e nelle stelle, il demoniaco nella foresta, nella palude e
nelle acque queste rappresentazioni
fondamentali determinate da rapporti vitali costituiscono i punti di partenza
di una vita fantastica condizionata affettivamente, che viene alimentata da esperienze
religiose sempre nuove. L'influenza dell’invisibile è la categoria fondamentale
della vita religiosa elementare. Il pensiero analogico combina poi le idee
religiose fino a tradurle in dottrine concernenti l’origine del mondo,
dell’uomo e dell’anima. L'influenza del soprasensibile, presente nelle cose e
negli uomini, conferisce loro un significato religioso. Queste cose e questi
uomini sono sensibili, visibili, distruttibili, limitati, e tuttavia sono una
sede di influenze divine o demoniache. Il mondo è pervaso da un rapporto
religioso di cose e persone singole, concrete e finite, con l’invisibile, in
virtù del quale il loro significato religioso risiede nell'influenza
dell’invisibile celata in esse. Luoghi e persone sacri, immagini della
divinità, simboli, sacramenti sono tutti casi particolari di questo rapporto:
nella religione esso ha lo stesso significato che possiede il simbolico
nell'arte e il concettuale nella metafisica. E la traduzione diventa,
all’interno del rapporto religioso
proprio a causa dell’oscurità della sua origine una potenza di eccezionale efficacia. Questa
è la base di tutto l’ulteriore sviluppo religioso. Mentre negli stadi primitivi
opera in prevalenza lo spirito della comunità, il passaggio verso gradi
superiori si compie in virtù 230 WILHELM DILTHEY del genio religioso nei misteri, nella vita dell’eremita, nel
profetismo. A influenze particolari tra l'uomo e gli esseri superiori subentra,
nel genio religioso, un rapporto dell’uomo nella sua totalità nei confronti di
essi. Questa esperienza religiosa concentrata raccoglie quindi le idee
religiose elementari per tradurle in intuizioni religiose del mondo, le quali
hanno la loro essenza nel fatto che qui l’interpretazione della realtà,
l'apprezzamento della vita e l'ideale pratico scaturiscono dal rapporto con
l’invisibile. Esse sono contenute nel discorso metafisico e nelle dottrine
della fede; poggiano su una costituzione della vita; si sviluppano nella
preghiera e nella meditazione. Tutte le formazioni tipiche di queste intuizioni
religiose del mondo comportano, fin dal loro inizio, l’antitesi tra esseri
benefici ed esseri malvagi, tra esistenza sensibile e mondo superiore.
L’immanenza della religione universale negli ordinamenti della vita e nel corso
naturale, l’Uno-Tutto spirituale che costituisce la verità, la connessione e il
valore di tutte le cose particolari e a cui l’esistenza particolare deve quindi
fare ritorno, la volontà divina creatrice che produce il mondo e che crea gli
uomini secondo la sua immagine o che sta in opposizione a un regno del male e
per combatterlo prende al suo servizio gli uomini pii questi sono i tipi principali delle varie
intuizioni religiose del mondo. E come fin dall'inizio il rapporto con
l'invisibile è separato dal lavoro e dal godimento inerenti all’esistenza
sociale terrena, così queste intuizioni religiose del mondo sono in contrasto
permanente con la concezione mondana della vita: in questa si fa spesso valere,
all’interno di tale antitesi, un naturalismo originario che trae la sua energia
e la sua potenza proprio dall’antitesi nei confronti delle intuizioni religiose
del mondo. Nelle epoche religiose troviamo quindi la lotta tra tipi diversi che
mostrano una chiara affinità con quelli della metafisica. Il monoteismo
giudaico-cristiano, la forma cinese e indiana di panenteismo e per contro
la posizione e il modo di pensare naturalistici sono i gradi preliminari
e i punti di partenza per l'ulteriore sviluppo della metafisica. Ma il rapporto
religioso, con la sua magia, con le sue forze, le sue figure e i suoi luoghi di
culto religiosi, con le immagini del simbolismo religioso, costituisce sempre
il substrato delle intuizioni religiose del mondo, nello stesso modo in cui il
popolo costituisce l'ampio strato inferiore della vita comunitaria della
chiesa. In queste intuizioni del mondo si conserva sempre un nucleo oscuro,
specificamente religioso, che il lavoro concettuale dei teologi non è mai in
grado di spiegare e di giustificare. Mai può essere superata l’unilateralità di
un’esperienza che scaturisce dal rapporto di preghiera, di sollecitazione, di
sacrificio di sé con esseri superiori e che dalle relazioni dell'anima con essi
perviene a coglierne i predicati. Di qui nasce un rapporto per cui l’intuizione
religiosa del mondo è sì la preparazione di quella metafisica, ma non può mai
risolversi completamente in quest’ultima. La dottrina giudaico-cristiana del
dio puramente spirituale, che crea liberamente, e delle anime formate a sua
immagine si è trasformata nell’idealismo monoteistico della libertà; le
differenti forme della dottrina religiosa dell’Uno-Tutto hanno preparato il
panenteismo metafisico; nella speculazione indiana, nei misteri e nella Gnosi
si è sviluppato lo schema dell’emanazione della molteplicità del mondo dall’Uno
e del ritorno in esso, qual è stato elaborato dai neoplatonici, da Bruno, da
Spinoza e da Schopenhauer. Altrettanto chiara è la connessione che dal
monoteismo conduce alla teologia scolastica dei pensatori giudaici, arabi e
cristiani, e da essa a Descartes, a Wolff, a Kant e ai filosofi dell'età della
Restaurazione nel secolo xrx. Ma per quanto il lavoro concettuale che la
teologia compie nelle intuizioni religiose del mondo possa accostarle alla
metafisica, la loro legge di formazione e la loro struttura le separano pur
sempre dal pensiero metafisico. Il punto di vista unilaterale della costituzione
religiosa della vita e dell’intuizione religiosa del mondo costituisce il loro
limite. L’animo religioso è sempre, con le sue esperienze, nel giusto. Lo
spirito progressivo riconosce che il fissarsi dell'anima al mondo
sopra-sensibile questo prodotto storico
della tecnica sacerdotale manteneva in
piedi l’idealismo, sia pure in virtù di una trasposizione artificiosa, e
imponeva un disciplinamento della vita, sia pure con ascetica rigidità, ma
anche che il procedere dello spirito nella storia deve cercare posizioni più
libere nei confronti della vita e del mondo, le quali non devono essere legate
a tradizioni che scaturiscono da discutibili origini misteriose. Le posizioni
dell’intuizione del mondo nella poesia. Nella religione cose e uomini acquistavano
la loro significatività in virtà della fede nella presenza in essi di un forma
soprasensibile. La significatività dell’opera d’arte consiste nel fatto che un
elemento singolare, un dato sensibile viene separato dal nesso dei rapporti di
causa ed effetto ed elevato a espressione ideale delle relazioni vitali così
come esse ci parlano con il colore e la forma, la simmetria e la proporzione,
gli accordi dei suoni e il ritmo, il processo psichico e l’accadimento. C'è in
tutto questo una tendenza a formare un’intuizione del mondo? In sé, la
produzione artistica non ha niente in comune con l’intuizione del mondo; ma il
rapporto della costituzione vitale dell’artista con la sua opera ha qui
tuttavia dato luogo a una relazione secondaria tra opera d’arte e intuizione
del mondo. L’arte si è sviluppata, in un primo momento, sotto l’influenza della
religione. L'ambito delle cose sacre è il suo oggetto più prossimo; gli scopi
della comunità religiosa si fanno valere nell’architettura e nella musica; in
questa connessione l’arte ha elevato il contenuto della religiosità
all’eternità in cui scompaiono i dogmi transitori, e da questo contenuto è
scaturita la forma interna dell’arte più alta
come mostrano l’epica religiosa di Giotto nella pittura, la grande
architettura ecclesiastica e la musica di Bach e di Handel. Ciò che costituisce
quindi l'andamento storico del rapporto dell’arte con le intuizioni del mondo è
il fatto che la costituzione vitale dell’artista è pervenuta a una libera
espressione sulla base di questo approfondimento religioso dell’arte. Questo
non dev'essere cercato nell’introduzione di un’intuizione della vita nell’opera
d’arte, bensì nella forma interna delle formazioni artistiche. È stato compiuto
uno sforzo considerevole per comprovare la presenza di tale elemento nella
pittura e per mostrare l’influenza delle tipiche costituzioni vitali da cui scaturiscono l’intuizione
naturalistica del mondo, quella eroica e quella panenteistica sulla forma delle opere pittoriche. Un
analogo rapporto si potrebbe mostrare anche nella creazione musicale. E quando
artisti della potenza spirituale di un Michelangelo, di Becthoven, di Richard
Wagner arrivano, in virtù di un impulso interiore, a formare un'intuizione del
mondo, questa contribuirà a rafforWILHELM DILTHEY 233 zare l’espressione della
loro costituzione vitale nella forma artistica. Tra le arti, però, la poesia ha
un rapporto particolare con l'intuizione del mondo. Infatti il mezzo in cui
essa opera, il linguaggio, le consente un'espressione lirica o una rappresentazione
epica o drammatica di tutto ciò che può venir visto, udito, vissuto. Io non
voglio qui tentare di definire l'essenza e la funzione della poesia.
Svincolando un avvenimento dal nesso delle relazioni della volontà, e
trasformando la sua rappresentazione in questo mondo dell’apparenza in
un’espressione della natura della vita, la poesia libera l’anima dal peso della
realtà e nel medesimo tempo ne rivela ad essa il significato. Soddisfacendo la
segreta aspirazione dell’uomo, imprigionato dal destino e dalle proprie
decisioni nei confini di una vita determinata, ad attuare nella fantasia quelle
possibilità di vita che non ha potuto realizzare, essa amplia l’io dell'uomo e
l'orizzonte delle sue esperienze di vita. Essa gli apre lo sguardo verso un
mondo più alto e più forte. In tutto questo si esprime però il rapporto
fondamentale su cui poggia la poesia: la vita costituisce il suo punto di
partenza; i rapporti vitali con gli uomini, le cose, la natura diventano il suo
nucleo; nel bisogno di raccogliere le esperienze che scaturiscono dai rapporti
di vita sorgono così le disposizioni universali della vita, e la connessione di
ciò che si è esperito nei singoli rapporti di vita è la coscienza poetica del
significato della vita. Queste disposizioni universali stanno alla base del
libro di Giobbe e dei Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di
Dante e di Shakespeare, della grandiosa conclusione della Divina Commedia,
della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici, nonché del Faust di
Goethe, dei Nibelunghi di Wagner e dell'’Empedocle di Hòlderlin. La poesia non
vuole quindi conoscere la realtà così come fa la scienza, ma vuol mostrare la
significatività dell’accadimento, degli uomini e delle cose, presente nelle
relazioni vitali; così il mistero della vita si concentra qui in una
connessione interna di tali relazioni, intessuta di uomini, di destini, di
circostanze. In ogni grande epoca poetica si compie di nuovo, secondo una
successione regolare, il passaggio dalla fede e dai costumi ad essa relativi,
che si formano sulla base dell’universale esperienza di vita della comunità,
234 WILHELM DILTHEY al compito di rendere nuovamente intelligibile la vita in
base ad essa stessa. Questa fu la via che ha condotto da Omero ai tragici
attici, dalla fede cattolica alla lirica cavalleresca e all’epica, dalla vita
moderna a Schiller, Balzac, Ibsen. A questo passaggio corrisponde la
successione delle forme poetiche nella quale dapprima si forma l’epica e quindi
il dramma realizza la massima concentrazione, elaborando in una concezione
della vita la connessione dei rapporti di azione, di carattere e di destino
creati dalla vita, mentre il romanzo dispiega infine l’illimitata pienezza
della vita ed esprime una coscienza del significato della vita. Concludiamo.
L’emergere della poesia dalla vita la porta direttamente a esprimere
nell’accadimento un'intuizione della vita stessa, concepita sulla base della
sua particolare costituzione. Essa si sviluppa poi nella storia della poesia,
in cui questa si accosta gradualmente al suo fine di intendere la vita in base
a essa stessa, esponendosi con piena libertà alle grandi impressioni vitali.
Pertanto la vita mostra alla poesia aspetti sempre nuovi. La poesia indica in
tal modo le possibilità illimitate di vedere la vita, di valutarla, di dare ad
essa una nuova forma. L'accadimento diventa così simbolo, ma non di un
pensiero, bensì di una connessione osservata nella vita osservata a partire dall’esperienza di vita
del poeta. È così che Stendhal e Balzac vedono nella vita un tessuto creato senza finalità dalla natura stessa, in
virtù di un oscuro impulso di illusioni,
di passioni, di bellezza e di corruzione, in cui la volontà forte si acquista
la vittoria; Goethe vi scorge invece una forza formatrice che riunisce in una
connessione dotata di valore le forme organiche, lo sviluppo umano e gli
ordinamenti sociali; Corneille e Schiller vedono in essa il teatro di azioni
eroiche. Ognuna di queste costituzioni vitali corrisponde a una forma interna
della poesia. Di qui ai grandi tipi di intuizione del mondo non c’è che un
passo, e il legame della letteratura con i movimenti filosofici conduce un
Balzac, un Goethe, uno Schiller a questa perfezione suprema della comprensione
della vita. In tal modo i tipi dell’intuizione poetica del mondo preparano
quelli della metafisica, oppure trasmettono la loro influenza a tutta la
società. WILHELM DILTHEY 235 3. 1 tipi di intuizione del mondo nella
metafisica. Tutti i fili del discorso si intrecciano nella dottrina della
struttura, dei tipi e dello sviluppo delle intuizioni del mondo nella
metafisica. Riassumo i rapporti che sono qui decisivi. I. Il processo
complessivo del sorgere e del consolidamento delle intuizioni del mondo spinge
all’esigenza di elevarle a un sapere universalmente valido. Anche nei poeti di
maggiore capacità di pensiero le grandi impressioni sembrano illuminare sempre
la vita sotto nuovi aspetti: la tendenza al consolidamento conduce al di là di
esse. Nel nucleo delle religioni universali rimane qualcosa di bizzarro e di
estremo, che scaturisce dai più accentuati degli Erlebnisse religiosi, dalla
fissazione dell'anima nell’invisibile propria della tecnica sacerdotale, e che
è inaccessibile alla religione. L’ortodossia si irrigidisce su questo; la
mistica e lo spiritualismo tentano di riportarlo all’Erleben; il razionalismo
vuole afferrarlo concettualmente e si vede costretto a dissolverlo: così la
volontà di dominio presente nelle religioni universali che si era appoggiata all'esperienza
interiore dei credenti, alla tradizione e all’autorità viene sostituita dall’esigenza della ragione
di trasformare in conformità a se stessa le intuizioni del mondo e di fondare
razionalmente la propria validità. Quando l’intuizione del mondo viene così
elevata a una connessione concettuale, e quando questa viene fondata
scientificamente, presentandosi così con la pretesa di validità universale,
allora nasce la metafisica. La storia mostra che, dovunque essa compaia, lo
sviluppo religioso l’ha preparata, che la poesia la influenza e che la
costituzione vitale delle nazioni, il loro apprezzamento della vita e i loro
ideali agiscono su di essa. L’aspirazione a un sapere universalmente valido dà
a questa nuova forma di intuizione del mondo la sua struttura propria. Chi è in
grado di dire quali siano i punti in cui la tendenza al conoscere, che opera in
tutte le connessioni teleologiche della società, diventa scienza? Il sapere
matematico e astronomico dei Babilonesi e degli Egizi si è svincolato dai
compiti pratici e dal legame con la casta sacerdotale, ed è così diventato
autonomo, soltanto nelle colonie ioniche. E quando la ricerca prese a suo
oggetto la totalità del mondo, la nascente filosofia e le scienze entrarono in
una relazione strettissima. Matematica, astronomia, geografia diventarono mezzi
di conoscenza del mondo. L'antico problema della soluzione del mistero della
vita impegnò i Pitagorici o Eraclito così come aveva impegnato i sacerdoti
dell'Oriente. E se la potenza avanzante delle scienze naturali fece del
problema della spiegazione della natura il centro della filosofia nelle
colonie, nel suo sviluppo ulteriore tutte le grandi questioni inerenti al
mistero del mondo vennero discusse nelle scuole filosofiche, le quali erano
appunto orientate verso la relazione interna tra conoscenza della realtà,
direzione della vita e volontà negli individui e nella società, ossia verso la
formazione di un’intuizione del mondo. La struttura delle intuizioni del mondo
nella metafisica è stata determinata anzitutto dalla loro connessione con la
scienza. L'immagine sensibile del mondo si trasformò in immagine astronomica;
il mondo del sentimento e delle azioni della volontà fu oggettivato in concetti
di valori, di beni, di scopi e di regole; l'esigenza di forma concettuale e di
fondazione portò gli indagatori del mistero del mondo a fare della logica e
della teoria della conoscenza la loro base: lo stesso sforzo di soluzione
condusse dai dati condizionati e limitati a un essere universale, a una causa
prima, a un sommo bene, a uno scopo ultimo; la metafisica diventò sistema e
quest’ultimo procedette, attraverso l'elaborazione di rappresentazioni e
concetti insufficienti che si erano formati nella vita e nella scienza, a
formare concetti ausiliari che oltrepassavano qualsiasi esperienza. Al rapporto
della metafisica con la scienza si aggiunse quello con la cultura mondana. In
quanto la filosofia si trasmette allo spirito di ogni connessione teleologica
presente nella cultura, essa ne riceve nuove forze e al tempo stesso partecipa
a questa l’energia della sua idea fondamentale. La filosofia consolida i
procedimenti e il valore conoscitivo delle scienze; elabora le esperienze non
metodiche della vita e la letteratura che le riguarda, traducendole in un
apprezzamento generale della vita; eleva a una connessione unitaria i concetti
fondamentali del diritto, scaturiti dalla prassi del negozio giuridico; pone i
princìpi relativi alle funzioni dello stato, alle forme di costituzione e alla
loro successione, sorti dalla tecnica della vita politiWILHELM DILTHEY 237 ca,
in rapporto con i compiti supremi della società umana; intraprende a dimostrare
i dogmi oppure, quando il loro nucleo oscuro risulta inaccessibile al pensiero
concettuale, esercita su di esso la sua opera universale di distruzione;
razionalizza le forme e le regole della pratica artistica sulla base di uno
scopo proprio all’arte: ovunque essa vuol imporre la direzione della società da
parte del pensiero. Infine, un’ultima cosa. Oguno di questi sistemi metafisici
è condizionato dal posto che occupa nella storia della filosofia; esso dipende
da un certo stato del problema ed è condizionato dai concetti che ne
scaturiscono. Così nasce la struttura di questi sistemi metafisici la connessione logica in essi presente e nel
medesimo tempo la loro irregolarità condizionata in varie maniere, l'elemento
rappresentativo che esprime in determinati sistemi un determinato stato del
pensiero scientifico, e nel medesimo tempo l'elemento della singolarità.
Pertanto ogni grande sistema metafisico diventa un complesso che irradia in
molteplici direzioni, che illumina ogni parte della vita a cui appartiene. Un
unico sistema metafisico universalmente valido
tale è la tendenza di tutto questo grande movimento. Il differenziarsi
della metafisica che scaturisce dalla profondità della vita appare a questi
pensatori come un’aggiunta accidentale e soggettiva, che dev'essere eliminata.
Il lavoro sterminato rivolto alla creazione di una connessione concettuale
dimostrabile in maniera concorde nella
quale sarebbe quindi possibile risolvere metodicamente il mistero della
vita acquista un significato autonomo;
nello sviluppo verso questo fine ogni sistema trova il suo posto in base allo
stato del lavoro concettuale. Il corso di questo lavoro si compie nei paesi
civili dell'Europa, dapprima negli stati mediterranei e poi, a partire dal
Rinascimento, negli stati romano-germanici
in uno strato superiore che soltanto di tempo in tempo viene influenzato
dalla religiosità prevalente al di sotto di esso, e che cerca sempre più di
sottrarsi a tale influenza. 2. In questa connessione compaiono distinzioni tra
i sistemi che sono fondate sul carattere razionale del lavoro metafisico.
Alcune indicano certi stadi del suo sviluppo, come quella tra 238 WILHELM
DILTHEY dogmatismo e criticismo. Altre percorrono l’intero processo: esse
scaturiscono dallo sforzo che la metafisica compie di rappresentare in una
connessione unitaria quanto è contenuto nell'apprendimento della realtà,
nell’apprezzamento della vita e nella posizione di scopi; e il loro oggetto è
costituito dalle possibilità di risolvere questi problemi fondamentali. Se
poniamo mente alle fondazioni della metafisica, ci si presentano le antitesi
tra empirismo e razionalismo, tra realismo e ideali smo. L'elaborazione della
realtà data viene compiuta sulla base degli opposti concetti dell’uno e dei
molti, del divenire e dell’essere, della causalità e della teleologia, e a
tutto ciò corrispondono differenze tra i sistemi. I differenti punti di vista a
partire dai quali viene concepito il rapporto tra il fondamento del mondo e il
mondo, tra l’anima e il corpo, si esprimono nelle prospettive del deismo e del
panteismo, del materialismo e dello spiritualismo. E in base ai problemi della
filosofia pratica si producono altre differenze, tra cui si deve sottolineare
quella tra l’eudemonismo e la sua
prosecuzione nell’utilitarismo e la
dottrina di una regola incondizionata del mondo morale. Tutte queste differenze
trovano il loro posto nei campi particolari della metafisica e designano le
varie possibilità di sottoporre questi campi
sulla base di concetti opposti al
pensiero razionale. Tutte quante possono essere considerate, nel contesto di
tale lavoro sistematico, come ipotesi in virtù delle quali lo spirito
metafisico si avvicina a un sistema universamente valido. Sono così sorti
infine i tentativi di classificare i sistemi metafisici da questo punto di
vista. Alle prevalenti contrapposizioni dei concetti nella riflessione, fondata
sulla natura della stessa elaborazione concettuale della metafisica,
corrisponde perciò nel migliore dei casi una duplicazione dei sistemi, con
l’antitesi tra punto di vista realistico e idealistico, o un’altra
analoga. A chi potrebbe sfuggire il
significato che il lavoro concettuale della filosofia ha compiuto nei campi più
diversi? Esso prepara le scienze indipendenti; essa le abbraccia. Di questo
punto ho già detto prima in maniera
dettagliata. Ma ciò che distingue l’attività metafisica dal lavoro delle
scienze positive è la volontà di
sottomettere ai metodi scientifici che
si sono formati per i singoli campi del
sapere la connessione dell’universo e
della vita stessa. Questi metodi superano i limiti dei procedimenti delle
scienze particolari mirando all’incondizionato.
3. A questo punto è possibile chiarire l’idea fondamentale da cui ha preso le mosse in generale il
nostro tentativo di una dottrina
dell’intuizione del mondo, e che definisce anche questo lavoro. La coscienza
storica ci riporta al di qua della tendenza dei metafisici a un sistema
unitario universalmente valido, al di
qua delle differenze da essa derivanti che dividono i pensatori, e infine al di
qua del collegamento di queste differenze in forma di classificazioni. La
coscienza storica assume a proprio oggetto l’antitesi effettivamente esistente
tra i sistemi nella loro costituzione complessiva. Essa vede queste
costituzioni complessive nella loro connessione con il corso delle religioni e
della poesia. Essa mostra inoltre come tutto il lavoro concettuale della metafisica non abbia fatto un solo passo
in direzione di un sistema unitario. In
tal modo essa considera l’antitesi tra i
sistemi metafisici come fondata sulla vita stessa, sull'esperienza della vita, sulle posizioni nei confronti del
problema della vita. Su tali posizioni
poggia la molteplicità dei sistemi e al tempo
stesso la possibilità di distinguere al loro interno determinati tipi. Ognuno di questi tipi abbraccia la
conoscenza della realtà, l'apprezzamento
della vita e la posizione di scopi. Essi sono
indipendenti dalla forma dell’antitesi in cui, in base a punti di vista contrapposti, vengono risolti i
problemi fondamentali. L'essenza di
questi tipi si manifesta chiaramente se si guarda ai grandi geni metafisici che
hanno espresso la loro costituzione personale in sistemi concettuali con
pretesa di validità. La loro tipica
costituzione vitale è tutt'uno con il loro carattere: essa si esprime nel loro ordinamento della
vita; riempie ogni loro azione; si
manifesta nel loro stile. E se i loro sistemi sono ovviamente condizionati dallo stato dei
concetti in cui vengono alla luce,
tuttavia i loro concetti storicamente
considerati sono soltanto strumenti
ausiliari per la costruzione e la dimostrazione della loro intuizione del
mondo. Spinoza comincia il suo trattato
sulla via per arrivare alla conoscenza
perfetta con l’esperienza vitale della nullità dei dolori e delle gioie, della
paura e della speranza della vita quotidiana; prende la decisione di cercare il
vero bene, che garantisce 240 WILHELM
DILTHEY una gioia eterna, e risolve
quindi questo compito nella sua Ethica
attraverso il superamento della schiavitù verso le passioni nella conoscenza di Dio come fondamento
immanente della molteplicità delle cose
transeunti, e attraverso l’amore intellettuale infinito di Dio che procede da
questa conoscenza, e in virtù del quale
Dio, l’infinito, ama se stesso nei limitati spiriti umani. L'intero sviluppo di Fichte è
l’espressione di una tipica costituzione
dell'anima dell’autonomia morale della persona di fronte alla natura e a tutto il corso del
mondo; e così la sua parola ultima, con
cui si chiude la grande azione di volontà di
questa vita tempestosa, è l'ideale dell'uomo eroico, in cui la funzione suprema della natura umana che si compie nella storia in quanto teatro della vita
morale è legata all'ordine sopra-terreno delle cose. E l'enorme
influenza storica di Epicuro che pure
dal punto di vista intellettuale rimase molto al di sotto dei massimi pensatori sta nella pura chiarezza con cui egli ha
espresso una tipica costituzione dell’anima. Essa consiste nella serena
subordinazione dell’uomo alla connessione regolare della natura e nel godimento
sensibilmente gioioso, e tuttavia
riflessivo, dei suoi doni. Così intesa,
ogni genuina intuizione del mondo è un’intuizione che nasce dallo stare entro
la vita stessa. Le giovanili annotazioni
di Hegel, sorte dal contatto delle sue esperienze metafisico-religiose con l’interpretazione
dei documenti del Cristianesimo primitivo, costituiscono un esempio di siffatte
intuizioni. Questo stare dentro la vita si compie nelle prese di posizione nei suoi confronti, nelle relazioni
vitali. È questo, del resto, il
significato profondo del detto ardito, secondo cui il poeta sarebbe il vero uomo. A queste prese di
posizione si rivelano dunque certi
aspetti del mondo. Non ci azzardiamo qui
a continuare. Noi non conosciamo la legge di formazione in base a cui dalla vita scaturisce il
differenziarsi dei sistemi metafisici.
Se vogliamo accostarci alla comprensione dei tipi di intuizione del mondo dobbiamo rivolgerci alla
storia. E ciò che di essenziale la
storia ha qui da insegnarci è la possibilità di
cogliere la connessione tra vita e metafisica, il collocarsi nella vita come centro di questi sistemi, la
coscienza delle grandi connessioni dei
sistemi che percorrono la storia e in cui esiste un atteggiamento tipico per quanto si voglia poi limitarli o
frammentarli. Si tratta cioè di vedere in profondità sulla base della vita, di seguire le grandi intenzioni
della metafisica. È questo il senso nel
quale proponiamo una distinzione di tre
tipi principali. Per tale distinzione non c’è altro strumento che la comparazione storica. Il suo punto di
partenza è che ogni mente metafisica si
pone di fronte al mistero della vita da un determinato punto di vista, quasi
dovesse dipanarne l’intrico: questo punto è condizionato dalla posizione
rispetto alla vita, e a partire da esso si forma la struttura specifica del suo
sistema. Possiamo quindi ordinare i sistemi in gruppi secondo il loro rapporto
di dipendenza, di affinità, di attrazione e di
repulsione reciproca. Ma qui si presenta una difficoltà propria di ogni comparazione storica. La
comparazione, infatti, deve presupporre
un criterio di selezione delle caratteristiche presenti in ciò che si compara,
e questo criterio determina poi l’ulteriore procedimento. Pertanto ciò che qui
propongo ha un carattere del tutto provvisorio. Il nucleo di questo può essere
soltanto l’intuizione che è scaturita da una lunga consuetudine con i sistemi metafisici. La loro stessa
comprensione in una formula storica può
avere un carattere solamente soggettivo. Rimane
aperta la possibilità di disporre logicamente la cosa in modo diverso,
unificando per esempio le due forme di idealismo oppure legando l’idealismo al
naturalismo, oppure procedendo in altre maniere. Questa distinzione di tipi
deve servire soltanto a vedere più profondamente nella storia, e ciò a partire
dalla vita. L’uomo si trova determinato dalla natura. Essa comprende il suo corpo non meno del mondo esterno. E
proprio la situazione oggettiva del corpo, i potenti impulsi animali che
lo scuotono, determinano il suo
sentimento della vita. Quella visione e quella considerazione della vita che ne
esauriscono il corso nel soddisfacimento
degli impulsi animali e nella subordinazione al mondo esterno, da cui traggono
il loro nutrimento, sono vecchie come
l’umanità stessa. Nella fame, nell’impulso sessuale, nella vecchiaia e nella
morte l’uomo si vede sottoposto alle potenze demoniache della vita della
natura. Egli stesso è natura. Eraclito e
l’apostolo Paolo la descrivono entrambi,
con analoghe parole piene di disprezzo, come la concezione della vita propria della massa legata ai
sensi. Essa è permanente; non c’è periodo in cui non abbia dominato una parte
degli uomini. Anche al tempo del più
rigido dominio della casta sacerdotale
orientale esisteva questa filosofia della vita dell’uomo sensibile; e anche
quando il Cattolicesimo reprimeva ogni
espressione teorica di questo punto di vista si parlava molto di Epicurei ; ciò che non era consentito di
esprimere in princìpi filosofici risuonava tuttavia nelle canzoni dei
Provenzali, in alcune poesie di corte
tedesche, nelle epopee francesi e tedesche
di Tristano. E proprio ciò che Platone dipingeva come la vita di piacere e la dottrina edonistica dei
proprietari e dei commercianti, si ripresenta ai nostri occhi come la filosofia
della vita della gente di mondo del
secolo xvii. Al soddisfacimento
dell’animalità si aggiunge un elemento nel quale l’uomo è mmaggiormente
dipendente dal suo ambiente: la gioia del proprio rango e del proprio onore. Alla base di
questa concezione del mondo sta sempre
lo stesso atteggiamento: la subordinazione
della volontà alla vita animale dell’impulso che domina il corpo e alle
sue relazioni con il mondo esterno. Il pensiero e l’attività teleologica da esso diretta sono
qui al servizio di quest’animalità, si
realizzano nel suo soddisfacimento.
Questa costituzione della vita trova la sua espressione anzitutto in una
parte considerevole della letteratura di tutti i popoli
a volte come forza intatta dell’animalità, più spesso in lotta con l'intuizione religiosa del
mondo. Il suo grido di battaglia è l'emancipazione della carne. In
quest’antitesi contro il necessario ma tremendo disciplinamento dell'umanità da
parte della religione consiste il diritto storico, relativo, della reazione di
un' affermazione sempre risorgente e operante nella vita naturale. Quando
questa costituzione della vita diventa filosofia, allora sorge il naturalismo.
Questo afferma teoricamente ciò che in
essa è vita: il processo della natura è la realtà unica e intera; fuori di esso non esiste nulla; la
vita spirituale è distinta soltanto
formalmente, in quanto coscienza, dalla natura fisica, secondo le qualità
contenute in questa, e tale determinatezza della coscienza, vuota di contenuto,
deriva dalla realtà fisica secondo la
causalità naturale. La struttura del
naturalismo da Democrito a Hobbes e da questo al Sistème de la natureS è uniforme: il sensismo come teoria della conoscenza, il materialismo
come metafisica e un duplice
atteggiamento pratico da un lato la
volontà di godimento, dall’altro la
conciliazione con il corso prepotente ed
estraneo del mondo, attuata sottomettendosi ad esso nell’osservazione. La legittimità filosofica del naturalismo
poggia su due proprietà fondamentali del mondo fisico. Come sono preponderanti
all’interno della realtà data nella nostra esperienza l’estensione e la forza
delle masse fisiche! Esse circondano come qualcosa di smisurato e continuamente
più esteso le rare manifestazioni spirituali; così considerate, queste appaiono
come interpolazioni nel grande testo dell’ordine fisico. Perciò l’uomo
naturale, nella considerazione teorica di tali rapporti, deve trovarsi totalmente soggetto a quest'ordine. Al tempo
stesso la natura è la sede originaria di
ogni conoscenza delle uniformità. Già le
esperienze della vita quotidiana insegnano a constatare queste uniformità e a contare su di esse; le scienze
positive del mondo fisico si accostano,
attraverso lo studio di queste uniformità,
alla conoscenza della loro connessione regolare. Così esse realizzano un
ideale di conoscenza irraggiungibile per le scienze dello spirito, fondate sull’Er/edez e
sull’intendere. A questo punto, però, le
difficoltà inerenti a questo punto di
vista spingono il naturalismo, in una dialettica incessante, verso formulazioni sempre nuove della sua
posizione nei confronti del mondo e della vita. La materia da cui il
naturalismo procede è un fenomeno della
coscienza; in tal modo esso cade nel
circolo vizioso di voler derivare da ciò che è dato solamente come fenomeno per
la coscienza la coscienza stessa. È impossibile derivare dal movimento, che ci
è dato come fenomeno della coscienza, la sensibilità e il pensiero.
L’incomparabilità di questi due fatti conduce
dopo che il problema si è rivelato insolubile nei più disparati
tentativi compiuti dal mate5. È il titolo dell'opera principale di Paul
Heinrich Dietrich barone d’Holbach
(1723-1789), pubblicata nel 1770, in cui sono sistematicamente esposti i
princìpi del materialismo illuministico. rialismo antico fino al Sistème de la
nature alla tesi positivistica della
corrispondenza tra fisico e spirituale. Anche questa è esposta a forti obiezioni. Infine, la morale
del naturalismo originario si mostra incapace di spiegare lo sviluppo della
società. 2. Cominciamo con l'aspetto
gnoseologico del naturalismo. Il
naturalismo ha il suo fondamento gnoseologico nel sensismo. Col termine
sensismo intendo il
riconducimento del processo della coscienza o delle funzioni all'esperienza
sensibile esterna, delle determinazioni di valore e di scopo al criterio
del piacere e del dispiacere sensibile.
Il sensismo costituisce l’espressione filosofica diretta della costituzione
naturalistica dell’anima. È qui dato, fin dal suo porsi, il problema
psico-genetico del naturalismo, quello
di derivare dalle singole impressioni
l’unità della vita psichica come una unitas composttionis. Il sensista non rifiuta né il fatto
dell’esperienza interna né l’elaborazione concettuale del dato, ma trova
nell’ordine fisico la base di ogni
conoscenza della connessione regolare del reale, e le proprietà del pensiero diventano per lui, in
maniera immediata o per il tramite di
una teoria, una parte dell’esperienza sensibile. La prima teoria sensistica è stata formulata
da Protagora*. Nella metafisica
precedente la forza universale della ragione
operante nel pensiero umano non era stata ancora separata dalle proprietà fisiche dell’uomo, dal
processo di respirazione e dalle
immagini dei sensi concepite come corporee. Protagora insegnò che la percezione nasce dalla
cooperazione di due movimenti, l'uno esterno e l’altro organico, che ha luogo
nell’uomo; dato che per lui la percezione e il pensiero erano inseparabili,
egli derivò dalle percezioni sorte in tal modo l’intera vita dell'anima. Egli spiegò anche il piacere, il
dispiacere e l’impulso sulla base della cooperazione dei due movimenti. Era
dunque senza dubbio un sensista. Egli scoprì inoltre fin da allora, muovendo da
questo punto di vista, le conseguenze fenomenistiche e relativistiche in esso
implicite. La dottrina relativistica di 6. Protagora di Abdera, il maggiore
rappresentante della Sofistica, vissuto nella seconda metà del secolo v a. C.,
elaborò una teoria sensistica della conoscenza e formulò il principio secondo
cui l’uomo è misura di tutte le cose , tradizionalmente interpretato come anche qui da Dilthey in senso relativistico. Protagora considera
ogni conoscenza, ogni posizione di valore e ogni determinazione di scopo
determinato dall'elemento puramente empirico dell’organizzazione umana; essa
esclude quindi che sia possibile comparare queste funzioni con i processi
esterni a cui esse si riferiscono. In tale maniera la conoscenza, la determinazione di valore e la posizione di
scopo posseggono una validità soltanto
relativa, cioè nella correlazione con
questa organizzazione. È qui eliminato il legame tra il soggetto e il
suo oggetto, presente nell’assunzione di un’identica ragione universale che
agisce nell’universo, e che in quanto simile
riconosce il simile. L'organizzazione sensibile mostra nel regno dell’animalità che giunge fino all'uomo le forme più
diverse, e da ognuna di esse deve sorgere un mondo totalmente
differente. La fattualità meramente empirica dell’organizzazione sensibile, il
fatto che ogni pensiero è vincolato ad essa e
l'inserimento di tale organizzazione nella connessione fisica
costituiscono il fondamento di tutte le dottrine relativistiche
dell'antichità. Com'è possibile, sulla
base di questi presupposti, un’esperienza e una scienza empirica? Questo era il
problema successivo. Matematica,
astronomia, geografia, biologia si sviluppavano
continuamente, e la scepsi sensistica doveva rendere comprensibile la
loro possibilità. Già il probabilismo di Carneade” conteneva in sé la tendenza
a istituire un equilibrio positivo tra i
presupposti sensistici e le scienze empiriche. Nella sua scepsi la validità della coscienza viene riposta,
anziché nei rapporti (così conformi allo
spirito greco) di riproduzione di una realtà esterna oggettiva da parte delle
rappresentazioni, nell’accordo interno delle percezioni tra di loro e con i
concetti, in una connessione priva di contraddizioni. Nell’ideale della massima
probabilità raggiungibile, nella distinzione dei suoi livelli, si otteneva un punto di vista in base al quale si poteva
contemporaneamente combattere la metafisica e assicurare al sapere empirico
una misura, anche se modesta, di
validità. Ma soltanto quando la grande
epoca della fondazione della scienza
matematica della natura riconobbe, nel secolo xvi, l’esistenza di un ordine della natura secondo
leggi, il sensismo 7. Carneade,
filosofo della Media Accademia. entrò nel suo ultimo e decisivo periodo. La
scienza naturale si era costituita come sapere empirico inattaccabile; il
sensismo era costretto a riconoscere questo fatto, a collegarsi ad esso e a
superare le conseguenze scettiche dell'epoca antecedente. Fu questa la grande
impresa di David Hume. Egli stesso ha considerato la sua filosofia come una
prosecuzione della scepsi accademica. E infatti in lui ricorrono i caratteri
principali di questa scepsi: la fattualità
meramente empirica della nostra
organizzazione sensibile e del pensiero ad essa connesso; di qui l’eliminazione di qualsiasi rapporto di
riproduzione tra lo spirito che apprende
e il mondo oggettivo, e quindi lo spostamento della conoscenza nel mero accordo
interno delle percezioni tra di loro e con i concetti. Ma questi princìpi
acquistano nella sua analisi il loro sviluppo più fecondo: dalle regolarità
dell’accadere nascono le abitudini di determinate associazioni; nella capacità
di associazione ad esse inerenti risiede il
fondamento esclusivo dei concetti di sostanza e di causalità. Ne derivano conseguenze che avrebbero costituito
i fondamenti del positivismo. La
connessione del mondo diventa, in virtù dei
legami di sostanza e di causalità, un effetto secondario dei fatti animali dell’abitudine e dell’associazione;
la scienza empirica viene limitata alle
uniformità di coesistenza e di successione
dei fenomeni, escludendo ogni sapere concernente le relazioni interne, l’essenza, la sostanza o la
causalità; queste uniformità costituiscono l'oggetto del nostro sapere riguardo
ai fatti spirituali e fisici: tutte
le‘parti del mondo sono legate in un’unica legalità. Il sensismo è l’intimo spirito del sistema
di David Hume; ma i suoi grandi
risultati si sono svincolati dai presupposti
metafisici nella teoria positivistica della conoscenza di D’Alembert. Il
positivismo diventò un metodo, e nei confronti di questo punto di vista fenomenistico il
naturalismo stesso fece valere con Feuerbach, Moleschott*, Biichner? la
solare evidenza del sensibile , e
con Comte la reciproca connessione 8.
Jakob Moleschott (1822-1893), biologo e fisiologo, autore della Physiologie des Stoffwechsels in Pflanzen und Tieren (1857) e
di Der Kreislaut des Lebens (1852), è
uno dei più noti esponenti del positivismo materialistico tedesco. 9. Ludwig Biichner (1824-1899), medico e
filosofo, autore di Kraft nad Stoff (1855),
di Natur und Geist (1857), di Die Stellung des Menschen in der Natur
(1869), è un altro importante esponente del positivismo materialistico tedesco.
dei fatti fisici e la dipendenza da essi di quelli psichici, così come insegnava la nuova fisiologia del
cervello. La metafisica del
naturalismo trovò il suo fondamento meccanicistico nell’età successiva a
Protagora. La spiegazione meccanicistica è, in sé e per sé, un procedimento
proprio delle scienze positive, e quindi è compatibile con diverse visioni del
mondo: la metafisica meccanicistica sorge soltanto quando nella realtà non si
vede altro che il meccanismo, quando certi
concetti che, per la conoscenza della natura, sono strumenti del suo procedimento vengono considerati come
entità. Le cause dei movimenti vengono
riposte nei singoli elementi materiali
dell'universo, e a questi elementi vengono ricondotti, secondo un metodo qualsiasi, i fatti spirituali.
Dalla natura viene espulsa quell’interiorità che la religione, il mito e la
poesia vi avevano collocata: ora la natura è diventata senza anima, e da nessuna parte una connessione unitaria pone
limite alla sua interpretazione tecnica.
Soltanto questo punto di vista permette
di dare al naturalismo una forma rigorosamente scientifica. Il suo problema diventa ora quello di derivare
il mondo spirituale dalla disposizione
meccanica delle parti corporee ordinate secondo leggi. Una letteratura sterminata si è proposta di
risolvere questo compito. I suoi culmini
sono il sistema epicureo e la splendida
esposizione datane da Lucrezio; il tenebroso e possente sistema di Hobbes, che concepì in modo coerente
l’intero mondo spirituale dal punto di vista dell’impulso da cui scaturisce la
lotta per il potere degli individui, dei
ceti e degli stati; nella Francia del secolo xvrri il sistema della natura, che
espresse nelle sue fredde formule il
mistero degli uomini più miscredenti e
dei libertini di tutti i tempi; infine la fanatica dottrina
materialistica di Feuerbach, Biichner, Moleschott e compagni. La potenza di queste dottrine poggiava sul
fatto che esse erano state costruite sul
terreno della realtà esterna spaziale
che cade sotto i sensi, accessibile al pensiero esatto delle scienze della natura. In nessun luogo esse
contenevano un oscuro residuo di forze impenetrabili. Non c’era angolo in cui
potesse celarsi un elemento spirituale autonomo o un elemento trascendente. Tutto
era razionale e naturale. Infatti l’anima di questa metafisica materialistica è
la lotta contro la potenza della religiosità e della metafisica spiritualistica
con le loro oscurità. E la sua legittimità storica risiedeva nello sforzo di
superare l’alleanza della chiesa con il dispostismo all’interno della società.
In un tale ordinamento delle cose non c'è spazio alcuno per la considerazione del mondo dal punto di
vista del valore e dello scopo. Valori e
scopi sono qui ciechi prodotti del corso
della natura, i quali hanno un interesse particolare soltanto per l’uomo, poiché l’uomo è per se stesso, in
virtù della sua vita interiore, centro
del mondo e tutto misura in conformità ai
suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, ai suoi fini. di
L’ideale di vita del naturalismo doveva essere duplice, in base al suo doppio rapporto con il corso
della natura. A causa della sua passione
l’uomo è schiavo del corso della natura
ma uno schiavo accorto e calcolatore che si pone al di sopra di esso in virtù della potenza del
pensiero. Già l’antichità sviluppò
entrambi gli aspetti dell’ideale naturalistico. Il sensismo di Protagora aveva
già in sé le condizioni dell’edonismo di
Aristippo! Per quest’ultimo, infatti, tanto
le percezioni sensibili quanto i sentimenti e i desideri sorgono nei contatti dell'organizzazione sensibile
con il mondo esterno; essi non possono
quindi esprimere i valori oggettivi contenuti
nella realtà ma soltanto il rapporto in cui il soggetto, con il suo sentimento, si pone nei loro confronti.
Da ciò Aristippo concludeva che nel piacere
inteso come il movimento migliore che abbia luogo nella nostra
organizzazione sensibile risiede il
criterio e il fine del giusto agire. Nella connessione fisica della nostra
animalità con la natura esterna, quale si palesa nei movimenti sensibili,
dev'essere ricercato il criterio e il
fine dell’arte di vivere. La riflessione socratica diventa qui gioco sovrano del pensiero formale che
calcola i valori del 10. Aristippo di
Cirene (435-366 a. C.), filosofo socratico, fu il maggiore rappresentante
dell’edonismo nel pensiero greco. piacere e che si eleva al di sopra delle
convenzioni, cioè sopra gli ordinamenti
oggettivi della vita. Ma nell’apprendimento ottico e nel godimento
estetico che tanta importanza
rivestiva per lo spirito greco c'era un altro ideale, e anche questo si collocava nell’ambito di quella metafisica
naturalistica che ha i suoi
rappresentanti in Democrito, in Epicuro, in Lucrezio. Ad esso condussero le esperienze dell'impulso
vitale. Si tratta della tranquillità
d'animo che nasce in colui che accoglie in sé la connessione sempre salda e duratura
dell’universo. Tale costituzione dell'anima trovò la sua espressione nel poema
didattico di Lucrezio. Egli riviveva in
sé la potenza liberatrice della grande
visione cosmica, astronomica e geografica del mondo creata dalla scienza greca. L'universo smisurato e le sue leggi eterne,
la nascita dei sistemi del mondo, la
storia della terra che si copre di piante
e di animali e che infine produce l’uomo
questa concezione gli consentì di
osservare molto al di sotto di sé gli intrighi
politici e le povere marionette divine adorate dal suo popolo. Anzi la stessa vita dell'individuo, con la
sua sete di godimento e di potere, la
lotta delle esistenze particolari sul teatro dell’Impero romano si
rimpiccioliva da questo punto di vista cosmico: pio è chi guarda all’universo con spirito
sereno . Già nell’antichità
l’esperienza che, nel corso del mondo,
compie l’uomo che desidera la felicità dei sensi aveva dissolto la rigidità della dottrina del piacere
sensibile come fine della vita. Accanto
a quello sensibile si era affermato il durevole piacere spirituale. Già allora
la scuola epicurea si era proposta di risolvere
mediante l’assunzione di uno sviluppo progressi vo il compito decisivo di derivare la cultura,
in tutta la sua ricchezza e grandezza, dai sentimenti del piacere e del
dispiacere sensibile. Ma solamente l’epoca moderna approntò strumenti scientificamente validi per la spiegazione
naturalistica dello sviluppo spirituale: la comprensione della vita spirituale
in base all'ambiente, la derivazione
della vita economica dagli interessi
dell'individuo, la derivazione della cultura intellettuale dal progresso
economico e infine la teoria dell'evoluzione, che consentì di porre a fondamento delle caratteristiche
intellettuali e morali degli uomini
l’accumularsi di trasformazioni minime avvenute
nel corso di smisurati spazi di tempo. L'ideale naturalistico quale fu
enunciato, al termine di un lungo sviluppo culturale, da Ludwig Feuerbach l’idea dell’uomo libero che in Dio, nell’immortalità e nell’ordine invisibile
delle cose riconosce i fantasmi delle
sue aspirazioni ha esercitato
un'influenza potente sulle idee politiche, sulla letteratura e sulla poesia. Prendiamo nuovamente le mosse dal fatto
dell’affinità tra un gran numero di
sistemi che, essendo fondata su una costituzione vitale e su una posizione nei
confronti del mondo, racchiude in sé la soluzione dei problemi inerenti al
mistero della vita secondo una
determinata tendenza, e in tal modo riunisce
questi sistemi in un secondo tipo di intuizione del mondo. I.
L’idealismo della libertà è una creazione dello spirito ateniese.
L'energia formatrice, plasmatrice, sovrana in esso presente diventa con Anassagora !, Socrate, Platone e
Aristotele principio di comprensione del mondo. Cicerone ha espresso con vigore
il suo accordo, il suo sentimento di affinità con Socrate e tutta la scuola
socratica della storia greca successiva. I grandi apologisti e padri della
Chiesa cristiana si trovano in un consapevole accordo sia con lo spirito
socratico sia con la filosofia romana. La scuola scozzese poggia completamente
sull’orientamento di pensiero di Cicerone ed è al tempo stesso consapevole
della propria comunanza con gli antichi scrittori cristiani. E proprio la coscienza di tale affinità collega
a questi scrittori precedenti Kant e
Jacobi !, Maine de Biran" e i filosofi francesi a lui imparentati fino a
Bergson. rt. Anassagora di Clazomene
(500 circa-428 a. C.), filosofo ionico, elaborò la teoria del nous, ossia
dell'intelletto divino che regola la mescolanza degli clementi i quali
costituiscono la realtà fisica, inserendo in essa un principio ordinatore: a
questa dottrina si riferisce esplicitamente Socrate, nel Fedone platonico. 12.
Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), autore di una seric di lettere
polemiche contro Moses Mendelssohn Uber
die Lehre des Spinoza (1785), traduttore di Bruno, claborò una
filosofia dell'identità
criticando sia Kant sia l’idcalismo post-kantiano. È una figura centrale nel dibattito sullo
spinozismo che caratterizza il pensiero tedesco verso la fine del secolo
xvi. 13. Frangois-Pierre Maine de Biran
(1766-1824), autore dell’Essui sur les fondeLa coscienza di tale affinità è
accompagnata da un'aspra polemica dei
rappresentanti di questo indirizzo contro il sistema naturalistico. La
coscienza della completa diversità dal naturalismo nella concezione della vita,
nell’intuizione del mondo e nell’ideale
ispira ognuno di questi pensatori, e si afferma con la massima intensità nei più profondi. Ma
anche l’opposizione al panteismo fu resa
sempre più consapevole da questo idealismo della personalità. Se il panteismo
greco più antico si era distaccato dalla
personificazione religiosa della divinità e dal
rapporto personale con essa, Socrate si oppose a questo panteismo, e la
filosofia romana dominante insistette sull’affinità con Socrate. Anche la più antica filosofia
cristiana si sente unita ai
rappresentanti dell’idealismo della libertà e della personalità in antitesi sia al naturalismo sia al panteismo.
La stessa posizione emerge nella
polemica della più tarda filosofia cristiana contro l’idealismo oggettivo di Averroè. Essa si
manifesta poi durante il Rinascimento
nella lotta di Giordano Bruno contro ogni
forma di filosofia cristiana e di quest’ultima contro il nuovo panteismo bruniano. A partire da questo
periodo essa prosegue poi nel conflitto
tra Spinoza e tutte le dottrine della personalità o della libertà, o tra
Leibniz e numerosi esponenti della dottrina della libertà, infine nelle lotte
tra Kant, Fichte, Jacobi, Fries e Herbart da un lato, Schelling, Hegel e
Schleiermacher dall'altro. Tutte le grandi polemiche filosofiche degli ultimi
secoli acquistavano un carattere appassionato in virtù del legame in cui le varie soluzioni autentiche
di un problema stanno con le diverse
intuizioni del mondo. Il conflitto di
Bayle! con Spinoza ha alla radice un’esigenza di libertà nei confronti del determinismo. Il conflitto di
Voltaire con Leibniz ments de la
psychologie (1812), del saggio Des rapports des sciences naturelles avec la psycologie (1813) e di numerosi altri
scritti tra cui il Journal intime,
pubblicato postumo è il capostipite
dello spiritualismo francese dell'Ottocento: la sua posizione esercitò una larga influenza sul pensicro
spiritualistico, fin verso gli inizi del nuovo
secolo. 14. Jakob Friedrich
Fries (1773-1843), autore di una Neue Kntik der Vernunfe (1807) e di numerose altre opere, in cui è
formulata un'interpretazione in chiave psicologica della filosofia
kantiana. 15. Pierre Bayle (1647-1706),
autore delle Pensées diverses sur la comète (1682) e soprattutto del celebre Dictionnaire
historique et critique (1695-97, 2° ed. 1702), fu una delle grandi fonti di ispirazione della
cultura illuministica francese, che da lui derivò il suo atteggiamento critico nei confronti
della tradizione e il ricorso all'analisi erudita si richiama a una presa di
posizione pratica della coscienza che
muove dall'uomo e che tende quindi in un primo luogo a garantire la libertà contro la metafisica
contemplativa fondata sull’intuizione
dell'universo. Rousseau contrappone con enorme
successo alle forme più diverse di naturalismo o di monismo una filosofia della personalità e della
libertà. La discussione tra Jacobi e
Schelling tocca i principali problemi che separano idealismo oggetttivo e
filosofia della personalità; e nessuna disputa
è stata mai condotta con tanta passionalità. Anche la polemica di Herbart contro la filosofia monistica
deriva la propria veemenza dalla convinzione che il monismo poneva in
questione le grandi verità del sistema
teistico, mentre egli si ergeva a
difensore della visione cristiana del mondo, che nelle sue radici più profonde è teistica. L’asprezza con cui
Fries e Apelt'‘ conducono la loro battaglia contro la speculazione monistica è
condizionata in egual misura dall’odio verso la deformazione delle scienze
sperimentali della natura compiuta da Schelling e da Hegel e dall’odio verso la
dissoluzione del teismo cristiano sotto il manto di una difesa del
Cristianesimo. De A questa coscienza di comunanza reciproca e
di antitesi, che rispettivamente unisce
tra loro i rappresentanti dell’idealismo
della libertà e li separa sia dall’idealismo oggettivo sia dal naturalismo, corrisponde l’effettiva affinità
tra i diversi sistemi di questo tipo. Il
legame che in questi sistemi tiene insieme
l'intuizione del mondo, il metodo e la metafisica consiste nel fatto che l’atteggiamento, che con sovrana
autosufficienza si contrappone a ogni
datità, contiene in sé l'indipendenza dello
spirituale da tale datità: lo spirito è consapevole della sua essenza
come distinta da ogni causalità fisica. Con profonda penetrazione etica Fichte
ha colto la connessione tra il carattere di un
certo gruppo di pensatori e l’idealismo della libertà, in antitesi a ogni sistema della natura. Questa libera
potenza dell'io si come strumento
critico. Dilthey si riferisce qui alla polemica con Spinoza, condotta nella voce
Spinoza del Dictionnaire. 16. Apelt (1812-1859), allievo c
continuatore di Frics, del cui pensiero diede un'esposizione nella Mezaphysik
(1857). trova quindi legata nel
rapporto con altre persone non già
fisicamente, bensì nella forma e nell’obbligazione morale; nasce così il concetto di un regno di persone in
cui gli individui sono vincolati da
norme e tuttavia interiormente liberi. A queste premesse è poi sempre connessa
la relazione degli individui liberi,
responsabili e interiormente legati in virtù della legge, nonché del regno delle persone, con una causa
originaria personale e libera. In base alla costituzione vitale ciò è fondato
sul fatto che la spontanea e libera
vitalità si scopre come una forza che
determina altre persone secondo la loro libertà, ma nel medesimo tempo avverte
che in essa stessa altre persone sono divenute una forza da cui essa viene
determinata in modo corrispondente alla propria spontaneità. Così questa vivente
forma di determinazione attiva e passiva diventa lo schema della connessione
universale in generale: essa viene per così dire proiettata nella stessa connessione
universale, la si ritrova in ogni
rapporto in cui sta il soggetto del pensiero sistematico, fino al più comprensivo. In tal modo la
divinità viene sottratta alla connessione
della causalità fisica e concepita come qualcosa che la governa come una proiezione della ragione che
pone scopi, fornita di potenza autonoma
nei confronti della datità. Anassagora e
Aristotele hanno determinato filosoficamente ed
espresso con precisione questo concetto di divinità mediante il rapporto della divinità con la materia.
Quest'idea di un dio personale acquista
la sua formulazione metafisica più radicale
nel concetto cristiano della creazione del mondo dal nulla, dal non-esistente; essa esprime infatti la
trascendenza della divinità rispetto alla legge causale, che regna nel mondo
naturale secondo la regola ex ni/tilo
nihil. La trascendenza di Dio rispetto alla coscienza del mondo, la quale
connette le sue verità in base al
principio di ragion sufficiente, viene poi giustificata criticamente da Kant: Dio è presente soltanto
alla volontà, che lo richiede in virtù
della sua libertà. Sorge così la
struttura comune a tutti i sistemi che rientrano in questo tipo di intuizione del mondo. Dal
punto di vista gnoseologico questo tipo si fonderà, non appena diventa
filosoficamente consapevole del suo presupposto, sui fatti della coscienza.
Nella metafisica questa intuizione del mondo passa attraverso diverse forme.
Essa compare dapprima nella filosofia attica
come concezione della ragione formatrice, che plasma il mondo della materia. La grande scoperta di un
pensiero concettuale e di una volontà
morale indipendenti dalla connessione naturale,
e della loro connessione con un ordine spirituale, costituisce in Platone il punto di partenza di tale
concezione, e anche in Aristotele ne
rimane il fondamento. Preparata dalla nozione
romana di volontà e dall’intuizione, anch'essa romana, di un rapporto di governo di Dio nei confronti del
mondo, si forma nel Cristianesimo la seconda concezione, cioè la dottrina della
creazione. Essa costruisce un mondo trascendente sulla base delle relazioni
esperite nell’atteggiamento del valore. I concetti di Dio propri della
coscienza cristiana sono il rapporto del padre con i suoi figli, il contatto
con Dio, la provvidenza come simbolo del
governo del mondo, la giustizia, la misericordia. Un lungo cammino è stato poi percorso da qui
fino al supremo raffinamento a cui tale
coscienza di Dio perviene nella filosofia
trascendentale tedesca. In un’asciutta ed eroica grandezza l’idealismo
della libertà costruisce qui come appare
nel mondo più compiuto in Schiller il mondo soprasensibile che esiste soltanto per la volontà, poiché è posto dal
suo ideale di un’aspirazione infinita.
4. Questa intuizione del mondo
possiede un fondamento universalmente valido nei fatti della coscienza. In
quanto coscienza metafisica dell’uomo eroico, essa è indistruttibile: si
rinnoverà sempre in ogni grande natura attiva.
Essa non può tuttavia definire e fondare il suo principio in maniera scientificamente valida. Anche qui si
mette però in moto una dialettica
incessante che procede di possibilità in possibilità, ma che è incapace di
pervenire a una soluzione del suo
problema. La volontà operante consapevolmente nella famiglia, nel diritto e nello stato fu sviluppata dal
pensiero romano in concetti di vita, e
questi vennero alla fine ricondotti a un’innata predisposizione verso la
condotta della vita. In tal modo la sicurezza della condotta della vita
poggiava su un elemento irraggiungibile
e indimostrabile. La regolarità dell’ordinamento della vita fu fondata su
presupposti innatistici, che tuttavia
potevano essere provati soltanto sulla base degli ordinamenti della vita, sulla base del reciproco accordo
dei popoli. In questo modo la filosofia romana della vita fondò il suo
idealismo della personalità. Su di esso
la coscienza cristiana determinò come
principio di tale punto di vista la trascendenza dello spirito, la sua
indipendenza da qualsiasi ordine naturale. Ma la trascendenza è soltanto
un'espressione simbolica della volontà nel sacrificio, nel procedere oltre il
nesso naturale della motivazione attraverso l’abbandono della vita, ossia della
forza di vivere in vista della realizzazione di un ordine di vita
soprasensibile. L'ideale del sacro vale come prova di se stesso, ma nessuna formula consente di elevarlo a
coscienza logica. Kant e la filosofia
trascendentale si proposero quindi di determinare e di fondare in maniera universalmente valida
questa volontà ideale. Si fece valere,
rispetto al corso del mondo, un elemento
indeterminato come norma suprema e supremo valore. Il tentativo falli.
Ma esso si rinnovò nell’idealismo personalistico francese, da Maine de Biran a
Bergson, e nella forma idealistica del
pragmatismo quale si presentò in James e nei pensatori a lui affini, nonché nella grande corrente della
filosofia trascendentale tedesca. La sua potenza è indistruttibile; cambiano
solamente le sue forme e i modi di dimostrazione. Questa potenza poggia su una costituzione vitale che prende
le mosse dall’uomo che agisce ed esige una regola salda per la posizione di scopi.
Schiller è il poeta di questo idealismo della libertà, così come Carlyle è il suo storico: Umiliato a servire un vile, Alcide viveva un tempo un'aspra dura vita in un’eterna guerra: contro l'Idra ebbe a lottare ed abbatté il leone, per liberar gli amici si gettò vivo dentro la barca del nocchiero dei morti. Ogni gravame, ogni tormento getta l'inganno della Dea implacata sulle
docili spalle dell’odiato, finché finisce il suo cammino finché, spogliato il
suo terreno involucro, il Dio fiammante sciogliesi dall'uomo e beve le sottili
aure dell'etere. Lieto del nuovo, insolito aleggiare si leva in alto, e la
visione cupa della vita terrena, cade e cade!?, Legati da una connessione
reciproca si presentano poi altri
sistemi che divergono dai due tipi finora descritti. Essi formano la
massa principale di ogni metafisica, si estendono per l’intera storia della filosofia, e il loro
stretto legame con i grandi fenomeni affini
della fede e dell’arte rimanda a un'intuizione del mondo che attraversa la
religione, la concezione artistica, e il pensiero metafisico. I.
Intendiamo determinare l'ambito in cui questo tipo si presenta
all’interno della metafisica. La massa centrale dei sistemi filosofici non può venir assegnata né al
naturalismo né all’idealismo della libertà. Senofane!, Eraclito, Parmenide e i
loro continuatori, il sistema stoico,
Giordano Bruno, Spinoza, Shaftesbury ', Herder, Goethe, Schelling, Hegel,
Schopenhauer e Schleiermacher tutti questi sistemi rivelano un tipo
chiara 17. Scuuter, Gedichte, Das Ideal
und das Leben, vv. 131-46 (tr. it. di G. A.
Alfero). e 18. Scnofane di Colofone, filosofo ionico
vissuto tra la scconda metà del secolo vi e l’inizio del secolo v a. C.,
critico della concezione antropomorfica della divinità: alcune testimonianze,
molto discusse, ne fanno il maestro di Parmenide e il fondatore della scuola
eleatica. 19. Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1671-1713), filosofo
inglese, autore dell'Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699), della Letter
Concerning Enthusiasm (1708), della Characteristics of Men, Manners, Opinions,
and Times (1711) e di numerosi altri
scritti, fu uno dei principali rappresentanti del deismo; elaborò la teoria del senso morale come base e criterio di
valutazione del comportamento umano. mente comune, che diverge completamente
dagli altri che abbiamo già esposti.
Essi sono reciprocamente legati da un rapporto di dipendenza e dalla più
definita coscienza della loro affinità. Lo stoicismo era consapevole della
propria dipendenza da Eraclito. Giordano Bruno ha utilizzato in un ambito più
vasto i concetti fondamentali degli Stoici; Spinoza è condizionato dallo
Stoicismo e dal complesso di idee filosofiche che aveva come centro Giordano
Bruno. In Leibniz la grande prospettiva spirituale del Rinascimento trova la sua espressione più
compiuta, in antitesi al rigido monismo spinoziano. Dopo la dissoluzione
delle forme sostanziali, nel
Rinascimento non viene più riconosciuta
alcuna realtà in mezzo tra la connessione divina e le cose particolari: il mondo è l’esplicazione di
Dio, che si è scomposto in esso nella forma di una molteplicità illimitata;
ogni cosa particolare rispecchia in sé
l’universo. Questa è anche la prospettiva di Leibniz. Se la sua dipendenza
dalla situazione intellettuale del tempo gli consente di concepire la divinità
come individuo, la dipendenza dalla sua
cultura teologica lo ha indotto a mettere in primo piano le relazioni con la
teologia: il panenteismo rimane la sua
intuizione fondamentale, e la nuova
grande idea del suo sistema è la concezione dell'universo come una totalità singolare in cui ogni parte è
determinata dalla connessione ideale di
significato del tutto. Tale sistema è interamente determinato dalla questione
del senso e del significato del mondo.
Il suo parente più prossimo è Shaftesbury, influenzato sia dallo Stoicismo sia
da Giordano Bruno. I grandi idealisti oggettivi tedeschi vivono nella sfera di
influenza di Leibniz, sono condizionati da Shaftesbury attraverso il
movimento poetico tedesco, in modo
particolare per il tramite di Goethe e
di Herder; e la loro dipendenza da Spinoza, in parte diretta, in parte mediata dal precedente movimento
letterario, è provata e può esser dimostrata in un ambito ancor più ampio.
Questi sistemi costituiscono così una
connessione storica non meno saldamente conclusa di quella del naturalismo e
dell’idealismo della libertà. Essi hanno sempre espresso nel modo più
deciso anche la loro antitesi verso gli
altri due tipi di intuizione del mondo. Con quanta durezza Eraclito giudica il
materialismo della plebel In quale netta opposizione lo Stoicismo si pone nei
confronti del sensismo epicureol Esso è però al tempo stesso consapevole, in
quanto rinnova l’ilozoismo, del proprio distacco da Platone e Aristotele.
Giordano Bruno ha condotto, con una passione senza pari, la lotta contro ogni
forma di visione cristiana del mondo e di ideale di vita cristiano. La stessa
passionalità irrompe in Spinoza, tra le catene delle dimostrazioni, in quelle
appendici stilisticamente libere che erano state originariamente composte in forma autonoma, come
manifestazioni della sua disposizione di
vita. Schelling e Hegel indirizzano manifesti e
pamphlets contro l’idealismo della libertà e in particolare contro Kant,
Fichte e Jacobi, in quanto filosofi della riflessione. Prescindendo
dall’invettiva di Schopenhauer, la critica di
Schleiermacher alla dottrina etica è fondamentalmente un unico grande scritto polemico contro l’etica
sensistica e contro la limitativa etica dualistica di Kant e di Fichte, in
favore dell’idealismo oggettivo. Se il
procedimento comparativo segue questi indizi, esso è in grado di riconoscere l'affinità dei membri
di questo gruppo, reciprocamente così
legati, e la struttura ad essi comune in
virtù della quale sono riuniti a formare un medesimo tipo di intuizione del mondo. La connessione di
princìpi che costituisce la struttura di questo tipo comprende una posizione
gnoseologico-metodologica della coscienza, una formula metafisica che contiene varie possibilità di formazione di
sistemi metafisici, e infine un
principio di formazione della vita. La
posizione gnoseologica-metodologica della coscienza nei confronti del mistero del mondo consisteva,
nella prima delle tre intuizioni, nel
passaggio dalla conoscenza delle uniformità
presenti nel mondo fisico a generalizzazioni che permettevano di subordinare anche i fatti spirituali a
questa legalità meccanica esterna. Per contro l’idealismo della libertà ha
trovato nei fatti della coscienza il
punto saldo per una risoluzione universalmente valida del mistero del mondo;
esso richiedeva l’esistenza e la possibilità di constatare determinazioni
universali della coscienza, non
ulteriormente risolvibili, che con forza spontanea producono la formazione
della vita e dell’intuizione del mondo nella materia della realtà esterna. Il
terzo tipo di atteggiamento gnoseologico-metodologico è completamente distinto
dagli altri due. Esso può venir rintracciato in egual misura in Fraclito come
nello Stoicismo, in Giordano Bruno come in Spinoza e Shaftesbury, in Schelling,
Hegel, Schopenhauer e Schleiermacher.
Esso è fondato infatti sulla costituzione vitale di questi pensatori. Diciamo che un
atteggiamento è di tipo contemplativo,
estetico o artistico quando in esso il soggetto si riposa, per così dire, dal lavoro conoscitivo
delle scienze naturali e dall’agire in riferimento ai nostri bisogni, agli
scopi che ne derivano e alla loro
realizzazione nel mondo esterno. In questo
atteggiamento contemplativo la vita del sentire, in cui la ricchezza
della vita, il valore e la felicità dell’esistenza vengono avvertiti anzitutto in modo personale, si
allarga in una specie di simpatia
universale. In virtù di tale ampliamento del nostro io nella simpatia universale noi riempiamo e
animiamo la realtà intera con i valori che sentiamo, con l’operare in cui
realizziamo la nostra vita, con le idee supreme del bello, del bene e del vero. Le disposizioni che la realtà
suscita in noi, le ritroviamo nuovamente in essa. E nella misura in cui
allarghiamo il nostro sentimento
particolare della vita nella partecipazione alla totalità del mondo e
avvertiamo la nostra affinità con tutte
le manifestazioni del reale, la gioia della vita si rinsalda e cresce la coscienza della propria forza. È
questa la costituzione dell’anima in cui
l’individuo si sente tutt'uno con la connessione divina delle cose e in tal
modo affine a qualsiasi altro membro di
questa connessione. Nessuno ha espresso questa costituzione dell'anima in modo
più bello di Goethe. Egli loda la
fortuna di poter sentire e godere la natura.
.. Né tu m’accordi appena il
freddo stupore d'un ospite ma, come nel cuore a un amico, mi dai di fissare nel
fondo del suo essere. Guidi davanti a me la schiera dei viventi e a riconoscere
m'insegni i miei fratelli fra piante mute, in aria c in acqua 2. 20. GoetHE,
Fasst (tr. it. di F. Fortini). Questa costituzione dell'animo trova la
soluzione di tutte le dissonanze della
vita nell’armonia universale delle cose. Il sentimento tragico delle
contraddizioni dell’esistenza, la disposizione pessimistica, l'umorismo che
coglie realisticamente la limitatezza e l’angustia opprimente dei fenomeni, ma
nella loro profondità scopre l’idealità vittoriosa del reale, sono soltanto
gradini che conducono alla percezione di una connessione universale di esistenza e di valore. La forma di apprendimento è nell’idealismo
oggettivo sempre la medesima: non già l’ordinamento dei casi secondo rapporti
di affinità o di uniformità, ma l’intuizione complessiva delle parti in un
tutto, l'elevazione della connessione della vita a connessione del mondo. Il
primo tra questi pensatori a riflettere sul suo procedimento filosofico fu a quanto ne sappiamo Eraclito. Egli ha avuto una profonda coscienza dell’atteggiamento
contemplativo e ha espresso la sua antitesi nei confronti del pensiero
personificante della fede, nei confronti della percezione sensibile che, presa da sola, egli tiene in scarso
conto e nei confronti della cosmologia scientifica. Il filosofo fa
oggetto della sua riflessione ciò che lo circonda da vicino, costantemente,
giorno per giorno, dove egli ritrova
dunque sempre le medesime cose. Essere
presente a ciò che ci accade: con questa espressione viene genialmente raffigurata la profonda
saggezza in virtù della quale i fenomeni del corso del mondo, evidenti agli
occhi della massa, diventano invece per
il filosofo autentico oggetto di stupore
e di meditazione. In base a questo atteggiamento contemplativo Eraclito concepiva il corso del
mondo come sempre identico come il
continuo fluire e la corruttibilità di
ogni cosa, ma anche come un ordine concettuale presente in ogni suo punto. In tal modo il sentimento
tragico del trascorrere incessante del tempo, in cui il presente è sempre e non
è più, si risolve ai suoi occhi nella
coscienza di una regolarità
nell'universo che permane in mezzo a tale fuga. Nello Stoicismo domina la stessa intuizione
dell’universo come un tutto di cui le cose particolari sono parti, c in cui
esse vengono tenute insieme da una forza
unitaria. Esso ha eliminato il rapporto di subordinazione dei fatti a unità
concettuali astratte, che prevaleva in
Platone e Aristotele; in luogo della relazione logica del particolare con
l’universale subentra, nel suo sistema,
il rapporto organico di un tutto con i suoi elementi cioè quella forma di apprendimento che Kant
ha posto in stretta relazione, come
intuizione del finalismo immanente della realtà organica, con la forma
dell’intuizione estetica. E dopo che
erano scomparse la sillogistica e la sisternatica scolastica
che avevano impiegato le forme sostanziali al servizio della teologia cristiana, per
fondare un mondo trascendentale le
medesime categorie di intuizione del mondo si presentano nel periodo di transizione
dal Medioevo all’età moderna: l’intero e le sue parti, l’individualità di
queste parti fino alle più piccole. Già in Nicola Cusano compare quella
finissima concezione estetica dell’universo secondo cui la cosa particolare, in quanto contrazione del tutto,
rispecchia in sé l'universo. Spinoza è
il rappresentante di questa dottrina dell’universo come uzità, e anche
l’intuizione leibniziana del mondo è
scaturita nonostante il suo concetto di
Dio, fondato sulla monadologia e
connesso con la sua tendenza teologica
da questa costituzione
dell’anima. La piena consapevolezza gnoseologica di tale atteggiamento
contemplativo si ha in Schelling,
Schopenhauer e Schleiermacher. L’intuizione intellettuale di Schelling, l'atteggiamento estetico
contemplativo, libero dal volere, di Schopenhauer in cui il soggetto non segue più le relazioni reciproche delle cose in base al
principio di ragion sufficiente, ma
coglie nei fenomeni ciò che ne costituisce l'essenza e infine la religione come intuizione e
sentimento dell’universo nei Discorsi di Schleiermacher: queste sono le
diverse forme nelle quali si esprimono i
vari aspetti del medesimo atteggiamento, che è proprio di questo tipo di
intuizione del mondo. Da tale atteggiamento deriva la formula
metafisica comune a tutta questa classe
di sistemi. Tutti i fenomeni dell’universo
sono duplici: da un lato, cioè nella percezione esterna, essi sono dati come oggetti sensibili e stanno, in
quanto tali, in una connessione fisica;
d’altro lato recano in sé, considerati per
così dire dall'interno, una connessione vitale che può essere rivissuta
nella nostra interiorità. Questo principio può essere quindi espresso anche come affinità di tutte
le parti dell’universo con il fondamento divino e tra di loro. Esso corrisponde
alla concezione di una simpatia
universale che nel reale, in ciò che si
manifesta nello spazio, avverte ovunque la presenza della divinità. La coscienza di quest’affinità è il
carattere metafisico fondamentale comune
alla religiosità degli Indiani, dei Greci e
dei Germani; e da essa deriva, nella metafisica, l’immanenza di tutte le cose
come parti di un tutto in un
fondamento universale e di tutti i valori in una connessione di significato che
costituisce il senso del mondo. La contemplazione, l’intuizione, che nella
propria vita rivive quella del tutto in
qualsiasi modo possa interpretarla
coglie nei fenomeni dati esternamente un’interna connessione divina. Da
questo medesimo atteggiamento sorge
infine di regola la concezione deterministica; qui il singolo si scopre
determinato dal tutto, e la connessione dei fenomeni viene concepita come
caratteristica interna, quali che siano
le determinazioni che vengono ad essa attribute. 4.
Ciò che è contenuto in questa formula dell’idealismo oggettivo come
costituzione della connessione del mondo, la religiosità, la poesia e la
metafisica lo esprimono tutte soltanto in modo
simbolico. Esso è assolutamente inconoscibile. La metafisica separa
soltanto aspetti particolari dalla vitalità del soggetto, dalla connessione vitale della persona,
proiettandoli nell’immensità come connessione del mondo. Ne scaturisce una
nuova incessante dialettica che conduce
di sistema in sistema finché, esaurite
tutte le possibilità, viene riconosciuta l’insolubilità del problema.
È questo fondamento del mondo volontà oppure ragione? Se lo determiniamo come pensiero, occorre
però una volontà perché qualcosa nasca.
Se lo si concepisce invece come volontà,
essa presuppone un pensiero che ne determini lo scopo. Volontà e
pensiero non si lasciano però ridurre l’uno all’altro. A questo punto la possibilità di pensare
logicamente il fondamento del mondo si arresta, e ciò che rimane è soltanto il
rispecchiamento in esso della vita mediante la mistica. Se si concepisce il
fondamento del mondo in maniera personale, questa metafora esige tuttavia di
essere delimitata da determinazioni concrete. Se invece si applica ad essa
l’idea dell’infinito, scompaiono di nuovo tutte le sue determinazioni, e anche
qui rimane soltanto l’impenetrabile,
l’inconcepibile, l’oscurità e la mistica. Se è fornito di coscienza, esso
ricade sotto l’antitesi di soggetto e oggetto; d° altra parte non possiamo
comprendere come qualcosa di inconscio possa produrre la coscienza che gli è
superiore; siamo nuovamente di fronte a qualcosa di inafferrabile. Non ci è
possibile pensare come dall’unità del mondo possa nascere una molteplicità, dall’eterno
qualcosa di mutevole: ciò è logicamente
inconcepibile. Il rapporto di essere e pensare, di estensione e pensiero non viene reso
comprensibile dalla parola magica dell’
identità . Così, anche di questi sistemi metafisici ciò che rimane è soltanto
una costituzione dell’anima e un’intuizione del mondo. Goethe ha dato l’espressione
più alta di questa intuizione del
mondo. Che sarebbe un Dio che agisse
soltanto dall'esterno, facesse rotare
intorno al dito l'universo! A Lui
s’addice di muovere il mondo dall’interno,
di albergare la Natura in Sé, Sé nella Natura, così che il mondo, che in Lui vive, vibra ed
è, mai senta mancanza della Sua forza,
del suo spirito %!. 21. GoetHE, Gort und IVelt, procmio, vv. 1-6 (tr. it.
di F. Amoroso). WINDELBAND nasce a
Potsdam. Frequenta dapprima l’Università di Jena, poi quelle di Berlino e di
Gòttingen, dedicandosi inizialmente a
studi storici e sviluppando in seguito i suoi
interessi sotto la duplice
influenza di Fischer e Lotze in
direzione della filosofia. Dopo aver conseguito il dottorato a Gòttingen con la dissertazione Die Lehren vom
Zufall (Berlin), Windelband ottiene
l’abilitazione a Lipsia con Über die
Gewissheit der Erkenntnis (Berlin), nel quale emerge chiaramente la sua
adesione al movimento neo-criticistico e, in particolare, all'interpretazione della filosofia in chiave
di teoria della conoscenza. Divienne professore a Zurigo, da dove si
trasferisce a Friburgo e dopo a Strasburgo. Viene chiamato a Heidelberg quale
successore di Fischer. La parte più cospicua della produzione di Windelband è
costituita da numerose opere di storia della filosofia, che hanno avuto larga
diffusione e risonanza anche al di fuori dei paesi di lingua tedesca. La prima di queste opere, Die Geschichte der
neueren Philosophie in ihrem Zusammenhange
mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wissenschaften (Leipzig, 1878-80;
tr. it. Firenze, 1925), rappresenta un modello di interpretazione
neocriticistica della storia della filosofia moderna, considerata come avente
il proprio centro nello sviluppo della teoria
della conoscenza. Il carattere specifico del pensiero moderno rispetto
a quello antico e medievale viene
individuato nel distacco dalla metafisica
e nello sforzo di pervenire a un'indagine critica; cosicché l'opera di Kant viene presentata come il punto di
confluenza dei suoi principali
indirizzi, ossia come la sintesi tra razionalismo ed empirismo.
Nella successiva Geschichte der
Philosophie (1889-92), poi ripubblicata con il
titolo di LeArbuch der Geschichte der Philosophie (Freiburg i.B., 1903;
tr. it, Firenze, 1910-12), si riflette
invece il passaggio dall’originaria prospettiva neocriticistica alla teoria dei
valori: il presupposto della centralità del
problema gnoseologico viene messo in disparte, e la filosofia si allarga
ad abbracciare una molteplicità di
problemi teoretici e pratici, studiati nel loro rapporto con la vita culturale
e con la vita politico-sociale. Lo
stesso vale per la Geschichte der alten Philosophie (Miinchen, 1883)
e per la monografia P/aton (Stuttgart,
1900; tr. it. Palermo, 1914). Negli
anni successivi al 1880 Windelband è pervenuto a elaborare, sulla base del richiamo a Kant, i presupposti
di quell’impostazione filosofica che
sarà indicata come teoria dei valori. Attribuendo alla filosofia il compito di determinare i
princìpi 4 priori che garantiscono la
validità del conoscere, egli li interpreta come valori forniti del
duplice carattere dell'universalità e
della necessità, ossia come valori incondizio
nati: in riferimento alla conoscenza, la filosofia si configura come
teoria critica in quanto si pone il
problema della validità del conoscere e
individua i valori su cui essa si fonda. Ma tale tipo di
considerazione non è limitato al campo
della conoscenza, bensì si estende anche alla
moralità e all'arte. In una serie di saggi raccolti col titolo di
Préludien (Freiburg i.B.-Tiibingen,
1883) e via via arricchita nelle successive edizioni (Tiibingen, 19027, 1907°,
1911*, 1914%; tr. it. Milano, 1947) Windelband delinea una concezione della
filosofia come ricerca e individuazione dei valori che costituiscono la norma
intrinseca dell'attività umana nei suoi diversi campi, distinguendo così la
validità normativa dei valori dalla validità empirica delle leggi naturali. Ciò
che è proprio dei valori non è l’esistenza di fatto, bensì il dover essere ; anche se non trovano una realizzazione empirica, non per questo i
valori cessano di valere
incondizionatamente. Essi fanno parte di una coscienza normale che si
colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, e
sul quale questa non può incidere. Il
compito della filosofia diventa perciò
quello di stabilire i valori che stanno a base rispettivamente del
conoscere, dell'agire e del sentire
secondo la tripartizione kantiana delle
facoltà umane. In questa prospettiva Windelband ha affrontato, nel discorso rettorale di Strasburgo Geschichte
und Naturwissenschaft (1894), il
problema della conoscenza storica; e l’ha affrontato in aperta polemica con Dilthey. Egli respinge infatti
la distinzione tra scienze della natura
e scienze dello spirito a causa del suo fondamento oggetti vo, e vi sostituisce una distinzione
puramente metodologica tra due gruppi di
discipline differenziate in base al loro orientamento conoscitivo: le scienze
nomotetiche, dirette alla determinazione di leggi generali, e le scienze idiografiche, rivolte alla
comprensione dell’individuale. In quanto
insieme delle scienze idiografiche, la conoscenza storica appare quindi caratterizzata dallo sforzo di
determinare la fisionomia individuale di ogni avvenimento, poco importa che
esso appartenga alla natura o all'ambito
dei fenomeni spirituali. Nell'ultimo
periodo della sua vita Windelband ha sviluppato le implicazioni metafisiche della teoria dei
valori, affiancando all'esigenza del
ritorno a Kant il richiamo alla visione storica del mondo elaborata dall'idealismo
post-kantiano. Nel volume Die Philosophie im deutschen Geistesleben des 19. Jahrhunderts (Tiibingen,
1909) e in alcuni saggi del 1908-10, poi
raccolti nei Pràludien, egli addita nell’orientamento storico dell'idealismo post-kantiano
l’eredità principale della filosofia dell'Ottocento, riprendendo su tale base
la polemica contro il naturalismo e
contro il tentativo di ridurre la storia a natura. Nell’Ein/eitung in
die Philosophie (Tiibingen, 1914) egli
formula la distinzione tra scienza
naturale e conoscenza storica da un altro punto di vista, cioè in
riferimento al rapporto tra realtà empirica e valori: la scienza naturale
si presenta come una conoscenza priva di
rapporto con i valori, mentre la
conoscenza storica diventa una conoscenza in relazione ai valori, dal
momento che la realtà storica è il terreno della realizzazione empirica dei
valori. Nella postuma e incompiuta
lezione di guerra sulla Geschicktsphilosophie
(Berlin, 1916), infine, il senso della storia viene definito in base all'idea
di umanità, kantianamente intesa come principio regolativo e quindi come postulato che deve consentire
la valutazione dei singoli avvenimenti.
Non esiste alcuna raccolta delle opere filosofiche di Windelband, né esse sono state ristampate in epoca recente.
Si dispone invece di ristampe aggiornate
dei manuali di storia della filosofia: il Lehrbuch der Geschichte der Philosophie (completato da H. Heimsoeth fin
dalla 13? ed., del 1935), è stato ancora
pubblicato dalla casa editrice Mohr, Tiibingen, 1957!, e così pure la Geschichte der abendlindischen
Philosophie im Altertum (a cura A.
Goedeckenmeyer), Miinchen, 1963.
Limitata è anche la letteratura critica sulla filosofia di
Windelband, spesso considerata insieme
con quella di Rickert. Tra gli studi in proposito segnaliamo i più
importanti: H. Ricxert, Wilhelm
Windelband, Tiibingen, 1915. A. Ruce, Wilhelm
Windelband, Zeitschrift fir Philosophie
und philosophische Kritik , CLXII, 1916-17, pp. 54-71 e 188-221. K. WieperHoLt, Wertbegriff und
Wertphilosophie, Erginzungshefte alle
Kantstudien , Berlin, 1920. B.
W. ScHescHicHs, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen Schule, Berlin, 1938. B.
JarowenKgo, Wilhelm Windelband: ein Nachruf, Prag, 1941. C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia
dei valori, Torino, 1949, e Napoli. I nomi hanno un loro destino di rado, però, strano come quello del
termine filosofia . Se ci rivolgiamo
alla storia chiedendo che cosa propriamente sia la filosofia, e ci guardiamo
intorno tra quelli che sono stati definiti, e ancora vengono definiti, filosofi , per sapere come concepiscono ciò
che hanno fatto e fanno, ne otteniamo
risposte così diverse e divergenti tra loro che sarebbe un'impresa disperata
voler ricondurre questa variopinta e
cangiante molteplicità a un’espressione semplice, e costringere la pienezza di
tali mutevoli fenomeni sotto un concetto
unitario ". Certamente un
tentativo di questo genere è stato compiuto
abbastanza spesso dagli storici della filosofia. Si è voluto prescindere
dalle particolari determinazioni di contenuto con cui ogni filosofo è solito porre già nell’esposizione del compito che si prefigge la quintessenza dei punti di vista che
ha acquisito. Si pensava di poter così
pervenire a una definizione puramente
formale, indipendente sia dal mutare delle intuizioni temporali e nazionali,
sia dall’unilateralità delle convinzioni
personali, e quindi adatta a comprendere tutto quanto è stato chiamato
filosofia . Ma sia che s’intenda designare la filoso a. Sulle definizioni della filosofia si veda
più particolarmente W. WinDELBAND, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie,
Tibingen und Leipzig, 4° ed. 1907, $$
1€2. * Was ist Philosophie? Uber Begriff und
Geschichte der Philosophie (1882), in
Pràludien, Freiburg i.B. und Tibingen, Akademische Verlag von ]. C. B. Mohr, 1884, Pp. 1-53 (traduzione di Sandro Barbera e
Pietro Rossi). fia come saggezza, o come scienza dei princìpi, o come dottrina
dell’assoluto, o come auto-conoscenza dello spirito umano, o in qualsiasi altra maniera, la definizione
rimarrà pur sempre troppo ampia o troppo
ristretta: sempre ci saranno formazioni
storiche che, indicate col nome di filosofia, non si lasceranno subordinare all’una o all’altra di quelle
determinazioni formali. Sarebbe inutile ripetere cose spesso dette ed esibire
le istanze negative (che è facile far emergere dalla storia) contro simili
tentativi. Vale invece la pena indagare con un po’ più di precisione i motivi
di questo fenomeno. È noto che, per ottenere una definizione valida, la logica
pretende l’indicazione del concetto di
genere prossimo superiore e dell’attributo specifico: entrambe le esigenze non possono però venir
soddisfatte in questo caso. Anzitutto si affermerà subito che il concetto
superiore nel quale rientra la filosofia
è quello di scienza. Sarebbe un’obiezione ben debole dire che nel nostro caso
la specie coincide talora completamente
col genere: così per esempio alle origini del
pensiero greco, dove appunto ancora non c’è che una scienza indivisa, o più tardi, in certi periodi,
quando la tendenza universalistica di un Descartes o di uno Hegel riconosce le
altre scienze soltanto nella misura in cui si lasciano
ridurre a parti della filosofia. Ciò
dimostra soltanto che il rapporto tra
questa specie e il genere non è costante; ma lascia inalterato il carattere della filosofia come scienza.
Tantomeno sarebbe possibile confutare la subordinazione della filosofia al
concetto di scienza con la dimostrazione
che nella maggior parte delle dottrine
filosofiche sono sempre presenti elementi e procedimenti non scientifici. Anche
quest’obiezione dimostrerebbe solo
quanto poco la filosofia reale abbia finora assolto il suo compito. Del
.resto la storia delle altre scienze offre fenomeni paralleli a questo, come l’epoca fabulatoria
della storia, la fanciullezza alchimistica della chimica o il fanatico periodo
astrologico dell'astronomia. Nonostante ogni imperfezione, quindi, la filosofia meriterebbe la qualifica di scienza
a patto di poter stabilire che tutto
quanto si definisce come filosofia vuole essere
scienza, e può anche con una
corretta esecuzione esserlo. Ma non accade così. Una simile subordinazione
sarebbe già problematica se si mostrasse
ed è possibile, anzi è stato mostrato
che i compiti che i filosofi si sono imposti non soltanto
occasionalmente, ma che hanno indicato come loro autentico fine, mai e poi mai possono essere risolti
per via di conoscenza scientifica. Se la
dimostrazione introdotta per la prima
volta da Kant, e da allora ripetuta in
mille varianti dell’impossibilità di una
fondazione scientifica della metafisica è giusta, tutte le filosofie di tendenza essenzialmente metafisica
escono dall’ambito della scienza ; e ciò colpisce seriamente non
fenomeni subordinati, ma proprio quelle vette della storia della filosofia i
cui nomi sono sulla bocca di tutti. I loro
poemi concettuali non possono
quindi venir sussunti sotto il concetto di scienza in senso oggettivo, ma
soltanto in senso soggettivo: essi si proponevano di compiere, e credevano di
aver compiuto scientificamente ciò che non si può affatto compiere
scientificamente. Ma neppure è possibile trovare tra i rappresentanti della filosofia l'universalità di questa
pretesa soggettiva, che cioè la
filosofia debba essere scienza. Per non pochi tra di essi, intanto, l'elemento scientifico vale al
massimo come mezzo, più o meno
inevitabile, per lo scopo vero e proprio della filosofia. Chi vede in
quest’ultima un’arte della vita come i
filosofi dell’epoca ellenistica e romana
non cerca più il sapere per il sapere, come invece conviene a una scienza.
Se poi al sapere scientifico si chiede soltanto un prestito, è del tutto
indifferente dal punto di vista della scientificità che lo si faccia per scopi politici, tecnici, morali, religiosi o di
qualsiasi altro tipo. Anche tra quelli che intendono la filosofia come
conoscenza, molti sono chiaramente
consapevoli che non possono acquisire tale conoscenza mediante la ricerca
scientifica: senza pensare ai mistici
(per i quali tutta la filosofia è illuminazione), quanto spesso si ripete nella storia la confessione che le
radici ultime di una convinzione
filosofica non devono essere ricercate in un procedimento dimostrativo di tipo
scientifico! Come ancoraggio a cui la
filosofia deve tenersi stretta, sopra le onde del movimento scientifico, viene indicata a volte la
coscienza con i suoi postulati, a volte la ragione come percezione di
un’insondabile profondità vitale, talora l’arte come organo della filosofia,
talora una comprensione di tipo geniale,
un’ intuizione originaria, talora una
rivelazione divina: Schopenhauer, l’uomo in cui molti contemporanei onorano il
filosofo par excellence, confessa più
volte che la sua dottrina non è stata acquisita, né può essere dimostrata, mediante un lavoro metodico, ma
prende forma soltanto davanti allo
sguardo d'insieme che solo riesce a dare
un’interpretazione complessiva ai risultati conoscitivi della scienza. La filosofia è quindi ben lungi dal poter
essere semplicemente subordinata al concetto di scienza, come spesso ci si
immagina, sviati da tendenze posteriori e definizioni consuete. Certamente il
singolo può ben costruirsi un concetto di filosofia che consenta tale subordinazione: ciò è accaduto,
accadrà sempre, e noi stessi vogliamo
tentarlo. Ma quando si considera la filosofia
come una formazione storica reale, quando si confronta tutto quanto è stato indicato come filosofia nei
movimenti spirituali dei popoli europei,
una sussunzione del genere non è consentita. La consapevolezza di questo fatto
si manifesta in varie forme. Nella storia della filosofia essa assume la forma
per cui, di tempo in tempo, riappaiono aspirazioni a elevare a scienza,
finalmente, la filosofia. A ciò si connette il fatto che, anche laddove vi sia
sempre conflitto tra indirizzi filosofici,
ognuno di essi mostra la tendenza a pretendere per sé solo il carattere della scientificità, negandolo alla
prospettiva avversa. La distinzione tra
filosofia scientifica e filosofia non scientifica è un'espressione di battaglia di cui da
sempre ci si compiace. Platone e
Aristotele hanno contrapposto la loro filosofia, in quanto scienza (èriotiUn), alla Sofistica
come opinione (865x) ascientifica e
piena di pregiudizi; e con un capovolgimento che si potrebbe quasi dire uno scherzo della
storia, oggi i rinnovatori positivistici
e relativistici della Sofistica tentano di contrapporre la loro dottrina, in quanto filosofia scientifica , a quelli che ancora accreditano la grande conquista della
scienza greca. Tra chi sta al di fuori
della mischia, non considerano scienza la
filosofia coloro che nella sua storia non vedono altro che la storia degli errori umani . Infine colui al
quale la superficiale presunzione del moderno enciclopedismo non ha ancora
fatto perdere il rispetto per la storia,
chi sta ancora pieno di stupore di
fronte alle grandi formazioni concettuali della filosofia, dovrà diventare consapevole
che non è sempre il significato scientifico della filosofia ciò a cui rende il
suo tributo, bensì qui l'energia di una più nobile intuizione della vita, là
l’artistica armonizzazione di idee
contrastanti qui l'ampiezza di
rappresentazioni di portata universale, là Ia forza ordinatrice del lavoro combinatorio del pensiero. In realtà i fatti storici esigono di
prendere le distanze da una
subordinazione così incondizionata della filosofia al concetto di scienza,
quale viene quasi ovunque ammessa. L’aperto
sguardo dello storico sarà piuttosto costretto a vedere in essa un
fenomeno culturale ramificato e proteiforme che non si lascia schematizzare o rubricare con semplicità.
Egli comprenderà che con quella usuale sussunzione si fa torto alla
scienza non meno che alla filosofia:
alla filosofia in quanto si costringe in
un ambito troppo stretto la sua aspirazione verso un ambito sempre più vasto, e alla scienza in quanto la
si rende così responsabile di tutto
quanto confluisce da molte altre fonti
nella filosofia. Anche ammesso
che si possa sussumere il fenomeno storico
della filosofia sotto il concetto di scienza e attribuire tutto quanto
vi si oppone all’imperfezione delle singole filosofie, sorge la questione non
meno ardua di come si debba distinguere, all’interno di questo genere, la
filosofia, in quanto specie particolare, dalle altre scienze. Anche a questa
seconda questione la storia e soltanto
di questa stiamo in definitiva parlando
non dà nessuna risposta universalmente valida. Le scienze possono
distinguersi in parte secondo i loro oggetti, in parte secondo i loro metodi;
ma in nessuna di queste due prospettive è
possibile rintracciare un segno distintivo permanente per tutte le manifestazioni storiche della
filosofia. Per quanto riguarda gli
oggetti, accanto a sistemi filosofici
che fanno oggetto della loro indagine tutto quanto esiste o perfino tutto quanto è possibile, ve ne sono
altri, altrettanto significativi, che delimitano strettamente il loro
campo d'indagine, per esempio ai fondamenti ultimi dell’essere e del pensiero, o alla dottrina dello spirito,
o alla teoria della scienza, e così via.
Interi campi del sapere che per l’uno sono,
se non l’unico, almeno il terreno principale dell’elaborazione filosofica, vengono invece dall’altro
espressamente esclusi dal dominio della
filosofia. Vi sono sistemi che non vogliono esser altro che etica; ve ne sono altri che,
delimitando la filosofia alla teoria della conoscenza, si propongono di
lasciare l’indagine dei problemi morali ed estetici alla storia dell’evoluzione psicologica e biologica. Vi sono sistemi in
cui la filosofia viene totalmente
risolta in psicologia; ve ne sono altri che tracciano uno scrupoloso confine rispetto alla
psicologia, considerata come una scienza empirica. Di molti filosofi
presocratici non conosciamo che
alcune osservazioni e teorie, che al giorno d’oggi releghiamo nella fisica,
nell’astronomia, nella metereologia
ecc., ma che nessuno designerebbe mai come filosofiche: nei sistemi successivi compare talora come
elemento integrante una propria visione
della natura: talora, invece, vien fatta una
rinuncia di principio ad essa. In ogni filosofia del Medioevo il centro di gravità dell'interesse sta in
problemi che sono oggi oggetto della
teologia; lo sviluppo della filosofia moderna allontana sempre più da sé, di secolo
in secolo, tali questioni. I problemi
del diritto o dell’arte rappresentano qui gli oggetti più importanti della filosofia; là si negava
invece la possibilità di una loro
trattazione filosofica. Tutta l’antichità, e anche la maggior parte dei sistemi metafisici
anteriori a Kant, non ha avuto sentore
di una filosofia della storia: oggi essa è diventata una delle discipline più
importanti. Da questa diversità degli
oggetti della filosofia risulta ora per lo storico una difficoltà non
irrilevante, e finora quasi mai trattata in linea di principio®: con quale
estensione e in quali limiti, cioè, egli debba assumere nella storia della
filosofia le dottrine e i punti di vista formulati da un filosofo, prescindendo
dal significato biografico che possono avere per la caratterizzazione della sua
personalità. Qui sembrano aprirsi soltanto
due vie pienamente coerenti: o si segue la storia in tutte le stranezze delle sue denominazioni e si lascia
che l'esposizione storica vaghi, allo
stesso modo dell’interesse filosofico,
da un oggetto all’altro, oppure si pone
a fondamento una determinata definizione della filosofia e in base ad essa si
compie la scelta e la distinzione delle
singole dottrine. Nel primo caso si paga
l’ oggettività storica con una
molteplicità sconcertante e a. Cfr. il
mio saggio Geschichte der Philosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts
(Festschrift fiv Kuno Fischer), Heidelberg. con la mancanza di connessione tra
gli oggetti; nel secondo caso l’unitarietà e la capacità di penetrazione così
acquisite poggiano sull’unilateralità con cui si impone come schema un
presupposto, determinato personalmente, nel movimento storico. La maggior parte
degli storici della filosofia hanno imboccato, senza rendersene conto (o anche
senza poterlo fare), una via di mezzo,
sviluppando le teorie di quei filosofi che si
addentrano nel dettaglio delle scienze particolari soltanto nella loro connessione di principio con il
complesso della dottrina e rinunciando
in misura maggiore o minore (secondo l'estensione del loro lavoro) a riprodurre la
realizzazione specifica. Siccome non
esiste per questo un criterio determinato, e nemmeno può esistere in una maniera che possegga una
validità universale di per sé evidente,
al posto di esso sono subentrati per lo più
l’arbitrio dell’interesse personale o l’accidentalità di una certa sensibilità.
Di fatto, per il modo con cui si configurano i rapporti storici, questa difficoltà non può essere
superata in linea di principio; essa viene
rammentata qui soltanto come conseguenza necessaria del fatto che non è
possibile stabilire in modo
universalmente valido l’oggetto della filosofia in base alla
comparazione storica. La storia dimostra piuttosto che nell’ambito in cui si può indirizzare la conoscenza non
vi è nulla che non sia già stato incluso
una volta nella filosofia, e così pure nulla
che non ne sia stato una volta escluso.
Tanto più comprensibile appare allora la tendenza a cercare il carattere specifico della filosofia non già
nell'oggetto ma nel metodo, e a ritenere
che la filosofia tratti bensì gli stessi oggetti delle altre scienze, ma con un
metodo suo proprio: di qui il fatto che essa respinge da sé determinati oggetti
inaccessibili al suo metodo, mentre deve esercitare una pretesa permanente di
possesso su altri, particolarmente appropriati al suo modo di procedere. Un
tentativo di tal genere compiuto su
larga scala da Wolff, che per ogni gruppo di oggetti della conoscenza
scientifica accostava una disciplina filosofica a una disciplina storica
(come si diceva allora: oggi si direbbe
empirica) può essere teoricamente
formulato molto bene come progetto. Ma
anch'esso non basta a una determinazione storica del concetto di filosofia per il semplice motivo che anche tra i
filosofi che assumono per la loro scienza un metodo particolare (e sono una
piccola parte) non c'è il minimo accordo riguardo a questo metodo filosofico . Non è quindi possibile
parla re con validità storica universale
di un particolare modo di trattazione
scientifica il cui impiego costituisca l'essenza della filosofia, né si può sostenere che tale
essenza possa trovarsi nell’aspirazione,
anche incompiuta, a questo metodo. Giacché
da un lato tutti quelli secondo cui la filosofia oltrepassa il lavoro scientifico non vogliono,
conseguentemente, saperne di un metodo
filosofico; d’altra parte proprio coloro che vogliono elevare a scienza la filosofia cedono molto spesso al desiderio
di comprimerla entro metodi di altre scienze sperimentati in campi particolari, per esempio entro i
metodi della matematica o dello studio induttivo della natura. Infine, laddove
si è imposto un metodo specifico della
filosofia, quanto esso è lontano dall’essere universalmente riconosciuto! Il
metodo dialettico della filosofia
tedesca appare ai più un capriccio stravagante e stupido; e se Kant credeva di aver stabilito
per la filosofia il metodo critico , gli
storici non si sono messi ancor oggi
d’accordo su ciò che voleva dire.
Queste osservazioni potrebbero essere tirate in lungo con un'infinità di esempi. Ma per quanto riguarda
il significato logico inerente a
un'istanza negativa, anche quando essa abbia
un'estensione minima, i casi qui menzionati bastano a dimostrare che è
impossibile qualunque sia la via
imboccata trovare mediante l’induzione
storica un concetto universale di filosofia che comprenda se non altro tutti i
fenomeni storici che vengono chiamati
filosofia. Se non è possibile sussumere
senza residui la filosofia sotto il concetto generico di scienza, tanto meno è possibile farlo rispetto ad
altri concetti generici di attività
culturali come l’arte o la poesia: bisogna perciò rinunciare alla possibilità di trovare per
via storica il concetto superiore
prossimo comprensivo della filosofia. Nessuno metterà in dubbio che ogni
filosofia è un prodotto spirituale, una formazione della rappresentazione; ma
nessuno vorrà considerarlo come un punto di vista in qualche modo utilizzabile.
Sembra che ai filosofi accada come a tutti gli individui umani che si chiamano
Paolo, e nei quali non è assolutamente possibile indicare un segno comune ir
virtà del quale essi recano tutti questo nome. Ogni denominazione si fonda
sull’arbitrio storico e può quindi
rimanere più o meno indipendente e distante dall’essenza di ciò che deve
denominare: così sembra valere, se si
considera l’intero corso temporale, anche per il termine
filosofia , poiché la comunanza della parola non corrisponde a
un’unitarietà dell'essenza da determinare concettualmente. Se ci si limita a
brevi periodi e a singoli ambiti culturali, si potrà forse trovare al loro
interno un significato costante connesso
col nome di filosofia: ma esso cessa di valere non appena si segue il termine nella sua
applicazione attraverso tutta la
storia. Certamente, questo risultato
della considerazione storica appare quanto mai preoccupante: se esso rimanesse
privo di integrazione, una storia universale della filosofia risulterebbe
priva di senso. Avrebbe, appunto, lo
stesso valore per tornare al paragone di prima del tentativo di scrivere la storia di
tutti gli uomini che si chiamano Paolo.
È chiaro allora che proprio a quei pensatori autonomi che hanno costruito un loro concetto di
filosofia rigidamente determinato, come Kant e Herbart, la consueta storia
della filosofia che doveva offrire
loro elementi così poco affini è rimasta estranea e antipatica, mentre le epoche di eclettismo (che non sanno
mai che cosa si debba propriamente
denominare filosofia) sono state anche quelle in cui più si è occupati
storicamente di filosofia. Se però la
riflessione storica deve mantenere un senso razionale, essa presuppone
(anche se non è in grado di mostrare un concetto universale di filosofia) che
il mutamento sperimentato nel corso dei
secoli dal termine filosofia non
significhi mero arbitrio e
accidentalità, ma anzi abbia un senso razionale e un valore specifico. Se nonostante le stranezze delle
digressioni individuali la storia del termine
filosofia è l’espressione di uno
sviluppo profondamente significativo nella connessione della vita culturale
dell'umanità europea, allora la storia di questo e dei fenomeni particolari in esso compresi
acquisisce un senso autonomo e fornito di valore non già malgrado, ma proprio
in virtù di questo mutamento di
significato. Del resto le cose non
stanno, di fatto, diversamente; e solo quando si è chiarita la storia del
termine filosofia si è anche in grado di determinare ciò che
nel futuro, aspirando a una validità più che individuale, possa essere
legittimato a portare questo nome. Dobbiamo ai Greci sia il termine sia il
primo significato di qriocepla. Divenuto
denominazione tecnica pare ai tempi di Platone, il termine significa
esattamente ciò che oggi noi Tedeschi
designamo col termine scienza * che, per
fortuna, è molto più comprensiva di quanto non lo sia la science dei Francesi e degli Inglesi. È il nome che
assume un bambino appena nato. Saggezza,
che si tramanda di generazione in generazione nella forma di antichissime
narrazioni mitiche; dottrina morale, espressione riflessa dell'anima popolare;
intelligenza pratica che, accostando esperienza a esperienza, agevola alla nuova generazione il cammino della vita;
conoscenze pratiche acquisite nella
lotta per l’esistenza in singoli compiti e nella loro soluzione, e accumulate col trascorrere
dei tempi in un potere e in un sapere
imponente tutto ciò è esistito da sempre in tutti i tempi. Ma la curiosità
dello spirito di cultura liberato dalla
necessità della vita, che nella nobiltà dell’ozio comincia a indagare per
possedere il sapere soltanto di per se
stesso, senza alcun scopo pratico, senza guardare all’edificazione religiosa o
alla nobilitazione morale, per trovare godimento in esso come valore assoluto e
completamente indipendente questo puro
impulso al sapere è stato sviluppato per
la prima volta dai Greci, che sono così diventati i creatori della scienza. Analogamente all’impulso al
gioco , essi hano no tratto fuori dagli intrecci delle rappresentazioni
mitiche, a. Non bisognerebbe mai dimenticare che nelle traduzioni sorgono
parecchi fraintendimenti quando si rende piXogopfa con filosofia , incorrendo così nel pericolo che
il lettore moderno intenda il termine nel senso attuale, assai più ristretto.
Basterà un esempio tra i molti. Un noto passo di Platone viene facilmente
tradotto nel modo seguente: La
sventura dell'umanità non avrà termine
finché i governanti non filosoferanno o i
filosofi non governeranno, ossia finché potere politico e filosofia non
coincideranno . È comodo sorridere sc per
filosofia si pensa alle
fantasticherie metafisiche e per
filosofi ai professori sprovvisti
di senso pratico e ai dotti solitari! Ma
si traduca correttamente; e quando allora si trova che Platone non ha preteso altro se non che
il governo stia nelle mani della cultura
scientifica, si vedrà forse come egli abbia profeticamente precorso, con quella massima, lo sviluppo della vita
europea. dalla dipendenza a bisogni etici e quotidiani l'impulso al sapere,
trasformando così la scienza, al pari dell’arte, in organi autonomi della vita
culturale. Nella nebulosità fantastica della natura orientale gli esordi
dell’impulso artistico e scientifico si rdono nel tessuto di una vita
complessiva indistinta: i Greci, come guide dell’occidentalismo, cominciano a distinguere
l’indistinto, a differenziare quanto è ancora embrionalmente non dispiegato e a
introdurre, per le supreme attività dell’uomo civile, la divisione del lavoro.
La storia della filosofia greca è così
la storia della nascita della scienza: tale è il suo senso più profondo e il suo significato intramontabile.
Lentamente l’impulso scientifico si svincola dai fondamenti generali in cui
è originariamente incapsulato; allora esso
si comprende, si esprime con fierezza e petulanza e infine giunge a
compimento producendo, in completa
chiarezza e in tutta la sua estensione,
il concetto di scienza. Dalla ricerca di Talete! sul fondamento primo delle cose fino alla logica di
Aristotele, è tutto un grande sviluppo tipico il cui tema è la scienza. Questa scienza si indirizza perciò a tutto
quanto può diventare oggetto del sapere, o sembra poterlo diventare:
abbraccia il Tutto, l’intero mondo della
rappresentazione. Ciò che l’impulso al sapere divenuto autonomo trova davanti a
sé come materiale per la propria attività nei racconti mitici del passato,
nelle regole di vita dei saggi e dei poeti, nelle conoscenze pratiche di un popolo di commercianti
impegnato in svariate attività tutto ciò è ancora così poca cosa che può
essere agevolmente riunito in una sola
testa ed elaborato con pochi concetti
fondamentali. Così, in Grecia la filosofia è scienza unica e indivisa. Ma il processo di differenziazione già
avviato deve necessariamente procedere. Il materiale cresce, e di fronte allo
spirito conoscente e ordinatore si
articola in diversi gruppi di oggetti,
che appunto perciò esigono una trattazione differenziata. La filosofia comincia a dividersi: le
singole filosofie si separano e ognuna di esse pretende ora per
sé sola il lavoro di una vita di un ricercatore.
Lo spirito greco entra nell'età delle scien
1. Talete di Mileto, filosofo ionico vissuto tra il secolo vil e il
secolo vi a. C., è tradizionalmente
considerato il punto di partenza della speculazione filosofica greca. ze
specialistiche. Se ora ogni disciplina assume il nome del proprio oggetto, dove
rimane il nome di filosofia? In un primo tempo esso si lega all’universale. Il
possente spirito sistematizzatore di Aristotele, in cui quel processo di
differenziazione ha trovato il suo compimento, creò tra le altre anche una
filosofia prima , cioè una scienza fondamentale
che detta anche, più tardi,
metafisica trattava della connessione
suprema e ultima di tutte le conoscenze. Qui tutti i concetti prodotti nei
singoli compiti della scienza si unificavano in
un quadro complessivo dell’universo, e per questa suprema funzione
onnicomprensiva fu quindi mantenuto il nome originario della scienza complessiva. Soltanto che, nello stesso tempo, comparve
un altro elemento che aveva la sua base non in un movimento puramente scientifico, ma in un movimento culturale
generale. Quella divisione del lavoro scientifico avvenne nell'epoca di
decadenza della Grecità. Alle culture nazionali
subentrò una cultura universale in cui la scienza greca costituiva sì un
vincolo essenziale, ma retrocedeva rispetto ad altre esigenze, oppure si
poneva al loro servizio. Dalla Grecità
si passò all’Ellenismo, dall’Ellenismo all’Impero romano. Si andava istituendo
un enorme meccanismo sociale, che divorava la vita nazionale con i suoi
interessi particolari, che contrapponeva l’individuo, come atomo effimero, a una totalità impenetrabile ed
estranea, che con l’acurizzarsi della lotta sociale costringeva infine il
singolo a rendersi il più possibile indipendente, e a preservare per sé il
massimo di felicità e di serenità,
sottraendolo al grande strepito, nella
quiete dell’esistenza individuale. Dove i destini del mondo esterno
passavano annientando interi popoli e potenti imperi, la felicità e il godimento sembravano rifugiarsi
nell’interiorità della persona, e così per tutti i migliori la questione della
giusta direzione da dare alla vita
personale divenne la più importante e
scottante. Di fronte alla vivacità di questo interesse si indeboliva il puro
impulso al sapere: la scienza veniva ancora apprezzata soltanto nella misura in
cui poteva servire a questo interesse, e quella
filosofia prima sembrava offrire
la sua immagine scientifica del mondo solo allo scopo di comprendere quale posizione spetta all’uomo nella connessione
universale, e come egli possa di
conseguenza indirizzare la propria vita. L’esempio tipico di questo movimento
lo vediamo nello Stoicismo. La subordinazione del sapere alla vita è il
carattere universale dell’epoca: per essa la filosofia è quindi arte di vivere
ed esercizio di virtù. La scienza non è più uno scopo in sé; essa è il più
nobile strumento di felicità. Il nuovo organo dello spirito umano sviluppato
dai Greci entra in uno stato di dipendenza destinato a durare a lungo. Col trascorrere dei secoli esso cambia
padrone. Mentre le scienze particolari
entrano al servizio dei singoli bisogni sociali tecnica, insegnamento, medicina,
legislazione ecc. la filosofia è
anzitutto quella scienza complessiva che deve insegnare come l’uomo possa diventare al tempo stesso
virtuoso e felice. Ma quanto più il
mondo perdura in questa situazione, quanto
più una sfrenata ricerca del godimento e la mancanza di convinzione
invadono la società, tanto più si frantuma l’orgoglio della virtù, tanto più il desiderio di
felicità dell'individuo appare privo di prospettive. Con tutto il suo splendore
e con tutto il suo desiderio di piacere
il mondo esterno si spopola, e sempre
più l’ideale si sposta dalla regione mondana in una regione trascendente, più alta, più pura. L'idea
etica si trasforma in idea religiosa, e
ora filosofia significa conoscenza di Dio.
L’intero apparato della scienza greca, il suo schema logico, il suo sistema di concetti metafisici sembra ora
destinato soltanto a fornire
un’espressione conoscitiva adeguata all’aspirazione religiosa e a una
convinzione piena di fede. Nella teosofia e nella teurgia che si trasmettono dagli agonizzanti
secoli di transizione alla mistica del Medioevo questo nuovo carattere
della filosofia emerge non meno di
quanto emerga nel duro lavoro
concettuale con cui tre grandi religioni tentarono di assimilare a sé la scienza greca. In questa forma, come
ancella della fede, la filosofia si
manifesta nei lunghi e difficili secoli di apprendistato dei popoli germanici:
l'impulso al sapere sì è fuso nell’impulso religioso e non ha, accanto ad esso,
un suo autonomo diritto. La filosofia è il tentativo di sviluppo scientifico e
di fondazione delle convinzioni religiose. Nell’emancipazione dal dominio
esclusivo della coscienza religiosa risiedono le radici del pensiero moderno,
che affondano profondamente nel
cosiddetto Medioevo. Anche l'impulso al
sapere si rifà libero, riconosce e afferma il proprio valore specifico.
Mentre le scienze specialistiche seguono, con compiti e metodi in parte nuovi,
la loro strada, la filosofia ritrova negli
ideali della Grecia il puro sapere fine a se stesso. Essa si
scrolla di dosso la finalità etica e
religiosa diventando di nuovo la scienza
complessiva della totalità del mondo, di cui vuole acquisire la conoscenza per
proprio conto e per se stessa, senza
appoggio estraneo. La
filosofia diventa metafisica in
senso stretto, sia che riproduca i sistemi dei grandi filosofi Greci, sia che
intenda poetizzare in una combinazione fantastica le nuove intuizioni offerte
dalle scoperte dell’epoca, sia che vada alla rigorosa scuola di una matematica
fornita di antica dignità eppure ancor giovane, sia che voglia cautamente
costituirsi con le conoscenze della
nuova indagine della natura. In tutti i casi
essa vuole fornire, indipendentemente dal conflitto delle opinioni
religiose, una conoscenza autonoma del mondo fondata sulla ragione naturale , e si contrappone così alla
fede in qualità di sapienza mondana
. Ma accanto a questo interesse metafisico
ne compare fin dall'inizio un altro, che
prende gradualmente il sopravvento.
Sorta in opposizione alla scienza tutelata dalla Chiesa, questa nuova filosofia deve anzitutto mostrare come
intenda produrre il suo nuovo sapere.
Essa procede da indagini sull’essenza
della scienza, sul processo del conoscere, sull’adattamento del pensiero ai suoi oggetti. Se questa tendenza
è inizialmente metodologica, assume però sempre di più il carattere di
teoria della conoscenza. Non indaga più
soltanto sulle vie, ma sui limiti della
conoscenza. E proprio l’antitesi, che ora si ripete e si approfondisce, tra i sistemi metafisici
suscita la questione se sia in generale
possibile la metafisica, cioè se la filosofia abbia un proprio oggetto, se abbia diritto a
esistere accanto alle scienze particolari.
E alla questione si dà risposta negativa! Il secolo che nella sua suprema fiducia nel sapere pensava di
padroneggiare la storia con la sua
filosofia il secolo xvi è quello che
riconosce e confessa che la forza conoscitiva dell’uomo non basta per abbracciare la totalità del mondo e
per penetrare i fondamenti ultimi delle
cose. Non esiste metafisica: la filosofia
ha distrutto se stessa. Che cosa può ancora significare il suo vuoto nome? Tutti i singoli oggetti sono
divisi tra le scienze particolari; la filosofia è come il poeta, giunto troppo
tardi alla spartizione del mondo.
Infatti l’attività di ricucitura dei risultati ultimi delle scienze
specialistiche è ben lungi dal costituire la
scienza dell’universo: essa è compito di una diligente compilazione o di
una combinazione artistica, non della scienza. La filosofia è come il re Lear,
che ha suddiviso tutto il suo tra i figli e ora è costretto a subire di farsi
gettare sulla strada come un mendicante. Però dove massimo è il pericolo,
l’aiuto è vicinissimo. Se è stato possibile dimostrare che la filosofia che
voleva essere metafisica è impossibile, con queste indagini è sorto un nuovo
ramo del sapere, il quale ha bisogno di
un nome. Anche se tutti gli altri
oggetti sono stati divisi senza residuo tra le scienze specialistiche e si è
dovuto definitivamente rinunciare a una scienza
dell’intuizione del mondo, quelle stesse scienze sono però un “forse uno dei più significativi, e
pretendono di essere oggetto di una
scienza specifica che stia con esse nello stesso rapporto in cui queste stanno con le cose.
Accanto alle altre scienze compare come
disciplina particolare e chiaramente determinata una zeoria della scienza. Se
non è una conoscenza del mondo che
riunisce tutti gli altri punti di vista, ora è però l’auto-conoscenza della scienza, l'indagine
centrale in cui tutte le altre scienze
trovano la loro fondazione. A questa
dottrina della scienza si trasmette il nome, divenuto privo di
oggetto, di filosofia: essa non è più la
dottrina della totalità del mondo o
della condotta della vita, ma è la dottrina del sapere non è
più una metafisica delle cose, ma è una
metafisica del sapere . Se si fa
attenzione al mutamento che si è così compiuto
attraverso due millenni nel significato del termine, appare chiaro che
la filosofia anche se non è mai stata
completamente scienza e, quando pur
voleva essere scienza, non si è costantemente rivolta al medesimo oggetto si è tuttavia mantenuta in una determinata relazione con la
conoscenza scientifica; e che questa è la cosa più importante il mutare di tale relazione dipende dal cambiamento di
valutazione, avvenuto nello sviluppo
della cultura europea, nei riguardi della conoscenza scientifica. La storia del
termine filosofia è la storia del
significato culturale della scienza. Non appena il pensiero scientifico
si rende autonomo come impulso del conoscere in vista soltanto del sapere, esso
assume il nome di filosofia; quando poi
la scienza unitaria si divide nei suoi rami, la filosofia diventa conoscenza
del mondo connettiva, conclusiva, universale.
Non appena poi il pensiero scientifico viene di nuovo ridotto a
strumento della riflessione etica e della contemplazione religiosa, la
filosofia si trasforma in arte di vita o in formulazione di convinzioni
religiose. Quando la vita scientifica ridiventa libera, anche la filosofia
ritrova il carattere di conoscenza autonoma del mondo, e quando comincia a
rinunciare alla soluzione di questo
compito si trasforma in una teoria della scienza. All’inizio scienza complessiva e
indifferenziata, nella differenziazione delle scienze particolari la filosofia
diventa in parte quell’organo che connette le operazioni di tutte le altre scienze in conoscenza complessiva, in parte
uno strumento al servizio di una
condotta di vita etica o religiosa, in parte infine l'organo nervoso centrale
in cui deve pervenire alla coscienza il processo vitale degli altri organi.
Dapprima identica con la scienza, la
filosofia è in seguito il risultato di tutte le
scienze particolari o la dottrina di ciò in vista di cui la scienza esiste, o infine la teoria della scienza
medesima. Sempre la concezione di ciò
che vien chiamato filosofia è caratterizzante
rispetto alla posizione che la conoscenza scientifica assume nella valutazione dei beni culturali di ogni
epoca. Sia che la si consideri come un
bene assoluto oppure soltanto come un mezzo in vista di scopi superiori, sia
che la si ritenga o no in grado di
comprendere il fondamento vitale ultimo delle cose, ciò si manifesta nel senso che di volta in
volta si collega col termine filosofia . La filosofia di un'epoca è il
termometro del valore che questa
attribuisce alla scienza: proprio perciò la filosofia appare ora essa stessa
come scienza, ora come qualcosa che
procede al di là di questa, e quando viene considerata come scienza, essa
abbraccia la totalità del mondo, oppure
è l'indagine sull’essenza della conoscenza scientifica. Quanto diversa è la posizione che la scienza assume
nella connessione della vita culturale,
altrettanto equivoca e multiforme è la filosofia; e da ciò si comprende che
dalla storia non si può ottenere nessun concetto unitario di essa. S'intende che questo sguardo d'insieme alla
storia del termine filosofia è una considerazione di massima che si
concentra sull’interesse principale delle diverse epoche e che non vuol negare né dimenticare il fatto che le quattro
tendenze particolari qui distinte scorrono parallele in tutti i periodi per
ognuno dei quali è stato abbozzato uno specifico significato complessivo di
filosofia . Già nella filosofia greca si fanno valere certe tendenze a trasformare
la filosofia in arte di vita o in critica della conoscenza; e d’altra parte
l'ideale di una conoscenza fine a se
stessa non è mai scomparso completamente dall’orizzonte dell'umanità europea. Ma le inclinazioni dei
singoli cedono il passo al predominio
della coscienza complessiva: perciò è soltanto possibile proporre una tale
considerazione di massima. Quanto però
gli individui procedano tuttavia per la loro strada, risulta particolarmente chiaro se si tiene
presente che nella nostra epoca si sono
ancor sempre rinnovate quelle quattro
concezioni della filosofia, dopo che erano state messe in ombra da quella più importante. Infatti non si è ancora presa in esame la
trasformazione più importante che la
filosofia ha subìto, ossia quella che si ricollega al nome di Kant. Essa si colloca
immediatamente dopo quella quarta fase,
in cui la filosofia si è configurata come
teoria della scienza. Che cosa vuol dire teoria della scienza? Rispetto ad altri oggetti teoria vuol dire la
spiegazione di dati fenomeni in base
alle loro cause e la determinazione delle leggi
secondo cui si compiono i processi causali del gruppo di fenomeni in
questione. Nel medesimo senso si concepiva prima di Kant anche il compito della filosofia: essa
doveva comprendere la scienza. Essa
doveva cioè spiegare l'origine delle rappresentazioni e mostrare le leggi
secondo cui esse si trasformano in
prospettive scientifiche, in concetti generali e in relazioni tra concetti fondate su giudizi. È del tutto
evidente che, se la filosofia viene così
intesa come una scienza che deve spiegare
geneticamente il pensiero scientifico, si risolve completamente in indagini sulle leggi di sviluppo dello
spirito: essa è allora per metà
psicologia individuale, per metà storia della cultura vale a dire quello che i Francesi chiamano
ideologia”. Essa 2. Il termine,
coniato da Destutt de Tracy negli El4ments d’idbologie (1801-4), designa quella corrente filosofica che,
richiamandosi a Condillac, ne sviluppa l’impostazione gnoscologica nel senso di
un'analisi del processo di formazione delle idee, dei loro rapporti e della loro combinazione.
mostra in base a quali leggi generali viene a formarsi, secondo una necessità
naturale, la certezza dell’individuo e il modo di rappresentazione dei popoli
civili. Da ciò si comprende la tendenza psicologica che caratterizza tutte le
manifestazioni significative della filosofia nel secolo precedente Kant. Questa
filosofia è quindi essenzialmente un'applicazione di conoscenze psicologiche e
storiche al concetto della scienza: essa si propone di spiegarla nello stesso modo degli altri fatti
spirituali. È però facile trovare che
tale trattazione, fondata sul procedimento delle altre scienze, non soddisfa
affatto lo scopo per cui si andava alla
ricerca di quella teoria della scienza .
Infatti il compito di una teoria del genere dovrebbe appunto essere non soltanto quello di distinguere e di
descrivere, tra l’intera massa delle
rappresentazioni e dei nessi delle rappresentazioni, quelle che sono di solito designate come
scientifiche, ma di mostrare perché
proprio a queste competa un valore di verità,
in modo che non solo vengano generalmente riconosciute di fatto come scientifiche, ma meritino di
essere riconosciute come tali. Si voleva
appunto sapere da che cosa dipende il
fatto che le conoscenze acquisite dalla scienza posseggono un valore necessario che oltrepassa la loro
origine accidentale, e in quale modo la
scienza debba procedere per assicurare ai suoi
risultati tale valore. Questo problema non può essere risolto indicando il processo conforme alle leggi
naturali attraverso cui viene prodotto,
negli individui o nella specie, ciò che pretende al titolo di scienza. Tale necessità naturale
di origine psicologica si ritrova infatti senza eccezione in tutte le
rappresentazioni e i rapporti tra
rappresentazioni; in essa non c'è mai un criterio per decidere sulla questione
del valore. Se la filosofia prekantiana trattava quindi sempre il problema
gnoseologico nel senso di cercare l’origine
delle rappresentazioni, e portava avanti il dibattito sulla questione se le
nostre conoscenze siano fondate, per quanto riguarda la loro origine,
sull’esperienza o su concetti innati, o
su entrambi (e secondo quali rapporti tra i
due termini), sul terreno di questa impostazione psicologica il problema non poteva mai essere deciso. Per la
psicologia può essere interessante
stabilire se una rappresentazione è sorta per
l'una o per l’altra via: ma per la teoria della conoscenza la questione
è soltanto se le rappresentazioni siano valide, cioè se possano essere
riconosciute come vere. La grandezza di Kant risiede proprio nel fatto che, con
un lavoro intellettuale indicibilmente arduo e complicato, si è elevato al di
sopra dei pregiudizi della filosofia della sua epoca fino al punto di vista
secondo cui per il valore di verità di una
rappresentazione è del tutto indifferente il processo naturale del suo pervenire alla coscienza. Il modo e la
maniera in cui, sulla base di leggi
psicologiche, perveniamo come individui, come
popoli, come genere umano alla produzione di determinate rappresentazioni e alla fede nella loro
correttezza, non decidono per nulla del loro valore assoluto di verità. Il
processo naturale del corso della
rappresentazione può, nell’individuo
come in tutti, condurre egualmente all’errore come alla verità; esso domina dovunque, e perciò la sua
indicazione non costituisce una prova della validità di certe rappresentazioni
in antitesi ad altre. Se in definitiva
anche Kant si è visto quindi costretto, nella
sua rinuncia alla precedente metafisica, a definire la filosofia come metafisica non delle cose ma del sapere,
per lui questa teoria della conoscenza
non era una storia dello sviluppo individuale o storico-culturale, e neppure
una teoria genetico-psicologica, bensì un’indagine critica. Poco importa come,
per quali motivi e secondo quali leggi
sono pervenuti alla coscienza,
nell’individuo o nel genere umano, quei giudizi per i quali si pretende una validità universale e
necessaria la filosofia non indaga la loro causalità, bensì la loro
fondazione: essa non è spiegazione, ma critica. Non è qui il luogo* di approfondire con
quali mezzi e in a. A. questo
proposito l’autore rimanda all’esposizione della filosofia kantiana, condotta dal punto di vista sopra
sviluppato, che è contenuta nella sua
Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig, 4° ed. 1907, vol. II. Per coloro che si occupano più da vicino di
questa difficile questione, aggiungo esplicitamente che la soluzione del
problema, i suoi presupposti e il suo
metodo devono essere tratti unicamente dalla Critica della ragion pura, mentre
i Prolegomeni espongono soltanto la storia della scoperta kantiana, cioè il
processo psicologico attraverso cui egli è stato condotto alla comprensione di
questa verità . Cfr. anche la mia
Geschichte der Philosophie. quale modo Kant abbia compiuto questa critica, o
mostrare come abbia faticosamente elaborato il nuovo principio per sottrarlo
agli intrecci di una considerazione psicologistica. Qui è sufficiente far
risalire in piena chiarezza il concetto assolutamente nuovo di filosofia che la
critica kantiana ha inaugurato. In quanto filosofia teoretica, essa vuol essere
soltanto un’indagine sulla legittimità
con cui si attribuisce a certe rappresentazioni e rapporti tra rappresentazioni
il carattere di una superiore necessità
e validità universale, che oltrepassano la necessità dell’origine empirica. Le
rappresentazioni vanno e vengono; come ciò avvenga, può spiegarlo la
psicologia: la filosofia indaga quale sia il valore che ad esse spetta dal
punto di vista critico della
verità. Questo principio, sviluppato
dapprima per la teoria della conoscenza
e nell’elaborazione del suo compito specifico, viene da Kant esteso con grande consequenzialità.
La conoscenza scientifica non è l’unico
campo della vita psichica in cui noi
distinguiamo tra i fenomeni
condizionati per quanto riguarda il loro processo causale in modo conforme a
leggi naturali quelli a cui si
attribuisce un valore necessario e universalmente valido e quelli in cui ciò
non avviene. Nel campo morale assumiamo
lo stesso valore, completamente indipendente dal modo di origine psicologica,
per valutare la bontà o la cattiveria
delle azioni, dei sentimenti e dei caratteri; nel campo estetico lo assumiamo
per valutare quei sentimenti particolari che, senza alcun riferimento a scopi
consapevoli o a interessi di qualsiasi
specie, caratterizzano il loro oggetto come gradevole o sgradevole. In entrambi
questi campi spetta quindi alla
filosofia il compito, del tutto parallelo al compito della teoria della conoscenza, di indagare la legittimità
di tali pretese. Anche qui non si tratta di una quaestio facti, ma di quaestio
iuris. In questa generalizzazione la
filosofia critica si manifesta
come la scienza delle determinazioni di valore necessario e universalmente validi. Essa indaga se esista
una scienza, cioè un pensiero che
possegga con validità universale e necessaria il valore della verità; indaga se esista una
morale, cioè un volere e un agire che
posseggano con validità universale e necessaria il valore del bene; indaga se esista un'arte,
cioè un intuire e un sentire che
posseggano con validità universale e necessaria il valore della bellezza. In
tutte queste tre parti la filosofia sta dinanzi al suo oggetto e quindi nella prima parte, quella teoretica,
anche dinanzi alla scienza non come le
altre scienze stanno di fronte ai loro oggetti particolari, bensì criticamente,
cioè in modo da sottoporre a esame il materiale effettivo del pensare, del
volere, del sentire in base allo scopo della validità universale e necessaria, e in modo da
escludere e da respingere tutto quanto
non regge a questo esame. In tal modo
per citare soltanto l’esempio più
eminente e più noto Kant dimostra che la metafisica nel vecchio senso
di scienza dell’intuizione del mondo non può essere stabilita con validità
universale, per quanto necessariamente l'impulso psicologico del sapere possa
condurre a ciò. È facile capire in
quale rapporto specifico, di comprensività
e tuttavia di completa trasformazione, questa nuova determinazione
concettuale della filosofia stia con quelle precedenti. Questa filosofia lascia
cadere completamente la pretesa di costituire
tutta la scienza; ma in quanto indaga nella sua parte teoretica i fondamenti su cui poggia la validità
universale di ogni pensiero scientifico, assume l’intero ambito delle scienze
come proprio oggetto. Essa lascia però a una scienza particolare alla
psicologia il compito di comprendere
la storia evolutiva e la conformità alle
leggi di questo suo oggetto, per indagare da
parte sua su che cosa si fonda il valore di verità delle
rappresentazioni, quale che ne sia l’origine. In quanto però estende questa sua critica a tutte le determinazioni
di valore universalmente valide dello spirito razionale, essa appare come
indagine generale sui valori supremi; e
se la trasformazione successiva del
senso del termine filosofia era caratterizzante del signiftcato
attribuito nelle varie epoche alla conoscenza scientifica, nella risposta complessiva alle questioni
critiche fornita con le sue tre grandi
opere Kant diede anche una formulazione totalmente nuova di questo interesse,
cioè una formulazione adeguata alle condizioni della cultura contemporanea
*?. Come si è già ricordato, molto
tempo doveva trascorrere prima che il
principio kantiano fosse inteso e pervenisse a un a. Si veda, in questo stesso volume, il
discorso su Kant [Immanuel Kant: zur
Sikularfeser seiner Philosophie, in Praludien. predominio esclusivo. Tra i suoi
successori Herbart è stato quello che vi si è maggiormente attenuto dal punto
di vista formale. Altri hanno immediatamente tradotto i suoi risultati in una
metafisica o in una scienza filosofica universale, le cui determinazioni ultime
essi dovevano poi, per esplicita ammissione, cercare in postulati etici o in
intuizioni estetiche. Molti hanno
pensato di limitare nuovamente la filosofia a una teoria della conoscenza, e la maggior parte di questi sono
ricaduti, o con indagini autonome o
riproducendo teorie del secolo xvni,
nella tendenza psicologica. Non sono mancate neppure le richieste di
ricondurre la filosofia a un’indagine esclusiva di ciò che ha significato per gli scopi pratici
della vita umana. Tutti questi
tentativi sottostanno all’uno o all’altro pericolo: essi negano il carattere
specifico della filosofia facendone o
una scienza in generale o una scienza delimitata in modo preciso
rispetto alle altre. Nel primo caso fanno della filosofia un romanzo
di concetti, nell’altro un ragù composto di rifiuti provenienti dalla psicologia e dalla storia
della cultura. La filosofia può rimanere o diventare scienza autonoma soltanto
se porta alle estreme conseguenze, con
pienezza e rigore, il principio kantiano. Senza quindi disconoscere la
mutevolezza storica del significato del
termine filosofia , senza rifiutare a nessuno il diritto di chiamare
filosofia ciò che gli aggrada, faccio
per l'appunto uso di questo diritto derivante dalla mancanza di un saldo
significato storico sulla base dell’analisi
storica sviluppata intendendo per
filosofia in senso sistematico, e non
storico, la scienza critica dei valori universalmente validi. La scienza dei valori universalmente validi
designa gli oggetti; la scienza critica
designa il metodo della filosofia. Sono
convinto che tale concezione non è che Ja realizzazione compiuta dell'idea
fondamentale di Kant. Ma non mi sarei
mai permesso di pretendere per questa definizione il nome di filosofia
se non potessi dimostrare in modo convincente indipendentemente dallo sviluppo storico, e
senza fare uso delle formule della
dottrina kantiana la necessità di
una scienza particolare del genere, in
cui il nome svolazzante di
filosofia possa trovare un solido
appiglio. Da quando Kant ha fatto stare
in piedi l’uovo di Colombo, non è difficile
ripetere il trucco. WILHELM
WINDELBAND 293 Tutte le proposizioni in cui esprimiamo i nostri punti di vista
si distinguono, nonostante l'apparente identità grammaticale, in due classi che
devono essere esattamente separate l’una dall’altra: i giudizi e le
valutazioni. Nei primi viene espressa la connessione tra due contenuti
rappresentativi, nelle seconde è
espresso un rapporto della coscienza giudicante con l'oggetto rappresentato. Vi è una fondamentale
differenza tra le due proposizioni questa cosa è bianca e questa cosa è buona ,
nonostante che la loro forma grammaticale sia del tutto identica. In entrambi i casi al soggetto
(secondo la forma grammaticale) viene attribuito un predicato; ma questo
predicato è in un caso in quanto
predicato del giudizio una
determinazione compiuta in sé, ricavata dal contenuto di ciò che è
oggettivamente rappresentato, nell'altro è
in quanto predicato della valutazione
una relazione che rimanda a una coscienza la quale pone uno scopo. In un
giudizio si esprime ogni volta il fatto
che una determinata rappresentazione (il
soggetto del giudizio) viene pensata in una relazione, diversa secondo le diverse forme di giudizio, con
un’altra determinata rappresentazione
(predicato del giudizio). In una valutazione,
invece, a un oggetto rappresentato nella sua completezza, e quindi presupposto come conosciuto (il
soggetto della proposizione valutativa), viene aggiunto il predicato della
valutazione, mediante il quale non si
accresce affatto la conoscenza del soggetto
in questione, ma si esprime il sentimento di approvazione o di disapprovazione
con cui la coscienza valutante sta in
rapporto con l’oggetto rappresentato. Tutti i predicati del giudizio sono quindi rappresentazioni
positive, le quali si riferiscono al mondo rappresentato come concetti di
genere, come qualità, attività, stati,
rapporti ecc. Una cosa è il corpo, che è
grande, duro, dolce ecc., che si muove, urta, si arresta, ne trascina altri ecc. Tutti i predicati della
valutazione sono invece espressioni dell'accordo o disaccordo da parte della
coscienza rappresentante: una cosa è
gradevole o sgradevole, un concetto è
vero o falso, un'azione è buona o cattiva, un paesaggio è bello o brutto ecc. È chiaro che una
valutazione non contribuisce affatto alla comprensione dell'essenza
dell’oggetto valutato. La cosa deve anzi
essere presupposta come nota, cioè come
compiutamente rappresentata, prima che abbia un senso dire di essa che è
gradevole, buona, bella ecc. E tutti questi modi di predicare della valutazione hanno senso soltanto
nella misura in cui si prende in esame
se l'oggetto rappresentato corrisponda o no a uno scopo in base al quale la
coscienza valutante lo concepisce. Ogni valutazione presuppone, come sua
misura, uno scopo determinato, e ha senso e significato soltanto per chi
riconosce tale scopo. Ogni valutazione compare quindi nella forma alternativa
dell’approvazione o della disapprovazione.
Il soggetto rappresentato della proposizione corrisponde o non corrisponde allo scopo, e per quanto diversi
siano i gradi di corrispondenza o di non
corrispondenza (cioè di contraddizione), e altrettanto diversi siano quindi i
gradi di approvazione e di disapprovazione, dev’esserci o accordo o disaccordo
se si vuol parlare in generale di una
valutazione conseguente. Questa
distinzione tra giudizi e valutazioni sarebbe meglio compresa nel suo significato fondamentale e
di ampia portata se non effettuassimo
sempre una particolare combinazione tra i
due elementi. I giudizi, cioè le connessioni puramente teoretiche tra
rappresentazioni, che si compiono in forme diverse, vengono formulati nel processo della rappresentazione comune
come nella vita scientifica solamente in
quanto viene ad essi accordato o negato
un valore che supera la necessità dell’associazione, conforme alle leggi
naturali, cioè in quanto vengono dichiarati veri o falsi, affermati o negati.
Nella misura in cui il nostro pensiero è
orientato verso la conoscenza, cioè
verso la verità, tutti i nostri giudizi sottostanno subito a una valutazione che esprime la validità o non
validità della connessione tra rappresentazioni compiuta nel giudizio. Il
giudizio puramente teoretico è dato
propriamente soltanto nella domanda o nel cosiddetto giudizio problematico, nei
quali si compie solamente un certo
collegamento tra rappresentazioni, ma non
ci si esprime sul loro valore di verità. Non appena un giudizio viene affermato o negato, insieme con la
funzione teoretica si è compiuta anche
quella di una valutazione dal punto di vista
della verità. A questa valutazione che si aggiunge al giudizio non diamo nessuna espressione linguistica
quando la valutazione è affermativa, poiché la tendenza al valore di verità
dei giudizi viene presupposta come ovvia
nella comunicazione, mentre la disapprovazione si esprime mediante la
negazione. Ogni asserzione cosiddetta affermativa (A è B) implica quindi
l’opinione che il giudizio, il quale connette le rappresentazioni A e B nel
modo espresso, deve valere come vero; e ogni asserzione negativa (4 non è B)
implica l’opinione che quel giudizio già espresso, o di cui si teme la
formulazione, dev'essere ritenuto falso. Tutte le proposizioni conoscitive
contengono quindi immediatamente una combinazione di giudizio e di
valutazione: sono connessioni tra
rappresentazioni del cui valore di verità si
decide affermando o negando?*.
La distinzione tra giudizio e valutazione è quindi della massima
importanza, poiché su di essa si fonda l’unica possibilità che ci è rimasta di determinare la filosofia
come scienza particolare, profondamente distinta dalle altre già in virtù
dell’oggetto. Tutte le altre scienze devono infatti stabilire un giudizio teoretico: l'oggetto della filosofia è
costituito invece dalle valutazioni. Le
scienze particolari devono, in quanto scienze storiche o descrittive, formare giudizi che
attribuiscano a determinati oggetti, dati all’interno dell'esperienza,
determinati predicati in parte
singolari e in parte costanti di
qualità, di stati, di attività, di
rapporti con altri oggetti; oppure, in quanto scienze esplicative, devono ricercare quei giudizi
generali da cui è possibile derivare, come casi specifici, tutte le qualità,
gli stati, le attività e le relazioni
delle cose particolari. Una scienza naturale descrittiva constata che a una
determinata cosa per esem a. Questa distinzione estremamente importante, anzi
fondamentale per la logica tra i due elementi del giudizio , appena sfiorata da Descartes nella quarta Meditazione e trattata
di sfuggita da J. F. Fries (Neue Kritik,
Heidelberg, 1807, vol. I, p. 208 sgg.), è stata recata a una precisa comprensione soltanto nella logica
moderna in virtù delle indagini sul
giudizio negativo di C. Stowart (Logik, Tiibingen, 1873-78, vol. I, $ 20), di R. H. Lotze (Logik, Leipzig, 1874, p.
61) e specialmente di J. BercMann (Reine Logik, Berlin, 1879, vol. I, p. 177
sgg.). Dal punto di vista psicologico ha
richiamato l’attenzione su di essa, anche se in forma barocca, F. Brentano
(Psychologie, Wien, 1874, vol. I, p. 266 sgg.). Sull'argomento si vedano i mici
Beitràge zur Lehre vom negativen Urteil, nelle
Strassburger Abhandlungen zur Philosophie: Eduard Zeller zu seinem stebenzigsten Geburstage, Freiburg i.B.
Tiibingen, 1884, pp. 165-95, e il saggio
Vom System der Kategorien, nelle Philosophische Abhandlungen, C. Sigwart zu seinem siebzigsten Geburtstage,
Tibingen. pio a una pianta o a un organismo psichico spettano questi o quei predicati, o in modo
costante o subordinatamente a certe condizioni; una scienza storica deve
accertare che singoli uomini o popoli si sono trovati in questi o quei
rapporti, hanno compiuto queste 0 quelle azioni, hanno vissuto questi o quei
destini. Una scienza esplicativa stabilisce col nome di leggi quei giudizi generali dai quali, nella loro
qualità di premesse maggiori, deriva
come conseguenza necessaria il corso dei mutamenti in cui le cose reali e le
loro situazioni stanno in rapporto reciproco di causa o effetto. Le scienze
matematiche, infine, formulano indipendentemente da qualsiasi evento temporale
giudizi generali sulla necessità intuitiva con cui le forme spaziali e numeriche stanno tra
loro in relazioni determinate. Tutti questi giudizi, per quanto siano
particolari in un caso e generali
nell’altro, per quanto variamente e diversamente si configuri il loro significato gnoseologico,
contengono connessioni tra rappresentazioni, cioè connessioni tra un soggetto
rappresentato e un predicato rappresentato, il cui valore di verità deve venir
determinato dalla scienza. In base al presupposto che ad alcuni dei giudizi
possibili si attribuisce la verità e ad altri no, le scienze cercano di
stabilire l'ambito complessivo di quanto dev'essere oggetto di affermazione, e
a tale scopo di negare con una
motivazione esplicita ciò che rischia di essere
affermato erroneamente. Esse compiono quindi nel campo del conoscere affermazioni e negazioni,
approvazioni e disapprovazioni, e nella loro articolazione estendono tale
attività a tutti gli oggetti accessibili
in generale alla comprensione umana. Da
questo punto di vista alla filosofia non rimane più niente da fare. Essa non
può voler essere né una scienza descrittiva, né una scienza esplicativa, né una
scienza matematica: trova tutti i gruppi
di oggetti già occupati dalle scienze particolari, che si riferiscono ad essi
in una di queste tre maniere, e
consisterebbe soltanto di prestiti se volesse, con scelta arbitraria,
abbracciarne qualcuno. Il compito della filosofia non può consistere nell’affermare o nel negare, come
fanno le altre scienze, giudizi in cui devono venir riconosciuti, descritti o
spiegati determinati oggetti. L'oggetto che ad essa rimane è costituito
dalle valutazioni. Ma anche nei loro confronti deve, se vuol essere autonoma,
porsi in un rapporto totalmente diverso da quello che le altre scienze hanno
con i loro oggetti. La filosofia non deve né descrivere né spiegare le
valutazioni: questo è compito della psicologia e della storia della cultura.
Ogni valutazione è la reazione di un individuo che vuole e sente di fronte a
un determinato contenuto rappresentativo.
È un processo della vita psichica che risulta necessariamente per un verso
dallo stato di bisogno, per l’altro dal
contenuto della rappresentazione. Ma sia
il contenuto della rappresentazione sia lo stato di bisogno sono a loro volta prodotti necessari del
movimento complessivo della vita, Come
tali essi devono venir compresi; e dal momento che non basta a spiegarli la
psicologia individuale poiché gli scopi e i bisogni in base a cui
l'individuo sottopone a esame il proprio
contenuto rappresentativo per approvarlo o
disapprovarlo sono per molti versi comprensibili soltanto in base al
movimento della società bisogna far
intervenire la storia dello sviluppo
della cultura umana per comprendere in
tutta la sua estensione l’origine conforme a leggi delle
valutazioni e per riconoscere le leggi
secondo cui procedono tali valutazioni.
La trattazione psicologica e storico-evolutiva delle valutazioni e della
loro conformità a leggi costituisce quindi di per sé un problema del tutto legittimo della scienza
esplicativa dello spirito. La scienza
esplicativa assolverebbe il suo compito soltanto in modo incompleto se si
arrestasse di fronte a questi fatti. In
base alle leggi psicologiche e ai movimenti dello spirito sociale è necessario spiegare in quale modo
le forme di valutazione riconosciute nella nostra coscienza comune siano
sorte attraverso il suo sviluppo
naturale, come noi abbiamo imparato a
distinguere il vero, il bene, il bello dai loro contrari, e come il modo e la maniera particolare in cui
effettuiamo tali valutazioni, cioè la configurazione specifica che abbiamo
assegnato a questi scopi supremi che
determinano la misura e il valore, siano
condizionati dalla necessità della nostra storia. Queste indagini corrispondono perciò a un compito
incontestabile della scienza: non
costituiscono una disciplina autonoma, ma devono essere messe insieme da vari capitoli della
psicologia e della storia della cultura.
Chi voglia chiamare filosofia queste combinazioni quanto mai interessanti come fanno fin dall’e 298 WILHELM WINDELBAND tà illuministica i filosofi
inglesi e francesi e come, imitandoli, è accaduto qua e là anche da
noi /adeat sibi: non intendiamo
discutere sui nomi. Però dobbiamo protestare in nome della filosofia tedesca
inaugurata da Kant se con tale denominazione si vuol importare anche da noi
l’opinione superficiale che non esista, al di là di questa storia dello
sviluppo psicologico e
storico-culturale, nessun compito scientifico superiore. La filosofia, quale noi la intendiamo, ha un
punto di partenza del tutto diverso. Tutte le valutazioni che si compiono negli individui e nella società sono prodotti
necessari della vita psichica. Da questo
punto di vista esse sono tutte egualmente
legittime: comunque siano apparse, hanno tutte una volta
apparse una causa sufficiente.
Senza di queste, infatti, non sarebbero
apparse. Come fatti empirici, quali vengono spiegati dalla psicologia e dalla storia evolutiva,
esse semplicemente esistono alla stessa stregua. Appartengono alla realtà
empirica e, come oggi ogni altra cosa, hanno cause sufficienti di esistenza e
le loro leggi di origine e di movimento;
sottostanno a tali leggi come gli
oggetti a cui le valutazioni si riferiscono e che, in quanto fatti empirici, sono sottoposti alla
stessa necessità naturale conforme a leggi. Le sensazioni e le rappresentazioni
con i sentimenti di piacere e dispiacere
che esse suscitano; le connessioni tra rappresentazioni insieme alla certezza
con cui vengono dichiarate vere o false; le determinazioni della volontà e
le azioni, come le valutazioni in virtù
delle quali vengono caratterizzate come buone o cattive; le intuizioni e i
sentimenti che le valutano come belle o
brutte tutto questo è, come fatto empirico dello spirito umano individuale o
generale, prodotto necessario di
condizioni e leggi date. Tuttavia e
questo è il fatto fondamentale della
filosofia siamo incrollabilmente convinti che, accanto a questa necessità
naturale che coinvolge tutte le
valutazioni e i loro oggetti senza eccezione, vi sono certe valutazioni le quali valgono in modo
assoluto anche se di fatto non
pervengono a un riconoscimento 0 per lo meno non pervengono a un riconoscimento generale.
Certamente ognuno pensa necessariamente
così come pensa, e ritiene vere le rappresentazioni sue o di altri perché tali
deve necessariamente ritenerle: tuttavia siamo convinti che di fronte a questa
necessità del ritenere vero, che si compie secondo una legalità naturale, vi è
wna determinazione di valore assoluta in base a cui si deve decidere del vero o
del falso, non importa che ciò accada o no di fatto. Noi tutti abbiamo questa
convinzione: infatti nella misura in cui dichiariamo vera una qualsiasi
rappresentazione in base al corso
necessario del nostro rappresentare, questa dichiarazione non significa altro
se non la pretesa che ciò debba valere
non soltanto per noi, ma per tutti gli altri. Non importa se tale pretesa venga soddisfatta nel caso
singolo, se sia giustificata nel caso singolo: ma è chiaro che la valutazione
delle rappresentazioni dal punto di
vista della verità presuppone un
criterio assoluto di questo genere, che deve valere per tutti. La stessa cosa vale per i campi dell'etica e
dell’estetica. Certamente ciò che uno giudica buono o cattivo da un lato, bello
o brutto dall’altro, è condizionato
secondo leggi dalla situazione culturale e dal corso della vita personale di
ciascuno; ma in entrambi i casi le
predicazioni in tal modo espresse implicano la pretesa di valere per tutti e di essere necessariamente
riconosciute da ognuno nello stesso modo. Per quanto queste valutazioni si
configurino in modo relativo nella loro realtà empirica, si elevano pur sempre alla pretesa di una validità assoluta,
e trovano il loro senso nel presupporre
la possibilità di una valutazione assoluta.
Sono questa pretesa e questo presupposto a distinguere le tre forme caratteristiche di valutazione che possiamo chiamare di valutazione logica, etica ed estetica da tutte le mille forme di valutazione in cui
si esprime soltanto il sentimento individuale di piacere o dispiacere per un
oggetto rappresentato. A chi prova piacere per un colore, a chi gusta una cosa
*, a chi prova gioia in un oggetto perché ne trae un qualche vantaggio non
capiterà mai, purché sia provvisto di buon senso, di pretendere che tutti gli altri facciano propria la sua
valutazione. La conformità alle leggi delle funzioni psicologiche comporta
certamente il fatto che in esseri
organizzati in modo eguale o analogo
tendano a comparire le stesse sensazioni, e con la stessa intensi a. Il modo di esprimersi abituale parla, con
la fluidità delle sue designazioni, anche di un gustare e di un odorare buono
o bello . È auspicabile che
nell’espresssione scientifica si eviti sempre questa negligenza. tà di
sentimento. Ma se, in virtù di qualche disturbo abituale o di una disposizione momentanea, questo o
quell’individuo diverge da questa
maniera generale di sentire, in ciò non vediamo una cosa degna di particolare
attenzione e non ce ne stupiamo affatto. Quanto più però risaliamo da queste
tonalità elementari del sentire ai sentimenti molto più vari e complessi di
piacere e dispiacere, che sono connessi a rappresentazioni composte di cose e
di rapporti tra cose, tanto più si restringe
senza che ciò ci meravigli o ci colpisca
l’accordo tra gli individui. La
molteplicità delle combinazioni non consente, nonostante l’identità conforme a
leggi dei processi fondamentali,
un'identità di risultati. Nessuno presuppone una validità universale per
i propri sentimenti di piacere o di dispiacere; nessuno pensa neppure che vi sia un criterio assoluto
con cui determinare per chiunque la valutazione del carattere gradevole
delle cose. Una pretesa siffatta non ha
senso, e un’edonistica, cioè una
dottrina del piacere, può essere soltanto un capitolo della psicologia e della storia evolutiva, mai una
disciplina filosofica. Chi addossa
quindi alla filosofia Ia responsabilità di decidere nella polemica tra
ottimismo e pessimismo, chi esige da essa
che pronunci un verdetto assoluto sulla questione se il mondo sia più adatto alla produzione di piacere che
di dispiacere o viceversa, costui
lavora supposto che proceda a un
livello superiore al dilettantismo in base all’illusione di trovare una determinazione assoluta per un campo in cui
nessun uomo ragionevole l’ha mai
cercata. Di una valutazione dell’universo
dal punto di vista edonistico si potrebbe infatti parlare soltanto se esistesse un metro di legittimazione per i
sentimenti soggettivi di piacere e dispiacere. Ma siccome questo manca, agli
ottimisti e ai pessimisti non rimane che mettersi a fare un calcolo approssimativo dei singoli sentimenti
empirici di piacere e di dispiacere e
una valutazione dei loro rapporti di quantità e di intensità, che è priva di qualsiasi base
solida. Se qualcuno vuol chiamare tutto
ciò filosofia, fabeat sibi; io lo considero una
scarica dell'impulso al piacere, che appartiene alla storia della patologia del pensiero umano?. a. Cfr. il mio Der Pessimnismus und die Wissenschaft, Der Salon. Una volta esclusa l’edonistica
rimangono soltanto tre forme di valutazione in cui la pretesa di universalità
si impone come elemento essenziale cioè
le forme caratterizzate dalle tre coppie di concetti del vero e del falso, del
bene e del male, del bello e del brutto. Vi sono dunque soltanto tre scienze
fondamentali propriamente filosofiche: la logica, l’etica e l'estetica. La psicologia * è una scienza empirica in
parte descrittiva e in parte
esplicativa; la metafisica nel vecchio senso di un sapere dogmatico concernente i fondamenti ultimi di
tutta la realtà è un’assurdità: invece
la teoria della conoscenza, la filosofia della natura, la filosofia della
società e della storia, la filosofia
dell’arte e la filosofia della religione sono legittimate solamente in quanto vengano trattate non in senso
metafisico ma in senso critico, dal
punto di vista di quelle tre scienze filosofiche fondamentali, come loro
ramificazioni, applicazioni o integrazioni.
In tutte e tre occorre quindi prendere in esame la pretesa della valutazione logica, etica ed estetica a
una validità universale. Bisogna osservare subito che a un’identica
impostazione problematica corrisponde
un’indagine metodologicamente identica e sistematicamente parallela per le tre
discipline; ma non per questo viene
minimamente condizionata o pregiudicata
un'identità del risultato e della risposta. Si potrebbe per esempio
pensare che la filosofia critica confermi il diritto della valutazione logica a una validità universale,
e che invece si veda costretta o a
respingere del tutto o a riconoscere soltanto
con limitazioni assai rilevanti la pretesa corrispondente in uno degli altri due campi. In questo caso il
campo in questione sarebbe totalmente abbandonato, proprio a causa della
mancanza di un criterio assoluto, alla
trattazione psicologica e storico-evolutiva. Ma poiché è presente la pretesa a
una validità universale, e poiché tale
pretesa non può venir presa in esame né dalla
scienza descrittiva né dalla scienza esplicativa, dev’esserci
assolutamente un'indagine filosofica, anche se questa dovesse portare a risultati semplicemente negativi. Anche chi
dovesse dunque pervenire con indagini critiche
o anche mediante una prevenzio a. Ho già
difeso la causa della completa separazione della psicologia dalla filosofia nella mia prolusione
zurighese Uber den gegenivàrtigen Stand
der psychologischen Forschung, Leipzig. ne più o meno chiara alla
convinzione che nell’uno o nell’altro di questi campi o anche in tutti e tre sono possibili sempre e soltanto valutazioni
relative (come avviene nel campo dell’edonistica) e mai valutazioni assolute,
sarebbe tuttavia costretto ad ammettere il fatto della pretesa a quest'ultime,
e pertanto a concedere la legittimità dell’impostazione filosofica. E solo di questo qui si tratta: non si
debbono anticipare i risultati della
filosofia. Se l’oggetto della filosofia
è così determinato, ci si domanda in che
cosa consista la critica a cui esso deve venir sottoposto, e quale sia il procedimento scientifico che la
rende possibile. Se qui si è sempre
parlato anzitutto della pretesa alla validità universale e alla necessità delle
valutazioni logiche, etiche ed estetiche,
occorre indicare con maggiore esattezza che questa validità universale non è una validità di
fatto e che la necessità non è necessità
causale. Chi è convinto della verità di un giudizio è di solito ben lontano dal
credere che questo giudizio sia
riconosciuto, o anche soltanto possa venir riconosciuto, da tutti. Nella nostra lotta per la verità,
l’universalità effettiva del riconoscimento è una prospettiva del tutto
esclusa. D'altra parte, per situazioni
culturali inferiori c'è senza dubbio una validità universale effettiva di rappresentazioni e di
modi di valutazione che sono manifestamente erronee e sbagliate.
L'importante non è quindi che tutti gli
esemplari della specie Homo sapiens
siano unanimi nel riconoscimento di un giudizio; e neppure è possibile trovare, attraverso un’induzione
comparativa delle valutazioni reali, una validità universale in senso
filosofico. Poiché cause identiche hanno effetti identici è possibile e accade
di fatto in mille modi che gli
stessi motivi provochino ovunque lo
stesso errore. Per la verità o la falsità di una rappresentazione è del tutto
indifferente il numero degli uomini che la riconoscono o la respingono. La
validità universale di cui qui si tratta non è una validità di fatto, bensì
ideale; non è una validità reale, ma una validità che dovrebbe essere. Lo
stesso discorso vale per la necessità di queste valutazioni. Causalmente
necessarie sono sia la pazzia sia la saggezza,
sia il peccato sia la virtù, sia il sentimento della bellezza sia
il suo contrario. Il sole della
necessità naturale splende sui giusti
come sugli ingiusti. La necessità con cui sentiamo la validità delle
determinazioni logiche, etiche ed estetiche è anch'essa una necessità ideale: non è una necessità
dell’essere costretti e del non poter altrimenti, ma del dover essere e del non
dover fare altrimenti. È quella necessità superiore che non si esaurisce
completamente nella necessità naturale a cui sono sottoposti il nostro
rappresentare, il nostro volere e il nostro sentire; è la necessità del dover
essere. Nessuna legge naturale costringe l’uomo a pensare, a volere e a sentire
nel modo in cui dovrebbe sempre pensare,
volere e sentire secondo la necessità logica,
etica ed estetical Se quindi la
filosofia deve stabilire i princìpi della valutazione logica, etica ed
estetica, non può limitarsi a chiedersi quali
determinazioni abbiano in questi campi una validità universale, oppure a indagare quali si facciano valere o
si siano fatte valere con una necessità
psicologica e storico-evolutiva. In nessuna di
queste due direzioni si può trovare un criterio di ciò che deve avere validità. La massa, o anche soltanto la
maggioranza, non è il tribunale di
fronte a cui si decide il valore assoluto, e
la dimostrazione delle cause del suo comportamento non è una fondazione della sua legittimità. D'altra parte nell’energia con cui il
singolo si attiene, contro un mondo che lo contraddice, a ciò che ha
riconosciuto per vero, buono o bello,
non si manifesta l’ostinazione dell’arbitrio
individuale ma un impulso della convinzione che in lui si è fatto strada qualcosa che dovrebbe valere per
tutti e di cui non può fare a meno.
Entro la necessità naturale del movimento
della storia umana, certamente, la difesa di questa convinzione può sembrare disperatamente analoga
all’illusione personale: lo scopritore
di una nuova verità, il riformatore della vita etica, il creatore di una nuova arte appare ai suoi
contemporanei e forse anche a molte generazioni di
posteri come un infatuato. Ma per quanto
sia difficile, anzi impossibile decidere nel
singolo caso quale dei due fenomeni sia presente in un dato momento, tuttavia noi tutti crediamo nella
possibilità di distinguere, noi tutti siamo convinti che anche se non sempre lo comprendiamo, e soprattutto se non lo
comprendiamo subito esiste un diritto
del necessario in senso superiore che dovrebbe valere per tutti. Noi crediamo
in una legge superiore a quella dell'origine naturale di tutte le nostre
valutazioni: crediamo a un diritto che ne determina il valore. Ho detto che
tutti ci crediamo. Non dimentico così quei teorici del relativismo che in tutte
queste determinazioni e convinzioni non vedono altro che prodotti necessari
della società umana? Ma essi non intendono presentare la loro teoria soltanto
come si trattasse di una semplice opinione; vogliono anzi provarla e dimostrarla. E che cosa significa
dimostrare? Significa presupporre che al di sopra della necessità del
movimento delle rappresentazioni c'è una
necessità superiore che tutti dovrebbero riconoscere. Chi dimostra il
relativismo, lo annienta. Il relativismo
è una teoria in cui nessuno ha ancora veramente
creduto, in cui nessuno potrebbe credere: è una fable convenue?. Perciò ovunque la coscienza empirica scopre
in sé questa necessità ideale di ciò che
deve valere universalmente, si imbatte in una coscienza normale, la cui essenza
consiste per no: nel fatto che noi siamo
convinti che essa debba essere reale, del
tutto indipendentemente dalla realtà che riveste nel dispiegarsi della
coscienza empirica, sottoposto alla necessità naturale. Per quanto ristretto
sia il grado e l’ambito in cui questa
coscienza normale penetra quella empirica e si fa valere all’interno di
essa, ciononostante tutte le valutazioni logiche, etiche ed estetiche sono costruite in base alla
convinzione che esista una coscienza
normale a cui dobbiamo elevarci se le nostre
valutazioni debbono pretendere una validità universale necessaria: una
coscienza normale che non vale nel senso del riconoscimento fattuale, ma che
dovrebbe valere e che perciò costituisce
non già una realtà empirica, ma un ideale in base a cui dev'essere commisurato il valore di ogni
realtà empirica. Le leggi di questa
coscienza in generale secondo
l’espressione kantiana non sono più
leggi naturali, che valgono in ogni
circostanza e secondo cui devono configurarsi i singoli fatti, ma sono invece norme, che devono
appunto valere e la cui realizzazione
determina il valore di ciò che è empirico.
a. Su questo, come su ciò che segue, si veda più particolarmente il
saggio Kritische oder genetische Methode?, raccolto in questo stesso
volume [Préludien. La filosofia non è
quindi altro che la riflessione su questa coscienza normale, l'indagine
scientifica intorno a quelle, tra le determinazioni di contenuto e le forme
della coscienza empirica, che rivestono valore di coscienza normale. Nella
coscienza empirica di un individuo, dei popoli, dell’umanità esse sorgono
necessariamente così come sorgono stupidità, abiezioni, mancanza di gusto: compito della filosofia è
di rintracciare, entro il caos dei
valori individuali o effettivamente universali,
quelli a cui inerisce la necessità della coscienza normale. In nessun caso è possibile derivare tale
necessità da qualcosa: la si può
soltanto indicare; essa non viene prodotta, ma solo recata alla coscienza. L'unica cosa che la filosofia
può fare è di lasciar scaturire questa coscienza normale dai movimenti
della coscienza empirica e di confidare
nell’evidenza immediata con cui la sua
normalità, non appena giunta a chiara coscienza, si mostra operante e valida in ogni individuo,
così come essa deve valere. Un principio
come il principio logico di non contraddizione, o un principio come il
principio morale della coscienza del
dovere, non sono dimostrabili. Nella vita reale delle rappresentazioni e
della volontà si può soltanto recarli alla coscienza, a una chiara formulazione, e occorre confidare che
in ognuno, purché si rifletta
seriamente, la coscienza normale si faccia valere e riconoscere con evidenza immediata. Non
potremmo più avere alcun rapporto logico
e scientifico con chi rifiutasse la validità
delle leggi del pensiero; non potremmo intenderci moralmente con chi rifiutasse qualsiasi dovere. Il
riconoscimento della coscienza normale è il presupposto della filosofia: è, in
astratto, il medesimo presupposto che
sta in concreto a fondamento di tutta la
vita scientifica, etica ed estetica. Ogni intesa su qualcosa che gli individui
debbono riconoscere al di sopra di sé come
norma valida, presuppone questa coscienza normale. La filosofia è quindi la scienza della
coscienza normale. Essa penetra la
coscienza empirica per stabilire in quali punti
emerga in questa tale validità universale normativa. È essa stessa un prodotto della coscienza empirica,
e non si contrappone a questa come qualcosa di proveniente dall’esterno; ma
poggia sulla convinzione costitutiva di
ogni valore della vita umana che in mezzo ai movimenti naturali della
coscienza empirica abbia una necessità superiore, e indaga i punti in cui
questa viene alla luce. Questa coscienza in generale è quindi un sistema di
norme che, come valgono oggettivamente, così devono pure valere
soggettivamente, e tuttavia soltanto in parte valgono nella realtà empirica
della vita spirituale dell’uomo. Solamente in
base ad essa si determina il valore del reale. Queste norme rendono pertanto possibile formulare
valutazioni universalmente valide per la totalità degli oggetti che vengono
conosciuti, descritti e spiegati nei giudizi delle altre scienze. La filosofia
è la scienza dei princìpi della valutazione assoluta. Non si incorrerebbe in
contraddizione se si sostenesse che questa coscienza normale è ciò che il
linguaggio popolare intende propriamente col termine ragione , cioè l'elemento
sovraindividuale che deve valere universalmente, e perciò si potrebbe chiamare la filosofia scienza della ragione.
Ma preferisco rinunciare a questa denominazione perché il termine ragione
è stato usato dai filosofi tedeschi con
significati così diversi che il suo
impiego in una definizione sarebbe equivoco e darebbe luogo a vari malintesi. La filosofia come scienza della coscienza
normale è essa stessa un concetto ideale
che non è realizzato e la cui realizzazione
come risulterà anche in seguito è
possibile solo entro certi limiti: le
fondamenta per la sua costruzione sono
state poste dalla filosofia kantiana. Ma dal punto di vista di questo concetto anche ciò che si chiama
storia della filosofia, e che dev'essere
trattato come tale, acquista subito un altro aspetto ben definito. La validità della coscienza normale come
misura assoluta di valutazione logica,
etica ed estetica sta sì, come presupposto
imprescindibile, a base di tutte le funzioni superiori dell’uomo e soprattutto di quelle che, in quanto prodotti
della cultura sociale, hanno come contenuto
la creazione e la conservazione di ciò
che sta al di sopra dell’arbitrio degli individui; ma si manifesta in primo luogo come impregiudicata
e ovvia subordinazione a una coscienza complessiva prodotta dal processo
necessario dell'anima del popolo. Soltanto in seguito alla scossa che questo subisce subentra la riflessione su
una misura ideale a cui tutti dovrebbero
piegarsi, e da tale riflessione si sviluppa la tendenza a elevarsi a questa
coscienza normale, a farla valere nella
coscienza empirica. Ma lo spirito umano non si identifica con questa coscienza ideale: esso sottostà
alle leggi del suo movimento naturale, e
soltanto a tratti conduce a un risultato
in cui si afferma l’evidenza immediata della validità normativa. Il processo storico dello spirito umano può
quindi essere considerato dal punto di vista secondo cui si è gradualmente
manifestata in esso in mezzo al lavoro
sui singoli problemi, al mutare dei suoi interessi, all’intreccio dei suoi fili
particolari la coscienza delle norme, e
secondo cui esso rappresenta, nel suo movimento progressivo, una penetrazione
sempre più profonda e comprensiva della coscienza normale. Nulla impedisce di concepire, in base a questa determinazione
del concetto di filosofia, la
progressiva consapevolezza delle norme come il
senso autentico della storia della filosofia. Questa è appunto una delle linee che, muovendo da un saldo
concetto della filosofia, si può ricostruire all’interno della storia, senza
però pretendere di abbracciare in tal modo tutto il suo contenuto così ramificato. Questa linea corre lungo le vette
che, sull’ampio sfondo delle altre
rappresentazioni, hanno raggiunto l’etere della coscienza normale, e designa
anche le più alte frastagliature dello
sviluppo storico-culturale. Infatti la riflessione sulle norme assolute è
semplicemente il prodotto di ogni attività culturale, e alla filosofia
rivendichiamo soltanto il compito di recarle
alla coscienza nella loro connessione e nella loro articolazione necessaria, attraverso una indagine
scientifica. Una storia della filosofia
di questo genere sarebbe quindi una
scelta che dovrebbe mostrare il progresso graduale in cui lo spirito scientifico ha lavorato alla
soluzione del compito che abbiamo qui
formulato. Perciò essa non cessa
affatto di essere una scienza empirica,
come dev'essere appunto ogni disciplina storica. Se si considera la
storia dal punto di vista di un compito da risolvere, allora si ha soprattutto il dovere di
indicare il processo causale attraverso
cui essa ha proceduto per fasi successive alla sua soluzione. I compiti non si realizzano da
soli; essi vengono realizzati. Anche le
determinazioni della coscienza normale a
cui il pensiero filosofico si innalza sono venute alla luce nel processo naturale del movimento storico del
pensiero, come determinazioni di contenuto della coscienza empirica. La storia
della filosofia deve cogliere questa loro origine empirica, senza pregiudizio del valore che ad esse
spetta quando sono penetrate nella coscienza empirica in virtù della loro
evidenza normativa ?. Perciò questa concezione non dev'essere interpretata nel
senso che essa statuisca per esempio
secondo la ricetta hegeliana una
misteriosa auto-realizzazione delle idee , in virtù della quale le mediazioni
empiriche appaiano come un accessorio non necessario. Nella conoscenza empirica
non abbiamo altro luogo in cui
trasportare le idee all’infuori delle teste degli uomini pensanti, e soltanto
in queste esse sono, se pervenute alla
coscienza, forze determinanti e operanti. La storia della filosofia non deve
considerarle come fattori, ma deve
spiegarle come prodotti. Il
principio che il filosofo trova diventa una forza operante nel movimento
empirico dello spirito solamente per il fatto che egli lo reca alla coscienza
come risultato del suo lavoro. Oppure il filosofo è forse qualcosa di
diverso che un uomo tra uomini? In
realtà non gli è concessa una forza di pensiero
di tipo differente da tutti gli altri; ed egli stesso lo dimostra nel modo migliore quando, con la
pubblicazione delle sue opere, esprime il desiderio di far pensare gli altri
come lui e procede pertanto nonostante l’intuizione intellettuale e
simili doti mistiche dall’assunzione che
gli altri debbano compie re, sotto la
sua guida, lo stesso suo movimento di pensiero. Ma le sue idee non sono sorte in modo diverso da
quelle degli altri. Come tutti quanti,
egli passa da una fanciullezza senza
idee a una lenta maturazione; dall'ambiente in cui è nato ed è stato educato assorbe conoscenze e punti di
vista che si fissano in lui come un
tesoro di verità originario, ed egli le arricchisce con la
propria ricerca e il proprio giudizio. Ma l’orizzonte di pensiero e la direzione d'interesse che
gli pongono le questio a. L'autore ha
cercato di trattare la storia della filosofia da questo punto di vista, abbozzato
nel 1884, nel suo LeArbuch der Geschichte der Philosophie. Si vedano, nella
quarta edizione (Tibingen und Leipzig, 1907),
l'introduzione e i paragrafi conclusivi, e inoltre il saggio Geschichte
der Philosophie, sopra citato. ni rimangono pur sempre tracciati in modo
inevitabile dalla somma complessiva di
ciò che ha fino a quel momento pensato e vissuto. Così dai lati più diversi,
dalle premesse più remote si forma come
avviene in ogni uomo una massa di
rappresentazioni spesso eterogenea ma fusa in tutte le direzioni, un sistema
psichico che tende, come sempre, all’unificazione. Ma invece di accontentarsi,
come avviene nella maggior parte degli
uomini, del compromesso superficiale tra le rappresentazioni più visibilmente
contrastanti, e invece di lasciarsi
imporre da una delle opinioni dominanti le linee più generali della concezione del mondo, il quadro delle singole
prospettive, l'individuo la cui attività designamo come filosofia è in grado di cercare mediante il proprio sforzo
di riflessione in virtù della situazione personale, delle doti
spirituali e dell’energia del carattere
una connessione unitaria delle sue rappresentazioni. Non si deve però
mai dimenticare che quest'attività di
ricerca è completamente condizionata in tutta la sua direzione e in tutta
l’estensione del contenuto rappresentativo, e quindi naturalmente anche nel suo
risultato, dall'intera massa del
materiale di pensiero già esistente. Nessun principio filosofico cade dal cielo o piove in grembo al filosofo,
ma è il risultato conclusivo della sua
molteplice attività di pensiero. Che nella
realizzazione definitiva di uno stato di equilibrio certe
rappresentazioni si dimostrino più potenti e significative di altre, è cosa ovvia; ma questa forza e questa
significatività competono ad esse 12
primo luogo anche soltanto nelle condizioni statiche di questo sistema individuale di
rappresentazioni. Se al filosofo è
capitato di trovare, con uno sforzo maggiore o minore, un principio unitario per disporre tutto il suo
materiale ideale, le varie parti di
questo materiale staranno però chiaramente in un rapporto assai diverso con esso. Alcune e soprattutto quelle che sono determinanti per cogliere tale
principio si connettono facilmente e
quasi per proprio conto all'immagine del mondo così costituita; altre si
dimostrano invece più o meno refrattarie. Infatti altre opinioni, che
provengono da regioni completamente diverse e hanno un aspetto del tutto
indifferente, devono a volte accettare di essere spostate e trasformate a
profitto di quel principio fondamentale; questo apre ora anche nuovi ambiti di rappresentazione e nuove
conoscenze; di fronte ad esse le vecchie idee vengono relegate sullo sfondo e,
se non soppiantate del tutto, almeno
parzialmente trasformate, continuando però a costituire il materiale su cui
soltanto può farsi 0 l’attività assimilatrice e trasformatrice della nuova
fora. Ma di rado vedremo un filosofo nella felice situazione di mr disporre tutto
il suo materiale rappresentativo in un’intima relazione uniforme con il
principio da lui scoperto; e tra le idee
contrastanti ve ne saranno sempre alcune che non cedono al nuovo principio, ma sono talmente radicate
nell’anima con la loro forza originaria
che ad onta della loro mancanza di relazione, o addirittura della loro
contraddizione rispetto a quel principio si conservano accanto ad esso e
pretendono, con non minore forza, un
posto spesso assai significativo nell’intuizione umana del mondo. Ne derivano
smagliature e spaccature nel sistema, ma esse sono superate e nascoste
nella certezza soggettiva del filosofo.
E quanto più energicamente egli cerca di
mantenere insieme le sue diverse convinzioni,
tanto più lo vedremo incline a cedere all’illusione di considerarle in
accordo laddove in realtà non lo sono affatto né possono diventarlo, oppure a ipotizzare tra di esse
una connessione che mai, per la loro
stessa natura, possono acquisire. Si spiega così l’eterogeneità degli elementi che, in numero
più o meno grande, si trovano in ogni
sistema filosofico in un’antitesi altrimenti incomprensibile rispetto al
cosiddetto principio fondamentale. Anche la caratteristica circostanza che
proprio in questi punti i filosofi siano
soliti insistere nel modo più rigido
sulla necessaria omogeneità di concezioni disparate, risulterà comprensibile se riflettiamo che soltanto le
convinzioni intimamente legate con la personalità del filosofo possono
mantenersi indipendenti dal principio
appena scoperto, e che un sentimento di certezza altrettanto salda fonde ora
insieme rappresentazioni altrimenti diverse, di modo che ne viene straordinariamente
rafforzata la capacità di scoprire, sotto la spinta di questo interesse,
passaggi e connessioni apparenti. Ma tutte queste mancanze di connessione e queste
contraddizioni con i loro artificiosi
intrecci non potrebbero esistere se un sistema filosofico crescesse in modo
organico fin dall’inizio completamente
indipendente, in base all'impulso del suo principio fondamentale. Esse
sono invece del tutto comprensibili se abbiamo chiaro il fatto che il
molteplice materiale ideale, prodotto e trasmesso dai lati più diversi, deve raccogliersi e
fissarsi nella testa del filosofo molto tempo prima che questi abbia anche soltanto
pensato alla ricerca del suo principio; e che quindi tale principio deve
compiere più tardi, nell’assoggettare a sé il materiale preesistente, un lavoro
di difficoltà assai diversa e talora completamente insolubile. La concezione
teleologica della storia della filosofia dal punto di vista della soluzione
successiva di un compito espresso in un
saldo concetto di filosofia è quindi una considerazione che è giustificata in quanto tale, ed è forse
necessaria e auspicabile nell’interesse
della filosofia così determinata. Ma essa non costituisce di per sé sola tutta
la storia della filosofia. La storia è
constatazione empirica e spiegazione empirica. Se anche nei confronti di tale oggetto questo compito deve
mantenere la sua purezza, esso richiede
una trattazione psicologica e storico-culturale. D'altra parte, però occorre metterlo ancor più in risalto di fronte alle inclinazioni e alle tendenze
attuali la filosofia ha l’interesse più vivo a saper conosciuto e
riconosciuto il fatto che questo processo
naturale ha condotto, in virtù della riflessione sulla coscienza normale, a
convinzioni che non esistono semplicemente come ne esistono anche altre e che
non sono pervenute a validità soltanto perché tale è stato il risultato del
corso delle rappresentazioni, ma che
posseggono l’assoluto valore di dover
avere validità. Non bisogna dimenticare che questo prodotto della necessità
naturale si identifica con una necessità
superiore, quella normativa. Il
movimento empirico del pensiero umano conquista alla coscienza normale, l’una dopo l’altra, le sue
determinazioni. Noi non sappiamo se esso
arriverà a un termine; ancor meno
sappiamo se la successione storica, in cui ci appropriamo di alcune di queste determinazioni, abbia un
significato che indichi una loro connessione interna. Per la nostra conoscenza,
la coscienza normale rimane un ideale di
cui riusciamo a cogliere soltanto il
margine. Il pensiero umano può soltanto o, come
scienza empirica, comprendere il singolo dato nella sua connessione causale
e nella sua determinatezza fornita di valore, oppure, come filosofia,
riflettere, con l’aiuto dell’esperienza, sui princìpi evidenti di una
valutazione assoluta. Una comprensione completa della totalità della coscienza
normale da un punto di vista scientifico ci è negata. Nell’ambito della nostra
esperienza traluce a tratti l’ideale; e se dobbiamo essere convinti della
realtà di una coscienza normale assoluta, ciò riguarda la fede personale, non
più la conoscenza scientifica. È un prezioso privilegio del rettore quello di
poter intrattenere gli ospiti e i colleghi nell’anniversario della fondazione
dell’università, su un oggetto tratto dall’ambito della disciplina di cui egli
si occupa: ma il dovere che corrisponde a tale privilegio crea particolari
preoccupazioni al filosofo. Certamente, gli è relativamente facile trovare un
tema che possa contare con sicurezza su
un interesse generale. Ma su questo vantaggio
prevalgono di gran lunga le difficoltà che comporta il modo specifico di indagine della filosofia. Ogni
lavoro scientifico è rivolto a collocare
il suo oggetto particolare in un ambito più
vasto e a decidere le singole questioni sulla base di prospettive più generali. E fin qui la filosofia si
comporta come le altre scienze; ma,
mentre queste possono considerare, con una sicurezza sufficiente per l'indagine
specialistica, tali principi come saldi
e dati, alla filosofia è essenziale il fatto che il suo specifico oggetto di
ricerca è costituito appunto dai princìpi stessi e che quindi non può derivare le sue
decisioni da qualcosa di più generale,
ma deve di volta in volta determinarsi nel modo
più generale. Per la filosofia in senso stretto non esiste alcuna indagine specialistica: ogni suo problema
particolare estende spontaneamente le
sue direttrici fino alle questioni ultime e
supreme. Chi vuol parlare filosoficamente di cose filosofiche deve avere sempre il coraggio di prendere
posizione in modo complessivo, e deve
anche avere il coraggio, difficile da conser
* Geschichte und Naturwissenschaft (discorso rettorale tenuto
all'Università di Strasburgo, 1894), in
Pràludien, Tiibingen, Verlag von J. C. B. Mohr, 3° cd. 1907, PP. 355-379 (traduzione di Sandro Barbera e
Pietro Rossi). vare, di condurre i suoi uditori nell’alto mare delle
riflessioni più generali, dove la
terraferma minaccia di scomparire alla vista.
Da tali riserve il rappresentante della filosofia potrebbe sentirsi
tentato o a tracciare soltanto un quadro storico della sua disciplina o a
trovare rifugio nella particolare scienza empirica che gli indirizzi e le
consuetudini accademiche ancora gli assegnano
la psicologia. Anch’essa offre una quantità di oggetti che toccano
chiunque e la cui trattazione promette un bottino tanto più sicuro quanto più vari sono i punti
di vista metodologici e oggettivi che il vivace movimento di questa
disciplina ha recato in luce negli
ultimi decenni. Ma rinuncio a entrambe
le vie d’uscita: non voglio né sostenere l’idea che non esiste più filosofia ma soltanto storia della
filosofia, né quell’altra secondo cui la
filosofia come Kant l’ha nuovamente
fondata potrebbe restringersi
nell’angusta cornice della scienza specialistica il cui valore conoscitivo è
quello che Kant stesso stimava di meno tra le discipline teoretiche. In
un'occasione come l'odierna mi sembra
invece doveroso testimoniare che, anche
nella sua forma attuale di rifiuto di ogni pretesa metafisica, la filosofia si sente all’altezza di quelle
grandi questioni a cui deve non soltanto
il contenuto significativo della sua storia, ma
anche il suo valore nella letteratura e la sua posizione
nell’insegnamento accademico. Così il rischio insito nel compito mi stimola a illustrare con un esempio
quell’impulso dell'indagine filosofica
per cui ogni problema specifico si allarga fino agli enigmi ultimi della visione umana del mondo e
della vita, e a mostrare qui la
necessità con cui ogni tentativo di recare a intelligenza piena quanto è
apparentemente noto con chiarezza €
semplicità ci spinge, rapidamente e inarrestabilmente, fino ai confini estremi della nostra facoltà
conoscitiva, circondati di oscuri
misteri. Se a questo scopo scelgo un
tema tratto dalla logica, e in
particolare dalla metodologia, dalla teoria della scienza, è perché
penso che in questo modo possa venire in luce in modo particolarmente chiaro e comprensibile
l’intima connessione tra il lavoro
filosofico e il lavoro delle altre scienze. La
filosofia non è mai stata né vive estranea alla scienza in un mondo inventato col pensiero, ma è esistita e
sussiste in un ricco scambio reciproco con ogni conoscenza vitale della
realtà e con tutti i contenuti di valore
della vita reale dello spirito. Se la sua storia è stata la storia degli errori
umani, il motivo risiede nel fatto che essa assumeva in buona fede come
compiute e certe, dalle teorie delle scienze particolari, ciò che anche
all’interno della scienza poteva valere al massimo come verità in divenire.
Questa connessione vitale tra la filosofia e le
altre discipline appare nel modo più chiaro proprio nello sviluppo della
logica, che non è mai stata altro se non la riflessione critica sulle forme di conoscenza reale ad
essa preesistenti. Mai un metodo fecondo
si è sviluppato sulla base di una costruzione
astratta o di riflessioni meramente formali dei logici: ad essi spetta soltanto il compito di recare alla sua
forma universale ciò che è stato
eseguito con successo nelle singole scienze e di determinare in tal modo il suo significato,
il suo valore conoscitivo e i limiti della sua applicazione. Da dove la logica
moderna ha preso per menzionare
l'esempio più eminente in antitesi con la sua progenitrice greca, la
rappresentazione matura dell’essenza
dell’induzione? Non dall’enfasi programmatica con cui l’ha raccomandata e
scolasticamente descritta Bacone, bensì
dalla riflessione sull’efficace applicazione che questa forma di pensiero ha
ottenuto dai tempi di Keplero e di
Galilei nel lavoro specifico della ricerca naturale, raffinandosi e rafforzandosi da un problema particolare
all’altro. Sulle medesime connessioni
riposano però ovviamente anche i
tentativi della logica moderna di tracciare, nel dominio del sapere umano sviluppatosi in modo così vario,
linee concettualmente determinate al fine di delimitarne le singole
province. Il mutevole predominio
esercitato negli interessi scientifici dell'età moderna dalla filologia, dalla
matematica, dalla scienza naturale,
dalla psicologia, dalla storia, si rispecchia nei diversi abbozzi di un sistema delle scienze, come si
diceva una volta, o di una classificazione delle scienze , come viene
chiamata oggi. Gran parte di responsabilità spetta alla tendenza universalistica che, disconoscendo
l’autonomia dei singoli campi del sapere, voleva sottoporre tutti gli oggetti
alla costrizione di un unico metodo, di
modo che per l’articolazione delle
scienze restavano soltanto punti di vista oggettivi, cioè metafisici.
L’uno dopo l’altro il metodo meccanicistico, il metodo geometrico, il metodo
psicologico, il metodo dialettico, e da ultimo il metodo storico-evolutivo
hanno preteso di ampliare il loro dominio, dallo stretto campo della loro
feconda applicazione originaria, possibilmente a tutto l’ambito della
conoscenza umana. Quanto più grande appare il contrasto di queste diverse
tendenze, tanto più cresce per la riflessione della teoria logica il vasto
compito di realizzare una giusta ponderazione di quelle pretese e una separazione equilibrata
dei loro ambiti di validità attraverso
le determinazioni universali della dottrina
della conoscenza. Grazie a Kant si è compiuta la differenziazione
metodologica della filosofia dalla matematica e, nelle linee generali, anche dalla psicologia. Da allora
il secolo xix ha sperimentato accanto a
una certa paralisi dell’impulso filosofico, all’inizio sovraeccitato, una più
varia molteplicità di tendenze e di movimenti nelle scienze particolari:
nell’appropriarsi di numerosi problemi
di specie nuova l’apparato metodologico si è
modificato da tutte le parti, estendendosi e raffinandosi in misura
prima sconosciuta. Intanto i diversi procedimenti si sono variamente intrecciati tra di loro, e nel
momento in cui ognuno di essi pretendeva una posizione dominante nella visione
del mondo e della vita dei nostri giorni, per la filosofia teoretica sorgevano
nuove questioni. Su tali questioni, senza pretendere affatto di esaurirle,
intendo attirare la vostra attenzione. Non occorre quasi menzionare il fatto
che le divisioni alle quali qui miro non
possono riflettere l’articolazione che Ie scienze trovano nella separazione
delle facoltà universitarie. Questa è
infatti sorta dai compiti pratici delle università e dal loro sviluppo storico. Lo scopo pratico ha spesso
unificato ciò che da un punto di vista
puramente teoretico doveva essere separato, e
ha staccato ciò che doveva essere strettamente unificato: lo stesso motivo ha mescolato per vari versi le
discipline propriamente scientifiche con quelle pratiche e tecniche. Non si
deve però pensare che ciò sia andato a
tutto detrimento dell’attività
scientifica. Piuttosto, le relazioni pratiche hanno anche qui avuto la
conseguenza di provocare uno scambio tra i diversi campi del sapere più ricco e vitale di quello
prodotto nel caso delle più astratte
combinazioni di un materiale omogeneo, quali avvengono nelle accademie.
Tuttavia i mutamenti che gli ordinamenti delle facoltà delle università
tedesche hanno subito negli ultimi decenni, in modo particolare per quanto
riguarda quella che una volta era la
facultas artium, indicano una certa tendenza ad attribuire un'importanza
maggiore ai motivi metodologici di articolazione. Se si seguono questi motivi con un interesse
soltanto teoretico, si può anzitutto assumere come valido il fatto di
contrapporre la filosofia e quindi, come
sempre, anche la matematica alle scienze
empiriche. Le prime due possono essere raccolte sotto il vecchio nome di
scienze razionali , anche se in un significato del termine assai differente e
che non si può qui discutere più da
vicino. Basti per ora esprimere il loro carattere comune in forma negativa,
dicendo che non sono indirizzate
immediatamente alla conoscenza di qualcosa che è dato nell’esperienza,
anche se le prospettive da esse acquisite possono e debbono essere impiegate a tale scopo nelle
altre scienze. A questo momento
oggettivo corrisponde, dal lato formale, un
comune carattere logico, in quanto entrambe la filosofia
come la matematica non poggiano
mai le loro affermazioni su singole
percezioni o su masse di percezioni, anche se l’occasione di fatto,
psico-genetica, delle loro indagini e delle loro scoperte può risiedere in motivi empirici.
Per scienze empiriche intendiamo invece
quelle che hanno il compito di conoscere
una realtà comunque data e accessibile alla percezione: la loro caratteristica formale consiste quindi nel
fatto che per la fondazione dei loro risultati hanno in ogni caso bisogno,
accanto ai presupposti assiomatici
universali e alla correttezza del normale
procedimento di pensiero parimenti richiesta per ogni tipo di conoscenze, di una constatazione dei fatti
attraverso la percezione. Per la
divisione di queste discipline dirette alla conoscenza del reale è attualmente corrente la
distinzione tra scienze della natura e
scienze dello spirito: io la considero però, in questa forma, poco felice. Quella tra natura e
spirito è un’antitesi oggettiva che è
pervenuta a una posizione predominante al
tramonto del pensiero antico e agli inizi di quello medievale, e che nella metafisica moderna si è fatta
valere, con la massima decisione, da
Descartes e da Spinoza fino a Schelling e a Hegel. Se giudico correttamente la
disposizione della filosofia più recente
e le conseguenze della critica gnoseologica, questa separazione rimasta
aderente al modo generale di rappresentazione
e di espressione non può più ora venir ritenuta così sicura e ovvia da diventare senza riesame il
fondamento di una classificazione. A ciò si aggiunga il fatto che a quest’antitesi
tra oggetti non corrisponde un’antitesi tra modi di conoscenza. Se Locke
tradusse il dualismo cartesiano in una formula soggettiva, contrapponendo
percezione esterna a percezione interna (sensation e reffection) come organi
distinti di conoscenza da un lato del
mondo corporeo esterno, della natura, dall'altro del mondo spirituale interno, la critica della
conoscenza dell’epoca più recente ha
fatto sempre più vacillare questa concezione e
ha per lo meno posto fortemente in dubbio la legittimità dell’assunzione
di una percezione interna come modo
particolare di conoscenza. Non è neppure
ormai possibile ammettere che i fatti
delle cosiddette scienze dello spirito siano fondati semplicemente sulla
percezione interna. Ma l’incongruenza tra un principio oggettivo e un principio
formale di divisione si manifesta
soprattutto nel fatto che tra la scienza della natura e la scienza dello spirito non è possibile inserire una
disciplina empirica di tanta importanza
come la psicologia, la quale dev'essere caratterizzata in base all'oggetto solo
come scienza dello spirito e, in certo
senso, come il fondamento di tutte le altre scienze, mentre il suo intero
procedimento, il suo comportamento metodologico, è dall’inizio alla fine quello
delle scienze della natura. Perciò essa
ha dovuto accettare talvolta la designazione di scienza naturale del senso interno o anche quella di scienza della natura spirituale . Una divisione che mostri difficoltà di tal
genere non ha alcuna consistenza dal punto di vista sistematico: ma per
ottenerla ha forse bisogno soltanto di
piccole trasformazioni nella sua formulazione concettuale. In che cosa consiste
l'affinità metodologica della psicologia
con le scienze naturali? Evidentemente nel
fatto che anch'essa, al pari di queste, constata, raccoglie ed elabora i fatti soltanto dal punto di vista e
allo scopo di intendere la conformità a leggi generali a cui questi fatti sono
sottoposti. Certamente la diversità degli oggetti comporta che i metodi particolari di accertamento dei fatti,
nonché il modo della loro utilizzazione
induttiva e la formulazione alla quale
possono venir ricondotte le leggi scoperte, siano molto differenti; e
sotto questo aspetto la distanza della psicologia, per esempio, dalla chimica è
di poco maggiore a quella che intercorre tra la meccanica e la biologia.
Ma ed è questo che qui importa tutte queste differenze di carattere
oggettivo stanno in secondo piano rispetto all'identità logica che tali
discipline posseggono per quanto riguarda il carattere formale dei loro fini
conoscitivi: esse cercano sempre leggi dell’accadere sia
che si tratti di un movimento di corpi, di una trasformazione di materia, di uno sviluppo della vita
organica o di un processo del rappresentare, del sentire e del volere. Viceversa, la maggior parte delle discipline
empiriche, che sono state da parte di
altri designate come scienze dello spirito, è decisamente diretta a
rappresentare nel modo più compiuto ed esauriente un evento singolo, più o meno
esteso, con una sua realtà singolare e
limitata nel tempo. Anche da questo lato
gli oggetti e gli strumenti tecnici particolari con cui è assicurata la
loro comprensione sono quanto mai diversi. Si può infatti trattare di un singolo avvenimento o di una
serie complessiva di azioni e di
vicende, dell'essenza e della vita di un singolo uomo o di un intero popolo, del carattere
specifico e dello sviluppo di una
lingua, di una religione, di un ordinamento
giuridico, oppure di un prodotto letterario, artistico, scientifico e ognuno di questi oggetti richiede una
trattazione adeguata alla sua
particolare fisionomia. Ma sempre lo scopo conoscitivo rimane quello di riprodurre e di intendere
nella sua realtà di fatto una formazione
della vita umana, che si è presentata nella
sua configurazione singolare. È chiaro che con ciò si designa l’intero
ambito delle discipline storiche. Noi ci troviamo quindi di fronte a una
divisione puramente metodologica delle scienze empiriche, che deve essere
fondata su concetti logici sicuri. Il principio di divisione è costituito dal
carattere formale dei loro fini conoscitivi. Le une cercano leggi generali, le
altre fatti storici particolari: per esprimerci nel linguaggio della logica
formale, il fine delle une è il giudizio
generale, apodittico, mentre quello delle altre è la proposizione singolare, assertoria. Questa
distinzione si ricollega così a quell’importantissimo e decisivo rapporto
presente nell’intelletto umano, che fu
riconosciuto da Socrate come la
relazione fondamentale di ogni pensiero scientifico: il rapporto
dell’universale con il particolare. A partire da questo punto si è divisa la metafisica antica, in quanto
Platone cercava la realtà negli immutabili concetti di genere, mentre
Aristotele la cercava nell’essere
singolo che si sviluppa secondo uno scopo.
La moderna scienza della natura ci ha insegnato a definire ciò che è in
base alle necessità durevoli dell’accadere che in esso sì compie; ha messo la
legge naturale al posto dell’idea platonica. Perciò possiamo dire che nella
conoscenza del reale le scienze empiriche cercano o il generale nella forma di
legge di natura o il singolare nella forma storicamente determinata; esse considerano da un parte la forma sempre
permanente, dall’altra il contenuto
singolare, in sé determinato, dell’accadere reale. Le prime sono scienze di
leggi e le seconde sono scienze di
avvenimenti; quelle insegnano ciò che è sempre, e queste ciò che è stato una volta. Il pensiero
scientifico se è consentito elaborare nuove espressioni è nel primo caso n0motetico, nel secondo
idiografico. Se vogliamo attenerci alle
vecchie espressioni, possiamo pure parlare in questo senso di un’antitesi tra discipline naturali e
discipline storiche, fermo restando che
in questo senso metodologico lo psicologia dev’essere senz’altro compresa tra le
scienze naturali. In generale, rimane
da considerare che quest’antitesi metodologica classifica solo il modo di
trattazione e non il contenuto del sapere. Resta possibile ed è di fatto vero che gli
stessi oggetti possono essere sottoposti a un'indagine nomotetica e al tempo stesso a un'indagine idiografica.
Ciò dipende dal fatto che l’antitesi tra
il sempre eguale e il singolare è, per un
certo verso, relativa. Ciò che all’interno di periodi di tempo assai grandi non subisce nessun mutamento
immediatamente percepibile e può quindi
venir considerato nomoteticamente in
base alle sue forme immutabili, può tuttavia risultare da una prospettiva ulteriore valido per un periodo
di tempo pur sempre limitato, cioè qualcosa di singolare. Così una lingua
è dominata, in tutte le applicazioni
particolari, dalle sue leggi formali, che
rimangono le medesime in ogni mutamento dell’espressione; ma d’altra parte
questa stessa lingua particolare, con le
sue specifiche leggi formali, è soltanto una manifestazione singolare e
transitoria nella vita linguistica dell’uomo. Lo stesso vale per la fisiologia del corpo, per
la geologia e in un certo senso perfino per l'astronomia: con ciò il principio
storico viene trasferito nel campo delle scienze naturali. L’esempio classico a questo proposito è
costituito dalla scienza della natura organica. Come sistematica, essa riveste
carattere nomotetico in quanto, nel paio di millenni per cui è stata finora
condotta l’osservazione umana, può considerare i tipi identici dell'essere
vivente come la loro forma conforme a leggi. In quanto storia dello sviluppo,
che rappresenta l’intera successione
degli organismi terrestri come un processo di discendenza o di trasformazione
che si compie gradualmente nel corso del
tempo e la cui ripetizione su qualche altro pianeta non soltanto non possiede nessuna garanzia di
certezza, ma neppure qualche
probabilità, essa è invece una disciplina idiografica, cioè storica. Già Kant,
anticipando il concetto della moderna
teoria della discendenza, chiamava colui che avesse osato affrontare quest’ avventura della
ragione col nome di futuro
archeologo della natura . Se ci
chiediamo come la teoria logica si sia finora atteggiata nei confronti di quest’antitesi decisiva tra
le scienze particolari, ci imbattiamo esattamente nel punto in cui questa è
rimasta più che altrove bisognosa di riforma. Il suo intero sviluppo mostra la più decisa predilezione per le
forme di pensiero nomotetico. Certamente si tratta di un fatto ben spiegabile.
Dal momento che ogni ricerca e
dimostrazione scientifica si svolge
nella forma del concetto, l’indagine sull’essenza, sulla fondazione e
sull’applicazione di ciò che è generale rimane l'interesse più prossimo e più importante della logica. A
ciò si aggiunga l'influenza del corso
storico. La filosofia si è sviluppata muovendo da ricerche di scienza naturale,
dalla questione della pbsic, cioè dalla
permanenza dell'essere nel mutare dei fenomeni; e seguendo un corso parallelo che non mancava neppure della mediazione causale rappresentata dalla
tradizione storica del Rinascimento la filosofia moderna è pervenuta alla
propria autonomia con l’aiuto della
scienza della natura. Perciò non poteva
accadere se non che la riflessione logica si rivolgesse in primo luogo alle forme di pensiero
nomotetico, facendo dipendere durevolmente da queste le sue teorie generali.
Ciò vale ancor sempre: tutta la nostra
dottrina tradizionale del concetto, del giudizio e del sillogismo è ancor
sempre ritagliata sul presupposto aristotelico che il principio generale sta al
centro dell'indagine logica. Basta aprire un qualsiasi manuale di logica per
convincersi che non soltanto la grande maggioranza degli esempi viene scelta
dalle discipline matematiche e dalle scienze naturali, ma che anche i logici
che si mostrano pienamente sensibili al carattere specifico della ricerca
storica cercano pur sempre i punti di riferimento ultimi delle loro teorie sul versante del pensiero nomotetico. Sarebbe
auspicabile ma le premesse in questo senso sono ancora
troppo scarse che la riflessione logica rendesse giustizia alla
grande realtà presente nel pensiero
storico, nella stessa misura in cui ha inteso cogliere le forme dell'indagine
naturale fin nei suoi particolari.
Concedetemi per ora di considerare un po’ da vicino il rapporto tra sapere nomotetico e sapere
idiografico. Come si è detto,
all’indagine naturale e alla conoscenza storica è comune il carattere di scienza empirica: entrambe
hanno cioè come punto di partenza o, in termini logici, come premesse
delle loro dimostrazioni delle esperienze, dei fatti della percezione.
Esse coincidono inoltre nel fatto che né l’una né l’altra possono appagarsi di ciò che l’uomo ingenuo
pensa solitamente di esperire. Entrambe
hanno bisogno, come loro fondamento, di
un'esperienza scientificamente purificata, criticamente vagliata e sottoposta a
esame nel lavoro concettuale. Nella stessa
misura in cui bisogna disciplinare accuratamente i propri sensi per stabilire le sottili distinzioni presenti
nella conformazione di esseri
strettamente imparentati, per vedere con successo attraverso un microscopio,
per cogliere con sicurezza Îa sincronia
dell’oscillazione di un pendolo e della posizione di una lancetta, nello
stesso modo occorre fatica per determinare il carattere specifico di una scrittura, per osservare lo
stile di uno scrittore o per cogliere
l'orizzonte spirituale e l'ambito di interessi di una fonte storica. Per natura l’una e l’altra
cosa possono essere fatte soltanto in
maniera imperfetta. Se quindi la tradizione
del lavoro scientifico ha fatto sorgere, in entrambe le direzioni, una
quantità di strumenti tecnici sempre più raffinati di cui
il discepolo della scienza si appropria nella pratica ogni
metodo specifico poggia da un lato su punti di vista oggettivi già acquisiti o per lo meno accolti in via ipotetica,
dall’altro su connessioni logiche spesso
assai complicate. Qui occorre osservare di nuovo che finora l’interesse della
logica si è rivolto molto di più alla tendenza nomotetica che alla tendenza
idiografica. Sul significato metodologico degli strumenti di precisione, sulla
teoria dell’esperimento, sulla determinazione della probabilità in base a
molteplici osservazioni di un medesimo oggetto, e su questioni analoghe, si
hanno indagini logiche approfondite; ma
i problemi paralleli della metodologia storica non hanno trovato eguale attenzione da parte della
filosofia. Ciò è connesso con il fatto che
com'è nella natura stessa della cosa, e
come conferma la storia l’ingegno
e l’opera della filosofia e della
scienza naturale si sono incontrati molto più spesso di quanto non sia avvenuto tra la filosofia e la
storia. Eppure sarebbe di estremo
interesse per la dottrina generale della conoscenza portare alla luce le forme
logiche in base alle quali si compie,
nella ricerca storica, la critica reciproca delle percezioni, formulare le
massime di interpolazione delle ipotesi
e determinare così anche qui quale parte
assumono nell’edificio della conoscenza
del mondo, che si sorregge reciprocamente
con tutti i suoi elementi, da una parte i fatti e dall’altra i presupposti generali con cui li
interpretiamo. Tutte le scienze
empiriche coincidono in definitiva però nel
principio ultimo, che consiste nell’accordo senza contraddizione di
tutti gli elementi della rappresentazione relativi al medesimo oggetto: la
distinzione tra indagine naturale e storia ha
inizio soltanto dove si tratta di utilizzare i fatti a scopo
conoscitivo. Qui vediamo che l’una cerca leggi, l’altra forme. Nella prima il pensiero conduce dall’accertamento
del particolare all'apprendimento di relazioni generali, mentre nella seconda
esso si arresta alla caratterizzazione accurata del particolare. Per lo scienziato naturale il singolo oggetto
dato alla sua osservazione non possiede mai, in quanto tale, valore
scientifico; esso gli serve solo in
quanto si ritiene giustificato a considerarlo come un tipo, come un caso specifico di un
concetto di genere, e a trarne fuori
questo concetto: in ciò egli riflette soltanto su quei caratteri che sono appropriati alla
comprensione di una generalità conforme
a leggi. Allo storico si pone invece il
compito di far rivivere una formazione del passato nella sua intera configurazione individuale, rendendola
idealmente presente. Egli deve compiere nei confronti di ciò che è realmente
esistito un’opera analoga a quella dell’artista nei confronti di ciò che è
nella sua fantasia. Qui ha le sue radici l’affinità della creazione storica con
quella estetica, delle discipline storiche con le Belles lettres. Da ciò
consegue che nel pensiero naturalistico predomina la tendenza all’astrazione,
nel pensiero storico quella all’intuitività. Quest’affermazione risulterà
inattesa soltanto a chi si è abituato a limitare materialisticamente il
concetto di intuizione alla recezione
psichica di ciò che è presente in modo sensibile, e ha dimenticato che c’è intuitività cioè vitalità individuale di ciò che è presente idealmente tanto per l’occhio dello spirito quanto per l'occhio del corpo.
Certamente quella concezione materialistica è al giorno d’oggi molto diffusa,
ma suscita serie riserve. Quanto più ci si abitua, ovunque si presentano delle rappresentazioni, a mettere in evidenza
il più possibile quel che vi è da
toccare e da vedere, tanto più si espone la spontanea facoltà
dell’intuizione a causa del prevalere
dell’intuizione ricettiva al pericolo di
rattrappirla per mancanza di esercizio,
e poi ci si meraviglia quando la fantasia sensibile diventa pigra e incapace di funzionare non
appena non può più toccare e vedere in
modo corporeo. Per la pedagogia vale
infatti lo stesso che per l’arte, e in particolare per l’arte
drammatica, dove oggi ci si dà ogni pena per tenere impegnati gli occhi, sicché non rimane più nulla per
l’intuizione interiore delle forme
poetiche. Che però la forza
dell’indagine naturale consista nell’astrazione e invece quella della storia
nell’intuitività, risalta ancor più
chiaramente se si comparano i risultati della loro ricerca. Per quanto intricato possa essere il lavoro
concettuale di cui la critica storica ha
bisogno per elaborare i dati della tradizione,
il suo fine ultimo è tuttavia quello di trarre fuori dalla massa del materiale la vera forma del passato per
tradurlo in chiarezZa piena di vita; ciò che essa fornisce sono immagini di
uomini e di vita umana, con tutta la
ricchezza delle loro configurazioni singolari, conservate nella loro piena
vitalità individuale. Così per bocca
della storia ci parlano lingue e popoli passati, sollevati dalla dimenticanza a nuova vita, e
così pure la loro fede e le loro figure,
la loro lotta per il potere e per la libertà,
la loro poesia e il loro pensiero. Quanto diverso è il mondo che
l'indagine naturale costruisce davanti ai nostri occhi! Per quanto intuitivi
possano essere i suoi punti di partenza, i suoi scopi conoscitivi sono le
teorie, sono le formulazioni in ultima
istanza matematiche delle leggi del
movimento: essa lascia dietro di sé in
modo autenticamente platonico la singola
cosa sensibile che nasce e perisce, in un’apparenza priva di realtà, e aspira alla conoscenza
della necessità legale che domina, in
un'immutabilità atemporale, ogni accadere. Dal
variopinto mondo dei sensi essa estrae un sistema di concetti costruttivi entro cui vuol cogliere la vera essenza
delle cose che sta dietro i fenomeni, un
mondo di atomi, incolore e muto, senza
la terrestre fragranza delle qualità sensibili
il trionfo del pensiero sulla
percezione. Indifferente a ciò che è transitorio, essa getta la sua àncora in
ciò che rimane eternamente eguale a se
stesso. Non cerca il mutevole in quanto tale, ma la forma immutabile del mutamento. Ma se l’antitesi tra i due tipi di scienze
empiriche è così profonda, si comprende
perché tra di esse deve scoppiare, ed è
di fatto scoppiata, la battaglia per esercitare un'influenza decisiva sulla
visione generale del mondo e della vita. Ci si domanda che cosa sia più prezioso per lo scopo
complessivo della nostra conoscenza, se
il sapere concernente le leggi o quello riguardante gli eventi, se la
comprensione dell’universale essenza atemporale o quella dei singoli fenomeni
temporali. È chiaro fin dall’inizio che questa questione può venir decisa
soltanto in base a una riflessione sui
fini ultimi del lavoro scientifico. Mi
limito ad accennare di sfuggita alla valutazione che si fonda sull’utilità. Di fronte ad essa
entrambe le direzioni di pensiero sono
in egual misura legittime. Il sapere riguardante leggi generali ha sempre il valore pratico di
rendere possibile la previsione di
situazioni future e l’intervento in vista di scopi dell’uomo nel corso delle cose. Ciò vale sia
per i movimenti del mondo interno sia
per quelli del mondo materiale esterno:
nell’ultimo, in particolare, la conoscenza acquisita in virtù del pensiero nomotetico consente la produzione
degli strumenti con cui si amplia in
misura sempre crescente il dominio dell’'uomo sulla natura. Ma l’attività
diretta a scopi nella vita comune
dell’uomo dipende in grado non minore dalle esperienze del sapere storico. L'uomo è per variare un antico detto l’animale che ha una storia. La sua vita
culturale è una connessione storica che diventa più spessa di generazione in
generazione: chi vuole entrare in questa per cooperarvi in modo attivo deve
possedere la comprensione del suo sviluppo. Una volta spezzatosi questo filo
bisogna poi lo ha mostrato la storia
stessa rintracciarlo e riannodarlo di
nuovo con fatica. Se la cultura
contemporanea dovesse essere sepolta a causa di un evento elementare o nella configurazione esterna del
nostro pianeta o nella configurazione
interna del mondo umano possiamo star
certi che le generazioni successive ne scaveranno con diligenza le vestigia così come noi
facciamo con quelle dell’antichità. Già
per questi motivi l'umanità deve portare il
suo grande fardello storico, e se col trascorrere del tempo esso minaccia di diventare sempre più pesante, al
futuro non mancheranno i mezzi per alleggerirlo con cautela e senza danno. Ma non è questo l’utile in questione: qui si
tratta infatti del valore intimo del
sapere, non certamente della soddisfazione personale che il ricercatore ha nel
suo conoscere, e soltanto in virtù di
esso. Questo godimento soggettivo che proviene
dalla scoperta e dall’accertamento è in definitiva presente in egual modo in ogni tipo di sapere. La sua
misura viene determinata molto meno dall’importanza dell’oggetto che dalla
difficoltà dell'indagine. Senza dubbio
vi sono accanto a ciò distinzioni oggettive, c
quindi puramente teoretiche, nel valore conoscitivo degli oggetti: ma la
loro misura non è altro che il grado in cui essi contribuiscono alla conoscenza complessiva.
L’elemento singolo rimane oggetto di curiosità
oziosa se non diventa pietra di
costruzione in una struttura più generale. In senso scientifico il fatto
è così già un concetto teleologico. Non una qualsiasi realtà costituisce un fatto per la scienza,
ma soltanto ciò da cui per dirla in
breve essa può apprendere qualcosa. Questo vale soprattutto per la storia. Accadono
molte cose che non sono fatti storici.
Che nel 1780 Goethe si sia fatto costruire una
campana di casa e una chiave, e il 22 febbraio una cassetta per le lettere, è documentato dal conto di un
fabbro tramandato in modo assolutamente
autentico: ciò è quindi accaduto del tutto
realmente e con certezza, ma non per questo è un fatto storico né storico-letterario, né biografico. Si
deve d’altra parte obiettare che è impossibile, entro certi limiti, decidere in
anticipo se al singolo elemento, a ciò che si offre all’osservazione o alla tradizione,
spetti o no questo valore di fatto. Perciò la scienza deve fare come Goethe in
tarda età: fare provvista, raccogliere ciò di cui può impadronirsi, paga
dell’idea di non trascurare nulla di ciò che potrebbe utilizzare in seguito, e della fiducia che il lavoro delle generazioni
future nella misura in cui non ne sarà impedito dalle
vicende esteriori della tradizione conserverà, come un grande setaccio, quanto è
utilizzabile e lascierà cadere ciò che è inutile. Ma questo scopo essenziale di ogni sapere
particolare, cioè lo scopo di inserirsi
in un grande complesso unitario, non è
affatto limitato alla subordinazione induttiva del particolare al concetto di genere o al giudizio universale:
esso si realizza in egual misura dove la
caratteristica singola diventa elemento
significativo di un’intuizione complessiva. Quell’attenersi a ciò che è conforme al genere è una unilateralità
del pensiero greco, diffusasi dagli
Eleati fino a Platone, che trovava il vero essere, come la vera conoscenza, soltanto
nell’universale. Da lui si è poi
trasmessa fino ai giorni nostri, in cui Schopenhauer si è fatto portavoce di questo pregiudizio
rifiutando alla storia il valore di
scienza autentica perché essa coglierebbe sempre il particolare, e mai l’universale. È certamente
esatto che l'intelletto umano può rappresentarsi il molteplice soltanto perché
coglie il contenuto comune dei singoli elementi dispersi; ma quanto più aspira al concetto e alla legge,
tanto più deve lasciare dietro di sé il
singolare in quanto tale, dimenticarlo e
abbandonarlo. È ciò che vediamo laddove si tenta, in modo specificamente moderno, di fare della storia una scienza naturale , come
si è proposta la cosiddetta filosofia della storia del positivismo. Che cosa rimane in definitiva,
in una simile induzione di leggi, della vita dei popoli? Un paio di banali
generalità, che si fanno scusare soltanto se accompagnate da un’accurata
analisi delle loro numerose eccezioni.
Di fronte a ciò occorre tener fermo il fatto che ogni interesse e ogni
valutazione, ogni determinazione di valore dell’uomo si riferiscono al singolo e a ciò che è
singolare. Pensiamo soltanto come si indebolisce presto il nostro sentimento
non appena il suo oggetto si moltiplica o si mostra come un caso eguale tra
mille. Non è la prima così suona uno dei
passi più crudeli del Faust!. Nella singolarità e
nell’incomparabilitàdell'oggetto si radicano tutti i nostri sentimenti di
valore. Su ciò poggia la dottrina
spinoziana del superamento dei moti dell’animo attraverso la conoscenza: per
essa la conoscenza è infatti un tuffarsi
del particolare nell’universale, del singolare nell'eterno. Ma che ogni valutazione vitale dell’uomo
dipenda dall’unicità dell’oggetto, risulta anzitutto dalla nostra relazione con
le personalità. Non è forse un'idea
insopportabile che un essere caro e
amato possa esistere tal quale anche soltanto una seconda volta? Non è pauroso e impensabile che debba
esistere nella realtà un secondo
esemplare di noi stessi, con questa nostra
peculiarità individuale? Di qui l’orrore, la spettralità inerente alla rappresentazione del sosia anche se a una distanza temporale molto
grande. È sempre stato per me penoso il fatto che un popolo pieno di gusto e di sentimenti
raffinati come quello greco si sia
abbandonato alla dottrina, che attraversa tutta la sua filosofia, secondo cui nel ricordo
periodico di tutte le cose deve
ritornare anche la personalità, con tutto il suo agire e il suo patire. Come è svalutata la vita se si
conosce con esattezza quante volte è già
esistita e quante volte si ripeterà! com'è
spaventosa l’idea che già una volta io sono vissuto e ho sofferto, ho desiderato e lottato, amato e odiato,
pensato e voluto, e che quando il grande
anno cosmico è trascorso e il tempo ritorna,
devo recitare sempre di nuovo lo stesso ruolo sulla stessa scenal E ciò
che vale per la vita individuale dell’uomo vale ancor più per l’insieme del processo storico: esso
ha valore soltanto se è singolare. Questo
è il principio che la filosofia cristiana ha
vittoriosamente affermato nella Patristica contro l’Ellenismo. Al centro della visione del mondo erano in
primo piano la caduta e la redenzione
del genere umano come fatti singolari.
Si trattava della prima grande e forte percezione dell’inalienabile
diritto metafisico della conoscenza storica, ossia del diritto di mantenere il passato, in questa sua realtà
singolare, per il ricordo
dell’umanità. 1. GoerHE, parte I,
scena Giornata cupa campagna (è la scena in prosa, immediatamente
successiva al Sogno della notte di
Valpurga ). D'altra parte le scienze idiografiche hanno però bisogno a ogni
passo di princìpi generali, che possono prendere a prestito in una fondazione
completamente corretta soltanto dalle discipline nomotetiche. Ogni spiegazione
causale di un processo storico presuppone rappresentazioni generali del corso
delle cose; e se si vuol ricondurre le dimostrazioni storiche alla loro pura forma logica, esse conservano
sempre come premesse supreme
le leggi naturali dell’accadere, in particolare dell’accadere psichico.
Chi non avesse alcuna notizia del modo in cui
gli uomini pensano, sentono e vogliono, non naufragherebbe soltanto nell’abbracciare insieme i singoli
eventi per giungere alla conoscenza
degli avvenimenti, ma già nell’accertamento
critico dei fatti. È certamente assai strano con quanta indulgenza siano
state in fondo accolte le pretese della scienza dello spirito nel campo della psicologia. Il grado
notoriamente molto imperfetto con cui
sono state finora formulate le leggi della
vita psichica non è mai stato di impedimento agli storici: in virtù di una conoscenza naturale dell’uomo,
in virtù della sensibilità e dell’intuizione geniale essi sapevano quel che
basta a intendere gli eroi e le loro
azioni storiche. Ciò dà molto da pensare
e mette seriamente in dubbio se la concezione dei processi psichici elementari, impostata dai
moderni secondo uno schema
matematico-naturale, possa fornire un contributo apprezzabile alla nostra comprensione della
vita reale dell’uomo. Nonostante tali
insufficienze di realizzazione nel caso singolo appare chiaramente che nella
conoscenza complessiva, in cui ogni
lavoro scientifico deve in definitiva unificarsi, questi due momenti rimangono l’uno accanto all’altro
nella loro particolare posizione
metodologica. Quella conformità delle cose a leggi generali offre il saldo
quadro della nostra immagine del mondo
esprimendo, al di sopra di ogni mutamento, l'essenza eternamente eguale
del reale; e all’interno di questo quadro si dispiega alla memoria della specie
la connessione vivente di tutte le
singole configurazioni fornite di valore per l'umanità. Questi due momenti del sapere umano non
possono essere ricondotti a una fonte
comune. Certamente la spiegazione cau-sale del singolo accadimento con la sua
riduzione a leggi generali induce a ritenere che dovrebbe essere possibile, in
ultima istanza, comprendere in base alla conformità delle cose a leggi naturali
anche la particolare configurazione storica dell’evento reale. Così Leibniz
riteneva che tutte le vérités de fai: abbiano le loro cause sufficienti nelle
vérizés eternelles. Ma egli poteva postularlo soltanto per il pensiero divino,
non realizzarlo per quello umano. È possibile illustrare questo punto con un
semplice schema logico. Nella considerazione causale qualsiasi evento
particolare assume la forma di un sillogismo in cui la premessa maggiore è una
legge naturale, ossia un certo numero di necessità legali, la premessa minore è
una condizione data nel tempo o un complesso unitario di condizioni del genere,
e infine la conclusione è il singolo avvenimento reale. Nello stesso modo in
cui la conclusione presuppone dal punto di vista logico le due premesse,
l’accadere presuppone due specie di cause: da un lato la necessità atemporale
in cui si esprime l’essenza durevole delle cose, dall’altro la condizione
particolare che si presenta in un determinato momento del tempo. La causa di
un'esplosione è nel primo significato
quello nomotetico la natura del
materiale esplosivo che esprimiamo in forma di leggi fisico-chimiche, mentre
nell’altro significato quello
idiografico è un movimento singolo, cioè
una scintilla, una vibrazione o qualcosa di simile. Soltanto i due elementi
presi insieme causano e spiegano l'avvenimento, ma nessuno è una conseguenza
dell’altro: la loro connessione non appare fondata in essi stessi. Quanto poco
la premessa minore presente nella sussunzione sillogistica è una conseguenza di
quella maggiore, altrettanto poco nel corso dell’accadere la condizione che si
aggiunge all’essenza universale della cosa può essere derivata da questa
essenza legale. Occorre piuttosto ricondurre a sua volta questa condizione, in
quanto evento temporale, a un’altra condizione temporale da cui essa è derivata
secondo una necessità legale; e così via 17 infinitum. Non si può pensare
concettualmente un termine iniziale di questa serie infinita; e anche quando si
tenti di rappresentarlo, la situazione iniziale risulterà pur sempre qualcosa
di nuovo che si aggiunge all’essenza universale delle cose, senza derivare da essa.
Spinoza ha espresso questo punto attraverso la distinzione tra due forme di
causalità, quella infinita e quella finita, e ha così eliminato con geniale
semplicità molte obiezioni su cui i logici moderni si sono affannati 2
proposito del problema della pluralità
delle cause. Nel linguaggio della scienza odierna si potrebbe dire che lo stato
presente del mondo consegue dalle leggi generali della natura soltanto
presupponendo lo stato immediatamente precedente, e questo a sua volta
presupponendo il suo precedente, e così via; ma una particolare determinata
disposizione degli atomi non deriva mai dalle leggi generali del movimento. Da
nessuna formula universale si può pervenire immediatamente alla
particolarità di un singolo punto temporale: a questo scopo occorrerebbe ancor
sempre la subordinazione alla legge dello stato precedente. Dal momento che non
esiste alcun termine fondato su leggi generali al quale si possa pervenire
seguendo a ritroso la catena causale delle condizioni, nessuna sussunzione sotto
quelle leggi può aiutarci ad analizzare il dato temporale fino ai suoi
fondamenti ultimi. In ogni esperienza storica e individuale rimane quindi per
noi un residuo di incomprensibilità
qualcosa che non può essere espresso né definito. In tal modo l'essenza
ultima e intima della personalità resiste all’analisi condotta con categorie
generali; e questo elemento impenetrabile si manifesta alla nostra coscienza
come il sentimento dell’irriducibilità causale del nostro essere, cioè come il
sentimento della libertà individuale. A questo punto è già venuta fuori una
quantità di concetti e di problemi metafisici. Per quanto quelli possano essere
infelici e questi mal posti, ne sussiste pur sempre il motivo. L'insieme del
dato temporale si manifesta nella sua indeducibile autonomia accanto alla
conformità a leggi generali in base alle quali esso pure si realizza. Il
contenuto dell’accadere del mondo non può essere compreso in base alla sua
forma. Su questo scoglio sono naufragati tutti i tentativi di derivare concettualmente
il particolare dal generale, i molti dall’uno, il finito dall’ infinito ,
l’esistenza dall’ essenza . Si tratta di una frattura che i grandi sistemi di
spiegazione filosofica del mondo sono soltanto riusciti a nascondere, ma non a
riempire. Ciò è quanto vide Leibniz allorché indicò l’origine delle vérités
eternelles nell’intelletto divino e l'origine delle vérités de fait nella
volontà divina. Ciò è quanto vide Kant allorché trovò nel felice ma
inafferrabile fatto che tutto quanto è dato nella percezione può essere
ricondotto sotto le forme dell’intelletto, e quindi ordinato e compreso, un
indizio di connessioni teleologiche divine che va molto al di là del nostro
sapere teoretico. Di fatto nessun pensiero può fornire risposte conclusive a
tali questioni. La filosofia può mostrare fin dove giunge la forza conoscitiva
delle singole discipline; ma al di là di queste, neppure essa può conquistare
un punto di vista oggettivo. La legge e l'avvenimento rimangono l’una accanto
all’altro come le grandezze ultime e incommensurabili della nostra
rappresentazione del mondo. Qui sta uno dei punti-limite in cui il pensiero
scientifico può soltanto determinare il compito e porre la questione, con la
chiara coscienza che non sarà mai in grado di risolverli. RICKERT nasce a
Danzica. Frequenta dapprima l’Università di Berlino e poi quella di Strasburgo,
dove consegue il dottorato sotto la
guida di Windelband con la dissertazione
Zur Lehre von der Definition (Freiburg i.B.). Dopo aver ottenuto l’abilitazione
a Heidelberg, con il volume Der Gegenstand der Erkenntnis (Tibingen), divienne professore
a Friburgo, dove succede al filosofo positivista Riehl. In
questo periodo egli pubblica le sue opere più significative, da Die Grenzen der
naturwissenschafilichen Begriffsbildung (Tiibingen) a Kulturwissenschaft und
Naturwissenschaft (Tibingen), dal saggio Geschichisphilosophie (Heidelberg) ad
alcuni importanti articoli sulla teoria dei valori apparsi nella rivista Logos . Nel 1916, dopo la morte di
Windelband, gli succede sulla cattedra di Heidelberg, dove continuerà a
insegnare fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1936. Anche Rickert muove da
un’impostazione neocriticistica, e in questa prospettiva egli affronta, in Der
Gegenstand der Erkenntnis, il proble ma del rapporto tra soggetto e oggetto. Ma
già in questo libro la garanzia della validità della conoscenza viene
individuata in un dover essere che appare indipendente dalle condizioni
psicologiche del conoscere, cosicché l’analisi gnoseologica risulta ricondotta
ai presupposti della teoria dei valori. Successivamente, in Die Grenzen der
naturtwissenschaftlichen Begriffsbildung e in Kulturwissenschaft und
Naturivissenschaft, Rickert riprende la distinzione windelbandiana tra scienze
nomotetiche e scienze idiografiche cercando di recuperare, al tempo stesso, una
distinzione oggettiva tra la natura e il mondo storico-sociale, identificato
con la cultura. Egli cerca infatti di derivare dalla distinzione tra i due
gruppi di discipline, e dalla diversità del loro orientamento conoscitivo, le
caratteristiche differenzianti della natura e della cultura. La medesima realtà
si presenta come natura oppure come cultura secondo il punto di vista dal quale
essa è considerata: perciò la natura è la realtà considerata in riferimento al generale,
cioè determinata nella sua struttura di leggi, mentre la cultura è la realtà
considerata in riferimento all’individuale, cioè costituita da un complesso di
fatti e di rapporti particolari. Ma l’individualità dell'oggetto storico non è
altro, per Rickert, che la sua relazione con determinati valori culturali, i
quali presiedono all’elaborazione concettuale della conoscenza storica e
valgono come suoi criteri di scelta. Scienza naturale e conoscenza storica si
differenziano quindi non soltanto per il loro diverso orientamento conoscitivo
e per il diverso modo di configurarsi della realtà che costituisce il loro
oggetto, ma anche per la presenza o l’assenza di un riferimento ai valori:
mentre la conoscenza della natura prescinde da qualsiasi relazione di valore,
cosicché la natura si presenta come un sistema di rapporti regolati da leggi
generali, la conoscenza storica seleziona il dato empirico in base a criteri di
valore. La cultura oggetto della
conoscenza storica è perciò la
realizzazione storica dei valori, di valori incondizionati che sussistono di
per sé, indipendentemente dall’eventuale riconoscimento che' possono ricevere
da parte degli uomini. Questo rapporto con i valori costituisce il senso della cultura, e dà perciò significato
all’azione storica degli individui e alle varie forme storiche di cultura.
Negli anni successivi al 1g1o Rickert appare sempre più impegnato nel tentativo
di dare una formulazione sistematica della teoria dei valori, alla quale fa
riscontro un’interpretazione metafisica del processo storico. E questo
tentativo appare accompagnato, soprattutto in Die Philosophie des Lebens
(Tibingen, 1920), dalla presa di posizione polemica contro i più svariati
indirizzi della filosofia del Novecento, responsabili ai suoi occhi di negare
la trascendenza e l’assolutezza dei valori e ricondotti all’etichetta della
filosofia della vita una designazione
che serve per qualificare tanto Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, quanto
James e Bergson, e che verrà in seguito estesa anche a Weber e a Jaspers. Nel
primo volume, il solo pubblicato, del System der Philosophie (Tibingen, 1921),
Rickert cerca di elaborare un sistema dei valori fondato sulla distinzione di
sei sfere di valori: tre sfere di carattere contemplativo, che sono quelle della
scienza, dell’arte e della religiosità, e tre sfere di carattere pratico, che
sono quelle della comunità etica, della comunità erotica e della comunità
religiosa con la divinità. In questo quadro la storia viene interpretata come
l'organo di riconoscimento dei valori, in quanto questi, pur avendo una loro
autonoma esistenza su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica,
possono essere individuati soltanto sulla base di determinati beni culturali
storicamente realizzati. L'ultima fase del pensiero di Rickert da Die Logik des Pridikats und das Problem
der Ontologie (Heidelberg, 1930) a Grundprobleme der Philosophie (Tibingen,
1934) e ai saggi raccolti nel volume postumo Unmittelbarkeit und Sinndeutung
(Tibingen, 1939) è caratterizzato
dall'accentuazione del carattere ontologico della teoria dei valori e dal
duplice richiamo a Hartmann e a Heidegger. I! problema del rapporto tra cultura
e mondo dei valori viene a configurarsi come il problema del posto dell’uomo
nel mondo; e l’analisi antropologica appare fondata sulla determinazione del
legame dell’uomo con i diversi modi dell’essere. L'uomo nasce e cresce come
essere naturale, e diventa uomo culturale
ponendosi in relazione con i valori, cioè con una realtà trascendente
che stabilisce il senso della sua esistenza e del suo sforzo di realizzazione
storica dei valori. Ricordiamo qui le altre opere di Rickert: Psycho-physische
Kausalitàt und psycho-physischer Parallelismus, Tibingen, 1900; Das Eine, die
Einheit und die Eins: Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Heidelberg, 1911,
1924?; Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tiibingen, 1924; Die
Heidelberger Tradition und Kants Kritizismus, Berlin, 1934. Numerosi sono gli
articoli apparsi in Logos , nelle Kantstudien
e in varie altre riviste, dei quali indichiamo qui soltanto i
principali: Uber die Aufgabe einer Logik der Geschichte, Archiv fir systematische Philosophie , VIII,
1902, pp. 137-63; Zwei Wege der Erkenninistheorie, Kantstudien , XIV, 1909, pp. 169-228; Vom
Begriff der Philosophie, Logos , I,
I9I0, pp. 1-34; Lebenswerte und Kulturwerte,
Logos , II, 191I1912, pp. 131-142; Vom System der Werte, Logos , IV, 1913, pp. 295-327; Uber logische
und ethische Geltung, Kantstudien , XIX,
1914, pp. 182221; Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der
Werte, Logos , IX, 1920-21, pp. 1-42 (in
polemica con Jaspers); Die Methode der Philosophie und das Unmittelbare, Logos,
XII, 1923-24, pp. 235-80; Vom Anfang der Philosophie, Logos , XVI, 1925, pp. 121-62; Die Erkenninis
der intelligibeln Welt und das Problem der Metaphysik, Logos , XVI, 1927, pp. 162-203, e XVIII,
1929, pp. 36-82; Geschichte und System der Philosophie, Archiv fiir Geschichte der Philosophie , XL,
1931, pp. 7-46 e 403-48; Wissenschaftliche Philosophie und Weltanschauung, Logos , XXII, 1933, pp. 37-57. Le opere di
Rickert non sono state più ristampate in epoca recente, né di esse esistono
traduzioni italiane. Tra gli studi dedicati alla filosofia di Rickert
segnaliamo i seguenti: O. ScHLunke, Die Lehre vom Bewusstsein bei Heinrich
Rickert, Leipzig, IQII. A. Faust, Heinrich Rickert und seine Stellung innerhalb
der deutschen Philosophie der Gegenwart, Tibingen, 1927. F. FepeRIcI, La
filosofia dei valori di Heinrich Rickert, Firenze, 1933. G. GurvitcH, La théorie des
valeurs de H. Rickert, Revue
philosophique de la France et de l’étranger , CKXIV, 1937, pp. 80-88. ScHescHics, Die Kategorienlehre der Badischen
philosophischen Schule, Berlin, 1938. E. Pact, Pensiero esistenza e valore,
Milano, 1940, pp. 47-53. G. Rammino, Karl Jaspers und Heinrich Rickert. Existentialismus und
Wertphilosophie, Bern, 1948. C.
Rosso, Figure e dottrine della fiosofia dei valori, Torino, 1949, e Napoli,
1973”, cap. IX. A.
Mitter-Rostowsra, Das individuelle als Gegenstand der Erkenninis: eine Studie
zur Geschichtsmethodologie Heinrich Rickerts, Winterthur, 1955. H. Sere, Wert
und Wirklichkeit in der Philosophie Heinrich Rickerts, Bonn, 1968. Una bibliografia ormai invecchiata, ma che
fornisce molte indicazioni sugli scritti di Rickert e su Rickert nei primi
decenni del secolo, si trova in F. FeperIci, La filosofia dei valori di
Heinrich Rickert. All’inizio del secolo xx le scienze filosofiche si trovano
ancora, in gran parte, sotto il segno della restaurazione. La loro ultima
fioritura è dipesa dal ridestarsi dell’interesse per Kant, e anche le idee con
cui la filosofia di orientamento kantiano deve oggi combattere non sono sorte
nella nostra epoca, ma derivano da un periodo ancora precedente dello sviluppo
filosofico. Si tratta per lo più di respingere di nuovo il naturalismo
illuministico, su cui l’idealismo di Kant non è riuscito a riportare una
vittoria definitiva. Nello stesso modo, se qualcuno volesse sostenere che anche
Kant è almeno in parte superato, non si potrebbe dire che ciò sia avvenuto ad
opera di idee elaborate di recente: quasi tutti i progressi reali compiuti
rispetto a Kant risiedono essenzialmente nella direzione imboccata dai suoi
immediati successori, a cui oggi ci si comincia a rifare. Per questo motivo lo
studio della storia della filosofia riveste oggi un grosso significato, e per
questo motivo festeggiamo un uomo come Kuno Fischer, che non soltanto ha molto
contribuito a rianimare la comprensione di Kant, ma ha anche riavvicinato alla
nostra epoca le idee dei suoi grandi discepoli. Non bisogna temere di dover
ripercorrere il processo di sviluppo che * Geschichtsphilosophie, in Die
Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts: Festschrife fiir Kuno
Fischer (a cura di W. Windelband), Heidelberg, Carl Winter*s Universitàtsbuchhandlung,
1904-5, vol. II, pp. 51-133 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 1.
Kuno Fischer (1824-1907), storico della filosofia di orientamento hegeliano,
autore di un'importante Geschichte der neueren Philosophie (1854-77) e della
monografia Hegels Leben, Werke und Lehre (1901): la sua opera ha largamente
ispirato l'interpretazione in senso idealistico dello sviluppo del pensiero
filosofico moderno. 342 HEINRICH RICKERT ha condotto da Kanta Fichte, da questi
a Schelling o a Schopenhauer, e poi fino a Hegel. La nuova epoca comporta nuove
questioni, che esigono risposte nuove: nulla si è mai ripetuto nella vita
storica. Ma non si deve chiudere gli occhi dinanzi alla prospettiva che
l’idealismo kantiano e post-kantiano contiene un tesoro di idee che è ancora
lungi dall’esser stato utilizzato completamente e dal quale possiamo trarre, se
dobbiamo misurarci con i problemi filosofici della nostra epoca, una quantità
di idee preziose. Ciò vale per nessun'altra disciplina filosofica più che per
la filosofia della storia. Benché negli ultimi tempi l’interesse per essa sia
straordinariamente aumentato, la filosofia della storia non può, almeno per
quanto riguarda i suoi concetti fondamentali, avanzare la pretesa di insegnare
qualcosa di mai udito, di nuovo. Proprio le speculazioni che vengono
considerate particolarmente moderne vivono quasi esclusivamente di idee che hanno
trovato la loro formulazione nell’Illuminismo; e anche la tendenza che combatte
questi indirizzi illuministici è costretta a riconoscere con gratitudine che
alcune delle sue armi migliori sono state forgiate in parte da Kant, e in parte
ancora maggiore dagli idealisti post-kantiani, in particolare da Fichte e da Hegel.
Chi volesse quindi avere un quadro della situazione attuale della filosofia
della storia e dei suoi movimenti, dei suoi problemi principali e delle diverse
direzioni che Ja loro soluzione assume, potrebbe tentare per acquisire i concetti fondamentali di seguire all’indietro i fili che portano
all'idealismo tedesco e più in là, procedendo verso il passato, fino
all’Illuminismo. Ma anche nell’ambito della filosofia della storia non si
tratterà di una mera restaurazione dei precedenti. Per rendersene conto basta
pensare allo sviluppo della scienza storica nel secolo xx; e in ogni caso nei
sistemi del passato dobbiamo distinguere ciò che è valido in modo durevole da
ciò che è storicamente divenuto. Per la filosofia della storia ciò è
stato fatto soltanto in parte. Occorreranno ancora varie indagini, del tipo di
quelle condotte da Lask? sull’idealismo di 2. Emil Lask (1875-1915), filosofo
tedesco allievo di Windelband, autore di Die Logik der Philosophie und die
Kategorienlehre (1911) e di Die Lehre vom Urteil (1912). Rickert si riferisce
qui al volume Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tibingen. Fichte e la
storia, perché emerga il significato durevole di queste idee. Già per questo
motivo l’orientamento storico non si presta a un rapido sguardo sul presente. E
anche a prescindere da ciò, qui non è consigliabile procedere in modo
esclusivamente storico. Nonostante tutta la gratitudine che proviamo per il
nostro passato filosofico, nonostante il riconoscimento della sua superiorità
di originalità creativa, occorre augurarsi di venir fuori della nostra
situazione di epigoni, di non procedere soltanto dall’epoca dell’Illuminismo
all’epoca di Kant, ma di tentare di percorrere la nostra via; e proprio la
filosofia della storia ha forse più occasioni per porre in rilievo che il
filosofo non può mai essere soltanto uno storico, che la filosofia non può mai
arrestarsi alla storia. Lasciamo quindi da parte il passato e tentiamo di
sviluppare un orientamento sistematico. Ma anche su questa via ci imbattiamo in
difficoltà. L’intensa familiarità con la storia ha recato con sé non soltanto
una grande ricchezza di idee filosofiche, ma anche una confusione considerevole
e quindi un’insicurezza che si estende ai concetti più elementari del nostro
lavoro. Alla questione di che cosa sia in generale la filosofa non esiste
alcuna risposta che goda di riconoscimento generale, e ciò che vale per la
totalità varrà per le sue parti. Se vogliamo procedere senza arbitrio, dobbiamo
anzitutto richiamare i diversi significati che si connettono
all’espressione filosofia della
storia e giustificare il nostro concetto
di tale scienza. Anzitutto tre concetti emergono chiaramente. Della filosofia
in generale si dice che sarebbe la scienza dell’universale, in antitesi alle
scienze particolari. Filosofare vorrebbe quindi dire cercare una conoscenza
complessiva della realtà, fornire l’insieme di ogni conoscenza scientifica. Se
su questa base si determinano i compiti di una filosofia della storia, essa
deve raccogliere mentre le scienze
storiche particolari hanno a che fare con i campi particolari della vita
storica ciò che quelle singole
discipline hanno scoperto in un quadro complessivo unitario, in uno sguardo
d’insieme sulla totalità, in breve, in una storia universale. Filosofia della
storia in questo primo significato del termine equivarrebbe quindi a storia universale.
Ma la generalità di un’esposizione può essere intesa in modi diversi. Se, per
richiamarci nuovamente al concetto della filosofia in generale, si pone ad essa
il compito di fornire una conoscenza complessiva della realtà, allora non si
può ritenere che essa possa accogliere in sé tutta la pienezza di contenuto del
materiale conosciuto dalle discipline particolari. La sua generalità deve
piuttosto essere sempre connessa con una generalizzazione nel senso che il
contenuto del sapere specialistico va perduto in grado maggiore o minore, e in
definitiva tale generalizzazione può spingersi al punto che soltanto i principi
generali diventano oggetto di indagine. Di qui deriva anche un nuovo
concetto della filosofia della storia. In questo modo tale disciplina deve
lasciar da parte il contenuto particolare della vita storica, per indagare sul
suo senso universale o sulle sue leggi universali. Anche senza un’ulteriore
determinazione dei concetti di senso e di legge, sorge così il concetto di una
scienza dei princìpi storici, che si distingue nettamente dal concetto di
storia universale. E infine, se storia non significa ciò che è accaduto, bensì
rappresentazione di ciò che è accaduto o scienza della storia, si perviene a un
terzo concetto. In ogni caso, quest’ultimo concetto si accorda con un punto di
vista, variamente rappresentato, in merito ai compiti della filosofia in
generale, per cui essa specialmente
nella sua parte teoretica deve avere per
oggetto non tanto le cose stesse, quanto il sapere relativo alle cose. La
filosofia della storia può quindi essere considerata anche come scienza del
conoscere storico o come una parte della logica nel senso più ampio del
termine. Forse si sentirà ancora la mancanza di una disciplina che si occupi
del significato del pensiero storico per la trattazione dei problemi generali
dell’intuizione del mondo e della concezione della vita. Ma a tali questioni
sarà facile rispondere se il lavoro finora solo indicato è stato compiuto e non
c'è quindi motivo di elencare un quarto tipo di filosofia della storia.
Certamente la storia universale, la dottrina dei princìpi della vita storica e
la logica della scienza storica sembrano essere, di fatto, tre scienze
egualmente legittime, ognuna delle quali ha i suoi problemi particolari, e che
hanno però tutte diritto al nome di filosofia della storia. Ma se si guarda con
maggior precisione, si presenta subito un quadro diverso. Come la storia
universale deve sussistere accanto alle singole discipline storiche? Dev’essere
concepita come una mera somma delle scoperte di quelle? Certamente no. Da essa
si esigerà al minimo che esponga in modo unitario la totalità storica. Ma che
cos’è questa totalità, in cui consiste il principio della sua unità e della sua
articolazione? Attraverso questioni di questo genere il primo tipo di filosofia
della storia conduce, nella trattazione dei suoi concetti fondamentali, al
secondo tipo. Ma anche i concetti di cui la scienza dei princìpi ha bisogno per
determinare il suo compito non possono venir presupposti come ovvi, sia che si
pensi a leggi universali a cui dev'essere sottoposta ogni vita storica, sia che
si voglia porre a fondamento della totalità dello sviluppo storico un senso
unitario. In questi concetti vi sono dei problemi. Mentre ognuno ritiene ovvio
cercare le leggi naturali, si contesta però decisamente la possibilità di
indicare leggi storiche; prescindendo da questo, perché nel campo delle scienze
naturali le leggi vengono ricercate dalle stesse discipline particolari, mentre
per la storia questo compito spetta a una disciplina filosofica? Con quale
diritto, inoltre, ipotizziamo un senso del corso storico, e quali strumenti
abbiamo per riconoscerlo? La filosofia della storia come scienza dei princìpi
non può cominciare il suo lavoro senza affrontare questioni di tal genere; né
potrà rispondere ad esse se non ha chiara l’essenza del conoscere storico in
generale, cioè se non possiede nozioni logiche. Vediamo così la seconda delle
tre discipline condurre alla terza, nello stesso modo in cui la prima conduceva
alla seconda. Da ciò deriva pertanto tra i diversi tipi di filosofia della
storia che a prima vista sembravano
costituire tre scienze indipendenti, ognuna con problemi differenti una connessione tale che la logica della
storia deve costituire il punto di partenza e il fondamento di tutte le
indagini di filosofia della storia. Fino a quale punto, poi, i problemi della
scienza dei princìpi e della storia universale debbano trasformarsi in problemi
logici, se devono poter essere risolti in generale, è cosa che soltanto
l’indagine concreta può stabilire. Ma già da ora è certo che non è arbitrio, ma
necessità, se prendiamo qui le mosse da uno sguardo d'insieme sui problemi e
sui dibattiti più importanti della logica della storia. Anteponendo questa parte
entriamo immediatamente nel campo della filosofia della storia, in cui la
nostra epoca può maggiormente pretendere una certa originalità. Per la
formulazione e la trattazione logica dei problemi si trovano nella filosofia
dell’idealismo tedesco osservazioni sì molto valide, ma isolate e
asistematiche; e nella filosofia pre-kantiana del passato e del presente non si
è fatto nulla per rispondere a tali questioni. Nonostante l’evidente
connessione tra logica della storia e filosofia della storia in senso lato, i
primi tentativi di comprendere a fondo, nel suo carattere specifico, l’essenza
logica della scienza storica non risalgono molto all’indietro di Paul*, di
Naville‘, di Simmel e soprattutto di Windelband. Anche sulle questioni più
elementari, infatti, domina finora in questo campo il più violento contrasto di
opinioni; anzi, una logica della storia che meriti questo nome deve ancora
combattere per la giustificazione della sua esistenza. Non soltanto si
crede come fa per esempio Lindner® di poter trattare scientificamente i problemi
della filosofia della storia senza una fondazione logica, ma si è addirittura
contestato il diritto di esporre un concetto puramente logico della storia e
del metodo storico. I motivi non consistono soltanto nel fatto che in tali
questioni sono intervenuti molti ai quali fa difetto la preparazione necessaria
per trattare problemi del genere. E neppure derivano soltanto dalle difficoltà
che si presentano in questo campo: solo che si imbocchi la via giusta,
l'essenza logica della storia non è più difficile da comprendere di quella di
altre scienze. Ma proprio su questa strada non esiste, stranamente, alcuna
concordia. Sembrerebbe ovvio che chi va alla ricerca di chiarezza in questo
campo cerchi un orientamento, almeno preliminare, nel3. Hermann Paul
(1846-1921), glottologo tedesco, autore dei Prinzipien der Sprachgeschichte
(1880), fu un rappresentante del metodo storico nello studio della linguistica.
4. Adrien Naville (1845-1930), filosofo svizzero di origine positivistica, autore
del volume De la classification des sciences, Paris, 1888 al quale si riferisce qui Rickert e di altri scritti di teoria della
conoscenza. 5. Theodor Lindner (1843-1919), filosofo e storico tedesco, autore
della Geschichtsphilosophie: das Wesen der geschichtlichen Entwicklung (1901),
e di una Weltgeschichte scit der Volkerivanderung (1901-16). le opere dei
grandi storici universalmente riconosciuti, e stabilisca anzitutto ciò che
distingue il pensiero storico da quello delle altre scienze. Sembrerebbe poi
ovvio che debba essere anzitutto compresa la struttura logica della scienza
storica quale essa esiste, prima di pronunciare un giudizio sul suo valore
scientifico. Ma in questo caso l’ovvio non coincide con ciò che avviene di
solito. Talvolta il riferimento alle opere dei grandi storici viene piuttosto
respinto per esempio da Lamprecht* e da
Tònnies” come non scientifico: queste
esposizioni non conterrebbero vera scienza. In particolare, proprio coloro che
per tutto il resto non si stancano di celebrare l’esperienza come unico
fondamento di ogni sapere, nell’indagine logica delle scienze empiriche si
mettono al lavoro utilizzando un concetto di scienza storica fissato in
precedenza e mai realizzato; e poiché non trovano mai gli storici sulla via che
conduce al loro ideale, pensano che sia anzitutto necessario elevare a scienza
la storia. In teste di questo genere si è così fissata l’idea di un’antitesi
tra scienza e storia, e proprio questi pensatori si sentono stranamente
chiamati a istruire la scienza storica sui suoi veri fini. Non ci si deve
meravigliare del fatto che la maggior parte degli storici non vuole saperne di
simili speculazioni estranee alla storia. Così avviene che storia e filosofia
spesso non si comprendono più, ed entrambe soffrono di questa situazione.
L’astorica filosofia della storia che un tempo aveva avuto larga risonanza
soprattutto nella forma delle teorie (non della prassi) di un Taine® e di un
Buckle e che oggi viene rinnovata, 6. Karl Lamprecht (1856-1915), storico
tedesco, autore di importanti saggi metodologici come Alte und neue Richtungen
in der Geschichtswissenschaft (1896), Was ist Kulturgeschichte? (1896-97), Die
kulturhistorische Methode (1900) e della Einf@zhrung in das historische Denken
(1912), nonché di una monumentale Deutsche Geschichte in dodici volumi
(1891-1904), è il maggiore rappresentante dell’orientamento positivi. stico
nella storiografia tedesca dî fine Ottocento. 7. Ferdinand Tònnies (1855-1936),
sociologo tedesco, autore di Gemeinschaft und Gesellschaft (1887), di Die Sitte
(1909), della Kritik der òffentlichen Meinung (1922), della Einfiihrung in die
Soziologie (1931), nonché di una nota monografia su Hobbes (1896) e di vari
scritto sul marxismo. 8. Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), storico e filosofo
positivista francese, autore della Philosophie de l'art (1865), del libro De
l'intelligence (1870), di numerosi saggi di critica e di storia letteraria,
nonché di un'ampia opera, rimasta incompiuta, su Les origines de la France
contemporaine (1876-93), fu il maggiore rappresentante dell'impostazione
positivistica nell’ambito dell'estetica. più con passione che con chiarezza,
per esempio da Lamprecht, è stata abbastanza respinta, per gli scopi della
scienza storica empirica, da Droysen’, Bernheim”, von Below", Eduard Meyer
e altri. Ma in questo dibattito metodologico tra storici in cui sono state introdotte anche questioni
come quelle della libertà e della necessità, della conformità alle leggi e
dell’accidentalità, della teleologia e del meccanicismo molto è rimasto non chiarito da un punto di
vista filosofico, nonostante alcuni preziosi risultati: perciò anche gli
storici si mostrano talvolta assai perplessi quando, seguendo la caratteristica
dell’epoca che torna a farsi più
filosofica, passano dalle loro indagini specialistiche a considerazioni più
generali. Ma di questa situazione soffre molto di più la filosofia. A causa
della incomprensione del pensiero storico, che proprio nella nostra epoca è
quanto mai importante, la filosofia è condannata a una profonda mancanza di
influenza; e fino a qual punto tale mancanza d’influenza sia connessa alla
separazione dalla storia risulta in modo particolarmente chiaro dal fatto che,
se oggi si manifesta talora un interesse filosofico nei rappresentanti delle
cosiddette scienze dello spirito, esso è per lo più mediato dal legame con
indagini di metodologia della storia. Ai nostri giorni l’incomprensione
dell’essenza del lavoro storico viene naturalmente in luce con la massima
chiarezza nei rappresentanti dei dogmi naturalistici, oggi nuovamente di moda;
e non fa una differenza essenziale se questo naturalismo si presenta come
materialismo o come psicologismo. In entrambi i casi il riconoscimento della
storia come scienza significherebbe uno scuotimento dei concetti naturalistici
fondamentali. Infatti dove si identifica la realtà con la natura, vi è tanto
meno spazio per la storia quanto più si pensa in modo coerente. Ma l’estraneità
della nostra filosofia alla storia ha motivi ancor più 9Johann Gustav Droysen
(1808-1884), storico tedesco, autore della Geschichte des Hellenismus (1836-43)
e della Geschichte der preussischen Politik (1855-86), nonché di un Grundriss
der Historik (1868) che espone in forma sistematica i principi del metodo
storico. ro. Ernst Bernhcim (1850-1942), metodologo della storia tedesco,
autore di un fortunato Le/lrbuch der historischen Methode und der
Geschichtsphilosophie (1889). rt. Georg von Below (1858-1927), storico tedesco,
autore di Der deutsche Staat des Mittelalters (1914), di Die deutsche
Geschichtsschreibung von den Befreiungskriegen an bis zu unseren Tagen (1916),
nonché di altri studi di storia costituzionale ed economica. profondi. Per
quanto il naturalismo come intuizione del mondo sia stato in linea di principio
completamente superato per merito di Kant, nella sostanza tale superamento non
procede in direzione del pensiero storico. Nel seguace di Newton vi sono al
massimo le premesse per una comprensione di questo pensiero, e la metodologia
di Kant è ancora dominata quasi del tutto
e proprio nella sua più importante opera teoretica dall’interesse per la matematica e per la
scienza naturale. Dfatto, quindi, ci si può richiamare a Kant come fa per esempio Max Adler! con una certa parvenza di legittimità se si
ricusa al lavoro storico un vero e proprio carattere scientifico. Si aggiunga
infine che tra le scienze della natura
nella misura in cui sono scienze sistematiche e la filosofia che anch'essa aspira a un sistema c’è un’affinità formale maggiore di quella
che esiste tra la filosofia e la storia, la quale non può mai diventare una
scienza sistematica. Si deve anzi parlare di un antagonismo tra pensiero
storico e pensiero filosofico, che nessuno può anche soltanto desiderare di
accantonare: la filosofia dovrà sempre combattere lo storicismo come intuizione
del mondo. Ma tutto ciò fa apparire ancor più urgenti i compiti di una logica
della storia. Il naturalismo viene respinto non meno dello storicismo, e la
filosofia può sperare di aver ragione dello storicismo soltanto se ha compreso
a fondo l’essenza e il significato del pensiero storico. Da tutto ciò deriva
per la logica il compito di superare completamente nella sua unilateralità il
naturalismo metodologico, ancora rappresentato pure da Kant, e di pervenire
così a una comprensione di ogri lavoro scientifico. L'affermazione che finora
poco si è fatto per la soluzione di questo compito incontrerà forse opposizioni
se si tengono presenti le molte indagini sull’essenza delle scienze dello
spirito intraprese da Mill in poi; e certamente non si può dire che 12. Max
Adler (1873-1937), sociologo e filosofo austriaco, autore di Marx als Denker
(1908), di Marxistische Probleme (1913), di Kant und der Marxismus (1925), di
Das Soziologische in Kants Erkenntniskritik (1925), del Lehrbuch der
materialistischen Geschichtsauffassung (1930) e di varie altre opere, fu uno
dei maggiori esponenti del cosiddetto austro-marxismo, orientato verso
un’interpretazione in chiave kantiana di Marx, Rickert si riferisce qui al
volume Kausalitàt und Teleologie im Streite um die Wissenschaft, Wien. tutti
questi lavori siano privi di valore. Ma nelle indagini (per altro verso
estremamente preziose) condotte per esempio da Dilthey, Wundt!, Miinsterberg! e
da altri, il punto decisivo, che rende possibile una reale comprensione logica
della storia, non è stato affatto toccato (come da parte di Wundt e di
Miinsterberg) oppure (come in Dilthey) non è stato elaborato in modo preciso e
posto al centro, in modo da diventare realmente fecondo in una logica della
storia. Ciò trova già espressione nella terminologia consueta, che contrappone
le scienze dello spirito alle scienze della natura. L’antitesi tra natura e
spirito è oggi tutt'altro che univoca. I pensatori che si sono occupati
dell'essenza delle scienze dello spirito determinano in modo assai diverso
anche il concetto fondamentale di spirito, e sono d'accordo soltanto su un
punto, cioè che esistono in generale due gruppi diversi di scienze empiriche. E
nemmeno si può sperare che dal concetto di spirito si pervenga a un accordo
sull’essenza del pensiero storico. Questi tentativi contengono alla loro base
troppi presupposti per lo più di carattere metafisico, che offrono soltanto
degli appigli a un naturalismo estraneo alla storia. L'unico concetto di
spirito con cui oggi si può lavorare senza bisogno di una fondazione più
precisa è quello di realtà psichica in antitesi a quella fisica: che ciò che
chiamiamo piacere o ricordo o volontà non sia un corpo, è infatti ammesso da
tutti i pensatori che meritano di essere presi in considerazione. Ma
quest’unico concetto di spirito, senz’altro utilizzabile, è del tutto
inadeguato per una delimitazione delle diverse scienze e per la comprensione
dell’essenza della 13. Wundt, psicologo e filosofo tedesco, autore dei Beitrige
zur Theorie der Sinneswahrnehmung (1858-62), delle Vorlesungen fiber die
Menschenund Tierseele (1863-64), dei Grundziige der physiologischen Psychologie
(1874), della Logik (1880-83), della Eekik (1886), del Systera der Philosophie
(1889), della Einleitung in° die Philosophie (1901), della Volkerpsychologie e
di varic altre opere, fu il maggiore esponente del positivismo in Germania: è
considerato il fondatore della moderna psicologia scientifica, basata sul
metodo sperimentale. Rickert si riferisce qui alla terza parte della Logik, che
reca il titolo Logi der Geisteswissenschaften (vol. Il-2, 2° cd. Stuttgart,
1895). 14. Hugo Miinsterberg (1863-1916), psicologo c filosofo tedesco, autore
dei Grundzige der Psychologie, della Philosophie der Werte (1908), di Psychologie
und Wirtschaftsleben (1912), dei Grundzige der Psychotechnik (1914) e di varie
altre opere, si ispirò da una parte all'insegnamento di Wundt e dall'altra alla
filosofia dei valori. storia. Il naturalismo può a buon diritto sostenere che,
se l’elemento spirituale nel senso sopra indicato non è certamente corpo,
appartiene però del tutto alla natura, e dev'essere quindi indagato
scientificamente allo stesso modo di tutti gli altri oggetti naturali. Esso può
sostenere che non si tratta soltanto di una teoria, ma che la prassi della
psicologia moderna eleva questa certezza al di sopra del conflitto tra le
diverse prospettive metodologiche. Di fronte a queste affermazioni i
sostenitori dell’antitesi tra scienze della natura e scienze dello spirito
saranno disarmati finché non avranno determinato il loro concetto fondamentale
in modo incontestabile, e nel caso del concetto di spirito ciò non sarà mai
possibile con mezzi logici, o in ogni caso lo sarà soltanto qualora si sia già
acquisito il concetto logico della storia. La dottrina del metodo non ha alcun
bisogno di impegnarsi dapprima in tutte queste questioni controverse, se
rivolge la sua attenzione soltanto a ciò che vuol porre in chiaro, cioè al
metodo. Il metodo consiste nelle forme utilizzate dalla scienza
nell’elaborazione del suo materiale. Con ciò non si vuol negare che il metodo
sia variamente condizionato dal carattere specifico del materiale. Anche
un’indagine che rifletta sulla diversità di contenuto delle singole scienze può
condurre quindi a questo o a quel risultato, prezioso dal punto di vista
logico. Ma questi risultati si presenteranno in modo più o meno accidentale, e
una logica che vuol raggiungere il suo fine con sicurezza e per la via più
breve prescinde pertanto da tutte le distinzioni di contenuto delle singole
scienze, per poter meglio comprendere le distinzioni metodologiche di carattere
formale. Essa deve soltanto riflettere sul fatto che nelle scienze empiriche
agli oggetti si contrappone sempre un soggetto conoscente che siano essi oggetti spirituali o corporei,
processi naturali o prodotti culturali
li assume come dati , e che il
soggetto si prefigge il fine di conoscere questa o quella parte, o anche la
totalità del mondo dato. Si riconoscerà allora facilmente che la conoscenza non
consiste in una riproduzione o in una copia, ma in una comprensione
trasformatrice degli oggetti. A dimostrarlo già basta, prescindendo da tutti
gli altri motivi, la semplice riflessione che la realtà data da cui muove ogni scienza empirica si presenta, nella totalità come in ogni sua
parte, come una molteplicità sterminata che nessuno è in grado di riprodurre.
Il contenuto di ogni giudizio che asserisca qualcosa sulla realtà è
necessariamente, in confronto alla realtà stessa, una grossa semplificazione.
La scienza può perciò anche essere considerata come una trasposizione del
materiale dato intuitivamente in immagini di pensiero, per le quali si
preferisce usare il nome di concetto per distinguerle dall’intuizione. In
questo processo di trasformazione concettuale consiste il metodo della scienza.
Inoltre ed è questa la cosa
principale le forme del lavoro
scientifico, in quanto strumenti per il conseguimento del fine scientifico,
devono dipendere nel loro carattere specifico dalla specificità formale dei
fini a cui il soggetto tende nel conoscere. La logica deve quindi indagare i
compiti, formalmente diversi tra loro, che le diverse scienze si pongono e
cercare di comprendere i metodi scientifici nella loro diversità come gli
strumenti, necessariamente differenti, per il conseguimento di questi diversi
fini o come i modi, anch'essi necessariamente differenti, della trasformazione
e dell’elaborazione concettuale del materiale intuitivamente dato. Ovviamente,
le distinzioni metodologiche che ne risultano sono, al pari delle distinzioni
dei fini, puramente formali; ma proprio in virtù di questo loro carattere
puramente formale esse devono valere come elementi fondamentali e decisivi per
la comprensione dell’essenza logica di un metodo scientifico. La logica ha a
che fare sempre e soltanto con le forme del pensiero. Se da queste
determinazioni generali del compito di una logica delle scienze particolari ci
volgiamo ai concetti fondamentali che la logica della scienza storica deve
sviluppare in modo particolare, sarà necessario in primo luogo recare alla
coscienza la massima antitesi formale presente nella nostra concezione della
realtà empirica, cioè chiedersi che cosa significhi logicamente quest’antitesi
e indicare quale termine dell’antitesi sia determinante per la rappresentazione
storica della realtà. Che vi siano due tipi sostanzialmente diversi di
apprendimento della realtà, si può forse comprenderlo nel modo migliore
guardando alle conoscenze pre-scientifiche che possediamo di una parte più o
meno grande del mondo. Sarebbe illusorio credere di avere qui una copia della
realtà quale essa è. Prima che la scienza si accinga al suo lavoro è sorta già
sempre qualche specie di elaborazione concettuale, e la scienza trova come
proprio materiale i prodotti di questa elaborazione concettuale prescientifica,
non la realtà libera da interpretazioni. La massima distinzione formale in
questa elaborazione concettuale pre-scientifica è però quella seguente. La
maggior parte delle cose e degli eventi ci interessano solamente per quello che
hanno in comune con altri; e quindi noi facciamo attenzione a questo elemento
comune, anche se di fatto ogni parte della realtà è individualmente diversa da
ogni altra e nulla nel mondo si ripete esattamente. Poiché l’individualità della
maggior parte degli oggetti ci è del tutto indifferente, noi non la conosciamo;
per noi questi oggetti non sono che esemplari di un concetto di genere, che
possono essere sostituiti da altri esemplari dello stesso concetto: anche se
non sono mai identici, noi li vediamo come tali e quindi li designamo soltanto
con nomi di genere. Questa delimitazione, a tutti nota, dell’interesse a ciò
che è generale (nel senso di ciò che è comune a un gruppo di oggetti), o
apprendimento generalizzante, sulla cui base riteniamo a torto che nel mondo
esista qualcosa come l’identità e la ripetizione, è per noi al tempo stesso di
grande valore pratico. Esso articola in un modo determinato la molteplicità e
la policromia della realtà, e ci rende possibile di orientarci in essa. D'altra
parte l'apprendimento generalizzante non esaurisce affatto ciò che ci interessa
nel nostro ambiente, e che quindi conosciamo di esso. Questo o quell’oggetto
viene piuttosto preso in considerazione proprio per quello che è ad esso
peculiare, e che lo distingue da tutti gli altri oggetti. Il nostro interesse e
la nostra conoscenza si riferiscono quindi proprio alla sua individualità, a
ciò che lo rende insostituibile; e se anche sappiamo che esso si lascia
cogliere, al pari degli altri oggetti, come esemplare di un concetto di genere,
tuttavia non vogliamo considerarlo identico ad altre cose, ma vogliamo estrarlo
espressamente dal suo gruppo: ciò trova la sua espressione linguistica nella
designazione con un nome proprio anziché con un sostantivo di genere. Anche
questo tipo di articolazione, o apprendimento individualizzante della realtà, è
così corrente che non richiede una ulteriore analisi. Ma una cosa è importante
e dev'essere sottolineata: la conoscenza dell’individualità di un oggetto non
costituisce neppur essa una copia nel senso che noi conosciamo l’intera
molteplicità del suo contenuto, ma anche qui si compie una determinata scelta e
trasformazione, cioè si estrae un complesso di elementi che, in questa
particolare composizione, appartiene soltanto a quell’urico oggetto
determinato. Dobbiamo quindi distinguere l’individualità che spetta a qualsiasi
cosa o evento il cui contenuto coincide
con la sua realtà, e la cui conoscenza non può essere raggiunta né merita di
essere oggetto di aspirazione
dall’individualità per noi significativa, e consistente di elementi
determinati; e dobbiamo aver chiaro che questa individualità in senso stretto
(la sola a cui di solito si allude) non costituisce una realtà, al pari del
concetto di genere, ma è soltanto un prodotto del nostro apprendimento della
realtà, della nostra elaborazione concettuale pre-scientifica. La distinzione
qui illustrata deve suscitare in alto grado l'interesse della logica. In primo
luogo, non soltanto ogni lavoro scientifico si richiama a processi
pre-scientifici e ai loro risultati, ma dev'essere in larga misura inteso come
elaborazione sistematica di ciò che è stato cominciato in modo non arbitrario.
Inoltre tale distinzione è particolarmente significativa sia perché è puramente
formale in quanto qualsiasi oggetto può
essere appreso in modo generalizzante e in modo individualizzante sia perché, come antitesi tra generale e
particolare, rappresenta la massima distinzione che si possa pensare da un
punto di vista logico. Se deve avere un significato per i metodi delle singole
scienze, la logica deve anche fare di esse il punto di partenza delle proprie
indagini. Per quanto riguarda la considerazione generalizzante degli oggetti,
non c'è alcun dubbio non soltanto sulla sua importanZa pratica, ma anche sulla
sua importanza teoretica per la scienza. Il metodo di molte scienze consiste in
una subordinazione del particolare al generale, che coincide con la formazione
di concetti di genere e con la considerazione degli oggetti come esemplari di
questi. Conoscere significa allora comprendere ciò che non è conosciuto come
caso particolare di ciò che è noto, in modo da eliminare l’individuale, il
singolare, e da accogliere nella scienza soltanto l'elemento comune. Il fine
supremo di questa conoscenza è di ricondurre la realtà da conoscere sotto
concetti universali in modo che questi ultimi si uniscano, mediante rapporti di
sovra-ordinazione e di subordinazione, in un sistema unitario, e che si
tenda dove è possibile a concetti il cui contenuto valga ir modo
incondizionatamente universale per gli oggetti da indagare. Dove si perviene a
questo tipo di conoscenza, si è colto ciò che chiamiamo le leggi della realtà.
Del tutto legittimo è poi anche il tentativo di applicare questo metodo di
comprensione a tutti i campi della realtà e di andare quindi ovunque alla
ricerca di leggi, sia nella realtà spirituale o in quella corporea, sia nei
processi naturali o nella vita culturale. Ciò può essere certamente più
difficile in un campo che in un altro, e anzi qualche volta i concetti
incondizionatamente universali sono inconoscibili all'uomo; ma la
considerazione generalizzante non è mai esclusa in linea di principio, e da ciò
sembra risultare una conseguenza metodologica fondamentale. Si può cioè
concludere che il pensiero scientifico coincide con la formazione di concetti
generali e che quindi, da un punto di vista puramente formale, esiste soltanto
“r metodo scientifico. L’antitesi tra apprendimento generalizzante e
apprendimento individualizzante avrebbe allora significato per la logica
soltanto nella misura in cui la scienza elimina ovunque l’individuale mediante
concetti generali; e proprio perché nella nostra analisi non si è tenuto alcun
conto della peculiarità del materiale delle diverse scienze, la divisione
consueta in scienze della natura e scienze dello spirito sembra svanire, almeno
nel suo significato metodologico formale. Piuttosto, la vita spirituale
dev'essere trattata in modo generalizzante al pari del mondo corporeo: perciò
anche la scienza storica è naturalmente costretta ad applicare il metodo
generalizzante. Di fatto, sono questi i motivi migliori su cui poggiare la
proclamazione di un metodo universale, perché si tratta di motivi puramente
formali e, nella misura in cui l’apprendimento generalizzante celebra i suoi
massimi trionfi nelle scienze della natura, qui abbiamo nel medesimo tempo il
miglior fondamento del naturalismo metodologico. Ma una logica che voglia
comprendere le scienze così come realmente esistono non si accontenterà di questo.
Dal giusto principio che ogni realtà può essere sottomessa a una considerazione
generalizzante essa non concluderà che la formazione di concetti generali è
senz'altro identica con il procedimento scientifico. Essa si chiederà piuttosto
se tutte le scienze applicano effettivamente questo procedimento e dovrà
rispondere negativamente osservando il lavoro scientifico che è presente nelle
opere di tutti gli storici. Questo fatto è così evidente che anche i
sostenitori di un metodo universale di tipo generalizzante o del naturalismo
metodologico non possono negarlo. Essi cercano di aiutarsi dicendo che la
scienza storica è oggi ancora imperfetta e per questo motivo non si adegua al
sistema sopra indicato, ma che quanto più progredirà, tanto più si servirà anch'essa
dell’unico metodo scientifico, cioè del metodo generalizzante. Questo punto di
vista è però insostenibile, e non soltanto
come si deve sempre sottolineare nel modo più energico per il fatto che la realtà di cui la storia
tratta non può essere ricondotta sotto concetti generali e infatti questa è un’affermazione
indimostrabile per la logica che procede in modo formale ma semplicemente perché rientra nell’essenza
della scienza storica che, non appena comprende se stessa, essa non vole
compiere un'elaborazione della realtà in riferimento a ciò che vi è di comune
negli oggetti, e non vuole compierla perché su questa via non è mai possibile
conseguire i fini che essa si pone in quanto storia. Ma quali sono questi fini,
nel loro carattere formale? Se l'oggetto storico si tratti di una personalità, di un popolo,
di un’epoca, di un movimento economico o politico, religioso o artistico dev'essere rappresentato come una totalità,
occorre in ogni caso coglierlo nella sua singolarità e nella sua individualità
irripetibile, e assumerlo nella rappresentazione come se non potesse essere
sostituito da nessun'altra realtà. Perciò la storia non può servirsi, se si
prende in considerazione il suo fine ultimo, ossia la rappresentazione
dell’oggetto nella sua totalità, del procedimento generalizzante, poiché questo
coincide con un’esclusione dell’individuale e conduce così al contrario logico
di ciò a cui la storia aspira. È quindi ancora una volta del tutto indifferente
che l’oggetto storico sia un oggetto corporeo o spirituale, un prodotto
culturale o un processo naturale; importa solo che, dove è presente in generale
un interesse storico per una qualsiasi realtà, si tende a una rappresentazione
con un contenuto individuale, perché questa soltanto si presta alla soluzione
del compito proprio della scienza storica. Ciò non deve significare che la
storia cerchi di fornire una copia dell’individualità del suo oggetto: tanto
poco essa potrebbe infatti ottenerla, quanto poco nelle conoscenze
pre-scientifiche possediamo copie degli oggetti designati con nomi propri. Né
deve significare che la storia rappresenti il suo oggetto individualizzandolo
in tutte le sue parti, ma vuol dire che viene anzitutto presa in considerazione
soltanto l’individualità del tutto e che questa non coincide affatto, se
prescindiamo dall’idea di una copia, con la somma delle individualità delle sue
parti. Infine, non si può negare che per raggiungere il suo fine la storia ha
bisogno di concetti generali e procede in modo generalizzante, così come, all’inverso,
nelle scienze generalizzanti non si può fare a meno della rappresentazione
dell’individuale come punto di partenza per la formazione di concetti generali.
Si deve provvisoriamente rendere consapevole il carattere logico del fize
ultimo di ogni rappresentazione storica, e la struttura logica del risultato
che necessariamente corrisponde a questo fine. Se si va alla ricerca di esempi,
è naturalmente del tutto indifferente l’indirizzo a cui appartiene l’opera storica che si
prende in considerazione. Prendiamo la Weltgeschichte di Ranke o Les origines
de la France contemporaine di Taine, la Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert
di Treitschke! o la History of Civilisatton in England di Buckle, la Begrindung
des Deutschen Reiches durch Wilhelm I di Sybel! o la Caltur 15. Heinrich von
Treitschke (1834-1896), storico tedesco, autore del volume Die
Gesellschaftswissenschaft, ein kritischer Versuch (1858), della Deutsche
Geschichte im 19. Jahrkundert (1879-95), degli Historische und politische
Aufsitze (1886-97), delle Vorlesungen iiber Politi (pubblicate postume nel
1897-98) e di numerosi altri scritti, fu il maggiore rappresentante della
storiografia ottocentesca tedesca di ispirazione nazionalistica. Egli si
richiama a Hegel per formulare una concezione dello stato come fine supremo
della società, polemizzando contro il liberalismo e negando \la possibilità di
una scienza sociale autonoma nei confronti della scienza politica. 16. Heinrich
von Sybel (1817-1895), storico tedesco, autore della Geschichte des ersten
Kreuzzuges (1841), di Die Entstchung des deutschen Konigtums (1844), della
Geschichte der Revolutionszeit, 1789-1800 (1853-79), di Die Begriindung des
deutschen Reiches durch Wilhelm I (1889-94) e di varie altre opere, fu uno dei
principali rappresentanti del punto di vista nazionale-liberale nella
storiografia tedesca dell'Ottocento; nel 1856 fondò la Historische Zeitschrift . Sotto il profilo
der Renaissance in Italien di Burckhardt, lo Scharnhorst di Max Lehmann" o
la Deutsche Geschichte di Karl Lamprecht: ovunque, in corrispondenza ai titoli
delle opere, che indicano la totalità storica, troviamo una serie di
avvenimenti trattati così come si sono svolti una sola volta nel mondo e quale che sia il modo in cui li ha plasmati
lo storico rappresentati nella loro
particolarità e individualità. Forse che la Deutsche Geschichte di Lamprecht
(il quale crede di lavorare con un metodo nuovo) contiene come elemento
costitutivo soltanto ciò che è dato trovare in altri esemplari del concetto
generico di nazione, vale a dire nello sviluppo del popolo francese, inglese o
russo, e ciò che si è ripetuto spesso e si ripeterà in tempi diversi e in
luoghi diversi? Basta porre questa domanda per vedere che anche uno storico che
rifiuta in teoria la concezione
individualistica , nella prassi tratta sempre il suo oggetto in modo
individualizzante. Ma tale procedimento, che appartiene all'essenza di ogni
rappresentazione storica, non è applicato in nessun'opera di discipline non
storiche sia che si occupino di corpi o
della vita spirituale. La Lehre von den Tonempfindungen di Helmbholtz ! o il
Keimplasma di Weismann", la Medizimetodologico è importante il suo saggio
Uber den Stand der neueren deutschen Geschichtsschreibung (1856). 17. Max
Lehmann (1845-1929), storico tedesco, fu allievo di Droysen e soprattutto di
Ranke; insegnò a Marburg e poi a Gòttingen. Le sue opere principali sono Ja
biografia di Scharnhorst (Leipzig, 1886-87)
alla quale si riferisce Rickert nel testo e un'altra importante biografia di Stein (apparsa
nel 1902-1905). 18. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), fisico,
anatomista e fisiologo tedesco, autore del volume Uber die Erhaltung der Kraft
(1847), dello Handbuch der physiologischen Optik (1856-67), di Die Lehre von
den Tonempfindungen als physiologische Grundlage fiir die Theorie der Musik
(1863), dei Populàre wissenschafiliche Vortrige (1865-76), delle
Wissenschafiliche Abhandiungen (1882-95), e di numerosi altri scritti, fu uno
dei maggiori scienziati della scconda metà dell’Ottocento. I suoi contributi
vanno dalla fisica (scoprì la legge della conservazione dell'energia)
all'elettrologia, dalla geometria all'ottica geometrica, dall'anatomia alla
fisiologia del sistema nervoso. 19. August Weismann (1834-1914), zoologo e
biologo tedesco, autore di Uber die Berechtigung der Darwinschen Theorie
(1868), di Uber den Einfluss der Isolierung auf die Artbildung (1872), delle
Studien zur Deszendenztheorie (1875-76), di Die Kontinuiràt des Keimplasmas als
Grundlage einer Theorie der Vererbung (1885), di Uber den Riickschritt in der
Natur (1886), degli Aufsitze tiber Vererbung (1892), di Das Keimplasma (1892),
di Die Allmacht der Naturziichtung (1893), di Uber Germinalselektion (1896),
dci Vortrige tiber Deszendenziheorie (1902) e di varie altre opere, si richiamò
a Darwin, di cui riprese e sviluppò la teoria della selezione naturale. È
considerato uno dei fondatori della genetica moderna. nische Psychologie di
Lotze”® o la Entwicklungsgeschichte der Tiere di von Baer”, il Treatise on Electricity
and Magnetism di Maxwell? o Gemeinschaft und Gesellschaft di Tonnies nell’esposizione definitiva tutte queste
opere considerano nei loro oggetti come
risulta già dai titoli soltanto ciò che
consente di ritenerli eguali ad altri esemplari dello stesso concetto di
genere, e di cui si può quindi dire che si ripete a piacimento. Che vi siano
non soltanto scienze generalizzanti dello spirito, ma anche scienze
individualizzanti dei corpi, non ha alcuna importanza in questo contesto. Noi
non ci occupiamo della differenza tra spirito e corpo, ma soltanto della
differenza formale dei fini e dei metodi scientifici; e anche ai fanatici del
metodo scientifico sarà difficile rifiutare la differenza che abbiamo indicato.
È quasi inconcepibile che si possa ancora discuterne. Stabiliamo quindi come
punto di partenza di una logica della storia che non soltanto nelle nostre
conoscenze pre-scientifiche vi sono due modi di apprendimento della realtà
distinti in linea di principio, quello generalizzante e quello individualizzante,
ma che ad essi corrispondono due modi di elaborazione scientifica della realtà
differenti nei loro fini ultimi e così pure nei loro risultati ultimi. Ciò non
vuol dire ovviamente che si debbano separare tra loro due gruppi di scienze, in
modo che ne risulti al tempo stesso il principio di una divisione del lavoro
scientifico. Distinzione logica non significa divisione reale, e l’antitesi
formale non deve né può servire alla divisione reale, poiché quest’ultima si
collega a differenze oggettive del materiale, non già a differenze logiche. È
quindi del tutto erroneo combattere il valore logico dell’antitesi dicendo che
essa frantumerebbe il lavoro scientifico in modo contraddittorio rispetto ai
fatti e che vorrebbe separare ciò che di fatto è 20. Rickert si riferisce qui
alla Medizinische Psychologie oder Physiologie der Scele, Leipzig, 1852. 21.
Karl Ernst von Bacr (1792-1876), zoologo c biologo tedesco, autore di Uber
Entwicklungsgeschichte der Tiere (1828-37), delle Reden und kleine Aufsàtze (1864-76),
del volume Zum Streit îîber den Darwinismus (1873), delle Studien auf dem
Gebiete der Naturwissenschaften (1874). 22. James Clerk Maxwell (1831-1879),
fisico inglese, autore del Treatise on Electricity and Magnetism (1873), di
Matter and Motion (1876) c di varie altre opere, diede un contributo decisivo
alla formulazione della teoria elettromagnetica della luce. ovunque in un
rapporto di cooperazione. Si tratta soltanto della distinzione concettuale di
due diverse tendenze di apprendimento nelle scienze, che possono molto spesso,
e fors’anche sempre, cooperare di fatto; e questa distinzione concettuale
sarebbe necessaria anche se non si potessero separare due tipi di scienze
neppure in riferimento ai loro fini ultimi. Se si cerca ora di determinare in modo
più preciso l'essenza del procedimento individualizzante, occorre anzitutto
porre in rilievo che il metodo della scienza non coincide con
quell’apprendimento individualizzante della realtà che possediamo nelle nostre
conoscenze pre-scientifiche. Anche nel caso dell’apprendimento generalizzante
noi parliamo di metodo soltanto dove l'elaborazione concettuale viene compiuta
sistematicamente. Che cosa corrisponde nella storia a quella connessione
sistematica di concetti più o meno generali? Nell’indicazione di questi
elementi che costituiscono la scientificità del metodo individualizzante la
logica della storia dovrà scorgere una
volta che abbia trovato il suo punto di partenza il suo ulteriore compito. Qui si potranno
naturalmente porre in luce soltanto alcuni punti che in tempi recenti hanno
dato occasione a questioni controverse, e che sono particolarmente adatti a
chiarire la differenza del procedimento individualizzante da quello
generalizzante. Cominciamo con un'ulteriore analisi del concetto che abbiamo
posto in risalto fin dall’inizio: il concetto di totalità storica.
L'individualizzazione pre-scientifica estrae spesso gli oggetti dal loro
ambiente in modo da separarli l’un l’altro e quindi da isolarli. Ma l'elemento
isolato in quanto tale non è oggetto di interesse scientifico, e nulla è più
sbagliato che identificare il metodo individualizzante con il mettere insieme
fatti isolati così come fanno i suoi
avversari. Piuttosto la storia, al pari delle scienze generalizzanti, deve
cogliere tutto in una connessione. Ma in che cosa consiste la connessione
storica? A partire da ogni oggetto storico essa si estende in certo modo lungo
due dimensioni, che si potrebbero designare come la dimensione della larghezza
e quella della lunghezza; occorre cioè anzitutto stabilire le relazioni che
uniscono l'oggetto con il suo a1biente e poi seguire nel loro legame reciproco
i diversi stadi che percorre dall'inizio alla fine, ossia, come si usa dire,
imparare a conoscerne lo sviluppo. Certamente, un oggetto così rappresentato è
poi, a sua volta, parte di un ambiente più grande e di uno sviluppo anteriore,
e lo stesso vale poi per questa connessione più comprensiva, di modo che scorge
una serie a due dimensioni che conduce fino ai limiti della totalità storica
ultima. Dove stia questo limite, non è ancora possibile chiarirlo con i
concetti finora acquisiti. In una specifica ricerca storica il punto dove si
cessa di perseguire la connessione storica dipende dalla scelta del tema. Qui
si tratta provvisoriamente soltanto di fissare il concetto di una connessione
storica in generale come connessione di una serie evolutiva di stadi diversi
reciprocamente connessi, concepita nel legame col proprio ambiente. Ciò è tanto
più necessario quanto più sono derivati di qui errori largamente diffusi
sull'essenza del metodo storico. La connessione può essere definita, in
antitesi ai singoli oggetti, come l’elemento generale della storia; e da ciò è
poi sorto il punto di vista secondo cui anche la scienza storica procederebbe
in modo generalizzante. L'inserimento di un oggetto nel suo ambiente così come lo storico lo compie è un processo estraneo al procedimento delle
scienze generalizzanti. Il milieu è sempre individuale, e viene preso in
considerazione dallo storico nella sua
individualità. Esso è generale soltanto
nel senso che i singoli individui in esso inseriti ne costituiscono le
parti. Ma che il rapporto della parte con il tutto non sia identico al rapporto tra l'esemplare e il
concetto di genere ad esso
sovra-ordinato, è cosa che non dovrebbe richiedere discussione. Proprio perché
la storia deve sempre considerare il particolare nel generale, cioè
considerarlo come elemento di un tutto, essa deve venir assegnata (in
riferimento ai suoi fini ultimi) alle scienze individualizzanti: lo stesso
risultato si ricava da una
considerazione dello sviluppo storico. Anche lo sviluppo è generale soltanto nel senso che costituisce
una totalità la quale comprende le sue
parti. Nella storia lo sviluppo significa
sempre il sorgere di qualcosa di nuovo, di qualcosa non mai esistito finora; e poiché nei concetti di
legge entra soltanto ciò che può essere
considerato come qualcosa che si ripete a piacimento, i concetti di sviluppo
storico e di legge si escludono a
vicenda. Soltanto l’equivocità del termine sviluppo rende possibile
unificare un procedimento storico-evolutivo con un procedimento scientifico fondato su leggi e
parlare di leggi dello sviluppo ; per
esempio dove come nell’embriologia
storico-evolutiva si guarda alle serie
evolutive per quel che hanno di comune, e dove quindi z07 si deve prendere in
considerazione il divenire storico del nuovo nel suo carattere specifico.
In breve, gli sviluppi storici non sono
altro che individualità storiche
concepite nel loro divenire e nel loro crescere, e pertanto la loro rappresentazione è possibile,
analogamente a quella della connessione
con l’ambiente storico, soltanto con un metodo individualizzante. Anzi, la
connessione storica generale non è
che la totalità storica stessa, non già un sistema di concetti universali: la storia considera appunto
sempre questa totalità nella sua
particolarità, nella sua singolarità e nella sua individualità. Se poi indaghiamo anche sul ruolo che i
concetti generali hanno nella scienza
storica, ci imbattiamo anzitutto nel fatto
che tutti gli elementi dei giudizi e dei concetti storici sono generali. E tali devono essere già perché li
si indica con parole generalmente
comprensibili, e perché le parole debbono la loro comprensibilità soltanto al fatto di
possedere un significato generale, cioè comune a più oggetti. La storia lavorerà
quindi sempre con concetti generali di
realtà, che costituiscono gli elementi
ultimi dei propri concetti individuali, e perverrà alla loro rappresentazione individualizzante solo
mediante una determinata combinazione di questi elementi generali. Ma ciò non esaurisce ancora il significato dei
concetti generali nella storia. Essi
risultano indispensabili proprio anche per istituire la connessione storica. Il nesso reciproco
dei diversi stadi di una serie
storico-evolutiva o di un oggetto storico con il suo ambiente è sempre un legame causale, e la scienza
storica deve rappresentare questi rapporti di causa ed effetto per esprimere il
legame delle parti con la totalità.
Certamente non di rado si afferma che
gli oggetti dell'indagine storica o una
parte di essi sono esseri liberi
e che perciò lo storico non dovrebbe indagarne le connessioni causali.
Tuttavia, anche prescindendo dalla questione se il concetto di libertà sia da
identificare in genere con quello di assenza di causa, e se il problema della
libertà non debba essere trasferito
dalla filosofia teoretica all’etica, in ogni caso il concetto di assenza di
causa non ha alcun senso per una scienza
empirica. Anche la storia deve presupporre che
ogni suo oggetto sia l’effetto necessario di avvenimenti precedenti, e
deve quindi indagare anche la connessione causale. Ancora una volta ci imbattiamo in un punto
che può suscitare molte questioni controverse. Si è cioè proclamata
l’esistenza di un metodo causale della storia che dovrebbe essere analogo al
metodo delle scienze generalizzanti. Ciò può essere ritenuto esatto soltanto se
si identifica il concetto di causalità con il
concetto di conformità a leggi. Se si fa questo, certamente ogni scienza che indaghi connessioni causali e quindi anche la storia
è una scienza di leggi; ma questa identificazione non ha alcuna legittimità. Per possedere realtà
empirica, i legami causali devono
piuttosto essere realtà individuali, poiché non vi sono altre realtà al di fuori di quelle
empiriche individuali. Invece le leggi
sono sempre generali e possono perciò valere, se devono essere più che concetti, soltanto come
realtà metafisiche. Ma la dottrina del metodo deve mantenersi libera da
presupposti metafisici; essa può quindi parlare soltanto di legami causali individuali in quanto realtà
empiriche e di leggi in quanto concetti
generali. L'espressione metodo
causale che è particolarmente usata
come antitesi al procedimento
teleologico — è perciò un'espressione polemica che non dice nulla, proprio perché ogni scienza empirica
ha a che fare con connessioni causali, e
le connessioni causali in quanto tali sono
ancora indifferenti rispetto alle differenze di metodo: esse permettono,
al pari di ogni altra realtà empirica e individuale, sia un apprendimento generalizzante sia un
apprendimento individualizzante. Ma — e
con ciò ritorniamo al significato dei concetti generali — anche se ogni
connessione causale storica tra due stadi di
una serie storico-evolutiva è un processo in cui la causa produce
qualcosa che non esisteva prima, la rappresentazione di questi nessi causali
storici è possibile, al pari di ogni rappresentazione dell’individuale,
soltanto utilizzando elementi concettuali
che abbiano ognuno per sé un contenuto generale e che solo nella loro composizione particolare esprimono
l’individualità del reale; nella rappresentazione di legami causali individuali
si aggiunge invece qualcosa che richiede di fatto l’uso di concetti generali in
un senso particolare. Lo storico non vuole cioè
indicare soltanto la successione temporale di causa ed effetto, ma anche acquisire uno sguardo sulla
recessità con cui da questa causa
individuale e irripetibile scaturisce quest’effetto individuale e irripetibile;
e qui non si può evitare una deviazione
attraverso concetti generali di rapporti causali ed eventualmente
attraverso leggi causali. Per quanto il legame causale non possa essere generalmente designato come
realtà empirica, per esprimere
scientificamente la sua necessità noi possediamo soltanto lo schema spaziale e
temporale del dovunque e del sempre , e perciò alla rappresentazione
scientifica anche della necessità
causale individuale si collega sempre la formazione di un concetto generale o (dove si può pervenire
ad essa) di una legge causale generale —
circostanza che spiega al tempo stesso
il consueto scambio tra legge e causalità. Ciò costringe anche la storia, se vuol gettare un ponte tra una
causa individuale e il suo effetto
individuale in modo che la connessione causale si lasci cogliere come necessaria, a impiegare
concetti generali di connessioni
causali. Essa raggiunge il proprio fine scomponendo il concetto dell’oggetto
individuale — che dev'essere colto come
effetto necessario — nei suoi elementi sempre generali e poi connettendo questi elementi, egualmente
generali, del concetto della causa individuale, in modo che ognuno di
questi legami tra elementi concettuali
generali esprima la connessione causale
necessaria delle realtà ad essi sottoposte. Fatto questo, la storia ricompone gli
elementi generali del concetto di causa,
considerati di per sé, in un concetto che rappresenta l'individualità di questa causa: essa ottiene
in tal modo, mediante una deviazione
attraverso concetti causali generali,
una prospettiva scientifica sul legame necessario della causa storica
individuale con l’effetto storico individuale. Ovviamente, in questo modo è stato indicato soltanto un
ideale logico la cui realizzaziorie può
essere raggiunta solo parzialmente dove non
si riesce a collegare causalmente tutti gli elementi del concetto di effetto a elementi del concetto di causa;
e quindi soltanto di rado potrà
scomparire dalle rappresentazioni storiche un residuo causalmente non
derivabile. In casi del genere si parla
anche di libertà, perché manca la possibilità di scorgere la necessità causale. Non sì può in questa sede discutere
più da vicino quali mezzi la storia possegga per cogliere nel modo più compiuto possibile la necessità di un nesso
causale storico, e in quale rapporto
stia quindi con le scienze generalizzanti. Ma è
fin d’ora chiaro che anche per lo storico è importante la conoscenza di
leggi causali circostanza che spiega
perché si vuol fare della storia una
scienza di leggi. Altrettanto chiaro è però
che con questa importanza dei concetti di legge non cambiano per nulla i fini della storia. I prodotti del
pensiero generalizzante sono per essa sempre soltanto deviazioni o strumenti e
servono, al pari degli elementi generali dei concetti storici, a una rappresentazione che vuol cogliere la
totalità storica in modo
individualizzante. Neppure
mediante un'esposizione di tutti i casi in cui il procedimento generalizzante è soltanto mezzo
di una rappresentazione individualizzante si potrebbe esaurire il
significato che i concetti generali
hanno nella storia. Ciò che si prende in considerazione nella sua singolarità e
individualità è sempre e soltanto la totalità storica, non già tutte le sue
parti. Molte di esse non vengono rappresentate dalla storia qualora non abbiano
alcun significato per l’individualità del tutto, e anche la maggioranza delle
parti rappresentate viene raccolta sotto concetti generali di gruppo. Anzi, si
può sostenere che in una rappresentazione storica non c'è bisogno che siano
presenti concetti di oggetti parziali, i quali contengano soltanto ciò che è
singolare e individuale, e che in essa si formano esclusivamente concetti di
gruppo che contengono ciò che è comune a una pluralità di oggetti. Tali concetti di gruppo sorgono
necessariamente quando lo storico non sa abbastanza degli avvenimenti che
rappresenta per poter penetrare nella loro individualità, ed è perciò costretto ad accontentarsi di un concetto
generale. Ma in moltissimi casi, e forse anche in tutti, lo storico vuole
formare di fatto un unico concetto di
gruppo, e allora sembra procedere, anche
riguardo al suo fine, in modo generalizzante. In relazione a ciò si può meglio
comprendere anche una questione assai
dibattuta. Si è ritenuto che la
vecchia tendenza della
storiografia sia individualistica , ma soltanto perché attribuisce troppo valore ad avvenimenti politici o di
altro genere, e quindi a singole persone. La
nuova tendenza dovrebbe, per non rimanere in superficie, occuparsi di meno
delle azioni politiche di singole personalità e di più dei movimenti di
massa, penetrando così l'essenza
autentica dello sviluppo culturale. AI
vecchio metodo
individualistico si contrappone
pertanto un nuovo metodo collettivistico , e questo viene valutato,
proprio perché forma soltanto concetti
generali, come il nuovo metodo della
storia, l’unico veramente scientifico e da tempo in uso nelle scienze
naturali. Ammettiamo pure, per
comprendere il significato logico di
questo punto di vista, che sia vero che lo storico operi soltanto con concetti di gruppo infatti questa proposizione è logicamente
assurda come quella secondo cui la storia dovrebbe formare un sistema di
concetti generali e immaginiamoci
per esempio una rappresentazione della
Rivoluzione francese che tenga conto
soltanto dei movimenti di massa, perché ciò che le singole persone hanno compiuto appare
inessenziale. Si potrebbe allora dire che la storia procede realmente, in base
al nuovo metodo, in maniera non soltanto
collettivistica ma anche generalizzante, come una scienza naturale? Tanto ovvia
quest'idea appare ai rappresentanti del
nuovo metodo, altrettanto essa è falsa,
perché e questo motivo è sempre
determinante soltanto le parti della
totalità possono essere ricondotte a concetti
generali. Anche una storia che proceda in maniera collettivistica
considera sempre la totalità nella sua individualità, e anche i concetti generali di gruppo devono venir
formati in modo da essere adatti alla
rappresentazione dell’individualità del tutto.
Di metodo generalizzante si potrebbe parlare soltanto nel caso che si dovesse rappresentare una rivoluzione
qualsiasi e non già come presupponiamo e come dobbiamo
presupporre finché la rappresentazione ha carattere di storia questa determinata Rivoluzione francese, che
ha avuto inizio nel 1789 e così via. La
contrapposizione tra metodo
individualistico e metodo collettivistico è quindi fuorviante. Tutti gli storici
procedono in modo più o meno collettivistico, e lo hanno sempre fatto. La circostanza che oggi qualcuno
lavora il più possibile con espressioni
generali come quelle di epoche e di movimenti
di massa, parlando soltanto di fattori psico-sociologici e dichiarando
inutilizzabile ogni psicologia
individuale (che del resto soltanto i
dilettanti possono porre in relazione con la concezione individualistica della storia), per dare a intendere a sé e
agli altri di procedere al modo della scienza naturale, può forse dar luogo a una storia vaga e
indeterminata oppure condurre, trascurando le personalità essenziali, a una
falsificazione diretta dei fatti, ma non può cambiare per nulla il carattere
individualizzante del metodo storico. Dobbiamo anzi fare un passo più in là. Anche i concetti generali
di gruppo impiegati dalla storia non sono
pur contenendo soltanto ciò che è
comune a una pluralità di oggetti
concetti generali nel senso di
quelli che forma una scienza generalizzante procedente in modo sistematico. Lo storico può cioè
ritenersi soddisfatto di un concetto di
gruppo soltanto se in esso è già contenuta nel
medesimo tempo l’individualità di tutti gli elementi di tale gruppo, per lui significativa nella
connessione storica. Perciò il fine in
riferimento al quale sono formati i concetti storici di gruppo non costituisce una generalizzazione
del tipo di quella compiuta dalle
scienze generalizzanti, bensì una rappresentazione dell’individualità di
gruppo. Anche questi concetti generali
sono sempre prodotti di un procedimento individualizzante, nella misura in cui il principio che
determina i loro elementi può essere
compreso soltanto in base ai fini della storia individualizzante. Si può anche
designarli come concetti collettivi
individualizzanti, per distinguerli sia dai concetti collettivi ai quali si tende nelle scienze generalizzanti,
sia dai concetti generali impiegati strumentalmente nella storia. Questa distinzione può forse suonare un po’
sofistica finché non si sarà trattato di
un altro aspetto del metodo storico.
Occorre cioè richiamare ora l’attenzione sulla circostanza, già rammentata, che l'apprendimento
individualizzante non considera tutta la molteplicità individuale di una
realtà, ma comporta una scelta trasformatrice. Alla base di questa scelta e di
questa trasformazione dev'esserci nella
scienza storica un principio, e soltanto
il suo chiarimento esplicito completerà la comprensione dell’essenza logica del
metodo storico. Per pervenire a un tale
principio riflettiamo nuovamente sulle
nostre conoscenze pre-scientifiche. Esse dipendono dall’interesse che il nostro
ambiente suscita in noi. Ma che cosa vuol
dire avere interesse per gli oggetti? Vuol dire che non ci limitiamo a
rappresentarceli, ma che li riferiamo al tempo stesso alla nostra volontà e li
poniamo in relazione con le nostre valutazioni. Dove apprendiamo qualcosa in
modo individualizzante, la particolarità dell'oggetto deve in qualche modo
essere collegata con valori che non sono
collegati a loro volta con nessun altro
oggetto; se ci arrestiamo a un apprendimento generalizzante, il collegamento
con il valore dipende soltanto da ciò
che è allo stesso modo presente in altri oggetti e che può quindi essere sostituito da altri esemplari
del medesimo concetto di genere. Questo è l’aspetto non ancora illustrato
della differenza tra apprendimento
generalizzante e apprendimento individualizzante:
anche in riferimento ad esso i due metodi
scientifici mostrano un’antitesi di principio. Se dalla generalizzazione pre-scientifica si
procede a subordinare scientificamente gli oggetti a un sistema di concetti
generali, non soltanto si astrae dall’interesse per ciò che è singolare e individuale, ma si allenta sempre più, con il
progredire del processo di formazione
del sistema, il legame dell’elemento comune a più oggetti con i valori. Se cioè
ogni concetto generale è subordinato a
un concetto ancor più generale, e se alla fine
tutti i concetti sono ricondotti al concetto generalissimo verso cui tende l’indagine, allora anche gli
oggetti per i quali il sistema deve
valere possono essere considerati come egualmente forniti di valore o egualmente privi di
valore: infatti il principio che determina ciò che è essenziale in un oggetto
non può più essere ora l'interesse originario, ma può essere soltanto la
posizione che l’oggetto assume nel sistema di concetti generali. La divisione
tra essenziale e inessenziale, originariamente compiuta sempre in base a punti
di vista valutativi, viene così respinta da una scienza generalizzante, e al
tempo stesso sostituita dal fatto che l'elemento generale o comune coincide
ora, in quanto tale, con l’essenziale. Lo svincolarsi degli oggetti da tutte le
relazioni di valore costituisce perciò l’altro aspetto, non ancora considerato,
del metodo generalizzante, e ci indica
contemporaneamente l’altro aspetto, non ancora considerato,
dell’individualizzazione scientifica. Può quest’ultima egualmente distinguersi dall’individualizzazione pre-scientifica
per il fatto di svincolare gli oggetti
da tutti i valori? Non si scorge in virtù
di quale principio diverso dalla relazione di valore debba sorgere l'apprendimento individualizzante. Se
sciogliamo un oggetto da tutte le
connessioni con i nostri interessi, esso potrà venir considerato semplicemente
come esemplare di un concetto generale.
L’individuale può diventare essenziale soltanto in riferimento a un valore, e quindi eliminando ogni relazione
di valore si eliminerebbe anche l’interesse storico e la storia stessa. Viene
così alla luce non soltanto una connessione
necessaria tra considerazione
generalizzante e considerazione avalutativa, ma anche una connessione
altrettanto necessaria tra apprendimento individualizzante e apprendimento
legato ai valori: per cogliere la struttura logica della storia anche sotto
questo aspetto, occorre perciò conoscere
più da vicino il tipo dei valori e del loro legame con gli oggetti storici. Anche qui è necessario,
naturalmente, una volta accertato
l’elemento comune presente nella relazione di
valore pre-scientifica e scientifica, separarle nettamente tra
loro. Che i valori abbiano nella scienza
un ruolo determinante, anzi debbano
essere princìpi dell’elaborazione concettuale, sembra contraddire l’essenza
della scienza. A buon diritto proprio
dallo storico si esige che rappresenti le cose il più oggettivamente possibile, e per quanto questo fine non possa
essere raggiunto completamente da
nessuno, si può però in ogni caso
indicarlo come ideale logico. Come si accorda con tutto ciò l’affermazione che le relazioni di valore
appartengono all’essenza del metodo storico? Per comprendere questo fatto
occorre chiarire che c’è un tipo di
relazione di valore che non coincide con
una presa di posizione e con una valutazione pratica, e che gli oggetti possono essere riferiti ai valori
anche in maniera puramente teoretica.
Certamente, se dalla molteplicità del reale si trae fuori questo elemento come
essenziale, e si lascia in disparte
quell’ altro come inessenziale, si può sempre designare tutto ciò come una
presa di posizione nei confronti della realtà, nella misura in cui l’essenziale
è ciò che è fornito di valore per la conoscenza scientifica. Ma questo tipo di
valutazione non manca in nessuna elaborazione concettuale della scienza sia essa generalizzante o storica perché il fine della scienza deve sempre
valere come valore per conferire un senso al lavoro scientifico. Se si vuol
comprendere nella sua particolarità l’essenza della relazione di valore nella
scienza storica si deve perciò prescindere totalmente da questa valutazione,
per quanto importante la sua presenza possa essere per la trattazione di altri
problemi filosofici. Qui importa soltanto stabilire se, per il fatto che
l’individualità di un oggetto diventa essenziale in virtù del riferimento a un
valore, ne derivi necessariamente anche
una valutazione positiva o negativa dell'oggetto; e a tale domanda occorre
rispondere in modo decisamente negativo. La rappresentazione storica implica
una relazione di valore soltanto nella misura in cui l'oggetto, appreso in modo individualizzante, ha un qualche
significato per un valore; ma non ha
bisogno di pronunciarsi sul fatto se esso
possegga un valore positivo o negativo e può quindi prescindere del
tutto da ogni valutazione, che dev'essere sempre positiva o negativa. Noi dobbiamo distinguere con
precisione la valuta zione pratica e la
relazione puramente teoretica di valore. Anzi, se pensiamo che non conosciamo
mai la realtà così com’era, ma che ogni
conoscenza è già una trasformazione della realtà, diventa chiaro che non si può disputare del
valore positivo o negativo di
un’individualità se tra coloro che disputano non c’è già un comune apprendimento individualizzante
della realtà, sorto da una relazione di
valore puramente teoretica e indipendente dalla diversità delle loro
valutazioni pratiche; altrimenti non si
disputerebbe affatto della stesse individualità. Perciò, quanto il conoscere teoretico e la
valutazione positiva o negativa sono due processi distinti in linea di
principio, tanto poco la relazione puramente
teoretica di valore è in contraddizione
con la conoscenza scientifica. Lo storico non valuta i suoi oggetti in quanto storici, ma trova di fronte
a sé dei valori come quelli dello
stato, delle organizzazioni economiche, dell’arte, della religione ecc.; e in
virtù della relazione teoretica degli
oggetti con questi valori, vale a dire in riferimento al fatto se e come la loro individualità
significhi qualcosa per questi valori,
la realtà si articola ai suoi occhi in elementi
essenziali e inessenziali, senza ch’egli debba pronunciare un giudizio di valore diretto, positivo o
negativo, sugli oggetti. L'essenza della
relazione di valore storica diventa del tutto
chiara se fissiamo ancora un secondo punto, in virtù del quale l’individualizzazione scientifica si
distingue da quella pre-scientifica; e già i concetti di valore prima utilizzati
come esempi vi alludono. La relazione
teoretica di valore nella storia non è
soltanto indipendente da una valutazione positiva o negativa, ma deve
anche essere 207 arbitraria sotto un altro punto di vista, cioè in riferimento
ai valori con cui gli oggetti vengono posti in relazione. Ciò si consegue però
solamente in quanto lo storico articola la realtà in elementi essenziali e
inessenziali in relazione a valori universali, ossia a valori quali quelli
incorporati negli esempi sopra indicati dello stato, dell’arte, della religione
ecc. Per quanto ciò sia in fondo semplice, anche di qui sono sorte molte
contese e molte incomprensioni. In particolare, si è ancora una volta ritenuto
che il metodo della storia sia un metodo generalizzante a causa
dell’universalità dei valori. Certamente
così si può giustificare questo punto di vista lo stato è per esempio un concetto generale,
e se gli eventi storici vengono rappresentati come eventi politici, l’elemento
politico in essi presente, in virtù del quale sono storicamente essenziali, è
pur sempre l'elemento comune. Così essi vengono ricondotti sotto il concetto
generale di politico nello stesso modo in cui nelle scienze generalizzanti gli
oggetti vengono appresi come esemplari di un concetto di genere. È veramente
giusto questo? È esatto che valori universali sono nel medesimo tempo concetti
generali. Ma, in primo luogo, la storia non si prefigge mai di formare o anche
soltanto di ordinare sistematicamente questi concetti universali di valore,
come dovrebbe fare se fosse una scienza
generalizzante; essa si trova già di
fronte concetti universali di valore, e solamente la filosofia della
storia, non già la scienza storica empirica può
come vedremo avanti porsi il compito di pervenire a un sistema
di concetti universali di valore.
Inoltre e questa è la cosa
principale l’universalità del valore non
ha per la storia il significato di contenere ciò che è comune a più valori
particolari: importa soltanto il fatto
che la storia riferisce i suoi oggetti a
valori i quali valgono come valori per tutti coloro a cui si rivolge, o per lo meno vengono da tutti
intesi come valori. Del resto, il
riferirsi degli oggetti ai valori conduce a un apprendimento individualizzante,
poco importa che i valori siano puramente individuali oppure universali nel
senso indicato: questa differenza
riguarda infatti soltanto la validità dei valori, non già la struttura logica della relazione di
valore. In breve, che per giungere a
risultati universalmente validi la scienza storica abbia bisogno di valori universali non incide
affatto sull’antitesi tra il metodo
storico individualizzante riferito ai valori e il metodo generalizzante
avalutativo delle scienze di leggi. Volendo, si può anzi dire che ogni scienza,
per avere validità universale, deve sempre subordinare il particolare all’universale. Ma questa frase è, per la sua
indeterminatezza, molto equivoca e in
ogni caso non dice nulla. Se si vuole adoperarla nella dottrina del metodo occorre distinguere
rigorosamente una subordinazione generalizzante a concetti avalutativi di
genere o di legge da una subordinazione individualizzante a concetti universali di
valore; e la cosa migliore sarà di impiegare il
termine subordinazione soltanto per designare il rapporto reciproco dei concetti generali e il rapporto
dell’esemplare con il concetto di genere
ad esso superiore, altrimenti possono sorgere soltanto errori. Se con questa prospettiva più esatta
sull’essenza del procedimento individualizzante ritorniamo ancora una volta ai
concetti storici che sembravano costituire, per la generalità del loro contenuto, un’istanza negativa contro la
caratterizzazione della storia come
scienza individualizzante, è possibile comprendere meglio i concetti storici di gruppo nella
loro differenza dai concetti storici di gruppo generalizzanti. Essi non hanno
soltanto come tutti i concetti relativi
a parti storiche lo scopo di esprimere
l’individualità del tutto storica a cui appartengono; ma anche la scelta di ciò
che è essenziale è determinata, nella loro formazione, dal valore universale
dominante. In altri termini, non già
l'elemento comune in quanto tale costituisce di per sé l’essenziale, ma la circostanza
che il suo contenuto consiste dell’elemento comune a una pluralità di oggetti
ha per unico fondamento il fatto che
soltanto l’individualità del gruppo, e non l’individualità delle singole parti,
riveste significato per il valore universale, e che quindi già il concetto di
gruppo contiene individualità
sufficiente a esprimere ciò che è essenziale per la rappresentazione
individualizzante riferita ai valori. Il principio di elaborazione concettuale
dei concetti storici collettivi è quindi esattamente lo stesso che per tutti
gli altri concetti storici: ancora una
volta risulta quanto poco senso abbia definire collettivistico il procedimento della storia, in riferimento al
suo carattere /ogico. La polemica tra il cosiddetto metodo collettivistico e
il cosiddetto metodo individualistico è
una polemica sul contenuto della scienza storica, e non ha nulla a che fare con
i problemi logici del metodo. Anche una rappresentazione che proceda in modo puramente collettivistico non
soltanto sarebbe come si è già visto individualizzante, ma sarebbe anche
guidata, al pari di qualsiasi
rappresentazione storica, da punti di vista
valutativi. Il grosso ruolo che i
punti di vista valutativi hanno nella
storia viene del resto sempre più riconosciuto e meglio compreso nei
tempi recenti, anche se non sempre l’attenzione è rivolta ai due punti più
importanti, cioè alla distinzione della relazione teoretica di valore dalla
valutazione pratica e all’universalità dei valori. Naturalmente qui non è
possibile trattare in modo esaustivo tutte le questioni connesse con i valori;
ci limiteremo però a porre in rilievo almeno due punti. Un'indagine logica non potrà mai proibire
allo storico di oltrepassare la
relazione teoretica di valore per assumere una
posizione valutativa nei confronti dei suoi oggetti; e forse nessuna
rappresentazione storica è mai del tutto libera da valutazioni positive o
negative. Si deve però anche stabilire che, dove sembra essere presente un
giudizio di valore, non sempre si intendeva realmente formularlo. In ogni
rappresentazione storica si troveranno cioè proposizioni che accompagnano
soprattutto le azioni umane con un predicato di lode o di biasimo, che
constatano qui un atto di bontà o di coraggio, là un delitto; e proprio questo
sembra distinguere la storia dalle scienze di leggi, per le quali il vizio e la
virtù sono prodotti quanto lo sono il vetriolo o lo zucchero. È anche chiaro
che lo storico può prendere posizione con proposizioni del genere. Ma in
moltissimi casi i predicati di valore servono soltanto all’accertamento di
fatti e alla caratterizzazione puramente teoretica degli avvenimenti. Quando per esempio un’azione
viene designata come criminale, ciò può
anche voler dire che le fonti costringono ad assumere che siamo di fronte a un
atto che generalmente si definisce
delitto; e se un altro storico accompagna quest’azione con un altro predicato,
ciò non significa necessariamente che
egli valuti altrimenti lo stesso stato di fatto, ma che egli può anche assumere un altro stato di fatto che
poi deve, naturalmente, designare in modo diverso. Nella trattazione dei
fattori valutativi presenti nella storia
ci si dovrebbe porre in ogni caso la
domanda se il predicato di valore ha realmente l’intenzione di valutare, o se
non serva piuttosto soltanto allo scopo di
utilizzare il significato terminologico ad esso generalmente connesso
per stabilire un fatto, nello stesso modo in cui ciò avviene con significati
che non possono essere impiegati a scopo
di valutazione. Se quindi la
comparsa di valutazioni può sembrare in parecchi casi più frequente di quanto
non sia in realtà, occorre d’altra parte
porre in rilievo che in certo senso anche le valutazioni sono un elemento
indispensabile della scienza storica. Se
è certo che la relazione teoretica di valore non è una presa di posizione pratica e che perciò lo storico può
sempre astenersi da qualsiasi
valutazione dei suoi oggetti, altrettanto certo è che nell’ambito dei valori a cui riferisce i suoi
oggetti egli dev’essere in qualche modo, anche come storico, un uomo che
compie valutazioni. Nessuno che non
ponga i valori politici in relazione alle proprie valutazioni positive o
negative, che non abbia cioè un qualche
rapporto valutativo nei confronti di questioni
politiche, scriverà o leggerà di storia politica: senza essere egli stesso un uomo che compie valutazioni in
questo campo, non comprenderebbe infatti
i valori che guidano la selezione del
materiale storico, e non avrebbe quindi il minimo interesse storico per esso. Ma ciò che vale per la
storia politica deve parimenti valere
per la storia dell’arte, della religione, dell’economia ecc. Spesso ciò non
viene neppur osservato, come certe cose
evidenti: vi sono anzi molti storici i quali credono non soltanto di stare con i loro oggetti in un
rapporto semplicemente conoscitivo, ma anche di essere, in quanto storici, puri
spettatori. Di fatto lo storico si distingue dal ricercatore che procede in modo generalizzante anche perché nel suo
lavoro non soltanto deve riconoscere come valore il fine scientifico ch'egli
persegue, ma prende anche posizione se non verso gli oggetti storici, almeno nei confronti dei valori universali a
cui riferisce in modo individualizzante
i suoi oggetti. Quale significato abbia
per l’ oggettività delle scienze
storiche il fatto che c’è storia
soltanto per esseri capaci di valutazione, in quale rapporto questa
oggettività stia con l’oggettività delle scienze generalizzanti o scienze di
leggi, le quali non hanno bisogno di riconoscere altro valore se non quello stesso della
scienza generalizzante, non può venir
discusso in questa sede. Qui si deve soltanto comprendere la struttura logica
della scienza storica quale esiste di fatto, e in particolare descrivere
l’essenza del suo metodo riferito ai valori e individualizzante, così come
viene realmente esercitato, e penetrare questo metodo nella sua necessità logica che risulta dai fini della
storia. In base ai fondamenti indicati
non si è finora parlato del carattere
specifico del materiale storico, e non si è quindi neppure potuto rispondere
alla questione del modo in cui perveniamo a rappresentare non soltanto in modo
generalizzante, ma anche in modo
individualizzante, il materiale di cui trattano le scienze storiche. Il motivo
di ciò dev'essere finalmente indicato
per rendere comprensibile l’essenza della scienza storica, e ciò in quanto lo
specifico carattere materiale degli oggetti
storici può essere inteso in base all’essenza logica del metodo storico. Decisiva è qui, ancora una volta, la
connessione dell’apprendimento individualizzante con l'apprendimento riferito
ai valori. La rappresentazione
individualizzante costituisce cioè un
bisogno soprattutto dove più stretto è il nesso degli oggetti con i valori. Se ripensiamo all’elaborazione
concettuale prescientifica, vediamo che essa è sempre caratterizzata dal
fatto che sono in prevalenza uomini
quelli che vengono considerati come
individui, e che in questi uomini è particolarmente significativo in virtù
della sua individualità ciò che è espressione
della loro vita psichica. Anzi, il nostro apprendimento
individualizzante è talmente dominato dall’interesse per la vita psichica degli
uomini che equipara addirittura il concetto di individuo con quello di personalità,
e si è costretti a riflettere
esplicitamente sul fatto che un qualsiasi oggetto mostra parimenti
un’impronta assolutamente individuale. Se e fino a qual punto la storia in quanto scienza che
riferisce i suoi oggetti non a valori
individuali puramente personali, ma a valori universali, debba rappresentare le
personalità, dipende soltanto da ciò che
le personalità significano nella loro singolarità per i valori universali; perciò
l’individualizzazione scientifica può allontanarsi di molto da quella
pre-scientifica. Dal momento però che ogni storia viene fatta da uomini, anche
la rappresentazione scientifica del singolare e del particolare dev'essere
prevalentemente rivolta alla vita psichica degli uomini; e questo è il motivo per cui le scienze storiche sono
sempre state inserite tra le scienze dello spirito. Comprendiamo ora con tutta
chiarezza perché questa designazione esprime una caratteristica secondaria dal
punto di vista logico e non è neppure adatta,
anche prescindendo da ciò, a caratterizzare in modo compiuto il materiale della scienza storica. Infatti
non è soltanto la vita spirituale, ma è
in misura prevalente Ja vita spirituale che
interessa lo storico nella connessione con i processi corporei; inoltre non tutta la vita spirituale, e
neppure tutta la vita psichica dell’uomo,
ma soltanto una determinata e relativamente piccola parte della vita psichica
degli uomini viene presa in
considerazione come materiale da parte della scienza storica. Anche volendo limitare questa parte per
conseguire una caratterizzazione ancor più esatta del materiale storico, ciò
può avvenire ancora una volta soltanto
in base alla comprensione che abbiamo
realizzato dell’essenza del metodo storico, e cioè appunto in riferimento alla particolarità dei
punti di vista valutativi che nell’elaborazione concettuale individualizzante
sono determinanti per la selezione di
ciò che è essenziale. Il fatto che si
tratti sempre di valori umani universali può venir espresso anche dicendo che
diventano storicamente essenziali soltanto
gli oggetti che posseggono un significato in relazione a interessi
sociali. Perciò, in virtù della connessione storica delle parti con la totalità storica o con la società,
l’oggetto principale della ricerca
storica non è l’uomo in genere, concepito come svincolato da essa, ma è l’uomo
come essere sociale e ciò
soprattutto perché partecipa alla
realizzazione dei valori sociali. Certamente, il concetto di societas
dev'essere qui preso in senso tanto
ampio da comprendere anche comunità come quelle degli scienziati o degli
artisti. Se chiamiamo con il nome di cultura il
processo con cui i valori sociali universali si realizzano nel corso dello sviluppo storico, l’oggetto
principale della storia dev'essere la
rappresentazione delle parti o della totalità della vita culturale umana, e ogni materiale
storicamente importante deve avere un
qualche legame con la vita culturale umana,
poiché soltanto allora vi è un motivo per riferirla ai valori universali e indagarla nella sua
particolarità e individualità. I valori
che guidano la selezione di ciò che è essenziale nella storia devono perciò essere designati anche
come valori culturali universali così
come li abbiamo incontrati, per esempio, nei concetti di valore dello stato,
del diritto, dell’arte, della religione,
dell’organizzazione economica. S'intende che lo storico non può dire che cosa
sia progresso culturale o regresso
culturale, poiché in tal caso passerebbe dalla relazione teoretica di
valore alla valutazione pratica. Non c'è bisogno che i suoi ideali culturali assumano un'importanza
determinante per l'elaborazione del suo
materiale; ma egli dev'esserein grado di
comprendere i valori culturali universali degli uomini e dei popoli che rappresenta, per poter separare
l’essenziale dall’inessenziale in virtù di una relazione puramente teoretica di
valore. Inoltre l'indagine storica non è
limitata ai processi culturali.
Particolarmente quando occorre conoscere le cause degli avvenimenti
storici, possono risultare significativi anche oggetti che appartengono
semplicemente alla natura , e che
diventano importanti proprio con riguardo alla loro individualità: per esempio la particolarità del clima di una determinata
regione, la posizione geografica di un paese, e così via. Ma per trovare posto
in una rappresentazione storica questi
oggetti devono sempre sia connettersi
causalmente con processi culturali sia essere considerati nel loro significato
per i valori culturali; e al centro di una
scienza individualizzante resterà sempre una qualche parte dello sviluppo singolare della vita
culturale. Che con ciò non sì intenda
affatto vantare un particolare metodo
storico-culturale, come oggi sovente vien fatto in antitesi al metodo
della storia politica, non richiede
un’esplicita assicurazione. La logica non può decidere la questione del campo di lavoro specifico della storia, e
neppure perviene alla questione dell'essenza
del metodo storico. Se si vuol parlare di un’antitesi tra storia politica e storia culturale in genere, l’una
e l’altra devono però applicare il
medesimo procedimento individualizzante; può soltanto darsi che la storia
culturale, nel senso più ristretto in cui
oggi talvolta la si intende, applichi concetti di gruppo in misura più
ampia di quanto non faccia la storia dei processi politici. Noi sappiamo però
che un numero maggiore o minore di
concetti di gruppo non cambia per nulla l’essenza del metodo storico. A prescindere da ciò, non è affatto
stabilito che la storia culturale sia
configurata in modo più
collettivistico della storia
politica. Tali questioni hanno a che
fare con la dottrina del metodo soltanto nella misura in cui devono essere
tenute scrupolosamente lontane dalle indagini logiche. Il dilettantismo logico
dei giorni nostri ha anche qui prodotto
disorientamento, ma non possiede ancora
un'importanza tale da giustificare un esame
più ravvicinato in questa sede. Il termine cultura
viene qui usato nel senso che la
vita politica è una parte della vita culturale in genere. Esso non designa
altro che l’insieme degli oggetti che
hanno un significato diretto per la realizzazione dei valori universali e che, a causa di questa relazione
di valore, non possono mai essere
rappresentati in modo esaustivo da una
scienza generalizzante, ma richiedono invece di essere appresi da una scienza individualizzante. Con ciò è
subito chiaro in qual senso la scienza
storica sia una necessità per gli uomini
civili. L'uomo civile riferirà sempre la realtà ai valori culturali universali, cosicché deve sorgere la domanda
relativa al modo in cui si è compiuta la
realizzazione della cultura nel suo
sviluppo singolare: a tale questione può dare risposta soltanto la storia individualizzante, mai una scienza
generalizzante. Se guardiamo ancora una volta indietro, utilizzando i concetti
che abbiamo fornito si può delineare un sistema delle scienze empiriche in cui alla storia è
assegnato in riferimento sia al suo
metodo che al suo materiale un posto
stabile; sulla base di questa
prospettiva si possono comprendere e affrontare gli altri gruppi di problemi di
filosofia della storia. Dal punto di
vista del metodo le scienze particolari procedono o in modo generalizzante e sistematico o in
modo individualizzante e quindi non sistematico. Il loro materiale consiste o
di oggetti naturali, svincolati dai
valori, o di processi culturali, che
sono invece riferiti a valori. Questo è soltanto uno schema generalissimo: non si deve quindi dire si dovrà sempre sottolinearlo
che le diverse discipline lavorano in modo esclusivamente generalizzante
o esclusivamente individualizzante, che
trattano soltanto di oggetti naturali o soltanto di processi culturali, e che gli oggetti naturali devono
essere rappresentati soltanto in forma
generalizzante e i processi culturali soltanto in forma individualizzante. Al
contrario, i diversi metodi sono
strettamente congiunti nella trattazione dei diversi materiali, e i princìpi di divisione qui forniti possono
collegarsi in maniera differente. Il
procedimento generalizzante parte da fatti individuali, mentre quello
individualizzante ha bisogno di concetti
generali come strumenti di rappresentazione e di connessione. Accanto alle scienze naturali generalizzanti
vi sono discipline che trattano dei
processi naturali in modo individualizzante e
quindi, anche se mediatamente e indirettamente, in riferimento ai valori, come per esempio la storia
dell'evoluzione degli organismi; e viceversa la vita culturale può, nonostante
la relazione di valore, essere sottoposta a una rappresentazione
generalizzante. Anzi, anche prescindendo del tutto dalla psicologia, molte
delle cosiddette scienze dello spirito
come per esempio almeno in parte
la linguistica, la giurisprudenza, l'economia
sono scienze culturali non certo storiche, ma sistematiche; il loro metodo non coincide necessariamente con
quello delle scienze naturali
generalizzanti, e la loro struttura logica costituisce quindi uno dei problemi
più difficili e interessanti della
dottrina del metodo. Ma per quanto grande possa essere la varietà delle
aspirazioni scientifiche che la logica non deve
criticare, ma semplicemente riconoscere come fatti, e per quanto i
princìpi logici di divisione debbano quindi limitarsi a distinguere concettualmente ciò che è
strettamente connesso nella realtà, la storia
la quale tratta degli uomini, delle loro
istituzioni e delle loro imprese
può essere solamente designata, con riguardo ai suoi fini ultimi, come
scienza individualizzante della cultura. Il suo scopo è sempre la
rappresentazione di una serie di
sviluppo singolare, più o meno comprensiva; e i
suoi oggetti sono essi stessi” processi culturali oppure stanno in relazione con valori culturali. In tal modo
questa scienza risulta in linea di principio distinta per il suo contenuto da
tutte le scienze naturali, procedano
esse in modo generalizzante o individualizzante, e metodologicamente distinta
anche da tutte le scienze culturali che
trattano i loro oggetti in modo sistematico.
La logica della storia deve muoversi entro questo quadro. Soltanto
allora essa può penetrare che cosa è realmente la storia, e soltanto così può
essere utile a una filosofia che voglia comprendere il significato della storia reale per la
soluzione dei suoi problemi. La costruzione di scienze del futuro, oggi
particolarmente cara alla logica della
storia, non ha invece alcun valore né per la
ricerca particolare né per la filosofia, se non quello di un esempio
scoraggiante. Anche la questione d ei
princìpi dell’accadere storico, che
prendiamo ora in esame, può trovare risposta soltanto se ci si appoggia sul concetto di ciò che viene di
fatto rappresentato come storia dalle
scienze storiche. Già sappiamo che questi
princìpi vengono cercati o in leggi generali o nel senso generale della
vita storica. Se si vuole pervenire a chiarezza sui compiti della filosofia
della storia come dottrina dei princìpi, occorre determinare che cosa si può intendere quando
si parla di legge oppure di storia, e
chiedersi che cosa meriti il nome di principio della storia. Ne risulterà che
l’alternativa tra legge e senso della
storia, al pari della lotta tra metodo generalizzante e metodo individualizzante, investe le due
tendenze principali contrapposte della
filosofia della storia contemporanea, e che la
decisione in questo scontro dipende essenzialmente, ancora una volta, dalla comprensione dell'essenza logica
della scienza storica empirica. Il
termine legge appartiene a quelle espressioni la cui equivocità ha dato occasione a molteplici
oscurità e fraintendimenti. Mentre nell’identificazione tra legge e causalità
la causa lità viene unilateralmente considerata come forma dell’apprendimento
generalizzante, esiste d’altra parte un uso linguistico secondo cui
conforme a legge equivale
senz'altro a necessario . Il termine può
allora designare la necessità di ciò che è
singolare e particolare, e anche la necessità di un imperativo o di un valore. Pretendere di vietare in ogni
caso quest’uso sarebbe pedantesco, e non avrebbe successo. Nella filosofia,
però, bisognerebbe evitarlo almeno nei
punti decisivi; e in ogni caso, se alla
filosofia della storia viene posto il compito di cercare le leggi della storia, ciò ha un senso chiaro
soltanto se per legge si intende la
legge naturale. La necessità della legge non significa allora la necessità di
una realtà individuale, ma universalità
incondizionata di un concetto, e più precisamente il nesso necessario di
almeno due concetti generali e il nesso necessario delle realtà corrispondenti soltanto nella
misura in cui la legge dice che, quando
un oggetto individuale mostra tra le altre caratteristiche anche quelle che
costituiscono gli elementi di un
concetto generale, con esso è dovunque e sempre connesso realmente un
altro oggetto che, tra le altre caratteristiche, possiede anche quelle che
costituiscono gli elementi dell’altro concetto generale. In breve, la
conoscenza della legge è la forma di
apprendimento della realtà a cui tende, come ideale supremo, ogni scienza generalizzante della
natura. Che la scienza storica empirica
non si ponga mai il fine ultimo di
trovare leggi in quest’accezione, già lo sappiamo. Lo storico che fa questo cessa di essere storico
e di volere una rappresentazione storica
del suo oggetto. Perciò, dal momento che
scienza storica empirica e scienza di leggi si escludono concettualmente tra loro, si può dire che il
concetto di legge storica
contiene una contradictio in adiecto
dove ovviamente il termine storico ha soltanto il senso formale o
logico già indicato, e questo principio
riveste carattere logico anche nella
misura in cui è indipendente non soltanto da ogni idea sul materiale della storia, ma anche da ogni
visione sull’essenza della realtà in genere. Esso vale tanto presupponendo
il materialismo o il parallelismo psico-fisico
quanto presupponendo una metafisica spiritualistica o una dottrina metafisica
della libertà. Anche la storia di un
oggetto le cui leggi ci fossero note
senza alcun residuo non consisterebbe mai di queste leggi, ma le utilizzerebbe
soltanto come mezzi. Ma ciò che vale
per la scienza storica empirica non vale
necessariamente per la filosofia della storia. Poiché è logicamente
legittimo rivestire ogni realtà con un sistema di concetti generali, e poiché non occorre essere seguaci
del materialismo o del parallelismo
psico-fisico per ritenere possibile che ogni essere accessibile alle scienze
empiriche possa venir ricondotto a leggi
generali, sembra che si possa senz'altro ritenere che il filosofo della storia il quale, in quanto filosofo, non è uno storico, ma ha sempre a che fare con
l’universale scopra leggi valide per lo stesso materiale che le
scienze storiche empiriche tendono ad apprendere in modo individualizzante.
Dal momento che tale materiale è
costituito principalmente dalla vita
sociale degli uomini, da ciò sorge l’idea di una sociologia come filosofia della storia che ricerca
leggi un'idea che è più vecchia della terminologia di Comte, ma che
trova molti seguaci anche ai giorni nostri. Per tale via, questi sociologi
cercano una conoscenza che conduca al di
là delle singole rappresentazioni storiche, con la loro aderenza al
particolare, e penetri l'essenza
universale di tutto lo sviluppo storico. Evidentemente così ritengono almeno i più cauti
rappresentanti di questo punto di vista la conoscenza storica di ciò che è singolare
e individuale non è priva di valore, ma
costituisce, al contrario,
l'indispensabile fondamento di una considerazione ulteriore ossia costituisce, dal punto di vista della
filosofia della storia, soltanto il
fondamento, il lavoro preparatorio. Su questa base si deve poi innalzare l’edificio di una filosofia
della storia comprensiva, che abbracci nelle sue leggi il ritmo e quindi i
princìpi di tutta la vita storica. Se
passiamo a valutare questo punto di vista, vediamo infatti che, se il termine
storico designa non già il metodo, ma il
materiale della storia, il concetto di legge storica non contiene per lo meno nessuna contraddizione
logica; e in ogni caso è un'impresa del
tutto legittima ricercare le leggi della
vita sociale degli uomini. Del tutto diverso è però chiedersi se abbia un senso designare come princìpi
dell’accadere storico le leggi
eventualmente trovate attraverso la considerazione generalizzante del materiale
che la storia rappresenta in modo individualizzante, e se sia quindi corretto
chiamare la sociologia col nome di
filosofia della storia. Questa è qualcosa di più che una questione terminologica; e se ad essa si
risponde affermativamente in base al principio che si possono trovare leggi
per ogni realtà, quindi anche per gli
oggetti delle scienze storiche, si
trascurano due punti d'importanza decisiva. I princìpi storici devono cioè essere in primo luogo princìpi
della cultura e in secondo luogo
princìpi dell'universo storico. Sono appropriate a tale scopo le leggi nel senso di leggi
naturali? Ciò che soprattutto importa
può venir chiarito nel modo migliore se
si ripensa al fatto che né la conoscenza pre-scientifica, né una qualsiasi conoscenza
scientifica della realtà empirica
riproduce questa realtà quale esiste indipendentemente dalla nostra elaborazione concettuale, ma che ogni
conoscenza si costituisce soltanto in virtù di un apprendimento che
trasforma la realtà. Nel suo processo di
formazione la scienza può essere guidata
soltanto dai fini che si è posta come scienza generalizzante o
individualizzante, e una scienza generalizzante potrà quindi sperare di pervenire a leggi soltanto
se si libera da tutti gli interessi per
la realtà che non siano quelli indirizzati a
determinare concetti incondizionatamente generali per il proprio campo.
Essa deve poter separare ciò che ad altri modi di apprendimento appare connesso, e deve
comprendere sotto un concetto ciò che in
rapporto ad altri interessi non sembra
avere assolutamente nulla in comune. Quanto essa si allontani così dall’apprendimento pre-scientifico
risulta particolarmente chiaro allorché
si determinano le leggi più comprensive. Basta
considerare che le scienze di leggi conducono a una separazione di
principio dell’elemento fisico spaziale dall’elemento psichico inesteso, e
quindi alla rappresentazione di due mondi tra
i quali non è più possibile istituire alcuna connessione reale, mentre per il nostro apprendimento
pre-scientifico e anche per il nostro apprendimento storico i due campi sono inscindibilmente legati tra
loro. Oppure si pensi come il trattamento
imposto dalle scienze di leggi faccia sempre più scomparire il carattere di cosalità della nostra immagine
del mondo e introduca al suo posto, in misura crescente, concetti di
relazione. Una scienza della vita
sociale degli uomini richiederà evidentemente, in linea di principio, la
medesima libertà di trasformare la realtà mediante l’elaborazione concettuale
generalizzante; se ciò viene applicato al suo rapporto con la vita storica,
ne risulta che la sociologia nel caso che voglia essere al tempo stesso filosofia della storia non possiede questa libertà di distruggere ogni forma di apprendimento della
realtà diversa da quella determinata dal
suo fine di una conoscenza di leggi. Se
della sociologia si deve realmente poter dire che tratta il medesimo materiale della storia, essa dovrà
per lo meno cercare le leggi della vita
culturale, in quanto ogni scienza storica ha a
che fare o con processi culturali o con realtà che sono in relazione con
questi. Ma la cultura non è affatto una realtà libera da interpretazioni, che possa venir sottomessa a
una qualsiasi elaborazione e trasformazione concettuale; da una parte la
cultura è una sezione determinata della
realtà, di cui non si sa se per essa, e
soltanto per essa, valgano concetti di legge, dall’altra tale sezione è una realtà già articolata e
trasformata in modo ben determinato da
valori culturali. Chi può dire se questa articolazione, dalla cui consistenza
dipende se designamo una realtà come
cultura, si conserva allorché cerca di farsi valere l'apprendimento generalizzante? Se però
questo non avviene, allora la sociologia
in quanto scienza di leggi rappresenta insieme con l’altra vita sociale non storica
anche la medesima realtà trattata
dalla storia, ma non l’apprende come la medesima realtà, ossia non la
rappresenta come cultura; e quanto poco
importi da questo punto di vista la comunanza del materiale, appare chiaro non
appena si pensi che l'oggetto comune non
è che una parte di quella sterminata molteplicità che, in quanto tale, non soltanto non può confluire
in nessuna scienza, ma di cui possiamo
parlare solo in generale, mai in particolare, perché non la conosciamo libera
da interpretazioni. C'è perciò non
soltanto un’inconciliabilità tra metodo generalizzante e metodo
individualizzante nelle scienze particolari, ma manca pure ogni garanzia di
conciliabilità tra la considerazione
delle scienze di leggi e la considerazione delle scienze della cultura; anzi a causa della stretta relazione
tra pensiero individualizzante e pensiero riferito ai valori è, se non
logicamente impossibile, almeno molto
improbabile che i concetti di legge
possano sempre coincidere nel loro contenuto con i concetti culturali generali. Con ciò è tolto il
terreno, già in linea di principio, al
programma di una sociologia intesa come filosofia della storia, la quale poggi sul principio
che dev'essere possibile trovare leggi
per una qualsiasi realtà. Il tentativo di determinare leggi della vita sociale
mantiene ovviamente il suo buon diritto,
ma nulla ci autorizza a considerare queste leggi come princìpi della vita culturale, semplicemente
perché sono leggi della medesima realtà
libera da interpretazioni di cui tratta la
storia. A ciò si può credere soltanto se, indulgendo a un ingenuo
realismo concettuale, si scambia il nostro apprendimento pre-scientifico e scientifico della realtà
con la realtà stessa. Poiché in un
certo senso qui non andiamo al di là delle
possibilità logiche e almeno
secondo quanto si è detto finora
soltanto un caso miracoloso potrebbe far sì che i concetti di legge e i concetti culturali coincidano
sempre, per giungere a chiarezza occorre
ancora mostrare esplicitamente in quale caso
ogni ricerca di leggi della vita culturale è priva di senso. Il punto decisivo sta nuovamente nel concetto
del rapporto che la totalità ha con le sue parti. Anzitutto, in quali casi
l’apprendimento della realtà come cultura può accompagnarsi con l’apprendimento
generalizzante? Dal momento che i valori culturali sono sempre, in quanto
valori universali, anche concetti di
contenuto generale, gli avvenimenti storici i quali diventano essenziali in virtù della loro individualità
in riferimento a un valore culturale
universale possono essere considerati
come esemplari di questo concetto
generale. Infatti, anche se il procedimento individualizzante è sempre riferito
a valori, questo principio non può
essere rovesciato in modo da affermare che
ogni valore universale rende individualizzante la rappresentazione.
Anche quei processi che vengono in luce, per esempio, in una storia dell’arte o del diritto possono
essere visti come esemplari del concetto
generale di arte o di diritto; e se
in tal modo si deve sciogliere anche la relazione di valore che le cose hanno, in virtù della loro
individualità, con il valore culturale
di arte o di diritto, una rappresentazione generalizzante di questo tipo rimane
tuttavia rappresentazione di processi
culturali anche nel senso che essa considera gli oggetti come cultura;
infatti il concetto culturale di arte o di diritto è ciò che delimita il campo e determina quali
oggetti diventano esemplari di tale sistema di concetti generali. Ciò che vale per questi valori culturali può
naturalmente valere anche per tutti gli
altri: si può quindi pensare che quelle
grandi unità della vita storica che chiamiamo popoli civili vengano
tutte concepite come esemplari di un sistema di concetti generali in cui poi si esprimono le leggi che
valgono per lo sviluppo sempre
ricorrente d’un qualsiasi popolo civile. Certamente, per i motivi prima
addotti, non si può mai chiamare tutto
questo col nome di storia; inoltre, se tale compito viene indicato come possibile, si deve pensare
soltanto alla possibilità logica,
lasciando da parte le difficoltà di fatto che si oppongono a una siffatta impresa. Infatti qui importa
solamente concedere al programma di una scienza della vita culturale
fondata su leggi tutto quanto è
pensabile per poi, fatto questo, poter
decidere con maggiore sicurezza se la scienza di leggi a cui si aspira, concepita nella sua perfezione, sia
in grado di soddisfare le pretese di una filosofia della storia come dottrina
dei princìpi della vita storica. Se si
vuol rispondere a questa domanda occorre tener presente che la filosofia della
storia, comunque si possa altrimenti
determinare il suo compito, non dev'essere filosofia dell’oggetto di un'indagine storica particolare, bensì
filosofia dell’oggetto di una storia
universale, e deve al tempo stesso stabilire i
princìpi dell’universo storico. Per universo storico si deve però in ogni caso intendere per quanto indeterminato possa essere questo concetto la totalità storica più comprensiva
possibile, e quindi qualcosa di
singolare e di individuale nel suo concetto,
a cui ogni oggetto considerato da una scienza storica particolare
appartiene come elemento individuale; inoltre, dai princìpi della storia pretendiamo che siano i princìpi
dell’unità di questo universo. Già da questo risulta che una scienza di leggi,
in quanto dottrina dei princìpi storici,
non soltanto incontra difficoltà più o meno grandi, ma è anche logicamente
impossibile. Non si obietti che anche la
totalità dell’universo è, in base al suo
concetto, qualcosa di singolare e che quindi, se quest’argomentazione fosse
giusta, non dovrebbero esserci leggi che valgono come assumiamo per esempio nel caso della
legge di gravità per la totalità dell’universo. Le scienze
generalizzanti non hanno mai a che fare con la totalità dell’universo nello
stesso modo in cui la filosofia della storia ha a che fare con l'universo storico. Esse vanno alla
ricerca di leggi soltanto nel senso che vogliono stabilire ciò che vale per
tutte le sue parti. Mai però pensiamo di
considerare queste parti come elementi
della totalità, e le leggi generali non possono affatto essere princìpi dell’unità di questo tutto.
Quanto più esse sono generali, tanto più
ogni parte è soltanto esemplare di un genere, ed è quindi sciolta da tutte le
determinazioni che la rendono un elemento della totalità. Se assumiamo quindi
che la sociologia abbia raggiunto il suo
fine supremo e abbia trovato leggi per
tutte le parti dell’universo storico, ad esempio per lo sviluppo di tutti i popoli civili, allora
questi sarebbero diventati per essa esemplari di un genere, e in quanto esemplari concettualmente isolati l’uno dall’altro.
Essi non potrebbero venir ricondotti all'unità dell’universo storico
individuale, poiché come elementi di una
connessione storica dovrebbero sempre
essere individui, e le leggi trovate dalla sociologia non potrebbero
venir utilizzate come princìpi dell’unità degli elementi individuali
dell’universo individuale. Il concetto di legge come principio dell'universo
storico è quindi per la filosofia della storia
logicamente assurdo, tanto quanto lo è il concetto di legge storica inteso come fine di una scienza
storica empirica. Certamente la filosofia della storia guarda al generale , ma soltanto nella misura in cui
essa ha a che fare con l'universo storico,
e proprio perciò il suo oggetto rimane sempre uno sviluppo singolare e individuale, che ha come suoi
elementi degli individui. La sociologia come scienza di leggi può quindi, per
quanto possa essere fornita di valore sotto altri aspetti, offrire alla storia concetti ausiliari per l’analisi di
connessioni causali, ma non può mai
prendere il posto della filosofia della storia. Da questo punto di vista devono essere
valutati anche tutti i tentativi di
riconoscere fattori o
forze generali della vita storica. Dal momento che ogni storia tratta
di uomini, e in ogni uomo si possono
distinguere un aspetto corporeo e un
aspetto spirituale, è evidentemente possibile effettuare una divisione
di tali forze in fisiche e psichiche, e si potrà fors’anche dare con successo uno sguardo d’insieme ancor
più specializzato a quei fattori che agiscono nell’accadere storico. Ma,
quale che sia il giudizio che si può
dare nel singolo caso sul valore di tali
sforzi, non soltanto è necessaria, a causa della separazione tra apprendimento
naturale e apprendimento culturale della
realtà, la massima precauzione nell'impiego di tali teorie
generalizzanti, ma soprattutto non ci si deve mai illudere che queste forze e
questi fattori generali siano e neppure
determinino ciò che è storicamente
essenziale. Si tratta piuttosto soltanto di condizioni senza le quali non
possono esserci avvenimenti storici; ma proprio perché sono condizioni
assolutamente generali, non hanno
interesse né per lo storico empirico né per
il filosofo della storia. Così, per esempio, il calore del sole è un fattore che non possiamo eliminare da
nessun avvenimento storico; e tutta la
storia avrebbe avuto un corso diverso
anzi non ci sarebbe stata nessuna
cultura se gli uomini non si fossero potuti capire con il linguaggio. Ma
il calore del sole e il linguaggio non
sono certamente princìpi storici . È
proprio il carattere di incondizionata generalità che toglie ad essi interesse storico. Anzi, prescindendo del
tutto dal fatto che una scienza delle
forze e dei fattori generali della vita sociale possa essere chiamata filosofia
della storia, si può ben dubitare che le
molteplici conoscenze naturali, psicologiche e culturali che vengono qui prese in considerazione possano
congiungersi in una scienza unitaria.
Almeno finora questa scienza non esiste
affatto, né ci sarà in futuro; e se lo storico sente il bisogno di una visione delle forze
generali che agiscono nel campo di
cui egli tratta, si rivolge alle scienze particolari generalizzanti, cioè all’antropologia, alla psicologia, alla
sociologia e così via, che lo
informeranno nel modo più preciso. Non
recheremmo un contributo essenziale al chiarimento del principio generale a cui dobbiamo qui
limitarci se pretendessimo di approfondire nei particolari i diversi gruppi di
problemi considerati; si deve soltanto sottolineare ancora che lo storico può cercare insegnamento presso le
scienze particolari generalizzanti
solamente per quanto riguarda i fattori più o
meno costanti della vita storica, mentre non deve attendersi dalle scienze generalizzanti alcuna risposta
per parecchie questioni che si riferiscono all'essenza generale della vita
storica e in particolare per le
questioni che vengono qualificate come
problemi di filosofia della storia. Qui ci limitiamo a un esempio sul quale le più diverse tendenze
della scienza storica empirica e della
filosofia della storia cadono in errore. Si tratta della questione concernente il ruolo che
hanno nella storia gli individui abitualmente
designati in modo eminente come individuo, cioè le singole personalità. Qui
proprio la concezione che rifiuta sia la
trattazione empirica sia la trattazione filosofica della storia in favore di una scienza di
leggi ha interesse a sottolineare che
questo problema non è suscettibile di una soluzione generale in senso
cosiddetto individualistico ; e ciò
risulta ancora una volta da una prospettiva logica. Certamente è del tutto sbagliato dire che nella storia non
interessano affatto le singole personalità,
e che determinante è solamente la vita
generale delle masse; ma
altrettanto falso è cercare sempre i
fattori decisivi nelle imprese di singole personalità e spiegare la storia
seguendo Carlyle come una somma
di biografie. Purtroppo, l’alternativa
che qui viene in luce è molto spesso
posta in connessione con la questione dell’essenza logica della storia, cosicché i rappresentanti del punto
di vista secondo cui la storia procede
in modo individualizzante (nel senso da noi indicato) vengono al tempo stesso
ritenuti seguaci di una storia di
personalità; e invece il metodo individualizzante non ha il minimo rapporto con il culto degli eroi. Al
contrario, proprio perché la storia è la
scienza dell’individuale, la filosofia della
storia non può decidere in favore dei grandi uomini la questione del
significato che posseggono le singole personalità. Il motivo è lo stesso che
vieta di cadere nell’estremo opposto e di fare
dell’elaborazione di concetti collettivi un principio di metodo. L'affermazione che importano sempre le
personalità sarebbe anzi prodotto di
un’elaborazione concettuale generalizzante, ossia una legge storica. Per ogni
aspetto particolare dell’accadere
storico si deve indagare quali movimenti di massa e quali imprese
meramente personali abbiano avuto un’importanza decisiva per i valori culturali
dominanti: soltanto allora è possibile
rispondere alla questione del significato dei singoli uomini per tutti gli aspetti particolari della storia.
Di fatto, né le affermazioni generali sull’importanza decisiva delle masse, né
quelle sul ruolo delle singole
personalità devono la loro popolarità a
un'elaborazione concettuale generalizzante; esse devono venir ricondotte a un’arbitraria unilateralità nel
privilegiamento di questi o quei valori
culturali, e quindi a una scelta arbitraria
del materiale storicamente essenziale
come risulterà ancor più
chiaramente rispondendo alla domanda sui princìpi della vita storica. Per quanto riguarda la questione del
significato delle leggi storiche,
concludiamo accennando ancora a un punto che ha
dato parimenti occasione a dispute. Si tratta cioè ancora di mostrare che non soltanto certi problemi
largamente trattati di filosofia della
storia non ammettono nessuna decisione generale, ma che anche dove uno storico
afferma un principio valido per ogni
vita storica, non è affatto detto che si tratti sempre di un prodotto dell’apprendimento
generalizzante. Prendiamo come esempio una tesi di Ranke che ha avuto una parte
rilevante nella polemica sulle leggi storiche. Essa contiene come
dice von Below una verità
universale: la nozione che la vita
interna degli stati dipende in larga misura dai rapporti reciproci tra gli stati, dai rapporti
mondiali , e viene al tempo stesso designata come una scoperta scientifica di
prim’ordine. Ci si può chiedere se questa verità universale non sia una legge
storica, anche se soltanto nel senso, logicamente privo di contraddizione, di una legge valida per il
materiale rappresentato in modo individualizzante dalla storia. Chi conosce la
concezione storica di Ranke, risponderà negativamente a tale domanda. Per
questo grande storico i rapporti
mondiali costituiscono un complesso determinato
di stati civili in connessione reciproca, e Ranke considera come facenti parte
del suo mondo storico soltanto gli stati che sono in
connessione con questi stati civili, e
che quindi ne sono anche influenzati. Nel principio sopra menzionato se esso deve valere in modo assolutamente
generale ed essere quindi libero da ogni contenuto propriamente storico abbiamo di fronte non già un prodotto della scienza generalizzante e una scoperta
scientifica, ma soltanto la formulazione
di un presupposto metodologico con cui
Ranke si accosta, e deve accostarsi se
vuole trattare tutto in termini di storia
universale, nel senso da lui inteso
alla rappresentazione individualizzante dei singoli stati. Lo stesso
vale per altre affermazioni generali, come per esempio quella che ogni
individuo, per quanto grande, è rinchiuso entro
confini dati dalla situazione culturale del suo popolo. Ciò è assolutamente evidente, poiché anche qui non
si afferma altro che la connessione
reale di ogni parte storica con la totalità
storica. Un sistema di princìpi generali siffatti non potrebbe mai servire come scienza ausiliaria
generalizzante della storia nella
ricerca di connessioni causali, ma può soltanto contenere i presupposti che dobbiamo assumere se
dev'essere in generale possibile la
storia in quanto rappresentazione scientifica di connessioni storiche. Così si
mostra nuovamente che non ha alcun senso
cercare nelle leggi i princìpi dell’accadere storico. Ma proprio perché il rifiuto di una
filosofia della storia come scienza di
leggi è risultato come conseguenza necessaria
della comprensione dell’essenza logica della storia, sembra con ciò di essere andati troppo in là nella
dimostrazione. Infatti, per quanto false
siano nel loro contenuto tutte le teorie sociologiche che pretendono di essere
filosofia della storia, esistono di fatto
dei tentativi di determinare leggi valide per la totalità singolare dello sviluppo storico, e questi
sarebbero senz’altro impossibili se il
concetto di una scienza di leggi come filosofia
della storia contenesse una contraddizione logica. Ciò è certamente
esatto, e pertanto occorre ancora mostrare che, laddove i princìpi dell’accadere storico sembrano
determinati in forma di leggi, essi non
sono mai enunciati, da un punto di vista
formale, come leggi nel senso delle leggi naturali. E dal fatto che intendiamo ciò che qui è realmente
presente deriva al tempo stesso una
risposta alla questione di ciò che può essere designato come principio della
vita storica. È caratteristico di quasi
tutti i tentativi di trovare la legge
naturale dell’universo storico il fatto che tale legge debba contenere
contemporaneamente la formula del progresso della storia: con ciò è subito
posto in chiaro l’elemento essenziale. Si
capisce quanto debba essere allettante abbracciare d’un solo colpo legge
naturale, legge di sviluppo e legge di progresso, come credeva di aver fatto Comte con la sua legge
dei tre stati teologico, metafisico e
positivo e quanta popolarità goda quindi
ancor oggi questo tipo di sociologia, che promette di rendere tanto. Ma si
capisce anche, non appena si sia ottenuta chiarezza sull’essenza logica della
storia, che tali promesse non potranno
mai essere mantenute. In primo luogo, progresso o regresso sono concetti di valore, più
esattamente concetti che esprimono un
incremento o una diminuzione di valore; e di
progresso si può parlare soltanto se si possiede un criterio di valore. In secondo luogo, il progresso indica
il sorgere di qualcosa di nuovo, che non è mai esistito nella sua
individualità. Ma il concetto di un
criterio di valore, come concetto di ciò
che dev'essere, non può mai coincidere con un concetto di legge, che contiene sempre ciò che è o deve
necessariamente essere, e che non ha
quindi alcun senso esigere. Dover essere
ed essere necessariamente si escludono l’un l’altro sotto il proftlo
concettuale, e solamente a causa della già menzionata equivocità del termine
legge si può parlare di una legge di
progres Inoltre il sorgere di qualcosa di nuovo, di non ancora esistito, non rientra in alcuna legge, poiché
una legge contiene soltanto ciò che
ricorre ripetutamente. Se per progresso si intende quindi in primo luogo il
sorgere di qualcosa di nuovo e in
secondo luogo un incremento di valore, e per legge una legge naturale, allora il concetto di legge di
progresso è due volte logicamente
assurdo. Quando l’universo storico è unificato in virtù di una legge, articolato in riferimento
al sorgere di qualcosa di nuovo e designato come progresso, la legge non può mai essere una legge naturale. Perciò la
legge di Comte è anche di fatto una formula valutativa. Per lui il
positivo vale come dover essere, come
ideale assoluto. In base a questo egli
considera lo sviluppo dell’umanità e stabilisce ciò che i suoi diversi stadi rappresentano di nuovo e
di valido per la realizzazione del suo
ideale. Una scienza di leggi, che deve
sciogliere i propri oggetti da ogni vincolo valutativo e considerarli
come esemplari indifferenti di un genere, non può fare nulla di simile. Qui non è possibile — e neppure necessario
per il chiarimento del principio — illustrare criticamente i vari tentativi
compiuti per porre in luce presunte leggi come princìpi dell’accadere storico e
per dimostrare che queste leggi contengono, più o meno celati, concetti di valore, e quindi non
sono leggi. Basti ricordare
esplicitamente quello che è legato al nome di Darwin e che può essere definito come il tentativo
di dare al concetto di sviluppo storico
un carattere puramente naturalistico in virtù della dimostrazione che proprio
la legge naturale dello sviluppo garantisce il suo necessario incremento di
valore. Ogni progresso da un livello
inferiore a uno superiore è condizionato
— così si sostiene — dalla legge universalmente valida della selezione, che sempre più elimina ciò che è
cattivo e aiuta ciò che è buono a
riportare la vittoria. Perciò tale legge deve nel medesimo tempo essere il principio dello
sviluppo storico e del progresso. A
parecchi ciò suona assai plausibile, ma non occorre pervenire a
un'illustrazione più ravvicinata delle idee sulla cui base si sono ottenuti i più diversi
concetti di progresso per mostrare che
siamo qui dinanzi a un fraintendimento totale
della biologia di Darwin. Se questa teoria deve fornire una spiegazione puramente naturalistica, essa
deve rinunciare a qualsiasi teleologia dei valori, e quindi anche evitare
completamente l'impiego di concetti
valutativi come superiore e inferiore. La selezione naturale non elimina
affatto ciò che è cattivo conservando il
buono, ma aiuta semplicemente a far vincere il
più adatto alla vita in determinate condizioni; e questo processo può essere
chiamato progresso soltanto se si fa della vita in quanto tale, in qualsiasi forma si manifesti,
un valore assoluto. Ma ciò sarebbe del
tutto privo di senso, perché ogni vita ha dimostrato capacità vitale per il
fatto stesso di esistere, e quindi da
questo punto di vista cade ogni differenza di valore. Sulla base dei concetti darwiniani non si può
valutare la vita umana superiore a
quella animale, e quindi designare come un
progresso lo sviluppo che conduce all'uomo. Perciò è del tutto impossibile formulare u na qualsiasi
distinzione di valore all’interno della vita umana in base a punti di vista
propri della scienza naturale. Soltanto
quando si è già presupposta come fornita
di valore sulla base di un criterio di
valore una determinata formazione, si può definire come
progresso lo sviluppo che conduce ad essa. Ma non sarà mai possibile
derivare dalle leggi naturali del
processo di sviluppo che devono essere le medesime per ogni stadio, se devono
essere leggi generali il principio del progresso. La circostanza
che certe formazioni naturali, come per
esempio gli uomini, vengono valutate
come evidentemente » superiori rispetto ad altre forme ci spiega sì la
possibilità di una storia evolutiva individualizzante degli organismi e conduce
i rappresentanti di una filosofia naturalistica della storia a ingannarsi
sull’uso che continuamente fanno di princìpi di valore, ma non cambia nulla al
fatto che dai concetti propri della
scienza naturale non si può derivare alcun valore. Da quest’illusione sono
infine dominati anche coloro che
vogliono costruire una filosofia della storia sul concetto di razza per lo più ispirati dalla nozione darwiniana
di razze favorite nella lotta per l’esistenza
». Essi trascurano il fatto che, per
edificare una qualsiasi filosofia della storia, sono costretti a utilizzare questo concetto in
modo del tutto acritico e infondato,
come concetto di valore; e tale procedimento è
tanto più sospetto in quanto con ciò discreditiamo il concetto estremamente importante per la filosofia
della storia di nazione, che è un
concetto culturale e designa l’individualità di
un popolo. Il concetto di nazione civile non ha nulla in comune con il
concetto naturalistico di razza
tutt'altro che esente da
obiezioni, del resto, anche dal punto di vista della scienza naturale
di cui si fa oggi un abuso così dilettantesco. La germanità non risiede nel sangue ma
nell'animo ha detto Lagarde”, un uomo non sospettabile di
apprezzare poco l’ele 23. Paul Anton de
Lagarde, orientalista c filosofo tedesco, autore mento nazionale; e alla base
di questa espressione sta la stessa idea
che proibisce di elevare concetti naturali, come quello di razza, a princìpi di filosofia della
storia. La dimostrazione che le
presunte leggi storiche sono formule di valore ci ha al tempo stesso indicato
la strada attraverso cui devono essere
effettivamente cercati i princìpi dell’accadere
storico: ancora una volta è qui decisiva la comprensione dell’essenza
logica della scienza storica. L'universo storico non è nient'altro che la
totalità storica più ampia possibile, concepita in modo individualizzante, e poiché la relazione
di valore è la conditio sine qua non
dell’apprendimento individualizzante in
genere, possono essere solo concetti di valore quelli che costituiscono
il concetto dell’universo storico. Ma soltanto ciò che esegue questo lavoro e
rende possibile connettere in unità
come elementi individuali le diverse parti dell’universo storico, merita il nome di principio storico; perciò
la filosofia della storia in quanto
scienza dei princìpi è, se deve avere un compito, la dottrina dei valori da cui
dipende l’unità e l’articolazione dell’universo storico. In riferimento a
questi valori si può anche interpretare
il senso unitario dell’intero sviluppo.
L'’interpretazione di tale senso ha sempre rappresentato di fatto l'aspirazione della filosofia della storia,
anche quando si credeva di dover cercare leggi perché non si distingueva tra
legge e valore, tra essere
necessariamente e dover essere, tra essere e
senso, e non si era consapevoli che ciò che non si può riferire a valori è assolutamente privo di senso.
Neppure il naturalismo ha voluto
rinunciare a interpretare il senso della storia, né del resto sarebbe facile rinunciarvi. Tutta la
vita culturale è vita storica e gli
uomini civili a cui appartengono anche i
naturalisti non possono in quanto tali
tralasciare di rendersi conto del senso
della cultura, e quindi del senso della storia. Sorge qui un compito che non può essere assolto né
dal naturalismo, che scioglie la realtà
da ogni relazione di valore, né dalla
scienza storica empirica, che rappresenta il corso storico in base di Uber das Verhdltnis des deutschen Staates
zu Theologie, Kirche und Religion
{1873), dei Politische Aufsitze (1874), di Uber die gegenwirtige Lage
des deutschen Reiches (1876) e di vari
altri scritti, cditore di Giordano Bruno, formulò una filosofia della storia di
ispirazione teologica. a una relazione di valore puramente teoretica; perciò ci
si attende dalla filosofia della storia,
come dottrina dei princìpi dell’accadere
storico, la soluzione di questo compito necessario e inevitabile . Meno semplice della questione dell'oggetto
di questa filosofia della storia è affrontare il problema del modo di
trattazione. Qui è possibile prospettare soltanto #2 compito, contro la cui possibilità di soluzione non vengono
avanzate obiezioni di rilievo. Esso si
riallaccia alle operazioni effettive degli storici e dei filosofi della storia, cercando di
mostrarvi la funzione dei valori
culturali come princìpi della rappresentazione. Per qualche lavoro questo
compito è, almeno in parte, di così facile
soluzione da non aver affatto bisogno di un’indagine particolare. In una
storia dell’arte o della religione devono in ogni caso esserci dei valori artistici e religiosi, ai
quali vengono riferiti gli oggetti da
rappresentare. Ma non sempre le cose vanno nel
senso che un determinato punto di vista valutativo emerge subito come
elemento dominante. Soprattutto nelle opere più comprensive, le quali hanno per
oggetto lo sviluppo di interi popoli o intere epoche, si incontrano i punti di
vista più diversi, ed è un’occupazione
assai attraente quella di chiarire perché lo storico tratti estesamente certi
avvenimenti e soltanto brevemente altri,
e non tratti per nulla di processi altrettanto reali. Gli storici stessi non sempre sono consapevoli
dei motivi di questo fatto. Non possono
esserlo perché spesso non sanno nulla della
struttura logica della loro attività e credono di non stabilire relazioni di valore in genere. Tanto più
importante è allora chiarire
esplicitamente i loro presupposti e mostrare da che cosa essi dipendano nell’elaborazione del loro
materiale. Occorre perciò mostrare che ogni storico, specialmente quando non
si limita a indagini particolari,
possiede una specie di filosofia della
storia che è decisiva per ciò che egli ritiene importante e non importante; ed è certamente un compito
che vale la pena affrontare quello di
porre in luce la filosofia della storia presente soprattutto nei grandi
storici. Anche in uno storico così
oggettivo , com'è per esempio Ranke, agiscono presupposti filosofici ben determinati intorno al senso
della storia, e così dev'essere per il
fatto stesso che egli voleva trattare tutto dal punto di vista della storia
universale. Giustamente Dove ha
osservato che Ranke si è opposto alla partecipazione unilaterale non già
mediante la neutralità, ma mediante l'universalità del sentimento simpatetico, riconoscendo in
tal modo implicitamente la relazione ai valori. Ma se le cose stanno così, non ci si può limitare a questo. In che cosa
consiste l'universo dei sentimenti
simpatetici in questo grande storico? Un’indagine orientata in vista di tale scopo recherebbe
forse maggiore luce sulla questione
riguardante le tanto discusse idee di
Ranke. Si potrebbe mostrare che la
filosofia della storia di Ranke è stata
soggetta a trasformazioni, ma che tra i fattori di cui si compongono queste idee tutt'altro che
semplici hanno sempre avuto un ruolo
essenziale i punti di vista valutativi dominanti della concezione della storia di Ranke. In
tali indagini, e in altre analoghe,
storia e filosofia devono avere uno stretto contatto. Ancor più importante tra i punti di vista
filosofici è però l’analisi dei
tentativi che procedono oltre la scienza storica empirica in quanto
stabiliscono esplicitamente princìpi della vita
storica, e cioè princìpi che servono alla comprensione dell’intero
sviluppo umano e all’interpretazione del suo senso. Qui occorre quindi non soltanto l’analisi, ma
anche la critica; occorre cioè dopo aver
determinato fino a qual punto i principi
della vita storica siano valori, e in che cosa essi consistano indagare con quale diritto questi punti di
vista valutativi vengano considerati decisivi per il senso generale dello
sviluppo universale. Naturalmente anche qui possiamo di nuovo indicare soltanto qualche esempio. Si prenda, come
esempio particolarmente caratteristico, la cosiddetta concezione materialistica
della storia, proprio nella forma originaria del Manifesto comunista e nella
misura in cui si limita del tutto
indipendentemente dal materialismo teoretico o metafisico a un’interpretazione della vita storica
empirica. Già il fatto che essa sia sorta
come elemento di un programma politico indica dove devono 24. Alfred Dove (1844-1879), storico
tedesco, autore della Deutsche Geschichte
im Zeitalter Friedrichs des Grossen und Joseph l (1883), della Kaiser
Wilhelms geschichtliche Gestalt (1888),
di Grossherzog Friedrich von Baden als Landesherr und deutscher Fiirst (1902) e di varie altre
opere, editore delle opere complete di
Ranke. essere cercati i punti di vista valutativi che la ispirano.
Essa può venir compresa soltanto se si
considera che gli interessi dei suoi
fondatori si rivolgevano alla lotta del proletariato contro la borghesia e che la vittoria del proletariato
ne costituiva il valore centrale, assoluto. Poiché la cosa essenziale in
riferimento a questo valore è oggi la
lotta tra le due classi, si cerca di
comprendere l’intera storia come storia di lotte di classe e di ricondurla in tal modo a unità. I nomi dei
partiti in lotta cambiano: liberi e
schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, artigiani e garzoni si contrappongono tra loro. Ma ogni volta è essenziale, in riferimento al punto
di vista valutativo dominante, il fatto
che si tratta di oppressori e oppressi, di
sfruttatori e sfruttati i quali lottano tra loro ai diversi gradi dello sviluppo storico. Così si ottengono i
princìpi generali dell’accadere storico,
e anche la formazione futura viene parimenti determinata dal valore assoluto,
dall’auspicata vittoria del proletariato
sulla borghesia. Nella fase attuale di lotta la
cosa principale, l'elemento decisivo, è la lotta per i beni economici.
Perciò nella storia la vita economica dev'essere sempre la cosa principale, e le epoche della storia
devono articolarsi in base alle diverse
formazioni economiche: da ciò deriva la concezione materialistica , cioè economica. Quanto tutta
questa concezione dipenda da punti di
vista valutativi, è cosa che non
richiede un’ulteriore dimostrazione. Che poi non si accontenti di considerare come elemento essenziale ciò
che è riferito al suo valore assoluto,
ma faccia coincidere l'essenziale
secondo un realismo concettuale ingenuo a cui si aggiunge qui ancora il realismo concettuale nient’affatto
ingenuo degli hegeliani con ciò che
è propriamente reale , e conceda a tutta la restante vita culturale soltanto
un'esistenza di grado inferiore, non cambia in nulla il quadro che abbiamo
delineato. Questo errore è tipico delle costruzioni di filosofia della storia
che non sono consapevoli di utilizzare
come punti di vista dominanti dei valori, e al tempo stesso serve a mantenere
l'oscurità sul principio direttivo
perché, una volta compiuta la separazione
tra due diversi tipi di reale e trovata nella vita economica in conseguenza di un platonismo con segno
rovesciato la causa vera e propria di tutti gli altri
avvenimenti storici, deve poi
necessariamente sorgere la parvenza che la concezione materialistica della
storia constati semplicemente dei fatti,
partendo sempre dalla vita economica intesa come fondamento. Queste ipostatizzazioni metafisiche
dell’elemento economico sono però soltanto esagerazioni, e possono essere
eliminate senza intaccare il nucleo
filosofico del materialismo storico. In ogni caso, uno sguardo ai princìpi di
valore di questa filosofia della storia fornisce anche il punto di vista da cui
deve prendere le mosse la critica. La
questione decisiva consiste nel sapere se sia
legittimo scorgere il valore assoluto nella vittoria del proletariato in
campo economico, e quindi in un bene economico. Naturalmente la questione non
dev'essere decisa in questa sede. Si
potrà al massimo ritenere fin d’ora poco probabile il fatto che princìpi di valore ottenuti in base a punti
di vista politici di partito siano
adatti anche all’interpretazione del senso della storia universale. Infatti una quantità
sterminata di aspirazioni e di imprese
umane di tutti i secoli appare, da questo punto di vista, del tutto priva di senso. Non ci si può tuttavia limitare a queste
supposizioni. Proprio l’idea che la filosofia della storia non soltanto deve
chiarificare analiticamente i principi delle opere di storia empirica e delle costruzioni di filosofia della storia,
ma deve anche assumere criticamente posizione nei loro confronti non appena
questi princìpi avanzano una pretesa di
validità universale, indica che il
compito principale di una scienza dei princìpi storici si colloca in una direzione del tutto diversa.
La critica è possibile sempre soltanto
sulla base di un criterio di valore; inoltre, per poter definire unilaterale una concezione
della storia, si deve in qualche modo
disporre di una concezione onnilaterale. La
dottrina dei princìpi dell’accadere storico si svilupperà quindi in una scienza autonoma soltanto se nella
determinazione dei princìpi storici
aspira tanto alla completezza sistematica
quanto a. una fondazione critica. Essa deve cioè porsi come fine la determinazione di un sistema di valori;
inoltre essa prende in considerazione
non soltanto la valutazione di fatto, ma anc he la questione della validità dei
valori culturali, e per questo ha
bisogno di un valore assoluto a cui poter commisurare le valutazioni effettive. Questo valore fornirà
al tempo stesso anche il punto di vista decisivo per la determinazione di
un sistema di valori, cosicché il
problema della sistematizzazione e quello della validità dei valori culturali
si connettono strettamente tra loro. Ma come la filosofia della storia deve
pervenire a un sistema di valori che
renda ad essa possibile interpretare il
senso dell'intero corso storico? Con questa domanda perveniamo
all'ultima e più importante questione della dottrina dei princìpi storici. Si affaccia qui l’idea di attribuire questo
compito a un tipo particolare di
indagine psicologica: certamente non alla psicologia esplicativa sia che si tratti di psicologia individuale della vita psichica in generale oppure di
psicologia della vita sociale, condotta
secondo un metodo naturalistico ma
soltanto a una psicologia dei valori
culturali. Tutta la storia non solo
tratta essenzialmente di uomini civili, ma è scritta esclusivamente da
uomini civili. I valori generalmente riconosciuti dall’uomo civile devono a quanto sembra essere nel medesimo tempo i princìpi di una storia universale
dell'umanità civile. È così possibile
concepire una psicologia della cultura che indaghi il complesso dei valori culturali universali
e li rappresenti sistematicamente, fornendo contemporaneamente un sistema
dei princìpi dell’accadere storico in
cui trovino il loro posto tutti i
sistemi di valore ottenuti analizzando le opere storiche e di filosofia della storia, e a cui essi debbano
essere commisurati. È questo in ogni
caso il senso più profondo, anzi l’unico, che si può attribuire all’affermazione che la
psicologia dev'essere la base della
filosofia della storia: esso sta anche alla radice dello sforzo di Dilthey, totalmente incompreso
dagli psicologi, per delineare il
programma di una psicologia descrittiva
e analitica da affiancare alla psicologia esplicativa. Per quanto suggestiva
possa apparire l’idea di procurare in questo modo alla filosofia della storia un fondamento
puramente empirico, e quindi sicuro, la
sua realizzazione incontra una difficoltà insuperabile. Questa psicologia della
cultura non può limitarsi all’indagine
dell’uomo civile nel senso di
accertare e sistematizzare le valutazioni comuni a tutti gli uomini civili,
poiché da questo procedimento
generalizzante deriverebbe un sistema di
valori estremamente povero, in cui potrebbero essere contenuti soltanto pochi
dei princìpi di una storia dell’universo storico. La psicologia della cultura
dovrebbe piuttosto rivolgersi alla vita
storica stessa in tutta la sua pienezza e molteplicità, per conoscere tutti i
valori culturali; e come potrebbe pervenire
in questo modo a punti di vista che rendano possibile un’articolazione e
un dominio di questo materiale? Per separare entro la molteplicità della valutazione
l’essenziale dall’inessenziale, essa
dovrebbe già possedere ciò che deve invece cercare: la conoscenza dei valori che sono princìpi di
una storia universale e princìpi dello
stesso universo storico. Così la psicologia della cultura come filosofia della storia entra in
un circolo da cui non può sfuggire. Non è possibile avvicinarsi al fine di una
rappresentazione e fondazione
sistematica dei princìpi storici per via puramente empirica, attraverso la mera analisi delle
valutazioni effettive. Occorre piuttosto
in primo luogo riflettere, prescindendo del
tutto dalla molteplicità del materiale storico, su ciò che vale assolutamente ed è presupposto di ogni
giudizio di valore, ossia che pretende a
una validità più che individuale. Soltanto quando si siano trovati valori
validi atemporalmente si può riferire ad
essi tutti quanti i valori culturali empiricamente constatabili, che si sono
sviluppati nel corso della storia, e tentare così una disposizione sistematica e al tempo
stesso una presa di posizione critica.
Solamente se è possibile ottenere valori soprastorici, si può allora realizzare
una filosofia della storia come scienza
particolare dei princìpi dell’universo storico e interpretare il senso della
storia dell’universo. Ma la riflessione sui valori sopra-storici non appartiene più al campo
della filosofia della storia come
disciplina filosofica particolare; essa può venir intrapresa soltanto in
connessione con la determinazione di un sistema filosofico in generale. La
filosofia della storia come dottrina dei
principi viene così a dipendere dal complesso delle indagini filosofiche, in
particolare dalla dottrina del senso del mondo
o nel caso che tale questione non
sia una questione scientifica dalla
dottrina del senso della vita umana. I fondamenti della filosofia della storia coincidono
pertanto con i fondamenti di una filosofia come scienza dei valori in
generale. L'indagine volta a determinare
il concetto della filosofia della storia
come dottrina dei princìpi storici in generale può essere condotta soltanto fino a questo punto.
Non si può qui rispondere alla questione
se la determinazione di valori assoluti possa ancora rientrare nei compiti
della scienza, poiché essa è identica alla questione riguardante il concetto di
filosofia scientifica in generale. Qui
importava solamente mostrare che le
leggi non possono essere princìpi della storia, e quindi mostrare che, se
possono ancora esserci problemi di filosofia della storia al di fuori della logica della storia,
questi devono riassumersi nella questione del senso della storia, e inoltre che
l’interpretazione di questo senso richiede ancora un criterio di valore fornito di validità sopra-storica. Si deve
ancora aggiungere che la filosofia come
scienza critica e sistematica dei valori non ha
bisogno di presupporre come criterio nessun valore assoluto determinato
dal punto di vista del contenuto. Anche se si riesce soltanto a ottenere un valore incondizionato
puramente formale, si può tuttavia trarre l’intero contenuto del sistema
dei valori dalla vita storica, per
quanto questa sia asistematica per
definizione. Anzi, la filosofia della storia che ricerca il senso della storia dovrà servirsi di princìpi di
valore puramente formali, proprio perché questi devono essere tali da valere
per tutta la vita storica. Certamente,
in base a questo presupposto si può
concepire un sistema di valori che possegga completezza sistematica soltanto sotto il profilo
formale, mentre riguardo al contenuto
non può mai essere concluso perché la vita storica continua a svilupparsi e quindi sorgono
valori culturali sempre nuovi,
determinati nel contenuto, i quali devono trovare la loro collocazione nel sistema. Perciò il sistema
di valori può essere definito
sistematico in riferimento al suo contenuto soltanto nella misura in cui la conclusione
sistematica ci si presenta come un
compito altrettanto necessario quanto insolubile, e l'oggetto della filosofia come scienza dei
princìpi risulta pertanto un’ idea nel
senso kantiano come sempre avviene
quando l'oggetto è l’incondizionato nella pienezza del suo contenuto. Alla
realizzazione dell'idea di un siffatto sistema di valori dovrebbero quindi contribuire tutte le
epoche, con la coscienza che esse non
potranno mai condurlo a termine. Ciò non cancella però il significato di questo
lavoro. Al contrario, chi si decide a
compierlo trarrà coraggio tanto da uno sguardo sul passato quanto da uno sguardo verso il
futuro. Se prescindiamo dai problemi che
nel corso dei secoli si sono svincolati dalla
filosofia e sono stati attribuiti alle scienze particolari, ne
risulta che tutti i filosofi importanti
hanno cercato di lavorare in vista di un sistema di valori nel senso sopra
indicato, poiché tutti hanno indagato
sul senso della vita, e già questa domanda
presuppone un criterio assoluto di valore. Essi devono quindi venir considerati tutti come precursori. Ma
il fatto che a tale questione
fondamentale per ogni filosofia non soltanto non si è ancora risposto, ma non si potrà neppure mai
rispondere con una completezza di
contenuto, finché sorgerà nuova vita storica, costituisce appunto soltanto un
motivo che accresce l’importanza del lavoro diretto a risolverlo: infatti la
coscienza tanto della grande necessità
quanto dell’insolubilità di un compito ci
dà la sicurezza della sua eternità , e quindi il conforto fichtiano che
coloro i quali collaborano alla soluzione della questione diventano, in virtù
del loro lavoro, eterni come lo è il
compito stesso. Ora possiamo finalmente rivolgerci ai problemi della
terza disciplina che pretende il nome di
filosofia della storia. Essa vuol
fornire, in antitesi alle scienze storiche particolari, una storia universale, cioè rappresentare il mondo
storico o l’universo storico. Come può conseguire il suo fine? Il suo
compito consiste forse nell’abbracciare
in una totalità le rappresentazioni delle scienze particolari e se per questa via non è possibile ottenere una totalità realmente conclusa nel riempire con costruzioni più o meno ipotetiche le lacune
che la ricerca delle scienze particolari
lascia ancora nella storia universale? Un semplice riassunto non può avere
valore come lavoro scientifico autonomo,
e il tentativo di formulare supposizioni laddove lo sguardo dello specialista non perviene a
ipotesi realmente fondate susciterebbe lo scherno di tutti gli storici. Una
filosofia della storia del genere è
superflua se non altro per il fatto che la
storia universale viene scritta dagli storici stessi. Come la filosofia
in generale non ha più, in quanto scienza dell'essere, compiti autonomi che si
riferiscano alla realtà empirica da quando
su ogni campo specifico della realtà ha avanzato le sue pretese una scienza particolare, così una conoscenza
complessiva della totalità storica, la
quale si distingua dalle indagini scientifiche particolari soltanto per il
fatto di non limitarsi a una parte, non
può certamente essere più compito della filosofia della storia. Non soltanto la rappresentazione di
ambiti storici particolari, ma anche la storia universale dev'essere come scienza
storica lasciata esclusivamente
agli storici, che ne sono i soli competenti,
nello stesso modo in cui soltanto gli addetti
alla ricerca empirica possono accertare scientificamente qualcosa in
merito all’essere della natura, in generale come in particolare. La filosofia
si renderebbe ridicola se credesse di poter fare in questo campo più delle scienze. Ma con ciò il problema di una trattazione
filosofica del materiale rappresentato
dal complesso delle scienze storiche empiriche è tutt'altro che deciso. Anche
se considera non soltanto le forme ma
altresì il contenuto della totalità storica, la filosofia ha nei confronti di
essa un compito che non può essere
affrontato da nessuna scienza storica empirica; e proprio la circostanza che la storia universale viene
scritta in modo puramente storico da storici può servire alla determinazione
di questo compito filosofico. Cerchiamo
quindi, in base alla comprensione dell'essenza logica della scienza storica, di
chiarire anzitutto il concetto di una
rappresentazione empirica della storia
universale, e poi di vedere quali questioni, a cui gli storici non possono in quanto tali dare una
risposta, rimangano ancora alla
filosofia. La storia universale così come l’ha scritta per esempio Ranke
non si distingue affatto nel modo dalla rappresentazione di oggetti
particolari; e così ha voluto, del resto, il suo autore. Egli era anzi convinto come riferisce Dove? che in ultima analisi non si può scrivere
nient'altro che storia universale ; e in
ogni caso la storia universale è
scaturita in Ranke dal lavoro scientifico particolare, senza l’aggiunta
di un principio nuovo. Per noi è qui soprattutto importante considerare che
cosa Ranke, come storico, intenda per
mondo storico, cioè per la
totalità di cui egli tratta. In un passo
egli dice che l'impulso alla conoscenza viene trascinato 25. La frase citata da Rickert si trova
negli Aufsétze und Veròffentlichungen zur
Kenntnis Ranke, in Ausgewihlte Schriften vornelimlich historischen
Inhalts, Leipzig. ad abbracciare l’intero ambito dei secoli e degli imperi
dalla convinzione che nulla di umano gli
è distante ed estraneo. Ma, di fatto,
Ranke è ben lungi dal trattare nella sua storia universale di tutti i secoli e
di tutti gli imperi, e non l’avrebbe fatto
neppure se gli fosse stato concesso di portare a termine la sua opera. Egli stesso lo osserva quando dice
che, se la vocazione di Alessandro non
fosse stata quella di attraversare l’India e di
scoprire la parte orientale dell'Asia, questa regione per secoli
ancora non sarebbe entrata a far parte dell'ambito della storia universale . L’ universo di Ranke può essere
determinato soltanto come una parte
della storia dell'umanità a noi nota, e
non come l’ultima più comprensiva totalità storica in senso logico; anzi, la sua esigenza di una
trattazione storico-universale del materiale storico consiste essenzialmente
solo nel fatto che egli non vuole
limitarsi a un popolo singolo, ma seguire le
connessioni che i diversi popoli appartenenti a un determinato ambito culturale stringono tra di loro. Non
soltanto Ranke non ha mai tentato di
fatto di stabilire concettualmente l’universo
storico, ma neppure poteva tentarlo, se voleva restare uno storico. In
primo luogo, un compito di questo genere può essere risolto soltanto con l’ausilio di un sistema
di valori culturali nel senso già
indicato, dalla cui determinazione lo storico è quanto mai lontano; in secondo luogo il senso
storico deve fare resistenza non
soltanto alle leggi storiche, ma a ogni altra
specie di sistematica, poiché questa lo priverebbe della libertà e dell’ampiezza di considerazione di cui ha
bisogno per un apprendimento impregiudicato di ogni avvenimento storico
nel suo carattere specifico. Perciò
tutti gli storici, anche quando scrivono
di storia universale rimanendo tuttavia storici, non procederanno in linea di principio in maniera
diversa da Ranke. Tale supposto difetto è stato di recente sottolineato
decisamente in una storia universale su base etno-geografica . Ma questo tentativo di trattare storicamente
suite le parti della terra ha realmente
cambiato qualcosa da un punto di vista di
principio? Esso non può valere, in ogni caso, come delimitazione
sistematica dell’universo storico. Anzi, ciò che la storia guadagna in
generalità esteriore e quantitativa, va necessariamente perduto come unità interna, perché il
principio direttivo non è un concetto
culturale. L’inevitabile difetto di ogni rappresentazione puramente storica della storia universale ci indica al
tempo stesso i compiti di una trattazione filosofica dell’universo storico. In antitesi
alla storia, la filosofia non rinuncerà mai alla tendenza alla sistematizzazione. Ovviamente, finché si
tratta di fatti storici essa deve sempre appoggiarsi alla scienza storica
empirica e sottomettersi senza
condizioni alla sua autorità. Ma per il resto
può vedere in tutte le rappresentazioni puramente storiche, incluse le più ampie, soltanto del materiale
che essa elabora sistematicamente a modo
suo. Certamente, essa può farlo solo se
ha risolto in misura maggiore o minore il suo compito di scienza dei princìpi. Ma se è pervenuta anche
soltanto all’inizio di un sistema criticamente fondato dei valori culturali,
nel senso prima indicato, la filosofia
può apprendere anche il contenuto della storia in modo tale che non ne derivi
un sistema di concetti generali come in
una scienza generalizzante, ma una
delimitazione e articolazione sistematica dell’universo storico. Per quanto riguarda la delimitazione, nel
concetto di totalità storica ultima
rientra così tutto ciò che è essenziale, per la
sua individualità, in riferimento ai valori culturali universali suscettibili di venir fondati criticamente, e
quindi più che empirici. Certamente, l’universo storico che sorge in questo
modo può essere soltanto un’ idea in senso kantiano, cioè non può mai essere definitivamente concluso al pari del sistema dei valori culturali dal punto di vista del contenuto; esso
appartiene quindi per dirla con
Medicus* alla dialettica
trascendentale di una critica
della ragione storica. Ma questa
circostanza non esclude l’autonomia della sua trattazione sistematica,
in quanto filosofia della storia. Anzi, la relazione al sistema di valori permette al tempo stesso
un'articolazione della totalità storica: è cioè possibile delimitare
reciprocamente determinate parti come
suoi elementi più importanti, come le
26. Fritz Medicus (1876-1956), filosofo tedesco, autore di uno studio
sulla Kants Philosophie der Geschichte
(1902) e di importanti lavori sulla vita e sul pensiero di Fichte, nonché di
varie opere teoriche come le Grundfragen der Aestetik (1917), Die Freiheit des Willens und ihre
Grenzen (1826), Macht und GerechtigKeit, Vom Wahren, Guten und Schònen (1943),
nonché editore delle opere di Fichte.
Rickert sì riferisce al saggio Kant und Ranke, Kantstudien. sue epoche o i suoi
periodi , ordinandole in modo che il
senso della storia non si esprima soltanto in un’astratta formula di valore, ma anche nella rappresentazione
dello sviluppo stesso. In una filosofia della storia siffatta anche la
selezione di ciò che è essenziale deve
distinguersi da quella che compiono le
scienze empiriche: infatti non appena si considerano non già tutti i valori culturali forniti di
universalità empirica, ma soltanto quelli che hanno trovato la loro fondazione
nel sistema dei valori, la ricchezza dei
particolari storici retrocederà e si
parlerà soltanto delle grandi
epoche o periodi. Dove si vogliano
scorgere i rappresentanti di queste epoche
se in singole personalità o in movimenti di massa può
naturalmente essere deciso, ancora una volta, soltanto caso per caso. Così pure non si può rispondere
pregiudizialmente rispetto all’ ‘indagine storica alla questione se gli
elementi più comprensivi del processo di sviluppo singolare siano le diverse
epoche che si susseguono, oppure le diverse individualità dei popoli che in
parte cooperano nel medesimo tempo. Qui importa
soltanto chiarire il carattere sistematico di una trattazione filosofica
dello stesso oggetto che le scienze storiche trattano storicamente, e distinguere
in tal modo nettamente la filosofia della
storia dalle scienze storiche empiriche. Anche con la storia la filosofia, nel senso sopra indicato, deve
procedere astoricamente. Perciò Ranke aveva ragione quando si sentiva in
opposizione alle costruzioni di storia universale intraprese dai filosofi,
e temeva un’irruzione della filosofia
nel campo dello storico. T'uttavia egli non ha reso giustizia, nel suo
giudizio, alla filosofia della storia,
perché sentiva questa differenza più che formularla concettualmente in modo netto. Egli stesso ha
cercato se non nella Weltgeschichte, almeno nelle conferenze
Uber die Epochen der neueren Geschichte
qualcosa che si accosta per un
certo verso a una filosofia della storia. Ma questa rappresentazione è
impostata in modo troppo storico per essere una filosofia e si presenta quindi
come una forma di trapasso o una forma
mista, che evidentemente non perde affatto il valore come manifestazione di una personalità
geniale, ma che tuttavia, riguardo alla sua struttura logica, dev'essere
definita appunto come una forma di trapasso. Essa vuole cioè essere per un certo verso sistematica, e nel medesimo tempo
non riconosce in parte i presupposti di cui nessuna sistematica di filosofia della storia può fare a meno. In tal modo
essa dimostra quanto sia necessario
distinguere concettualmente in modo netto tra
scienza storica empirica, non sistematica, e filosofia della storia. Se
ciò è avvenuto, e se il filosofo della storia rinuncia a fare irruzione nelle scienze storiche, la sua
considerazione sistematica dello sviluppo storico complessivo possiede un
diritto incontestabile 4ccazzo alla
rappresentazione storica e non sistematica della vista storica. Ma affinché tale distinzione, e al tempo
stesso anche la necessità di questo tipo
di filosofia della storia risulti perfettamente chiara, bisogna ancora prendere
in considerazione un secondo punto, che
è connesso nel modo più stretto con l’aspirazione alla sistematizzazione.
All'essenza del senso storico non
appartiene soltanto la mancanza di sistematicità; l’apprendimento
impregiudicato del corso storico presuppone anche una fede nel
diritto di ogni realtà storica.
Perciò lo storico deve cercare, in
quanto storico, di astenersi da un giudizio di valore diretto sui suoi oggetti, e la logica della
storia deve pertanto separare nettamente
la relazione teoretica di valore dalla valutazione pratica. Invece la
filosofia, che deve assumere criticamente posizione nei confronti dei valori
culturali, non sa nulla di un diritto
proprio dell'elemento storico in quanto tale; in modo altrettanto deciso di quello in cui
riconosce il procedimento puramente storico dell'indagine specifica, lo
storicismo come intuizione del mondo
appare ad essa un’assurdità. Questo storicismo, che si crede così positivo, si
manifesta come una forma di relativismo
e di scetticismo e, se pensato fino in
fondo in modo coerente, può condurre al nichilismo completo. Si sottrae a quest'apparenza soltanto perché
rimane aderente a una qualche struttura della
molteplicità storica, collegando ad essa
il diritto di ciò che è storico e
traendone quindi una ricchezza di vita
positiva. Ciò lo distingue sì dal relativismo e
dal nichilismo formulati in modo astratto, ma in linea di principio non
lo innalza affatto al di sopra di questi. Se fosse coerente, esso dovrebbe concedere a qualsiasi
essere storico il diritto di ciò che è
storico; ma non è in grado di aderire a
nulla, proprio perché dovrebbe aderire a tutto. In quanto intuizione del
mondo, esso assume come principio la completa assenza di princìpi, e quindi
dev'essere combattuto nel modo più
deciso dalla filosofia della storia.
Nella concezione dell’universo storico l'opposizione allo storicismo si
manifesta nel fatto che la filosofia della storia abbandona la considerazione
storica, riferita ai valori in modo puramente teoretico, in favore della
valutazione critica. Che cosa ciò significhi,
risulta chiaro nel modo migliore per il fatto che così riacquista il suo diritto il concetto di
progresso. Tale categoria non appartiene certamente ai princìpi della scienza
storica empirica. Al pari della relazione a un sistema di valori, questa categoria eliminerebbe la valutazione
impregiudicata dei processi storici nel
loro carattere specifico e toglierebbe sovranità come Ranke ha giustamente detto al passato. La filosofia della storia, invece, non può fare
a meno di questa categoria se vuol
superare il nichilismo storicistico. Essa deve
giudicare, in connessione con l’articolazione dell’universo storico, i
diversi stadi del processo di sviluppo singolare con riguardo alla funzione che
essi hanno assolto per la realizzazione dei
valori criticamente fondati. A tale scopo la filosofia della storia deve non soltanto togliere sovranità al
passato in consapevole antitesi rispetto
alla considerazione puramente storica in vista del presente e del futuro, ma deve pure
giudicarlo, cioè commisurare il suo
valore a ciò che dev'essere. Ovviamente,
alla questione se il corso della storia rappresenti ovunque, o anche soltanto in alcune parti, una serie
progressiva continua o un incremento di
valore, può rispondere solo l’indagine stessa.
All’inizio sussiste la possibilità sia di un regresso continuo sia di un’oscillazione in su e in giù, cioè di
un'alternativa di progresso e di
irrigidimento. Si può anzi pensare che nella
vita storica non sia possibile mostrare, in riferimento ai valori, né un avanzamento né una decadenza. Ma, quale
che possa essere la decisione in
proposito, in ogni caso tutti i filosofi che
si sono realmente occupati in modo individualizzante di storia, cioè dello sviluppo culturale umano, e non
hanno soltanto cercato come sociologi le leggi della vita sociale, si sono
accinti alla considerazione del corso
storico impiegando un criterio di
valore; e soltanto così hanno potuto articolare e giudicare le epoche dell’universo storico. Anche un
filosofo come Schopenhauer, che non voleva saperne di filosofia della storia
perché lo sviluppo storico non mostrava ai suoi occhi alcun progresso e gli pareva quindi completamente privo di
senso, ha contribuito a una filosofia della storia nel senso sopra indicato; e
soltanto per il suo risultato puramente negativo ma non riguardo alla posizione del problema della filosofia
della storia è differente, in linea di principio, dagli
altri filosofi della storia. Il
carattere sistematico e al tempo stesso valutativo della trattazione filosofica
dell’universo storico può rimanere poco chiaro
soltanto dove, come spesso avviene, non si è in grado di distinguere tra
essere e dover essere, tra realtà e valore, oppure dove, a causa della diffidenza dominante
contro la fondazione scientifica dei
valori, ci si azzarda solo in modo celato a esprimere giudizi di valore, per
suscitare la parvenza di una trattazione puramente contemplativa. La ricerca
dei giudizi di valore e la dimostrazione
della loro sostanziale inevitabilità diventano, a causa dell’oscurità e
dell’indeterminatezza oggi molto diffuse
in questo campo, un compito tanto più urgente della filosofia.
Queste considerazioni hanno però soltanto lo scopo di mostrare quale
compito si pone alla filosofia accanto alle scienze storiche empiriche, non appena essa può presupporre
come idea un sistema di valori
culturali. Un’indicazione in proposito sarebbe possibile soltanto in
connessione da un lato con un sistema filosofico e dall'altro con i risultati
delle scienze storiche cosa che non si
può dare in questa sede. Perché l’esposizione
non rimanga troppo schematica, gettiamo ora uno sguardo indietro sul
passato della filosofia della storia. Una comparazione dei concetti prima
enunciati di universo storico e di una
storia universale di carattere filosofico, che ne deriva, con la configurazione attuale ancor oggi sostenibile di questa
disciplina può forse servire nel modo migliore a illuminare la situazione odierna. Inoltre, collegarsi al
passato è qui vantaggioso anche perché ora abbiamo a che fare con /a forma
dei problemi in cui la filosofia della
storia ha occupato inizialmente e prevalentemente gli uomini, e perché occorre
nello stesso tempo mostrare, mediante
uno sguardo retrospettivo, quanto poco
arbitrario sia il mostro modo di considerare la filosofia della storia, orientato in base alla logica.
Ne risulterà infatti che anche per
questa via arriviamo alla fine ai problemi che sono stati una volta i problemi
principali della filosofia della
storia. È stato sovente
sottolineato e l’ha mostrato soprattutto Dilthey
che, se non il concetto di storia in generale, almeno quello di universo storico era estraneo ai
Greci, e che soltanto il Cristianesimo
ha reso possibile l’idea di una storia
universale nel senso rigoroso del
termine. Decisiva è qui la rappresentazione dell’unità del genere umano. Nel
suo aspetto principale, essa appare prodotta dalla relazione delle sue diverse
parti con Dio: infatti tutti i popoli
devono cercare Dio, e in tal modo il
genere umano nel suo sviluppo singolare assurge all’idea di una totalità
conclusa. Dio ha creato il mondo e gli
uomini, e tutti gli uomini discendono da una sola coppia. Così la storia universale ha inizio in un
determinato momento del tempo, e
terminerà col giudizio universale. Quest'ultimo decide in quale misura lo sviluppo abbia assolto il
suo compito di esprimere il suo
significato. Peccato originale e redenzione sono i due termini che articolano le epoche di
questo processo in modo tale che ne
scaturisce una serie di gradi di sviluppo. È
chiaro come su tale base sia possibile delineare una storia universale
in cui ogni avvenimento, che è significativo in riferimento al senso della storia, diventa elemento della
totalità, grado di sviluppo di una
connessione unitaria. Manca però, per
completare il quadro nei particolari, un
elemento essenziale. Per quanto all’inizio nella filosofia cristiana ci
si dia poca pena dei problemi del mondo esterno, le rappresentazioni religiose si legano
gradualmente nel modo più intimo con una
determinata immagine del cosmo, tratta essenzialmente dall’antichità. Il corso
del tutto è delimitato non solo
temporalmente dalla creazione e dal giudizio universale, ma anche trasferito su una scena che si può
abbracciare spazialmente. Si pensi per esempio al mondo di Dante un mondo
che può essere disegnato nella sua totalità. Esso forma un globo in sé concluso, in mezzo al quale sta
il teatro della storia universale, la terra. Sopra questo globo,
spazialmente separato da esso, vi è la
sede di Dio, a cui sulla terra fa
riscontro Gerusalemme, e così via. Con questi presupposti si può realmente parlare di una storia
universale nel senso rigoroso del termine, e nell’ambito
esattamente delimitato di tale rappresentazione si può anche abbozzare un
quadro efficace di tale storia universale. Mentre lo sguardo dei pensatori greci si posava sul ritmo eterno
dell’accadere, oppure doveva rivolgersi
all'immagine di un regno di forme soprannaturali, ma in ogni caso del tutto astoriche e
atemporali, ora l’essenza vera e propria
del mondo è vista nello sviluppo singolare del
mondo, riferito a Dio. La molteplicità dei tentativi di filosofia della storia intrapresi su questo terreno
comune non ci riguarda in questa sede. È lampante che il loro concetto e la
loro articolazione dell’universo storico
mostrano logicamente la medesima struttura del concetto prima esaminato e
dell’articolazione della totalità storica ultima; e che, in particolare, i
loro princìpi fondamentali siano
concetti di valore risulta chiaro già
considerando il loro carattere filosofico-religioso Dio è il
valore assoluto. La storia universale vuol essere una specie di giudizio universale , e proprio in un senso
che questo termine non ha in Schiller. Essa vuol fornire in maniera
provvisoria un conto del valore del
corso storico, che deve poi essere saldato in modo definitivo da Dio nel
giudizio universale. Qui ci interessa
inoltre stabilire che cosa ha tolto il terreno
a tutti questi tentativi di filosofia della storia. Si tratta in
larga misura della trasformazione,
avvenuta all’inizio del mondo moderno, delle rappresentazioni del cosmo di quella trasformazione ancora oggi
importante perché ha creato in linea di
principio l’immagine del mondo che dobbiamo ritenere definitiva, e in
ogni caso l’unica finora scientificamente sostenibile. Come ha mostrato soprattutto Riehl ”’, qui
non è decisiva tanto la sostituzione del
punto di vista geocentrico con quello eliocentrico, poiché mutando la posizione
della terra entro l'universo si sarebbe
ben potuto concludere un compromesso. Decisiva è piuttosto la distruzione
dell’idea diun cosmo chiuso, che si può
abbracciare con un solo sguardo. La dottrina dell’infinità del mondo di Giordano Bruno fu lo scoglio su cui
doveva naufragare ogni filosofia della storia che voleva essere storia universaRichl, filosofo austriaco,
autore di Redlistische Grundziige
(1870), di Moral und Dogma (1871), di Uber Begriff und Form der
Philosophte (1872), di un'ampia opera su
Der philosophische Kritizismus und scine Bedeutung fiir die positive Wissenschaft, di Zur Einfàhrung in
die Philosophie der Gegenwart (1903),
nonché di vari volumi storici su Kane, Nietzsche, ecc. le nel senso rigoroso del termine. Di ciò che è
temporalmente e spazialmente illimitato
vi è soltanto scienza di leggi; e la
storia universale perde così per sempre il suo significato vero e proprio. Nel medesimo tempo diventa
problematico anche il concetto di una
totalità storica in generale, e non sembrano
esserci vie di soluzione. Anche la storia del mondo umano
non è più quell’unità necessariamente riferita, nella sua individualità,
al valore assoluto. Il suo teatro, la terra, ha perduto il suo significato nel cosmo infinito. Essa è
diventata l’esemplare indifferente di un
genere, e altrettanto indifferente diventa,
nella prospettiva di una scienza di leggi, tutto quanto di singolare e
di particolare avviene su di essa. È importante sottolineare che tutte queste
trasformazioni sono avvenute, in linea di
principio, per opera delle dottrine di Copernico e di Giordano Bruno e non già come molti ritengono per opera della biologia moderna. La teoria dell’evoluzione
ha certamente un valore straordinario
per la scienza. Abbiamo prima mostrato
che essa non è in grado di fornire princìpi filosofici positivi per una considerazione storica; dobbiamo ora
aggiungere che essa non trova più da
distruggere gli elementi essenziali della
vecchia filosofia della storia, almeno per chi abbia anche soltanto
pensato fino in fondo l’idea dell’illimitatezza temporale del mondo. Tra le scienze naturali è stata quindi
realmente importante per le questioni relative all’intuizione del mondo non
già la biologia ma l'astronomia, e anche
quest’ultima ha semplicemente avuto un significato negativo, almeno per i
problemi di filosofia della storia. Possiamo anzi dire che il passo decisivo per
la nuova svolta positiva nella
trattazione dei problemi di filosofia della storia era già stato compiuto prima che la biologia
evoluzionistica fosse giunta anche
soltanto ai suoi inizi: infatti questa trasformazione prendeva le mosse come sempre accade quando si tratta dei fondamenti ultimi del nostro pensiero
filosofico da Kant, che oggi si crede in modo alquanto
sorprendente di poter confutare con il darwinismo, cioè partendo dalla funzione
del tutto particolare presente nella
connessione tra problemi gnoseologici e problemi etici. Kant stesso ha
paragonato la sua teoria della
conoscenza all'impresa di Copernico, e noi possiamo segu ire questo paragone
anche in un’altra direzione. L'idealismo trascendentale ha significato, proprio
in virtù del punto di vista copernicano , una conversione nella via
che la filosofia credeva di dover
imboccare sulla base della nuova immagine
del mondo fornita dall’astronomia: una conversione, però e
questo è l'elemento decisivo la
quale lascia del tutto intatta la nuova
immagine del mondo e ciononostante rende possibile riprendere i vecchi problemi. Grazie a Kant
l’uomo viene posto di nuovo con il pieno
riconoscimento della moderna scienza
della natura al centro del mondo:
certamente non in senso spaziale, ma in
modo ancor più significativo per i
problemi della filosofia della storia. Ora tutto gira nuovamente intorno al
soggetto. La natura non è la realtà
assoluta, ma è determinata nella sua essenza universale da forme di apprendimento soggettive, e proprio
la totalità infinita del mondo non è che
un’idea del soggetto, l’idea di un compito a lui necessariamente posto, ma
nello stesso tempo insolubile. In virtù
di questo soggettivismo i fondamenti della scienza empirica della
natura risultano non soltanto intatti, ma addirittura più saldi; completamente
sepolti sono invece i fondamenti del naturalismo come intuizione del mondo che rifiuta ogni senso a ciò che è
storico. Questo lavoro di distruzione,
che sgombra anzitutto la via dagli impedimenti
che si frappongono a concepire un essere come storia, è tanto più importante in quanto, dato lo stretto legame
della teoria della conoscenza con
l’etica, comporta immediatamente la fondazione di una costruzione positiva di
filosofia della storia. L'uomo non sta
al centro della natura solamente con la sua ragione teoretica, ma si comprende al tempo
stesso, con la sua ragione pratica, come
ciò che dà un senso oggettivo alla vita
culturale, cioè come personalità consapevole del dovere, autonoma,
libera; e questa ragione pratica possiede il primato. Che cosa può ancora significare di fronte a
questo il fatto che il teatro della
storia rappresenta spazialmente e temporalmente
una piccola particella destinata a scomparire, posta in un punto qualsiasi dell'universo? Per il soggetto
autonomo, teoricamente e
praticamente legislatore , questi
rapporti spaziali e temporali sono ora diventati del tutto indifferenti nella
trattazione delle questioni di valore.
Nell'indagine della natura ,
inclusa la vita psichica, l’uomo
autonomo lascia piena libertà alla scienza che ha distrutto la vecchia immagine
del mondo. Ma egli non concederà mai che
questa scienza concernente l'essere
delle cose abbia qualcosa da dire sul valore o sul disvalore, sul senso o sulla mancanza di senso del corso del
mondo, poiché è assolutamente certo in quanto ragione pratica della sua
libertà , che costituisce il senso autentico del mondo e della sua storia.
Kant non ha creato egli stesso un sistema di filosofia della storia, ma sulla base del suo pensiero ne
sono sorti uno dopo l’altro, e in ciò
dobbiamo riconoscere certo un'influenza non
inessenziale. Il corso singolare dello sviluppo dell'umanità ha nuovamente potuto essere concepito con l’aiuto dei concetti assoluti di ragione e di libertà come unità, e venir articolato nei suoi
diversi stadi in modo tale da misurare ogni stadio in base al suo contributo specifico alla
realizzazione del senso del mondo.
Questa possibilità di acquisire di nuovo un rapporto positivo con la vita
storica è ciò che conferisce alla filosofia dell’idealismo tedesco il suo
significato predominante e
intramontabile per il futuro che possiamo prevedere. Una filosofia che ne sia in linea di principio
incapace potrà sì compiere qualcosa di
significativo per problemi specifici, ma
non produrrà mai un'intuizione del mondo veramente comprensiva,
soddisfacente per gli uomini civili, e tanto meno potrà avanzare la pretesa di
essere progredita al di là della filosofia dell’idealismo tedesco. Dominato
dall’idea che lo scopo della vita terrena dell’umanità sia quello di orientare
con la libertà tutti i suoi rapporti secondo ragione, Fichte ha costruito filosoficamente, per la prima volta dopo
Kant, la storia universale come totalità
unitaria; e anche Hegel ha abbozzato in
base al concetto di libertà il suo sistema di filosofia della storia, che abbraccia molto più delle postume
Vorlesungen, raggiungendo in tal modo il
culmine ancor oggi per molti versi incompreso di questo tipo di considerazione filosofica della storia. Non possiamo addentrarci qui
nel contenuto del suo sistema; e neppure
importa sottolineare le differenze che
separano tra loro i concetti di libertà di Kant, di Fichte e di Hegel. Qui importa soltanto che la filosofia
dell’idealismo tedesco ha trovato un concetto di valore incondizionato che le
ha permesso di trattare filosoficamente,
nel modo che si è detto, la totalità del corso storico, che questo concetto di
valore era al tempo stesso abbastanza
formale da servire come punto di riferimento per la storia universale come viene grandiosamente espresso soprattutto da Hegel e infine che non c’era più bisogno, almeno in linea di principio, di
presupposti del tipo di quelli adoperati
dalla filosofia della storia distrutta dalla moderna scienza della natura. Per la filosofia
della storia del nostro tempo sorge così
la questione se sia possibile, sul terreno dell’idealismo fondato da Kant e nel
pieno riconoscimento di tutti i
risultati della moderna scienza della natura, trovare anzitutto un punto di vista valutativo che
consenta di trattare filosoficamente la
storia universale, e quindi pervenire a una
filosofia della storia che in linea di principio mostri con
riferimento al sapere storico del nostro tempo, e mantenendo intatta ogni diversità di contenuto la stessa struttura formale dei sistemi di
filosofia della storia di Fichte e di Hegel.
Ma con questo, e proprio richiamandoci a quei pensatori, il problema di una trattazione filosofica
dell’universo storico non sembra ancora
sufficientemente chiarito. La filosofia della storia dell’idealismo tedesco è
sì indipendente dalle dottrine della
scienza naturale, ma proprio per questo è tanto più dipendente da presupposti sull'essenza merafisica che
sta alla base del mondo fenomenico della storia. Già la dottrina della
libertà di Kant è connessa con il suo
concetto metafisico di un carattere intelligibile, e in Hegel appare del tutto
chiaro quanto la sua filosofia della
storia sia fondata metafisicamente. È possibile svincolare la filosofia della
storia dalla metafisica, oppure essa
presuppone sempre due specie di essere, cioè un mondo dei fenomeni in cui si svolgono gli avvenimenti
storici e un mondo della realtà vera,
posta al di là dei fenomeni, a cui gli avvenimenti storici devono essere
riferiti se devono raccogliersi in uno
sviluppo unitario e articolato? Soltanto ora siamo pervenuti al punto decisivo, e in virtù della connessione
che lega tra loro i diversi problemi di filosofia della storia l’importanza di
tale questione risale ancora più indietro. Abbiamo scoperto che
l’interpretazione del senso generale della storia presuppone l’idea di un sistema di valori incondizionati, a cui sia
possibile commisurare i valori culturali
forniti di generalità empirica. Questo sistema
non sarà forse realmente fondato soltanto se lo si è ancorato per così dire metafisicamente e si può quindi essere certi che l’essere storico, nel suo fondamento
metafisico, è anche disposto alla realizzazione di ciò che dev'essere? Anche
per la scienZa storica empirica i presupposti metafisici sembrano
indispensabili. Vi sono pensatori a cui la storia appare come qualcosa di spettrale
finché i suoi oggetti, e in particolare le personalità storiche, vengono considerati semplicemente come
realtà immanenti. Quelle che agiscono sul teatro della storia devono
essere anime dotate di essenza,
metafisiche, e noi dobbiamo poterle
pensare in certa misura inserite in una grande connessione spirituale , che si innalza al di sopra
delle anime singole e di cui nulla sa Ia
semplice esperienza, ma che costituisce il
sostegno dei valori incondizionati e senza la quale tutta la storia sarebbe un disordine senza senso, che
non avrebbe nessun significato
indagare. È necessario almeno accennare
a una presa di posizione anche nei
confronti di questi problemi; e noi cominciamo con la questione dei presupposti metafisici di
cui neppure la scienza storica empirica può fare a meno, perché soltanto così
si può rispondere alla domanda sulla
necessità di assunzioni metafisiche per la ricerca del senso della storia e per
la trattazione filosofica della storia
universale. Bisogna in primo luogo
ammettere incondizionatamente che molti
storici hanno una fede che, a volerla formulare concettualmente, assumerebbe un
carattere metafisico; altrettanto certo è che questa fede contribuisce a far
apparire loro veramente significativa
l'indagine della vita storica. Anche qui si può rinviare di nuovo a Ranke, il
quale designa le grandi tendenze della
storia come idee di Dio, attraverso cui si realizza il piano provvidenziale divino; e nel medesimo modo si
potrebbe mostrare che altri storici assumono presupposti sovra-empirici. Non ne sono certamente liberi soprattutto
coloro che ritengono di aver trovato le leggi
di sviluppo di ogni vita storica:
infatti presso di loro tale fede assume sì, sotto l'influenza della moda, un abito naturalistico, diventando la
fede in concetti di leggi intesi come
forze operanti, ma non per questo cessa di
essere metafisica. Né si può respingere il problema presente in una fede come quella manifestata da Ranke
spiegando che tutto ciò sta al di fuori
della scienza e non esercita la minima
HEINRICH RICKERT 417 influenza
su di essa, poiché quest'idea è giusta soltanto nel senso che la fede come dice Ranke della sua dottrina delle idee
non fa mai violenza sulle particolarità della vita storica. Per il
resto, anch'essa appartiene ai presupposti della ricerca storica, nella misura
in cui vi è presente la convinzione che,
quando conferiamo alla vita storica in genere un significato oggettivo , si tratta di qualcosa di più che
di un'assunzione arbitraria. Ma con questo non si è ancora detto, d'altra
parte, che proprio l'elemento metafisico
presente nella fede sia importante a tal fine. Lo storico in quanto storico
farà bene in ogni caso a considerare la
sua fede come semplice fede e a guardarsi
dal pericolo di immettere nelle sue indagini una qualsiasi metafisica
formulata scientificamente. Egli si porterebbe altrimenti sul terreno della teoria delle due specie di
essere, a cui abbiamo già accennato, e si imbatterebbe subito in grandi
difficoltà se dovesse fare dichiarazioni
sul rapporto degli avvenimenti storici,
che si svolgono soltanto nel mondo dell'esperienza, con la realtà trascendente. Anzi, già l’idea che
gli avvenimenti storici siano
semplici fenomeni di un essere
metafisico ad essi sottostante non è
adatta a far apparire allo storico più
significativa la sua ricerca, ma al contrario gli guasta necessariamente
ogni gioia nel suo lavoro. Allo studioso di scienze naturali può forse essere indifferente che i
suoi oggetti siano fenomeni o realtà assolute. Egli li considera soltanto come
esemplari di un genere, e i concetti generali di cui va in cerca mantengono in ogni caso la loro
validità. Invece gli avvenimenti che
sono essenziali nella loro individualità perdono il loro significato se non
possono venir considerati come realtà, e
se nell’essere immediatamente accessibile alla scienza non si realizzano anche i valori a cui lo
storico riferisce gli oggetti.
L'esigenza di una realtà autentica presente dietro di essi non deve quindi mai la propria origine a
un interesse della scienza storica. Essa
deve piuttosto venir ricondotta agli effetti
di quella strana teoria della
conoscenza che riduce il mondo dell’esperienza a mera parvenza, a velo di
Maia, affermando che il suo
riconoscimento come realtà condurrebbe al sonnambulismo o come si dice oggi all’illusionismo. Per il pensiero non sfigurato in questa o in analoga
maniera la vita data immediatamente non può mai essere un sogno o un fantasma;
e lo storico empirico deve in ogni caso attenersi al mondo accessibile alla sua esperienza. In
esso egli deve vedere l’unica realtà che
gli importa come storico, accantonando la
questione del suo substrato metafisico.
Ma possiamo arrestarci a un sistema di valori inteso come definitivo anche se cerchiamo i princìpi
della storia e ne interpretiamo il senso? Oppure l’assunzione di una validità
incondizionata di questi valori include l'assunzione di una realtà trascendente,
e da ciò non deriva per la filosofia che
non può lasciare in sospeso tali
questioni il compito di determinare il
rapporto dei valori con questo mondo metafisico? Anche qui si deve ammettere che il
presupposto di una validità
incondizionata dei valori ci conduce fuori del mondo immanente, e quindi nel trascendente, e che
affinché nulla rimanga oscuro si deve
affermare nei confronti di una filosofia
puramente immanente la validità di
valori trascendenti. Ma assai poco si è
fatto se si crede di dover andare oltre,
spiegando che questi valori indicano anche un qualche essere trascendente. In primo luogo non ci si può
spingere, con buona coscienza
scientifica, oltre questa indicazione del tutto indeterminata; inoltre ogni
tentativo di determinare più da vicino la
realtà trascendente deve trarre il proprio materiale dalla realtà immanente o arrestarsi a pure negazioni. Non
c’è bisogno di dimostrare che non si può
asserire nulla di scientificamente
attendibile in merito al rapporto di una realtà del tutto indeterminata,
o determinata in modo puramente negativo, con il mondo immanente. La realtà trascendente
rimane quindi un concetto completamente
vuoto e infecondo anche per la filosofia della storia come dottrina dei
princìpi. Questa disciplina ha perciò
fatto abbastanza chiarendo a se stessa questo punto e accontentandosi dell’aspirazione a determinare
un sistema di valori incondizionati. Non
si obietti che il concetto di un dover essere trascendente, che è qui
presupposto, potrebbe essere dimostrato
vuoto e infecondo con i medesimi argomenti impiegati per il concetto di essere
trascendente. Certamente non è possibile
determinare che cosa significa un essere trascendente se non dicendo che qui si tratta di valori
forniti di validità sopra-storica,
atemporale, incondizionata; anche qui il concetto viene perciò acquisito per
mezzo della negazione, in quanto
partiamo dal valore condizionato e togliamo ad esso la condizionatezza.
Il concetto che ne deriva ha però un significato del tutto differente da quello che sorge quando,
per ottenere il concetto di essere
trascendente, partiamo dal concetto dell’essere immanente e neghiamo la sua
immanenza. Con questa negazione togliamo all’essere ogni contenuto, mentre al
dover essere lasciamo il contenuto e gli
togliamo soltanto una limitazione, che gli impedisce il pieno dispiegarsi di
una tendenza in esso presente la tendenza a valere. Questa differenza
tra essere trascendente e dover essere
trascendente può forse venir chiarita
nel modo migliore richiamandoci al concetto kantiano di idea. Kant trasforma appunto il concetto
di realtà trascendente nel concetto di dover essere trascendente, stabilendo
in tal modo sia il diritto sia
l'illegittimità di una scienza che
aspiri all’incondizionato. La stessa cosa avviene se ci arrestiamo al dover essere trascendente e rifiutiamo un
essere trascendente: proprio la filosofia della storia come scienza dei
princìpi non ha alcun motivo di seguire
l’indicazione dei valori trascendenti verso un essere trascendente. Sono,
appunto, soltanto valori quelli che essa trova come princìpi della vita
storica, e ad essa interessa solamente
la validità dei valori in quanto valori.
Inoltre, questa validità incondizionata deve già essere salda prima che
si possa anche soltanto parlare di un’indicazione verso una realtà trascendente; occorre cioè che
l’unico problema significativo per la dottrina dei princìpi storici sia già
risolto prima che si presenti il
problema di una realtà trascendente in generale. Perciò anche la filosofia
della storia, nella misura in cui ha a
che fare con i princìpi della vita storica, può lasciare in sospeso i problemi metafisici così come fa la
scienza storica empirica, perché in ogni
caso tali problemi non appartengono a
questa parte della filosofia. Ma che
cosa accade allora con la storia universale filosofica se siamo costretti ad arrestarci, dinanzi
alla questione della realtà trascendente
e del suo rapporto con l’essere immanente,
a un won liquet, o addirittura a respingere l’idea di una realtà metafisica in generale? Forse che la
rappresentazione filosofica sistematica
dell’universo storico, la quale non si limita ai valori ma li pone esplicitamente in collegamento
con il contenuto dell’essere storico, non perde ogni senso se in certa
misura avvicina soltanto dall’esterno i
suoi valori alla vita storica e non può
affatto presupporre se e come l’essere storico immanente è connesso non
soltanto mediante la relazione di valore, ma
anche realmente, con il proprio fine della realizzazione dei valori? Non c’è dubbio che qui siamo di
fronte a un problema straordinariamente
difficile, e che le aspirazioni metafisiche della nostra epoca così come si esprimono soprattutto nelle opere di Eucken® acquistano, da questo punto di vista, un significato da non sottovalutare anche per la
filosofia della storia. Neppure in questo contesto si può certamente
ammettere che il mondo dell’esperienza
abbia bisogno di una struttura
metafisica, perché altrimenti il mondo non sarebbe, per così dire, abbastanza reale e acquisterebbe
qualcosa di spettrale. Infatti, se non
possiamo abbracciare abbastanza realtà nell’esperienza immediata, nessun
pensiero che si muova in concetti astratti
potrà riempire questa lacuna. Ma ci si
può effettivamente chiedere la relazione
necessaria della realtà storica con
valori incondizionati non presuppone un legame superiore tra essere e dover essere, e nel medesimo
tempo una specie di realtà che non
possiamo più concepire come immanente? Qui
l’idea di una realtà metafisica sembra inevitabile, e quindi la filosofia della storia appare connessa alla
metafisica nel modo in cui avviene, per
esempio, in Hegel. Ma non dobbiamo
forse anche qui dire che con la semplice
idea di un'indicazione verso un legame metafisico dei valori con la realtà empirica si esaurisce pure
tutto ciò che la scienza è in grado di
pensare, e che è del tutto sufficiente assumere una qualsiasi relazione necessaria non ulteriormente determinabile della realtà con i valori? Se consideriamo
ancora, per 28. Rudolf Christoph
Eucken (1846-1926), filosofo tedesco, autore dei Prolegomena zu Forschungen
tiber die Einhcit des Geisteslebens in Bewusstsein und Tat der Menschhest (1885), del fortunato volume
Die Lebensanschauungen der grossen
Denker (1890), di Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt (1896), di
Der Wakrheitsgchalt der Religion (1901), delle Grundlinien einer neuen Lebensanschauung (1907), di Der Sinn und der Wert des Lebens
(1908), della Einfiihrung in cine Philosophie des Geisteslebens (1908), di
Mensch und Welt (1918) c di numerose altre opere, anche di argomento storico, cbbe larghissima
notorietà per le sue doti di scrittore €
per il carattere al tempo stesso popolareggiante e retorico del suo idcalismo,
Nel 1908 cbbe il premio Nobel per la
letteratura. esempio, la filosofia della
storia di Hegel, troveremo che la
metafisica ha un peso molto limitato nella descrizione di tutte le particolarità. Per delimitare e articolare
l’universo storico è importante
solamente il concetto di libertà come concetto di valore e la convinzione generalissima che lo
sviluppo verso la libertà è in qualche
modo inerente all’essenza stessa del mondo.
Qui sono però presenti solo i due presupposti già accennati di un valore assoluto e della sua necessaria
relazione con la realtà storica in
generale. Per il resto la filosofia della storia di Hegel si muove entro concetti che derivano dalla
vita storica immanente e che si riferiscono soltanto a questa vita
immanente. Non si procede così in tutti
i tentativi di filosofia della storia
che hanno la forma di una storia universale? non dobbiamo anzi dire che anche per il filosofo della
storia una maggiore quantità di metafisica
non soltanto non è richiesta, ma può
addirittura diventare dannosa? A lui, come allo storico empirico, ciò
che interessa è lo sviluppo della cultura nel mondo immanente, nel mondo spazio-temporale. Se
questo mondo immanente viene perciò ridotto da qualche metafisica a una realtà di secondo grado, se la vera
realtà in cui i valori supremi coincidono con l’essere supremo viene concepita come atemporale e aspaziale, lo sviluppo
spazio-temporale, singolare e individuale, perde allora subito ogni senso anche
dal punto di vista della filosofia della
storia, così come dal punto di vista
della storia empirica. A quale scopo tutto quel processo di lotta dell'umanità,
che nel corso dei millenni riesce a
realizzare solo approssimativamente e imperfettamente ciò che è per sempre reale nella più profonda essenza
del mondo? Se nel tempo possiamo
scorgere soltanto un filo del tessuto del
velo di Maia, allora non esiste più una filosofia positiva della storia. In tal caso il suo compito consiste
solo nel comprendere la vanità di tutto
ciò che è storico, in quanto scorre necessariamente nel tempo, e nel negare con
Schopenhauer ogni senso alla storia. Se
dev’esserci non soltanto una scienza storica empirica, ma anche una filosofia
della storia, proprio l’elemento
temporale presente nel mondo dev'essere in ogni caso assolutamente
reale. Ma ci si potrebbe infine ancora domandare non si può
forse attribuire anche a ciò che è temporale una realtà metafisica, €
l’essere trascendente deve proprio venir concepito come necessariamente atemporale, se si vuole
pensarlo? Qui sembra aprirsi ancora
un’ultima strada per la quale unificare tra loro filosofia della storia e metafisica. Ma si
tratta di una semplice apparenza, perché
nella filosofia della storia il nervo del pensiero metafisico viene reciso
dall'assunzione di una realtà metafisica di ciò che è temporale. Quel che ci
dava soltanto un’indicazione sull’essenza trascendente del mondo era appunto la
convinzione della validità trascendente dei valori e l'esigenza del loro nesso reale con la realtà storica. Ma la
trascendenza del valore significa
proprio la sua validità atemporale, e soltanto
una realtà atemporale potrebbe essere il sostegno metafisico di valori atemporali; ma per instaurare un
legame necessario dello sviluppo storico
con valori atemporali non si può fondare la
validità dei valori su un essere metafisico che si esaurisce nel tempo. Una metafisica che voglia essere la
base della filosofia della storia si
imbatte quindi nelle maggiori difficoltà non appena aspira a una formulazione
concettuale dei suoi presupposti
trascendenti che sia in qualche modo diversa da quella contenuta nel
concetto di dover essere trascendente. Per trovare nel corso storico temporale
un senso oggettivo, abbiamo bisogno dell’atemporale. Ma non appena poniamo
questo elemento atemporale come realtà
metafisica e priviamo quindi della vera
realtà il corso storico, annulliamo ogni senso della storia e ogni possibilità di una sua trattazione
filosofica. C'è una via per sfuggire a
questo circolo, oppure ogni metafisica della storia deve naufragare in esso?
Non siamo costretti, anche in una
trattazione filosofica della storia universale, a scorgere nei valori
atemporali e nella loro relazione necessaria, ma scientificamente
indeterminabile, con la realtà temporale i presupposti ultimi a cui dobbiamo arrestarci ? Se si dovesse rispondere positivamente a
questa domanda e almeno finora non
vediamo alcuna via che ci permetta una
risposta negativa i compiti della
filosofia della storia, che all’inizio
sembrava scindersi in tre diverse discipline, si configurerebbero in modo del
tutto unitario. Dovendo lasciare all’indagine delle scienze particolari
l’intero campo dell’essere empirico e rinunciare a cogliere l’essenza
metafisica del mondo, alla filosofia
rimane come campo specifico il regno dei valori. Essa deve trattare questi
valori come valori, indagare sulla loro validità e penetrare le connessioni
teleologiche di valore. Uno di questi
campi di valori è quello della scienza, in quanto essa aspira alla realizzazione dei valori di
verità, e la filosofia della storia ha
quindi a che fare anzitutto con l’essenza della scienza storica. Essa la concepisce come la
rappresentazione individualizzante dello sviluppo singolare della cultura, vale
a dire dell’essere e dell’accadere fornito di significato, nella sua
individualità, in riferimento ai valori culturali. Da ciò deriva allora
che i princìpi della vita storica sono
essi stessi valori, e la trattazione di questi valori con riguardo alla loro
validità diventa perciò il secondo
compito della filosofia della storia, che però coincide in ultima analisi con il compito della
filosofia come scienza dei valori in
generale. In tal modo le due indagini che risultano necessarie stanno in una connessione
sistematica, e in questa connessione si
inserisce infine anche il terzo gruppo di questioni di filosofia della storia.
Esso costituirà la conclusione dell’intero sistema filosofico, poiché in esso
si cerca di mostrare quanto dei valori criticamente fondati si è realizzato nel
corso precedente della storia, e quali sono state le grandi epoche di
questa realizzazione dei valori, per
comprendere dove oggi stiamo in questo
processo di sviluppo e dove dobbiamo cercare il nostro compito per il futuro. La filosofia della
storia, partendo dalla logica della
storia, tratta perciò sempre di valori: in primo luogo dei valori da cui si possono derivare
le forme concettuali e le norme della
ricerca storico-empirica, quindi dei valori che
costituiscono in quanto principi
del materiale storicamente
essenziale la storia stessa, infine
dei valori la cui graduale realizzazione
si compie nel corso della storia. SIMMEL nasce a Berlino. Compe gli studi
universitari a Berlino, dove segue i corsi di storici come Mommsen e Treitschke, di psicologi come Lazarus e
Steinthal, di etnologi come Bastian, nonché dello storico della filosofia antica Zeller. Fin da questi
anni la personalità di Simmel rivela
interessi culturali molteplici, che caratterizzeranno anche in seguito la sua produzione filosofica. A
Berlino egli consegue il dottorato, con la dissertazione Das Wesen der Materie
nach Kants Physischer Monadologie. I
pregiudizi razziali ancora largamente diffusi negli ambienti universitari
tedeschi, uniti all’impressione di dilettantismo che il suo stile filosofico puo a prima vista suscitare,
rendeno lenta e difficile (nonostante
l’appoggio di amici influenti, come lo stesso Weber) la carriera accademica di Simmel, relegandolo
per molti anni nella posizione di libero docente; e soltanto egli ottenne la
nomina a professore straordinario. Ma le
sue lezioni berlinesi sono largamente
frequentate, e da esse trassero spunto allievi destinati a diventare
famosi, come per esempio il giovane Gyorgy Luk£4cs. Soltanto Simmel è chiamato
a coprire una cattedra di filosofia, a Strasburgo; e qui muore. Le prime opere di Simmel sono caratterizzate
da un prevalente interesse per le
scienze sociali, che si traduce sul
piano filosofico nello sforzo di
affrontare il problema critico delle scienze sociali e, in connessione con queste, della conoscenza
storica. Dal saggio Uber soziale
Differenzierung (Leipzig) alla Einleitung in die Moralwissenschaft (Stuttgart-Berlin) e alla Philosophie des Geldes
(Leipzig), la ricerca positiva sui
fenomeni sociali si intreccia con il tentativo di determinare l'ambito e l'orientamento di
indagine delle scienze sociali, ponendo
in luce la loro struttura logica e la loro relazione con altre forme di conoscenza scientifica. Su questo
terreno Simmel prende posizione nei confronti della concezione positivistica
delle scienze sociali, affermandone il
compito descrittivo e respingendo il postulato dell’esistenza di una struttura
legale della realtà storico-sociale. Nello stesso tempo egli si propone,
richiamandosi a una prospettiva kantiana, di determinare le categorie che
stanno a base dell’elaborazione concettuale delle scienze sociali. Ma queste categorie vengono
da lui interpretate non già come
princìpi 2 priori, bensì come punti di vista relativi sulla base dei quali le singole discipline si organizzano
metodologicamente. Infatti Simmel
intende non tanto stabilire in linea generale il campo di ricerca delle scienze sociali, quanto analizzarle nei
loro procedimenti specifici e nei loro
rapporti reciproci. Nell'Einleitung in die Moralwissenschaft egli affronta il problema dell’impostazione
della scienza morale considerata come
una scienza che si pone al confine tra psicologia, scienze sociali e ricerca storica nell’intento di svincolare l’etica dal
dominio di concetti generali per portarla sul terreno dell’osservazione
empirica e quindi della descrizione dei comportamenti umani. Nella Philosophie
des Geldes egli analizza il significato del concetto di denaro in relazione al concetto di valore, ponendo in
luce la sua trasformazione da valore
sostanziale in valore funzionale, cioè in designazione simbolica del diverso valore delle cose. Nell'ambito di
questa prospettiva di origine kantiana, anche se profondamente modificata,
Simmel si è pure proposto, in Die
Probleme der Geschichtsphilosophie (Leipzig), di determinare le condizioni di
validità della conoscenza storica,
considerata nelle sue basi psicologiche e nei suoi rapporti con le scienze sociali. Egli ha individuato il
fondamento della conoscenza storica nell'identità tra soggetto e oggetto identità che rende appunto possibile la comprensione; cosicché le
categorie storiografiche diventano
presupposti psicologici, i quali assolvono la funzione di
organizzare concettualmente il dato
empirico. Perciò la loro validità risulta relativa, e parimenti relativi sono i risultati a cui
pervengono sia le scienze sociali sia la
conoscenza storica. Il culmine di
questa prima fase della produzione simmeliana è
rappresentato dalla Soziologie: Untersuchungen iiber die Formen der Vergesellschaftung (Leipzig), in cui Ja
distinzione della sociologia dalle altre
scienze sociali viene formulata su una base puramente formale, attribuendo a
queste il compito di studiare i fenomeni sociali nel loro diverso contenuto (morale, economico,
politico, e così via) e a quella
l’analisi delle forme di associazione che costituiscono la struttura propria della società in quanto tale. La
sociologia così intesa prescinde quindi
dallo studio del contenuto della società, per limitare la sua indagine ai modi di relazione tra gli
individui; essa ha per oggetto la
maniera in cui i rapporti tra gli individui si costituiscono come
fenomeni sociali. L'autonomia della sociologia dalle altre discipline
storico-sociali viene perciò ottenuta attraverso la rigorosa determinazione del
suo carattere formale .
Già prima della Soziologie, attraverso la critica della nozione kantiana
di a priori e lo studio di Goethe, di Schopenhauer e di Nietzsche filosofi a lui particolarmente
congeniali Simmel veniva enunciando
i princìpi di quel relativismo destinato
ben presto a tradursi in una filosofa della vita. Dal volume su Kant (Leipzig,
1904; tr. it. Padova) a Schopenhauer und
Nietzsche (Leipzig, 1907; tr. it.
Torino, 1923), fino a Hauptprobleme der Philosophie (Leipzig, 1910;
tr. it. Firenze, 1920) e ai saggi
raccolti col titolo di Philosophische Kultur
(Potsdam, 1911), egli ha respinto il tentativo di cercare un fondamento assoluto del conoscere, così come delle altre
manifestazioni della vita umana,
affermando la necessità di riconoscere il carattere relativo dell’attività
dell’uomo in ogni campo e quindi anche
il carattere relativo della verità
filosofica. Nel periodo successivo, e soprattutto negli anni di Strasburgo, questa prospettiva relativistica
mette capo all'affermazione
dell’intrascendibilità della vita. In Der Konflikt der modernen Kultur (Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Torino, 1925) e in Lebensanschauung (Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Milano,
1938) la vita si configura come il
principio ultimo e incondizionato dal quale traggono origine tutte le
forme della realtà, le quali sono poste
in essere dalla vita e tuttavia si contrappongono al suo fluire. La vita è
infatti un processo infinito, creatore di forme
finite che si organizzano su un piano trascendente rispetto alla vita,
costituendo così i diversi mondi ideali dello spirito: la vita cerca di
travolgere queste forme, mentre esse
cercano di sfuggire a una distruzione inevitabile. La vita può essere quindi
definita al tempo stesso come
più-vita e più-che-vita : più-vita
in quanto processo temporale continuo che cresce su se stessa, superando i limiti che
essa si pone, e più-che-vita in quanto produzione di forme finite che
emergono da tale processo. Simmel ha
applicato questa impostazione all'analisi dei più svariati fenomeni culturali, in particolare dei
fenomeni artistici. Egli ha anche
ripreso in esame in alcuni saggi
che vanno da Das Problem der
historischen Zeit (1916) a Die historische Formung e a Vom Wesen des historischen Verstehens
(Berlin) il problema della storicità, considerata dal punto di vista
della dialettica tra la vita e le sue
forme. Il rapporto tra la vita e la storia si presenta, in questi scritti, come il rapporto tra il processo temporale
della vita (che, in quanto tale, non è
ancora storico) e un mondo ideale che emerge da esso, contrapponendosi alla
vita e cercando di resistere alla sua opera distruttrice. L'elaborazione concettuale della conoscenza
storica coincide quindi con lo sforzo di
costituzione di questo mondo ideale, e il procedimento della comprensione sul quale la storiografia si
fonda appare qualificato non già come un
rapporto immediato, bensì come una relazione che presuppone il riferimento
all’alterità di un diverso individuo. Ricordiamo qui le altre opere di Simmel:
Philosophie der Mode, Berlin, 1905; Kan und Goethe, Berlin, 1906, e Leipzig,
1907 ?, 1916?, 19184; Die Religion,
Frankfurt a.M., 1906, 19122, 19225; Goethe, Leipzig, 1913; Rembrandt: cin Runstphilosophischer Versuch,
Leipzig, 1916; Grundfragen der Soziologie: Individuum und Gesellschaft,
Berlin-Leipzig, 1917; Der Krieg und die
geistigen Entscheidungen, Miinchen-Leipzig, 1917. Altre raccolte di saggi sono
le seguenti: Zur Philosophie der Kunst: Philosophische und kunstphilosophische
Aufsétze (a cura di Gertrud Simmel), Potsdam,
1922; Schulpidagogik (lezioni a cura di K. Hauter), Osterwieck / Harz, 1922; Fragmente und Aufsitze aus dem
Nachlass und Veròffentlichungen der letzen Jahre (a cura di G. Kantorowicz),
Miinchen, 1923; Rembrandtstudien, Basel,
1953; Bricke und Tiìr: Essays des Philosophen
zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (a cura di M.
Landmann, in collaborazione con M.
Susman), Stuttgart, 1957. Dei numerosi articoli
di Simmel ci limitiamo a segnalare quelli non compresi nelle raccolte
che abbiamo menzionato: Zur Metaphysik
des Todes, Logos , I, I9I0, pp. 57-70; Das individuelle Gesetz, Logos , IV, 1913, pp. 117-60, poi anche in forma di volume (a cura di M. Landmann),
Frankfurt a.M., 1968; Der
Fragmentcharackter des Lebens,
Logos , VI, 1916-17, pp. 29-40; Fragment iiber die Liebe, Logos , X, 1921-22, pp. 1-54; tr. it. Milano,
1927. Le opere di Simmel sono state
largamente ripubblicate nel dopoguerra.
Tra le ristampe della Scientia Verlag citiamo quella della Einle:tung
in die Moralwissenschaft, Aalen, 1964‘,
quella della Philosophie des Geldes,
Aalen, 1958, e quella della Soziologie, Aalen, 19584; sono stati
inoltre riediti Uber soziale
Differenzierung, Amsterdam, 1966 2, e Haupitprobleme der Philosophie, Berlin, 19507, 1966.
Un'importante raccolta di documenti è il Buch des Dankes an Georg Simmel.
Briefe, Erinnerungen, Bibliographie (a cura di K. Gassen e M. Landmann),
Berlin, 1958, apparso in occasione del
centenario della nascita. Oltre alle traduzioni
italiane già pubblicate sono in preparazione quella della Philosophie des
Geldes (per i Classici della
sociologia U.T.E.T.) e della Soziologie (per i Classici della sociologia delle Edizioni di Comunità). Dell’ampia
letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Sim mel segnaliamo gli
studi seguenti: A. MAMELET, Le
relativisme philosophique chez Georg Simmel, Paris, 1914. M. Apter, Georg Simmels Bedeutung fiir die
Geistesgeschichte, WienLeipzig, 1919.
M. FriscHersen-KonLER, Georg Simmel,
Kantstudien , XXIV, 1919, pp.
1-51. W. Kwevets, Simmels
Religionstheorie: ein Beitrag zum religibsen Problem der Gegenwart, Leipzig,
1920. S. Kragaver, Georg Simmel, Logos , IX, 1920-21, pp. 307-38. W. Frost, Die Soziologie Simmels, Acta Universitatis Latviensis (Riga), XII, 1925, pp. 219-313, e XIII, 1926,
pp. 149-225. V. JANKÉLÉvITcH, Georg
Simmel, philosophe de la vie, Revue de
métaphysique et de morale , XXXII, 1925, pp. 213-57 e 373-86. N. J. Sevrman, The Social Theory of Georg Simmel,
Chicago, 1925, e New York, 19662. M. Srernuorr, Die Form als soziologische
Grundkategorie bei Georg Simmel, Kélner
Vierteljahrshefte fiir Soziologie , IV, 1925, pp. 214-59. W. Fagran, Kritik der Lebensphilosophie
Georg Simmels, Breslau, 1926. G. Loose,
Die Religionssoziologie Georg Simmels, Dresden, 1933. H. MiLLEr, Georg Simmel als Deuter und
Fortbildner Kants, Dresden, 1935. R. Heserte, The Sociology of Georg Simmel:
The Forms of Social In teraction, nel
volume An Introduction to the History of Sociology (a cura di H. E. Barnes), Chicago, 1948, pp.
249-73. American
Journal of Sociology , LXIII, 1958, n. 2 (fascicolo commemorativo del
centenario della nascita di Durkheim e di Simmel), con articoli di K, D,
Narcete, K. H. Wotrr, L. A. Coser, T. M. Mis.
Georg
Simmel, 1858-1918 (a cura di K. H. Wolff), Columbus (Ohio), 1959.
M. Susman, Die geistige Gestalt Georg Simmels, Tibingen, 1959. H.
Miier, Lebdensphilosophie und Religion bei Georg Simmel, BerlinMiinchen,
1960. A Banri, Filosofi contemporanei
(a cura di R. Cantoni), Milano-Firenze. Bauer, Die Tragik in der Existenz des modernen
Menschen bei G. Simmel, Berlin, 1962. R. H.
WeincartNER, Experience and Nature: the Philosophy of Georg Simmel, Middletown (Conn.), 1962. P. Gorsen, Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms:
Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel und
die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn,
1966. H. LiepescHùtz, Von Georg
Simmel zu Franz Rosenzweig: Studien zum
jiidischen Denken im deutschen Kulturbereich, Tiibingen, 1970. Un elenco completo degli scritti di Simmel
è dato da E. RosenTHAL e K. OsertaenDER,
Books, Papers and Essays by Georg Simmel, American Journal of Sociology , LI, 1945, pp.
238-47. Ma la bibliografia
più completa degli scritti di e su
Simmel è quella di K. Gassen, in Buch des
Dankes an Georg Simmel cit., pp. 309-65, la cui ultima parte concernente la letteratura critica è riprodotta in Georg Simmel. Se la teoria
della conoscenza in generale muove dal fatto
che il conoscere considerato da
un punto di vista formale è un mero
rappresentare e il suo soggetto è un’anima, la teoria del conoscere storico è ulteriormente
determinata dal fatto che la sua materia
è il rappresentare, il volere e il sentire di personalità, e che i suoi oggetti
sono anime. Tutti i processi esterni
politici e sociali, economici e religiosi, giuridici e tecnici non sarebbero per noi né interessanti né
comprensibili se non scaturissero da
movimenti psichici, e non suscitassero altri movimenti psichici. Se non vuol
essere un gioco di marionette, la storia
dev'essere storia di processi psichici, e tutti gli avvenimenti esterni che
essa descrive non sono che ponti gettati tra gli impulsi e gli atti di volontà, da un lato, e
i riflessi del sentimento suscitato da quegli avvenimenti esterni, dall’altro.
Questo fatto non è cambiato neppure
dalla concezione materialistica della
storia, la quale vuol derivare i movimenti storici dai bisogni fisiologici degli uomini e dal loro
ambiente geografico. Infatti non c'è
fame che metta mai in movimento la storia
universale se non fa male; e ogni lotta per i beni economici è una lotta per le sensazioni di comodità e di
godimento, dal cui carattere di scopo
trae il suo significato ogni possesso esteriore. Anche le condizioni del terreno e del clima
sarebbero indifferenti per il corso della storia, tanto quanto il terreno e il
clima di Sirio, se non influenzassero
direttamente e indirettamente la
costituzione psicologica dei popoli. Se vi fosse una psico * Die Probleme der Geschichtsphilosophie,
cap. I: Von den Psychologischen Vor
aussetzungen in der Geschichesforschung, Lcipizig, Verlag von Duncker
und Humblot (traduzione di Barbera e R.). logia come scienza di leggi, la
scienza storica sarebbe psicologia applicata nello stesso senso in cui
l'astronomia è matematica applicata. Se il compito della filologia è quello di
conoscere ciò che è conosciuto, la
ricerca storica ne costituisce soltanto
un ampliamento, in quanto accanto a ciò che è conosciuto ossia a ciò che è teoreticamente
rappresentato deve conoscere anche ciò
che è sentito. Questo carattere di interiorità dei processi storici, che fornisce il punto di
partenza e il termine di ogni
descrizione della loro esteriorità, richiede una serie di presupposti specifici che è compito della
teoria della conoscenza storica porre in
luce. Dietro l’4 priori assoluto
dell’intelletto, da cui prendiamo le
mosse, c'è un secondo priori
valido all’interno dell'intelletto e
quindi relativo. Quando varie rappresentazioni particolari vengono raccolte in un concetto generale,
quando un soggetto e un predicato
vengono riuniti in un giudizio, più giudizi in una massima, il materiale è separabile dalla
forma che lo contiene, e ciascuno dei
due elementi può essere rappresentato da solo.
Per quanto in questo materiale possa già essere presente molto o poco di aprioristico e di spontaneo, nella
relazione che qui consideriamo vi è un
contenuto dato su cui l’intelletto compie
un'ulteriore funzione, la quale è da parte sua 4 priori nei confronti di quel materiale; essa non è
presente nel contenuto, ma si aggiunge
ad esso. Se però, secondo la schematizzazione
kantiana, esistono soltanto tre specie di 4 priori quello della
sensibilità, che ha per materiale le sensazioni, quello dell’intelletto,
che ha per materiale le intuizioni, e quello della ragione, che ha per materiale i giudizi o propriamente una sola specie, poiché le altre devono essere
ricondotte all’ priori dell’intelletto,
la considerazione empirica mostra facilmente l’ingiustificata angustia di
questa divisione. Vi sono chiaramente
moltissimi gradi di 4 priori, così come vi sono mescolanze molto diverse tra la forma aggiunta e il
contenuto preesistente. In particolare,
poi, non c'è alcun metodo che ci conduca a un
sistema saldamente concluso e
garantito da ogni spostamento di confine
delle funzioni con cui elaboriamo il materiale conoscitivo dato di volta in volta. Tra le
forme più generali, accessibili a ogni
materiale e superiori all’esperienza individuale, e le forme specifiche,
acquisite empiricamente e applicabili come a priori soltanto a certi contenuti,
non vi sono distinzioni nette e sistematiche, ma trapassi graduali: così per
esempio tra la legge causale o la
connessione in un concetto di ciò che è
identico in oggetti diversi, da un lato, e i presupposti metodici (o di altro
tipo) di un particolare settore della vita, di una particolare scienza, dall’altro. Ogni
formazione giuridica presuppone l’aspirazione a un determinato stato. Che i
rapporti umani consentano il
conseguimento di uno stato del genere
solamente mediante norme stabilite e determinazioni di pene per la loro trasgressione è un 4 priori molto
generale che ha per conseguenza una
certa formazione, cioè un legame di rappresentazioni preesistenti. Ma per la
formazione di leggi questa forma di connessione non è tanto generale quanto può esserlo la connessione causale tra
motivazione psichica e azione esteriore,
che parimenti necessaria per
l’elaborazione giuridica può essere
istituita tra i fenomeni, ma non tratta immediatamente da essi. D'altra parte
l’a priori che costituisce la forma del
diritto è, a sua volta, un elemento generale rispetto ai presupposti da cui scaturisce nel caso
particolare la formulazione giuridica. Così il principio che la prova spetta
all’accusatore, o la diversa validità del diritto consuetudinario, produce un'elaborazione dei fatti in vista dello
scopo di conoscere che cosa sia
giusto un’elaborazione che non è
presente nel materiale stesso, ma che solo in esso compie la sua funzione
interpretativa, Con pieno diritto Kant
ha rivolto il proprio senso critico
contro gli empiristi che volevano limitare le loro ricerche alla semplice recezione di impressioni sensibili,
alla registrazione di elementi di fatto
comprovabili immediatamente. Egli ha mostrato che, senza neppure avvedersene,
essi fanno continuamente uso di proposizioni metafisiche non dimostrate e che
soltanto in base a queste istituiscono quella connessione tra i dati sensibili che fa di quest'ultimi
un'esperienza intelligibile. Ma
l'influenza e la necessità dei presupposti inconsci e indimostrati si estende molto al di là di ciò che mostrano
le indagini di Kant. In ogni momento sia
la teoria che la prassi fanno uso di
forme di connessione del materiale empirico, cioè di quella facoltà plastica dello spirito in grado di
fondere ogni contenu b ce) to dato
attraverso il modo di ordinarlo, di accordarlo e di sottolinearlo nelle più diverse forme definitive. Queste
connessioni che espresse in forma di
principi appaiono come presupposti 4 priori, rimangono inconscie
nella misura in cui la coscienza in
generale si dirige più al dato, a ciò che è
relativamente esterno, che non alla propria funzione interna. Infiniti contenuti di pensiero attraversano
lo spirito, prima che abbia coscienza
del fatto che pensa; esso osserva gli oggetti del mondo esterno molto prima dei processi che
avvengono al suo interno, e quanto più
il processo è interno, ossia quanto più è
si potrebbe dire psichico, tanto
più tardi esso ne consegue la coscienza,
che inerisce piuttosto ai suoi stimoli esterni. E tanto più la coscienza inerisce a questi
ultimi quanto più essi, con la varietà
del loro mutare e la nettezza delle loro antitesi, stimolano continuamente la sensibilità
psichica alla distinzione, mentre le
funzioni formali dell'anima sono di numero più limitato e si offrono ai
contenuti più diversi in modo sempre eguale, producendo in virtù della loro
esistenza permanente e della loro
universalità endemica quella consuetudine ad esse che fa scivolare la coscienza al di sopra di loro
come su qualcosa di assolutamente ovvio.
Anche qui vale la profonda osservazione di
Aristotele che ciò che viene per primo nell’ordine razionale delle cose
la funzione conoscitiva dello spirito
viene per ultimo nella nostra
considerazione e osservazione. Ma in quale
misura questo dominio inconscio delle forme di connessione si estenda sul materiale dei fatti, non è stato
riconosciuto da Kant in tutta la sua
ampiezza a causa della netta separazione
da lui operata tra l’a priori e ogni elemento empirico. Poiché oggi estendiamo l’esperienza molto più in alto
di quanto non facesse Kant, per noi l’4
priori si estende anche molto più in
profondità. Nel rapporto reciproco tra gli uomini ognuno deve in ogni momento presupporre negli altri la
presenza di processi spirituali che non
può constatare immediatamente, ma senza i
quali le azioni di questi altri apparirebbero una mescolanza di impulsi improvvisi, priva di senso e di
connessione: noi li completiamo così
come completiamo la macchia cieca che interrompe la nostra immagine, senza avvertire
l'interruzione, dato che tale
integrazione ci appare cosa ovvia. Come comprendiamo l’interno soltanto per
analogia con l’esterno cosa che il linguaggio già indica quando designa tutti i
processi psichici con termini tratti dal mondo dell’intuizione esterna così
d’altra parte intendiamo l’esteriorità degli uomini soltanto in base all’interiorità sottostante. Ma proprio
per questo motivo integriamo anche
l’esterno così come lo richiede la connessione
interna già postulata, cioè in quanto esiste in generale una connessione interna. Si può ben affermare che
nessun cronista ci racconta in modo
preciso ciò che ha visto dello sviluppo di
un avvenimento al quale ha assistito: lo conferma ogni interrogatorio
giudiziario di testimoni, ogni narrazione di un tumulto. Pur con la migliore
intenzione di attenersi alla verità, il
narratore aggiunge a ciò che ha immediatamente visto elementi che completano l’avvenimento nel senso che
egli ha tratto fuori dal dato: e anche
l’ascoltatore deve sempre vedere nel suo
spirito, in base alle sue esperienze e alla fantasia da esse
determinate, più di quanto gli viene effettivamente detto. La fisiologia dei
sensi ci ha mostrato innumerevoli casi in cui integriamo inconsciamente, in
oggetti e movimenti particolari, le impressioni frammentarie dei sensi così
come lo richiedono le esperienze già
fatte. Nel caso di avvenimenti complessi avviene esattamente lo stesso; nel caso degli
avvenimenti storici l’integrazione esterna è essenzialmente determinata da
ipotesi psichiche, dalle esperienze relative alla continuità e allo
sviluppo della vita psichica, alla
correlazione esistente tra le sue energie, al corso dei processi teleologici.
Non soltanto tutto questo è presupposto
per impulso da parte dei rapporti esterni, ma,
una volta che ciò sia presupposto, gli avvenimenti esterni vengono
integrati nella misura in cui anch'essi commisurati
alle leggi dell’esperienza relative alla
connessione tra interno ed esterno forniscono ora ai processi interni una serie
parallela ininterrotta. Proprio questa
integrazione spontanea di ciò che è
esterno costituisce una delle prove più forti del fatto che anche l'interno non è semplicemente derivato dai
fatti, ma viene aggiunto ad essi sulla base di presupposti generali. Partendo
dall'aspetto puramente esterno che uno offre all'altro si inferiscono, in base
a innumerevoli presupposti, le idee e i sentimenti dell’altro
che al massimo rappresenta un’inferenza dall’ effetto alla causa. Nelle faccende quotidiane
troviamo sufficienti occasioni di comprovare la correttezza di tale inferenza,
poiché il comportamento esterno
dell’altro, previsto in anticipo, risponde realmente senza eccezione al nostro
agire che giunge fino a lui. Soltanto
per processi psichici superiori e più complicati queste inferenze diventano incerte, inducono a
innumerevoli errori e forniscono così la
prova che anche nei casi più sicuri si
tratta solo di presupposti, i quali vengono collocati dinanzi al dato e debbono la loro sicurezza all’utilità
pratica, ma non a un’interna necessità
che li fa scaturire in maniera razionale da
quel dato. Questi presupposti
della vita quotidiana si ripetono ora nella ricerca storica in modo più
compiuto e più ricco di influenza che in
qualsiasi altra scienza, compresa perfino la psicologia. Quest'ultima assume infatti i presupposti in
questione come oggetti d'indagine ®. La
ricerca storica assume invece i presupposti psicologici senza che siano
comprovati e in modo non metodico. Anche
se questi presupposti fossero così ovvi che
ogni fatto esterno potesse disporsi senza difficoltà e in modo del tutto univoco sotto il presupposto ad
esso adatto, la loro determinazione
costituirebbe già un compito considerevole. Questo diventa però estremamente
più sottile e più difficile in quanto talvolta vediamo connesse allo stesso
avvenimento interno conseguenze esterne
totalmente differenti. Ciò è per noi comprensibile soltanto in virtù di una
diversità degli elementi concomitanti o delle conseguenze psichiche di quel
primo avvenimento, che dev'essere quindi ricondotto ora sotto una norma psicologica, ora sotto un’altra del tutto
opposta. Per esempio Sybel® racconta, a
proposito del rapporto tra il Comitato di
salute pubblica e gli hebertisti nel 1793: Essi {gli hebertisti] erano stati fin allora in rapporti eccellenti
con Robespierre, perché quest’ultimo si
era appoggiato sulle loro forze e aveva
perciò assecondato i loro desideri. Ciò che però li separava fin da allora in modo irrevocabile era la
semplice circostanza che Robespierre era
diventato la guida del supremo potere statale,
mentre gli hebertisti erano rimasti in una posizione subordina a. Certamente essa assume, anche da parte
sua, parecchi presupposti che rimangono
impliciti in tutte le conoscenze di altro genere da essa dipendenti.
b.
Cfr. H. von SyBet, Geschichte der Revolutionszeit von 1789 bis 1798, Diisseldorf. ta. I fatti esterni
Robespierre asseconda i desideri degli
hebertisti; essi si legano a lui; egli ottiene una posizione dominante;
essi si distaccano da lui costituiscono,
in base ai presupposti psicologici
sottostanti, una serie ben comprensibile.
E tuttavia tali presupposti non sono affatto così cogenti e univoci come
appaiono a prima vista. Abbastanza spesso accade che, assecondando i desideri di qualcuno,
dimostrandogli favore con le proprie
azioni, se ne ottenga la simpatia e la dedizione pratica; ma accade anche il contrario. Così
si racconta, nelle sanguinose faide familiari del Trecento, di un nobile
ravennate che aveva riunito tutti i suoi
nemici in una casa e che avrebbe potuto
senz'altro sopprimerli; invece di farlo, li lasciò liberi e per di più fece loro ricchi doni: quelli
avrebbero allora agito contro di lui con
raddoppiata violenza e malizia e non avrebbero avuto pace fino al suo
annientamento e ciò, aggiunge il racconto, perché la vergogna per il beneficio
ricevuto non li avrebbe lasciati in
pace. Anche qui la serie degli avvenimenti
esterni ci è pienamente comprensibile perché integriamo come presupposto psicologico e come elemento di
mediazione appunto quella depressione del sentimento di personalità che
spesso trasforma il beneficio ricevuto
in un tarlo roditore nel beneficato, rendendolo nemico del benefattore. Per il
nostro scopo è indifferente il fatto che
nell'esempio precedente siano tramandate testimonianze dirette di partecipanti,
che ne esprimano la costituzione
psicologica, di modo che lo storico aveva bisogno di addurle come presupposto:
infatti non soltanto egli deve accettare
la tradizione immediata in. innumerevoli casi
analoghi, in cui viene riferito qualcosa di puramente esterno, ma l’accetterebbe anche soltanto se riconosce
come possibile sia l’una sia l’altra
costituzione psicologica e può ricostruirla in
virtù della propria esperienza connessa. Inoltre noi comprendiamo che
l’assunzione di Robespierre a capo del governo comportava azioni ostili degli
hebertisti contro di lui, per il solo fatto
che ne suscitava l’odio e la gelosia. Accetteremmo però senz'altro come
probabile anche la narrazione del risultato opposto: che cioè il pieno dispiegarsi della potente
personalità di Robespierre, la posizione dominante a cui era pervenuto,
avesse spezzato anche interiormente ogni
opposizione di quel partito te) in quanto esso, sapendo di non poter far
nulla contro, avrebbe voluto almeno mantenere con la docilità e la
subordinazione una qualche
partecipazione al potere un
comportamento che comprendiamo
benissimo, in base alle norme psicologiche presupposte se, per esempio, ci
viene raccontato a proposito del senato
romano nell’epoca della dittatura militare.
Nell’un caso ci soddisfa il fatto che il beneficio o il conseguimento
del potere abbia un effetto psichico di adesione, nell’altro che abbia un
effetto di distacco, senza però trovare in esso, come atto esterno, il fondamento di questa
diversità. Piuttosto, sulla costituzione
psicologica che ha deciso tra le due alternative ci informa soltanto
l'avvenimento successivo, che però è
comprensibile solo in virtù dell’ipotesi di quella precedente affezione
psichica. Facciamo ancora un secondo
esempio. Knapp* dice, a proposito della situazione agraria russa dopo
l’abolizione della servirtù della gleba: I contadini si impegnarono a fornire
al signore fondiario determinate
prestazioni in cambio di un salario. I contadini lo fecero molto mal
volentieri, poiché il mutamento di base giuridica non consolava il contadino
della continuità del fatto di lavorare per il signore; e neppure al signore la cosa era di grande aiuto perché la
prestazione dei contadini, ora pattuita
anziché obbligata, veniva effettuata malamente nonostante che fosse pagata . La
prima motivazione presuppone come ovvio,
o almeno tale da non richiedere un’ulteriore discussione, che la conseguenza di
una determinata situazione sul modo di
sentire non muta finché questa rimane esteriormente la medesima, anche se è mutato del tutto
l'elemento interno che produceva in
origine quella conseguenza. La seconda motivazione presenta come cosa
chiarissima il fatto che il contadino su cui non si ha più un potere assoluto,
ma con cui bisogna scendere a patti,
lavori peggio di prima. Se i fatti
mostrassero che in Russia i redditi economici sono costantemente
aumentati dopo il 1864, motivi psicologici esattamente opposti avrebbero connesso causa ed effetto in modo
non meno plausibile; si sarebbe senz’altro considerato che non già l’agire
esterno, ma il fondamento etico e il motivo per cui ciò accade a. G. F. Knapp, Die Bauern-Befreiung und
der Ursprung der Landarbeiter in den dlteren Theilen Preussens, Leipzig. sono
decisivi riguardo al fatto di lavorare con piacere e amore oppure con sentimenti opposti. E riguardo
alla coercizione al lavoro contadino,
dalla Prussia ci giunge invece, prima dell’abolizione della servitù della
gleba, la lamentela costante che la
corvée è il lavoro peggiore, il più negligente e privo di
coscienziosità. Senza voler trarre da esempi di questo genere che si
trovano in ogni parte di qualsiasi opera storica uno scetticismo a basso prezzo e ingiustificato nei confronti
dell’interpretazione psicologica in
generale, tali differenze di interpretazione possibile devono renderci attenti
al fatto che non si può considerarle
come un fattore sempre eguale, e quindi trascurabile. Piuttosto, la constatazione dell’una o dell’altra
conseguenza, sulla base di un ulteriore
avvenimento esterno, è decisiva per stabilire la costituzione psichica che dominava la
situazione iniziale e pertanto come la
direzione di una retta è determinata da due
punti stabiliti il carattere
complessivo dello sviluppo. Ma questi
presupposti, e il significato della scelta tra di essi, rivestono una
particolare importanza negli innumerevoli casi in cui le imprese esterne non sono tramandate in modo
scevro di dubbio e univoco, e in cui
l'accertamento e l'ordinamento dipendono
dalla loro probabilità psicologica. Anche nei casi più sicuri, però, non è il semplice fatto che decide
dell’intelligibilità della conseguenza,
ma sono i principi psicologici a cui il
semplice fatto si subordina come
premessa minore, per far apparire l'avvenimento successivo come possibile e
intelligibile. Dietro le azioni visibili degli uomini si sottintendono scopi e
sentimenti invisibili, che sono necessari per connettere in modo intelligibile quelle azioni. Se non potessimo
procedere al di là del materiale storico
realmente constatabile, sarebbe in forse la
costruzione di un qualsiasi sviluppo, la possibilità di comprendere un
qualsiasi elemento singolo in base a un altro. Helmholtz ha detto una volta che
la dimostrazione della legge causale sarebbe assai debole se dovesse venir
derivata dall’esperienza; i casi della sua piena dimostrabilità sono rari in
rapporto al numero sterminato di quelli
che si sottraggono a una più completa
penetrazione causale. Se ciò vale già per i processi della natura sottostante la vita psichica,
ancora più rara deve diventare la
dimostrazione della causalità in base alla stretta esperienza laddove il complicato e oscuro
elemento dei processi cerebrali si inserisce tra i processi visibili dei quali
si indaga il legame causale. È chiaro
che avremmo una prospettiva completa se penetrassimo fino in fondo le influenze
e le trasposizoni esterne e corporee che
hanno luogo tra i singoli atti di una
personalità storica, e conoscessimo inoltre il valore psichico di ogni processo cerebrale presente in questa
serie. Questo è però un ideale
irraggiungibile; cosicché noi ci aiutiamo almeno inserendo dei processi
psichici dietro e tra i processi esterni. Qui
l'elemento ipotetico, che esige una particolare considerazione metodologica, non è tanto l’ipotesi di un
elemento psichico in generale, che
risieda inafferrabile dietro i fenomeni, quanto il contenuto specifico dei processi di coscienza
supposti. Certamente anche tale elemento
per quanto possa sembrare straordinario considerarlo ancora come
ipotesi non è affatto un fondamento così
semplice e indiscutibile della narrazione storica; e non lo è perché il rapporto tra processi
coscienti e processi inconsci in noi è
assai incerto. In particolare, quando si tratta
di movimenti di interi gruppi che possiamo spiegare anche soltanto in base a posizioni di scopo e a
impulsi sentiti, sono spesso
determinanti processi organici che non hanno alcun aspetto di coscienza. Tanto qui quanto negli
individui singoli moltissimo di ciò che,
per la sua conformità formale a uno
scopo, viene ricondotto a cause interne alla coscienza accade per suggestione, o per un meccanismo motorio
ormai fissato da cui sono da lungo tempo
esclusi gli elementi coscienti, o per
uno stimolo inconsapevole. Come la formazione conforme a scopi dell'essere vivente induce gli spiriti
che riflettono ad ammetterne una causa intelligente, perché si è abituati a
considerare la conformità a scopi soltanto come conseguenza di una volontà cosciente e pensante, così noi ci
rappresentiamo compiendo lo stesso
errore le più svariate azioni umane
come effetti di una posizione cosciente
di scopi, anche se procedono da tendenze
del tutto meccaniche e da necessità inconscie. Se i movimenti dei nostri organi interni, il
lavoro del cuore, i processi di digestione, avvengono nel modo più utile per il
conseguimento degli scopi vitali, e senza che ne abbiamo affatto coscienza, lo stesso sviluppo che ha regolato
questi processi poteva ben ordinare
anche i nostri processi cerebrali in modo
tale da promuovere la vita senza bisogno di una coscienza. GEORG SIMMEL 443 Anche se si affermasse che la scienza
storica deve descrivere soltanto la
storia dei processi coscienti, tuttavia i processi inconsci si inseriscono in
modo così vario tra quelli coscienti e ne
costituiscono così diffusamente il substrato che senza il ricorso ad essi non si può conseguire una spiegazione
sufficiente dell’elemento cosciente; e questa spiegazione fallisce
necessariamente se alla base di ogni azione visibile si vogliono porre
idee chiare e una cosciente conformità a
scopi. Stabilire se dietro l’azione stia
un processo psichico cosciente esprimibile con parole e una risposta positiva costituisce il
presupposto di ogni narrazione
storica è una questione particolarmente
difficile nel caso di quei processi che
devono realmente a una coscienza la
conformità della loro forma a uno scopo e l’impulso alla loro realizzazione in determinate situazioni,
ma che in seguito l'hanno perduta poiché
l’azione si è gradualmente trasformata
in un’azione meramente riflessa e istintiva. Se per esempio la conformità a scopi e la necessità hanno
indotto un gruppo a guerre ripetute, da
ciò può svilupparsi una tendenza bellica, e
dinanzi alle sue successive manifestazioni sarebbe vano cercarne la ragion sufficiente nella coscienza di chi
agisce. Oppure, la sottomissione e la
servilità di un ceto rispetto a un altro possono essere sorte da cause del
tutto coscienti; se però queste sono
durate un lungo periodo, non si può più interrogare la coscienza degli
individui per averne informazioni sullo scopo del particolare comportamento in
questione: per quanto uno scopo possa essere ancora sempre presente, la
coscienza di esso è in ogni caso tramontata
e l’azione se ne presenta priva. È però evidente che l’azione comparirà facilmente anche
quando lo scopo non sussiste più, e un
qualsiasi impulso esterno o abitudine interna
produce uno stimolo formalmente affine a cui l’azione risponde in modo riflesso. È perciò ben chiaro a base
di quali errori stia il presupposto
ingenuo che cerca senz'altro in processi psichici coscienti la connessione significativa tra le
azioni dei singoli o dei gruppi,
facendole scaturire dal carattere teleologico di quei processi.
Del resto la scienza storica lavora di fatto anche in base al presupposto di un inconscio parziale o
totale. Sentiamo parlare dalla tendenza
di parecchie stirpi a impadronirsi irresistibilmente di ciò che sta intorno e a
spostare in avanti senza sosta, come spinte da un impulso di crescita fisica, i
loro confini; si parla dell’oscura
spinta dei popoli tedeschi verso l’Italia come
dell’istinto dell’uccello migratore, che impulsi del tutto inconsci
spingono a seguire determinate direttrici del cielo; d'altro lato si parla dell'immobilità e
dell’indolenza di alcune stirpi, le quali certamente spesso non pervengono alla
coscienza del singolo ma determinano il
suo comportamento come una forza
naturale, mentre egli crede di essere attivo e capace di reazione. Occorre infine ricordare quelle
formazioni oggettive che fondano
propriamente come un possesso collettivo
spirituale la società: il diritto e il
costume, il linguaggio e il modo di
pensare, il culto e la forma di commercio. Certamente, tutto ciò non sarebbe
mai sorto senza l’attività cosciente
degli individui; ma questa non si è quasi mai orientata verso la formazione che alla fine ne risulta come se costituisse
il suo scopo. Ciascuno lavora piuttosto
alla propria parte, mentre la totalità
di cui è parte si sottrae al suo sguardo; il confluire dei contributi, il costituirsi della forma
sociale che questo materiale individuale
assume non rientra più nella coscienza del singolo lavoratore. Nella coesistenza con gli altri
egli cerca l’espressione più adeguata per la sua inclinazione e per il suo
ritegno, per la sua indifferenza e per
il suo interesse, scoprendo in tal modo
certe parti delle forme di rapporto speciale; il suo bisogno religioso lo spinge a parole e ad azioni in
cui crede di trovare i ponti più sicuri
verso il principio divino, e in questo modo
costruisce l’edificio del culto; mediante certe regole di prudenza cerca
di proteggersi dalle soperchierie nella conduzione degli affari, e così fonda
le usanze commerciali comuni. Di ogni
azione mossa dall’interesse particolare che non abbia carattere distruttivo, di qualsiasi relazione tra
uomini rimane quasi come caput mortuum un contributo alla formazione dello spirito pubblico, dopo che i suoi effetti
sono stati distillati attraverso mille
sottili canali sottratti alla coscienza dell’individuo, Ciò vale
particolarmente per il tessuto della vita sociale: nessun tessitore sa che cosa sta tessendo.
Tuttavia le formaziono sociali superiori possono sorgere soltanto tra esseri
che posseggano una coscienza degli scopi; ma essc sorgono, per così dire, accanto alla coscienza degli scopi
propria degli individui, in virtù di un
processo formativo che non ha luogo in essa
e ciò già per il fatto che per ottenere quell’effetto sociale è
richiesta la conformità e la contemporaneità di innumerevoli azioni di altri, che l'individuo può prevedere
soltanto in casi rarissimi. In breve, dietro le manifestazioni storiche
visibili non si può ipotizzare come loro
funzione costante una piena coscienza, al fine di interpretarle e di
collegarle; ma sebbene una tale
coscienza debba costituire nel complesso il presupposto dello storico, egli lo sospende abbastanza spesso.
Una filosofia della storia dovrebbe
stabilire in quali casi Io storico
guidato dall’istinto o dalla riflessione
astrae dalla conformità cosciente a
scopi nelle azioni umane. Essa dovrebbe cioè indagare quando dobbiamo porre a base della spiegazione
dell’accadere una volontà e un pensiero cosciente, e quando siamo soliti
rinunciare a tale ipotesi. Il compito
specifico non consisterà qui nel determinare per la storiografia leggi pratiche
in merito alla giustificazione di questa o quell’ipotesi. Ciò sarebbe possibile
soltanto alla psicologia. La teoria
della conoscenza dovrebbe piuttosto
soltanto stabilire in quali casi al nostro bisogno di spiegazione basta l’una e in quali l’altra ipotesi. Le
rappresentazioni storiche non come
devono essere, ma come esse sono realmente
dovrebbero venir analizzate in base ai princìpi secondo cui, anche inconsciamente, decidono sull’ipotesi
di una coscienza o di
un’inconsapevolezza sottostante alle azioni fisiche. Presupponendo questa coscienza, passiamo ora
a ipotizzare i suoi contenuti.
Anzitutto, anche a questo proposito si tratta di un presupposto molto generale. Che tali elementi
psicologici di connessione che lo
storico aggiunge agli avvenimenti siano veri
oggettivamente, cioè valgano a indicare realmente gli atti di coscienza delle persone che agiscono, non
avrebbe alcun interesse per noi se non comprendessimo questi processi in base
ai loro contenuti e al loro corso. Se
ciò non avvenisse, quella
interpretazione corretta potrebbe essere ottenuta con qualsiasi mezzo
come per esempio quando essa non ha bisogno della ricostruzione psicologica da parte dello
storico, ma è in apparenza immediatamente data dalle manifestazioni e dalle
confessioni delle singole personalità; tuttavia non potremmo concedere ad essa
il carattere di verità. Che cosa significa allora questo comprendere, e quali sono le sue
condizioni? La prima condizione consiste
chiaramente nel fatto che quegli atti di
446 GEORG SIMMEL coscienza
vengono riprodotti in noi, cioè che possiamo (come si dice)
trasferirci nell'anima delle persone . Comprendere una proposizione significa che i processi
psichici di colui che parla, consegnati
nelle parole, vengono da queste appunto stimolati nell’ascoltatore; non appena si ha una
differenza essenziale tra le
rappresentazioni di due persone, la parola che va dall’una all'altra viene fraintesa o non è compresa.
Una riproduzione diretta di questo
genere ha luogo ed è sufficiente soltanto dove
si tratti di contenuti teoretici di pensiero, per i quali non è essenziale che essi abbiano il loro punto di
partenza nelle rappresentazioni proprio di questo individuo. Nelle conoscenze
oggettive o logiche io mi rapporto all’oggetto del conoscere nell’identico modo
di colui di cui comprendo le rappresentazioni; egli me ne comunica
soltanto il contenuto e dopo di ciò
viene di nuovo, per così dire, escluso. Da allora il contenuto è presente parallelamente nel mio pensiero e
nel suo, senza dover subire
trasposizioni o modificazioni per il fatto di avere in questo la propria origine. Questo rapporto già si modifica in qualche
maniera laddove si tratta non di un
semplice processo teoretico di idee, che ci si
può rappresentare come rispecchiamento del comportamento oggettivo dello
cose (che si offre a tutti nella stessa misura) nelle forme logiche, ma è in questione la
comprensione di processi soggettivi. Noi
pretendiamo tuttavia di comprendere ogni specie e ogni grado di amore e di
odio, di coraggio e di disperazione, di volontà e di sentire, senza che le
manifestazioni in base a cui
comprendiamo tali affetti ci pongano nella stessa parzialità ad essi propria.
Tuttavia quel processo psichico che chiamiamo comprensione può consistere
solamente in una trasformazione psicologica, in una condensazione o anche in un
rispecchiamento sbiadito di quegli affetti: in tale processo deve in qualche
modo-esserci il loro contenuto. Se sopra abbiamo indicato come compito della storia quello di conoscere
non soltanto ciò che è conosciuto, ma
anche ciò che è voluto e sentito, questo
compito può essere risolto solamente in quanto esiste qualche specie di trasposizione psichica per
partecipare al voluto e al sentito.
Infatti quell’essere sentito reale, che ha avuto luogo in qualche momento del passato, non
costituirebbe altrimenti la condizione
sotto la quale avviene ciò che chiamiamo comprensione. Chi non ha mai amato non
comprenderà mai colui che ama, il debole
non comprenderà mai l’eroe, né il collerico
comprenderà il flemmatico; e viceversa la nostra comprensione dei movimenti, dei tratti del volto e delle
azioni altrui si esprime tanto più
facilmente quanto più sovente abbiamo noi
stessi sentito gli affetti di cui costituiscono il simbolo; si esprime
anzi più o meno facilmente nella misura in cui la nostra situazione interiore del momento ci dispone a
sensazioni analoghe o a sensazioni distanti, agevolando o rendendo difficile
la riproduzione psicologica. La
ripetizione degli atti di coscienza che
si compiono nell’altro individuo è quindi presente in qualche forma della cui origine non possiamo ancora farci
un quadro positivo nella comprensione dei propri, ed è
indispensabile a questo scopo. La
trasformazione che diventa così necessaria mostra ora un approfondimento significativo se, più che al
contenuto della comprensione, si guarda
al fatto che si tratta del processo di
rappresentazione di un altro, di un non-io, che è appunto un non-io. Certamente, nel caso di oggetti
umani si pongono in dubbio le
conseguenze gnoseologiche della convinzione che
gli oggetti conoscitivi non ci sono dati nel loro in sé, ma soltanto come rappresentazione. La storia si potrebbe dire ci è accessibile in un modo completamente
diverso dalla natura. La distinzione tra
io e non-io avrebbe un senso completamente
diverso se entrambi i termini fossero anime; infatti essi sarebbero
differenti soltanto dal punto di vista numerico, e non in linea generale, e se nessuno spirito può penetrare
all’interno della natura, potrebbe però
penetrare all’interno di un altro spirito
che esso rispecchierebbe in sé in modo del tutto adeguato. Con un pilastro così esile non è quindi ancora
possibile gettare un ponte sull’abisso
tra io e non-io. Anzitutto, la loro identità
generale non elimina la necessità di esteriorizzazioni, di trasposizioni
e di simbolizzazioni di ogni sorta che servano a mediarli. Un rispecchiamento
immediato, una comprensione immediata derivante dall’identità di natura sarebbe
una lettura del pensiero e telepatia,oppure presupporrebbe un'armonia
prestabilita non meno mirabile di quella
leibniziana. Piuttosto, la stessa conoscenza di un processo spirituale
costituisce, da parte sua, un processo
che può venire soltanto stimolato e dev'essere compiuto dal soggetto. Ma ciò
trasformerebbe alla fine il parallelismo
di fatto da un rapporto diretto in un rapporto indiretto; in definitiva, nonostante tutte le inevitabili
complicazioni, un processo psichico potrebbe rispecchiarsi in un’altra anima
con la medesima precisione con cui le
parole affidate a un apparecchio
telegrafico si riproducono in quello della stazione ricevente, anche se ciò che sta nel mezzo e che fa da
tramite sono processi completamenti
eterogenei. Ma la difficoltà più profonda consiste nel fatto che i processi
così prodotti in me, nel medesimo tempo
non sono i miei: io li penso come storici,
anche se li rappresento ed essi sono quindi mie rappresentazioni come
processi (e rappresentazioni) di un altro.
E neppure basta, se vogliamo conoscere un altro, che riproduciamo in noi
stessi i suoi processi psichici e aggiungiamo:
non sono io, è lui a sentire così! In primo luogo, infatti, secondo questo presupposto io sento
effettivamente così, e quell'aggiunta non può essere i forma di supplemento al
contenuto, di modo che entrambi rimangano reciprocamente isolati, ma deve penetrare quel contenuto, accompagnarlo
immediatamente come suo esponente. Questo sentire ciò che propriamente non
sento, questo riprodurre una soggettività che è però possibile, ancora una volta, soltanto in una
soggettività che si contrappone
oggettivamente a quella ecco l'enigma
del conoscere storico, per la cui comprensione le nostre categorie logiche e
psicologiche sono chiaramente strumenti ancora troppo grossolani. In questo conoscere sono
certamente presenti entrambi gli elementi
vale a dire il compimento da parte
propria dell’atto in questione e la coscienza che è accaduto in altri; ma questa è soltanto una scomposizione
successiva in elementi di cui il
processo della conoscenza storica non mostra
coscienza alcuna. Qui non si tratta tanto di una scomposizione successiva di elementi che preesistevano
separati, così come nell'intuizione del mondo esterno la sensazione e l'intuizione
spaziale non esistono separatamente per poi riunificarsi in quella. La proiezione di un rappresentare e di un
sentire sulla personalità storica è un atto unitario, la cui condizione
preliminare è che io abbia provato nella
mia vita soggettiva i processi psichici
in questione. Ma poiché vengono ora riprodotti come rappresentazioni di
un altro, essi subiscono una trasformazione psichica che li distacca
dall’esperienza soggettiva della personalità conoscente così come vengono
distaccati da quella della personalità
conosciuta. Anche se queste ultime due coincidono in linea generale, anche se amore e odio, pensiero e
volontà, piacere e dolore sono come avvenimenti personali nell'anima del
soggetto conoscente esattamente i
medesimi che hanno avuto luogo
nell’anima dell’oggetto conosciuto, non già la conoscenza storica, bensì quel
processo di rappresentazione trasformato dalla proiezione su un altro,
costituisce questa identità immediata.
Una cosa del tutto analoga avviene nel rapporto tra pensiero e materia: se il substrato
trascendente dell'anima e quello del
mondo esterno fossero realmente identici, ciò non comporterebbe ancora che le rappresentazioni
che l’anima si fa del mondo esterno
siano effettivamente identiche a quelle che
formerebbe l’in sé del mondo o un suo immediato rispecchiamento. La
conoscenza del mondo rimarrebbe sempre nelle forme di esperienza ad essa
proprie, indipendentemente dall’identità dei substrati che la delimitano da
entrambe le parti, anche se
quest’identità istituisce forse la possibilità del rappresentare in generale. In esatta analogia, l’identità
psicologica tra conoscente e conosciuto è sì il fondamento, nell’ambito
storico, della possibilità di conoscenza
in generale, ma di per sé non significa
ancora che la rappresentazione proiettata fuori del soggetto possegga
un'identità di contenuto con i processi soggettivi presenti nella personalità
storica. Non seguirò qui oltre questa
metamorfosi, la quale procede col
contenuto psichico primario in quanto questo è reso oggettivo e con esso sì conosce un’altra personalità:
piuttosto, assumendola come presupposto,
metterò l’accento sull'identità psicologica di
contenuto tra il soggetto e l'oggetto del conoscere storico che questo esige. Se si potessero comprendere i
processi storici semplicemente subordinando gli atti psichici i quali si
distanziano troppo da quelli che si
compiono nell'anima dell’osservatore, di
fatto non li si comprenderebbe e la loro descrizione susciterebbe nella nostra anima tanto poca reazione quanto
un discorso fatto in una lingua a noi
sconosciuta. In primo luogo, quindi, lo
storico presuppone che la sua anima possa istituire in sé gli stati psichici dei suoi personaggi, cioè che
una qualche analogia, per quanto remota, delle loro azioni accertate con le
proprie azioni permetta di concludere che lo sfondo di coscienza, che le stesse azioni hanno o avrebbero in lui, sia
presente anche in quelli. Quando Ranke
esprime il desiderio di dissolvere il proprio io per vedere le cose così come
sono state in sé, il compimento di tale desiderio eliminerebbe proprio il
risultato che ci si aspetta. Una volta
dissoltosi l’io, non rimarrebbe nulla con
cui cogliere il non-io. L’intromissione dell’io non è un’imperfezione
della quale un tipo ideale di conoscenza possa fare a meno; questa può eliminare soltanto certi
aspetti dell'io, ma voler dissolvere
l'io in generale è una contraddizione logica
non soltanto perché esso costituisce, alla fine, il sostegno di ogni rappresentare in generale infatti anche Ranke aveva limitato a questo la sua manifestazione ma anche perché i suoi contenuti specifici sono punti di
passaggio indispensabili di qualsiasi
comprensione di altri individui. Questa partecipazione simpatetica alle
motivazioni delle persone, al complesso e
ai singoli aspetti del loro essere, del quale vengono tramandate soltanto espressioni frammentarie, questo
processo di trasposizione in tutta la molteplicità di un enorme sistema di
forze, ognuna delle quali viene compresa
soltanto perché la si rispecchia in sé
questo è il senso vero e proprio della pretesa che lo storico sia e debba essere artista. La
concezione comune secondo la quale
questa pretesa sarebbe giustificata solamente
una volta che si sia conclusa la ricerca dei fatti, e limitatamente
all’esposizione per il lettore, è del tutto errata; infatti anche il fisico, il filologo, il giurista, in
breve ogni studioso che scriva per gli
altri, in particolare per cerchie più vaste, dev’essere artista
nell'esposizione. Ma già per il fatto che lo storico interpreta, elabora, ordina i fatti in modo
che producano l’immagine coerente di un processo psicologico, la sua attività
si avvicina a quella poetica, e ne
risulta distinta soltanto di grado, per la libertà che quest’ultima possiede
nell’organizzione del suo materiale. Una
volta che il poeta si è deciso per un
determinato carattere, una volta che ha spinto i rapporti tra i suoi personaggi in una determinata direzione,
anch'egli non è più libero, e tutto ciò
che fa accadere si discosta soltanto in
misura limitata dall’esperienza psicologica media su uomini e casi analoghi. Se il processo poetico che,
muovendo dalla libera invenzione, deve legarne la successiva organizzazione
nell’opera d’arte definitiva alle leggi conosciute dell’accadere ha per motto siamo liberi al primo momento, nel
secondo siamo schiavi, la ricerca
storica si limita a rovesciarlo. Nel primo
momento, cioè rispetto al materiale di fatti con cui ha inizio il suo lavoro, essa è vincolata; invece è libera
nell’elaborazione di tale materiale in
una totalità del corso storico, cioè è lasciata
al funzionamento di categorie soggettive e al processo formativo nell’anima
dello storico. Ciò che Schopenhauer spiega a
proposito dell’essenza dell’attività estetica che cioè l’intelletto si spoglia della
preoccupazione del proprio io per trasferirsi
completamente nell’oggetto da cui non lo separa più nessuna duplicità di essenza, ma che anzi si
rispecchia senza residuo in esso,
cosicché in questo attimo non è affatto altro da quest’oggetto rappresenta di fatto, prescindendo dal
rivestimento metafisico, l'elemento
decisivo anche per lo storico, anzi per
chiunque acquista una qualsiasi conoscenza storica. Ogni riproduzione e
ogni comprensione di un oggetto psicologico significa che il soggetto
comprendente percorre in sé il processo psichico nella cui conoscenza si
immerge e che esso è realmente nella
misura in cui l’io consiste nel suo processo di rappresentazione in questo attimo *. a. Per lo storico la difficoltà particolare
consiste nel fatto che egli può ricavare
l'immagine complessiva di una personalità soltanto dalle sue manifestazioni
specifiche, ma d'altro lato può interpretare e raggruppare correttamente questi
elementi soltanto in base all'immagine complessiva della personalità che sta a loro fondamento. Questo
circolo logico viene, al pari di molti
altri simili, risolto nella prassi in quanto gli elementi che si presuppongono
a vicenda si sviluppano in un’azione reciproca e gradualmente. La conoscenza
assolutamente corretta del carattere e della tendenza complessiva di una
persona potrebbe naturalmente essere ottenuta soltanto sulla base di un’interpretazione
assolutamente corretta delle sue espressioni, e
viceversa; se quindi occorresse l’incondizionata correttezza e
completezza di entrambe le conoscenze,
non si potrebbe pervenire a nessuna delle due.
Soltanto perché sia l’una sia l’altra sono ottenute pezzo per pezzo, in
quanto in entrambe si ha un incremento graduale che dalla congettura e
dall'assunzione ipotetica conduce fino alla certezza, ognuna delle due parti
serve all’altra come punto saldamente
accertato per la determinazione di un analogo punto dall’altra parte, la cui
connessione con punti successivi conferma ulteriormente il primo. Da qualche
parte si deve cominciare in modo dogmatico o ipotetico, e soltanto
l'attendibilità delle indagini successive
che da esso procedono può decidere sulla verità del fondamento;
nell’elePer quanto riguarda la questione generale attinente alla teoria della
conoscenza, non è che lo storico colga le personalità storiche perché è identico ad esse infatti questo è appunto da stabilire
ma presuppone la propria identità con esse perché vuole coglierle e non
può farlo altrimenti. Si ha qui lo
stesso rapporto che Kant aveva affermato a proposito della conoscenza
della natura: noi non conosciamo la realtà perché il pensiero e l’essere coincidono, ma essi
coincidono perché noi conosciamo la
realtà, ossia perché il nostro intelletto introduce la sue forme conoscitive nell’essere, perché
lo elabora come sua rappresentazione
secondo le leggi di cui ha bisogno in vista
dell'esperienza. Lo storico respinge come improbabili o non vere le azioni tramandate quando esse fanno
riferimento a una base psichica che gli
sembra insostenibile nel suo processo .di
penetrazione dello stato psicologico della persona altrimenti presupposto, e che quindi urta contro la
logica dei fatti psicologici. Nel caso di un’improbabilità esteriore, fisica,
la differenza rispetto al rifiuto della
tradizione è chiaramente soltanto graduale, ed esiste soltanto nella misura in
cui le leggi fisiche della natura sono
da noi conosciute in modo più certo delle
leggi psichiche. A proposito di
questa riproduzione degli avvenimenti psichici da parte dello storico occorre
considerare due aspetti: in primo luogo
le forze naturali e le categorie presenti nella sua mento spirituale non solo il fondamento
sorregge l'edificio, ma anche l’edificio sorregge il fondamento. Il rapporto
della totalità con il particolare, che
ovunque presenta alla metodica del conoscere gli enigmi più ardui, mostra le proprie difficoltà anche dove si
tratta della totalità e della singolarità di un individuo. La medesima
difficoltà conoscitiva si presenta in
riferimento all'essenza e alla tendenza di interi popoli e gruppi, di
interi periodi di tempo, oltre che di
avvenimenti particolari. Uno dei compiti più
sottili della-teoria della conoscenza sarebbe quello di elevare alla
coscienza, e di indicare nel caso singolo, il modo effettivo di questa reciprocità come la nostra interpretazione storica
consideri gli elementi particolari che
sono ambigui, se non privi di senso senza un’immagine del tutto;
quali siano i mutamenti tipici a cui la
tendenza generale, assunta a titolo di prova, porta nell’apprendimento degli
elementi particolari; se le conoscenze
orientate verso il particolare e verso la totalità siano collocate in
modo stratificato l'una sull’altra; in
quale rapporto questi strati si estendano quanto più s'innalza l’edificio
complessivo, e così via. anima, il cui campo di validità delimita l'ambito di
ciò che può in generale essere
intelligibile e penetrato simpateticamente
mediante la sua coscienza; in secondo luogo le esperienze di fatto che dànno contenuto a queste facoltà e
a queste forme, indicando alla coscienza
quali, tra le sensazioni e le idee che
sono in generale possibili alla sua anima, vengono realizzate nel mondo animato che lo circonda. La critica
della conoscenza deve distinguere per
bene i due momenti. Lo storico può infatti
respingere alcuni avvenimenti come impossibili e ordinarne altri
soltanto in un determinato modo, perché i processi psichici che dovrebbe altrimenti stabilire non gli
sono intelligibili, cioè non possono
essere compiuti da lui stesso. Qui come altrove non si tratterà ovviamente di idee
o di impulsi particolari dei personaggi
storici, bensì della connessione tra di loro, del comparire di un’idea o di un impulso a
condizione che ne siano già stati
accolti altri. D'altro lato egli potrà sì seguire interiormente tali avvenimenti psichici e
determinate combinazioni tra di essi, che la tradizione sembra offrire, ma
dovrà modificarli perché la sua
esperienza della vita gli mostra che è
possibile riprodurli nella fantasia, ma che non si presentano nella realtà. Qui Ia filosofia della ricerca
storica trova i suoi oggetti di ricerca
nelle influenze a cui sono sottoposte da entrambi i lati le immagini storiche,
e che vengono di solito osservate almeno
nei casi in cui superano troppo la misura
media della soggettività. Le differenze che devono essere istituite non
soltanto nella rappresentazione storica, ma anche nella determinazione, per esempio, del corso della
vita di Cesare o di Gregorio VII o di
Mirabeau, a seconda che la natura dello
storico sia grande o limitata, risultano evidenti; lo stesso vale per quelle che derivano dall'ambito di
esperienza dello storico se cioè egli
ha formato la sua intuizione della vita in base a ristretti rapporti piccoloborghesi o nel
grande commercio mondiale, se in una comunità politicamente sottomessa o in
una comunità libera. In sostanza già lo
sappiamo, perché possiamo immaginarcelo
anche senza una particolare considerazione, e
perché vi sono alcuni esempi flagranti che impediscono di trascurare
questo fatto. Ma la conoscenza scientifica richiede indagini sul numero più
grande possibile di casi, anche proprio su
quelli in cui la soggettività sembra ritrarsi del tutto indagini che avrebbero bisogno di quella fine
capacità investigativa che ha prodotto
risultati così splendidi soprattutto nella filologia classica. Certamente, pregiudizi e toni soggettivi
sono sempre correggibili nel caso particolare. Nel momento stesso in cui si
pongono in luce e se ne mostra l’origine psicologica, si può anche prescindere da essi. Ma con ciò si dimentica
di solito che, anche dopo aver rifiutato
questa scorza, non rimane soltanto oro
puro, che la nuova conoscenza è sì libera da questo determinato presupposto
soggettivo, ma non da ogni presupposto in
generale. Si corregge una data concezione, ma la si corregge solo introducendone un’altra. Non soltanto i
presupposti del conoscere in generale,
dell’intellectus ipse nelle sue forme più
generali, devono essere accettati da ogni contenuto empirico particolare, poiché a volerne prescindere
nell'interesse di una verità puramente
oggettiva non si potrebbe più rappresentare
nulla; ma queste forme universalmente date esistono di nuovo solo negli spiriti particolari, e quindi
nella loro tonalità e modificazione individuale, di modo che questo spirito
individuale costituisce in certa misura,
nella sua tendenza complessiva e nella
sua disposizione caratteriologica, l’a priori per l’a priori generale nella sua momentanea realizzazione.
Comunque ci rappresentiamo
sistematicamente quelle forme universali, esse
hanno soltanto il significato di concetti generali che non si ritrovano tal quali nella realtà e qui nella realtà del conoscere ma che compaiono sempre e solo con una
differenza specifica, che si può certo
mettere da parte, ma soltanto se se ne
pone al suo posto un’altra. Ciò che concepiamo come unità e sviluppo del carattere, come coerenza tra
scopo e mezzi, come causazione
psicologica, si presenta a ogni uomo che opera con il loro aiuto non in una forma astratta ma in
forma personale, esercitando i suoi
effetti sul materiale storico non come categoria logica questo sarebbe l’ideale irraggiungibile del
conoscere ma come forza psicologica,
sostenuta dalla personalità con il
complesso delle sue esperienze, dei suoi istinti, dei suoi sentimenti. Come nessun uomo è uomo in
generale, né consiste soltanto delle
proprietà comuni a tutti gli uomini, così il conoscere non è mai un conoscere
in generale, né consiste soltanto
dell’esercizio delle forme @ priori universali del pensiero. Si può
certo costruire l'uomo in generale in modo astratto e sottraendo tutte le
differenze specifiche, ma non appena si vuol
avere un uomo reale occorre nuovamente aggiungere qualcosa di specifico e di individuale anzi, soltanto nell’ambito di questo lo si può rappresentare
intuitivamente; ed esattamente lo stesso
avviene con le forme 4 priori del pensiero e con la loro conferma pratica *. Nell’organizzazione del materiale storico in
base alle esperienze interne ed esterne dello storico agisce certamente una grandezza incommensurabile che ne rende assai
difficile l’analisi gnoseologica. Noi possiamo, nonostante tutto, ricostruire
negli altri e con la sicura sensazione
della loro piena esattezza processi
psichici che non abbiamo provato né in noi né in altri. È molto facile spiegare tutto questo
come una semplice trasformazione di
esperienze reali. In primo luogo, infatti, il
a. Qui si tratta di un 2 priori singolare, e il cui carattere specifico
non è di facile comprensione. Se
ammettiamo l’a priori nella teoria della conoscenza, pensiamo a
rappresentazioni determinate nel contenuto e da stabilire concettualmente, che
si possano poi indicare in modo sempre eguale
nell'esperienza conclusa; cosicché l'universalità e necessità dell’4
priori ne costituisce la caratteristica
essenziale. Qui si tratta però di un
priori il cui contenuto non è
universale ma individuale, e in cui non c’è nulla di universale e necessario se non il fatto che
questa posizione della conoscenza viene riempita e determinata da qualche 4
priori, mentre rimane completamente indeterminato e accidentale quale degli
infiniti compimenti possibili debba avere nel caso presente. La questione così
importante per la critica kantiana, se
cioè l’4 priori del conoscere possa esso stesso venir conosciuto 4 priori,
trova in questo caso una soluzione in quanto resta ferma la sua generale necessità 4 priori cioè la conoscenza che le categorie logiche
agiscono soltanto nella tonalità di un’intera individualità ma il
contenuto specifico di questo 4 priori dell'a priori è del tutto
variabile e può essere costruito solo
caso per caso. Che la conoscenza storico-psicologica accordi all’4 priori dell’individualità
un'influenza molto maggiore della conoscenza della natura esterna, dipende dal
fatto che sulle categorie dell’ordine e della valutazione (su cui esso
manifesta la sua influenza) non si può
raggiungere, per motivi facilmente spiegabili, un accordo così largo come quello che si ha in riferimento alle
categorie relative al mondo esterno. Nel caso di quest'ultime l'individualità
non si rileva nella tonalità delle categorie logiche perché in tale direzione
si hanno soltanto differenze individuali
evanescenti, anche se ben nette per i grandi periodi culturali. L'elemento logico e l'elemento psicologico
possono qui concrescere in una unità che
non vi sarebbe ragione di scindere.
confine tra forma e materia potrebbe, in questa prospettiva, essere assai arbitrario e significare più una
denominazione aggiunta dall’esterno che non una distinzione oggettiva prescindendo del tutto dal fatto che la
formazione spontanea della forma, oppure della materia, non sostituirebbe per
noi un enigma minore; inoltre rimarrebbe
ancora da spiegare perché una forma in
cui rechiamo dall’interno il contenuto empirico
dato per altra via possegga appunto quella sicurezza soggettiva della
sua possibilità e della sua realtà, mentre altre, che sono altrettanto possibili per la nostra
fantasia e che non mancano, al pari di quella, di una conferma empirica, non
comportano una tale sensazione. Il talento più appariscente e imprevedibile
sotto questo aspetto viene di solito designato come genialità: il genio sembra
creare da sé le conoscenze che l’uomo non
geniale può ricavare soltanto dall'esperienza. In base agli stimoli più
tenui si presenta nel genio un’immagine intimamente coerente e convincente di processi
spirituali, di connessioni di idee e di
passioni di personaggi storici, della cui mentalità non esistono più esempi da gran tempo; accostando
gli elementi più disparati e
interpretando quelli più straordinari, la sua fantasia domina un materiale che
non può avergli messo a disposizione la sua esperienza. Accontentarsi di una
completa inesplicabilità di questa genialità storico-psicologica è quindi
particolarmente pericoloso, perché la questione non riguarda soltanto pochi grandi geni, ma tra questi e l’uomo
comune vi sono innumerevoli
manifestazioni intermedie, anzi proprio quest’ultimi mostrano abbastanza spesso
le premesse occasionali della
riproduzione geniale, apparentemente sovra-empirica, di processi
psichici ad essi altrimenti estranei. Questo fatto ci tocca tanto più da vicino, in quanto il genio
storico può, a sua volta, soltanto affidare
le sue deduzioni a parole le quali possono
stimolare e agevolare negli altri i processi che rivestono interesse per
lui, ma le quali devono in definitiva lasciarne a loro il compimento. Per non dover considerare del
tutto come un miracolo questo grande campo della comprensione di processi psichici che non sono oggetto della propria
esperienza, possiamo interpretarla come un processo in cui diventano
coscienti certe disposizioni ereditarie
latenti. Le generazioni precedenti hanno
lasciato in eredità alle successive, in una forma qualsiasi, le modificazioni
organiche connesse in modo non ancora spiegato ai loro processi psichici; la
smisurata ricchezza, la piccolezza e la reciprocità delle singole parti di
questa eredità non pervengono però in generale a una chiara coscienza. Ora, noi chiamiamo genio un uomo in cui
questo insieme dato è ordinato in modo
così favorevole che la sua riproduzione ha
luogo facilmente, in base a stimoli minimi, e perviene in misura sufficiente a una chiara coscienza. In lui si
compiono processi psichici quanto mai
lontani dalla sua esperienza individuale,
perché essi sono immagazzinati nel suo organismo come ricordi della specie ed eccezionalmente in modo che le
innumerevoli contro-tendenze e gli
innumerevoli offuscamenti che scaturiscono dalla stessa fonte non li escludono
dalla coscienza. In base a ciò comprendiamo anche gli occasionali lampi di
genio di persone per altri versi non
geniali, e la generale possibilità di seguire la comprensione aperta dal genio,
se alle disposizioni ereditarie presenti anche in loro vengono assicurati,
attraverso la chiara espressione e stimolazione di gruppi affini, gli aiuti
psicologici necessari per arrivare alla coscienza. La dottrina mistica di
Platone, secondo cui ogni apprendere non è che un ricordare!, assumerebbe così
un senso reale. Se riproduciamo in noi
uomini da tempo scomparsi con tutta la
ricchezza dei loro più intimi impulsi, se il loro carattere formatosi in condizioni completamente
estranee, mai viste da noi viene
incontro al nostro sguardo emergendo da
una tradizione frammentaria, è chiaramente vano voler spiegare questa
capacità in base alle esperienze della vita individuale nello stesso modo in cui non si può derivare
da questa fonte la conformità allo scopo
di movimenti istintivi o la direzione e la
correttezza degli impulsi etici. Come il nostro corpo racchiude in sé le acquisizioni di uno sviluppo
millenario e conserva ancora
immediatamente in organi rudimentali le tracce di epoche precedenti, così il
nostro spirito contiene come mostra la più semplice riflessione i risultati e le tracce di processi psichici trascorsi dei più diversi gradi di
sviluppo della specie. L'intera misura
della nostra comprensione, anche per quegli
esseri viventi che si discostano molto dal nostro modo di senti I. Simmel si riferisce qui alla teoria della
reminiscenza, esposta nel Fedone. re,
può quindi venire dal fatto che l'eredità della specie contiene però, oltre al
nostro carattere essenziale, tracce del carattere degli antenati e ci rende così possibile il
comprendere vale a dire il compimento dei loro medesimi processi
psichici. Il conoscitore geniale di uomini è soltanto l’erede prediletto (per
questo aspetto) della specie, e lo storico geniale rappresenta solo un suo rafforzamento. Infatti la comprensione
storica è distinta solo per grado dalla
comprensione dei personaggi e dei rapporti contemporanei. Anche questi ultimi
ci offrono fenomeni esteriori, non mai completi, e dal punto di vista
dell’empiria sensibile ogni altro uomo è per noi un automa, ogni sua parola è mero suono, in cui possiamo introdurre
un’anima soltanto in base al nostro
proprio io. Il processo del conoscere storico è
solo quantitativamente differente dal processo del comprendere che noi compiamo sull’esteriorità di tali
immagini: esso trova soltanto un
materiale molto più incompleto e incoerente, indicazioni ancora più insicure,
uno spazio ancora maggiore per le
congetture e una necessità più comprensiva. Ma se per tutto ciò dobbiamo rimandare alle oscure
disposizioni ereditarie che ci rendono
comprensibile anche ciò che non abbiamo vissuto di persona, la scissione tra i presupposti universalmente
validi, che applichiamo agli avvenimenti
per poterli comprendere, e le
interpretazioni soltanto personali, si aggrava straordinariamente. Se la
comprensione geniale ma anche ogni altra
forma di comprensione dell’accadere storico scaturisce da questa
fonte, ai nostri strumenti conoscitivi è del tutto precluso scomporre
analiticamente quei presupposti fino ai loro elementi ultimi e ricondurli alle loro fonti; per questi casi
dovrà bastare una constatazione e una
registrazione di fatto. Se la ricostruzione psicologica del consueto
contenuto storico procede con relativa sicurezza e in accordo generale,
ciò deriva dal fatto che qui si tratta
essenzialmente di interessi c di
movimenti di interi gruppi, e che essi costituiscono il fondamento e il punto
di arrivo anche delle azioni dei singoli personaggi storici. Questi sono
straordinariamente più semplici e
univoci delle condizioni individuali. Nel caso di grandi masse si tratta
sempre delle basi primarie dell’esistenza, degli interessi generali, grandi e
grossi, in cui molti uomini possono
incontrarsi e al di sopra dei quali si sollevano solamente le
individualizzazioni più sottili e difficili dei moti psichici. Nello stesso modo in cui una collettività non
può dissimulare di proposito la sua
volontà e il suo pensiero cosa che
è invece possibile all'individuo essa non lo fa neppure involontariamente, ma
documenta invece le sue tendenze, le sue azioni
e reazioni psichiche con la stessa chiarezza delle manifestazioni degli
impulsi semplici propri di una massa in quanto tale, contrapposti agli impulsi differenziati di
una persona. Proprio per questo motivo
le basi psichiche dei movimenti storici diventano ora più comprensibili a
chiunque: quanto più è sicuro che in
ogni individuo si trovano gli interessi più bassi e primitivi, e quindi
ereditati da più lungo tempo, tanto più probabile gliene riuscirà la riproduzione. Dove sono in
gioco questioni puramente individuali,
la diversità delle individualità impedirà spesso la riproduzione, cioè la
comprensione; ma ciò che vogliono gruppi
interi e che l’individuo vuole in
relazione ad essi è presente con alto grado di sicurezza in
ogni individuo, e può quindi essere
stimolato. Perciò anche nel conoscere storico si cela la soggettività e la
personalità della penetrazione simpatetica, che attribuiamo più facilmente ai
processi della personalità singola.
Assumendo come oggetto i processi
psichico-sociali e penetrandoli simpateticamente, noi non abbiamo l’idea
di essere relegati nella nostra soggettività e nell’accidentalità delle sue
esperienze interne, ma dobbiamo rappresentarci qualcosa di oggettivo. E
tuttavia questo elemento oggettivo è, qui come altrove, soltanto un elemento
soggettivo molto generale, e contiene
solo sensazioni che sembrano rimosse dalla sfera personale perché nessuna
personalità può sottrarsi ad esse. Ma,
alla base, anche le sensazioni che portano in luce movimenti sociali (la necessaria sovrae
subordinazione nei gruppi,
l'unificazione per scopi generali o la divisione in vista dell’utilità individuale, l'elevazione e la
trasformazione da parte di idee religiose e politiche) possono essere valutate,
anzi constatate, soltanto in virtù di una
penetrazione simpatetica di carattere
personale. Anche quello che, in movimenti del genere, pensiamo di poter
cogliere con le mani, possiamo in realtà
coglierlo soltanto con l’anima.
La diversità dell’ priori con cui interpretiamo e ordiniamo i fatti storici trova quindi propriamente la
sua manifestazione più appariscente in un punto del tutto differente, cioè
quando la rappresentazione è diretta da
un pregiudizio determinato nel
contenuto. Il caso più decisivo è quello in cui una tendenza preesistente assegna alla ricerca il fine a
cui deve pervenire, considerandola e
presentandola come corretta e compiuta soltanto nel momento in cui vi perviene proprio come si dichiara corretta una qualsiasi ricerca soltanto se
soddisfa la legge causale. Se qui prescindiamo dalle falsificazioni coscienti o
semi-consapevoli che avvengono per scopi pratici, personali o di partito, soprattutto la difficoltà trattata nella nota
di pp. 451-52 aprirà un vasto campo
all’a priori tendenzioso. Alcuni elementi particolari di una personalità o di
un periodo sono dati; in base ad essi si
forma un'immagine della loro totalità e del loro carattere interno; a questo punto nuovi elementi
particolari verranno molto facilmente
considerati apocrifi se non si adattano a questa immagine già fissata, oppure
saranno modificati fin quando non si
accordano con essa. La convinzione oggettiva orientata in questo senso riceverà facilmente appoggio
dagli interessi dell'animo: quando, per
esempio, in certi momenti sorge l’impressione di un carattere grandioso o di
elevata eticità, allora subentra un
interesse personale per esso che stabilirà in una direzione determinata i presupposti per
l’apprendimento di ogni fatto futuro.
Anche qui si fa valere il significato psicologico della prima impressione. Come
le prime convinzioni della vita trovano
ancora sgombro il campo dello spirito e possono
stabilirsi in vario modo con una forza che non incontra ostacoli, in
modo da decidere dell’accettazione o del rifiuto delle convinzioni future, così lo stesso processo
si ripete per il particolare campo e problema del conoscere. Il giudizio
ricavato in modo impregiudicato dal
primo fenomeno diventa pregiudizio rispetto
al secondo, e ogni fenomeno che si presenti successivamente trova davanti a sé
una direzione prestabilita dell’intuire
e del giudicare, da cui viene abbastanza sovente trascinato senZa
opporre resistenza o almeno costretto a un compromesso. È facile scorgere che qui siamo davanti a un
problema a due facce: l’una rivolta
verso l’aspetto soggettivo, alla forza di
gravità del pensiero che tende a mantenerlo nella direzione già presa, cioè nel pregiudizio soggettivo che
assume 4 priori il vecchio a criterio
del nuovo; l’altra rivolta verso l’aspetto oggettivo, in quanto nelle persone e
negli avvenimenti viene presupposta l’unità e la continuità che quella tendenza
psicologico-soggettiva sembra rendere possibile e giustificare. La
questione della parte rispettiva
dell’oggetto e del soggetto nella conoscenza, da Kant limitata in modo
inopportuno ai rapporti più generali che
sono immodificabilmente comuni a tutti i processi del pensiero, sorge anche di fronte a questi
processi specifici del conoscere,
diretti da princìpi già molto complessi. Quell’unità caratteriologica sia degli individui che dei
gruppi appartiene chiaramente ai
presupposti 4 priori di ogni ricerca storica*.
Ora, però, questa unità non è qualcosa di formale, non è uno schema generale in base a cui sia possibile
determinare in anticipo il rapporto dei suoi contenuti empirici. Un errore
profondo è insito nella fede che in base
all'unità della personalità umana si possa inferire il suo comportamento
necessario secondo a. Attraverso una
singolare svolta dell’unità così presupposta viene alla luce il quadro delle
manifestazioni di interi gruppi. Soltanto singole voci o singoli accidenti
diventano di solito consapevoli in modo esatto; soltanto quando si collocano in
un ambito tenuto insieme da interessi o da
legami noti per altra via, essi sono manifestazioni dell’insieme di tale
ambito. Come dell’individuo sono sempre note soltanto singole manifestazioni,
che tuttavia circoscrivono per noi l'insieme della sua personalità, così i sintomi particolari si estendono a partire
da un gruppo fino a un movimento psichico
caratterizzato in modo determinato
del gruppo nella sua totalità.
Cito a caso dalla Romische Geschichte di THEoDoR MoMmMSsEN (Berlin, 1854-55): un grido di sdegno attraverso l’Italia
intera (vol. II, p. 145); Mario si dimostrò un condottiero che
manteneva ? soldati disciplinati e tuttavia di buon animo, guadagnandone al
tempo stesso l’amore con un rapporto cameratesco (vol. II, p. 192); l'aristocrazia non si
dette la minima pena di nascondere la sua rabbia e la sua
apprensione (vol. III, p. 190); i partiti respirarono (vol. III, p. 193). E da Die Cultur der Renaissance in Italien di Jacos
BurcKHarDT (Basel, 1860): con
un’ingenuità terrificante Firenze confessa la sua simpatia guelfa per i
Francesi (vol. I, p. 89); nei momenti cattivi sorge qua e là la vampa
della penitenza medievale, e il popolo impaurito vuole impietosire il cielo con
flagellazioni e alte invocazioni di misericordia (vol. II, p. 232). Mentre l’unità dello sviluppo caratteriologico costruisce
una successione completa in base a singoli elementi dati, qui si ha la stessa
cosa per la loro coesistenza l'uno
accanto all'altro. Come là viene presupposta l’anima individuale, qui viene presupposta per così dire l’anima
sociale come talmente unitaria che il
dato immediato, rna solo frammentario, permette anche di inferire un'eguale
costituzione di ciò che non è dato. certe norme e certe conseguenze. Al
contrario, osserviamo piuttosto un certo ordine e una certa serie di sviluppo
dei fenomeni psichici che li percorre tutti, e l’unità della personalità è solamente un nome che designa la loro
connessione di fatto non già una
connessione da costruire in modo puramente logi Parlando di questa unità in
generale s'intende che le azioni e le
rappresentazioni di un uomo sono costituite in modo che noi le comprendiamo
come produzioni di un'anima
numericamente semplice e immutabile. Ma dal momento che si tratta di una semplice x di cui non
possiamo dire nulla di più, l’unità di
tale essere significa che possiamo ricondurre
l’una all’altra le rappresentazioni dell’uomo e spiegarle
reciprocamente. C’è però bisogno di certi princìpi il cui dominio ci rappresenta l’unità della personalità, la
quale non può essere percepita
immediatamente. Se individuiamo quindi l’unità della personalità nel fatto che
quest'uomo, la cui vita è amareggiata da una pesante sventura, vede anche nel
mondo che lo circonda soltanto dolore e
dissonanze, e se diciamo che si tratta
dello stesso elemento per il quale egli teme sempre nuova sventura per sé e rende difficile la
vita ai suoi simili, noi conosciamo
appunto delle regole psicologiche in base a cui
possiamo ricondurre geneticamente tali processi l’uno all’altro. Queste sintesi non sono intelligibili perché
siano unitarie, ma le chiamiamo unitarie
perché sono intelligibili; e ci appaiono
intelligibili perché siamo abituati a osservarle. Perciò non si reca alcun disturbo all'unità della
personalità se accanto al proprio dolore
si scorge l'aspirazione a rendere felici gli altri, o se accanto ad esso emerge, in certo senso
come surrogato, un ottimismo
teoretico come spesso accade in uomini
fisicamente disgraziati. In un avaro, l’unità della sua personalità ci sembra garantita sia ch’egli non ceda ciò che
ha ottenuto in vista di alcuna
probabilità futura, sia che lo getti a piene mani non appena speri in un guadagno da usura. I
fenomeni considerati in sé e per sé, e in base al loro contenuto, non sono
ancora decisivi rispetto al fatto di
costituire un’unità, ma sono decisivi
soltanto rispetto alla possibilità di scoprire, in base a qualche regola nota, un legame causale tra di essi.
Così noi ipotizziamo da un lato
un’affinità di contenuto tra le azioni di un individuo, dall’altro una certa
dissomiglianza — quando cioè circostanze esterne mutate influenzano il suo
agire. E mentre ciò presuppone l’immutabilità del nucleo interno, proprio una
trasformazione di questo nucleo rientra nell'immagine di una personalità
unitaria quando si prendano in considerazione le diverse età della vita. La conclusione che si trae,
in base a certi modi di azione di una
persona, in merito alla possibilità o all'impossibilità di altri modi di azione
non è una conclusione logica immediata,
ma dipende da un'esperienza psicologica reale assunta come premessa maggiore.
C’è appena bisogno di accennare all'influenza che tutto questo — e la sua
estensione a periodi e a gruppi — esercita sulla costruzione del processo
storico, sull’interpretazione dei fatti particolari, sull’integrazione della tradizione e sulla sua critica. Il
compito più importante per la filosofia
della ricerca storica sarebbe ora quello di determinare le norme particolari
che assumiamo — sulla base dell’ unità
dei caratteri — come criteri delle tradizioni e come veicoli di rappresentazione; la latitudine
entro la quale spieghiamo tuttavia come possibili azioni divergenti; gli
sviluppi e le modificazioni che
riteniamo ovvie seguendo il principio interno della personalità, e quelle per
cui dobbiamo invece cercare una
spiegazione nelle circostanze esterne. Vi sono indubbiamente procedure ben
precise di questo genere, in base alle quali si
agisce, che vengono tacitamente presupposte tra lo storico e il lettore, ma alla cui consapevole
constatazione non si è ancora pervenuti.
Un problema ancora più profondo si apre poi quando indaghiamo sulla duplicità
di motivazione, sopra menzionata, della presupposta unità dei soggetti storici:
in quale misura l’esperienza psicologica oggettiva e in quale misura la tendenza soggettiva al rafforzamento della
capacità di pensiero e alla
semplificazione della conoscenza cooperano nella formazione delle immagini
storiche — vale a dire alla formazione
che in base ai fatti originariamente dati abbozza uno schema del processo successivo, limitando così la
portata della divergenza caratteriologica da ciò che si era stabilito
all’inizio. Nel caso dei presupposti più
generali con cui elaboriamo il materiale della conoscenza — gli assiomi
matematici, le rappresentazioni primarie di sostanza e di forza, la legge
causale, i princìpi logici e così via —
tale questione può trovare risposte più
semplici. L’idealismo deriverà senz'altro questi presupposti dal
soggetto, negando qualsiasi partecipazione dell’oggetto e dell’esperienza al
loro sorgere. Il realista empirico, al contrario, affermerà proprio per queste rappresentazioni
fondamentalissime l’accordo incondizionato con l’oggetto, e la loro fondazione
nell’esperienza continua di esso. Una così chiara separazione di principio non
è possibile nella nostra questione. Già
l’identità generale tra l’anima che indaga e l’anima che è indagata
rende probabile che le tendenze più generali della prima trovino un riflesso nella seconda,
giustificando quindi la loro assunzione,
e che il risultato della ricerca sia determinato nello stesso senso da entrambi i lati. Il realista
deve concedere che abbastanza spesso, e
in modo abbastanza osservabile anche senza una critica particolare, presupposti
e massime soggettive che servono
all’unità e alla semplicità del pensiero sono decisivi per l'elaborazione
storica. D'altra parte, anche ammettendo le influenze psicologiche di più vasta
portata su tale elaborazione, non si potrà negare che, pur con la rinuncia a
ogni convinzione monistica che ci si
porta dietro, la realtà offre prove
sufficienti in favore dell’interpretazione realistica; e in generale, quanto più alti e complicati sono
gli ambiti a cui ci solleviamo, tanto
più è impossibile separare di un tratto e con
un'alternativa netta i loro elementi costitutivi 4 priori e quelli a posteriori. Uno dei compiti più alti della
filosofia della storia potrebbe essere però
la determinazione dei loro limiti e in
particolare della loro azione reciproca, il vicendevole rafforzamento
tra il fattore soggettivo e il fattore empirico di quella rappresentazione di
un'unità presente negli uomini, negli avvenimenti, nei gruppi e nelle
epoche. Queste considerazioni possono
essere riassunte nella proposizione: la psicologia è l’4 priori della scienza
storica. Il compito della teoria della
conoscenza nei suoi confronti è quello di determinare le regole mediante le
quali si perviene, in base ai documenti
e alle tradizioni esteriori, ai processi psichici, e le regole sufficienti a
istituire una connessione intelligibile
tra questi ultimi. Se è vero che il
conoscere umano si è sviluppato partendo
da necessità pratiche, perché la conoscenza del vero è un’arma nella lotta per l’esistenza tanto nei
confronti dell’essere extraumano quanto nella concorrenza degli uomini tra di
loro, da lungo tempo esso non è però più
legato a questa origine, e da semplice
mezzo per gli scopi dell'agire è diventato esso stesso uno scopo definitivo. Ciononostante il
conoscere, perfino nella forma sovrana
della scienza, non ha rotto dappertutto le relazioni con gli interessi della
prassi, anche se esse non si presentano ora come meri effetti di quest'ultima,
bensì come azioni reciproche dei due
domini esistenti ciascuno per diritto autonomo. Infatti non soltanto il
conoscere scientifico si presta, nella
tecnica, alla realizzazione di fini esteriori della volontà, ma, d’altro lato, dalle situazioni pratiche,
interne ed esterne, sorge il bisogno di
comprensione teorica; talvolta si manifestano nuove direzioni di pensiero, e
con il loro carattere puramente astratto gli interessi di un nuovo modo di
sentire e di volere penetrano nella problematica e nelle forme della vita
intellettuale. Così le pretese che la
scienza sociologica ama far valere costitui
scono la prosecuzione e il rispecchiamento teorico della potenza pratica raggiunta nel secolo xtx dalle masse
rispetto agli interessi dell'individuo. Il fatto che il senso di importanza e
l’attenzione che i ceti inferiori pretendono da quelli superiori sia sostenuto proprio dal concetto di società
dipende però dalla *
Soziologie: Untersuchungen îiber die Formen der Vergesellschaftung, cap.
1: Das Problem der Soziologie, Leipzig, Verlag
von Duncker und Humblot, 1908, Pp. 1-46
(traduzione di Giorgio Giordano, per i Classici della sociologia delle
Edizioni di Comunità). circostanza che, in virtù della distanza sociale,
i primi si presentano agli altri non nei loro individui, ma soltanto come
massa unitaria, c che appunto questa
distanza non permette agli uni e agli
altri di essere uniti sotto alcun altro aspetto di principio se non quello che essi costituiscono insieme una
società . Dal momento che le classi, la
cui efficacia risiede non già nell’importanza percepibile dei singoli, bensì
nel loro essere società , attiravano su
di sé la coscienza teorica in
conseguenza dei rapporti di forza
pratici il pensiero si accorse a un tratto che ogni fenomeno individuale è
determinato in genere da un'infinità di
influenze provenienti dalla sua cerchia ambientale umana. E quest’idea acquistò
per così dire forza retrospettiva: accanto a quella presente, anche la società
passata apparve come la sostanza che
costituiva l’esistenza individuale, così come il mare costituisce le onde. Qui
parve conquistato il terreno in base
alle cui forze diventavano suscettibili di spiegazione le forme particolari nelle quali esso formava
gli individui. Questo orientamento di
pensiero fu favorito dal relativismo moderno,
cioè dalla tendenza a risolvere il singolare e il sostanziale in azioni reciproche; l'individuo era solamente
il luogo în cui si collegano dei fili
sociali, la personalità era soltanto il modo
particolare in cui ciò accade. Una volta raggiunta la coscienza del fatto che ogni agire umano si svolge
nell’ambito della società e che nessun agire può sottrarsi alla sua influenza,
tutto ciò che non era scienza della
natura esterna doveva essere scienza della
società. Questa appariva come il territorio onnicomprensivo in cui si trovavano
insieme l’etica e la storia della cultura,
l'economia politica e la scienza della religione, l’estetica e la demografia, la politica e l’etnologia, poiché
gli ‘oggetti di queste scienze si realizzavano nel quadro della società: la
scienza dell’uomo si configurava come
scienza della società. A_ questa
concezione della sociologia come scienza di tutto ciò che è umano in generale contribuì il fatto che essa
era una scienza nuova e che di
conseguenza verso di essa si affollavano tutti i possibili problemi che non trovavano altrove
una sede precisa così come un
territorio scoperto da poco diventa sempre, in
principio, l’eldorado di esistenze senza patria e sradicate:
l’inevitabile indeterminatezza c mancanza di protezione dei confini dànno a ognuno il diritto di insediarvisi.
Considerato però più da vicino, questo ammassamento di tutti i precedenti campi
del sapere non ne produce affatto uno
nuovo. Esso significa soltanto che tutte le scienze storiche, psicologiche,
normative vengono versate in un grande calderone al quale viene attaccata l'etichetta di sociologia. In tal modo si
sarebbe dunque trovato soltanto un nuovo
707, mentre tutto ciò che esso designa è
ià stabilito nel suo contenuto e nei suoi rapporti o viene prodotto
nell’ambito dei settori di ricerca precedenti. Il fatto che il pensiero e l’agire umano si svolgano nella
società e siano determinati da essa non
fa della sociologia la scienza onnicomprensiva di quello, così come non si
possono trasformare la chimica, la
botanica e l’astronomia in contenuti della psicologia per il fatto che i loro
oggetti diventano in definitiva reali
soltanto nella coscienza umana e sottostanno ai presupposti di questa.
Alla base di questo errore sta un fatto certamente frainteso, ma di per sé molto significativo.
L’intuizione che l’uomo è, in tutta la
sua essenza e in tutte le sue manifestazioni, determinato dal fatto di vivere
in azione reciproca con altri uomini deve certo condurre a una nuova forma di
considerazione in tutte le cosiddette
scienze dello spirito.” Non è ora più possibile spiegare i fatti storici, nel
senso più ampio della parola, cioè i
contenuti della cultura, i tipi di economia, le norme della moralità
partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai suoi interessi e, dove ciò non riesce, ricorrere
subito a cause metafisiche o magiche. Per esempio, a proposito del linguaggio
non si è più posti di fronte
all’alternativa se esso sia stato inventato da
individui geniali oppure dato da Dio agli uomini; nelle forme della religione non c’è più bisogno di
distinguere l’invenzione di astuti
sacerdoti e la rivelazione immediata, e così via. Piuttosto noi crediamo ora di
comprendere i fenomeni storici in base
all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in base alla somma e alla sublimazione di
innumerevoli contributi individuali, in
base al concretarsi delle energie sociali in formazioni che stanno e si
sviluppano di là dell'individuo. La sociologia, nella sua relazione con le
scienze esistenti, è quindi un nuovo
metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvicinarsi ai fenomeni di
tutti quei campi in modo nuovo. Con ciò
essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da quella in cui si
comportava a suo tempo l'induzione, la quale
penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze possibili, si acclimatava per così dire in
ognuna di esse e l’aiutava a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti
stabiliti. Ma come l’induzione non
costituisce per questo una scienza
particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così non lo diventa, per gli stessi motivi, la
sociologia. Nella misura in cui si
appoggia alla considerazione che l’uomo dev’essere compreso come essere sociale
e che la società è la portatrice di ogni accadere storico, essa non contiene
alcun oggetto che non venisse già
trattato in una delle scienze esistenti, ma è
soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico che non costituisce proprio per la sua applicabilità alla
totalità dei problemi una scienza a
sé. Ma quale può essere l’ oggetto
proprio e nuovo, la cui indagine fa della sociologia una scienza autonoma e dai
confini determinati? È ovvio che per questa sua legittimazione quale scienza
nuova non occorre la scoperta di un oggetto la cui esistenza fosse prima ignota. Tutto ciò che indichiamo
in generale come oggetto è un complesso
di determinazioni e di relazioni di cui
ciascuna, proiettata su una pluralità di oggetti, può diventare oggetto di una scienza particolare. Ogni
scienza poggia su un’astrazione, in
quanto considera la totalità di una qualche
cosa, che non possiamo afferrare in modo unitario per mezzo di nessuna scienza, secondo uno dei suoi
aspetti, cioè dal punto di vista di un
determinato concetto. Di fronte alla totalità della cosa e delle cose ogni
scienza si sviluppa attraverso la loro
scomposizione in base alla divisione del
lavoro in qualità e funzioni particolari, dopo che si è
trovato un concetto che permette di individuare quest'ultime e di
coglierle nel loro ricorrere nelle cose
reali secondo connessioni metodiche. Così, per esempio, i fatti linguistici che
vengono ora raggruppati a costituire il materiale della linguistica
comparativa esistevano già da lungo
tempo in fenomeni trattati scientifica
mente; ma quella scienza particolare sorse con la scoperta del concetto sotto il quale quei medesimi
fenomeni, prima separati nei diversi
complessi linguistici, si coordinano in maniera unitaria e vengono regolati da
leggi specifiche. Così anche la sociologia come scienza particolare potrebbe
trovare il suo oggetto particolare soltanto tracciando una nuova linea
attraverso certi fatti che, in quanto
tali, sono perfettamente noti; solo che fino
ad ora non era diventato operante appunto il concetto il quale consente di riconoscere l’aspetto di questi
fatti che cade su uella linea, come
l’aspetto comune ad essi tutti e costituente
un'unità metodico-scientifica. Di fronte ai fatti quanto mai complicati della società storica,
assolutamente non coordinabili sotto un
rico punto di vista scientifico, i concetti della politica, dell'economia,
della cultura ecc. producono tali serie conoscitive sia collegando certe parti
di quei fatti ad esclusione o con il concorso soltanto accidentale degli
altri in processi storici singolari, sia individuando i
raggruppamenti di elementi che,
indipendentemente dal singolo qui e ora,
comportano una connessione atemporalmente necessaria. Se deve dunque esserci una sociologia come scienza
particolare, occorre pertanto che il concetto di società in quanto tale
sottoponga i dati storico-sociali al di là della raccolta estrinseca di quei
fenomeni a un nuovo processo di
astrazione e di coordinamento, in modo
che certe determinazioni degli stessi, prima considerate in altre e molteplici
relazioni, vengano riconosciute come
reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’uricascienza. Questo punto di vista risulta da un’analisi
del concetto di società, che si può
designare come distinzione tra forma e
contenuto della società
sottolineando che qui si tratta propriamente soltanto di un paragone per
dare approssimativamente un nome all’antitesi degli elementi da distinguere:
quest’antitesi dovrà essere colta direttamente nel suo senso singolare, senza essere pregiudicata da altri
significati di questi nomi provvisori.
In ciò prendo le mosse dalla rappresentazione più ampia della società, da quella che evita il
più possibile la polemica sulla sua definizione: che essa esiste là dove più
individui entrano in azione reciproca.
Quest’azione reciproca sorge sempre da determinati impulsi o in vista di
determinati scopi. Impulsi erotici,
religiosi o semplicemente socievoli, scopi di
difesa e di attacco, di gioco e di acquisizione, di aiuto e di insegnamento, nonché innumerevoli altri,
fanno sì che l’uomo entri con altri in
una coesistenza, in un agire l'uno per l’altro,
con l’altro e contro l’altro, in una correlazione di situazioni, ossia che eserciti effetti sugli altri e ne
subisca dagli altri. Queste azioni
reciproche significano che dai portatori individuali di quegli impulsi e scopi
occasionali sorge un'unità, cioè appunto
una società . Infatti l’unità in senso
empirico non è altro che azione
reciproca di elementi: un corpo organico è
un'unità perché i suoi organi stanno tra loro in uno scambio reciproco di energie più stretto che con
qualsiasi essere esterno; uno stato è 470 perché tra i suoi cittadini sussiste
il corrispondente rapporto di influenze reciproche; e non potremmo considerare come unitario neppure il mondo se
ognuna delle sue parti non influenzasse
in qualche modo ogni altra parte, se la
reciprocità, comunque mediata, delle influenze fosse eliminata. Quella unità o
associazione può presentare gradi molto
diversi, secondo il modo e la prossimità dell’azione reciproca dall’effimera riunione per una passeggiata
alla famiglia, da tutti i rapporti validi
fino alla disdetta
all’appartenenza a uno stato, dal
fuggevole insieme di una compagnia di albergo all’intima unione di una gilda
medievale. Tutto ciò che negli individui, nei luoghi immediatamente concreti di
ogni realtà storica è presente come
impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazione psichica e movimento, in
modo che da ciò o in ciò sorga l’azione
su altri o la recezione delle loro azioni
tutto ciò lo designa come il
contenuto, quasi come la materia dell’associazione. In sé e per sé questi
materiali di cui è piena la vita, queste
motivazioni che la sospingono, non sono ancora di carattere sociale. Né la fame
o l’amore, né il lavoro o la religiosità,
né la tecnica o le funzioni e i risultati dell’intelligenza
costituiscono ancora così come sono dati
immediatemente, e secondo il loro senso puro
un'associazione: la costituiscono soltanto quando strutturano la
coesistenza isolata degli individui uno
accanto all’altro in determinate forme di coesistenza con e per l’altro, le quali rientrano sotto il concetto
generale dell’azione reciproca.
L'associazione è dunque la forma, realizzantesi in innumerevoli modi diversi, in cui gli
individui raggiungono insieme un'unità
sulla base di quegli interessi sensibili
o ideali, momentanei o durevoli,
coscienti o inconsci, che spingono in modo causale o che attirano
teleologicamente e nell’ambito della
quale questi interessi si realizzano.
In ogni fenomeno sociale esistente il contenuto e la forma sociale
costituiscono una realtà unitaria; una forma sociale non può acquistare un’esistenza scissa da ogni
contenuto, così come una forma spaziale
non può sussistere senza una materia di cui
essa costituisca la forma. Questi sono piuttosto gli elementi, inseparabili nella realtà, di ogni essere e
accadere sociale: un interesse, uno
scopo, un motivo e una forma o maniera di
azione reciproca tra gli individui, mediante la quale o nella cui forma quel contenuto acquista realtà
sociale. Ciò che rende appunto tale la
società , in ogni senso della parola
finora valido, sono evidentemente i modi sopra
indicati di azione reciproca. Un dato numero di uomini non diviene società per il fatto che in ognuno di
essi sussiste un contenuto vitale
determinato oggettivamente o che lo muove
individualmente; soltanto quando la vitalità di questi contenuti
acquista la forma dell’influenza reciproca, quando ha luogo un’azione di un
elemento sull’altro immediatamente
o mediata da un terzo elemento la pura e semplice prossimità spaziale o anche la successione temporale
degli uomini si traduce in una società. Se deve quindi esserci una scienza il
cui oggetto è la società e nient'altro,
essa può voler indagare solamente queste azioni reciproche, questi modi e forme
di associazione. Infatti tutto ciò che
si trova ancora nell’ambito della
società , tutto ciò che viene realizzato per mezzo e nel quadro di essa,
non è società, ma soltanto un contenuto che assume o viene assunto da questa forma di
coesistenza e che soltanto insieme ad
essa dà luogo alla formazione reale, che si chiama società
nel senso più vasto e usuale. Che questi due elementi inseparabilmente
uniti vengano separati nell’astrazione scientifica, che le forme di azione
reciproca o di associazione vengano collegate tra loro, concettualmente isolate
dai contenuti che soltanto mediante esse
diventano sociali, e metodicamente sottoposte a un punto di vista scientifico
unitario questo mi sembra fondare l’unica e intera possibilità
di una scienza specifica della società in quanto tale. Soltanto con essa i
fatti che designamo come realtà
storico-sociale sarebbero realmente proiettati sul piano del puro e semplice
sociale. Ma per quanto siffatte
astrazioni, che dalla complessità o
anche dall’unità della realtà producono la scienza, possano essere
stimolate dagli intimi bisogni del conoscere, una qualsiasi 472 GEORG SIMMEL loro legittimazione deve tuttavia risiedere
nella struttura dell’oggettività stessa: infatti soltanto qualche relazione
funzionale con la realtà di fatto può mettere al riparo da impostazioni sterili, da un carattere occasionale
dell’elaborazione concettuale della scienza. Se un naturalismo ingenuo sbaglia
pensando che il dato contenga già le
disposizioni analitiche o sintetiche
mediante le quali esso diventa contenuto di una scienza, tuttavia le
determinazioni che esso effettivamente possiede sono più o meno adatte a quelle disposizioni all’incirca come un ritratto deforma fondamentalmente la figura
naturale, eppure l'una si presta meglio
dell’altra a questa forma ad essa radicalmente estranea. A ciò si può poi
commisurare il migliore o peggiore
diritto di quei problemi e metodi scientifici. Così il diritto di sottoporre i fenomeni
storico-sociali all’analisi secondo forme e contenuti e di ricondurre i primi a
una sintesi si fonderà su due condizioni, le quali possono essere verificate
soltanto in base ai fatti. Si deve da un lato trovare che la medesima forma di associazione ricorre
con un contenuto del tutto diverso, per scopi completamente differenti, e che, al contrario, il medesimo interesse assume
come sue portatrici 0 modi di realizzazione
forme completamente diverse di associazione
così come le medesime forme geometriche si ritrovano nelle materie più diverse e la medesima
materia si configura nelle forme
spaziali più diverse, o come avviene tra le forme logiche e i contenuti materiali della
conoscenza. Entrambe le cose sono però
innegabili in quanto fatti. In gruppi
sociali i più diversi che si possano immaginare per i loro scopi e per il loro intero significato,
noi troviamo tuttavia i medesimi modi
formali di atteggiamento reciproco tra gli
individui. Sovra-ordinazione e subordinazione, concorrenza, imitazione, divisione del lavoro, formazione
di partiti, rappresentanza, contemporaneità del raggruppamento all’interno
e della chiusura verso l’esterno, nonché
innumerevoli aspetti simili, si ritrovano in una società statale e in una
comunità religiosa, in una banda di congiurati e in una consociazione economica,
in una scuola artistica e in una famiglia. Per quanto molteplici possano essere
gli interessi dai quali si perviene a queste
associazioni, le forme in cui esse si attuano possono tuttavia essere le medesime. E d'altra parte lo stesso
interesse può configurarsi in associazioni di forma molto differente: per
esempio, l’interesse economico si
realizza tanto mediante la concorrenza
quanto mediante l’organizzazione pianificata dei produttori, ora attraverso l'esclusione di altri gruppi
economici ora attraverso l'aggregazione ad essi; i contenuti della vita
religiosa stimolano, rimanendo identici nella sostanza, una forma di
comunità ora liberistica ora
centralistica; gli interessi che stanno a base
delle relazioni tra i sessi si soddisfano nella molteplicità quasi sterminata delle forme di famiglia;
l'interesse pedagogico conduce a una forma di rapporto ora liberale ora
dispotica tra maestro e allievo, ora ad
azioni reciproche individualistiche tra
il maestro e il singolo allievo, ora a forme più collettivistiche tra quello e il complesso degli allievi. Come
può restare identica la forma nella quale si attuano i contenuti più
divergenti, così può rimanere costante
la materia mentre la coesistenza degli
individui, che ne è portatrice, si muove in una molteplicità di forme. In tal
modo i fatti, benché materia e forma costituiscano nella loro concretezza
un’unità inscindibile della vita
sociale, offrono quella legittimazione del problema sociologico che esige la constatazione, l’ordinamento
sistematico, la motivazione psicologica e lo sviluppo storico delle forme pure
di associazione. Questo problema è direttamente contrapposto
al procedimento secondo il quale sono state finora create le scienze
sociali particolari. Infatti la
divisione del lavoro tra queste scienze è
stata completamente determinata dalla diversità dei contenuti. Economia politica e sistematica delle
organizzazioni ecclesiastiche, storia dell’organizzazione scolastica e storia
dei costumi, politica e teorie della
vita sessuale ecc. si sono divise il campo
dei fenomeni sociali in modo tale che una sociologia, la quale voleva comprendere la totalità di questi
fenomeni con la loro connessione di
forma e contenuto, non poteva risultare nient’altro che un riassunto di quelle
scienze. Finché le linee che .tracciamo
attraverso la realtà storica per suddividerla in campi di ricerca separati congiungono soltanto quei
punti che rivelano i medesimi contenuti di interessi, questa realtà non
concede nessun posto a una sociologia
particolare. Occorre piuttosto una linea
che, attraversando tutte quelle finora tracciate, sciolga il puro fatto dell’associazione, considerato
nelle sue molteplici configurazioni, dal suo collegamento con i contenuti più
divergenti e lo costituisca come campo particolare. Essa diventa in tal modo una scienza specifica nello stesso
senso in cui lo è diventata con tutte le ovvie differenze di metodo e di
risultati la teoria della conoscenza,
astraendo le categorie o funzioni del conoscere in quanto tali dalla
molteplicità delle conoscenze delle cose singole. Essa appartiene al tipo di
scienza il cui carattere specialistico
non consiste nel fatto che il loro oggetto
venga compreso insieme ad altri sotto un concetto complessivo superiore (come la filologia classica e la
germanistica, oppure l’ottica e
l’acustica), bensì nel fatto di accostare un intero campo di oggetti da un
punto di vista particolare. Non il suo
oggetto, ma la sua forma di considerazione, la particolare astrazione da
essa compiuta, la differenzia dalle altre scienze storico-sociali. Il concetto di società copre due significati
che devono essere tenuti rigorosamente
distinti nella trattazione scientifica. Essa
è da un lato il complesso degli individui associati, il materiale umano formato socialmente, che costituisce
l’intera realtà storica. Ma d’altro lato la società è anche la somma di
quelle forme di relazione, in virtù
delle quali dagli individui sorge
appunto la società nel primo senso. Così si definisce sfera
sia una materia formata in un determinato modo, sia anche, in senso matematico, la pura e semplice figura o
forma in virtù della quale dalla
semplice materia sorge la sfera nel primo
senso. Quando si parla di scienze della società in quel primo significato, il loro oggetto è tutto ciò che
accade nella e con la società; mentre la
scienza della società nel secondo senso ha per
oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali gli uomini si associano, e che costituiscono
quindi, nella loro configurazione autonoma, la società sensu strictissimo il che
evidentemente non viene alterato dal fatto che il contenuto dell’associazione, le modificazioni
specifiche del suo scopo e interesse
materiale decidono spesso o sempre della sua formazione specifica. Del tutto
errata sarebbe qui l’obiezione che tutte
queste forme gerarchie e
corporazioni, forme di concorrenza e
forme di matrimonio, amicizie e costumi socievoli, forme di potere da parte di una persona o di più
persone sono soltanto costellazioni di
avvenimenti in società già esistenti: se non esistesse già una società,
mancherebbe il presupposto e l’occasione per il sorgere di tali forme. Questa
concezione nasce dal fatto che in ogni
società a noi nota agisce un gran numero di
forme di connessione, cioè di forme di associazione del genere. Se anche una di esse venisse meno, rimarrebbe
ancor sempre la società , cosicché di
ciascuna può certo sembrare che si aggiunga a una società già compiuta o sorga
nell’ambito di essa. Ma se si immagina
di eliminare tutte queste forme, non rimane più nessuna società. La società
sorge soltanto quanto siffatte relazioni
reciproche, suscitate da certi motivi e interessi, diventano operanti. Se la
storia e le leggi della formazione complessiva che così si sviluppa sono quindi
certamente materia della scienza della
società nel senso più ampio, è pur vero che
essendosi questa già suddivisa nelle scienze sociali particolari a una sociologia nel senso più stretto, cioè
in quello che pone un compito
particolare, rimane soltanto più la considerazione delle forme astratte, le
quali non tanto producono l’associazione quanto piuttosto soro l’associazione.
La società, nel senso che può impiegare
la sociologia, è allora o l’astratto concetto generale che designa queste
forme, il genere di cui esse sono
specie, oppure la loro somma di volta in volta operante. Da questo concetto consegue inoltre che un
dato numero di individui può essere
società in grado maggiore o minore: a
ogni nuovo fiorire di formazioni sintetiche, a ogni costituzione di gruppi di partito, a ogni unificazione in
vista di un’opera comune o in comunione
di sentimento e di pensiero, a ogni
divisione più netta tra servi e padroni, a ogni pasto in comune, a ogni
adornarsi per gli altri, lo stesso gruppo diventa appunto più società di quanto lo fosse prima.
Non esiste mai società in generale, nel
senso che quei particolari fenomeni di
connessione si siano formati soltanto presupponendo la sua esistenza; infatti non esiste alcuna azione
reciproca in quanto tale, ma particolari
modi di essa, con il cui manifestarsi la
società esiste e che non sono né la causa né la conseguenza di questa, ma sono immediatamente già essa
stessa. Soltanto la sterminata quantità
e diversità con cui esse sono in ogni attimo operanti ha conferito al concetto
generale di società una realtà storica
apparentemente autonoma. Forse in questa ipostasi di una mera astrazione
risiede la causa della peculiare nebulosità e insicurezza che hanno circondato
tale concetto e le precedenti trattazioni della sociologia generale così come non si è fatta molta strada con il concetto di vita,
finché la scienza non lo ha considerato
come un fenomeno unitario di realtà immediata. La scienza della vita ha
raggiunto un terreno solido soltanto
quando sono stati indagati i singoli processi all’interno degli organismi la
cui somma o il cui tessuto costituisce la
vita, soltanto quando si è riconosciuto che la vita consiste solo
in questi processi particolari dentro e
tra gli organi e le cellule. Soltanto
in questa maniera si può cogliere ciò che nella
società è veramente società ,
così come soltanto la geometria determina
che cosa negli oggetti spaziali costituisce realmente la loro spazialità. La sociologia come
dottrina dell’essere-società dell’umanità
la quale può ancora essere oggetto di scienza sotto innumerevoli altri aspetti sta dunque con le altre scienze speciali
nello stesso rapporto in cui la geometria sta con le scienze fisico-chimiche della materia: essa
considera la forma mediante la quale la
materia si traduce in corpi empirici
la forma che certamente di per sé
sola esiste soltanto nell’astrazione, proprio come le forme di associazione.
Tanto la geometria quanto la sociologia
lasciano ad altre scienze l'indagine dei
contenuti che si presentano nelle loro forme, o dei fenomeni totali di cui esse considerano la pura e
semplice forma. C'è appena bisogno di
avvertire che quest’analogia con la geometria
non va più in là della chiarificazione che abbiamo qui tentato del problema di principio della sociologia.
Soprattutto la geometria ha il vantaggio di trovare già pronte nel suo
campo forme estremamente semplici, nelle
quali possono essere risolte le figure
più complicate; perciò è possibile, partendo da relativamente poche
determinazioni fondamentali, costruire l’intero
ambito delle figure possibili. Per quanto riguarda le forme di associazione non c'è da aspettarsi, almeno
per lungo tempo ancora, una risoluzione
anche soltanto approssimativa in elementi semplici. La conseguenza di questo
fatto è che le forme sociologiche, se
devono avere qualche determinatezza, valgono
soltanto per una cerchia relativamente ristretta di fenomeni. Quando si dice per esempio che la
sovra-ordinazione e la subordinazione sono una forma presente in quasi ogni
associazione umana, con questa
conoscenza generale si è fatta poca strada. Occorre piuttosto scendere alle
specie particolari di sovra-ordinazione e di subordinazione, alle forme
specifiche della loro realizzazione, che
perdono allora naturalmente ambito di validità in rapporto alla loro
determinatezza. Se l’alternativa che si
usa proporre ora a ogni scienza se cioè essa proceda alla scoperta di leggi
atemporalmente valide o alla
rappresentazione e alla comprensione di processi storicoreali singolari non esclude comunque innumerevoli forme intermedie nell’esercizio effettivo della
scienza, il concetto problematico qui stabilito
non viene toccato fin dall'inizio dalla
necessità di questa scelta. Questo oggetto astratto dalla realtà può essere da un lato considerato sotto il
profilo delle relazioni legali che,
poste semplicemente nella struttura oggettiva degli elementi, rimangono indifferenti alla loro
realizzazione spaziotemporale: esse sono appunto valide, poco importa che le
realtà storiche le mettano in azione una o mille volte. D'altra parte quelle forme di associazione possono
anche essere considerate nel loro verificarsi in un luogo e in un tempo, nel
loro sviluppo storico entro determinati
gruppi. La loro determinazione sarebbe, in quest’ultimo caso, uno scopo
autonomo per così dire storico, mentre
nel primo sarebbe materiale induttivo per
la scoperta di rapporti legali atemporali. Sulla concorrenza, per esempio, siamo edotti dai campi più
diversi: la politica e l'economia
politica, la storia delle religioni e quella dell’arte ce ne presentano innumerevoli esempi. In base a
questi fatti si tratta allora di
stabilire che cosa significhi la concorrenza come forma pura di atteggiamento umano, in quali
circostanze essa sorga, come si
sviluppi, quali modificazioni subisca per effetto della specie particolare del suo oggetto, da
quali contemporanee determinazioni formali e materiali di una società essa
venga potenziata o frenata, come la concorrenza tra gli individui si differenzia da quella tra i gruppi in breve, che cosa essa sia come forma di relazione degli uomini tra
loro, la quale può accogliere in sé
tutti i contenuti possibili ma, attraverso l’identità del suo manifestarsi nella
grande varietà di questi ultimi,
dimostra di appartenere a un campo regolato da leggi proprie e legittimato all’astrazione. Nei fenomeni
complessi ciò che è uniforme viene messo
in evidenza con una specie di sezione trasversale, mentre ciò che in essi è
difforme cioè in questo caso gli interessi sostanziali viene d’altra parte paralizzato. In modo corrispondente si deve dunque
procedere con tutti i grandi rapporti e
le azioni reciproche che formano la società:
con la formazione dei partiti, con l'imitazione, con la formazione di
classi, di cerchie e di suddivisioni secondarie, con l’incorporarsi delle
azioni sociali reciproche in formazioni particolari di carattere oggettivo, personale, ideale,
con lo sviluppo e il ruolo delle
gerarchie, con la rappresentanza di
collettività da parte di singoli, con il
significato di un antagonismo comune per la coesione interna del gruppo. A tali
problemi principali si aggiungono poi, sostenendo in modo uniforme la
determinatezza formale dei gruppi, dei fatti da una parte più specifici e dall’altra più complicati, come per esempio
il significato dell’apartitico , quello del
povero come elemento
organico delle società, quello della
determinatezza numerica degli elementi dei gruppi, del primus inter pares e del
tertius gaudens. Come procedimenti più
complicati si dovrebbero ricordare l’incrociarsi di cerchie molteplici nelle
singole personalità, la particolare importanza del segreto nella formazione di
cerchie, la modificazione dei caratteri
di gruppo a seconda che essi comprendano
individui che si trovano insieme localmente oppure individui separati da
elementi estranei, nonché innumerevoli altri fenomeni. Con ciò lascio impregiudicata come già si è accennato la questione se nella diversità dei
contenuti si presenti un’eguaglianza assoluta delle forme. L'eguaglianza
approssimativa che esse mostrano in
circostanze materialmente molteplici
così come il fenomeno contrario è sufficiente per ritenerlo possibile in
linea di principio; nel fatto che ciò non si realizzi completamente si
manifesta appunto la differenza tra l’accadere psichico-storico, con le sue
fluttuazioni e complicazioni mai interamente razionalizzabili, e la capacità
della geometria di separare con assoluta purezza le forme sottoposte al’ suo
concetto dalla loro realizzazione nella
materia. Si tenga pure presente che
questa eguaglianza del modo di azione reciproca in qualsiasi diversità del
materiale umano e oggettivo, e viceversa, è
anzitutto soltanto uno strumento per compiere e legittimare nei singoli fenomeni complessivi la separazione
scientifica di forma e contenuto. Metodologicamente questa sarebbe stata
richiesta anche nel caso che le
costellazioni di fatto non lasciassero pervenire a quel procedimento induttivo
che fa cristallizzare l’eguale rispetto
al differente, proprio come l’astrazione geometrica della forma spaziale di un
corpo sarebbe legittimata anche qualora
questo corpo così formato si presentasse di fatto una sola volta nel mondo. Che ciò implichi una difficoltà di
procedimento è innegabile. Si prenda per
esempio il fatto che, verso la fine del
Medioevo, certi maestri di corporazione erano spinti, a causa dell'estensione delle relazioni commerciali,
a un approvvigionamento di materiali, a un impiego di apprendisti, a nuovi mezzi per attrarre i clienti che non si
conciliavano più con i vecchi princìpi
corporativi secondo i quali ogni maestro doveva
avere lo stesso nutrimento
dell’altro, e che cercavano per
questo di porsi al di fuori della stretta unione prima esistente. Considerato sotto il profilo della forma
puramente sociologica, che astrae dal
contenuto specifico, ciò vuol dire che l’ampliamento della cerchia con la quale
l’individuo è legato in virtù delle sue
azioni procede di pari passo con una maggiore configurazione della specificità
individuale, con una maggiore libertà e differenziazione reciproca dei singoli.
Ma non esiste, a quanto vedo, nessun
metodo sicuramente efficace per ricavare
questo significato sociologico da quel fatto complesso, realizzato in
virtù del suo contenuto. Quale configurazione meramente sociologica, quale particolare rapporto
reciproco di individui, facendo
astrazione dagli interessi e dagli impulsi che rimangono nell’individuo e dalle
condizioni di carattere puramente oggettivo, siano contenuti nel processo
storico ciò può essere spiegato rispetto a quest’ultimo in
molteplici direzioni; non soltanto, ma i
fatti storici che ricoprono la realtà di determinate forme sociologiche possono
essere indicati soltanto nella loro
totalità materiale, e manca un mezzo per rendere dimostrabile, e attuabile in tutte le circostanze, la loro
separazione in un momento materiale e in
un momento sociologico-formale. Ci si
comporta qui allo stesso modo che con la dimostrazione di una proposizione geometrica sulla base
dell’inevitabile accidentalità e
rozzezza di una figura disegnata. Ma il matematico può ora contare sul fatto che il concetto della
figura geometrica ideale è noto e operante,
e viene intimamente considerato come l’unico senso ora essenziale del tratto di
gesso o d’inchiostro. Ma qui non si può partire dal presupposto
corrispondente, in quanto non si può
ricavare logicamente dal fenomeno totale
complessivo ciò che è realmente la pura associazione. Occorre qui affrontare il rischio di parlare
di procedimento intuitivo per quanto distante esso sia dall’intuizione
metafisico-speculativa di una
particolare messa a fuoco con la quale
si attua quella separazione e che può essere insegnata soltanto adducendo degli esempi, finché essa non sarà
colta con metodi esprimibili
concettualmente e di sicuro affidamento. Questa
difficoltà è accresciuta dal fatto che non soltanto l’impiego del concetto sociologico fondamentale manca di un
appiglio indubitabile, ma che anche quando si opera efficacemente con
esso, per molti aspetti degli
avvenimenti l'inserimento sotto di esso o sotto il concetto della
determinatezza di contenuto rimane
sovente arbitrario. Si potrà per esempio avere opinioni opposte sulla questione se e fino a qual punto il
fenomeno del povero sia di natura
sociologica, ossia un risultato dei rapporti
formali all’interno di un gruppo, condizionato dalle correnti e dagli spostamenti generali che si producono
necessariamente nel confluire degli
uomini, oppure se la povertà sia da considerare come una determinazione
soltanto materiale di certe esistenze individuali, esclusivamente dall’angolo
visuale del contenuto di interesse economico. I fenomeni storici potranno
essere considerati, nel loro complesso,
da tre punti di vista distinti in linea
di principio: da quello delle esistenze individuali che costituiscono i portatori reali delle
situazioni; da quello delle forme di
azione reciproca formale, che certamente si attuano anche soltanto in esistenze individuali, ma
che vengono ora considerate non già
sotto il profilo di queste, bensì sotto quello
del loro insieme, del loro esistere l’una con e per l’altra; da quello dei contenuti concettualmente
formulabili di situazioni e avvenimenti,
in presenza dei quali non si indaga in questo caso sui loro portatori o sui loro rapporti, bensì
sul loro significato puramente
oggettivo l'economia e la tecnica, l’arte
e la scienza, le norme giuridiche e i
prodotti della vita affettiva. Questi
tre punti di vista si intrecciano continuamente, e la necessità metodologica di tenerli distinti si
scontra a ogni passo con la difficoltà di ordinare ogni elemento in una serie
indipendente dall'altra, e con l'aspirazione a un'immagine complessiva della
realtà, comprendente tutte le posizioni. Né si
trà mai stabilire per tutti i casi quanto profondamente un elemento, fondante e fondato, penetri
nell'altro, con la conseenza che
nonostante tutta la chiarezza e precisione metodologica
dell’impostazione di principio a stento
si potrà evitare l’equivocità: la trattazione
del singolo problema sembra rientrare
ora nell’una ora nell’altra categoria, e anche nell’ambito di una categoria non
sempre può essere delimitata con sicurezza rispetto alla forma di trattazione
dell’altra. Del resto spero che la
metodologia della sociologia qui proposta risulterà più sicura e forse addirittura più chiara
attraverso le analisi dei suoi problemi
singoli che non da questa fondazione astratta. Nelle cose dello spirito non è
fenomeno tanto raro ma è anzi presente in tutti i campi di problemi
più generali e più profondi che ciò che dobbiamo chiamare, con
inevitabile paragone, il fondamento non
sia così solido come la costruzione eretta al di sopra. Anche la pratica
scientifica non potrà fare a meno,
particolarmente in campi finora inesplorati, di una certa misura di procedimento istintivo, i cui
motivi e le cui norme acquistano
soltanto in seguito una coscienza del tutto
chiara e un'elaborazione concettuale. E se il lavoro scientifico non può mai adagiarsi completamente su quei
modi di procedere ancora indistinti, istintivi, adottati soltanto nella ricerca
particolare, esso sarebbe d'altra parte condannato alla sterilità se di fronte a compiti nuovi si volesse porre come
condizione già del primo passo una
metodologia compiutamente formulata.
Nell'ambito del campo di problemi che viene costituito separando le
forme di azione reciproca associativa dal fenomeno totale della società alcune parti delle
indagini qui proposte si collocano
ormai, per così dire, quantitativamente al di là dei a. Considerando l’infinita complicazione
della vita sociale, nonché i concetti e
metodi delineantisi appunto dalla prima
sgrossatura con i quali essa dev'essere padroneggiata
spiritualmente, sarebbe una pretesa immodesta voler già ora sperare in una
chiarezza di domande e in un’csattezza di risposte che arrivi fino in fondo. Mi
sembra più dignitoso fare fin
dall’inizio quest'ammissione, poiché in questo modo almeno il primo
passo è più netto, piuttosto che mettere
in questione, con l'affermazione della
conclusione, addirittura gweszo significato di tentativi del genere.
compiti altrove riconosciuti come sociologici. Appena si pone la questione delle influenze reciproche tra gli
individui, la cui somma produce quella
coesione nella società, si rivela immediatamente una serie anzi, per così dire, un mondo di forme
di relazione che finora non venivano comprese affatto nella scienza della società, o lo erano senza
cogliere la loro importanza fondamentale e vitale. In complesso la sociologia
si è propriamente limitata a quei fenomeni sociali nei quali le forze in azione reciproca sono già cristallizzate in
base ai loro portatori immediati, per lo
meno a costituire unità ideali. Stati e unioni
sindacali, gruppi sacerdotali e forme di famiglia, costituzioni economiche ed eserciti, corporazioni e
comuni, formazione di classi e divisione
del lavoro industriale questi e i
grandi organi e sistemi del genere
sembrano costituire la società ed
esaurire l’ambito della scienza che la riguarda. È ovvio che, quanto più una regione di interessi e una
direzione di azione sociale è grande,
significativa e dominante, tanto più presto il
vivere e l’agire immediato, inter-individuale, si realizzerà in formazioni oggettive, in un'esistenza
astratta al di là dei processi particolari e primari. Ma questa osservazione
richiede un'integrazione importante in due direzioni. Oltre a quei
fenomeni macroscopici, che si impongono
da tutte le parti per la loro estensione
e per la loro importanza esterna, esiste un numero sterminato di forme di relazione e di modi di
azione reciproca tra gli uomini che sono
di dimensioni minori e meno appariscenti nei casi particolari, ma che vengono
offerti da questi casi particolari in
una quantità inestimabile e che, sia pure infiltrandosi tra le formazioni
sociali più comprensive, per così dire
ufficiali, sono quelli che soli dànno origine alla società quale noi la conosciamo. La limitazione ai primi
fenomeni ricorda la scienza primitiva
del corpo umano interno, che si limitava ai
grandi organi, nettamente delimitati, come il cuore, il fegato, i polmoni, lo stomaco ecc., e trascurava
invece gli innumerevoli tessuti, privi
di una denominazione popolare o non conosciuti,
senza i quali quegli organi più distinti non darebbero mai luogo a un corpo vivente. Con le formazioni
della specie sopra indicata, che
costituiscono gli oggetti tradizionali della scienza della società, non sarebbe assolutamente
possibile comporre la vita reale della
società così come si presenta nell’esperienza: GEORG SIMMEL 483 senza l’intervento di innumerevoli sintesi,
singolarmente meno comprensive alle quali devono essere in gran parte
dedicate queste indagini la vita sociale si sfalderebbe in una
molteplicità di sistemi discontinui. Ciò che rende più difficile fissare scientificamente tali forme sociali poco
appariscenti, le rende al tempo stesso
infinitamente importanti per la più profonda comprensione della società: il
fatto cioè che in generale esse non sono
ancora consolidate in formazioni stabili, sovra-individuali, ma mostrano la società per così dire allo
status nascens naturalmente non nel suo
primo inizio assoluto, storicamente imperscrutabile, bensì in quello che si ha
ogni giorno e ogni ora. L'associazione
tra gli uomini si allaccia, si scioglie e si riallaccia continuamente, come un
eterno fluire e pulsare che incatena gli individui, anche quando non perviene a
organizzazioni vere e proprie. Qui si
tratta quasi di processi microscopico-molecolari all’interno del materiale
umano, i quali però costituiscono l’accadere reale che si concatena o si
ipostatizza in quelle unità e sistemi
macroscopici e stabili. Il fatto che gli uomini si guardano l’un l’altro e che sono
reciprocamente gelosi; il fatto che si
scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono simpatici o antipatici prescindendo
completamente da tutti gli interessi
tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione altruistica produce nel tempo un vincolo
indissolubile; il fatto che uno chiede
la strada all’altro o si veste e si adorna per
l’altro tutte le mille relazioni
che si riflettono da persona a persona,
momentanee o durevoli, coscienti o inconscie, superficiali o ricche di effetti,
da cui questi esempi sono scelti del
tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo questi fili vengono filati, vengono lasciati
cadere, ripresi di nuovo, sostituiti da
altri, intessuti con altri. Qui risiedono le
azioni reciproche accessibili
soltanto alla microscopia psicologica
tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la tenacia ed elasticità, tutta la varietà e
unitarietà di questa vita così chiara e
così enigmatica della società. Si tratta di applicare il principio delle azioni infinitamente
numerose e infinitamente piccole anche
alla prossimità caratteristica della società, così come si è dimostrato efficace nelle scienze che
studiano la successione la geologia, la
teoria dello sviluppo biologico, la storia. I passi incommensurabilmente
piccoli producono la connessione dell’unità storica, e le azioni reciproche,
altrettanto impercettibili, tra persona e persona producono la connessione
dell’unità sociale. Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti fisici e spirituali, della causazione
reciproca di piacere e di sofferenza,
dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e antagonistici, soltanto questo costituisce la
meravigliosa indissolubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui
i suoi elementi acquistano, perdono,
spostano incessantemente il loro
equilibrio. Forse con questo riconoscimento la scienza della società può raggiungere il punto che per la
scienza della vita organica ha
rappresentato l’inizio della microscopia. Se fino ad allora l'indagine era limitata ai grandi
organi corporei, nettamente divisi, le cui differenze di forma e di funzione si
presentavano evidenti, soltanto a questo punto il processo vitale si è mostrato nel suo legame con i suoi più
piccoli portatori le cellule
e nella sua identità con le innumerevoli e incessanti azioni reciproche tra di esse. Soltanto
osservando come le cellule si uniscano o si distruggano tra loro, si assimilino
o si influenzino chimicamente, è
possibile comprendere a poco a poco come
il corpo crei la sua forma, la mantenga o la cambi. I grandi organi, nei quali questi
fondamentali portatori della vita e le
loro azioni reciproche si sono riuniti in formazioni particolari e in funzioni percepibili a
livello macroscopico, non avrebbero mai
permesso di comprendere la connessione della
vita se quegli innumerevoli processi, che si svolgono tra i più piccoli elementi e sono per così dire
soltanto riassunti da quelli macroscopici, non si fossero svelati come la vita
vera e propria, la vita fondamentale. AI di là di ogni analogia
sociologica o metafisica tra le realtà
della società e dell'organismo si tratta
qui soltanto dell’analogia del metodo di trattazione e del suo sviluppo; della scoperta dei tenui fili,
delle relazioni minime tra gli uomini,
dalla cui ripetizione continuativa vengono fondate e sorrette tutte quelle
grandi formazioni che, diventate
oggettive, presentano una storia vera e propria. Questi processi primari, che creano la società dall’immediato
materiale individuale, sono quindi da sottoporre a una considerazione
formale accanto ai processi e alle
formazioni superiori e più complicate; e le particolari azioni reciproche che
si offrono in queste misure non del
tutto consuete all’analisi teorica devono essere esaminate come forme
costitutive della società, come parti dell'associazione in generale. Anzi, a
questi tipi di relazione apparentemente privi di importanza sarà opportuno
dedicare una considerazione tanto più
approfondita quanto più la sociologia è
solita trascurarli. Ma proprio con
questa svolta le indagini qui progettate
sembrano destinate a diventare nient'altro che capitoli della psicologia, in ogni caso della psicologia
sociale. Certamente non c’è nessun
dubbio che tutti i processi e gli istinti sociali hanno la loro sede nelle anime, che
l’associazione è un fenomeno psichico e che nel mondo della realtà corporea non
c'è nessuna analogia col suo fatto
fondamentale, che cioè una pluralità di elementi si traduce in unità, poiché in
esso tutto rimane confinato
all’insuperabile esteriorità dello spazio. Qualsiasi accadimento esterno che
possiamo indicare come sociale sarebbe un
gioco di marionette, non più comprensibile e non più significa tivo dell’ammassarsi delle nuvole o
dell’incrociarsi dei rami di un albero,
se non fossimo in grado di riconoscere in modo del tutto evidente motivazioni psichiche,
sentimenti, pensieri, bisogni non soltanto come portatori di quegli elementi
esteriori, ma anche come loro elemento
essenziale e come l’unico che
propriamente ci interessi. La comprensione causale di ogni accadere
sociale sarebbe quindi raggiunta di fatto quando le constatazioni psicologiche
e il loro sviluppo permettessero di dedurre completamente questi avvenimenti in
conformità a leggi psicologiche per quanto problematico ci appaia questo
concetto. E non c'è neppure nessun dubbio che gli aspetti dell’esistenza
storico-sociale che noi possiamo cogliere non sono altro che concatenazioni psichiche, che
ricostruiamo con una psicologia istintiva o con una psicologia metodica e
riduciamo a un’interna plausibilità, al senso di una necessità psichica degli
sviluppi in questione. In questo senso ogni storia, ogni analisi di una situazione sociale è un esercizio di sapere
psicologico. Tuttavia è della massima
importanza metodologica, e addirittura decisivo per i princìpi delle scienze
dello spirito in generale, riconoscere che la trattazione scientifica di fatti
psichici non ha affatto bisogno di essere psicologia; anche dove facciamo
ininterrottamente uso di regole e di conoscenze psicologiche, dove la spiegazione di ogni fatto singolo è possibile
soltanto per via 486 GEORG SIMMEL psicologica
come nell’ambito della sociologia
il senso e l'intenzione di questo
procedimento non devono necessariamente sfociare nella psicologia, cioè nella
legge del processo psichico, che può portare soltanto un determinato contenuto,
ma deve pervenire proprio a questo
contenuto e alle sue configurazioni. Abbiamo qui una differenza soltanto di
grado rispetto alle scienze della natura
esterna che, in quanto fatti della vita
spirituale, si svolgono anch'esse
in ultima analisi soltanto nell’ambito dello spirito: la scoperta di
ogni verità astronomica o chimica, così
come la riflessione su di essa, è un avvenimento della coscienza che una psicologia compiuta
potrebbe dedurre integralmente soltanto
da condizioni e sviluppi psichici. Ma
quelle scienze sorgono in quanto assumono come proprio oggetto, in luogo
dei processi psichici, i loro contenuti e le loro connessioni, all'incirca come noi
consideriamo un dipinto nel suo
significato estetico e storico-artistico e non lo deduciamo dalle oscillazioni fisiche che costituiscono
i suoi colori, e che naturalmente creano
e sorreggono l’intera esistenza reale del dipinto. È sempre na realtà che non possiamo
abbracciare scientificamente nella sua
immediatezza e totalità, ma che dobbiamo cogliere da una serie di punti di
vista separati e configurare quindi in una pluralità di oggetti di scienze tra
loro indipendenti. Ciò è necessario anche nei confronti di quegli avvenimenti
psichici i cui contenuti non si raccolgono in un mondo spaziale indipendente e non si contrappongono
visivamente alla loro realtà psichica.
Per esempio le forme e le leggi di una
lingua, che pure è certamente formata soltanto da forze dell’anima e per
scopi dell'anima, vengono tuttavia trattate da una scienza linguistica che
prescinde del tutto da quella realizzazione data del suo oggetto e che lo rappresenta, lo
analizza e lo costruisce soltanto nel
suo contenuto oggettivo, insieme alle formazioni esistenti soltanto in questo contenuto
stesso. Analogamente avviene con'i fatti dell’associazione. Che gli uomini si
influenzino l’un l’altro, che uno faccia o subisca qualcosa, che presenti un essere o un divenire, perché altri
esistono o si manifestano, agiscono o
sentono tutto questo è naturalmente un
fenomeno psichico, e la realizzazione storica di ogni singolo caso può essere compresa solamente attraverso una
rielaborazione psicologica, attraverso la plausibilità di serie psicologiche,
attraverso GEORG SIMMEL 487 l’interpretazione di ciò che è constatabile
dall’esterno per mezzo di categorie psicologiche. Ma una particolare
intenzione scientifica può trascurare
del tutto questo accadere psichico in
quanto tale e seguirne, scomporne, metterne in relazione i contenuti così come si coordinano sotto il
concetto di associazione. Si osservi per esempio come il rapporto di un
individuo più potente con altri più
deboli, che ha la forma del primus inter pares, graviti in modo tipico nel
senso di tradursi in una posizione di
potere assoluto del primo e di escludere a poco a poco gli aspetti di eguaglianza. Benché nella realtà
storica questo sia un processo psichico,
a noi interessa ora soltanto dal punto di
vista sociologico come si
dispongano qui i diversi stadi di
sovra-ordinazione e di subordinazione, fino a qual punto in una determinata relazione un rapporto di
sovra-ordinazione sia compatibile con un
rapporto di equiparazione in altre relazioni, e a partire da quale punto di
preponderanza esso distrugga completamente quest’ultimo; se la connessione, la
possibilità di cooperazione sia maggiore
nel primo o nel successivo stadio di
tale sviluppo, e così via. Oppure si constata che gli antagonismi raggiungono
il massimo accanimento quando sorgono sulla
base di una precedente comunanza o appartenenza reciproca che sia ancora in qualche modo sentita, per
cui si indica come uno degli odi più
feroci quello tra consanguinei. Ciò potrà
essere reso comprensibile, anzi descritto, come avvenimento soltanto in
termini psicologici. Ma, considerata come formazione sociologica, non interessa la serie psichica
che si svolge in ciascuno dei due individui, bensì la sinossi di entrambe sotto
la categoria dell’unione e della
discordia. Anche se la descrizione
singolare o tipica del processo può sempre essere soltanto psicologica,
ciò che ora importa è stabilire fino a qual punto il rapporto tra due individui o partiti possa
implicare antagonismo e appartenenza reciproca, per lasciare ancora al tutto
la colorazione di quest’ultima o dargli
quella del primo; quali specie di
appartenenza reciproca, sotto forma di ricordo o di istinto insopprimibile, forniscano i mezzi
per danneggiare in modo più crudele e
più profondamente lesivo di quello possibile nel caso di una precedente
estraneità; in breve, come quell’osservazione debba essere presentata quale
realizzazione di forme di relazione tra
gli uomini, quale particolare combinazione di categorie sociologiche essa
rappresenti. Riprendendo un accenno precedente, si può paragonare questo
procedimento pur con tutte le differenze alla deduzione geometrica che si compie su una figura disegnata sulla lavagna.
Tutto ciò che qui può essere dato e
visto sono tratti di gesso riportati fisicamente; ma ciò che noi intendiamo
nella trattazione geometrica non sono
questi tratti, bensì il loro significato dal punto di vista del concetto geometrico, che è
completamente eterogeneo rispetto a
quella figura fisica come disposizione di particelle di gesso
mentre d'altra parte possono essere inquadrati in categorie scientifiche
anche sotto la specie di questa formazione
fisica, facendo oggetto di indagini particolari per esempio la loro origine fisiologica o la loro
composizione chimica o la loro
impressione ottica. I dati della sociologia sono dunque processi psichici, la cui realtà immediata si offre in
primo luogo alle categorie psicologiche.
Ma queste, pur essendo indispensabili
per la descrizione dei fatti, rimangono al di fuori dello scopo dell’osservazione sociologica, il quale
consiste piuttosto soltanto nella realtà oggettiva dell’associazione sorretta
dai processi psichici e spesso
descrivibile solamente per mezzo di questi
così come, per esempio, una composizione teatrale contiene dall’inizio
alla fine processi psicologici, può essere compresa soltanto psicologicamente,
e tuttavia la sua intenzione non risiede in
conoscenze psicologiche, bensì nelle sintesi che i contenuti dei processi psichici costituiscono dal punto di
vista del tragico, della forma
artistica, dei simboli vitali ?. Se la
dottrina dell’associazione in quanto tale, distinta da tutte le scienze sociali che sono determinate
da un particolare contenuto della vita
sociale, è apparsa come l’unica scienza
legittimata ad assumere senz'altro il nome di scienza della società,
l'importante non sta naturalmente in questa denominazio a. L'introduzione di una nuova forma di
considerazione dei fatti deve sostenere
i diversi aspetti del suo metodo mediante analogie con campi riconosciuti; ma soltanto il processo forse senza fine in cui il principio determina le sue
attuazioni nell’ambito della ricerca concreta, e in cui queste attuazioni legittimano il
principio come fecondo, può ripulire
tali analogie dagli aspetti in cui la diversità di materia copre
l’eguaglianza formale che è ora decisiva. Ma questo processo le libera della
loro equivocità soltanto nella misura in
cui le rende superflue. ne, bensì nella scoperta di quel nuovo complesso di
problemi particolari. La polemica su ciò
che significhi propriamente sociologia mi sembra assolutamente priva di rilievo
finché verte soltanto sul riconoscimento
di questo titolo ad ambiti di problemi già esistenti e trattati. Se invece per indicare
questo insieme di compiti si sceglie il titolo di sociologia con la pretesa
di coprire completamente ed
esclusivamente il concetto di sociologia, ciò dev'essere ancora giustificato
nei riguardi di un altro gruppo di
problemi che, non meno degli altri, cercano innegabilmente al di là delle scienze della società
determinate in base al contenuto di pervenire ad asserzioni sulla società
in quanto tale e considerata nel suo
complesso. AI pari di ogni altra
scienza esatta, rivolta alla comprensione
immediata del dato, anche la scienza sociale è delimitata da due campi filosofici. Il primo comprende le
condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare,
che non possono trovare sistemazione in
questa perché stanno piuttosto già a base di essa; nel secondo questa ricerca
particolare viene recata a completamenti
e a connessioni e messa in relazione con domande e concetti, che non trovano
posto nell’ambito dell'esperienza e del
sapere immediatamente oggettivo. Quello
è la teoria della conoscenza, questo la metafisica dei campi particolari in questione. La seconda implica
propriamente due problemi, che però
nell’effettiva trattazione concettuale restano
di solito giustamente indivisi: l’insoddisfazione per il carattere frammentario delle conoscenze particolari,
per la rapida fine delle constatazioni
oggettive e delle serie dimostrative conduce
all'integrazione di queste lacune con i mezzi della speculazione; e
appunto questi mezzi servono all'esigenza parallela di integrare la mancanza di
connessione e la reciproca estraneità di quei frammenti nell'unità di un quadro
complessivo. Accanto a questa funzione
metafisica, orientata verso il grado del
conoscere, un’altra procede verso una diversa dimensione dell’esistenza, nella quale risiede il
significato metafisico dei suoi
contenuti: noi la esprimiamo come il senso o lo scopo, come la sostanza assoluta tra i fenomeni
relativi, o anche come il valore o il
significato religioso. Di fronte alla società questa attitudine spirituale suscita domande come
questa: la società è lo scopo
dell’esistenza umana o un mezzo per l'individuo? non 490 GEORG SIMMEL è essa per l’individuo un mezzo, ma al
contrario un ostacolo? il suo valore
consiste nella sua vita funzionale o nella produzione di uno spirito oggettivo
o nelle qualità etiche che essa desta
nei singoli? nei tipici stadi di sviluppo delle società si manifesta un
“analogia cosmica, in modo tale che le relazioni sociali degli uomini debbano essere inserite in una
forma o in un ritmo generale, che di per
sé non compare nel fenomeno ma che fonda
tutti i fenomeni, e che guida anche le forze dei fatti materiali? può esserci in generale un
significato metafisico-religioso di collettività, oppure questo significato è
riservato alle anime individuali? Ma queste e innumerevoli domande analoghe
non mi sembrano possedere quell’autonomia categoriale, quel caratteristico rapporto tra oggetto e metodo che le
legittimerebbe a fondare la sociologia
come una scienza nuova, coordinata con quelle
esistenti. Tutte queste sono infatti senz'altro domande filosofi che, e il fatto che esse abbiano assunto come
loro oggetto la società significa
soltanto l’estensione a un campo più vasto di
un modo di conoscenza già dato nella sua struttura. Che si riconosca oppure no la filosofia come
scienza, la filosofia della società non
ha alcun diritto di sottrarsi ai vantaggi o agli svantaggi della sua appartenenza alla
filosofia in generale attraverso la costituzione in una particolare scienza
sociologica. Non diversamente stanno le
cose con i problemi filosofici che non
hanno la società come loro presupposto (come nel caso dei precedenti), ma che ricercano invece
essi stessi i presupposti della società
non già in senso storico, come se si
dovesse descrivere il sorgere di una qualche società particolare o le condizioni fisiche e antropologiche
sulla cui base può sorgere una società. Né si tratta qui degli stimoli
particolari che muovono il loro soggetto
quando incontra altri soggetti e i cui
modi sono descritti dalla sociologia. Si tratta invece di questo: quando un soggetto siffatto sussiste, quali
sono i presupposti della sua coscienza
di costituire un essere sociale? In quelle
parti considerate di per sé non si ha ancora una società; ma essa è già reale nelle forme di azione reciproca:
quali sono dunque le condizioni interne
e di principio in base alle quali gli
individui forniti di tali stimoli dànno origine alla società in generale, l’a priori che rende possibile e
forma la struttura empirica dell'individuo in quanto essere sociale? Come
sono possibili non soltanto le
formazioni particolari che sorgono empiricamente, e che rientrano nel concetto
generale di società, ma la società in
generale come forma oggettiva di anime soggettive ? COME È POSSIBILE LA
SOCIETÀ? Kant poteva porre e dare una risposta alla questione fondamentale
della sua filosofia come è possibile la
natura? soltanto perché per lui la
natura non era altro che la rappresentazione della natura. Ciò non significa
soltanto che il mondo è la mia
rappresentazione , e che noi possiamo quindi parlare anche della natura solamente in quanto essa è
un contenuto della nostra coscienza; ma
significa che ciò che chiamiamo natura è
un modo particolare in cui il nostro intelletto raccoglie, ordina, dà forma
alle sensazioni. Queste sensazioni
date del colorato e del
gustabile, dei suoni e delle temperature, delle resistenze e degli odori che attraversano la nostra coscienza nella successione accidentale di
un'esperienza vissuta soggettiva, non
sono di per sé ancora natura , ma lo
diventano attraverso l’attività dello spirito che le compone in oggetti e in
serie di oggetti, in sostanze e in proprietà, in collegamenti causali. Così
come ci sono dati immediatamente, gli elementi
del mondo non posseggono per Kant quella conmessione che sola costituisce l'unità comprensibile, e
conforme a leggi della natura, o meglio
che significa appunto l’essere-natura di quei
frammenti di mondo in sé incoerenti e manifestantisi senza regola. Così l’immagine kantiana del mondo si
delinea in un contrappunto quanto mai
caratteristico: le nostre impressioni
sensibili sono per lui puramente soggettive, poiché dipendono dall’organizzazione fisico-psichica che in altri esseri potrebbe essere
diversa e dall’accidentalità dei suoi
stimoli, e esse diventano oggetti quando
vengono accolte dalle forme del nostro
intelletto, configurate da queste in regolarità stabili e in un'immagine coerente della natura j ma d'altra parte quelle sensazioni sono pur sempre il dato reale, il
contenuto del mondo da assumere nella sua invariabilità e la garanzia di
un 492 GEORG SIMMEL essere indipendente da noi, cosicché ora
proprio quelle elaborazioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti,
di connessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò
che riceviamo dall’esistenza, come le
funzioni dell’intelletto stesso che
esse pure immutabili avrebbero con un altro materiale
sensibile formato una natura diversa per
contenuto. La natura è per Kant un
determinato modo di conoscere, un’immagine che si sviluppa attraverso le nostre categorie
conoscitive e in esse. La questione:
come è possibile la natura? ossia quali
sono le condizioni che devono sussistere
perché vi sia una natura si risolve quindi per lui mediante la ricerca
delle forme che costituiscono l’essenza del nostro intelletto e che in tal modo
producono la natura in quanto tale. Si
sarebbe tentati di trattare in modo analogo la questione delle condizioni 4 priori in base alle quali
è possibile la società. Infatti anche
qui sono dati elementi individuali che in
certo senso sussistono anch'essi nella loro esteriorità reciproca, al pari delle sensazioni, e raggiungono la
loro sintesi nell’unità di una società
soltanto attraverso un processo di coscienza che pone l'essere individuale del singolo
elemento in relazione con quello
dell’altro in determinate forme e secondo determinate regole. Ma la differenza decisiva tra l’unità
di una società e l’unità della natura
consiste in questo: che la seconda
dal punto di vista kantiano qui
presupposto sussiste esclusivamente nel
soggetto conoscente e viene prodotta esclusivamente da lui sulla base degli elementi sensibili di
per sé privi di legame, mentre l’unità
sociale viene realizzata senz'altro dai
suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi, e non ha bisogno di alcun osservatore. Il
principio kantiano secondo il quale la
connessione non può mai risiedere nelle
cose, poiché viene posta in essere soltanto dal soggetto, non vale per ia connessione sociale, che di fatto
si compie piuttosto immediatamente
nelle cose che qui sono le anime individuali. Anch’essa
rimane naturalmente, come sintesi, qualcosa
di puramente psichico e senza parallelo con le formazioni spaziali e con
le loro azioni reciproche. Ma l’unificazione non ha qui bisogno di nessun fattore al di fuori dei
suoi elementi, perché ciascuno di questi
esercita la funzione che nei confronti del mondo esterno compie l’energia
psichica dell'osservatore: la coscienza
di costituire con gli altri un’unità è qui effettivamente tutta l’unità in
questione. Naturalmente ciò non designa
la coscienza astratta del concetto di unità, bensì le innumerevoli
relazioni singolari, il sentimento e il sapere di questo determinare e venir
determinato nei confronti degli altri, e d’altra parte non esclude affatto che un terzo
osservatore compia ancora tra le persone una sintesi fondata soltanto su di
lui, al pari che tra gli elementi
spaziali. Quale settore dell’essere dato all'intuizione esterna debba essere
raccolto in un’unità non risulta dal suo contenuto immediato e semplicemente
oggettivo, ma viene determinato dalle
categorie del soggetto e in base ai suoi
bisogni conoscitivi. La società è invece l’unità oggettiva che non ha bisogno dell'osservatore non compreso
in essa. Le cose della natura sono da
una parte assai più distanti tra loro
che non le anime: l’unità di un uomo con l’altro che è
implicita nel comprendere, nell'amore, nell'opera comune non trova alcuna analogia nel mondo
spaziale, in cui ogni essere occupa il
suo posto che non può dividere con nessun
altro. Ma d’altra parte i frammenti dell’essere spaziale si compongono,
nella coscienza dell’osservatore, in un’unità che di nuovo non viene raggiunta
dall’insieme degli individui. Infatti,
dal momento che gli oggetti della sintesi sono qui esseri indipendenti,
centri psichici, unità personali, essi si ribellano contro quell’assoluto
comporsi nell'anima di un altro soggetto, al
quale deve adattarsi il
disinteresse delle cose
inanimate. Così un gruppo di uomini è un’unità in misura molto superiore realiter, ma idealiter in misura molto
inferiore di quanto un tavolo, sedie, un
divano, un tappeto e uno specchio non costituiscano l’ammobiliamento di una
stanza o di quanto un fiume, un prato,
alberi, una casa non costituiscano un paesaggio , o, su un dipinto, un quadro .
La società è la mia rappresentazione , ossia poggia sull’attività
della coscienza, in un senso del tutto
diverso dal mondo esterno. Infatti l’altra
anima ha per me appunto la stessa realtà che possiedo io, cioè una realtà che si differenzia molto da quella
di una cosa materiale. Per quanto Kant garantisca che gli oggetti spaziali
hanno esattamente la medesima sicurezza della mia propria esistenza, con
quest’ultima possono essere intesi soltanto i singoli contenuti della mia vita
soggettiva: infatti il fondamento del
rappresentare in generale, il sentimento dell'io, possiede una incondizionatezza e una incrollabilità che
non viene conseguita da nessuna
particolare rappresentazione di un oggetto esterno materiale. Ma anche il fatto del tu possiede
per noi si possa o no giustificarla questa stessa sicurezza; € come causa o come effetto di questa sicurezza noi sentiamo
il tu come qualcosa di indipendente dalla nostra rappresentazione di esso,
qualcosa che esiste di per sé esattamente come la nostra propria esistenza. Che questo per-sé dell’altro non
ci impedisca tuttavia di farne una
nostra rappresentazione, che qualcosa che non si può risolvere affatto nel nostro
rappresentare divenga ciononostante contenuto, e quindi anche prodotto di
questo rappresentare questo è lo schema
e il problema psicologico-gnoseologico più profondo dell’associazione. Entro la
nostra coscienza noi distinguiamo molto
esattamente tra la fondamentalità dell'io, presupposto di ogni rappresentare,
la quale non partecipa alla problematica
dei suoi contenuti che non si può mai mettere completamente da parte, e questi
contenuti che, col loro andare e venire,
con la loro dubitabilità e correggibilità, si
presentano come semplici prodotti di quella forza ed esistenza assoluta e ultima del nostro essere psichico.
Ma noi dobbiamo trasporre nell’altra
anima, anche se in ultima analisi la rappresentiamo pure, appunto queste condizioni,
(e) piuttosto questi aspetti
incondizionati del nostro io; essa possiede per noi quella misura estrema di
realtà che il nostro io possiede di fronte
ai suoi contenuti e che siamo sicuri debba spettare anche a quell’altra anima nei confronti dei suoi
contenuti. In queste circostanze la
questione come sia possibile la società riveste un senso metodologico completamente diverso
dalla questione come sia possibile la natura. Infatti alla seconda rispondono
le forme conoscitive mediante le quali
il soggetto compie la sintesi di elementi dati nella natura , mentre alla prima rispondono invece
le condizioni poste 4 priori negli elementi stessi, in virtù delle quali essi si associano realmente
nella sintesi società . In certo senso
l’intero contenuto di quest'opera, così come
si sviluppa in base al principio che abbiamo stabilito, è un inizio di risposta a tale questione. Infatti
essa indaga i processi che si compiono
in ultima analisi negli individui e che condizionano il loro essere-società non già come cause antecedenti rispetto a questo risultato, bensì come
processi parziali della sintesi che noi
chiamiamo riassuntivamente società. Ma la questione dev'essere intesa anche in
un senso più fondamentale. Ho detto che
la funzione di attuare l’unità sintetica, che nei confronti della natura riposa sul soggetto
osservatore, nei confronti della società sarebbe passata appunto agli elementi
di questa. La coscienza di costituire
una società non è presente all'individuo
in maniera astratta, ma ognuno sa pur sempre
che l’altro è legato a lui, per quanto questo sapere dell’altro come associato, questo conoscere tutto il
complesso come società si attui di solito soltanto in particolari contenuti
concreti. Ma forse le cose qui non
stanno diversamente che nel caso dell’
unità del conoscere , secondo la quale noi procediamo nei processi della coscienza coordinando un
contenuto concreto con l’altro, senza
tuttavia averne una coscienza distinta se non
in rare e tardive astrazioni. La questione è dunque la seguente: qual è in linea del tutto generale e 4 priori
il fondamento, quali presupposti devono
agire affinché i particolari processi
concreti della coscienza individuale siano realmente processi di socializzazione, quali elementi in essi
contenuti permettono che la loro
funzione sia, in termini astratti, quella di costruire un’unità sociale in base agli individui? Le
apriorità sociologiche avranno lo stesso doppio significato di quelle che rendono
possibile la matura: da una parte esse determineranno, in maniera più compiuta o più difettosa, i
processi reali di associazione; d’altra parte esse costituiscono i presupposti
ideali e logici della società perfetta,
anche se forse mai realizzata in questa
perfezione così come la legge causale da
un lato vive e opera negli effettivi processi
della conoscenza e dall'altro costituisce la forma della verità in quanto
sistema ideale di conoscenze compiute, indipendentemente dal fatto che questa
venga realizzata attraverso tale
dinamica psichica temporale e relativamente accidentale oppure no, e
indipendentemente dalla maggiore o minore approssimazione della verità
realmente presente nella coscienza alla verità idealmente valida. È una pura questione di titolo se l'indagine
di queste condizioni del processo di socializzazione debba essere definita gnoseologica oppure no, poiché la formazione
che ne deriva, e che è regolata dalle sue forme, non consiste in
conoscenze, bensì in processi e stati
esistenziali pratici. Ma ciò che qui
intendo, e che dev'essere esaminato dal punto di vista delle sue condizioni come il concetto generale di
associazione, è qualcosa di conoscitivo:
la coscienza di associarsi o di essere associati. Forse lo si definirebbe meglio un sapere che
non un conoscere. Infatti il soggetto
non sta qui di fronte a un oggetto di cui
esso acquisti gradualmente un'immagine teorica, ma la coscienza
dell’associazione è immediatamente il suo sostegno o il suo intimo significato. Si tratta dei processi
dell’azione reciproca, i quali per
l'individuo significano il fatto non
astratto, ma tuttavia suscettibile di
espressione astratta di essere
associato. Quali forme debbano stare a base di essi, ossia quali categorie specifiche l’uomo debba per così
dire recare con sé affinché sorga questa
coscienza, quali siano perciò le forme che
la coscienza così sorta la
società come un fatto di sapere deve
sorreggere, tutto ciò può ben essere chiamato la teoria della conoscenza della società. Cercherò qui
di delineare come esempio di una tale
indagine alcune di queste condizioni o
forme 2 priori dell’associazione, le quali non possono certamente essere
designate con ur4 sola parola come le categorie kantiane. I. L'immagine che un uomo si fa di un altro
in base al contatto personale è
condizionata da certi spostamenti che non
sono semplici illusioni dovute a un'esperienza incompiuta, a deficiente acutezza della vista, a pregiudizi
simpatici o antipatici, ma sono modificazioni di principio della costituzione
dell’oggetto reale. E queste si muovono anzitutto in due dimensioni. Noi vediamo l’altro in qualche misura
generalizzato, forse perché non ci è dato di rappresentare pienamente in noi un’individualità
divergente dalla nostra. Ogni riproduzione di un'anima è condizionata dalla somiglianza con essa, e
sebbene questa non sia assolutamente
l’unica condizione del conoscere psichico
poiché appare necessaria da un lato una contemporanea diseguaglianza, per poter acquistare distanza
e oggettività, dall’altro una capacità intellettuale che rimane al di là
dell’eguaglianza o diseguaglianza dell'essere
tuttavia il conoscere perfetto presupporrebbe un’eguaglianza perfetta.
Sembra che ogni uomo abbia in sé un punto di individualità più profondo
che non può essere internamente
riprodotto da nessun altro uomo nel
quale questo punto sia qualitativamente divergente. E il fatto che questa esigenza non sia
conciliabile, già sotto il profilo logico, con quella distanza e valutazione
oggettiva sulle quali poggia inoltre la rappresentazione dell’altro, dimostra
soltanto che ci è negato il sapere perfetto intorno all’individualità dell’altro; e tutti i rapporti degli uomini
tra loro sono condizionati dal diverso grado di questo difetto. Quale che sia
la sua causa, la conseguenza è però in
ogni caso una generalizzazione
dell'immagine psichica dell’altro, uno sfumare dei contorni che aggiunge all’unicità di questa immagine una
relazione con altre. Noi rappresentiamo ogni uomo con particolari conseguenze per il nostro
rapporto pratico con lui come il
tipo di uomo al quale la sua
individualità lo fa appartenere; lo
pensiamo, insieme a tutta la sua singolarità, sotto una categoria
generale che certamente non lo ricopre del tutto e che egli non ricopre del tutto, e in virtù di tale
determinazione questo rapporto si
differenzia dal rapporto tra il concetto generale e il particolare che in esso rientra. Per
conoscere l’uomo noi non lo vediamo
nella sua pura individualità, ma lo vediamo sorretto, elevato o anche abbassato dal tipo generale
al quale lo assegniamo. Anche quando questa trasformazione è così
impercettibile che non possiamo più
riconoscerla immediatamente, anche quando vengono meno tutti i consueti
concetti caratterologici morale o
immorale, libero o vincolato, signorile o servile ecc. noi denominiamo internamente l’uomo secondo
un tipo tacito col quale il suo puro
essere per sé non coincide. E ciò
conduce ancora un gradino più in giù. Proprio in base alla piena unicità di una personalità
noi ci formiamo un'immagine di essa che
non è identica alla sua realtà, ma che
tuttavia non è un tipo generale, ma è piuttosto l’immagine che egli mostrerebbe se fosse per così dire
interamente se stesso, se realizzasse,
in senso buono o cattivo, la possibilità ideale insita in ogni uomo. Noi siamo tutti frammenti non
soltanto dell’uomo in generale, ma anche di noi stessi. Noi siamo tutti abbozzi
non soltanto del tipo uomo in generale, non soltanto del tipo del buono e del cattivo e simili, ma
siamo abbozzi anche di quella
individualità e unicità di noi stessi
non più denominabile in linea di principio la quale circonda, quasi disegnata con linee
ideali, la nostra realtà percepibile. Lo sguardo dell’altro integra però questo materiale
frammentario in quel che noi non siamo
mai puramente e interamente. Egli non può
vedere soltanto uno accanto all’altro i frammenti che sono realmente
dati, ma come noi completiamo la macchia cieca nel nostro campo visivo in modo tale che non si è
coscienti di essa, così da questo
materiale frammentario perveniamo alla
compiutezza della sua individualità. La prassi della vita ci spinge a formare l’immagine dell’uomo
soltanto in base ai frammenti reali che
conosciamo empiricamente di lui; ma essa
poggia appunto su quelle modificazioni e integrazioni, sulla trasformazione di quei frammenti dati nella
generalità di un tipo e nella
compiutezza della personalità ideale.
Questo procedimento di principio, anche se in realtà raramente attuato
fino alla perfezione, opera nell’ambito della società già esistente come l’a
priori delle ulteriori azioni reciproche
che si sviluppano tra gli individui. Entro una cerhia legata da una qualche comunanza di professione o di interessi
ogni membro vede l’altro non già in modo puramente empirico, ma in base a un 4 priori che questa cerchia impone
a ogni coscienza che ne faccia parte.
Nelle cerchie degli ufficiali, dei fedeli di
una chiesa, dei funzionari, dei dotti, dei familiari ognuno vede l’altro
partendo dall’ovvio presupposto che egli è un membro della sua cerchia. Dalla
base di vita comune scaturiscono certe
supposizioni attraverso le quali ci si guarda reciprocamente come attraverso un
velo. Certamente questo non soltanto
nasconde il carattere specifico della personalità, ma le conferisce una
nuova forma, fondendosi con la sua consistenza individuale-reale in una
formazione unitaria. Noi vediamo l’altro
non già semplicemente come individuo, bensì come collega o camerata o compagno di partito, in breve come
coabitatore del medesimo mondo particolare;
e questo presupposto inevitabile, che
opera in modo del tutto automatico, è uno dei mezzi per portare la sua personalità e la sua realtà
nella rappresentazione dell’altro alla
qualità e alla forma richiesta dalla sua sociabilità. Ciò vale evidentemente per il rapporto tra
appartenenti a cerchie diverse. Il
borghese che fa la conoscenza di un ufficiale
non può affatto liberarsi dal pensiero che questo individuo è un
ufficiale; e per quanto l’essere ufficiale possa far parte di questa individualità, non ne fa però parte
nell’identica forma schematica in cui, nella rappresentazione dell’altro, ne
pregiudica l’immagine. E così accade al Protestante di fronte al Cattolico,
al commerciante di fronte al
funzionario, al laico di fronte al
sacerdote, e così via. Ovunque abbiamo qui offuscamenti del profilo della realtà ad opera della
generalizzazione sociale, i quali ne
precludono in linea di principio la scoperta nell’ambito di una società
socialmente assai differenziata. Così l’uomo
incontra nella rappresentazione dell’uomo spostamenti, sottrazioni e
integrazioni poiché la generalizzazione
è sempre, nel medesimo tempo, più o meno
dell’individualità rispetto a tutte queste categorie operanti 4 priori:
rispetto al suo tipo come uomo, all’idea
del suo proprio compimento, alla collettività sociale a cui egli appartiene. Su
tutto ciò aleggia come principio euristico del conoscere l’idea della sua determinatezza reale,
assolutamente individuale. Ma mentre sembra che
l'acquisizione di questa determinatezza conduca a una relazione
correttamente fondata con lui, di fatto quelle modificazioni e formazioni nuove che ostacolano la sua
conoscenza ideale sono proprio le condizioni
in virtù delle quali diventano possibili le relazioni, che sole conosciamo come
sociali, all’incirca come in Kant le categorie dell'intelletto, che formano i
dati immediati in oggetti del tutto
nuovi, rendono esse soltanto conoscibile
il mondo dato. II. Un’altra categoria
sotto la quale i soggetti guardano se
stessi e si guardano reciprocamente, in modo da poter produrre così formati
la società empirica, può venir formulata con la proposizione apparentemente banale che
ogni elemento di un gruppo non è
soltanto parte di una società, ma è inoltre
ancora qualcosa. Ciò opera come 4 priori sociale nella misura in cui la parte dell’individuo che non è
rivolta alla società o non si risolve in
essa mon se ne sta semplicemente priva di
relazione accanto alla sua parte socialmente significativa, cioè non è soltanto un corpo estraneo alla società
a cui questa, volente o nolente, fa
posto. Il fatto che l’individuo non sia per
certi aspetti elemento della società costituisce la condizione positiva
della possibilità di esserlo con altri aspetti del suo essere: il modo del suo
essere-associato è determinato o condeterminato
dal modo del suo non-essere-associato. Dalle indagini seguenti risulteranno alcuni tipi il cui significato
sociologico è fissato, addirittura nel
suo nucleo e nella sua essenza, dal fatto che essi sono in qualche modo esclusi dalla società
per la quale la loro esistenza è
significativa: così avviene nel caso dello straniero, del nemico, del criminale, perfino del
povero. Ma ciò non vale soltanto per
questi caratteri generali, ma anche, in innumerevoli modificazioni, per
qualsiasi fenomeno individuale. Il fatto
che ogni momento ci trovi circondati da relazioni con uomini e che il suo contenuto ne sia determinato
direttamente o indirettamente non parla affatto in senso contrario;
l’inserimento sociale in quanto tale riguarda appunto esseri che non sono
completamente abbracciati da esso. Del funzionario sappiamo che non è soltanto funzionario, del commerciante che
non è soltanto commerciante,
dell’ufficiale che non è soltanto ufficiale; e questo essere extra-sociale, il
suo temperamento e il precipitato dei
suoi destini, i suoi interessi e il valore della sua personalità,
per quanto poco possano modificare la
sostanza delle attività compiute quale funzionario, commerciante, militare, gli
conferiscono tuttavia ogni volta per
chiunque gli stia di fronte una determinata zuance e intrecciano nella sua
immagine sociale imponderabili elementi
extra-sociali. L'intero sistema di rapporti degli uomini nell’ambito delle
categorie sociali sarebbe diverso se ognuno si presentasse all’altro soltanto
come quel che è nella sua categoria,
come portatore del ruolo sociale che proprio ora gli spetta. Certamente gli
individui, al pari delle professioni e delle situazioni sociali, si
differenziano secondo la misura di
quell’inoltre che essi possiedono o ammettono
insieme con il loro contenuto sociale. Un polo di questa serie è costituito per esempio dall'uomo nei rapporti
di amore o di amicizia. Qui ciò che
l’individuo riserva per sé, al di là degli
sviluppi e delle attività rivolte all’altro, può avvicinarsi
quantitativamente al valore-limite zero; siamo in presenza di un’unica vita,
che può essere considerata o viene vissuta per così dire da due lati
per un verso dal lato interno, dal terminus a quo del soggetto, e poi anche, come vita del
tutto immutata, nella direzione
dell’individuo amato, sotto la categoria del suo termi nus ad quem, che essa accoglie senza residuo.
Sotto una tendenza del tutto diversa il sacerdote cattolico presenta un
fenomeno formalmente identico, nel senso che la sua funzione ecclesiastica
ricopre e ingloba completamente il suo essere-per-sé individuale. Nel primo di
questi casi estremi l’ inoltre
dell’attività sociologica scompare, perché il suo contenuto si è
risolto completamente nel rivolgersi
all'individuo che gli sta di fronte, nel secondo perché il tipo corrispondente
di contenuti è scomparso in linea di
principio. Il polo opposto è offerto per
esempio dai fenomeni della cultura moderna determinata dall’economia
monetaria, nella quale l'uomo come produttore, compratore o venditore, e in
generale come soggetto di una prestazione, si avvicina all’ideale
dell’oggettività assoluta. Prescindendo dalle posizioni elevate, di carattere
direttivo, la vita individuale e cioè il tono della personalità complessiva è
scomparso dalla prestazione; gli uomini
sono soltanto i portatori di un
equilibrio di prestazione e contro-prestazione regolato secondo norme oggettive, e tutto ciò che non fa parte
di questa pura oggettività è anche di
fatto sparito da essa. L’inoltre ha
assorbito completamente in sé la personalità con la sua colorazione particolare,
la sua irrazionalità, la sua vita interiore,
lasciando a quelle attività sociali
nettamente separate soltanto le
energie ad esse specifiche. Gli
individui sociali si muovono sempre tra questi estremi, in modo tale che le energie e le
determinatezze rivolte al centro interno
mostrano un qualche significato per le attività e il modo di sentire validi per l’altro.
Infatti nel caso-limite perfino la coscienza che quest'attività o
questo stato d’animo sociale sia
qualcosa di separato dal resto dell’uomo e 707 entri, con ciò che egli è e significa altrimenti,
nella relazione sociologica, ha un'influenza del tutto positiva sull’atteggiamento
che il soggetto assume di fronte agli
altri e che gli altri assumono di fronte
ad esso. L’a priori della vita sociale empirica è il fatto che la vita non è del tutto sociale;
noi formiamo le nostre relazioni
reciproche non soltanto con la riserva negativa di una parte della nostra personalità che non entra
in esse, e questa parte influisce sui
processi sociali nell'anima non soltanto mediante connessioni psicologiche
generali, ma proprio il fatto formale
che essa sta al di fuori di tali processi determina il modo di questa influenza. Il fatto che le società siano forma 502 GEORG SIMMEL zioni derivanti da esseri che stanno allo
stesso tempo dentro e fuori di esse è anche
alla base di una delle più importanti
formazioni sociologiche: quella, cioè, per cui tra una società e i suoi individui può sussistere anzi forse, in modo più aperto o più latente, sussiste sempre un rapporto simile a quello tra due partiti. In tal modo la società produce
forse la più cosciente, almeno la più generale configurazione di una forma
fondamentale della vita in genere: il fatto che l’anima individuale non può mai stare in una connessione senza
stare contemporaneamente al di fuori di essa, che non è mai inserita in un ordinamento senza trovarsi nel medesimo tempo
contrapposta ad esso. Ciò va dalle
connessioni trascendenti e generalissime
fino alle più singolari e accidentali. L'uomo religioso si sente completamente circondato dall’essere divino,
come se fosse soltanto un battito della vita divina, e la sua propria sostanza
è data senza riserve, anzi in una
mistica indistinzione con quella
dell’assoluto. Eppure, per dare anche soltanto un senso a questa fusione, egli deve conservare un qualche
essere autonomo, un termine personale a
lui contrapposto, un io separato per il
quale la risoluzione in questo essere divino onnicomprensivo rappresenta un compito infinito, un processo
che non sarebbe né metafisicamente
possibile né religiosamente percepibile se
non partisse da un essere per sé del soggetto: l’essere-uno con Dio è condizionato nel suo significato
dall’essere-altro rispetto a Dio. AI di
là di questo innalzamento nel trascendente la
relazione che lo spirito umano rivendica, attraverso tutta la sua storia, con la natura come un tutto
rivela la medesima forma. Noi ci
sappiamo da un lato inseriti nella natura, come
uno dei suoi prodotti che sta da eguale tra eguali accanto a qualsiasi altro, come un punto che le sue
materie ed energie raggiungono e
abbandonano, nello stesso modo in cui circolano
attraverso l’acqua corrente e la pianta in fiore. E tuttavia l’anima ha
il sentimento di un essere-per-sé indipendente da tutti questi intrecci e da queste relazioni, che si
designa col concetto così malsicuro
sotto il profilo logico di libertà,
il quale offre a tutto questo
meccanismo, di cui noi siamo pur
tuttavia un elemento, un termine contrapposto e un ripagamento che
culmina nel radicalismo per il quale la natura viene considerata soltanto una rappresentazione
presente nelle anime umane. Come però qui la natura, con tutta la sua
propria innegabile legalità e con la sua
dura realtà, è pur sempre inclusa nell’io, così d’altra parte questo io, con
tutta la sua libertà e il suo essere per
sé, con la sua antitesi nei confronti della
mera natura, è pur sempre un elemento di essa. La connessione usurpatrice della natura è appunto tale che
essa comprende questo essere autonomo,
anzi spesso ostile ad essa, e che ciò
che nel suo più profondo sentimento vitale sta al di fuori dev'essere invece un suo elemento. Questa
formula vale egualmente per il rapporto tra gli individui e le singole cerchie
dei loro legami sociali, oppure se questi vengono riassunti nel concetto o nel sentimento di essere associati
in generale per il rapporto tra gli individui in quanto tale.
Noi ci sappiamo da una parte prodotti
della società: la serie fisiologica degli antenati, i loro adattamenti e le
loro fissazioni, le tradizioni del loro
lavoro, del loro sapere e delle loro credenze, l’intero spirito del passato cristallizzato in forme oggettive
determinano le disposizioni e i contenuti della nostra vita, cosicché può
sorgere la questione se l'individuo sia
qualcosa di diverso da un recipiente nel
quale si mescolano in misura variabile elementi preesistenti. Infatti, anche se questi elementi fossero in
ultima analisi prodotti dagli individui, il contributo di ognuno sarebbe una
grandezza infinitesimale, e soltanto mediante il loro riunirsi in specie e in
società si produrrebbero i fattori nella cui sintesi consisterebbe poi di nuovo
l’individualità che si può specificare.
D'altra parte noi ci sappiamo membri della società, intessuti con il nostro processo vitale, con il suo
senso e il suo scopo in modo tanto poco
indipendente nella sua prossimità come nella
sua successione. Come non possediamo un essere per noi in quanto esseri naturali, perché la
circolazione degli elementi naturali
pervade tanto noi quanto formazioni completamente prive di un io, e l'eguaglianza di fronte
alle leggi naturali risolve senza
residui la nostra esistenza in un mero esempio della loro necessità, così in
quanto esseri sociali non viviamo intorno a un centro autonomo, ma siamo in
ogni attimo composti dalle relazioni
reciproche con gli altri; e in tal modo siamo
comparabili con la sostanza corporea, che per noi sussiste soltanto più
come somma di molteplici impressioni sensibili, ma non come esistenza di per sé. Noi sentiamo però
che questa diffusione sociale non risolve completamente la nostra
personalità. Non si tratta soltanto
delle riserve già avanzate, di particolari
contenuti il cui senso e il cui sviluppo risiedono 4 priori solamente
nell'anima individuale e non trovano assolutamente posto nella connessione sociale; non si tratta
soltanto della formazione dei contenuti
sociali, la cui unità come anima individuale non ha essa stessa carattere sociale, così come la
forma artistica nella quale confluiscono
le macchie di colore sulla tela non è derivabile dall’essenza chimica dei
colori. Si tratta, in primo luogo, del
fatto che l’intero contenuto della vita, per quanto possa essere completamente spiegato in base agli
antecedenti sociali e alle relazioni
reciproche, dev'essere contemporaneamente considerato sotto la categoria della
vita individuale, come esperienza vissuta dell’individuo e interamente
orientata verso di esso. L'uno e l’altro
elemento non sono che categorie diverse
sotto le quali ricade lo stesso contenuto, proprio come la medesima
pianta può essere vista ora nelle condizioni biologiche del suo sviluppo, ora nella sua utilizzabilità
pratica, o ancora sotto il profilo del
suo significato estetico. Il punto di vista dal quale l’esistenza dell’individuo viene ordinata e
compresa può essere scelto tanto all’interno quanto all’esterno di esso; la
totalità della vita, con tutti i suoi contenuti socialmente derivabili, può essere tanto concepita come il destino
centripeto del suo portatore, quanto
valere con tutte le sue parti riservate
all’individuo come prodotto ed elemento
della vita sociale. Il fatto
dell’associazione colloca dunque l’individuo nella duplice posizione dalla
quale sono partito: egli è compreso in
essa e contemporaneamente si contrappone ad essa, è un elemento del suo
organismo e al tempo stesso è un tutto organico
concluso, è un essere per essa e un essere per sé. Ma l’aspetto essenziale e il senso del particolare 4
priori sociologico che si fonda su tale
fatto è che tra individuo e società l’interno e
l'esterno non costituiscono due determinazioni sussistenti l’una accanto all’altra benché si possano occasionalmente sviluppare
anche in questo modo, fino all’ostilità reciproca ma definiscono la posizione del tutto
unitaria dell’uomo che vive socialmente. La sua esistenza non è soltanto
parzialmente sociale e parzialmente
individuale in una divisione di contenuti; ma si colloca sotto la categoria fondamentale,
formativa, non ulteriormente riducibile di una unità che non possiamo esprimere
altrimenti che mediante la sintesi o la contemporaneità delle due determinazioni logicamente contrapposte
dell'essere membro della società e
dell’essere per sé, dell’essere prodotto e
compreso dalla società e del vivere in base al proprio centro e per il proprio centro. La società non
consiste soltanto come è risultato sopra di esseri che in parte non sono
associati, ma anche di esseri che si
sentono da una parte esistenze completamente sociali, e dall’altra, conservando
lo stesso contenuto, completamente
personali. E questi non sono due punti di vista
che coesistano privi di relazione, come quando si considera per esempio lo stesso corpo sotto il profilo ora
del suo peso, ora del suo colore, ma
costituiscono insieme l’unità che chiamiamo
essere sociale, la categoria sintetica
nello stesso modo in cui il
concetto di causazione è un'unità 4 priori, anche se include entrambi gli elementi, del tutto differenti
per il loro contenuto, del causante e
del causato. Il fatto che abbiamo a disposizione questa formazione, questa capacità di
produrre sulla base di esseri ognuno dei quali può sentirsi come
ferminus a quo e terminus ad quem dei
suoi sviluppi, dei suoi destini e delle sue
qualità un concetto di società
che fa leva proprio su tali elementi, e di concepire quest’ultimo come terminus
a quo e terminus ad quem di quelle
vitalità e determinatezze esistenziali, costituisce un 4 priori della società
empirica, e rende possibile la sua forma quale la conosciamo. III. La società è una formazione composta
da elementi diseguali. Infatti anche dove tendenze democratiche o
socialistiche programmano o parzialmente
raggiungono un’ eguaglianza , si tratta
sempre soltanto di un’eguaglianza di valore delle persone, delle prestazioni,
delle posizioni, mentre un’eguaglianza di
qualità, di contenuti vitali e di destini tra gli uomini non può neppure venir presa in considerazione. E dove
d'altra parte una popolazione ridotta in
schiavitù costituisce soltanto una massa
come nei grandi regimi dispotici orientali quest’eguaglianza riguarda sempre solamente
certi aspetti dell’esistenza, per
esempio quelli politici o economici, ma mai la sua totalità, in quanto le sue qualità congenite, le sue
relazioni personali, i suoi destini
vissuti avranno inevitabilmente una specie di unicità e di insostituibilità non
soltanto per il lato interno della vita,
ma anche per le sue relazioni reciproche con altre esistenze. Se ci si rappresenta la società come uno schema
puramente oggettivo, essa sì rivela
quale ordinamento di contenuti e di prestazioni
che stanno in una relazione reciproca per spazio, tempo, concetti,
valori, permettendo così di prescindere dalla personalità, dalla forma dell'io che sostiene la loro
dinamica. Se quella diseguaglianza di
elementi fa apparire ogni prestazione o qualità nell’ambito di questo ordine
come caratterizzata individualmente, come inequivocabilmente fissata al suo
posto, la società si configura come un
cosmo la cui molteplicità è sì sterminata
nel suo essere e nel suo movimento, ma in cui ogni punto può essere costituito e svilupparsi soltanto in
quel determinato modo, se la struttura del tutto non dev'essere mutata. Ciò che
è stato detto della costruzione del
mondo in generale che nessun granello di sabbia potrebbe essere
formato e collocato diversamente da
com'è, senza che questo abbia come presupposto e come conseguenza una
modificazione dell'intera esistenza
vale anche per la costruzione della società, considerata come un
intreccio di fenomeni qualitativamente determinati. Quest'immagine della
società in generale trova un’analogia (come
in una miniatura, infinitamente semplificata e per così dire stilizzata) in una struttura di funzionari
che consiste, in quanto tale, in un determinato ordine di posizioni , in una predeterminatezza di
funzioni che, staccate dai loro portatori, dànno luogo a una connessione ideale; nell’ambito
di questa ogni nuovo individuo che entra
a farne parte trova un posto inequivocabilmente determinato, che lo ha per così
dire aspettato e al quale le sue energie
devono adattarsi armonicamente. Naturalmente ciò che qui è fissazione
consapevole e sistematica di contenuti
di prestazioni è, nella totalità della società, un inestricabile intreccio di
funzioni; le posizioni al suo interno non
sono date da una volontà costruttiva, ma si possono cogliere soltanto attraverso l’attività creativa e
l’esperienza vissuta degli individui. E
nonostante questa enorme differenza, nonostante
tutto ciò che di irrazionale, di imperfetto, di riprovevole dal punto di vista del valore la società storica
presenta, la sua struttura fenomenologica vale a dire la somma e il rapporto del modo di esistenza e delle prestazioni
offerte da ogni elemento sotto il profilo oggettivo-sociale rimane un ordine fatto di elementi ciascuno dei quali occupa un
posto individualmente determinato, una
coordinazione di funzioni e di centri di funzioni dotate di senso, anche se non
sempre di valore, oggettivamente e nel loro significato sociale; mentre l’elemento
puramente personale, l'elemento internamente produttivo, gli impulsi e i
riflessi dell’io vero e proprio restano completamente fuori considerazione. Ossia, in altri
termini, la vita della società
scorre non già psicologicamente, bensì
fenomenologicamente, considerata puramente sotto il profilo dei suoi contenuti
sociali in quanto tali come se ogni
elemento fosse predestinato alla sua
posizione in questa totalità; con tutta la
disarmonia rispetto alle istanze ideali essa scorre come se tutti i suoi elementi stessero in un rapporto
unitario che fa dipendere ciascuno, proprio perché esso è questo particolare
elemento, da tutti gli altri e tutti gli
altri da questo. Ciò permette di
scorgere l’a priori del quale dobbiamo ora
parlare, e che per l’individuo significa un fondamento e la possibilità
di appartenere a una società. Che ogni individuo sia di per sé orientato dalla sua qualità
verso una determinata posizione
nell’ambito del suo miliew sociale; che questa posizione che idealmente gli
appartiene sia anche realmente presente
nel complesso sociale questo è il
presupposto in base al quale l'individuo
vive la sua vita sociale e che si può definire
come il valore di universalità inerente all’individualità. Esso è indipendente dalla sua elaborazione in una
chiara coscienza concettuale, ma anche
dalla sua realizzazione nel corso della
vita reale così come l’apriorità
della legge causale quale presupposto
formativo del conoscere è indipendente dal fatto che la coscienza la formuli in concetti
distinti e che la realtà psicologica
proceda sempre in conformità ad essa oppure no.
La nostra vita conoscitiva poggia sul presupposto di un’armonia
prestabilita tra le nostre energie spirituali, anche se ancora individuali, e l’esistenza esteriore,
oggettiva: infatti questa rimane sempre l’espressione di un fenomeno immediato,
non importa se si possa poi ricondurla metafisicamente o psicologicamente alla
produzione dell’esistenza ad opera dell'intelletto stesso. Parimenti la vita
sociale in quanto tale poggia sul presupposto di una fondamentale armonia tra
l’individuo e il complesso sociale, anche se ciò non impedisce le crasse
dissonanze tra la vita etica e la vita
eudemonistica. Se la realtà sociale fosse
conformata senza ostacoli e senza difetti in base a questo presupposto
di principio, noi avremmo la società perfetta
di nuovo non nel senso di una
perfezione etica o eudemonistica, ma nel
senso di una perfezione concettuale: per così dire non la società perfetta, ma la perfetta società.
Finché l’individuo non realizza o non
trova realizzato questo 4 priori della sua
esistenza sociale vale a dire la
penetrante correlazione del suo essere
individuale con le cerchie circostanti, la necessità integrante per la vita del tutto della sua
particolarità determinata dalla vita personale interiore fino ad allora egli non è associato, e la società non è quell’attività
reciproca priva di lacune che il suo
concetto enuncia. Questo comportamento
acquista una consapevole accentuazione con la categoria della professione.
L’antichità non ha conosciuto questo
concetto nel senso di una differenziazione
personale e di una società articolata in base alla divisione del lavoro. Ma anche nell’antichità sussisteva il
fenomeno che ne costituisce il
fondamento: che l’agire socialmente efficace è l’espressione unitaria della
qualificazione interiore, che l’aspetto
totale e permanente della soggettività si oggettiva praticamente in virtù delle sue funzioni nella società.
Soltanto che questa relazione si attuava
in un contenuto generalmente più uniforme; il suo principio emerge
nell’osservazione aristotelica che
alcuni sono destinati per la loro natura al SovAzbew, altri al Seorétew. A un grado più elevato di
elaborazione il concetto presenta la struttura caratteristica per cui da una
parte la società produce e offre in sé una
posizione che è si differenziata
da altre per contenuto e contorni, ma
che può in linea di principio essere
occupata da molti ed è quindi per così dire qualcosa di anonimo; e
dall’altra parte questa posizione, nonostante il suo carattere di generalità,
viene assunta dall’individuo in base a una
chiamata interiore, a una
qualificazione sentita come del tutto
personale. Affinché esista in generale una
professione deve sussistere
quell’armonia comunque essa sia sorta tra la
costruzione e il processo vitale della società, da un lato, e le qualità e gli impulsi individuali,
dall'altro. Su questo presupposto generale si fonda in ultima analisi l’idea
che per ogni personalità vi sia, nell’ambito della società, una posizione
e funzione alla quale essa è chiamata , e l'imperativo di cercare finché
la si trova. La società empirica
diventa possibile soltanto mediante questo 4 priori che culmina nel concetto di
professione, e che certamente al pari di quelli finora trattati non può essere designato con una semplice parola d’ordine,
come consentono di fare le categorie
kantiane. I processi di coscienza con i
quali l’associazione si compie
l’unità a partire dai molti, la
determinazione reciproca degli individui, il significato reciproco degli
individui per la totalità degli altri e di questa totalità per l’individuo hanno luogo in base a questo presupposto
di principio, non già astrattamente
consapevole ma che si esprime nella
realtà della prassi: il presupposto secondo cui l’individualità del singolo
trova un posto nella struttura dell’universalità, anzi che questa struttura, nonostante
l’aspetto imprevedibile
dell’individualità, è rivolta in certa misura a questa e alla sua funzione. La connessione causale che intesse
ciascun elemento sociale nell’essere e
nell’agire di ogni altro, dando così luogo
alla rete esteriore della società, si trasforma in una connessione teleologica non appena la si considera dal
punto di vista dei portatori
individuali, di coloro che la producono, i quali si sentono come io e il cui atteggiamento cresce
sul terreno della personalità che è per
sé e si determina da sé. Il fatto che
quella totalità fenomenica si adatta allo scopo di queste individualità
che quasi le si fanno incontro dall’esterno, che offre al processo vitale di queste, determinato dall’interno,
il luogo in cui la sua particolarità
diventa un elemento necessario nella
vita del tutto tutto ciò, assunto
come categoria fondamentale, conferisce alla coscienza dell’individuo la forma
che lo designa come elemento sociale.
È una questione abbastanza oziosa se le indagini sulla teoria della conoscenza della società, che dovevano
essere esemplifica te da questi abbozzi,
rientrino nella filosofia sociale o non già
addirittura nella sociologia. Ammettendo pure che esse costituiscano una
zona di confine tra i due metodi, la sicurezza del DI problema sociologico quale è stato tratteggiato avanti e la delimitazione nei confronti della
problematica filosofica non ne soffrono
più di quanto la determinatezza dei concetti di
giorno e di notte non soffra del fatto che esiste un crepuscolo, o
quella dei concetti di uomo e di animale non soffra del fatto che forse si possono trovare gradi
intermedi che riuniscono le caratteristiche di entrambi in maniera per noi
concettualmente non separabile. Quando il problema sociologico si rivolge
all’astrazione di ciò che nel complesso fenomeno che chiamiamo vita sociale è
realmente soltanto società, vale a dire
associazione; quando esso elimina dalla purezza di questo concetto tutto
ciò che viene sì realizzato storicamente soltanto entro la società, ma non
costituisce la società come tale, come
forma singolare e autonoma di esistenza
allora viene individuato un nucleo di compiti assolutamente
inequivocabile; e pur potendo accadere
che la periferia di questa cerchia di problemi
entri, temporaneamente o durevolmente, in contatto con altre cerchie, che la delimitazione dei confini
diventi dubbia, non per questo il centro
rimane meno saldo al suo posto. Passo
ora a mostrare la fecondità di questo concetto e problema centrale in indagini
particolari. Lungi dalla pretesa di esaurire il numero delle forme di azione
reciproca che costituiscono la società,
esse mostrano soltanto la via che potrebbe condurre all’isolamento scientifico dell’intero ambito
della società dalla totalità della vita; cioè si propongono
di mostrarla compiendo i primi passi su tale cammino. La relazione di uno
spirito con un altro, che noi definiamo
comprendere, costituisce un avvenimento fondamentale della vita umana, la cui recettività e attività
propria è unificante in un modo non più
scomponibile, ma che è soltanto oggetto di
esperienza vissuta. Nell’esame del comprendere in generale è incluso l'esame del comprendere propriamente
storico. Infatti, nello stesso modo in
cui tutte le nostre produzioni ideali, puramente spirituali, trovano i loro
abbozzi frammentari in quelle forme e in
quei modi di procedere che lo spirito ha sviluppato per esigenze pratiche e per i progressi della
vita, così anche la storia scientifica
si è preformata in maniera indicativa nelle
formazioni e nei metodi con cui la prassi si costruisce le immagini del
passato come condizioni della vita che avanza. Ma dal momento che senza di ciò è del tutto
impensabile ogni passo della vita,
sorretto dalla coscienza del passato, qui non si tratta del caos sterminato e senza forma dell’intera
materia ricordata o tramandata della
vita; al contrario, già la sua valutazione
pratica è condizionata dalla sua scomposizione e dalla sua sintesi,
dall'ordinamento in concetti e in serie, dall’attribuzione e dallo spostamento di accento, da
interpretazioni e da integrazioni. Così diverse categorie teoretiche funzionano
qui in vista di un interesse non
teoretico, continuamente incorporate nelle con
* Vom WWesen des historischen Verstehens, Geschichtliche Abende in Zentralinstitut fur
Erziehung und Unterricht , 5, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1918, poi raccolto in Briicke und Tiir: Essays der
Philosophen zur Geschichte, Religion,
Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann, in collaborazione con M.
Susman), Stuttgart, Kochler Verlag,
1957, pp. 59-85 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). nessioni della vita al pari di
qualsiasi coordinamento di movimenti, di qualsiasi impulso o riflesso. La
storia come scienza sorge non appena
quelle categorie che elaborano il materiale
della vita in un'immagine spiritualmente intuibile, logicamente fornita di senso e quindi in primo luogo
suscettibile di applica zione pratica,
si svincolano da questa subordinazione a uno
scopo € costituiscono autonomamente, in base a un interesse teoretico libero da legami, in una nuova
completezza e con un nuovo valore
specifico, le immagini della vita passata. Come
noi siamo sempre, per così dire, storici embrionali di noi stessi, così d'altra parte noi completiamo e
assolutizziamo in quanto storici
scientifici gli orientamenti e le
elaborazioni della vita pre-scientifica. Sulla base di questo rapporto reciproco del tutto generale l’analisi della
comprensione storica appare condizionata
dall’esame del modo in cui può accadere
che un uomo ne comprenda un altro. Infatti, per quanto differenti
possano essere i punti di partenza e le vie, l’interesse e il materiale, la comprensione di Paolo e di
Luigi XIV è alla fine essenzialmente
identica a quella di un uomo che conosciamo
personalmente. La struttura di
ogni comprendere è una sintesi intima di
due elementi inizialmente separati. Ciò che è dato è un fenomeno
fattuale, che in quanto tale non è ancora compreso. Da parte del soggetto a cui questo fenomeno è
dato si aggiunge un secondo elemento,
emergente in modo immediato da questo
soggetto, oppure da esso assunto ed elaborato il pensiero
comprendente, che penetra per così dire il fenomeno dato e ne fa qualcosa di compreso. Questo secondo
elemento psichico è talvolta cosciente
di per sé, talvolta rintracciabile soltanto nel
suo effetto, vale a dire, appunto, in ciò che ora viene compreso. Tale rapporto fondamentale trova tre
configurazioni tipiche, che trapassano
tutte dalla loro più o meno grande realizzazione in forma pre-scientifica alla
metodica della storia scientifica. In
primo luogo si tratta di comprendere i fenomeni e le azioni di un individuo che sono dati ai sensi
esterni in modo tale che essi siano
motivati psichicamente, cioè in questo caso
di comprendere gli avvenimenti psichici attraverso queste manifestazioni
sensibili che li accompagnano. A prima vista l’altro uomo è per noi una somma di impressioni
esterne. Noi lo vediamo, lo tocchiamo, lo udiamo; ma che dietro
tutto ciò viva un’anima, che
tutti questi elementi esterni abbiano un
significato psichico, un aspetto interno che non si esaurisce nella loro immagine sensibile in breve, che l’altro non sia una marionetta, ma qualcosa di comprensibile
interiormente ciò non è dato in eguale
misura, ma rimane sempre una congettura non suscettibile di essere provata in
modo assoluto. E come l’individuo deve comunicare l’essere animato all’altro,
anziché sentirlo come una concretezza cogente, ossia come un’impressione
sensibile, la stessa cosa avviene naturalmente anche in relazione ai contenuti
psichici particolari. Ciò che quello
vuole e pensa e sente, noi non possiamo vederlo: tutto quanto si vede è solamente un ponte e un
simbolo per stimolare e guidare il soggetto alla creazione costruttiva di
ciò che può accadere nell’anima
dell’altro. Ulteriore conseguenza di ciò
è il fatto che ogni sapere relativo a questi processi dell’altro, ogni loro comprensione,
rappresenta una trasposizione di avvenimenti interni vissuti dal soggetto
stesso: ogni sentimento, il sorgere di rappresentazioni sulla base di
rappresentazioni passate, il dominio degli impulsi da parte dell’intero ambito
di idee tutto ciò deve prima avvenire in
me per poter essere imputato all’altro.
Da dove, se non dalla mia anima, dovrei
infatti prendere il materiale per la conoscenza e la comprensione degli altri,
che non si presentano davanti a me in modo leggibile? E in ciò sta
manifestamente anche il problema fondamentale del comprendere propriamente
storico. Se già posso comprendere l’uomo
che si offre ai miei occhi e alle mie
orecchie solamente in quanto lo fornisco, al di là di tutto ciò che ho visto e udito, dei contenuti della mia
anima, un uomo da lungo tempo passato del quale ci sono tramandate soltanto azioni
oggettive, manifestazioni frammentarie, tracce oggettive della sua
esistenza sarebbe per me un semplice
complesso di elementi esterni non
compresi qualora non collocassi dietro
tutto ciò situazioni e movimenti psichici, il cui senso e la cui connessione non possono venirmi se non dalle
esperienze della mia propria
interiorità. La comprensione della persona storica presupporrebbe quindi, per quanto essa sia
per altri versi diversa da me, un'identità essenziale tra noi due rispetto ai
punti da comprendere. Mi richiamo a
quest’apparente inevitabilità, per la quale si
offrono come prove alcune osservazioni. L'esperienza sembra indicare che chi non ha mai amato o odiato
non comprende chi ama o chi odia, che la
sobrietà dell’uomo pratico non comprende
il comportamento dell’idealista sognatore e viceversa, che il flemmatico non
comprende le connessioni di idee del
sanguigno e viceversa. Così lo storico pedantesco, adatto ai rapporti piccolo-borghesi, non comprenderà
mai le manifestazioni della vita di Mirabeau o di Napoleone, di Goethe o
di Nietzsche, per quanto visibili e
chiare esse siano. L’assenza di speranza
con cui la comprensione dell'Europa si pone dinanzi all'anima orientale viene comprovata dai
conoscitori di cose orientali in modo
tanto più netto quanto più profonde e ampie
sono le loro esperienze. Meno imperativo ma ritengo
non meno fondato è il dubbio se
l’uomo moderno comprenda nella loro
reale interiorità l’Ateniese delle guerre persiane, il monaco medievale o anche solamente la società
di corte dipinta da Watteau. Non parlo qui della mancanza o dell’equivocità
delle fonti, ma di un’impossibilità di comprensione a cui non può essere di aiuto la quantità e il
contenuto dei documenti, poiché la costituzione del soggetto non fornisce
quella reazione all’oggetto che costituisce il comprendere. Sarebbe tuttavia avventata la conclusione
che alla base della comprensione sta
l’identità tra soggetto e oggetto. Se si osservano un po’ più da vicino quei
fatti, risulterà che essi sono
esclusivamente di carattere negativo, ossia che una certa misura di diseguaglianza sostanziale impedisce certo
la comprensione; ma da ciò non discende
affatto che l’identità la produca positivamente. Sarebbe un errore eguale al
voler concludere, sulla base di un
disturbo psichico provocato da determinate lesioni cerebrali, che questo punto della corteccia
cerebrale abbia prodotto il processo di coscienza in questione nella sua
normalità. Il mutamento o l’assenza di
una tra le varie complicate condizioni, più o meno prossime, dei processi
organici e in particolare di quelli psichici basta spesso a determinare una
completa deviazione, senza che per
questo essa possa valere come loro causa
positiva. Si potrà soltanto dire che una certa misura di diversità psichica è di ostacolo alla
comprensione di date manifestazioni. Che però questa sia prodotta dall’identità
di essenza è tanto meno dimostrato quanto più vediamo infinite volte che i fraintendimenti peggiori sorgono proprio
tra uomini maggiormente simili per disposizione naturale. Il presupposto logico del presunto
condizionamento del comprendere da parte dell’identità di essenza è che le
qualità psichiche presenti nell'altro debbano essere inferite soltanto in base
a certi simboli e indizi esterni. Anche
questo è a prima vista plausibile.
Quando il bambino ha un dolore, sente se stesso gridare; in base a questo, e
soltanto in base a questo, può inferire che
un altro, che egli sente gridare, prova dolore come lui, e così via. Contro la generalizzazione di questa
ipotesi voglio addurre però una sola
obiezione, puramente empirica. Una delle percezioni che ci rivelano nel modo
più univoco e impressionante la
costituzione psichica di un altro è Io sguardo del suo occhio; ma proprio per questo ci manca ogni analogia
tratta dalla percezione di noi stessi.
Chi non è attore e non ha studiato
davanti allo specchio l’espressione degli occhi di collera e di tenerezza, di languore e di estasi, di
spavento e di desiderio non ha quasi
mai occasione di osservarla in se stesso. Qui
non può quindi sussistere nessuna associazione tra la propria esperienza interna e la propria percezione
esterna, tale che l'inferenza dalla
percezione esterna di un altro all’interpretazione dell’interiorità altrui
possa configurarsi come un richiamo a
tale associazione. Quest’unico fatto mi sembra costituire una prova sufficiente che la propria esperienza
interna-esterna non può fornire la
chiave per penetrare l’esperienza esterna-interna di altri. Di un'esperienza del genere c’è
però bisogno se non altro per l’infelice
separazione dell’uomo in corpo e anima, la
quale riserva al corpo di per sé preso una percezione concreta che si presuppone soltanto fisico-esteriore,
mentre per la constatazione dell'elemento psichico ha bisogno di quella
trasposizione mediata da rapporti di
associazione dell’esperienza soggettiva interna negli altri, cioè di un
atto che è tanto complicato (anzi mistico) quanto insufficiente per la funzione
che da esso si pretende. Piuttosto, io
sono convinto che noi percepiamo l'uomo intero e che soltanto in virtù di
un’astrazione successiva ne percepiamo la corporeità isolata proprio come anche nel soggetto percipiente non è l’occhio
anatomicamente isolato che vede, ma è
l’uomo intero, la cui vita complessiva è come canalizzata dal singolo organo di
senso. Questa percezione dell'esistenza totale può essere oscura e
frammentaria, suscettibile di
perfezionamento mediante la riflessione e l’esperienza personale e stimolata
dai particolari, sfumata secondo il grado di
capacità e finora non localizzabile in un organo determinato essa è il modo fondamentalmente unitario in
cui l’uomo agisce sull’uomo, è
l'impressione complessiva non ben analizzabile intellettualmente, la conoscenza
prima e per lo più decisiva degli altri, anche se ancora aperta a molti
completamenti. E come la comprensione
storica in generale è soltanto un modo del
comprendere identico nel tempo, e del tutto attuale, così la creazione o il discorso, l’azione o
l'influenza a noi tramandati dall'uomo
del passato lo contengono realmente, in linea di principio, e lo presentano alla nostra altrettanto indivisa facoltà recettiva; ogni elemento particolare
che l’uomo offre è una pars pro toto.
Certamente nella realtà storica gli stimoli
sono più scarsi, la via per ottenere l’immagine compiuta è più lunga e tortuosa, il risultato è più
incompleto e problematico. In
definitiva, però, nella misura in cui viene raggiunta, l’immagine della
personalità storica e del suo comportamento sta dinanzi a noi come quella di un
uomo conosciuto di persona, accessibile
e còlto nelle sue determinazioni particolari e nel loro legame causale, senza essere in alcun modo un
calco delle nostre proprie qualità o
delle nostre esperienze vissute. E se,
anche soltanto per giungere alla sua constatazione, vi fosse bisogno di una trasposizione dei fatti
psichici dalla loro sede propria, non
per questo sarebbe in alcun modo data la comprensione di questi fatti.
Quantosovente ci troviamo infatti del tutto incapaci di comprendere di fronte
al nostro proprio passato, quanto sovente l’uomo maturo non capisce più azioni e sentimenti della sua gioventù,
quanto di appena sentito e voluto dobbiamo accettare come fatto muto della
nostra esistenza senza comprendere come
abbia potuto sorgere dalle sue
condizioni e dal nostro carattere, anzi senza comprendere che cosa sig nifica nel suo senso autentico!
Qui l'oggetto della volontà di
comprensione è certamente dato nella propria esperienza, e niente può
dimostrare in modo più decisivo che la
presunta trasposizione della propria esperienza interna non rappresenta
la via alla comprensione della personalità storica. Può darsi che si colga
soltanto lo spirito al quale in qualche modo
si somiglia: può darsi che le azioni di un essere vivente su Sirio ci risultino magari intelligibili ma per il fatto di assomigliare in modo essenziale a uno
spirito, non lo si coglie ancora. Al modo di pensare greco con il suo solido
sostanzialismo, con la sua aderenza alla
sicurezza plastica della forma e la sua
immediata forza di convinzione, corrispondeva il principio che si può conoscere soltanto il simile con il simile
. Ciò appare però un dogma ingenuamente
meccanicistico come se la
rappresentazione del comprendere e il suo oggetto fossero due grandezze da far coincidere, mentre in questo
modo si fa straordinariamente violenza
ai fatti. Nessuno potrà infatti negare di saper cogliere in altri dei
sentimenti che non ha provato egli
stesso, di comprendere nodi del destino interiore che non ha mai vissuto, di rappresentarsi impulsi
della volontà che siano completamente estranei alla sua volontà. Non si può
mettere in disparte questa difficoltà, a cui va incontro la concezione della propria esperienza come presunta
condizione del comprendere, concedendo che naturalmente il processo psichico
vissuto in sé non coincide precisamente
con quello vissuto da un altro, e che si
devono apportare in esso alcune trasformazioni, diversità di tono, certi
mutamenti quantitativi e qualitativi. Infatti,
se si concepisce la differenza tra i due processi come una differenza
poco importante o solo formale, essa non risulta più facile da superare; e dove starebbe poi il
criterio che consente di giudicarla
oggettivamente più grande o più piccola? Il principio per cui noi comprendiamo
negli altri solo ciò che abbiamo esperito in noi stessi può solamente valere o
non valere; ed esso viene infranto dal
più insignificante contenuto psichico, che sappiamo presente nell'anima altrui
senza che si sia presentato nella nostra,
così come dal più esteso. Ciò che trascina in queste difficoltà l’intera teoria
è il realismo, che pretende di assumere
nel conoscere le cose come esse sono
realmente . La propria esperienza
vissuta è in base al suo stesso concetto realtà immediata, e solamente quando
l’esperienza vissuta dell’altra anima
può essere rappresentata in identità con essa
questo ingenuo modo di pensare crede di essere certo in
virtù dell'identità dei fenomeni esterni
anche del processo veramente avvenuto nell’altro. Dal fatto che posso
certo rappresentare l’esperienza vissuta altrui si inferisce, del tutto
erroneamente, che io devo rappresentarmela come rappresento la mia nello stesso modo in cui i teorici
dell'etica dell’egoismo inferiscono, in
base al fatto che sono il soggetto della mia
volontà, che devo esserne anche l'oggetto; e si giunge a questa conclusione perché soltanto la propria
esperienza vissuta si presenta come realtà piena, mentre non si può essere
certi di quella altrui, se non in virtù
di una possibile trasposizione da quella
a questa o considerandola come questa. Anche nella teoria della
penetrazione simpatetica dei miei
processi interiori negli altri dovrei sapere in anticipo quale parte delle
mie esperienze vissute devo delegare a
tale missione; ma così viene già
presupposta l’intuizione del processo esterno che dovevo invece ottenere per questa via. Ritengo piuttosto che l’incorporazione della
propria anima nell’altro, per percepirlo
come animato, costituisca una trasposizione
del tutto indimostrata da
esperienze di altra specie a questo
fenomeno non comparabile; ritengo cioè che il tu sia piuttosto un fenomeno originario allo stesso
titolo dell’io, e che la teoria della
proiezione valga per il tu tanto poco quanto vale per le cose date nello
spazio. Le cose non sono compiute una volta per tutte nella nostra testa, e poi
proiettate con un procedimento
misterioso in un spazio pronto a riceverle
come si trasloca con i propri mobili in un appartamento vuoto; riconoscere questo spazio
costituirebbe pur sempre un problema non
minore del riconoscere in anticipo tale oggetto
come oggetto spaziale. Piuttosto, se per una volta poniamo la questione partendo dal soggetto, la
spazialità dell’oggetto è un modo o
forma originaria dell’intuire. In questo caso, intuire non significa altro che intuire spazialmente
e la duplicazione della cosa come se essa fosse dapprima in noi e poi
fuori di noi è del tutto superflua. Così l’anima non è
dapprima qualcosa che sappiamo presente
in noi e che poi proiettiamo in un corpo
appropriato a tale scopo, in modo da pervenire a un tu soltanto attraverso questo strano
processo; in noi sorgono piuttosto anche qui ci atteniamo al punto di vista
dell’idealismo certe rappresentazioni
che fin dall’inizio costituiscono un tu
e vengono percepite come suoi contenuti psichici. L’espressione linguistica in
base a cui si colloca l’essere animato
dell’uomo dietro il suo aspetto
visibile e palpabile, questa
simbolizzazione spaziale del tutto superficiale, contribuisce molto a
separare gnoseologicamente tale essere animato, inteso come l’aldilà
misteriosamente inattingibile, dall’ esterno
che è invece immediatamente
accessibile. Soltanto se abbiamo prima
scisso il fenomeno dell’altro uomo in un’anima e in un corpo, dobbiamo allora costruire un ponte tra di
essi, per ricucire l’unità che era
invece data fin dall’inizio: noi abbandoniamo il corpo esclusivamente alla sensibilità ottica,
e altrettanto esclusivamente consegnamo l’anima alla nostra anima, lasciando
poi trasmigrare quest’anima inquel corpo
mediante un processo di introduzione, di
trasposizione, di proiezione o comunque si
voglia chiamare quest’atto mai dimostrabile. Ma tale scomposizione è
l’atto di violenza di un pensiero atomizzante.
Certamente, anche la prassi quotidiana, al pari della formazione
dell’immagine storica, sembra legalizzare
partendo da un materiale sempre
accidentale e lacunoso, spesso soltanto superficialissimo questa scomponibilità e la distanza, che
il pensiero deve quindi superare, tra
esterno e psichico. Ma tale separazione,
prodotta dalla precarietà e dalla discontinuità materiale della vita, ha
tuttavia come punto di partenza e come
punto di arrivo il fondamentale fatto unitario che si può chiamare il
tu l’altro immediatamente compreso come
animato. Anche quando la considerazione
del sintomo più esterno conduce per la via più lunga e tormentosa alla sua
comprensione psichica, questa categoria
sta a base di essa, e si trova di nuovo,
pienamente realizzata, al termine della via. La categoria del tu che è decisiva per la costruzione del
mondo pratico e del mondo storico, quasi
come quelle di sostanza o di causalità
lo sono per il mondo della scienza naturale
non può essere paragonata a
nessun'altra. Non posso designare il tu
come mia rappresentazione nel medesimo senso in cui designo ogni altro oggetto:
debbo attribuirgli un essere per sé,
così come lo percepisco, distinto da tutti gli altri oggetti, soltanto
nel mio proprio io. Perciò si spiega il fatto che noi percepiamo l’altro uomo,
il tu, al tempo stesso come l'immagine più
distante e impenetrabile e come quella più prossima e familiare. Il tu
animato è da una parte l’unico nostro pari nel cosmo, l’unico essere con cui
possiamo comprenderci reciprocamente e
sentirci come uno come con nient'altro, cosicché collochiamo nella categoria
del tu ciò che per altri versi è natura, dove
riteniamo di sentirci in unità con essa: così Francesco poteva parlare agli animali e agli esseri inanimati
come a fratelli. D'altra parte, però, il tu possiede una propria autonomia e
sovrani tà accanto a noi che nient'altro
possiede, una resistenza contro la
dissoluzione nel processo di rappresentazione soggettivo dell’io,
quell’assolutezza della realtà che l'io sente in se stesso. Il tu e il comprendere sono la stessa cosa,
espressa una volta come sostanza e una
volta come funzione un fenomeno originario dello spirito umano come il vedere
e l’udire, il pensare e il sentire, oppure come l’oggettività in generale, come
lo spazio e il tempo, come l’io; è il
fondamento trascendentale del fatto che
l’uomo sia uno %éov roArrwxév. Certamente, si
tratta di un grado successivo del nostro sviluppo; certamente, di rado esso possiede la medesima univocità
del suo contenuto; certamente, esso
compare soltanto sulla base di condizioni psicologiche più complicate. Ma anche
gli atti della coscienza che si
presentano come primari sono condizionati da ciò che è trascorso;
anch'essi hanno bisogno di uno sviluppo. Qui c’è soltanto una differenza di grado: è perciò erronea
l’opinione che tali fenomeni psichici
non possano essere in sé nulla di semplice e
di primario per il fatto che compaiono soltanto tardi, incompleti e in
situazioni variamente condizionate. Che l'insufficienza delle condizioni in cui si leva l’immagine o
la comprensione le mantenga incomplete,
non prova affatto che esse vengano prodotte per associazione mettendo
semplicemente insieme quelle condizioni.
Le differenze all’interno di questo fenomeno originario sono innegabili,
soprattutto tra la comprensione di un
avvenimento attuale o di una persona convivente e la comprensione di
oggetti divenuti storici. Che i dati siano qui di solito numericamente più scarsi e accidentali, che
siano affidati alla mediazione
intellettuale piuttosto che all’immediatezza sensibile, che nessuna atmosfera
temporale comune unisca il soggetto
comprendente e il suo oggetto
tutto ciò può, nel caso particolare, escludere in parte o del tutto la
comprensione, ma sotto questo rispetto
non esiste una differenza necessaria di principio tra il presente e il passato. Certamente, noi
possiamo avere un'esperienza vissuta soltanto di ciò che è presente; ma
anche nei confronti di questo possiamo
avere il rapporto di comprensione storica, che ognuno ha verso il proprio
passato. Per lo sguardo che scruta le
distanze storiche l’avvenimento esterno e
l'avvenimento psichico sono spesso molto più separati l’uno dall’altro
di quanto non siano per l’intuizione immediata, ed esso ha più sovente bisogno di compiere inferenze
dall’uno all’altro; ma tutte queste sono
soltanto strade di accesso allungate, le
quali in definitiva conducono a quel comprendere che assume unità attraverso l’unità; oppure
costituiscono le sue frammentarie realizzazioni. Per questo comprendere, che
spesso viene scisso nelle sue condizioni a causa di insufficienze pratiche e
accidentali, e perciò appare all’analisi intellettuale come un’interpretazione
di sintomi esterni autonomi sulla base di un elemento psichico che sta dietro
di essi, è adeguato il concetto di
intuizione, che pure di per sé è poco attraente. Ma ciò che suscita sospetto, l'elemento mistico
abusivamente presente in esso, scompare
proprio se noi abbiamo chiaro il fatto che l’applicazione dell’intuizione al
comprendere storico è circondata dall’uso,
del tutto inevitabile, che se ne fa in ogni momento della vita pratica. Una struttura più complicata mostra il
secondo tipo di comprendere, con cui un atto già conosciuto come psichico
dev’essere compreso mediante un altro atto appartenente alla stessa sfera psichica. Se di un legittimista dello
Hannover degli anni successivi al 1866
sentiamo dire che ha odiato Bismarck, noi
comprendiamo anzitutto questo sentimento in modo immediato, così
com’esso è. L’odio è un affetto a noi immediatamente noto. Noi conosciamo interiormente il
significato soggettivo che non richiede
un’ulteriore analisi di questo affetto,
poco importa in quali circostanze e
attraverso quale portatore esso ci viene
incontro. Questa comprensione di un contenuto psichico particolare è
trans-storica e, per così dire, oggettiva: infatti si tratta sempre del medesimo processo
psicologico fondamentale, sia che lo applichi a Brunilde contro Crimilde', allo
hannoveriano contro Bismarck, all’inquilino contro il padrone di casa che lo angaria. La duplicità di elementi che
ogni comprendere I. Noti personaggi
femminili della leggenda dei Nibelunghi. presuppone consiste, in questa
comprensione immediata dell’elemento psichico, nel fatto che un caso
individuale viene compreso in virtù di un contenuto generale preesistente nel
soggetto. Però comprendo storicamente l’odio
dello hannoveriano se conosco la guerra del ’66 e l'annessione prussiana, ossia
se lo riconosco in generale come
elemento di una connessione temporale complessiva. Ma, a questo punto, ogni
momento di tali connessioni dev'essere
di nuovo compreso, a sua volta, in quel
primo senso. Come comprendo l’odio, devo ora comprendere che cos’è l'attaccamento a una casa regnante
o il valore attribuito all'indipendenza politica. Mentre quel primo
comprendere sembrava riguardare un
contenuto atemporale o sovra-individuale e l’altro la connessione reale di un
divenire molto articolato, di fatto anche quest’ultimo si scinde in una
successione di singoli punti di
comprensione, ognuno dei quali dev'essere di
nuovo compreso in modo sopra-storico e psicologico. Pertanto il comprendere storico in quanto tale viene
alla luce in modo manifesto quando
questi momenti discontinui, e compresi per
così dire atemporalmente in modo discontinuo, vengono riempiti da parte
dell’osservatore di una corrente vitale continua che li lega insieme, che apre la porta di uno
agli altri, che permette di sentirli
come pulsazioni del corso temporale della vita. Il comprendere isolato di prima si mostra ora
fondato su una certa astrazione, in
quanto dalla vita che sale e si abbassa
senza posa esso trae fuori la cresta di un’onda come un oggetto
circoscritto del comprendere, mentre nella realtà questa è legata in modo continuo con la precedente e
con la successiva, con tutte le onde
della medesima vita. L'istituzione di questa
connessione continua è ciò che imprime alla tradizione di quanto è
meramente accaduto la forma della storia. Stabilire che un determinato avvenimento ha avuto luogo in
un certo anno non lo trasformerebbe
ancora in un avvenimento storico, se
l’anno si collocasse isolatamente in uno schema temporale per altri versi vuoto. Infatti sarebbe ancor
sempre possibile com‘prendere l'avvenimento in base al suo significato interno,
alla sua specificità indipendente dal
tempo. Certo questo deve avvenire in ogni caso; con ciò è però soltanto dato il
materiale in cui il divenire della
storia si compie come una formazione
determinata. La storia non è il passato che ci è dato immediatamente €,
più precisamente, in veste di frammenti sempre discontinui, ma è invece una
determinata forma o somma di forme con
cui lo spirito sintetico che osserva penetra e domina il materiale accertato in precedenza, ossia
la tradizione di ciò che è accaduto. Per
il fatto che comprendo una serie come
storica non si aggiunge ad essa niente di nuovo per quanto riguarda il suo contenuto; si è soltanto
conseguita o istituita una specie di
connessione funzionale da parte dell’intuizione
interna. Come la considerazione storica in genere sottrae il particolare contenuto di realtà alla
rappresentazione limitata a quest’ultimo
e lo colloca come elemento prodotto e
produttivo in connessioni senza fine,
così procede ora anche la funzione del
comprendere quando coglie come storiche le realtà psichiche date. Questi dati
devono anzitutto venir compresi di per
sé come unità psichiche in qualche modo chiuse: senza tale presupposto non possono essere
storicizzate. Esse però lo diventano
soltanto se si fluidificano in qualche misura, se si mostrano come le formazioni particolari, di
volta in volta determinate, di una dinamica della vita che le collega tutte
tra loro. È quindi’ possibile
determinare con maggiore profondità e
precisione il concetto della comprensione storica di una qualsiasi
realtà psichica particolare dicendo che esso significa la comprensione di
questo elemento singolo in base alla totalità vivente del suo portatore. È un errore assai diffuso ritenere che la
successione di certi dati psichici,
ognuno dei quali presenta soltanto il suo contenuto circoscritto,
concettualmente determinabile, fornisca anche la comprensione del dato successivo. Ciò
corrisponde al principio atomistico e
meccanicistico che fa coagulare la vita psichica, intorno ai suoi contenuti
esprimibili logicamente, in singole
rappresentazioni , e che vorrebbe coglierla come la somma dei movimenti
delle parti così separate l’una dall'altra. In tal modo la comprensione dovrebbe procedere
immediatamente di contenuto in contenuto sulla base di quella che si potrebbe chiamare
la logica della psicologia, ma che in realtà è soltanto una mescolanza indistinta di logica e di
psicologia. Ma in questo modo viene meno
la connessione dinamica, la compenetrazione, l’unificazione del molteplice, e
quindi proprio la comprensione di un elemento mediante l’altro. Quest'ultima esige
infatti la visione interiore di un movimento continuo della vita, le cui tappe sono soltanto quei momenti
particolari indicabili in base al
contenuto. Soltanto se in ognuno di essi si percepisce l’uomo intero, che non è una sostanza rigida
ma uno sviluppo vivente, noi
comprendiamo il momento successivo, poiché la
direzione della corrente che conduce fino ad esso è indicata da quello precedente. Però, come si è già detto,
questo sviluppo non è comprensibile come
un saltare di contenuto in contenuto, ma
soltanto in virtù del processo di attualizzazione della vita che rende ora intelligibili come proprie
fulgurazioni quei contenuti particolari suscettibili di essere denominati sia che questa vita sia attuale o trascorsa.
Ciò può estendersi, senza alcun
mutamento di principio, al di là dell’individuo, poiché nella medesima corrente della vita, che produce
onde su onde, noi scorgiamo una
moltitudine di individui. Il fenomeno originario del comprendere si realizza allora in quella
successione che si estende in modo del tutto
sovra-individuale della vita che continuamente spinge contro tale singolarità. Sono qui dunque presenti due modi di
comprendere, sulla cui distinzione e sul
cui intreccio si esige tanta maggior chiarezza quanto più lo storicismo ha
commesso, con la sua superficiale
concezione, i peggiori fraintendimenti. Quando comprendo la poesia Warum gabst du uns die tiefen Blicke®
nel suo contenuto e nel suo significato poetico, ciò avviene in modo del tutto
astorico. Quando però comprendo il contenuto e il tono della poesia in base al
rapporto di Goethe con la signora von Stein, e comprendo che essa designa nello sviluppo di questo rapporto un'epoca ben determinata, tale comprensione è
ora comprensione storica. Ciò può essere illustrato in modo particolarmente
chiaro nella storia dell’arte. Con l’ultima pennellata del pittore al proprio
dipinto, il suo significato si pone al di là della storia. Ma il dipinto può a
sua volta diventare un fattore storico in virtù dei suoi destini esteriori, in
virtù del mutamen‘to di interpretazione e di valutazione, in virtù della sua
influenza sull'arte posteriore. Ma quell’altro significato vale a dire
le leggi della sua formazione e del suo complesso cromatico, il 2. È il verso iniziale di una poesia di
Gocthe della primavera del 1776, dedicata all'amico Charlotte von Stein. rapporto
del suo oggetto con il suo stile particolare, la passionalità o la calma
dell’esecuzione, l’accentuazione del disegno o
dell'elemento specificamente pittorico, in breve la specificità del suo essere
non ne viene toccato; esso ha consumato in sé i movimenti del suo divenire e, inteso in
quelle determinazioni puramente
immanenti, è diventato indifferente nei loro confronti. La linca di demarcazione così tracciata tra
comprensione oggettiva e comprensione
storica di un elemento spirituale ha il
suo punto di appoggio in una problematica assai profonda del nostro conoscere relativamente alla sua
sicurezza e univocità. Una creazione dello spirito che dev'essere compresa
deve venir paragonata a un enigma che il
suo creatore ha costruito su una
determinata parola risolutiva. Se chi indovina trova ora un’altra parola altrettanto adeguata, con cui
l’enigma preso in senso oggettivo perviene al medesimo risultato logico e poetico, questa costituisce una soluzione
completamente corretta al pari di quella che si era proposta il
poeta, e che non ha così il minimo
vantaggio rispetto alla prima o rispetto a
tutte le altre parole risolutive che si possono ancora escogitare e, in linea di principio, in numero
illimitato. Se un processo creativo è
riuscito a trovare la forma dello spirito oggettivato, tutti i più diversi tipi di comprensione sono
parimenti giustificati nella misura in cui ognuno di essi è in sé
conclusivo, esatto, oggettivamente
soddisfacente. Non hanno alcun bisogno
di riandare alla realtà psichica individuale di quel processo creativo, assumendolo a criterio di questa
coscienza. La comprensione immanente di un’opera d’arte, per esempio, è infinitamente
variabile così come lo sono i sentimenti che essa suscita e che non sono
affatto vincolati a quelli che il creatore vi
ha investito: i complessi affettivi e valutativi dell’uomo moderno
dinanzi al duomo di Strasburgo o alla sonata Chiaro di luna, i supporti profondi della sua
comprensione non possono essere ritenuti
infondati o falsi soltanto perché non coincidono con quelli di Erwin von Steinbach* o di
Beethoven. E ciò vale non solo per
domini ideali secondo il loro contenuto. Il tecni3. Architetto della seconda
metà del secolo XII, ebbe gran parte nella costruzione della facciata del duomo
di Strasburgo. co empirico può inventare un dispositivo meccanico che gli risulta pienamente intelligibile in base al
rapporto tra i congegni da lui combinati e l’effetto che si propone; un
ricercatore più profondo, riandando alle
leggi generali di natura che agiscono in quei congegni, può scoprire che lo
stesso apparecchio può venir impiegato
per scopi a cui l'inventore non ha pensato.
Soltanto se si fossero esaurite senza residui le possibilità in
essa racchiuse, l’invenzione sarebbe
realmente compresa così com'è, cioè
sarebbero realizzate le possibilità di comprensione virtualmente presenti nella
sua oggettività. Non diversamente stanno
le cose con le costituzioni politiche o con singole leggi. Ciò che esse propriamente significano dal punto
di vista logico o pratico, i loro
creatori lo sanno spesso in modo assai incompleto, o non lo sanno affatto;
altre personalità, la casistica, lo
sviluppo reale mostrano sovente gli effetti in esse riposti, che non si possono però definire come errori o
storture per il fatto che la genesi
soggettiva non li conteneva. Ovunque tra creatore e opera c’è questo rapporto, in qualche modo
inquietante: l’opera pervenuta alla sua autonomia contiene qualcos'altro
(in più o in meno, qualcosa che è dotato
di maggiore o minor valore) rispetto
all’intenzione del creatore. In questo senso il
processo di creazione è sempre soltanto un'espressione 4 potiori; ciò
che il creatore ha voluto e, più esattamente, ha potuto è sempre soltanto un elemento di ciò che è
stato effettivamente creato, e solo
cogliendo le sterminate possibilità in cui esso si dispiega, al di là di questo elemento, il suo
contenuto oggettivo sarebbe realmente
compreso. In tutto ciò ch e creiamo esiste,
oltre a quello che z0i creiamo realmente, ancora un significato, una
legalità, una fecondità che oltrepassano la nostra forza e la nostra intenzione. Tuttavia noi abbiamo
senza dubbio creato il tutto, e non si tratta affatto di elementi raccolti
che dispiegavano la loro peculiarità e
le loro potenzialità entro la nostra
creazione; il problema consiste proprio nel senso e nella capacità della nostra creazione, i quali
diventano incondizionatamente possibili e reali solo con il fatto di essere
stati creati da noi. Da questo sentimento nascono le rappresentazioni che
sempre ricorrono con una certa tonalità mistica
come se tutto ciò che creiamo fosse già idealmente preformato e noi
fossimo in certa misura soltanto le levatrici che aiutano un ente metafisico a
nascere nella realtà. Inteso come un dato di fatto interno, ciò spiegherebbe in
ogni caso come mai quello che apparentemente è creato solo da un soggetto
possiede significati innumerevoli di ogni specie, i quali oltrepassano tutte le
intenzioni creative e le forze di questo soggetto; come mai, quindi, anche la
comprensione spirituale di una creazione del genere non costituisca, in linea
di principio, un problema con un’unica soluzione possibile. Con ciò quell’antitesi
tra i due significati del comprendere si sviluppa ulteriormente. In base a
quanto si è detto finora, nel
comprendere dal punto di vista teorico ed estetico il Faust, per esempio, si prescinde del tutto dalla sua
origine psichica. Se i diversi tipi del
comprendere soddisfano in eguale misura le
esigenze di connessione logica e artistica, di esplicazione unitaria
delle oscurità, di sviluppo reciproco delle parti, allora sono tutti corretti in eguale misura. Se devo
invece comprendere il Faust storicamente
e psicologicamente, cioè comprendere tale
formazione sulla base degli atti e degli sviluppi psichici che si sono determinati, momento per momento, nella
coscienza di Goethe, è esclusa in linea
di principio una corrispondente pluralità di significati: questo processo di
creazione si è infatti rispecchiato in
un determinato modo che la nostra conoscenza
può cogliere o non cogliere, ma che essa non può rappresentare in
diversi modi tra loro equivalenti. Una pluralità di forme storiche di comprensione dell’origine del
Faust, create dal processo psichico, che siano tutte parimenti corrette nello stesso
modo in cui può esserlo una pluralità di forme di comprensione
oggettiva è un’assurdità. Anche a
proposito della comprensione storica può esserci, naturalmente, una pluralità
di ipotesi; di esse, però, una è vera e
l’altra è falsa alternati va di fronte a cui non si trova la
comprensione in base al contenuto
oggettivo, la quale la sostituisce piuttosto con altri criteri di valore. Nei confronti di uno
stesso contenuto oggettivo si può così soddisfare in modo compiuto l'esigenza
di comprenderlo storicamente; ma non si può invece mai soddisfare in maniera compiuta l’altra esigenza di
comprenderlo oggettivamente, in base a tutti i significati che racchiude in sé.
In ciò consiste il profondo paradosso
che, dove il comprendere storico è
comprendere psichico, esso non può mai pervenire a una completa univocità, non
può mai decidere in assoluto tra una
pluralità, anzi tra una contrapposizione di princìpi esplicativi. La ricchezza e la mobilità delle connessioni
psichiche sono così grandi che nessuna
legge psicologica è in grado di
determinare in modo vincolante gli sviluppi successivi di una determinata
costellazione psichica; spesso tale sviluppo, procedendo per una certa direzione, ci appare
altrettanto plausibile di quello che procede in direzione precisamente opposta.
Che il beneftcio ricevuto produca riconoscenza, lo comprendiamo tanto quanto il
fatto che esso lasci dietro di sé umiliazione e risentimento; che l’amore
dichiarato risvegli un amore corrispondente, lo riteniamo altrettanto
comprensibile del fatto che provochi assenza di attrazione e indifferenza, e
via dicendo. Quando serie genetiche
vengono alla luce mediante un’interpolazione
psicologica cosa che accade
sempre, più o meno consapevolmente non
si tratta di una necessità accertata, quale la
richiede, in modo univoco, la comprensione scientifica. In ogni caso, l'ipotesi di una data via psicologica è
quella corretta secondo la realtà; qualunque altra è erronea poco importa se poi questa correttezza o questa erroneità può
essere da noi stabilita incondizionatamente.
In tal modo viene stabilita la differenza
fondamentale della comprensione storica rispetto alla comprensione del
contenuto oggettivo in quanto tale. Lo
storicismo radicale vuol esaurire l’intera problematica di una formazione così creata tracciando le
condizioni e i gradi del suo sorgere nel
tempo. Le qualità oggettive dell’essere,
sottratte alla temporalità, si risolvono — come compiti conoscitivi —
nel loro divenire; adesso la questione riguarda le premesse e i momenti
preparatori, gli sviluppi e le condizioni favorevoli o gli impedimenti che
hanno suscitato tale formazione, e una
comprensione sufficiente del contenuto oggettivo dev'essere identica alla risposta a questo
problema. S’intende che sostituire la comprensione
di un oggetto nella sua atemporalità con
la comprensione del modo in cui si è
pervenuti all’oggetto reale nel tempo non ha più senso che equiparare la vista dalla vetta di un monte
col percorrere la via che ha condotto
passo passo il viandante fino a questa
vetta: ciò vorrebbe dire infatti tagliar via arbitrariamente tutta una dimensione del problema del comprendere.
Ma il problema apparentemente eliminato ha la sua legittimità non soltanto al
di fuori della realtà storica, ma anche proprio all’interno di essa. La
comprensione in apparenza puramente storica fa infatti continuo uso della
comprensione oggettiva sopra-storica, senza peròrendersene conto
metodologicamente. Non capiremmo mai la natura della cosa in base al suo
sviluppo storico se non la comprendessimo in qualche modo in se stessa;
altrimenti quell’impresa sarebbe chiaramente del tutto priva di senso. Con ciò
si apre un terzo tipo di processi di comprensione, la cui fondamentale
duplicità di elementi non è quella tra es terno e interno, né quella tra fisico
e psichico, bensì la duplicità tra
contenuto psichico e contenuto atemporale. Tra questi si presentano ora
nessi di reciprocità assai singolari, dal momento che la comprensione oggettiva trans-storica non
riguarda soltanto i contenuti
particolari, che pervenivano a un contatto reciproco e a un ordinamento unitario solo in quanto
eranoassunti nella corrente dello
sviluppo storico. Quei contenuti mostrano però
già nel loro stato ideale delle relazioni e delle disposizioni, e costituiscono per così dire simboli
atemporali della loro realizzazione psichica temporale — sempre in una
dipendenza reciproca fondata nel profondo. Se uno storico della filosofia
afferma che comprendere Kant significa
spiegarlo storicamente, le dottrine pre-kantiane gli appariranno come gradini
che conducono in direzione della
dottrina kantiana, stabilendo quindi in modo
intelligibile il suo contenuto e il suo momento temporale. Ma ciò non avrebbe successo se tutte queste dottrine
— e qui sta il punto decisivo — non
costituissero nel loro contenuto logico oggettivo, e senza riferimento alla
loro comparsa storica, una serie
intelligibile. Le cose non stanno diversamente che per qualsiasi inferenza realizzata sul piano psichico. Noi
comprendiamo del tutto il movimento
psichico che, aggiungendo alla convinzione
che tutti gli uomini sono mortali, l’altra che Caio è un uomo, porta per così dire organicamente la
coscienza fino al contenuto: Caio è mortale. Tuttavia lo comprendiamo soltanto
perché tutte queste idee erano valide
nel loro contenuto oggettivo, e quindi
sono del tutto atemporali e indifferenti rispetto al fatto che possiamo rappresentarle soltanto in una
serie temporale. Noi percepiamo il
carattere di verità — indipendente dalla
nostra rappresentazione — della proposizione tutti gli uomini sono mortali,
che non esiste prima o dopo il carattere di
verità delle proposizioni Caio è
un uomo e Caio è mortale ; tutte e tre le idee valgono
in una coordinazione assolutamente atemporale: la morte di Caio non risulta
quindi come conseguenza temporale dopo
gli altri due fatti; l'ordine che in
base alle prime due conduce a quest’ultima non costituisce una successione, come lo è il fatto di
rappresentarla e di esprimerla, ma è un ordine oggettivo puramente interno, che
ha luogo in una ideale contemporaneità.
Se esso non esistesse, non riconosceremmo neppure la direzione e la legittimità
dello sviluppo psichico che essa
realizza in una determinata successione. La
stessa cosa avviene nel caso della comprensione storica di Kant. Il razionalismo, che declassa ogni esperienza
sensibile e colloca la verità
incondizionata soltanto nellaragione @ priori; il sensismo, che rifiuta
quest’ultima e scorge soltanto nell’esperienza
la fonte di una conoscenza valida; la soluzione kantiana secondo cui
soltanto l’esperienza ci dà una conoscenza oggettiva come vuole l’empirismo soltanto che essa è già formata da quei principi della ragione, e di conseguenza
questi valgono incondizionatamente, ma
solo per gli oggetti dell’esperienza e
mai di per sé, al di là di essa
queste impostazioni hanno un
ordine ideale, determinato soltanto dal loro senso oggettivo atemporale. Se non comprendessimo il senso di
tale ordine soltanto di per sé,
indipendentemente dalle sue realizzazioni
psichiche in forma storica, non comprenderemmo mai neppure l'ordinamento temporale di queste ultime, che
ci apparirebbero piuttosto come una
semplice successione discontinua. La razionalità della loro successione,
mediante la quale cogliamo la direzione
della corrente della vita nei soggetti che la sorreggono e che la realizzano in
sé, è possibile soltanto come rispecchiamento temporale di quell’ordine
puramente oggettivo. Accanto al
principio che la comprensione di Kant è condizionata dalla sua spiegazione storica, si può porre l’altro
principio che la spiegazione storica di
Kant è condizionata dalla sua comprensione. Se noi penetriamo attraverso gli
avvenimenti l’unità di una corrente
vitale e la vediamo determinata dai momenti
precedenti e orientata verso i successivi, e se quindi in altri
termini comprendiamo ogni momento
successivo in base al precedente, tale
processo acquista legittimità e impulso soltanto in base a quella comprensione
oggettiva dei suoi contenuti, cioè in base al loro reciproco rapporto logico,
non già al loro rapporto vitale e
temporale. Qui si fa però valere un
presupposto metodologico che mostra una connessione molto più stretta, e per
così dire incondizionata, tra comprensione storica e comprensione
oggettiva. Prenderò le mosse
dall’esempio (non importa se effettivamente
vero o da correggere) dello sviluppo del punto di vista kantiano dal
dogmatismo, attraverso lo scetticismo sensistico, fino al criticismo. Su quale base possiamo dire che
uno di questi punti di vis ta o di
questi concetti si sviluppa fino all’altro in modo intelligibile? Ognuno di
essi esprime esattamente soltanto il suo proprio contenuto, è totalmente
concluso in sé, e dire che procede oltre
se stesso è un'espressione simbolica che lascia impregiudicato ciò di cui si
discute qui Ja possibilità: è un tentativo del tutto disperato voler spremere
da questi concetti disposti l’uno accanto all’altro uno sviluppo che renda
l’uno comprensibile in base alla comprensione dell’altro. Che tuttavia noi
scorgiamo qui di fatto uno sviluppo del genere, ciò può avvenire soltanto
perché poniamo a base di questa serie puramente oggettiva di punti di vista, e
che nessuna vita individuale concreta può abbracciare, un soggetto ideale prodotto per così dire di finzione la cui vivente continuità spirituale percorre
questi stadi e li connette in modo tale da scioglierli dalla chiusura di un
senso di volta in volta limitato a se stesso e da trasformarli quindi in
momenti di uno sviluppo. Questo è lo strumento applicato continuamente e senza
particolare coscienza, lo strumento per
così dire tecnico, con cui uno stadio c i diventa intelligibile sulla base
dell’altro, che è ad esso collegato ora
in un tempo quasi atemporale, mediante una vita
atemporale. La stessa cosa avviene quando si concepiscono le opere di un periodo più lungo della storia
dell’arte come uno sviluppo. Per
esempio, i dipinti si dispongono l’uno dopo l’altro in modo discontinuo, e
ognuno costituisce un’unità isolata
ognuno entro il proprio ambito in cui nessuno sa nulla dell’altro. Lo storico dell’arte costruisce
tra di essi uno sviluppo graduale dalla
rigidità alla mobilità, dalla povertà alla
pienezza, dall’insicurezza al padroneggiamento sovrano dei mezzi, dall’accidentalità
della composizione a un equilibrio armo532 GEORG SIMMEL nico che abbraccia ogni elemento in modo
dotato di senso, e così via. Non si può
quindi assolutamente dire che il creatore
dell’opera collocata al punto più alto abbia percorso, nel suo sviluppo personale, tutti gli stadi
precedenti. E non è neppure in questione
questo, bensì la possibilità di costruire tale serie evolutiva
in base a criteri oggettivi tratti dal complesso delle opere, come se ognuna di esse fosse caduta
dal cielo. Ma proprio questa possibilità risiede in ciò che si potrebbe
chiamare il soggetto metodologico, cioè
in una formazione ideale che percorre queste creazioni in un’evoluzione che si
può cogliere psichicamente, nei suoi momenti preparatori, nel suo crescere
e nel suo decadere, unificando l’ordine
oggettivo della loro coesistenza in un processo vitale concepito come temporale,
la cui continuità non si rinserra
nell’ambito della singola opera. Anche
l’uso linguistico sembra legittimare quest’interpretazione. Noi diciamo che l’arte, il diritto, la chimica si
sviluppano. È però chiaro che l’arte, il
diritto, la chimica ecc., in quanto tali, non
sono realtà, ma formulazioni riassuntive di fenomeni particolari
separati tra loro, anche se collegati da molteplici relazioni, sotto concetti astratti. Se l’arte, nel senso
storico qui in questione, consiste della somma delle opere d’arte, il
termine arte non designa un'unità concreta e neppure,
quand’anche essa lo fosse, un’unità
vivente, in grado di sviluppar si ; in tal caso
dovrebbe essere l’arte a produrre i quadri, mentre sono gli artisti a farlo. Se però applichiamo
quest’espressione, abbiamo creato l’ipostatizzazione
di un concetto strumentale e un soggetto del tutto nuovo, che ha quella
capacità di auto-sviluppo riservata
esclusivamente al vivente e le cui espressioni o tappe sono le singole opere d’arte. Questo soggetto
viene percepito in uno sviluppo
temporale, e ciò ancora per il fatto che i momenti di tale sviluppo posseggono quel rapporto di
sviluppo sopratemporale, puramente oggettivo. Noi ne abbiamo bisogno già per casi isolati: quando comprendiamo l’amore
o l’odio in generale, senza rapporto con la realtà di un individuo, attribuiamo
loro per così dire un portatore ideale, una vita in generale che nel suo complesso risponde con essi a
qualsiasi stimolo e che è, per così
dire, versata in queste forme momentanee.
Come concetti rigidamente conclusi, strappati dalla connessione della
vita, essi sarebbero per noi poco più che parole, e in ogni caso attendevano soltanto di essere
compresi in modo appropriato. Ciò diventa ancora più chiaro laddove un
avvenimento particolare media la comprensione di un altro avvenimento particolare. Il fatto che noi comprendiamo un
sentimento di vendetta poco importa se rappresentato storicamente o
in astratto in base a un'ingiustizia subìta in
precedenza, non avviene in virtù di uno
strettissimo accostamento tra i due
processi, ma in quanto possiamo rappresentare un fluire unitario della
vita, del quale costituiscono due onde legate dalla corrente stessa. Così risulta pure che il ritmo, la continua
mobilità della vita è il sostegno
formale della comprensione, anche in quelle
connessioni logiche di contenuti oggettivi che, da parte loro, rendono intelligibile il concreto accadere
vivente di questi contenuti oggettivi.
Ma la vitalità specifica e operante di quel
soggetto ideale è una trasformazione o un’oggettivazione di quella che noi rintracciamo in noi
stessi ma come vitalità sovra-individuale, di cui noi siamo per così
dire solo un esempio. All’interno dell’accadere e dell’ondeggiare incessante
percepiamo tuttavia in noi, più o meno sicura, una finalità almeno formale, una
realizzazione di disposizioni, un dispiegarsi di germi che noi abbiamo o,
piuttosto, che noi siamo. Tale sensazione trova una manifestazione parziale o
una concentrazione quando i contenuti psichici si ordinano in una serie, di cui
ogni momento successivo ci diventa consapevole, rispetto al precedente, come
arricchimento, come promessa mantenuta, come incremento ed estensione della
nostra situazione. In quanto, dopo aver posto le premesse, pervengo alla
conclusione; in quanto percorro le teorie filosofiche del secolo xviI finché
compare il criticismo; in quanto, considerando l’arte italiana, giungo dalla
rigidità bizantina e dalla scarsa articolazione delle figure del Trecento fino
al rilassarsi individualizzante del
Quattrocento e quindi all'unità armoniosamente raccolta della composizione del
primo Rinascimento, sento il mio spirito
nella misura in cui vive in queste sue espressioni ampliarsi gradualmente, sempre più
attualizzato nelle sue forze intuitive. Mentre vive in questa successione di
contenuti e passa attraverso di essi, lo spirito si sente non soltanto mosso,
ma anche dotato dello specifico valore dello
sviluppo . Così considerato, questo è forse qualcosa di originario e di
non ulteriormente risolvibile, e neppure
dipendente da un fine posto in precedenza, ma costituisce soltanto una ritmica
imposta dallo stesso movimento
spirituale, una particolare specie di crescita interna. Che poi io designi
l'ordinamento storico o ideale delle cose
come il loro sviluppo, non sarebbe chiaramente un arbitrio; anzi, esse devono, nel senso più preciso,
questo tono valutativo al processo di
auto-dispiegamento dello spirito, che le rivive
nella loro successione non appena sono diventate suoi contenuti. Se si
considerano quindi i contenuti svincolati dall’anima che se li rappresenta, sotto la categoria di
un’oggettività esprimibile concettualmente, allora essi formano una serie
evolutiva oggettiva; essi sono
attraversati dalla corrente del sentimento
vivente di aspirazione e di sviluppo del soggetto rappresentante, dal
quale però si è ora astratto, che ha lasciato loro soltanto la connessione interna e la costruzione
mediante cui l'elemento successivo è
condizionato dal precedente, e quindi risulta intelligibile proprio nella sua
posizione. Se comprendere un contenuto particolare non è in linea di
principio (secondo l’opinione che
abbiamo qui esposto) nulla di diverso dalla sua comprensione come
manifestazione della totalità della vita
di modo che il comprendere ne è soltanto l’espressione abbreviata ciò
risulta ora valido, attraverso il soggetto ideale che ha esperienza
vissuta o il soggetto reale che'osserva, anche per quei contenuti che si offrono
come puramente oggettivi o come realizzati
da portatori diversi. Così si
presenta dunque l’unione dei motivi storico-psichici e dei motivi oggettivi all’interno del
fenomeno complessivo del comprendere.
Noi comprendiamo lo sviluppo psichico reale di
una serie, i cui elementi si fondano in una successione temporale, soltanto
sulla base della relazione oggettiva, trans-vitale, dei suoi contenuti. Senza un incremento o una
diminuzione visibile in questa
relazione, senza la nozione del fatto che i
contenuti oggettivi in quanto tali si richiamano a vicenda e che l'uno fonda o condiziona l’altro prescindendo
dalla realizzazione temporale, essi non possono neppure venir compresi
come successione psichica, come
successione temporale-reale. E d’altra parte questo ordinamento ideale in forma
di sviluppo è tra di essi possibile in quanto ne viene percorsa la continuità
del movimento psichico. Lo sviluppo
oggettivo dei contenuti richiede, come 4 priori che dà loro forma, quel
progredire della coscienza, non
ulteriormente definibile, che si annuncia come
sentimento specifico: esso soltanto può allentare la chiusura senza ponti di ogni contenuto, e la trasporta
in quella continuità che solo si può chiamare sviluppo. Così lo sviluppo
psichico è condizionato ed è
comprensibile in base a quello oggettivo, e
questo è condizionato e comprensibile in base a quello. Ciò significa che entrambi sono soltanto i due
aspetti, resi metodologicamente autonomi, di un’unità: l’unità dell’accadere
compreso storicamente. E poiché il comprendere è un fenomeno originario nel
quale si esprime un rapporto universale dell’uomo, gli elementi in cui esso si realizza o gli
aspetti unilaterali tra cui si muove la
riflessione si compenetrano, cioè
rappresentati come autonomi si
costruiscono in correlazione tra di loro.
Considerato dall’altra parte, questo circolo è inevitabile perché la vita è istanza determinante dello spirito,
cosicché la sua forma determina infine
anche le formazioni mediante cui deve
diventare comprensibile a se stessa. La vita può essere appunto compresa soltanto dalla vita, e a tal fine si
dispone in strati di cui l'uno media la
comprensione dell'altro, e che nella loro
dipendenza reciproca annunciano la sua unità. A questo punto appare chiaro che il motivo
vitalistico per la soluzione del
problema del comprendere era già prefigurato
nelle considerazioni con cui ho cercato di chiarirlo respingendo le
interpretazioni che di esso si offrono a prima vista. Infatti queste interpretazioni, considerate
in modo preciso, risultano in linea generale discendenti da una fondamentale
intuizione meccanicistica. Ad essa risponde il fatto che l’uomo offre all'uomo solo il suo aspetto fisico
esterno, dietro il quale soltanto un
atto intellettuale, mediato da associazioni, colloca un'anima e determinati processi psichici.
L'unità e la totalità del vivente si sottrae infatti al meccanicismo; esso può
incollarlo insieme soltanto in base ai singoli frammenti che, per una
concezione organica, sono il risultato di scomposizioni successive della sua
unità. Perciò esso non può concepire il comprendere come fenomeno originario
che si manifesta tra un uomo nella sua totalità e un altro uomo anch'esso nella
sua totalità, ma lo concepisce come sintesi secondaria di fattori separati. In
base alla medesima mentalità gli sfugge l'elemento creativo si può ben dire così del processo del comprendere, che permette al
soggetto di produrre in sé ciò che gli è estraneo e distante, ciò che non ha vissuto
personalmente, come immagine di un’altra
anima. La sua aspirazione finale di risolvere ogni relazione in equivalenze lo conduce a fondare
o a ridurre anche il comprendere
esclusivamente all’identità tra soggetto e oggetto. Esso può concepire il
compreso soltanto come ripetizione
meccanica di ciò che già preesiste nel comprendente; e doveva quindi
dato che evidentemente ciò non è conciliabile con i fatti
attaccarsi al mezzo disperato di costruire gli avvenimenti psichici
nella personalità storica partendo da singoli frammenti, che si possono
raccogliere insieme sulla base delle esperienze interne del soggetto della
conoscenza storica: un tentativo che non è possibile discutere seriamente, e
del tutto privo di valore già per il
fatto che la comprensione della vita interiore corre appunto lungo le continue
comnessioni e unificazioni dei contenuti
che si possono designare singolarmente. Ciò che è decisivo per la vita e per l’individualità,
ossia l’unificazione, non si potrebbe
quindi raggiungere con la semplice trasposizione dei frammenti messi insieme.
Rientra in tutto nell’essenza
dell’intuizione meccanicistica voler rappresentare anche il comprendere
storico come una mera copia dell'accaduto come
esso era realmente , anziché scorgere che anche questa è un’attività del
soggetto dipendente dalle categorie e dalle forme in cui assume il suo oggetto (alle quali, per
esempio, quel soggetto metodologico appartiene come una necessità 4 priori),
una formazione spirituale specifica; e
che anche qui la sua verità relativa a
un oggetto è qualcosa di vivente, di funzionale e di elaborato, non già la riproduzione meccanica
di una lastra fotografica. Forse con ciò il problema del comprendere storico
diventa qualcosa di molto più difficile e profondo che nell’intuizione
semplice, e tuttavia assai più strana, secondo cui la comprensione di un’altra anima si compie come
ripetizione dell’esatto contenuto di
quest’anima nello spirito che l’accoglie
e ha luogo solamente in quanto l’esperienza vissuta propria di questo spirito viene trasposta in quella. In
queste diverse interpretazioni della comprensione psichica si fa valere
l’antitesi tra un punto di vista meccanicistico e un punto di vista organicistico e
vitalistico. E come avviene in ogni
conflitto spirituale, spinto fino alla sua istanza suprema, ogni decisione tra i due punti di vista
risulta dipendente da quella che l’uomo
ha preso in merito alla totalità e alla profondità della propria intuizione del
mondo. WEBER nasce a Erfurt, figlio di un avvocato impegnato nella politica attiva e di una
donna di forti interessi morali e religiosi, alla quale egli rimane sempre
profondamente attaccato. Condotto a Berlino, dove il padre divenuto deputato del partito liberale-nazionale accoglie in casa alcuni dei maggiori
esponenti della vita politica e della cultura tedesca dell’età bismarckiana,
Weber compe gli studi liceali nella capitale. In questo ambiente Weber rivela ben
presto la sua acuta intelligenza e una straordinaria capacità di applicazione
nello studio filosofico. Frequenta successivamente le università di Heidelberg,
Berlino, Gòttingen e poi di nuovo Berlino. A Berlino consegue il dottorato
con una dissertazione sulle società
commerciali nel medio evo, Zur Geschichte
der Handelsgesellschaften im Mittelalter (Stuttgart). In seguito gli interessi di Weber si sviluppano in due
direzioni principali. Da una parte,
soprattutto sotto l'ispirazione e la guida di Mommsen, egli si dedica allo studio della STORIA
ECONOMICO-SOCIALE DELLA ANTICA ROMA, scrivendo un saggio ancor oggi
fondamentale sul diritto agrario romano,
Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staatund Privatrecht
(Stuttgart; tr. it. Milano) con la quale ottiene l’abilitazione e soffermandosi in particolare sui rapporti tra la crisi sociale del tardo impero
e il tramonto della civiltà antica.
Dall'altra parte, sotto l'influenza dei cosiddetti socialisti della cattedra (Schmoller, Wagner, Brentano
ecc.) e attraverso la partecipazione
all'attività del Verein fir
Sozialpolitik , Weber si accosta alla
ricerca sociologica empirica e collabora a un
progetto di studio delle condizioni del lavoro agricolo in Germania con un'inchiesta sulla situazione delle regioni
orientali. Nel volume Die Verhiltnisse
der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (Leipzig, 1892), nonché in vari saggi che ne sviluppano
le implicazioni più propriamente politiche, egli pone in luce il trapasso dalla
tradizionale proprietà di tipo signorile alla proprietà capitalistica, cercando
di determi nare le conseguenze che ne risultano sul piano politico-sociale: la
formazione di una classe di imprenditori fondiari e la proletarizzazione della
manodopera agricola, con la necessità che da essa deriva di ricorrere alla
immigrazione polacca per colmare il vuoto prodottosi tra i contadini tedeschi.
Attraverso questa inchiesta comincia a delinearsi quello che sarà il problema
centrale dell’opera di Weber, cioè il problema del capitalismo moderno e della
sua individualità storica. E difatti, in una serie di saggi di poco posteriori la sua attenzione si
concentra sui vari aspetti
dell'organizzazione capitalistica dell'economia e sulle condizioni del
lavoro industriale. Conseguita
l'abilitazione, Weber sposa nel 1893 Marianne Schnitger (che alla sua figura intellettuale dedicherà,
dopo la morte, una celebre biografia).
L’anno seguente egli intraprende la sua carriera accademica quale professore di economia politica a
Friburgo e, dal 1896, a Heidelberg. Ma nel 1897 una gravissima crisi nervosa lo
costringe a sospendere l'insegnamento e
a interrompere il lavoro scientifico. Questa crisi durerà parecchi anni: soltanto dopo un lungo periodo
di riposo, di cure e di viaggi, con
l’amorevole assistenza della moglie, Weber potrà far ritorno al lavoro nel 1901, abbandonando però al
tempo stesso la cattedra universitaria.
Egli rimane a Heidelberg come studioso privato, ma nel 1903 assume
insieme a Edgard Jaffé e a Werner Sombart la
direzione dell’ Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ; e
questa rivista, sulla quale compariranno molti dei suoi saggi più
importanti, diventa per opera sua un
centro di attività a cui collaborano i più
insigni studiosi tedeschi di scienze sociali. In questi stessi anni, a contatto con
l’ambiente filosofico di Heidelberg, si vengono precisando le lince della
riflessione metodologica weberiana. In un primo saggio, Roscher und Knies und
die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie (pubblicato nello Schmollers
Jahrbuch del 1903-1906), Weber
rivolge la sua critica ai presupposti
organicistici della scuola storica di economia, respingendo la pretesa
di assegnare alla scienza economica il
compito di scoprire tendenze evolutive fornite di valore legale. Ma la critica
della scuola storica (a cui fa riscontro
l'accettazione dei princìpi della teoria marginalistica, soprattutto nella
formulazione datane da Carl Menger) si allarga in una presa di posizione polemica nei confronti dell’eredità
metodologica romantica, e in particolare
dell'interpretazione della conoscenza storica come un procedimento di
comprensione immediata, diretto a cogliere intuitivamente i fenomeni storici nella loro individualità. La
piattaforma di questa polemica è offerta a Weber dal richiamo all'impostazione
metodologica rickertiana. Dinanzi
all’alternativa tra la definizione della conoscenza storica come complesso delle scienze dello
spirito, formulata da Dilthey, e la sua
qualificazione come sapere idiografico, proposta da Windelband e da Rickert, egli sceglie infatti la seconda
soluzione. Né la specificità
dell'oggetto né la specificità del procedimento di ricerca, di per sé prese,
sono in grado di garantire l'autonomia della conoscenza storica: la contrapposizione tra natura e spirito è
un'antitesi di carattere metafisico, mentre la distinzione tra spiegazione e
comprensione rischia di ridurre la
conoscenza storica a una specie di penetrazione immediata, a una forma di intuizione. L'oggetto delle
scienze storico-sociali deve perciò
essere definito in correlazione al loro metodo, cioè in base all’orientamento
verso l’individualità; mentre l’intendere dev’essere concepito come una comprensione capace di trovare una
verifica empirica e di tradursi in
spiegazione causale. Per questa via si è
venuto delineando il problema centrale della
metodologia di Weber, vale a dire il problema dell'oggettività
delle scienze storico-sociali. Nel saggio
Die Objektivitàt sozialwissenschaftlicher und
sozialpolitischer Erkenntnis, che inaugura la nuova serie dell' Archiv
(1904; tr. it. Torino, 1958) e in alcuni saggi successivi, in particolare nelle Kritische Studien auf
dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906; tr. it. Torino, 1958),
Weber ha enunciato le due condizioni
fondamentali di oggettività delle scienze storico-sociali, indicandole da un
lato nell’esclusione dei giudizi di valore e dall'altro nel ricorso alla spiegazione causale. La prima
condizione stabilisce la differenza di principio tra il compito delle scienze
storico-sociali in quanto scienze e il
compito dell’attività politica, e più in generale di qualsiasi presa di posizione valutativa; la seconda
stabilisce invece la funzione
esplicativa delle scienze storico-sociali e l’applicabilità al loro
dominio della categoria di causalità. Su
questa base Weber si richiama alla
distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori. Se
il giudizio di valore è estraneo alle
scienze storico-sociali come a ogni altra
disciplina scientifica, ciò che distingue la loro struttura da quella
delle scienze naturali è proprio il
riferimento a certi valori in virtù dei quali
avviene la selezione del dato empirico. Weber lascia però cadere il presupposto della validità incondizionata dei
valori, a cui Rickert faceva appello: i
valori sono sì criteri di scelta che permettono la selezione del dato empirico e la costruzione dell'oggetto
storico, ma sono essi stessi assunti in
rapporto allo specifico punto di vista da cui si pone l’indagine. I valori non
sono quindi forniti di un'esistenza metastorica; essi sono sempre i valori di una certa cultura, a
cui appartiene il soggetto della
ricerca, La relazione ai valori designa pertanto il condizionamento culturale delle scienze storico-sociali, il
punto di partenza soggettivo che stabilisce la direzione dell'indagine.
Entro questa direzione è possibile una determinazione oggettiva di rapporti,
che può essere conseguita mediante il ricorso alla spiegazione causale. Ma in
tale maniera la stessa spiegazione causale di un oggetto storico risulta
inevitabilmente parziale, anzi unilaterale. Essa non mette capo alla scoperta
di rapporti necessari, ma procede alla formulazione di giudizi di possibilità
oggettiva che si collocano entro i due casi-limite della causazione adeguata e
della causazione accidentale. Le scienze storico-sociali individuano quindi, di
volta in volta, una serie di condizioni che
accanto ad altre, parimenti importanti
rendono possibile il verificarsi di un determinato avvenimento. In
quest'opera esse si avvalgono pure di concetti generali e di regole generali
che hanno il carattere di tipi ideali e che
possono organizzarsi, con una relativa autonomia, in discipline
teoriche come la scienza economica o la
sociologia. Questi concetti e queste
regole assolvono una funzione strumentale rispetto allo scopo
primario delle scienze storico-sociali,
che è la spiegazione degli avvenimenti nella
loro individualità, ma sono nondimeno indispensabili. La via verso
l’individuale passa sempre attraverso il sapere nomologico. Perciò
l’edificio del sapere storico comprende
non soltanto la ricerca storiografica, ma
anche le scienze sociali astratte, costituite mediante
l’organizzazione sistematica di concetti
tipico-ideali e dirette alla determinazione delle uniformità di comportamento dei fenomeni
sociali. Negli stessi anni Weber ha
affrontato il problema dell’individualità
storica del capitalismo moderno, con i due saggi Die
protestantische Ethik und der Geist des
Kapitalismus (1904-1905; tr. it. Roma, 1945) e Die protestantischen Sekten und der Geist des
Kapitalismus (1906). Weber definisce il
capitalismo moderno come una struttura economica a orientamento razionale, che
si colloca nel quadro del processo di razionalizzazione della vita che è
caratteristico della civiltà moderna; per cui esso si differenzia anche da quelle forme di economia
che come il capitali smo antico
possono presentare tratti simili. Alla ricerca storica si pone pertanto il compito di spiegare per
quali motivi, cioè in rapporto a quali condizioni, questa struttura sia sorta
soltanto in Occidente e nell'età moderna, e di determinare le linee del processo
attraverso cui essa si è formata. Weber sostiene, in polemica con la
concezione materialistica della storia,
l'impossibilità di fornire una spiegazione
della genesi del capitalismo moderno che faccia appello soltanto a
condizioni economiche; e si propone di mostrare che ad esso ha contribuito
in modo decisivo, accanto a un certo
tipo di organizzazione dell'impresa e a
una certa configurazione dei rapporti
materiali , anche una particolare mentalità lo spirito capitalistico la quale è il risultato di una trasformazione dell’etica calvinistica e
della sua specifica forma di ascesi
mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e
il successo negli affari. Questa tesi
costituisce il presupposto anche dell’analisi che Weber ha successivamente
dedicato alla religione cinese, all’Induismo e al Buddismo, alla religione
ebraica, negli studi raccolti sotto il
titolo complessivo Die Wirtschafesethik der Weltreligionen. Attraverso lo studio comparativo delle varie
etiche economiche a cui le religioni
universali hanno dato origine, cercando di regolare con esse la vita economica,
egli si propone infatti di mostrare per
via negativa che soltanto nel
capitalismo moderno è presente quella particolare mentalità che costituisce lo
spirito capitalistico, e che soltanto l’ascesi di tipo calvinistico poteva offrire le condizioni
adatte per la sua formazione. L'analisi
weberiana si rivolge così a determinare la diversità dell'etica economica del Protestantesimo da quella delle
altre religioni, cioè in ultima analisi a spiegare i caratteri peculiari del
capitalismo moderno. Pertanto la
sociologia della religione di
Weber appare, in fondo, una ricerca
storica che si avvale strumentalmente di concetti tipico-ideali, subordinando
l’analisi tipologica a un preciso scopo di individuazione. Soltanto nel saggio Uber einige Kategorien
der verstehenden Soziologie (1913; tr. it. Torino, 1958), e più esplicitamente
nella trattazione sistematica di
Wirtschaft und Gesellschaft (edita postuma nel 1922 a Tiibingen; tr. it. Milano, 1961), la
sociologia cessa di costituire un
momento astratto nell’ambito di un'indagine orientata in senso storiografico,
per configurarsi come una disciplina autonoma che si pone in antitesi rispetto alla ricerca storica,
delimitando un proprio campo di ricerca.
La sociologia assume a oggetto le uniformità dell’atteggiamento umano in quanto fornite di senso, e le forme
di relazione che sorgono sulla base dei
diversi tipi di atteggiamento
l’atteggiamento razionale
rispetto allo scopo, l'atteggiamento razionale rispetto al valore,
l’atteggiamento affettivo, l'atteggiamento tradizionale. In questa prospettiva
Weber ha condotto, in Wirtschaft und Gesellschaft, un'analisi sistematica dei rapporti tra i vari settori della vita
sociale e le forme di economia; cosicché
il problema dell’individualità storica del capitalismo moderno risulta trasposto sul piano di una tipologia
delle strutture economiche, considerate
nel loro rapporto reciproco con gli altri campi della vita di una società.
Negli anni successivi al 1903 lo sviluppo della riflessione metodologica
e della ricerca storico-sociologica si intreccia, in Weber, con il rinnovato
interesse per le vicende politiche tedesche e per la situazione europea. Comincia a delinearsi, in questo periodo, la
posizione sempre più critica di Weber
nei confronti dell’eredità bismarckiana, che lo condurrà a formulare un severo giudizio sulla struttura
politica della Germania, incapace di
favorire la formazione di una classe dirigente preparata e responsabile. Questa critica, che Weber ha
sviluppato durante la prima guerra
mondiale dalle colonne della Frankfurter Zeitung, viene espressa in modo compiuto poco prima della fine del conflitto in
Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (Munchen, 1918; tr. it. Bari, 1919), in cui egli
affronta il problema dell'imminente
ricostruzione politica della Germania. Successivamente Weber
partecipa in maniera diretta alla vita
politica, prima come consulente della Commissione di armistizio a Versailles e
poi collaborando alla redazione del
progetto di costituzione della repubblica di Weimar. Nel 1918
ritorna all'insegnamento, accettando una
chiamata all’Università di Monaco, dove tiene due celebri conferenze sul senso
della scienza e sul senso della politica
(Wissenschaft als Berut e Politik als Beruf, 1919; tr. it. Torino, 1948) e il suo ultimo corso di lezioni,
dedicato a un'analisi delle categorie
sociologiche. Risale a questi anni anche la Wirtschaftsgeschichte, pubblicata postuma (Berlin, 1923). La morte
lo coglie a Monaco il 14 giugno 1920, in
pieno fervore di attività. L'ultimo
periodo della vita di Weber è caratterizzato anche dallo sforzo di sviluppare le implicazioni
filosofiche della propria analisi. Non a
caso il problema che viene in primo piano, durante questi anni, è il problema dei valori, che gli veniva
riproposto con urgenza dal conflitto
mondiale e dalle questioni etico-politiche che esso aveva sollevato. Riprendendo,
nel saggio Der Sinn der Wertfreiheit der
soziologischen und dkonomischen Wissenschaften (1917; tr. it. Torino, 1958),
la tesi dell’avalutatività delle scienze
storico-sociali, Weber ha dato una
formulazione esplicita della propria concezione dei valori. I valori
non posseggono una validità
incondizionata, e tanto meno sono entità trascendenti; la loro validità
coincide con la possibilità di trovare una realizzazione nell’agire umano.
D’altra parte i valori non possono essere riportati a un'unità sistematica: la
loro molteplicità è irriducibile, e sia tra le
diverse sfere di valori sia all’interno di ogni sfera si verificano
sempre conflitti di valori. Ciò vale nei
rapporti tra etica e politica, tra scienza e
religione, e via dicendo; ma vale perfino all’interno della sfera etica,
che è dominata dall’antitesi tra etica
dell’intenzione ed etica della responsabilità. L’agire dell’uomo è la sede in
cui si manifesta il contrasto reciproco
dei valori, in quanto l'accettazione di certi valori comporta
inevitabilmente il rifiuto di altri, e il primato accordato a una certa sfera
implica la subordinazione o la negazione
di altre sfere. Il rapporto dell’agire
umano con i valori si presenta quindi come una relazione
problematica definita mediante una
scelta la scelta che l’uomo compie dei
valori che devono servire come criterio
di orientamento per la propria condotta. Su questa base Weber ha affrontato, in
Wissenschaft als Beruf, il problema del
senso della scienza, cioè il problema del significato che la scienza riveste in relazione al posto
dell’uomo nel mondo. Egli ha indicato
tale significato nella chiarezza, cioè nella presa di coscienza del rapporto tra gli scopi dell’agire e i mezzi
necessari alla loro realizzazione, a cui l’uomo perviene in virtù della
conoscenza scientifica. La scienza mette
in questione la possibilità di realizzare i valori, determinando le condizioni
dalle quali essa dipende; la sua è quindi una
funzione problematizzante e critica. In maniera analoga Weber ha
impostato, in Politik als Beruf, il problema del senso della politica. Se è
vero che la politica implica sempre rapporti di forza e mira a conseguire o
a mantenere un certo potere, è
altrettanto vero che essa è dedizione a un
compito, a una causa. In quanto tale, la politica presuppone una
scelta in favore di certi valori, a cui
si accompagna il rifiuto di altri; cosicché
nel conflitto tra le varie forze si riflette una lotta tra valori
diversi e inconciliabili. Il senso della
politica è perciò differente dal senso della
scienza il che consente a Weber
di ribadire la tesi dell’indipendenza
reciproca di conoscenza scientifica e di attività politica. Ma la base
sulla quale essi vengono determinati è
la medesima: un’interpretazione del
posto dell’uomo nel mondo che risulta fondata sul rapporto di scelta che intercorre tra l'uomo e i valori. I saggi
metodologici di Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tùbingen, 1922, 1951
? (a cura di J. Winckelmann), 1968?,
19734. Il volume comprende i seguenti saggi: Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen
Nationalòkonomie (1903-1906), Die Objektivitit
sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904),
Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906), R.
Stammlers Ùberwindung der materialistischen Geschichtsauffassung (1907) con il relativo
Nachtrag, Die Grenznutzlehre und das
psychophysische Grundgesetz
(1908), Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie (1913), Die
drei Typen der legitimen Herrschaft (apparso postumo nel 1922), Der Sinn
der Wertfreiheit der soziologischen und Gkonomischen
Wissenschaften, Wissenschaft als Beruf
nonché il primo capitolo di Wirtschaft und Gesellschaft. Di questi saggi
il secondo, il terzo, il sesto e l’ottavo sono tradotti nel volume 7 metodo
delle scienze storico-sociali (a cura di P. Rossi), Torino, 1958; Wissenschaft
als Beruf è invece tradotto insieme a
Politik als Beruf nel volume Il lavoro
intellettuale come professione (tr. it. di A. Giolitti, intr. di D. Cantimori),
Torino, 1948, 1966 2. Gli altri scritti di Weber sono raccolti per buona parte
nei seguenti volumi: Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie, Tiùbingen,
1920-21, con varie riedizioni fototipiche (una traduzione italiana completa è
in corso di preparazione per i Classici
della sociologia delle Edizioni di
Comunità): il primo volume comprende i due saggi Die protestantische Ethik und
der Geist des Kapitalismus e Die protestantischen Sekten und der Geist des
Kapitalismus, nonché l'introduzione e la prima parte di Die Wirtschaftsethik
der Weltreligionen, dedicata a Konfuzianismus und Taoismus; il secondo
comprende la seconda parte, dedicata a Hinduismus und Buddismus; il terzo
comprende la terza parte, dedicata a Das antike Judentum. Una nuova edizione
dei saggi sull'etica protestante, corredata della relativa discussione, è stata
fornita da J. Winckelmann, col titolo Die protestantische Ethik: cine
Aufsatzsammlung, Miinchen, 1968, e Hamburg. Gesammelte politische Schriften,
Miinchen, 1921, e Tiibingen, 1958? (a cura di J. Winckelmann), 19713; tr. it.
(parziale) Catania, 1970: di questa traduzione non fanno parte né Parlament und
Regierung im neugeordneten Deutschland, già tradotto fin dal 1919, né il saggio
Politik als Beruf, tradotto invece nel volume // Zavoro intellettuale come
professione cit. Gesammelte Aufsitze zur Sozialund Wirtschaftsgeschichte,
Tiubingen, 1924: il volume comprende Agrarverhaltnisse im Altertum (1909) e una
serie di altri saggi di storia economico-sociale del mondo antico e del
Medioevo, nonché Die lindliche Arbeitsverfassung (1893), Entwickelungstendenzen
in der Lage der ostelbischen Landarbeiter e Der Streit um den Charakter der
altgermanischen Sozialverfassung in der deutschen Literatur des letzten
Jahrzehnts (1905). Gesammelte Aufsitze zur Soziologie und Sozialpolitik,
Tùbingen, 1924: il volume comprende diversi saggi di sociologia empirica, tra
cui soprattutto Zur Psychophysik der industriellen Arbeit (1908-1909), e gli
interventi alle riunioni del Verein fir
Sozialpolitik . Rimangono al di fuori di queste raccolte: i due volumi Die
ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staatund Privatrecht e Die
Verhdltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland, già menzionati;
l’opera sociologica fondamentale Wirtschaft und Gesellschaft, Tùbingen, 1922,
19257, 19473, 19564 (a cura di J. Winckelmann), 19725, tr. it. Milano, 1961,
1968, 1974?; le lezioni sulla Wirtschaftsgeschichte: Abriss der universalen
Sozialund Wirtschaftsgeschichte (a cura di S. Hellmann e M. Palyi),
Miinchen-Leipzig, 1923 (una traduzione italiana è in preparazione presso
Einaudi). Rimangono inoltre al di fuori delle varie raccolte e dei volumi qui
elencati numerosi scritti, discorsi, interventi congressuali, nonché gli
Jugendbriefe, Tiibingen, s.d. (ma 1936). Di grande importanza per la comprensione
della personalità di Weber è la biografia scritta dalla moglie Marianne Weser,
Max Weber, cin Le bensbild, Tiibingen, 1921, e Heidelberg, 19507. Due
importanti raccolte di documenti sono state pubblicate rispettivamente da E.
BAuMGARTEN, col titolo Max Weber: Werk und Person, Tiibingen, 1964, e da R.
KénIG e J. WincKELMANN, col titolo Max Weber zum Gedichinis (fascicolo speciale
della Kòlner Zeitschrift fir Soziologie
und Sozialpsychologie , XVI, 1964). La letteratura critica sull'opera e sul
pensiero di Weber ha acquistato, particolarmente negli ultimi due decenni,
dimensioni sempre più cospicue. Tra di essa ci limitiamo a segnalare gli studi
seguenti: 550 MAX WEBER A. von ScHELTING, Die logische Theorie der historischen
Kulturwissenschaft von Max Weber und im besonderen sein Begriff des Idealtypus,
Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik , XLIX, 1920, pp. 623-752. H.
OrrenHEMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung (mit besonderer
Beriicksichtigung von Max Weber), Tiibingen, 1925. A. Warter, Max Weber als
Soziologe, Jahrbuch fir Soziologie , II,
1926, pp. 1-65. H. J. Graz, Der Begriff des Rationalen in der Soziologie Max
Webers, Karlsruhe, 1927. B. Prisrer, Die Entwicklung zum Idealtypus (Eine
methodologische Untersuchung iiber das Verhaltnis von Theorie und Geschichte
bei Menger, Schmoller und Max Weber), Tibingen, 1928, parte III. S. LanpsHut,
Kriti der Soziologie, Minchen-Leipzig, 1929, e NeuwiedBerlin, 1968 ?, parte II.
W. Bienrair, Max Webers Lehre vom geschichilichen Erkennen, Berlin, 1930. E. Wotr, Max Webers ethischer
Kritizismus und das Problem der Metaphysik,
Logos, XIX, 1930, pp. 359-70. W. StrzeLEWIcz, Die Grenzen der
Wissenschaft bei Max Weber, Frankfurt a.M., 1931. K. Jasrers, Max Weber: Deutsches
Wesen im politischen Denken, im Forschen und Philosophieren, Oldenburg, 1932;
nuova edizione col titolo Max Weber: Politiker, Forscher, Philosoph, Bremen,
1946, e Miinchen, 19582; tr. it. Napoli, 1969. K. LéwrrH, Max Weber und Karl
Marx, Archiv fiir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik , LXVII, 1932, pp. 53-99 € 175-214, poi raccolto nelle Gesammelte
Abhandlungen zur Kritik der geschichilichen Existenz, Stuttgart, 1960, pp.
1-67; tr. it. Napoli, 1967, pp. g-110. A. Scnurz, Der sinnhafte Aufbau der
sozialen Welt (Eine Einleitung in die verstehende Soziologie), Wien, 1932. C.
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Max Weber und die philosophische Problematik in unserer Zeit, Leipzig. A.
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Wissenschafeslehre, Tiibingen, 1934. R. Lennert, Die Religionstheorie Max
Webers, Stuttgart, 1935. A. Saromon, Max Weber's Sociology, Social Research , II, 1935, pp. 60-73. A.
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Social Research , II, 1935, pp. 368-84. T. Parsons, The Structure of
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Webers Herrschaftssoziologie, Tubingen, 1952. P. Rossi, La sociologia di Max Weber, Quaderni di sociologia , 1954, N. 12, pp.
70-90, € n. 13, pp. 114-490. M. Mertrau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Paris,
1955, pp. 15-42. J.
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Sozialpsychologie , XI, 1959, pp. 573630. R. Benpix, Max Weber: an Intellectual
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Max Webers Idealtypus der rationalen Herrschaft, Hamburg, 1960. A. Scuwerrzer,
The Method of Social Economics: a Study of Max Weber, Bloomington (Indiana),
1961. 552 MAX WEBER W. Wecener, Die Quellen der Wissenschaftsauffassung Max
Webers und die Problematik der Werturteilsfreiheit der NationalòkRonomie,
Berlin, 1962. E. FLEIscHMann, De Weber à Nietzsche, Archives européennes de sociologie , V, 1964,
pp. 190-238. Max Weber und die Soziologie heute (a cura di O. Srammer),
Tibingen, 1965; tr. it. Milano, 1968. Revue internationale des sciences sociales ,
XVII, 1965, n. 1 (fascicolo speciale dedicato a Max Weber, con contributi di R.
Benpix, W. Momxsen, T. Parsons, P. Rossi). F. FerrarOTTI, Max Weber e il destino della ragione,
Bari, 1965. J. Janoska-Benpi, Methodologische Aspekte des Idealtypus: Max Weber
und die Soziologie der Geschichte, Berlin, 1965. P. LazarseeLD e A. OserscHaLL,
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staatspolitische Auffassungen in der Sicht unserer Zeit, Frankfurt a.M.-Bonn,
1965. J. SancHez Azcona, Introduccibn a la sociologia segin Max Weber, Mexico,
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Sociology of Max Weber, Oxford, 1974. Un elenco degli scritti di Weber (compresi gli articoli di giornale) è
stato fornito per la prima volta da Marianne Weser, Max Weber, ein Lebensbild
cit., pp. 755-60; esso è stato completato da J. WINcKELMANN nell’antologia di testi weberiani Soziologie,
Weltgeschichtliche Analysen, Politik,
Stuttgart, 1956, pp. 490-503. Per una bibliografia degli studi su Weber si veda l’articolo di H. H. GertH e H.
I. GertH, Bibliography on Max
Weber, Social Research , XVI, 1949, pp.
70-89, nonché le importanti integrazioni fornite da W. Mommsen, Max Weber und
die deutsche Politik. La prima questione
*, che di solito si pone presso di noi a
una rivista di scienza sociale che sia al tempo stesso una rivista di politica sociale, nel momento del suo
apparire oppure del a. Ogni qual volta,
nella prima parte delle seguenti considerazioni, si parlerà esplicitamente in nome degli editori,
0 si determineranno i compiti dell’ Archivio , non si tratterà naturalmente di
opinioni private dell’autore, bensì di formulazioni che hanno avuto l’espressa
approvazione dei coeditori. Per la
seconda parte la responsabilità, tanto per la forma quanto per il contenuto, spetta soltanto
all'autore. Che l’ Archivio non cadrà mai nella proclamazione settaria di
una determinata posizione scolastica, è
garantito dalla circostanza che il punto
di vista non solo dei suoi collaboratori, ma anche dei suoi editori,
è tutt'altro che identica, perfino sotto
il profilo metodologico. D'altra parte
una convergenza su certe concezioni fondamentali ha costituito
naturalmente il presupposto dell'assunzione collettiva della redazione.
Questa convergenza si riferisce in particolare
alla considerazione del valore della
conoscenza seorica da punti di vista
unilaterali , nonché all'esigenza
dell’elaborazione di concetti precisi e della rigorosa distinzione tra
sapere empirico e giudizio di valore,
nel senso in cui essa verrà qui presentata
naturalmente senza la pretesa di chiedere qualcosa di nuovo .
L'ampiezza della discussione (nella seconda parte) e la frequente
ripetizione dello stesso pensiero servono allo scopo esclusivo di pervenire
al massimo possibile di comune
intelligibilità in tali considerazioni. Per que* Die Objektivitit
sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, Archiv fiir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik , XIX, 1904, pp. 22-87, raccolto
nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, ]. C.
B. Mohr, 1922, 4° cd. (a cura di
Johannes Winckelmann) 1973, pp. 146-214 (L’ oggettività conoscitiva della scienza sociale e della
politica sociale, tr. it. di Pietro Rossi, in Il metodo delle scienze
storico-sociali, Torino, Einaudi. passaggio sotto una nuova redazione, è quella
concernente la sua tendenza . Anche noi non possiamo sottrarci a
tale questione, e dobbiamo a questo punto
in riferimento alle osservazioni formulate nella nostra Nota
introduttiva! addentrarci in
un'impostazione problematica più fondamentale. Si offre in questa maniera l’opportunità di illustrare
lungo varie direzioni il carattere specifico del lavoro della scienza sociale
in genere, quale noi lo intendiamo, di
modo che ciò possa essere utile per quanto, o piuttosto proprio in quanto si
tratta di nozioni di per sé
evidenti se non per lo specialista, almeno per il lettore che è più lontano dalla
prassi del lavoro scientifico. Scopo esplicito dell’ Archivio è stato, fin dall’inizio, quello di
promuovere, accanto all'estensione della nostra conoscenza intorno alle
situazioni sociali di tutti i paesi, e quindi
intorno ai fazti della vita sociale, anche l'educazione del giudizio sui
suoi problemi pratici e pertanto in
quella maniera, certo assai modesta, in
cui un fine siffatto può venir perseguito
da studiosi privati la critica
del lavoro pratico di politica sociale,
fino ai fattori legislativi. E tuttavia l’ Archivio si è
proposto sempre di essere una rivista esclusivamente scientifica, e di lavorare soltanto con i mezzi della
ricerca scientifica cosicché si
presenta subito il problema del modo in cui quello sto interesse molto c'è da sperare non troppo si è sacrificato di precisione dell’espressione, ed è stato pure
del tutto tralasciato il tentativo di
presentare, in luogo di un’'elencazione di alcuni punti di vista metodologici,
un'indagine sistematica. Ciò avrebbe richiesto l'inserimento di una quantità di problemi di teoria della
conoscenza, che in parte si situano a un livello ancora maggiore di profondità.
Qui ci si propone non già di fare della
logica, bensì di rendere utili per noi dei risultati noti della logica moderna; e quindi non di risolvere dei
problemi, ma di illustrarne il
significato ai non specialisti. Chi conosca i lavori dei logici moderni io cito solo Windelband, Simmel e, per i
nostri scopi, specialmente Heinrich Rickert
osserverà subito come ogni cosa essenziale sia qui legata ad essi,
1, Si tratta della Nota introduttiva alla nuova serie dell’ Archiv fir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik , che enunciava il programma della nuova
redazione, costituita oltre che da Weber da Edgard Jaffé e da Werner Sombart.
Cfr. Archiv , XXI, 1904, pp. ivi scopo possa conciliarsi, in linea di
principio, con la limitazione a questi
mezzi. Allorché l’ Archivio procede
nelle sue pagine a valutare le misure legislative o amministrative, oppure
le proposte per tali misure, che cosa
significa questo? Quali sono le zorme
per questi giudizi? Quale è la validità dei giudizi di valore che talvolta esprime da parte sua
colui che giudica, o che un autore,
nell’avanzare proposte pratiche, pone a fondamento di queste? E in quale senso
egli si mantiene allora sul terreno
della discussione scientifica, dal momento che la caratteristica della
conoscenza scientifica deve essere rintracciata nella validità
oggettiva dei suoi risultati cioè nella sua verità? Noi intendiamo illustrare dapprima il nostro
punto di vista di fronte a questa
questione, per trattarne in seguito un’altra più ampia: in qual senso vi soro in generale verità oggettivamente valide sul terreno delle scienze che studiano la
vita culturale? È una questione che, in considerazione del continuo mutare e
della lotta accanita che investe anche i problemi apparentemente più elementari
della nostra disciplina, il metodo del suo
lavoro, il modo di formazione dei suoi concetti e la loro validità, non
può essere evitata. Noi vogliamo quindi non già offrire delle soluzioni, ma piuttosto porre in luce
dei problemi quei problemi a cui la nostra rivista, per essere
giustificata nel suo lavoro passato e
futuro, dovrà dedicare la propria attenzione.
Noi tutti sappiamo che la nostra scienza, anzi con l’eccezione forse della storia
politica ogni disciplina che abbia per
oggetto le istituzioni e i processi culturali della vita umana, è storicamente
sorta in relazione a punti di vista pratici. Il suo scopo prossimo, e all’inizio
anche esclusivo, era quello di produrre giudizi di valore su determinati
provvedimenti politico-economici dello stato. Essa costituiva una tecnica » all'incirca nello stesso senso in
cui lo sono anche le discipline cliniche nell’ambito delle scienze mediche. È
noto pure come questa posizione sia
venuta gradualmente mutando, senza che tuttavia
fosse realizzata una distinzione di principio tra la conoscenza di ciò che è» e la conoscenza di ciò che deve
essere ». Contro questa distinzione
operava dapprima la convinzione che i
processi economici siano regolati da leggi di natura immutabilmente eguali, e
in seguito l’altra convinzione che essi dipendano da un principio di sviluppo
univoco; e pertanto si riteneva che ciò
che deve essere coincidesse 0 con ciò che è immutabilmente, nel primo caso,
oppure con ciò che diviene immancabilmente, nel secondo caso. Con il risveglio
del senso storico la nostra scienza fu
dominata da una combinazione di evoluzionismo etico e di relativismo storico,
la quale tentava di spogliare le norme
etiche del loro carattere formale, di determinarle nel contenuto mediante l’incorporazione
dell'insieme dei valori culturali nell’ambito della sfera etica, e di elevare
perciò l’economia politica alla dignità di una
scienza etica su fondamento
empirico. Dal momento in cui si contrassegnava l’insieme di tutti gli ideali culturali possibili con
l'impronta della sfera etica, svaniva però la dignità specifica degli
imperativi etici, senza acquisire
d’altra parte nulla per l’oggettività di quegli ideali. Per il momento noi
possiamo e dobbiamo lasciar qui da parte
una confutazione di principio di tale posizione; e ci soffermeremo semplicemente a osservare che
anche oggi non è scomparsa l'opinione
inesatta comune ovviamente soprattutto
ai pratici che l'economia politica
produca e debba produrre giudizi di valore, derivandoli da una specifica intuizione
economica del mondo . La nostra
rivista, in quanto rappresentante di una disciplina empirica, deve respingere in maniera
fondamentale questa posizione come
vogliamo mostrare fin dall’inizio poiché
siamo convinti che non può mai essere compito di una scienza empirica quello di formulare norme vincolanti
e ideali, per derivarne direttive per la
prassi. Che cosa discende però da questa
proposizione? Non ne discende in nessun
modo che i giudizi di valore, in quanto essi
si basano in ultima istanza su determinati ideali e sono perciò di origine
soggettiva , siano sottratti alla discussione scientifica in genere. La
prassi e lo scopo della nostra rivista avrebbe
sempre smentito un principio siffatto. La critica non si arresta di fronte ai giudizi di valore. La questione
è piuttosto la seguente: che cosa significa e a che cosa tende una critica
scientifica di ideali e di giudizi di valore? Essa richiede una considerazione
alquanto approfondita. Ogni riflessione
pensante sugli elementi ultimi di un agire
umano fornito di senso è vincolata anzitutto alle categorie di scopo
e di mezzo . Noi vogliamo qualcosa,
in concreto, o per il suo proprio
valore oppure come mezzo al servizio di
ciò che si vuole in ultima analisi. Alla considerazione scientifica è
quindi accessibile in primo luogo, incondizionatamente, la questione dell’appropriatezza dei mezzi in
vista di un dato scopo. In quanto noi
(entro i limiti del nostro sapere) possiamo validamente stabilire quali mezzi
sono appropriati o non appropriati per
raggiungere uno scopo prospettato, possiamo
per questa strada misurare le possibilità di conseguire con determinati
mezzi a disposizione uno scopo determinato, e quindi criticare indirettamente la stessa
determinazione di tale scopo, in base
alla situazione storica presente, come praticamente fornita di senso oppure
come priva di senso in base alla configurazione dei rapporti esistenti. Noi
possiamo inoltre, se sembra data la
possibilità di raggiungere uno scopo prospettato, stabilire naturalmente sempre entro i limiti del nostro
sapere le conseguenze che avrebbe l’impiego dei mezzi
richiesti accanto all'eventuale
conseguimento dello scopo prefisso, sulla base della connessione complessiva di
ogni accadere. Noi offriamo in tale
maniera a colui che agisce la possibilità di misurare tra loro le conseguenze non volute e quelle
volute del suo agire, e perciò la
risposta alla questione: che cosa
costa il conseguimento dello
scopo voluto, in forma di pregiudizio prevedibilmente recato ad altri valori?
Dal momento che, nella grande
maggioranza dei casi, ogni scopo al quale si tende costa oppure può costare qualcosa, l’auto-riflessione
di uomini che agiscano in modo
responsabile non può prescindere dalla reciproca misurazione dello scopo e
delle conseguenze dell’agire; e renderla
possibile è infatti una delle funzioni essenziali della critica tecnica, quale noi l'abbiamo finora
considerata. Tradurre quella misurazione in una decisione nor è certo più
un possibile compito della scienza, ma è
compito dell’uomo che vuole: egli misura
e sceglie tra i valori in questione secondo la
propria coscienza e secondo la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurlo alla coscienza
che ogri agire, e naturalmente anche (secondo le circostanze) il zon-agire,
significa nelle suc conseguenze una presa di posizione in favore di determinati valori, e perciò cosa che oggi viene così volentieri dimenticata di regola contro altri. Compiere la scelta è però cosa sua. Ciò che noi possiamo ancora offrirgli per
questa decisione è la conoscenza del
significato di ciò che viene voluto. Noi possiamo insegnargli a conoscere nella
loro connessione e nel loro significato
gli scopi che egli vuole, e tra cui sceglie, rendendo esplicite e sviluppando in maniera
logicamente coerente le idee che stanno,
o che possono stare, a base dello scopo concreto. Infatti è evidentemente uno
dei compiti essenziali di ogni scienza
della vita culturale dell’uomo quello di schiudere alla comprensione spirituale queste idee , per le
quali si è lottato e si lotta, in parte
realmente e in parte apparentemente. Ciò
non va oltre i limiti di una scienza che tende a un ordinamento concettuale della realtà
empirica, sebbene i mezzi necessari per questa interpretazione dei valori
spirituali non costituiscano induzioni nel senso comune del termine. Tuttavia
questo compito cade, almeno
parzialmente, al di fuori dell'ambito della disciplina economica nella sua
specializzazione, quale è definita in base alla consueta divisione del lavoro
scientifico; si tratta piuttosto di un
compito della filosofia sociale. Solo che la forza storica delle idee è stata
così predominante per lo sviluppo della vita sociale, e lo è tuttora, che la
nostra rivista non può sottrarsi a tale compito, e deve piuttosto considerarlo
nell'ambito dei suoi doveri più importanti. Ma la trattazione scientifica dei
giudizi di valore può non soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che
ci prefiggiamo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto può
insegnarci anche a valutarli criticamente. Questa critica può certo avere
soltanto un carattere dialettico, cioè può soltanto essere una valutazione
logico-formale del materiale che ci è offerto dai giudizi di valore e dalle
idee storicamente date, e quindi un
esame degli ideali in base al postulato della n0n contraddittorietà interna di
ciò che viene voluto. Essa può, proponendosi questo scopo, condurre colui che
agisce volontariamente a un’auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che
stanno a base del contenuto del suo
volere, vale a dire a quei criteri di
Max Weber intorno al 1916. valore ultimi da cui egli inconsapevolmente
muove o da cui per essere coerente dovrebbe muovere. Recare alla coscienza questi criteri ultimi, che si manifestano nei
giudizi concreti di valore, è in ogni
caso l’ultima cosa che essa può compiere,
senza penetrare nel campo della speculazione. Che il soggetto che giudica debba conformarsi a questi
criteri ultimi è un suo affare
personale, e riguarda il suo volere e la sua coscienza, non già il sapere empirico. Una scienza empirica non può mai insegnare a
nessuno ciò che egli deve, ma può
insegnargli soltanto ciò che egli può
e in determinate circostanze ciò che egli vuole. È vero che, entro il campo delle nostre
scienze, i vari modi personali di
concepire il mondo penetrano di continuo anche
nell’argomentazione scientifica, intorbidandola sempre e conducendola a
considerare in maniera diversa il peso di argomenti scientifici, pur sul terreno della
determinazione di semplici connessioni
causali tra i fatti; e che di conseguenza risultano diminuite o aumentate, a seconda dei casi, le
possibilità degli ideali personali, cioè
la possibilità di volere qualcosa di determinato. Anche gli editori e i
collaboratori della nostra rivista
ritengono sotto questo rispetto che in verità nulla di umano sia loro alieno . Ma molto intercorre tra
questa confessione di debolezza umana e
la fede in una scienza etica
dell’economia politica, che dovrebbe dalla propria materia produrre
degli ideali, oppure dar luogo a norme
concrete mediante l’applicazione di imperativi etici universali a tale
materia. Ed è anche vero che proprio quegli elementi intimi
della personalità, i supremi e ultimi
giudizi di valore che determinano il nostro
agire e che dànno senso e significato alla nostra vita, sono da noi avvertiti come qualcosa di oggeztivamente valido. Noi
possiamo rappresentarceli soltanto se essi si presentano a noi come validi, come derivanti dai nostri
supremi valori, e se quindi essi sono
così sviluppati, nella lotta contro le resistenze della vita. E certamente la dignità
della personalità consiste
tutta nel fatto che per essa vi sono valori a cui riferisce la propria vita: anche se nel caso singolo
questi valori sussistono esclusivamente
entro la sfera della propria individualità, tuttavia l’estrinsecarsi in quelli
dei suoi interessi, per i quali reclama
la validità dei valori, diventa l’idea alla quale essa si riferisce. Soltanto
in base al presupposto della fede nei valori
ha senso, in ogni caso, il tentativo di formulare giudizi di valore. Giudicare la validità di tali valori
è però una questione di fede, ed è
inoltre forse un compito della considerazione
speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel loro senso, ma non è sicuramente oggetto di
una scienza empirica nel significato adottato in queste pagine. Per questa
distinzione non ha rilievo decisivo come
spesso si ritiene il fatto empiricamente determinabile che quei
fini ultimi sono storicamente mutevoli e
contestati. Infatti anche la conoscenza
dei princìpi più sicuri del nostro sapere teorico anche del
sapere delle scienze naturali esatte o della matematica è in
primo luogo prodotto della cultura, nello stesso modo in cui lo sono la sensibilità e il raffinamento della
coscienza. Soltanto quando riflettiamo
in maniera specifica sui problemi pratici della
politica economica e sociale (nel senso consueto del termine), risulta chiaro che vi sono numerose, anzi
innumerevoli questio ni particolari di
carattere pratico, per la cui discussione si
muove, in generale accordo, da certi scopi assunti come di per sé evidenti
sì pensi per esempio ai crediti in caso di necessità, ai compiti
concreti dell’igiene sociale, all’assistenza dei poveri, a provvedimenti come
le ispezioni di fabbriche, i tribunali
del lavoro, gli uffici di collocamento, cioè a gran parte della legislazione protettiva dei lavoratori e che di questi scopi si discute, almeno in apparenza, solo in riferimento
ai mezzi adatti per conseguirli. Ma
anche se si scambiasse qui l’apparenza dell’auto-evidenza con la verità ciò che la scienza non potrebbe mai fare impunemente e se si volessero considerare i conflitti,
entro i quali subito conduce il tentativo della
realizzazione pratica, come questioni puramente pratiche di opportunità
il che sarebbe molto spesso erroneo
dovremmo tuttavia osservare che anche questa apparenza di auto-evidenza
dei criteri regolativi di valore svanisce appena procediamo dai problemi
concreti dei servizi assistenziali alle questioni della politica economica e sociale. Il
contrassegno del carattere politico-sociale
di un problema consiste precisamente nel fatto
che esso non può venir sbrigato sulla base di considerazioni meramente tecniche che facciano riferimento a
scopi stabiliti, e che si può, anzi si
è costretti a disputare intorno agli stessi criteri regolativi di valore, dal
momento che il problema rientra nella regione delle questioni culturali di
portata generale. E la disputa si svolge non soltanto, come oggi così
volentieri si crede, tra interessi di classe, ma anche tra intuizioni del mondo
e con ciò tuttavia rimane naturalmente vero che l'adesione dell'individuo a una certa
intuizione del mondo è decisa anche,
oltre che da vari altri elementi, e di sicuro in misura molto elevata, dal grado di affinità
che la unisce al suo interesse di
classe (se vogliamo qui accogliere in
via provvisoria questo concetto solo apparentemente univoco). Di certo c'è, in ogni circostanza, soltanto una cosa,
che quanto più generale è il problema del quale si tratta, vale a
dire quanto più esteso è il suo
significato culturale, tanto meno esso può
trovare una risposta univocamente determinata in base al materiale del
sapere empirico, e di conseguenza tanto maggiore rilievo hanno gli ultimi assiomi, così
personali, della fede e delle idee di
valore. È semplicemente una ingenuità
sebbene essa sia tuttora
condivisa talvolta da specialisti
ritenere possibile di stabilire in primo luogo per la scienza sociale
pratica un principio e di trovare una conferma scientifica della sua validità, per dedurne quindi in maniera
univoca le norme per la soluzione dei
problemi pratici particolari. Per quanto le discussioni di principio
di problemi pratici, condotte per riportare i giudizi di valore che si
impongono in maniera irriflessa al loro contenuto di idee, siano indispensabili
nella scienza sociale, e per quanto la nostra rivista intenda dedicarsi in
maniera particolare anche ad esse, non può tuttavia essere suo compito come non può essere il compito di nessuna
scienza empirica in genere la creazione
di un denominatore comune di portata
pratica per i nostri problemi, in forma di ideali ultimi universalmente validi; esso sarebbe
non soltanto di fatto insolubile, ma
anche in sé privo di senso. E quale che sia l’interpretazione del fondamento e
del modo di obbligatorietà degli
imperativi etici, è però certo che da essi, in quanto costituiscono
norme per l’agire concretamente condizionato dell’;dividuo, non si possono
dedurre in maniera univoca dei contenuti
di cultura che debbano essere accolti, e che anzi ciò è tanto meno possibile quanto più comprensivi sono i
contenuti in questione. Soltanto le religioni positive o più precisamente le sette legate da un
vincolo dogmatico possono attribuire al contenuto dei valori culturali la dignità di
comandi etici incondizionatamente validi. Al di fuori di esse gli ideali
culturali, che l’individuo rsole
realizzare, e i doveri etici, che egli deve
compiere, sono di dignità fondamentalmente differente. Il destino di
un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della conoscenza è quello di sapere che noi non
possiamo cogliere il senso dell’accadere
cosmico in base al risultato della sua investigazione, per quanto perfettamente
accertato esso sia, ma che dobbiamo
essere in grado di crearlo, e che di conseguenza le intuizioni del mondo non possono mai essere prodotto del sapere empirico nel suo progredire, mentre
gli ideali supremi, che ci muovono nella
maniera più potente, agiscono in tutte le
età solo nella lotta con altri ideali, che ad altri sono sacri come a noi i nostri. Soltanto un sincretismo ottimistico, quale
risulta talvolta prodotto dal
relativismo storico-evolutivo, può illudersi teoricamente sull’estrema gravità
di questo stato di cose oppure sottrarsi praticamente alle sue conseguenze. È
ovvio che nel caso singolo può essere
soggettivamente doveroso per il politico pratico cercare una mediazione tra le
antitesi di opinioni esistenti, proprio
come può esserlo prendere partito per una di esse. Ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’
oggettività scientifica. La linea di
mezzo non è verità scientifica in nessun
modo più di quanto lo siano gli estremi ideali di parte, di destra oppure di sinistra. Mai l’interesse
della scienza è alla lunga così mal
garantito come le volte in cui non si vuole
guardare in faccia i fatti scomodi e le realtà della vita nella loro durezza. L° Archivio combatterà senza
sosta la grave auto-illusione che si
possano ottenere norme pratiche di validità scientifica attraverso la sintesi
di diversi punti di vista, oppure in
base a una diagonale tracciata tra di loro, in quanto essa
amando rivestire relativisticamente i propri criteri di valore
è molto più pericolosa per una ricerca impregiudicata di quanto non lo sia la vecchia ingenua fede
dei diversi partiti nella dimostrabilità scientifica dei propri dogmi. La capacità di
realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè tra l'adempimento del dovere scientifico di
vedere la realtà dei fatti e
l'adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali questo è il principio al quale dobbiamo
attenerci più saldamente. In ogni epoca c’è e rimarrà sempre questo è ciò che ci interessa
una differenza insormontabile tra un’argomentazione la quale si diriga
al nostro sentimento e alla nostra capacità
di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenuti
culturali, oppure anche alla nostra coscienza
nel caso in cui sia in questione
la validità di norme etiche e
un’argomentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al nostro bisogno di ordinare concettualmente la
realtà empirica, in maniera da
pretendere una validità di verità empirica. E
questa proposizione rimane corretta nonostante che quei valori supremi che stanno a base
dell’interesse pratico siano e restino
sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in luce, per la direzione che l’attività
ordinatrice del pensiero assume ogni
volta nel campo delle scienze della cultura. È e resta vero, infatti,che una dimostrazione
scientifica metodicamente corretta nel campo delle scienze sociali deve essere
riconosciuta come giusta, allorché essa abbia realmente conseguito il proprio scopo, anche da un Cinese. Il che
vuol dire, più precisamente, che essa
deve in ogni caso aspirare a questo fine,
benché forse non pienamente attuabile per l’insufficienza del materiale, e che l’analisi logica di un
ideale, considerato nel suo contenuto e
nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione
delle conseguenze che logicamente e praticamente derivano dalla sua
realizzazione, deve essere valida per chiunque, anche per un Cinese, una volta posto che sia
riuscita. E ciò mentre a lui può mancare
la sensibilità per i nostri imperativi etici, e mentre egli può respingere e certo
respingerà spesso quell’ideale e le valutazioni concrete che ne discendono,
senza tere in tal modo il valore
scientifico dell’analisi concettuale.
sicuro la nostra rivista non ignorerà i tentativi, che i. e inevitabilmente si ripetono, di determinare
in maniera univoca il sezso della vita
culturale. Al contrario, essi appartengono ai
prodotti più importanti di questa vita culturale, e in determinate
circostanze anche alle sue più potenti forze direttive. Perciò noi seguiremo sempre con cura il corso delle
discussioni di filosofia sociale in
questo senso. Anzi, noi siamo quanto mai
alieni dal pregiudizio che le considerazioni della vita culturale, le quali tentano
di pervenire a interpretare metafisicamente il mondo, procedendo oltre
l’ordinamento concettuale del dato
empirico, non possano per questo loro carattere adempiere alcun compito in
servizio della conoscenza. In che cosa
consista questo compito è certo un problema in primo luogo di teoria della conoscenza, la cui soluzione deve,
e può anche, essere qui messa in
disparte per ciò che concerne i nostri scopi.
Poiché una cosa dobbiamo stabilire per il nostro lavoro: che una rivista di scienza sociale nel senso da
noi illustrato, in quanto essa aspira al
carattere di scienza, deve essere una sede
nella quale si cerca la verità, e una verità tale per rimanere
all'esempio che esiga anche per
il Cinese la validità propria di un
ordinamento concettuale della realtà empirica.
Certamente gli editori non possono proibire una volta per sempre, a se stessi e ai collaboratori, di
esprimere i propri ideali anche in forma
di giudizi di valore. Solo che da ciò
scaturiscono due importanti doveri. In primo luogo, viene il dovere di rendere ben consapevole in ogni
momento il lettore e se stesso dei
criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è derivato il giudizio di valore, invece di
illudersi, come troppo spesso accade,
intorno ai conflitti tra gli ideali, mediante un’imprecisa congiunzione di
valori di diverso tipo, e di volere « offrire qualcosa a ognuno . Se questo
dovere viene rigorosamente osservato, la presa di posizione valutativa di
carattere pratico può risultare non
soltanto innocua, ma anche direttamente utile nel puro interesse scientifico;
poiché nella critica scientifica delle
proposte legislative, nonché di altre proposte pratiche, la chiarificazione dei motivi del legislatore e
degli ideali dell’autore criticato non può venir compiuta in tutta la sua
portata, in forma intelligibile, se non mediante il confronto dei criteri di
valore che sono alla loro base con altri, e naturalmente anche, in primo luogo,
con i propri. Ogni valutazione fornita di senso del volere di un altro può
essere soltanto una critica condotta in base alla propria intuizione del mondo,
cioè una lotta contro l'ideale altrui sulla base di un proprio ideale. Se nel caso
particolare l’assioma valutativo ultimo, che sta a fondamento di un volere
pratico, deve essere non soltanto determinato e analizzato scientificamente, ma
anche illustrato nelle sue relazioni con altri assiomi valutativi, rimane
inevitabile una critica positiva per
mezzo di un “esposizione sistematica di questi ultimi. Nelle pagine di questa rivista, specialmente
in occasione della discussione di leggi,
si tratte rà inevitabilmente, oltre che
di scienza sociale e cioè
dell’ordinamento concettuale dei
fatti anche di politica
sociale e cioè della rappresentazione di
ideali. Ma noi non pensiamo di presentare siffatte discussioni polemiche
come scienza , € ci guarderemo con tutte
le nostre forze dal mescolare e
scambiare le due cose. Non è più allora
la scienza che parla; e infatti la seconda fondamentale prescrizione di un discorso scientifico
impregiudicato è di illustrare con chiarezza in tali casi al lettore (e, lo
ripetiamo, in primo luogo di chiarire a
se stesso) che, e dove, finisce il ricercatore
con la sua opera di pensiero e dove comincia a
parlare l’uomo che vuole, dove gli argomenti concernono l’intelletto e
dove si dirigono invece al sentimento. La continua mescolanza della discussione scientifica dei
fatti e del ragionamento valutativo è una delle caratteristiche ancora più
diffuse, ma anche più dannose, dei
lavori della nostra disciplina. E le
considerazioni precedenti si dirigono appunto contro questa mescolanza,
non già contro l'enunciazione dei propri ideali. L’indifferenza e l’
oggettività scientifica non posseggono
nessuna affinità interna. L’
Archivio non è mai stato, e non deve neppur diventare almeno secondo la sua intenzione un
luogo nel quale si conduca una polemica contro determinati partiti politici o politico-sociali, e tanto
meno una sede in cui si faccia opera di
proselitismo a favore di, oppure in opposizione a ideali politici o politicosociali;
per tale scopo sussistono altri organi.
Il carattere proprio della rivista è stato fin dall’inizio, e dovrà essere
anche in futuro, per quanto dipende dagli editori, quello di riunire insieme
nel lavoro scientifico i più aspri avversari politici. Essa non è stata finora
un organo socialista e non
diventerà in avvenire un organo borghese. Essa non esclude dalla propria cerchia di
collaboratori nessuna persona che voglia
porsi sul terreno della discussione scientifica. Essa non può costituire un’arena di risposte , repliche e contro-repliche, ma
d’altra parte non può evitare a chiunque, neppure ai suoi collaboratori e tanto meno ai suoi
editori, di essere soggetti nelle proprie pagine alla più severa critica
scientifica. Chiun que non possa
sopportare ciò, o che ritenga di non poter collaborare, neppure al servizio
della conoscenza scientifica, con gente che lavora per ideali diversi dai suoi,
può rimanere lontano dalla rivista. Certo con questa ultima proposizione non vogliamo illuderci in proposito si è però detto praticamente molto di
più di quanto non appaia ad un primo
sguardo. In primo luogo, come si è già
accennato, la possibilità di incontrarsi con avversari politici su un terreno
neutrale sociale o ideale ha
purtroppo, in base a ciò che risulta empiricamente, i suoi limiti
psicologici dovunque, e in particolare nella situazione tedesca. Degno di
essere combattuto senz’altro di per sé come segno di una ristrettezza mentale basata sul
fanatismo e di una cultura politica arretrata, questo ostacolo viene
accresciuto in misura considerevole, nel caso di una rivista come la nostra,
dalla circostanza che nel campo delle
scienze sociali l'impulso a considerare i problemi scientifici è dato di regola
da questioni pratiche, di modo che il puro riconoscimento
della sussistenza di un problema
scientifico sta in unione personale con il volere di uomini viventi, diretto a un determinato
scopo. Nelle colonne di una rivista, la quale viene in vita sotto l'influenza
dell’interesse generale per un problema concreto, si troveranno perciò di regola insieme, come collaboratori, uomini
che dedicano a tale problema il loro
interesse personale, in quanto ad essi
sembra che determinate situazioni concrete siano in contraddizione con
valori ideali a cui credono, e che quei valori siano in pericolo. E quindi un’affinità elettiva di
ideali siffatti unirà la cerchia dei collaboratori e consentirà di reclutarne
degli altri, di modo che essa acquisterà almeno nella trattazione dei problemi
politico-sociali di portata pratica un determinato carattere, quale
inevitabilmente si accompagna a ogni cooperazione di uomini forniti di una viva
sensibilità, la cui presa di posizione valutativa di fronte ai problemi non è sempre del tutto
repressa anche nel puro lavoro
teoretico, e si esprime pure in maniera del tutto legittima entro l’ambito dei presupposti prima
discussi attraverso la critica di proposte e di misure pratiche. L’
Archivio apparve in un periodo nel quale stavano in primo piano,
nelle discussioni della scienza sociale,
determinati problemi pratici costituenti la
questione dei lavoratori nel senso tradizionale della parola. Quelle personalità per cui i supremi e
decisivi ideali valutativi si
congiungevano ai problemi che esso intendeva trattare, e che pertanto
divennero i suoi più consueti collaboratori, furono proprio per questo anche
rappresentanti di una concezione culturale atteggiata in maniera identica o
simile in base a quelle idee di valore.
Ognuno sa pertanto che, sebbene la rivista abbia decisamente rifiutato di seguire una tendenza
mediante l’esplicita limitazione alle discussioni scientifiche e mediante
l’esplicito invito agli appartenenti a ogni settore politico , essa tuttavia ha posseduto sicuramente un
carattere nel senso che si è detto. Esso
fu creato in base alla cerchia dei suoi
collaboratori regolari. Furono in generale uomini che, nonostante ogni
altra divergenza di opinioni, ritenevano proprio fine quello di proteggere la salute fisica
delle masse dei lavoratori e di rendere loro possibile una crescente
partecipazione ai beni materiali e
spirituali della nostra cultura; uomini che consideravano come mezzo in vista
di tale fine la connessione
dell'intervento statale nella sfera degli interessi materiali con
il libero sviluppo ulteriore
dell'ordinamento esistente dello stato e
del diritto, e che quale potesse
essere la loro opinione sulla formazione
dell'ordinamento della società nel remoto futuro sostenevano per il presente lo sviluppo
capitalistico, non già perché questo
sembrasse loro la migliore nei confronti delle più vecchie forme di organizzazione sociale, ma
perché esso pareva praticamente
inevitabile, e d’altra parte il tentativo di una lotta a fondo contro di esso risultava non tanto un
vantaggio quanto un ostacolo per il
progredire della classe operaia verso la luce
della cultura. Nelle condizioni oggi esistenti in Germania che non hanno qui bisogno di un'ulteriore
chiarificazione questo non era, e non
sarebbe neppure oggi, da evitare. Anzi,
ciò giovò senz'altro alla partecipazione di tutte le parti alla discussione scientifica, e costituì per la
rivista un elemento di forza, e forse
anche data la situazione uno dei titoli che ne giustificavano l’esistenza. È fuor di
dubbio che lo sviluppo di un carattere in questo senso può, e anzi dovrebbe per
forza significare, in una rivista scientifica, un pericolo per un lavoro
scientifico impregiudicato, nel caso in cui la scelta dei collaboratori sia
stata di proposito unilaterale: in questo caso l'adozione di quel carattere
varrebbe praticamente come la presenza di una tendenza . Gli editori sono pienamente
consapevoli della responsabilità che questa situazione impone loro. Essi non si
propongono né di mutare di proposito il carattere dell’ Archivio , né di
conservarlo artificiosamente mediante un’accurata limitazione della cerchia dei
collaboratori agli studiosi che abbiano determinate convinzioni politiche. Essi
lo accettano come dato, e confidano nel
suo ulteriore sviluppo . Come esso si
configurerà in futuro, e come forse si trasformerà per l'inevitabile
ampliamento della nostra cerchia di collaboratori, dipenderà in primo luogo dal carattere di quelle personalità che
entreranno in tale ambito con
l’intenzione di servire il lavoro scientifico, e che diverranno o rimarranno di casa sulle colonne
della rivista. E ciò sarà ulteriormente
condizionato dall’estensione dei problemi, al cui avanzamento la rivista si
propone di tendere. Con questa
osservazione noi perveniamo alla questione, finora non ancora discussa, della
delimitazione di contenuto del nostro
campo di lavoro. Ma ad essa non si può fornire una risposta senza prendere in esame anche la
questione della natura del fine conoscitivo della scienza sociale in genere.
Noi abbiamo presupposto, distinguendo in
linea di principio giudizi di valore
e sapere empirico , che vi sia di fatto
un tipo incondizionatamente valido di
conoscenza, cioè di ordinamento
concettuale della realtà empirica, nel campo delle scienze sociali.
Questa assunzione diventa però ora un problema, dal momento che noi dobbiamo
discutere che cosa può significare nel
nostro campo la validità oggettiva della verità alla quale tendiamo. Che il problema sussista come tale,
e che non venga qui creato in maniera
sofisticata, non può sfuggire a nessuno
che assista alla lotta di metodi,
concetti fondamentali e
presupposti, al continuo mutamento dei punti
di vista e alla continua rielaborazione
dei concetti che vengono impiegati, e
che constati come la considerazione teorica e la considerazione storica siano ancor sempre divise da un
abisso apparentemente insuperabile quasi a costituire, come si lagnava a suo
tempo con tono lamentoso un disperato
esaminando viennese, due economie politiche . Che cosa vuol qui dire
oggettività? Semplicemente questa questione vogliono affrontare le
considerazioni seguenti Fin dall’inizio questa rivista ha considerato gli
oggetti dei quali si occupava come
oggetti ecozomico-sociali. Per quanto
abbia poco senso anticipare qui determinazioni concettuali e delimitazioni di discipline scientifiche,
dobbiamo tuttavia porre brevemente in chiaro che cosa ciò significhi. Che la nostra esistenza fisica, al pari del
soddisfacimento dei nostri più alti
bisogni ideali, urti sempre contro la limitazione quantitativa e l’insufficienza
qualitativa dei mezzi esterni che
occorrono a tale scopo, e che per tale soddisfacimento vi sia appunto bisogno di una previdenza
organizzata e del lavoro, della lotta contro la natura e dell’associazione con
gli uomini, questo è espresso in forma
molto imprecisa il fatto fondamentale al quale si riferiscono tutti
quei fenomeni che noi indichiamo nel
senso più ampio come economico-sociali
. La qualità di un processo, che lo
rende un fenomeno economico-sociale ,
non è qualcosa che inerisca ad esso in quanto tale, oggettivamente . Essa è piuttosto
condizionata dalla direzione del nostro interesse conoscitivo, quale risulta
dallo specifico significato culturale
che attribuiamo nel caso singolo al processo in questione. Ogni qual volta un
processo della vita culturale, considerato in quegli aspetti della sua particolarità
in cui risiede il suo significato
specifico per noi, è ancorato in maniera diretta o anche in maniera mediata a tale situazione, esso contiene, oppure può
per lo meno contenere, nella misura in
cui ciò ha luogo, un problema di scienza sociale, vale a dire un compito per una disciplina che
si propone per oggetto la
chiarificazione della portata di quella situazione fondamentale. Noi possiamo, entro l'ambito dei problemi
economico-sociali, distinguere processi e complessi di norme, istituzioni ecc.,
il cui significato culturale consiste
per noi essenzialmente nel loro aspetto
economico, e che ci interessano in primo luogo
come per esempio i processi della
vita delle borse e delle banche
soltanto da questo punto di vista. Ciò avverrà di regola (anche se non esclusivamente) quando si venga a
trattare di istituzioni le quali siano
state create o siano utilizzate consapevolmente per scopi economici. Noi
possiamo chiamare questi oggetti del
nostro conoscere con il nome di processi oppure di istituzioni economiche . Ad essi se ne aggiungono
altri come per esempio i processi della vita religiosa che non ci interessano, oppure sicuramente
non ci interessano in primo luogo, dal punto di vista del loro significato
economico e in virtù di questo, ma che
tuttavia in certe circostanze acquistano significato da questo punto di vista,
poiché ne derivano effetti che ci
interessano sotto il punto di vista economico: essi sono fenomeni
economicamente rilevanti. Infine, tra i fenomeni che non sono economici nel nostro senso, ve ne
sono alcuni i cui effetti economici non
presentano per noi nessun interesse, o
almeno non un interesse considerevole
come per esempio l'orientamento
del gusto artistico di un'epoca ma che
sono da parte loro inffuenzati in misura
più o meno forte, nel caso specifico, in
certi aspetti importanti della loro fisionomia, da motivi economici, per esempio dal tipo di
organizzazione sociale del pubblico che si interessa all’arte: essi sono
fenomeni condizionati economicamente.
Quel complesso di relazioni umane, di norme e di rapporti determinati
normativamente, che noi chiamiamo
lo stato , è per esempio un
fenomeno economico per ciò che riguarda la sua economia
finanziaria; è un fenomeno
economicamente rilevante in quanto
agisce, per via legislativa o
altrimenti, sulla vita economica (anche quando punti di vista assai diversi da
quelli economici determinano consapevolmente il suo atteggiamento); ed è infine
un fenomeno condizionato
economicamente in quanto il suo atteggiamento e il suo carattere sono
condeterminati, anche in relazioni che
non siano economiche , da motivi
economici. È implicito in ciò che si è
detto che da una parte l’ambito dei fenomeni
economici è fluido, e non
delimitabile in maniera precisa, e che d’altra parte naturalmente gli aspetti economici di un fenomeno non sono mai
soltanto condizionati economicamente
oppure soltanto economicamente
operanti , € che in genere un fenomeno mantiene la qualità di fenomeno
economico in quanto, e solamente per il periodo in cui il nostro interesse si
dirige esclusivamente al significato che esso possiede per la lotta materiale
per l’esistenza. La nostra rivista come
del resto anche la scienza economico-sociale a partire da Marx e da
Roscher? si è occupata non soltanto di
fenomeni economici , ma anche di fenomeni
economicamente rilevanti e di
fenomeni condizionati economicamente .
L'ambito di siffatti oggetti si estende naturalmente in maniera fluida, in quanto è legato al
diverso orientamento del nostro
interesse attraverso l’insieme di tutti i processi culturali. Motivi
specificamente economici cioè motivi
che sono ancorati, nella loro fisionomia per noi significativa, a quel fatto fondamentale operano sempre là dove il soddisfacimento di un bisogno, per
quanto immateriale esso sia, è legato
all'impiego di mezzi esterni limitati. Il loro
peso ha pertanto condeterminato e trasformato ovunque non soltanto la forma del soddisfacimento, ma
anche il contenuto dei bisogni culturali
perfino di tipo interiore. L’influenza indiretta di relazioni sociali, di
istituzioni, di raggruppamenti umani che
stanno sotto la pressione di interessi
materiali si estende (spesso
inconsapevolmente) a tutti i campi della cultura senza eccezione, raggiungendo perfino le più
sottili sfumature del sentimento
estetico e religioso. I processi della vita quotidiana non meno degli
avvenimenti storici dell’alta politica,
i fenomeni collettivi e di massa al pari
delle azioni singolari di uomini di stato o dei prodotti letterari
e artistici di origine individuale
subiscono questa influenza e sono
così condizionati economicamente .
D'altra parte l’insieme di tutti i fenomeni e di tutte le condizioni di vita di
una cultura storicamente data opera sulla formazione dei bisogni materiali, sul
modo del loro soddisfacimento, sulla
formazione dei gruppi di interessi e sul tipo dei loro strumenti di potere, e
perciò sul modo in cui si svolge lo
sviluppo economico esso diventa
cioè economicamente rilevante . In
quanto la nostra scienza imputa, nel regresso causale, i fenomeni economici a
cause individua2. Roscher, economista tedesco, autore del Grundriss zu Vorlesungen tiber die
Staatswissenschaft nach geschichtlicher Methode (1843), del Systeni der
Volkswirtschafislehre (1854-94), delle Ansichten der Volkswirtschaft (1861) e
di varie altre opere, fu il fondatore della scuola storica di economia. Alla
critica della sua impostazione è dedicato il primo saggio metodologico di Weber, Roscher und Knîes und die logischen
Probleme der historischen Nationalokonomie, Schmollers Jahrbuch fir
Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft , XXVII, 1903, pp. 1181-1221;
XXIX, 1905, pp. 1323-84; XXX, 1906, Pp.
81-120 (ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, pp. 1-145). li
di carattere economico e non economico
essa mira a conseguire una
conoscenza storica . E in quanto segue
ur elemento specifico dei fenomeni
culturali, quello economico,
determinandolo nel suo significato culturale attraverso le più diverse connessioni di cultura, essa mira a
conseguire una inzerpretazione della storia da uno specifico punto di vista,
offrendo un’immagine parziale, un lavoro
preliminare per la piena conoscenza storica della cultura. Sebbene un problema economico-sociale non
sussista ovunque ha luogo una connessione di elementi economici in quanto conseguenza o in quanto causa poiché esso sorge soltanto dove il significato di quei fattori è
problematico, e può venir determinato
con sicurezza solo mediante l’impiego dei metodi della scienza economico-sociale da ciò che si è detto finora risulta stabilito l'ambito quasi sconfinato
del campo di lavoro della considerazione
economico-sociale. La nostra rivista ha
finora di solito rinunciato, in base a
una ponderata auto-limitazione, alla considerazione di un’intera serie
di campi particolari molto importanti della disciplina, e in modo speciale alla considerazione
dell'economia descritti va, della storia
economica in senso stretto e della statistica.
Allo stesso modo essa ha lasciato ad altri organi la discussione delle questioni tecnico-finanziarie e dei
problemi economico-tecnici della formazione del mercato e dei prezzi della
moderna economia di scambio. Il suo
campo di lavoro è costituito dalla
considerazione del significato odierno e del processo storico di certe costellazioni di interessi e di certi
conflitti che sono sorti in virtù della
funzione preminente dell’impiego di un capitale
in cerca di investimento nell’economia dei paesi moderni. Essa non si è quindi limitata ai problemi pratici
e storico-evolutivi che definiscono la
questione sociale in senso stretto,
cioè alle relazioni della moderna classe
di lavoratori salariati con
l'ordinamento sociale esistente. È certo che l’approfondimento scientifico dell'interesse che, negli anni
dopo l’'80, veniva estendendosi presso di noi per questa speciale questione, ha
rappresentato dapprima uno dei suoi compiti essenziali. Quanto più la considerazione pratica della condizione
operaia è diventata anche presso di noi
oggetto permanente dell’attività legislativa
e della discussione pubblica, tanto più il centro di gravità del lavoro
scientifico ha dovuto spostarsi verso la determinazione delle connessioni di carattere più universale
in cui questi problemi trovavano il proprio posto, sfociando in un'analisi di
tuzti i problemi culturali creati dalla
fisionomia particolare dei fondamenti economici della nostra cultura, e in
quanto tali specificamente moderni. La rivista ha perciò cominciato assai
presto a trattare storicamente,
statisticamente e teoricamente i più diversi rapporti, in parte condizionati economicamente e in parte
economicamente rilevanti , che si presentano anche nelle altre grandi
classi delle nazioni moderne nelle loro relazioni reciproche. Noi traiamo soltanto le
conseguenze di questo atteggiamento allorché indichiamo ora come campo di
lavoro più particolarmente proprio della
mostra rivista la ricerca scientifica
del gezerale significato culturale della struttura economico-sociale della vita
della comunità umana e delle sue forme
storiche di organizzazione. Questo e non
altro abbiamo inteso, chiamando la nostra rivista Archivio per la scienza sociale . La parola deve comprendere
qui la trattazione storica e teorica degli stessi problemi la cui soluzione
pratica è oggetto della politica sociale nel senso più ampio del termine. Noi facciamo perciò uso del diritto
di impiegare l’espressione sociale nel suo significato determinato in base
ai problemi concreti del presente. Se si
vuol chiamare scienze della cultura
quelle discipline che considerano i processi della vita umana dal punto
di vista del loro significato culturale,
la scienza sociale nel nostro senso appartiene a questa categoria. Vedremo ora quali conseguenze di principio ne
derivano. Senza dubbio isolare l’aspetto
economico-sociale della vita culturale
rappresenta una delimitazione assai sensibile del nostro tema. Si dirà che il
punto di vista economico o come lo si è
imprecisamente definito materialistico
, in base a cui è qui considerata la vita della cultura, è unilaterale . Certamente, e questa
unilateralità è intenzionale. La fede che sia compito del lavoro scientifico
nel suo progredire quello di guarire la considerazione economica dalla sua unilateralità , in maniera da ampliarla in
una scienza sociale generale, è inficiata anzitutto dal fatto che il punto di
vista del sociale , cioè della relazione
tra gli uomini, possiede una determinatezza sufficiente per la delimitazione
dei problemi scientifici solo quando è accompagnato da qualche predicato
specifico che lo qualifica nel suo
contenuto. Altrimenti esso, in quanto oggetto
di una scienza, comprenderebbe naturalmente la filologia al pari della storia della chiesa, e in modo
particolare tutte quelle discipline che
si occupano del più importante elemento costitutivo di ogni vita culturale,
cioè dello stato, e della più importante forma della sua regolamentazione
normativa, cioè del diritto. Che l’economia sociale prenda in esame delle
relazioni sociali non è un buon motivo per pensare che essa
precorra una scienza sociale generale ,
allo stesso modo in cui la circostanza che essa si riferisca a fenomeni della
vita o che abbia a che fare con processi
di un corpo celeste non autorizza a considerarla rispettivamente parte della
biologia oppure parte di un’astronomia artificialmente accresciuta e
migliorata. Non già le connessioni di
fatto delle cose , bensì le connessioni concettuali dei problemi stanno a base dei campi di
lavoro delle scienze: dove si procede ad
affrontare con un nuovo metodo un nuovo
problema, e si scoprono in tale maniera verità le quali aprano nuovi importanti punti di vista, là sorge una
nuova scienza . Non è un caso che il concetto di sociale , il quale sembra avere un senso così generale, rechi con sé,
ogni qual volta lo si controlla nel suo
impiego, un significato particolare, specificamente atteggiato, quand’anche di
solito indeterminato; l’elemento generale sussiste in esso di fatto soltanto
nella sua indeterminatezza. Qualora lo
si assuma nel suo significato generale ,
esso non offre nessun punto di vista specifico dal quale illustrare il significato di certi
elementi della cultura. Liberi ormai
dalla fiducia antiquata nella possibilità di dedurre la totalità dei fenomeni
culturali come prodotto oppure come
funzione di costellazioni di interessi
materiali , noi riteniamo però
d'altra parte che l’analisi dei fenomeni sociali e dei processi culturali dal punto di vista
specifico del loro condizionamento economico e della loro portata economica sia
stata, € possa ancora rimanere in ogni
tempo prevedibile, con un’applicazione oculata e con libertà da ogni
restrizione dogmatica, un principio scientifico fornito di fecondità creativa.
La cosiddetta concezione materialistica della storia come
intuizione del mondo 0 come
denominatore comune di spiegazioMAX WEBER 577
ne causale della realtà storica deve essere rifiutata nel modo più deciso; invece l’accurato impiego
dell’interpretazione economica della storia è uno degli scopi essenziali della
nostra rivista. Ma ciò richiede una più precisa illustrazione. La cosiddetta concezione materialistica della storia ,
nel vecchio senso, genialmente
primitivo, che compare per esempio nel
Manifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa di persone prive di competenza specifica e di
dilettanti. Presso questa gente è
tuttora diffusa la circostanza che il loro bisogno causale di spiegazione di un fenomeno storico
non è soddisfatto finché non si mostrano
(oppure non sembrano essere) in gioco,
in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche: ma proprio in questo caso essi si
accontentano delle ipotesi a maglie più
larghe e delle formulazioni più generali, in quanto il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel
ritenere che le forze istintive economiche siano quelle proprie , le sole vere, e anzi in ultima istanza sempre
decisive . Il fenomeno non è però
affatto singolare. Quasi tutte le scienze, dalla filologia alla biologia, hanno
talvolta avanzato la pretesa di dare
origine non soltanto a un sapere specializzato, ma anche a intuizioni del mondo . E sotto l'impressione
del profondo significato culturale delle
moderne trasformazioni economiche, in
particolare della portata predominante della
questione operaia , l'ineliminabile carattere monistico di ogni forma di
conoscere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio lavoro condusse naturalmente per questa
strada. Lo stesso carattere viene ora in luce nell’antropologia, mentre si
viene sviluppando con crescente asprezza la lotta politica e
politico-commerciale tra le nazioni per il dominio del mondo: è diffusa la
fede che in ultima analisi ogni accadere storico sia una derivazione del
gioco reciproco di qualità razziali innate. In luogo di una mera descrizione acritica dei
caratteri dei popoli è subentrata la
costruzione ancor più acritica delle proprie
teorie della società su
fondamento naturalistico . Noi seguiremo
con cura nella nostra rivista lo sviluppo della ricerca antropologica, in
quanto essa abbia significato per i nostri punti di vista. C'è però da sperare che venga
gradualmente superata, mediante un
lavoro metodicamente disciplinato, la situazione in cui il ricondurre causalmente i processi
culturali alla razza documenta soltanto
il nostro 0n-sapere proprio come avviene nel caso del riferimento ali’
ambiente 0, prima ancora, alle condizioni dell’epoca . Se qualcosa ha finora
danneggiato questa ricerca, è certo la presunzione di alcuni fervidi dilettanti di poter fornire per la conoscenza
della cultura un orientamento
specificamente diverso, e superiore, rispetto all’estensione della possibilità
di una sicura imputazione di singoli
concreti processi culturali della realtà storica a concrete cause storicamente date, conseguita mediante un
esatto materiale di osservazione
determinato in base a specifici punti di vista.
Esclusivamente nella misura in cui possono fornirci questo, i loro risultati hanno interesse per noi e
qualificano la biologia razziale
come qualcosa di più di un prodotto della moderna febbre di fondazione scientifica. Non diversamente stanno le cose per quanto
riguarda il significato
dell’interpretazione economica del corso storico. Se oggi, dopo un periodo di illimitata
sopravvalutazione, incombe su di essa il
pericolo di essere sottovalutata nella sua capacità orientativa per il lavoro scientifico, ciò è
Ja conseguenza dell’acriticità senza pari con cui l’interpretazione economica
della realtà fu impiegata come metodo
universale , nel senso di una deduzione
di tutti i fenomeni culturali vale a
dire di tutto ciò che in essi risulta
per noi essenziale come in ultima
istanza economicamente condizionati. Oggi la forma logica, nella quale essa si
presenta, non è del tutto unitaria. Là dove si presentano difficoltà per una
spiegazione puramente economica, vi sono a disposizione diversi mezzi per
mantenere in piedi la sua validità universale come elemento causale decisivo.
Talvolta si considera tutto ciò che nella realtà storica 707 è deducibile da
motivi economici come qualcosa che proprio perciò risulta scientificamente
privo di significato, e quindi come qualcosa di
accidentale . Oppure si estende il concetto di ciò che è economico fino
a renderlo irriconoscibile, in maniera da inserire nell'ambito di quel concetto
tutti gli interessi umani che siano in
qualche maniera legati a mezzi esterni. Se è storicamente stabilito che in due
situazioni eguali sotto il profilo
economico si è tuttavia reagito in maniera diversa per le
differenze di determinanti politiche e religiose, o climatiche, o di innumerevoli altre non economiche allora si procede a degradare tutti questi elementi, allo scopo
di conservare la supremazia dell'elemento economico, a condizioni storiche accidentali, dietro Ie quali i
motivi economici operano in qualità di cause . S’intende però che tutti quegli
elementi che risultano accidentali per la considerazione economica seguono
le loro proprie leggi, proprio al pari
degli elementi economici, e che per una
considerazione la quale vada dietro al loro significato specifico le condizioni
economiche sono storicamente accidentali
nel medesimo senso del rapporto inverso. Un tentativo prediletto di
giustificare, ciò nonostante, l’importanza
predominante dell'elemento economico, consiste infine nell’interpretare
la costante correlazione e successione dei singoli elementi della vita
culturale nel senso di una dipendenza causale
o funzionale dell’uno dall’altro, o piuttosto di tutti i rimanenti da uno solo, e cioè da quello economico. Dove
una determinata istituzione 202
economica ha storicamente compiuto anche una
determinata funzione al servizio
di interessi economici di classe, dove,
per esempio, determinate istituzioni religiose si lasciano impiegare, e sono impiegate,
come polizia nera , l’intera istituzione viene allora presentata
o come creata appunto per questa funzione o
in maniera assolutamente metafisica
come orientata in base a una tendenza di sviluppo che muove dall’elemento economico. Non c'è più bisogno oggi di illustrare a
nessun specialista che questa
interpretazione dello scopo dell'analisi economica è espressione in parte di una determinata
costellazione storica, la quale
indirizzava il proprio interesse scientifico verso determinati problemi
culturali condizionati economicamente, e in parte di un rabbioso patriottismo scientifico, e
che essa risulta ormai per lo meno
invecchiata. La riduzione esclusiva a cause economiche non è in qualsiasi senso
esauriente in nessun campo dei fenomeni
culturali, e neppure in quello dei processi
economici. In linea di principio una storia della banca di
qualsiasi popolo, che volesse per la
spiegazione avvalersi soltanto di motivi
economici, sarebbe naturalmente impossibile nello stesso modo in cui lo sarebbe una spiegazione
della Madonna Sistina in base ai fondamenti economico-sociali della vita
culturale dell’epoca in cui è sorta e non sarebbe, sempre in linea di principio, più esaustiva di quanto non
potrebbe esserlo per esempio la
derivazione del capitalismo da certe trasformazioni di contenuti della coscienza religiosa che
hanno cooperato alla genesi dello
spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi altra formazione politica da condizioni
geografiche. In tutti questi casi è
decisiva, per misurare l’importanza che dobbiamo assegnare alle condizioni economiche, la
classe di cause alla quale devono essere
imputati quegli elementi specifici del fenomeno in questione, a cui nel caso
singolo attribuiamo un sigrificato in virtù del quale esso ci interessa. Il
diritto dell’analisi unilaterale della
realtà culturale da punti di vista specifici
nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento economico
deriva però anzitutto, in linea puramente metodica, dalla circostanza
che l’educazione della vista a osservare
l’azione di categorie causali qualitativamente omogenee, e il continuo impiego del medesimo apparato
metodico-concettuale, offrono tutti i
vantaggi della divisione del lavoro. Che essa non sia troppo arbitraria è provato dal suo
risultato, cioè dal fatto che fornisce
la conoscenza di connessioni le quali si rivelano fornite di valore per l'imputazione causale
di processi storici concreti. Ma l’
unilateralità e la irrealtà
dell’interpretazione puramente economica
del corso storico è soltanto un caso specifico di un principo generale che vale
per la conoscenza scientifica della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi
fondamenti logici e nelle sue conseguenze metodiche generali è lo scopo
essenziale delle discussioni che seguono.
Non c’è nessuna analisi scientifica puramente oggettiva
della vita culturale o ciò che
forse è più ristretto, ma che non
significa certo nulla di essenzialmente diverso per il nostro scopo
dei fenomeni sociali ,
indipendentemente da punti di vista
specifici e unilaterali, in base a cui
essi sono espressamente o tacitamente,
consapevolmente o inconsapevolmente .scelti come oggetto di ricerca, analizzati
e organizzati nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere
specifico del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che voglia procedere oltre una considerazione
puramente formale delle norme giuridiche o convenzionali della coesistenza sociale.
La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la
realtà della vita che ci circonda, e in cui noi siamo collocati, nel suo
carattere proprio noi vogliamo cioè intendere da un lato la
connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella loro configurazione presente e dall’altro i
motivi del suo essere storicamente
divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui essa si
presenta immediatamente a noi, la vita
ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di processi che sorgono e scompaiono in un
rapporto reciproco di successione e di
contemporaneità, in noi e al di fuori di
noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminuisce
anche quando prendiamo in considerazione un singolo oggetto
isolatamente per esempio un atto
concreto di scambio e vogliamo studiarlo
con serietà allo scopo di descrivere
questo oggetto singolo esaurientemente in tutti i suoi elementi
individuali, per non parlare poi di coglierlo nel suo condizionamento causale. Ogni conoscenza
concettuale della realtà infinita da
parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che
soltanto una parte finita di essa debba
formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare
essenziale nel senso di essere degna di venir conosciuta . Ma in conformità a quali
princìpi si procede a isolare questa
parte? Si è ripetutamente creduto di poter trovare anche nelle scienze della
cultura il criterio decisivo nel ricorrere
conforme a leggi di determinate connessioni causali. Il contenuto delle leggi che noi riusciamo a
conoscere nel corso sempre molteplice
dei fenomeni deve costituire secondo
questa concezione il solo aspetto
scientificamente essenZiale in essi presente: quando abbiamo dimostrata
valida senza eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva, la
legalità di una connessione causale,
oppure quando l’abbiamo recata a un’evidenza intuitiva immediata per
l’esperienza interna, allora ogni formula così ritrovata subordina a sé qualsiasi numero, per quanto grande si possa
pensarlo, di casi omogenei. Ciò che
della realtà individuale rimane al di fuori di
questa determinazione dell’aspetto
conforme a leggi o vale come un
residuo ancora privo di elaborazione scientifica, che dev'essere sottoposto ad analisi attraverso il
completamento progressivo del sistema di leggi, oppure rimane da parte
come qualcosa di accidentale
e proprio perciò di scientificamente inessenziale, in quanto esso non
è comprensibile legalmente, e quindi non
appartiene neppure al tipo del processo e può essere soltanto oggetto di oziosa
curiosità . Sempre ricompare di conseguenza
anche presso i rappresentanti della
scuola storica la convinzione che
l’ideale a cui ogni conoscenza, e quindi pure la conoscenza della cultura,
tende e può tendere, anche se in un
lontano futuro, sia un sistema di
proposizioni teoriche, da cui possa venir dedotta la realtà. Un rappresentante eminente della scienza
naturale ha ritenuto, com’è noto, di
poter indicare come fine ideale (di fatto non
attuabile) di una siffatta elaborazione della realtà culturale una conoscenza
astronomica dei processi della vita. Ci sia consentito qui di prendere
in esame più da vicino tale tesi, per
quanto queste cose siano già state discusse. In primo luogo risulta ovvio che quella conoscenza astronomica , a cui si è pensato, non è una conoscenza di leggi, ma
assume piuttosto le leggi di cui si
serve come presupposti del suo lavoro da
altre discipline, quale la meccanica. Essa stessa si interessa però di
un’altra questione, e cioè di stabilire il risultato individuale che è prodotto
dall’azione di quelle leggi su una costellazione individuale, poiché queste
costellazioni individuali hanno per noi
significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci spiega o predice, può certo venir spiegata
causalmente solo come conseguenza di
un’altra costellazione del pari individuale
che l’abbia preceduta; e per quanto si possa risalire indietro nella nebbia grigia del più remoto passato,
la realtà per la quale Je leggi valgono
rimane sempre individuale, e quindi non
deducibile da leggi. Uno stato originario
del cosmo, che non rechi in sé un
carattere individuale, o che lo rechi in
misura minore della realtà cosmica presente, sarebbe naturalmente
un'idea priva di senso. E tuttavia un resto di simili rappresentazioni non viene fuori nel nostro
campo in quelle assunzioni, ora intese
giusnaturalisticamente ora invece verificate in base all'osservazione dei popoli primitivi, di stati originari
economico-sociali che sono privi di
accidentalità storiche come nel caso del comunismo agrario primitivo , della
promiscuità sessuale ecc., da cui
lo sviluppo storico individuale
scaturisce poi attraverso una specie di caduta nel concreto? Punto di partenza dell'interesse
della scienza sociale è senza dubbio la
configurazione reale, e quindi individuale, della vita culturale che ci circonda, considerata nella
sua connessione che è sì universale, ma
non per questo meno individualmente atteggiata, e nel suo procedere da altri
stati sociali di cultura, a loro volta
evidentemente atteggiati in forma individuale. Senza dubbio la situazione che
abbiamo illustrato a proposito dell’astronomia come un caso-limite (che è
regolarmente considerato anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui
in una misura assai più ragguardevole.
Mentre per l’astronomia i corpi cosmici
hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitative, accessibili a
un’esatta misurazione, nella scienza sociale ciò che ci interessa è invece la configurazione
qualitativa dei processi. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di
fronte a una cooperazione di processi
spirituali, e che intendere questi processi rivivendoli costituisce
naturalmente un compito di tipo
specificamente diverso da quello che le formule della conoscenza esatta della
natura in genere possono o vogliono risolvere. E tuttavia queste differenze non
sono in sé così fondamentali come può sembrare a un primo sguardo. Senza la
considerazione delle qualità non procedono
prescindendo dalla meccanica pura
neppure le scienze esatte della natura; inoltre nel nostro campo specifico incontriamo
l'opinione certo distorta che il fenomeno della circolazione
monetaria, fondamentale almeno per la
nostra cultura, possa venir espresso quantitativamente e proprio per ciò sia
comprensibile legalmente; e infine
dipende da un’accezione più stretta o più larga del concetto di legge se si
comprendono nel suo ambito anche
regolarità che, in quanto non esprimibili quantitativamente, non sono neppur accessibili a nessuna
considerazione di carattere numerico. Per ciò che riguarda in particolare la
cooperazione di motivi spirituali , essa
non esclude in nessun caso la
determinazione di regole dell'agire razionale; e soprattutto non è ancora scomparsa oggi la convinzione
che sia compito della psicologia quello
di adempiere, nei confronti delle singole
scienze dello spirito , a una funzione analoga a quella della matematica, analizzando i fenomeni più
complicati della vita sociale nelle loro condizioni e nei loro effetti psichici,
riportandoli a fattori psichici il più
possibile semplici, classificando quindi questi ultimi nelle loro varie specie
e infine studiandoli nelle loro
connessioni funzionali. In tale maniera si darebbe vita, se non a una
meccanica , almeno a una specie di
chimica della vita sociale, considerata nei suoi fondamenti
psichici. Se indagini di questo genere
possono mai essere valide e il che è
cosa diversa fornire risultati
particolari utilizzabili per le scienze della cultura, non possiamo qui
deciderlo. Ciò non avrebbe però alcuna
importanza per la questione di cui ci occupiamo, cioè se il fine della conoscenza economico-sociale nel nostro
senso, costituito dalla conoscenza della
realtà nel suo significato culturale e
nella sua connessione causale, possa venir raggiunto mediante l’investigazione di ciò che ricorre in
conformità a leggi. Posto il caso che si
pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, ad
analizzare in base ad alcuni semplici
fattori ultimi tutte le
connessioni causali dei processi della
convivenza umana finora osservate, e inoltre anche quelle concepibili in
qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbracciarle in maniera
esauriente in un'immensa casistica di concetti
e di regole che valgono come leggi rigorose quale rilievo
avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mondo
culturale storicamente dato, o anche soltanto di qualche suo particolare fenomeno, come per esempio
del capitalismo nel suo divenire e nel
suo significato culturale? Esso varrebbe
come mezzo conoscitivo né più né meno di un lessico delle combinazioni chimico-organiche per la
conoscenza bio-genetica del mondo
animale e vegetale. Nell’uno come nell’altro caso si sarebbe compiuto un lavoro preliminare
sicuramente importante e utile. Nell’uno come nell’altrocaso la realtà della
vita non si lascerebbe però dedurre da quelle leggi e da quei fattori; e ciò non già perché nei fenomeni
della vita debbano risiedere altre superiori e misteriose forze
( potenze , en telechie o come
altrimenti le si è chiamate) questa è
una questione del tutto a sé — ma semplicemente perché per la conoscenza della
realtà ha per noi importanza la costellazione in cui si trovano quei fattori
(ipotetici!), raggruppati in un fenomeno culturale che sia storicamente
per noi significativo, e perché, se vogliamo
spiegare causalmente questo
raggruppamento individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri
raggruppamenti, del pari individuali, in base ai quali spiegarli , naturalmente attraverso l’impiego
di quei concetti (ipoteticil) di legge. Determinare quelle leggi e quei fattori
(ipotetici) sarebbe per noi in ogni caso solo il primo dei diversi lavori che dovrebbero condurre alla
conoscenza a cui aspiriamo. L’analisi e Ja coordinazione del raggruppamento
individuale storicamente dato di quei
fattori e della loro cooperazione
concreta, condizionata in tale maniera, che risulta sigrificativa nel suo modo
specifico, e soprattutto la chiarificazione del
fondamento e del tipo di questa significatività — questo sarebbe il suo
compito successivo, da risolvere certo con il ricorso a quel lavoro preliminare, ma tuttavia
pienamente nuovo e a4t0nomo nei suoi confronti. Seguire nel loro divenire le
specifiche caratteristiche individuali,
significative per il presenze, di tali
raggruppamenti, risalendo il più possibile nel passato, e spiegarle
storicamente in base alle costellazioni precedenti, che sono a loro volta individuali, costituirebbero un
terzo compito che si può concepire — e
la predizione di possibili costellazioni nel
futuro, infine, sarebbe il quarto.
Per tutti questi scopi sarebbe chiaramente di grande importanza come
mezzo conoscitivo — ma anche soltanto in quanto
tale — e anzi sarebbe senz'altro indispensabile in vista di essi, la presenza di concetti chiari e la
conoscenza di quelle leggi (ipotetiche). Ma anche in questa funzione si
mostra subito, in #2 punto decisivo, il
limite della loro portata, e mediante la
loro determinazione perveniamo a cogliere il carattere specifico decisivo della considerazione propria delle
scienze della cultura. Noi abbiamo
designato come scienze della cultura quelle
discipline che aspirano a conoscere i fenomeni della vita nel loro significato culturale. Il significato
della configurazione di un fenomeno
culturale, nonché il suo fondamento, non può
però essere derivato, motivato e reso intelligibile in base a nessun sistema di concetti di leggi, per
quanto completo esso sia, poiché esso
presuppone la relazione dei fenomeni culturali
con idee di valore. Il concetto di cultura è un concetto di valore. La realtà empirica è per noi cultura
in quanto la poniamo in relazione con
idee di valore; essa abbraccia quegli
elementi della realtà che diventano per noi significativi in base a quella relazione, e soltanto questi
elementi. Una minima parte della realtà
individuale di volta in volta considerata è investita dal nostro interesse,
condizionato da quelle idee di valore;
essa soltanto ha significato per noi, e lo ha in quanto rivela relazioni che sono per noi importanti
a causa della loro connessione con idee
di valore. Esclusivamente in questo caso,
infatti, essa è per noi degna di venir conosciuta nel suo carattere
individuale. Ciò che per noi riveste significato non può naturalmente essere determinato attraverso
nessuna indagine del dato empirico, che
sia condotta senza presupposti; al
contrario, la sua determinazione è il presupposto per stabilire che qualcosa diviene oggetto dell'indagine.
Ciò che è significativo non coincide naturalmente, in quanto tale, con l'ambito
di nessuna legge, e tanto meno vi
coincide quanto più universalmente valida è quella legge. Infatti il
significato specifico che ha per noi un
elemento della realtà 207 si trova naturalmente
in quelle tra le sue relazioni che esso ha in comune con molti altri. La relazione della realtà con idee di
valore, che dànno ad essa significato,
nonché l’isolamento e l’ordinamento degli elementi del reale così individuati
sotto il profilo del loro significa to
culturale, rappresenta un punto di vista del tutto eterogeneo e disparato rispetto all’analisi della realtà
in base a leggi, e al suo ordinamento in
concetti generali. I due tipi di ordinamento
concettuale del reale non hanno tra di loro relazioni logiche necessarie di nessuna specie. Essi possono
eventualmente coincidere in un caso singolo, ma sarebbe molto pericoloso che
questa congiunzione accidentale ingannasse sulla loro eterogeneità di principio. Il significato culturale di un
fenomeno, per esempio quello dello scambio in un'economia monetaria, può consistere
nel fatto che esso si presenta come fenomeno di massa, in quanto costituisce una componente
fondamentale della vita culturale odierna. E tuttavia è proprio il fatto
storico che esso assolve questa funzione
ciò che dev'essere reso comprensibile
nel suo significato culturale, e spiegato causalmente nella sua origine storica. L'indagine dell’essenza
dello scambio în generale e della tecnica della circolazione di mercato è un
lavoro preliminare invero molto importante e indispensabile!
Non soltanto non si è risposto così alla
questione concernente il modo in cui
storicamente lo scambio è pervenuto al suo fondamentale significato odierno; ma
soprattutto ciò che in ultima analis i
ci interessa il significato culturale
dell'economia monetaria, in virtù del quale soltanto ci interessiamo di
quella descrizione della tecnica della
circolazione monetaria, e in virtù del quale soltanto c’è oggi una scienza che
studia tale tecnica, risulta inderivabile da qualsiasi di quelle leggi . Le
carat teristiche di conformità a un
genere dello scambio, del negozio ecc.
interessano i giuristi mentre ciò che ci
concerne è il compito di analizzare
proprio quel significato culturale del
fatto storico che oggi lo scambio è fenomeno di massa. Allorché esso
deve venir spiegato, allorché vogliamo intendere che cosa distingue la nostra cultura
economico-sociale da quella, per
esempio, dell’antichità, in cui lo scambio mostrava le medesime qualità
generiche di oggi, e quando si deve spiegare in
che cosa consista il significato dell’ economia monetaria , intervengono
nell’indagine princìpi logici di origine del tutto eterogenea. Noi impieghiamo
infatti quei concetti, che ci offre la
ricerca degli elementi generici dei fenomeni economici di massa, come
mezzo di rappresentazione, e ciò nella misura in cui vi sono contenuti elementi della nostra
cultura forniti di significato; ma il fire del nostro lavoro non è conseguito
mediante una rappresentazione, per
quanto precisa, di quei concetti e di
quelle leggi, poiché al contrario la questione di che cosa dev’essere
fatto oggetto di un’elaborazione di concetti di genere non è senza presupposti , bensì è stata decisa
proprio in riferimento al significato che posseggono per la cultura
determinati elementi di quella
molteplicità infinita, che noi diciamo
circolazione . Noi aspiriamo alla conoscenza di un fenomeno storico,
cioè di un fenomeno fornito di significato nel suo carattere specifico. E la cosa decisiva è questa:
soltanto in base al presupposto che esclusivamente una parte fizita
dell’infinito numero dei fenomeni
risulta fornita di significato, acquista un senso logico il principio di una conoscenza dei
fenomeni individuali in genere. Noi ci
troveremmo perplessi, anche se fossimo provvisti della più completa conoscenza
possibile di tutte le leggi dell’accadere,
di fronte a questa questione: come è possibile in genere la spiegazione causale
di un fatto individuale dal momento che
già una descrizione anche della più piccola sezione di realtà non può mai
essere concepita come esaustiva? Il numero e il tipo delle cause, che hanno
determinato un qualsiasi avvenimento individuale, è infatti sempre infinito, e
non c’è una caratteristica inerente alle cose stesse la quale consenta di
isolarne una parte, che venga essa soltanto presa in considerazione. Un caos di giudizi esistenziali sopra infinite osservazioni particolari sarebbe il solo
esito a cui potrebbe recare il tentativo di una conoscenza della realtà che
fosse seriamente priva di presupposti. E
anche questo risultato sarebbe possibile
solo in apparenza, poiché la realtà di ogni osservazione singola mostra, a uno
sguardo più prossimo, infiniti elementi particolari, che non possono mai venire
espressi in maniera esaustiva in giudizi di osservazione. In questo caos
reca ordine soltanto la circostanza che
in ogni caso ha per noi interesse e
significato solo una parte della realtà individuale, in quanto essa sta in relazione con idee di
valori culturali con le quali ci
accostiamo alla realtà. Soltanto determinati aspetti dei fenomeni particolari, sempre
infinitamente molteplici, cioè quelli ai
quali attribuiamo un significato culturale universale, sono quindi degni di essere conosciuti, ed
essi solamente sono oggetto della
spiegazione causale. Anche questa spiegazione
causale pone però a sua volta in luce lo stesso fatto, che cioè un regresso causale esaustivo da
qualsiasi fenomeno concreto nella sua piera realtà non soltanto risulta praticamente
impossibile, ma è semplicemente un’assurdità. Noi mettiamo in luce soltanto quelle cause a cui devono
essere imputati gli elementi di un
accadere che risultano essezzziali nel caso particolare: la questione causale,
quando si tratta dell’individualità di un fenomeno, non è una questione di
leggi bensì una questione di connessioni
causali concrete; non è una questione relativa alla formula alla quale si deve
subordinare come esempio specifico tale
fenomeno, ma è una questione relativa alla costellazione individuale a cui esso
deve venir imputato come suo risultato è cioè una questione di imputazione. Ogni
qual volta sia in questione la
spiegazione causale di un fenomeno culturale
cioè di un individuo storico ,
come noi lo intendiamo in base a un’espressione già usata talvolta nella
metodologia della nostra disciplina, e ora divenuta consueta nella logica
in una più precisa formulazione la conoscenza delle leggi della causalità può essere non già scopo, ma
soltanto mezzo dell’indagine. Essa ci rende più agevole l'imputazione causale
degli elementi dei fenomeni,
culturalmente significativi nella loro individualità, alle loro cause concrete.
In quanto, e solo in quanto essa serve a questo fine, ha valore per la
conoscenza di connessioni individuali.
Quanto più le leggi sono generali , cioè astratte, tanto meno esse servono per i
bisogni dell’imputazione causale di fenomeni individuali, e quindi
indirettamente r la comprensione del
significato dei processi culturali. Che
cosa deriva da tutto ciò? Naturalmente
non ne deriva che la conoscenza del genera
le, la formazione di concetti astratti di genere, la conoscenza di
regolarità e il tentativo di formulazione di connessioni legali
non abbiano nel campo delle scienze della cultura alcuna giustificazione scientifica. Al
contrario, se la conoscenza causale
dello storico è un’imputazione di effetti concreti a cause concrete,
l'imputazione valida di qualsiasi effetto individuale non è possibile in genere
senza l’impiego della conoscenza
nomologica cioè della conoscenza
delle regolarità delle connessioni
causali. Se si deve attribuire in concreto nella realtà a un singolo elemento individuale di
una connessione un significato causale
nei riguardi dell’effetto che intendiamo spiegare, questo può essere stabilito,
in caso di dubbio, soltanto attraverso
la valutazione degli effetti che di solito ci aspettiamo in generale da esso e dagli altri elementi
del medesimo complesso, che consideriamo ai fini della spiegazione vale a dire
attraverso la determinazione di quelli che sono gli effetti adeguati degli elementi causali in questione.
In quale misura lo storico (nel senso
più ampio del termine) possa compiere con
sicurezza questa imputazione con la sua fantasia nutrita di esperienza personale della vita e
metodicamente disciplinata, e in quale
misura egli si rifaccia invece all’aiuto di discipline speciali che gliela rendono possibile, è cosa
che dipende dal caso singolo. Ma
ovunque, e così pure nel campo di complicati
processi economici, la sicurezza dell’imputazione è tanto maggiore
quanto più assodata e comprensiva è la nostra conoscenza generale. Che si tratti sempre, anche per
tutte le cosiddette leggi economiche senza eccezione, non già di connessioni legali
nel senso ristretto valido nel caso delle scienze esatte della natura, ma di connessioni causali
adeguate espresse in forma di regole,
cioè di un ‘applicazione della categoria di
( possibilità oggettiva che qui non può venir analizzata più da vicino,
non fa la minima differenza per tale proposizione. Solo che la determinazione di tali regolarità non
è già fine, bensì mezzo di conoscenza;
ed è in ogni caso una questione di
opportunità se si debba o meno esprimere in una formula, sotto forma di legge, una regolarità di connessione
causale nota in base all’esperienza
quotidiana. Per la scienza esatta della
natura le leggi sono tanto più importanti e fornite di
valore quanto più esse sono
universalmente valide; per la conoscenza
dei fenomeni storici nel loro fondamento concreto le leggi pià generali, in quanto sono le più vuote di
contenuto, sono invece di regola anche
le più prive di valore. Infatti quanto più estesa è la validità di un concetto di specie, cioè
il suo ambito, tanto più esso ci
distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’elemento comune di quanti
più fenomeni, esso deve essere infatti
il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La conoscenza
del generale non è mai per noi, nelle scienze della cultura, fornita di valore di per sé. Da quanto si è detto finora risulta dunque
che è priva di senso una
trattazione oggettiva dei processi culturali, per la quale debba valere come scopo ideale del
lavoro scientifico la riduzione di ciò
che è empirico a leggi . Essa non è priva di
senso, come sovente si è ritenuto, perché i processi culturali o anche i processi spirituali si
comportino oggettivamente in
maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la conoscenza di leggi sociali non è conoscenza
della realtà sociale, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il
nostro pensiero si avvale a tale scopo;
2) perché non si può concepire una
conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significato che ha per noi la realtà della
vita, sempre individualmente atteggiata, in determinate relazioni particolari.
In quale senso e in quali relazioni ciò avvenga non ci è svelato da nessuna
legge, perché è deciso dalle idee di valore in base alle quali consideriamo nel
caso singolo la cultura. La cultu ra è una sezione finita dell’infinità priva
di senso dell’accadere del mondo, alla quale è attribuito senso e significato
dal punto di vista dell’uomo. Essa è tale anche per gli uomini che si
contrappongono a una cultura concreta come a un mortale nemico, e che aspirano
a un ritorno alla natura . Infatti essi possono pervenire a questa presa di
posizione solo in quanto riferiscono la cultura concreta alle loro idee di
valore, e la trovano troppo leggera . È questo fatto puramente
logico-formale che si tiene presente allorché qui si parla della connessione
logicamente necessaria di tutti gli individui storici con idee di valore .
Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi
riteniamo forzita di valore una
determinata, o anche in genere una qualsiasi cultura , bensì è il fatto che noi siamo esseri culturali,
dotati della capacità e della volontà di
assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un
serso. Qualunque possa essere questo
senso, esso ci condurrà a valutare nella vita determinati fenomeni della
coesistenza umana in base ad esso, e ad
assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa) in quanto fornita di significato. Quale che
sia il contenuto di tale presa di
posizione, questi fenomeni hanno per noi un sign: ficato culturale, e su questo significato
soltanto poggia il loro interesse
scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all’uso linguistico dei logici moderni, del
condizionamento della conoscenza della cultura da parte di idee di valore, si
spera di non essere esposti a
fraintendimenti di specie così rozza come l’opinione che si debba attribuire un
significato culturale soltanto ai
fenomeni forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno culturale al pari della religione o del
denaro; e tutti e tre lo sono in quanto
e solamente in quanto, e nella misura in cui, la loro esistenza e la forma che storicamente
assumono tocchino, direttamente o
indirettamente, i nostri interessi culturali, e in quanto essi suscitano il nostro impulso
conoscitivo sotto punti di vista
orientati in base a idee di valore, le quali rendono per noi significativo il settore di realtà che è
pensato in quei concetti. Ogni conoscenza della realtà culturale è
sempre, come risulta da tutto questo, una conoscenza da particolari punti
di vista. Quando noi richiediamo allo
storico e allo studioso di scienze
sociali, come presupposto elementare, che egli sappia distinguere ciò che è importante da ciò che
non lo è, e che egli disponga dei punti di vista indispensabili per questa distinzione, ciò
vuol semplicemente dire che egli deve imparare a riferire i processi della realtà consapevolmente o inconsapevolmente a valori culturali universali, e quindi a porre in luce le
connessioni che sono per noi significative. Sebbene si ripresenti sempre l’opinione che sia
possibile assumere dalla materia stessa quei punti di vista, ciò
deriva dall’illusione ingenua dello
specialista il quale non riflette che egli ha dapprima isolato, in virtù delle
idee di valore con cui si è inconsapevolmente accostato alla materia, un
ristretto elemento da un’assoluta infinità come quello che solo lo interessa
per la sua trattazione. In questa scelta
di singole parti dell’accadere, che ha luogo sempre e ovunque in forma sia
consapevole che inconsapevole, viene in
luce anche quell’elemento del lavoro
delle scienze della cultura che sta a base di un’affermazione così sovente udita che l’aspetto
personale di un’opera scientifica
costituisca ciò che propriamente vale in essa, e che in ogni opera, affinché sia degna di
esistere, debba esprimersi una
personalità . Certo senza le idee di valore del ricercatore non vi sarebbe
nessun principio per la scelta della materia, € nessuna conoscenza fornita di
senso del reale nella sua individualità;
e come senza la fede del ricercatore nel significa to di qualche contenuto culturale risulta
senz'altro privo di senso ogni lavoro
diretto alla conoscenza della realtà individua
le, così l'orientamento della sua fede personale, cioè la rifrazione dei
valori nello specchio della sua anima, indicherà la direzione anche al suo
lavoro. E i valori a cui il genio scientifico
riferisce gli oggetti della sua ricerca potranno determinare la concezione
di un'intera epoca, potranno cioè essere decisivi non solo per stabilire ciò che nei fenomeni
è fornito di valore, ma anche per
stabilire ciò che è significativo o privo di
significato, ciò che è importante
e ciò che è senza importanza
. La conoscenza delle scienze della
cultura, nel senso che abbiamo definito,
è vincolata a presupposti soggettivi in
quanto essa si occupa soltanto di quegli elementi della realtà che hanno una relazione per quanto indiretta con i
processi ai quali attribuiamo un significato culturale. Essa è tuttavia naturalmente una pura conoscenza
causale nel medesimo senso in cui può esserlo la conoscenza di processi
naturali individuali forniti di
significato, i quali rivestano un carattere
qualitativo. Accanto alle varie confusioni prodotte dall’invasione del
pensiero giuridico-formale nella sfera delle scienze della cultura, è stato di
recente compiuto il tentativo di
confutare » in linea di principio
la concezione materialistica della storia» mediante una serie di spiritosi
sofismi, sostenendo che, in quanto tutta
la vita economica deve svolgersi in forme regolate giuridicamente o convenzionalmente,
qualsiasi sviluppo » economico deve
assumere la forma di tendenze alla creazione di
nuove forme giuridiche, e che esso è quindi comprensibile soltanto in
base a massime etiche, e risulta su questa base diverso nella propria essenza da ogni sviluppo naturale ». La conoscenza dello sviluppo
economico avrebbe pertanto un carattere
teleologico »Î. Senza voler qui discutere il significato che per la scienza sociale può avere l'equivoco
concetto di sviluppo »; 0 il concetto
logicamente non meno equivoco di
teleologico», si deve tuttavia constatare che una conoscenza
siffatta non potrebbe mai essere teleologica » ze/ senso presupposto da questa prospettiva. Nonostante la più
completa identità formale delle norme
giuridiche in vigore, il significato culturale dei rapporti giuridici a cui le norme si
riferiscono, e perciò anche delle norme
medesime, può mutare in maniera radicale. Certo, se ci si vuole inoltrare per un momento
almanaccando nelle fantasie di un tempo
futuro, si può per esempio concepire
teoricamente compiuta una socializzazione dei mezzi di produzione »
senza che sia sorta alcuna tendenza »
mirante consapevolmente a questa conseguenza e senza che venga eliminato o aggiunto nessun paragrafo della nostra
legislazione: la frequenza statistica di particolari relazioni giuridicamente
regolate sarebbe cambiata certo alla base, e in molti casi ridotta a zero, una gran parte delle norme giuridiche
diventerebbe praticamente priva di significato, e il loro intero significato
culturale sarebbe mutato in maniera da risultare irriconoscibile. La 3. Weber si riferisce qui al volume di
Rudolf Stammler, Wirtschaft und Recht nach der materialistichen
Geschichtsauffassung, Leipzig, 1896. Alla critica della seconda edizione di
quest'opera (1906) sarà dedicato il saggio di Weber R. Stammlers Uberwindung » der materialistischen Geschichtsauffassung, Archiv. fùr Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik (ora in Gesammelte Aufsatze
zur Wissenschaftslehre). Rudolf
Stammler, filosofo del diritto tedesco
di orientamento neo-kantiano, scrisse inoltre Die Lehre voni richtigen Recht (1902), la Theorie der
Rechtsivissenschaft, Die Gerechtigheit
in der Geschichte (1915), un Lelrbuch der Rechtsphilosophie (1922) e
varie altre opere. teoria
materialistica » della storia poteva quindi con diritto mettere da parte le discussioni de lege
ferenda, poiché il suo punto di vista
centrale consisteva appunto nell’inevitabile mutamento di significato delle
istituzioni giuridiche. Colui al quale
il semplice lavoro di comprensione causale della realtà storica appare subalterno, può sì evitarlo — ma è
impossibile sostituirlo con qualsiasi
teleologia ». Scopo » è, per la
rostra trattazione, la rappresentazione di un effetto, che diviene causa
di un'azione; e noi consideriamo anche
questa al pari di ogni causa che contribuisca
o possa contribuire a un effetto fornito
di significato. Il suo significato specifico poggia soltanto sul
fatto che noi possiamo e vogliamo anche
irztendere, oltre che constatare, l'agire umano. Quelle idee di valore sono, fuor di ogni
questione, soggettive». Tra l’interesse
storico» per una cronaca di famiglia e
quello per lo sviluppo dei più grandi fenomeni di cultura, che furono e sono comuni a una nazione o
all'umanità per lunghe epoche, c'è
un'infinita gradazione di significati », i cui momenti avranno per ognuno di
noi un ordine differente. E così pure
esse mutano storicamente con il carattere della cultura e delle idee che guidano gli uomini. Da ciò 207
consegue ovviamente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar
luogo soltanto a risultati i quali siano
soggettivi» nel senso che valgono per
l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto il grado in cui essi interessano l’uno e non
l’altro. In altri termini, ciò che
diventa oggetto dell’indagine, e in quale misura questa si estenda nell’infinità
delle connessioni causali, è determinato
soltanto dalle idee di valore che dominano il ricercatore e la sua epoca; nel
come? », vale a dire nel metodo della
ricerca — come ancora vedremo — il punto
di vista» a cui si ispira è determinante
per l’elaborazione degli strumenti
concettuali che egli impiega — mentre nel modo della loro applicazione il ricercatore è di certo, qui
come ovunque, vincolato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità
scientifica è soltanto ciò che esige di
valere per tutti coloro che vogliono la
verità. Da ciò risulta in ogni
caso l’assurdità dell’idea — la quale
talvolta prevale anche presso gli storici della nostra disciplina — che possa essere fine, per quanto remoto,
delle scienze della cultura quello di costruire un sistema chiuso di concetti,
nel cui ambito la realtà possa venir
compresa in un'articolazione in
qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi di nuovo dedotta. La corrente dell’accadere
sconfinato procede senza fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente
atteggiati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomini, cosicché
rimane fluido anche l’ambito di ciò che acquista per noi senso e significato da quella
infinita, e sempre eguale, corrente
dell’accadere, configurandosi come individuo storico ». Mutano le connessioni
concettuali in base a cui l’accadere è
considerato e colto scientificamente. I punti di partenza delle scienze della cultura si protendono quindi
mutevoli nel più lontano futuro, finché
qualche definitivo irrigidimento della
vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove questioni alla vita sempre inesauribile. Un
sistema delle scienze della cultura, anche soltanto in forma di una
fissazione definitiva, oggettivamente
valida, sistematizzante delle questioni e dei campi di cui esse dovrebbero
trattare, sarebbe di per sé un’assurdità:
da un tentativo del genere potrebbe derivare sempre solo una collezione di
punti di vista, specificamente diversi e
tra loro in vario modo eterogenei e disparati, in base ai quali la realtà è risultata o risulta per noi cultura , cioè fornita di significato nella sua specificità. Dopo queste lunghe discussioni, possiamo
finalmente affrontare la questione che ci interessa metodicamente in vista
di una trattazione dell’ oggettività
della conoscenza della cultura: quale è la funzione e la struttura logica dei
concetti con cui la nostra scienza, al
pari di ogni altra, lavora, e cioè
per formulare la domanda con
particolare riguardo al problema decisivo qual è il significato della teoria e
dell’elaborazione concettuale teorica
per la conoscenza della realtà culturale?
L'economia politica è stata almeno originariamente lo
abbiamo già detto una tecnica,
per ciò che concerne il centro di
gravità delle sue discussioni: essa considerava i fenomeni della realtà da un
punto di vista valutativo che, almeno in
apparenza, era univoco, stabile e pratico, vale a dire dal punto di vista dell’accrescimento della ricchezza
della popolazione. Ma d’altra parte, fin dall’inizio, essa non è stata
soltanto una tecnica , in quanto era inserita nella possente unità dell’intuizione giusnaturalistica e
razionalistica del mondo, formulata dal secolo xvi. Il carattere specifico di
quell’intuizione del mondo, con la sua
fede ottimistica nella possibilità di una
razionalizzazione teoretica e pratica del reale, operava essenzialmente
in maniera da ostacolare la scoperta del carattere problematico di tale punto
di vista, assunto come di per sé evidente.
Sorta in stretta connessione con il moderno sviluppo della scienza
naturale, la considerazione razionale della realtà sociale è rimasta ad essa affine in tutto il suo modo
di analisi. Nelle discipline naturali il
punto di vista pratico-valutativo, fondato
sulla determinazione di ciò che è immediatamente utile in senso tecnico,
era strettamente legata alla speranza
ereditata dall’antichità e in
seguito ancora sviluppata di
pervenire sulla via dell’astrazione generalizzante
e dell’analisi del dato empirico nelle
sue connessioni legali a una conoscenza di tipo
monistico dell’intera realtà che fosse puramente oggettiva ,
cioè svincolata da tutti i valori, e al tempo stesso razionale, cioè liberata da ogni accidentalità
individuale, e assumesse la
fisionomia di un sistema concettuale di validità metafisica e di forma matematica. Le discipline naturali
legate a punti di vista valutativi, come
la medicina clinica e ancor più quella che
abitualmente è detta tecnologia ,
diventavano pure dottrine pratiche. I valori
a cui esse dovevano servire, vale a dire la salute del paziente, il
perfezionamento tecnico di un concreto processo produttivo ecc., erano di volta
in volta stabiliti per ognuna di esse. I mezzi impiegati erano, e potevano
essere soltanto forniti dall'impiego dei concetti legali scoperti dalle
discipline teoriche. Ogni progresso di principio nella formazione di tali
concetti era, o poteva essere, anche un progresso della corrispondente
disciplina pratica. Dato un certo scopo, la progressiva riduzione delle
particolari questioni pratiche (di un caso di malattia, di un problema tecnico)
a leggi generalmente valide di cui esse
costituiscono un caso specifico, e quindi l’estensione del sapere teorico, era
immediatamente connessa, ed anzi
coincidente, con l’allargarsi delle possibilità pratico-tecniche. Allorché la
biologia moderna ha sottoposto anche quegli
elementi della realtà che ci interessano storicamente, cioè nel modo in cui essi sono divenuti
così-e-non-altrimenti, al concetto di un principio evolutivo universalmente
valido, che almeno apparentemente ma non certo in verità ha consentito di subordinare tutto ciò che è essenziale in
tali oggetti a uno schema di leggi
valide in generale, sembrò che si avvicinasse in qualsiasi scienza il momento della fine per
tutti i punti di vista valutativi.
Poiché il cosiddetto accadere storico era una parte dell’intera realtà, e il principio causale,
che costituisce il presupposto di ogni lavoro scientifico, sembrava esigere la
riduzione di ogni accadere a leggi generalmente valide, e poiché infine
era evidente l’immenso successo delle scienze della natura le quali avevano proceduto in base a questo
principio, sembrò allora inconcepibile
un senso della ricerca scientifica diverso da
quello della scoperta delle leggi dell’accadere. Soltanto ciò che è
conforme alle leggi poteva essere
scientificamente essenziale nei fenomeni, e i processi individuali venivano presi in considerazione solamente in quanto tipi ,
cioè in quanto rappresentanti illustrativi delle leggi; un interesse diretto ad
essi sembrava costituire un
interesse non scientifico . È impossibile seguire qui le forti conseguenze
di questa fiduciosa disposizione del
monismo naturalistico sulle discipline economiche. Allorché la critica
socialistica e il lavoro degli storici
cominciavano a tradurre in problemi gli originari punti di vista valutativi, il potente sviluppo
della ricerca biologica da un lato e
l'influenza del panlogismo hegeliano dall’altro impedirono all’economia
politica di determinare in maniera distinta, nella sua piena portata, il
rapporto tra concetto e realtà. Da ciò è risultato, per quanto ci interessa,
che nonostante il poderoso argine
opposto alla penetrazione dei dogmi naturalistici dalla filosofia idealistica
tedesca successiva a Fichte, dalle
indagini della scuola giuridica tedesca e dal lavoro della scuola storica di economia politica tedesca, e in
parte proprio în conseguenza di questo lavoro, i punti di vista del naturalismo
rimangono ancora da superare in alcuni punti decisivi. Tra questi c’è in particolare il rapporto, che rimane ancor
sempre problematico, tra lavoro teorico e lavoro storico nell’ambito della nostra disciplina. Il metodo teorico astratto
si contrappone ancora og con
un’asprezza priva di mediazione e apparentemente insormontabile, alla ricerca
storico-empirica. Esso riconosce del tutto correttamente l'impossibilità
metodica di sostituire la conoscenza storica della realtà con la formulazione
di leggi o di pervenire viceversa a leggi in senso stretto attraverso il mero
accostamento di osservazioni storiche. Per ottenere tali leggi dal momento che per esso è certo che la
scienza debba aspirare a questo fine
supremo si procede dal fatto che
noi abbiamo un’esperienza immediata
delle connessioni dell’agire umano
proprio nella Joro realtà, e quindi così
esso suppone possiamo rendere il suo
corso immediatamente intelligibile con
evidenza assiomatica, e penetrarlo nelle sue leggi. La sola forma esatta di conoscenza, cioè la
formulazione di leggi evidenti che si
possano immediatamente intuire, sarebbe al tempo stesso la sola che consente
l’accesso ai processi non immediatamente osservati; e quindi, almeno per i
fenomeni fondamentali della vita economica, la determinazione di un sistema
di princìpi astratti e di conseguenza puramente formali, in analogia a quello delle scienze esatte della
natura, sarebbe il solo mezzo per
dominare spiritualmente la molteplicità della
vita sociale. Nonostante la distinzione metodica di principio tra conoscenza legale e conoscenza storica,
che il creatore della teoria aveva
compiuto come primo e unico, alle proposizioni
della teoria astratta è stata però da lui attribuita una validità empirica, nel senso di una deducibilità della
realtà dalle leggi. E ciò certo non nel
senso di una validità empirica dei
princìpi economici astratti presi di per sé, bensì in maniera che, quando si fossero elaborate
corrispondenti teorie esatte di tutti gli altri fattori che si possono
considerare, tutte queste teorie
astratte prese insieme dovrebbero contenere in sé la vera realtà delle cose vale a dire ciò che della realtà è degno di essere conosciuto. La teoria economica esatta
determinava l’effetto di ur motivo psichico, mentre le altre teorie avrebbero
il compito di sviluppare in forma simile
tutti i rimanenti motivi in princìpi di
validità ipotetica. Pertanto al lavoro teorico, cioè alle teorie astratte della formazione del
prezzo, dell’interesse, delle rendite
ecc., è stata talvolta attribuita la pretesa fantastica di servire, secondo
la pretesa analogia dei princìpi fisici, per dedurre da date premesse reali
risultati quantitativa mente
determinati, e cioè leggi in senso rigoroso, valide per la realtà della vita, in quanto l'economia
dell’uomo sarebbe MAX WEBER 599 univocamente
determinata , dato un certo scopo, in rapporto ai mezzi. E non si è tenuto presente che, per
poter aspirare a questo risultato anche
nei casi più semplici, si dovrebbe assumere come data €
presupporre come nota la totalità della realtà storica attuale, insieme a tutte
le sue connessioni causali, e che,
quando questa conoscenza fosse accessibile allo spirito finito, non si potrebbe
attribuire nessun valore conoscitivo a una
teoria astratta. Il pregiudizio naturalistico, secondo il quale si dovrebbe creare, con quei concetti, qualcosa
di affine a ciò che producono le scienze
esatte della natura, aveva condotto appunto a un’errata comprensione del senso
di queste formazioni teoriche. Si è
creduto che si trattasse dell'isolamento psicologico di uno specifico impulso dell’uomo, dell'impulso al guadagno, oppure
dell’osservazione isolata di una specifica massima dell'agire umano, cioè del cosiddetto
principio economico. La teoria astratta riteneva di potersi reggere su assiomi
psicologici; e la conseguenza era che
gli storici invocavano una psicologia empirica, allo scopo di poter mostrare la
non-validità di quegli assiomi e
derivare psicologicamente il corso dei processi economici. Noi non intendiamo
criticare a fondo, in queste pagine, la
fede nell’importanza di una scienza sistematica della psicologia sociale che del resto è ancor da creare come
fondamento futuro delle scienze della cultura, e in particolare dell'economia sociale. Proprio gli abbozzi
finora compiuti, in parte brillanti, di
un’interpretazione psicologica dei fenomeni
economici mostrano in ogni caso che si procede dall’analisi delle
qualità psicologiche dell’uomo all’analisi delle istituzioni sociali, ma che
viceversa il chiarimento dei presupposti e degli effetti psicologici delle
istituzioni presuppone la precisa conoscenza di queste ultime, nonché l’analisi
scientifica delle loro connessioni. L'analisi psicologica significa allora
semplicemente un approfondimento, molto
importante nel caso specifico, della
conoscenza del loro condizionamento storico-culturale e del loro
significato culturale. Ciò che ci interessa nell’atteggiamento psichico dell’uomo nelle sue relazioni
sociali è appunto determinato in ogni caso specificamente, secondo il
particolare significato culturale della relazione in esame. Si tratta infatti
di motivi e di influssi psichici tra
loro molto eterogenei, cd estremamente compositi nel caso concreto. La ricerca
psicologico-sociale costituisce un attento esame di diversi generi
particolari, e tra loro assai disparati,
di elementi della cultura, considerati
in rapporto alla possibilità di interpretarli mediante la nostra comprensione. Noi dobbiamo imparare mediante
essi a intendere spiritualmente in misura crescente partendo dalla conoscenza delle istituzioni
particolari il loro condizionamento e il loro significato culturale, senza voler
dedurre le istituzioni da leggi
psicologiche o volerle spiegare in base a fenomeni psicologici elementari. Anche la polemica così complessa che si è
svolta intorno alla giustificazione
psicologica delle enunciazioni teoriche astratte, intorno all'importanza dell’ impulso al
guadagno e del principio economico ecc., ha dato un frutto assai scarso. Nel caso delle enunciazioni della teoria
astratta, solo in apparenza ci troviamo di fronte a deduzioni
da motivi. psicologici fondamentali; in verità si tratta piuttosto di un
caso specifico di una forma di elaborazione concettuale che è propria, e
in certa misura indispensabile, delle
scienze della cultura umana. Vale qui la
pena caratterizzare tale forma in maniera un po’ più approfondita, per accostarci così alla
questione fondamentale del significato della teoria per la conoscenza fornita
dalla scienza sociale. E a tale fine noi
lasceremo una volta per sempre fuori
discussione se le formazioni teoriche che rechiamo come esempio, o alle quali accenniamo,
corrispondano, così come esse sono, allo
scopo a cui vogliono servire, se cioè esse siano di fatto elaborate in maniera
conforme allo scopo. In quale misura
l’odierna teoria astratta debba ancora essere sviluppata è, alla fine, anche un problema di economia
del lavoro scientifico, a cui si riferiscono altri problemi. Anche la teoria dell'utilità
marginale sottostà alla legge dell'utilità marginale . Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria
economica astratta, un esempio di quelle
sintesi che si designano di solito come
idee di fenomeni storici. Essa ci
offre un quadro ideale dei processi che
avvengono in un mercato di beni, sulla base di
un'organizzazione sociale fondata sull'economia di scambio, di una libera concorrenza e di un agire
rigorosamente razionale. Questo quadro
concettuale unisce determinate relazioni e determinati processi della vita
storica in un cosmo, in sé privo di
contraddizioni, di connessioni concettuali. Per il suo contenuto questa costruzione riveste il carattere di
un’ufopia, ottenuta attraverso
l’accentuazione concettuale di determinati elementi della realtà. Il suo rapporto con i fatti
empiricamente dati della vita consiste
solo in questo, che laddove vengono determinati o supposti operanti, in qualsiasi grado, nella
realtà connessioni del tipo
astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè processi dipendenti dal mercato , noi possiamo illustrare
pragmaticamente e rendere intelligibile il carazzere specifico di questa
connessione in un tipo ideale. Tale possibilità è indispensabile sia a scopo
euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipicoideale serve a orientare il
giudizio di imputazione nel corso della
ricerca: esso non è un’ ipotesi , ma intende orientare la costruzione di ipotesi. Esso zon è una
rappresentazione del reale, ma intende
fornire alla rappresentazione un mezzo di
espressione univoco. Esso è quindi
l’idea di un’organizzazione
moderna della società, fondata sull'economia di scambio, che è storicamente data; esso è stato
elaborato in base ai medesimi principi logici con cui si è proceduto a
costruire l’idea dell’economia cittadina
medievale come concetto genetico. Quando
si fa così, si perviene a formare il concetto di economia cittadina non già come una media dei princìpi economici operanti di fatto nell’insieme
delle città osservate, ma appunto come
un zipo ideale. Esso è ottenuto attraverso
l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e attraverso la connessione di una quantità di
fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in
minore misura, e talvolta anche
assenti che corrispondono a quei punti di vista unilateralmente sottolineati in un quadro corcettuale in sé unitario.
Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere
rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico
si presenta il compito di determinare in
ogni caso singolo la maggiore o minore
distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo per esempio in quale misura il carattere
economico della situazione di una determinata città possa venir qualificato
concettualmente come proprio dell’ economia cittadina . Oculatamente impiegato, quel concetto rende i suoi specifici
servizi a sco602 MAX WEBER po di
indagine e di illustrazione. Proprio nello stesso modo si può, per analizzare ancora un altro esempio,
indicare l’ idea dell’ artigianato in un’utopia, congiungendo determinati tratti
che si possono rintracciare diffusamente presso gli artigiani dei più diversi tempi e paesi accentuati unilateralmente nelle loro conseguenze in un quadro ideale in sé privo di contraddizione, e riferendoli a
un'espressione concettuale, che si trova
manifestata nel loro ambito. Si può inoltre compiere il tentativo di individuare una società nella
quale tutti i rami di attività
economica, e anche spirituale, siano regolati da massime che ci appaiono come
l’applicazione del medesimo principio caratteristico dell’ artigianato ,
elevato a tipo ideale. Si può poi ancora
contrapporre quel tipo ideale dell’artigianato a un corrispondente tipo ideale di
organizzazione industriale capitalistica, astratta da certe caratteristiche
della grande industria moderna, e quindi compiere infine il tentativo di
elaborare l’utopia di una cultura capitalistica , dominata esclusivamente
dall’interesse all'impiego di capitali privati. Essa dovrebbe congiungere,
accentuandoli in un quadro concettuale non
contraddittorio per la nostra considerazione, determinati tratti esistenti in maniera diffusa della moderna
vita materiale e spirituale, considerati
nel loro carattere specifico. Ciò sarebbe
un tentativo di indicare l’idea
della cultura capitalistica se e
come a ciò si possa pervenire, non è ancora dato di saperlo. È però possibile, o piuttosto dev’essere
considerato come sicuro, che si pervenga
ad abbozzare più utopie di questo tipo, e certamente in misura assai numerosa,
di cui nessuna è eguale alle altre, e di cui nessuna può venir osservata nella
realtà empirica come ordinamento di fatto valido della situazione sociale;
ognuna comporta però la pretesa di costituire una rappresentazione dell'idea
della cultura capitalistica, e ognuna
può anche far valere questa pretesa in quanto ha assunto dalla realtà, congiungendoli in un quadro ideale
unitario, certi tratti della nostra
cultura forniti di significato nel loro specifico carattere. Infatti quei
fenomeni che ci interessano come fenomeni
culturali derivano di regola questo interesse per noi cioè il
loro significato culturale da idee di valore assai differenti con le
quali possiamo porli in relazione. Come vi sono perciò punti di vista estremamente diversi dai quali possiamo
considerarli per noi significativi, così si possono impiegare anche i più diversi princìpi di scelta delle
connessioni da assumere in un tipo
ideale di una determinata cultura.
Quale è però il significato di questi concetti tipico-ideali per una scienza di esperienza, quale noi
intendiamo promuoverla? Si deve
anzitutto porre in luce che la nozione di
ciò che deve essere , vale a dire
di un modello normativo , deve essere
accuratamente distinto qui da questo quadro concettuale a cui ci riferiamo, e che è ideale in senso
puramente logico. Si tratta della
costruzione di connessioni che appaiono motivate in maniera plausibile alla nostra faztasia, e quindi oggettivamente possibili , cioè adeguate nei
confronti del nostro sapere nomologico.
Chi ritenga che la conoscenza della realtà storica debba o possa essere una riproduzione priva di presupposti» di fatti oggettivi », rifiuterà ad essi qualsiasi
valore. E anche chi ha riconosciuto che
non c'è un’ assenza di presupposti » in senso
logico sul terreno della realtà, e che pure il più semplice riassunto di
documenti o la più semplice registrazione delle fonti può avere qualche senso scientifico solo in
base a un riferimento a significati », e
quindi in ultima istanza a idee di valore,
considererà tuttavia la costruzione di qualsiasi utopia » storica come un mezzo di illustrazione pericoloso per
un lavoro storico impregiudicato, e più
spesso semplicemente come un gioco. E
infatti non si può mai decidere @ priori se si tratti con questo di un puro gioco concettuale, oppure di
un’elaborazione concettuale scientificamente feconda; anche qui esiste un solo
criterio, quello dell’efficacia per la
conoscenza di fenomeni culturali
concreti nella loro connessione, nel loro condizionamento causale e nel
loro significato. Non come fine, bensì come mezzo ha dunque importanza la formazione di tipi
ideali astratti. Ogni attenta osservazione
degli elementi concettuali della rappresentazione storica mostra però che lo
storico, nell’intraprendere il tentativo
di determinare, al di là della mera constatazione di connessioni concrete, il significato
culturale di un processo individuale per quanto semplice possa essere, e quindi
di caratterizzarlo », lavora e deve lavorare
con concetti che possono venir definiti in maniera precisa e univoca soltanto
sotto forma di tipi ideali. Oppure
concetti come individualismo », imperialismo », feudalesimo », mercantilismo » ecc. sono convenzionali », e
le numerose formazioni concettuali del medesimo
tipo, con le quali cerchiamo di concepire e di intendere la realtà, possono venir determinate nel loro
contenuto mediante una descrizione priva di presupposti» di qualsiasi
concreto fenomeno, oppure mediante la
congiunzione in forma astratta di ciò
che è comune a più fenomeni concreti? La lingua che lo storico parla contiene in centinaia di
parole questi quadri concettuali
indeterminati, elaborati per un bisogno di espressione che inconsapevolmente si
fa valere, e il cui significato può
dapprima soltanto essere avvertito intuitivamente, non già concepito con
chiarezza. In infiniti casi, particolarmente nel campo della storia politica
descrittiva, l’indeterminatezza del loro
contenuto non è certo di alcun pregiudizio alla chiarezza della rappresentazione. Basta infatti che nel caso
singolo sia sentito ciò che è in mente
allo storico, oppure ci si può accontentare
che una particolare accezione del contenuto concettuale sia presupposta
con un relativo significato per il caso singolo. Ma” quanto più precisamente si deve recare alla
coscienza la significatività di un fenomeno culturale, tanto più inevitabile
diventa il bisogno di lavorare con
concetti chiari, determinati non solo in
maniera particolare ma anche in tutti i loro aspetti. Una definizione » di quelle sintesi formulate
dal pensiero storico, secondo lo schema
gezus proximum-differentia specifica, è naturalmente un’assurdità; se ne faccia
pure la prova. Una forma siffatta di
determinazione del significato verbale è possibile solo sul terreno di
discipline dogmatiche, che lavorano con sillogismi. Non può esservi o può esservi soltanto in apparenza una semplice risoluzione descrittiva» di
quei concetti nei loro elementi, poiché
ciò dipende proprio dalla determinazione di quali elementi debbano essere
considerati come essenziali. Se si deve tentare una definizione genetica del
contenuto concettuale, rimane soltanto
la forma del tipo ideale nel senso sopra
fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale non è la realtà storica, e neppure l’
autentica » realtà, e tanto meno può
servire come uno schema nel quale la realtà debba essere inserita come esempio; esso ha il
significato di un puro concetto-limite
ideale, a cui la realtà deve essere misurata e
comparata, al fine di illustrare determinati elementi significati vi del
suo contenuto empirico. Questi concetti sono formazioni nelle quali costruiamo, impiegando Ja
categoria di possibilità oggettiva,
connessioni che la nostra fantasia, orientata e disciplinata in vista della
realtà, giudica adeguate. Il tipo
ideale rappresenta, particolarmente in questa funzione, il tentativo di
concepire gli individui storici o i loro elementi particolari in virtù di
concetti genetici. Si prendano per
esempio i concetti di chiesa» e di setta». Essi si lasciano risolvere, in via puramente classificatoria,
in complessi di caratteristiche in cui non soltanto il confine tra l’uno e
l’altro, ma anche il contenuto
concettuale deve rimanere sempre fluido. Se
però voglio concepire il concetto di setta» geneticamente, cioè in riferimento a certi importanti
significati culturali che lo spirito di
setta» ha avuto per la cultura moderna, allora
determinate caratteristiche dell’uno e dell’altro diventano essenziali,
in quanto stanno in relazione causale adeguata con quegli effetti. I concetti diventano però al tempo
stesso tipico-ideali, cioè essi non si
presentano mai, o si presentano soltanto in
maniera sporadica, nella loro piena purezza concettuale. Qui come ovunque ogni concetto non puramente
classificatorio allontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro
conoscere, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la realtà
soltanto mediante una catena di mutamenti di rappresentazione, postula una siffatta
stenografia di concetti. La nostra
fantasia può certo fare sovente a meno di una espressa formulazione
concettuale come mezzo di ricerca ma per
la rappresentazione, se essa vuol essere precisa, l’impiego di tali concetti è
in innumerevoli casi del tutto indispensabile sul terreno dell’analisi
culturale. Chi la respinga in linea di principio deve limitarsi all’aspetto
formale, per esempio a quello storico-giuridico, dei fenomeni culturali. Il
cosmo delle norme giuridiche può naturalmente venire al tempo stesso
determinato in forma concettualmente chiara e valere (in senso giuridico1) per
la realtà storica. Ma è del loro significato pratico che deve occuparsi il
lavoro della scienza sociale nel nostro senso. Questo significato può però
spesso essere reso consapevole in maniera precisa soltanto mediante il
riferimento del dato empirico a un caso-limite ideale. Se lo storico (nel senso
più ampio della parola) rifiuta un tentativo di formulazione di un tipo ideale
siffatto come costruzione teorica , cioè
come qualcosa di non adatto o di non
indispensabile per il suo concreto scopo conoscitivo, la conseguenza è di regola che egli impiega,
consapevolmente o meno, altri concetti
analoghi sezz4 una formulazione linguisti
ca e un'elaborazione logica, oppure che egli rimane attaccato al campo di ciò che è sentito
indeterminatamente. Nulla è
tuttavia più pericoloso di una mescolarza di teoria e storia, derivante da pregiudizi
naturalistici, sia che si creda di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere
teorico il contenuto proprio , l’essenza della realtà storica,
sia che li si impieghi invece come un
letto di Procuste nel quale debba essere
costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le idee
come una realtà vera e
propria che sussista dietro al fluire dei fenomeni, cioè come forze
reali che si manifestano nella storia.
Soprattutto quest’ultimo pericolo incombe su di noi quando siamo abituati a comprendere tra le idee di un'epoca anche, e anzi in prima linea, i principi o gli
ideali che hanzo dominato le masse, oppure una parte storicamente considerevole
degli uomini di quell’epoca, e che
perciò sono stati significativi come
componenti della sua configurazione culturale. A ciò si devono ancora aggiungere due considerazioni in primo luogo la circostanza che tra l’idea nel senso di una direzione concettuale,
pratica o teorica, e idea nel senso di
un tipo ideale di un’epoca da noi
costruito come strumento concettuale sussistono di regola determinate
relazioni. Un tipo ideale di determinate situazioni sociali, che si lascia
astrarre da certi caratteristici fenomeni sociali di un’epoca, può e questo è infatti sovente il caso avere ispirato l’uomo del tempo come
ideale da conseguire praticamente oppure
come massima per la regolamentazione di determinate relazioni sociali. Ciò vale
già per l’idea della garanzia del sostentamento e di varie teorie canonistiche, specialmente di san Tommaso, in
rapporto al concetto tipico-ideale oggi impiegato dell’economia cittadina del Medioevo, a cui abbiamo accennato sopra.
E ciò vale maggiormente per il famigerato
concetto fondamentale
dell’economia politica, vale a dire per il concetto di valore
economico. Dalla Scolastica fino alla teoria marxistica il principio
di qualcosa che sia oggettivamente valido, e che quindi deve essere, si è qui
amalgamato con un’astrazione derivata dal corso empirico della formazione del
prezzo. E quel principio, che il valore
dei beni debba essere regolato secondo determinati princìpi
di diritto naturale , ha avuto e ha tuttora un'immensa importanza per lo
sviluppo della cultura non solo del Medioevo. Esso ha intensamente influenzato
soprattutto la formazione empirica dei prezzi. Ciò che però viene, e può
venir pensato sotto quel concetto
teorico, può essere chiarito in maniera realmente univoca soltarzto in virtù di
una precisa elaborazione concettuale, e cioè di un’elaborazione
tipico-ideale e a ciò dovrebbe riflettere chi motteggia sulle robinsonate
della teoria astratta, almeno finché non abbia da porre al loro
posto qualcosa di meglio, e cioè di più
chiaro. Il rapporto causale tra l’idea
storicamente determinabile, che governa
gli uomini, e quegli elementi della realtà storica dai quali è possibile astrarre il tipo ideale
ad essa corrispondente, può naturalmente configurarsi in maniera assai diversa.
In linea di principio occorre però
stabilire soltanto che si tratta di due
cose ovviamente eterogenee. Ma a ciò si deve inoltre aggiungere che noi
possiamo comprendere con precisione concettuale quelle idee medesime che governano gli uomini di un’epoca, e che operano in maniera diffusa
tra di loro dal momento che si tratta qui di una più
complicata formazione concettuale di nuovo soltanto zella forma di un tipo
ideale; e ciò perché vivono
empiricamente nella testa di una indeterminata e mutevole molteplicità di
individui, assumendo in essi le più
diverse gradazioni di forma e di contenuto, di chiarezza e di senso. Per esempio, quegli elementi della
vita spirituale degli individui singoli in una determinata epoca del
Medioevo, che di solito noi designamo
come il Cristianesimo degli individui in
questione, costituirebbe naturalmente
rel caso che si potesse
rappresentarli in maniera compiuta un
caos di connessioni concettuali e affettive
di ogni tipo, infinitamente
differenziate e assai contraddittorie, sebbene la Chiesa medievale abbia certo realizzato l’unità della fede e
dei costumi in misura particolarmente
elevata. Se si propone la questione di che cosa
sia stato allora in questo caos i
Cristianesimo medievale, con il quale si deve nondimeno operare
continuamente come se fosse un concetto ben determinato, e in che cosa consista
l’elemento cristiano che noi troviamo
nelle istituzioni del Medioevo, risulta subito che anche qui viene, in ogni
singolo caso, impiegata una pura
formazione concettuale da noi creata. Esso
è una combinazione di proposizioni di fede, di norme
giuridicoecclesiastiche e di norme etiche, di massime della condotta della vita
e di innumerevoli connessioni particolari, che noi uniamo in un’idea: è una
sintesi alla quale non possiamo pervenire in maniera non contraddittoria senza
l’impiego di concetti
tipico-ideali. La struttura
logica dei sistemi concettuali in cui rappresentiamo tali idee , e il loro
rapporto con ciò che ci è immediatamente dato nella realtà empirica, sono
naturalmente assai diversi. La questione
si presenta ancora in forma relativamente
semplice nei casi in cui vi siano uno oppure pochi princìpi teorici direttivi che si possono facilmente
esprimere in formule per esempio la
fede nella predestinazione di Calvino
o postulati etici chiaramente
formulabili, i quali abbiano dominato gli uomini e prodotto effetti storici, in
maniera da poter articolare l’idea in una gerarchia di posizioni che si
sviluppano logicamente in base a quei principi direttivi. Già allora si scorda però con troppa facilità che, per
quanto potente sia stata nella storia
l’importanza anche della forza coercitiva puramente Zogica del pensiero il marxismo ne è un esempio eminente tuttavia il processo storico-empirico nella
testa degli uomini deve di regola venir
inteso come condizionato psicologicamente
e non logicamente. E il carattere tipico-ideale di siffatte sintesi di idee storicamente operanti risulta in
maniera ancor più distinta allorché quei fondamentali principi direttivi e quei
postulati non vivono, oppure non vivono più, nella testa degli individui
dominati da posizioni che ne derivano logicamente, oppure per associazione, in
quanto l’idea che in origine stava alla
loro base è scomparsa, oppure ha trovato una diffusione solo nelle proprie
conseguenze. In maniera ancor più decisiva il carattere della sintesi emerge
come il carattere di un’ idea che noi
creiamo quando quei fondamentali princìpi direttivi fin dall’inizio sono
pervenuti solo in forma incompiuta, o non sono pervenuti, a coscienza distinta,
o per lo meno non hanno assunto la forma di chiare connessioni concettuali.
Quando perciò adottiamo questo procedimento, come accade e deve accadere molto
sovente, ci troviamo con questa idea sia
essa l’idea del liberalismo di un determinato periodo o quella del metodismo
o quella di qualsiasi specie di
socialismo concettualmente non
sviluppato di fronte a un puro tipo
ideale, che è analogo alle sintesi dei
princìpi di un’epoca economica da
cui abbiamo preso le mosse. Quanto più ampie sono le connessioni che si devono
rappresentare, e quanto più molteplice è stato il loro significato culturale,
tanto più la loro rappresentazione sistematica in un complesso concettuale si
accosta al carattere del tipo ideale, e tazto meno è possibile operare con uno solo di tali concetti; e
tanto più naturali e inevitabili
diventano quindi i tentativi, sempre ripetuti, di recare a coscienza sempre
nuovi aspetti significativi mediante l’elaborazione di concetti tipico-ideali.
Tutte le formulazioni di un’essenza del
Cristianesimo, per esempio, sono tipi ideali
che hanno sempre, e necessariamente, soltanto una validità molto
relativa e problematica se pretendono di essere considerate come una rappresentazione storica di ciò che
esiste empiricamente; e sono invece di alto valore euristico per la ricerca e
di alto valore sistematico per tale
rappresentazione se vengono impiegate
semplicemente come mezzi concettuali per la comparazione e per la misurazione
della realtà in riferimento ad esse. In
questa funzione esse risultano addirittura indispensabili. A tali formulazioni tipico-ideali si aggiunge
però di regola ancora un altro elemento,
che ne complica ulteriormente il significato.
Esse vogliono di solito essere, oppure sono inconsapevolmente, tipi ideali non soltanto in senso /ogico, ma
anche in senso pratico: sono cioè
modelli che per attenerci
all'esempio contengono ciò che il
Cristianesimo deve essere secondo la convinzione dell’autore, cioè che in esso
è per lui essenziale , perché fornito di
valore permanente. In questo caso, però, sia
esso consapevole o più spesso inconsapevole, siffatte formulazioni
contengono degli ideali 4i quali l’autore riferisce valutativamente il Cristianesimo: sono
compiti e fini verso cui egli orienta la
sua idea del Cristianesimo, e che naturalmente
possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo saranno, dai valori ai
quali gli uomini del tempo, per esempio i Cristiani primitivi, riferivano il
Cristianesimo ‘. In questo significato le idee non sono naturalmente più puri
strumenti logici, non sono più concetti
a cui la realtà viene misurata
comparativamente, bensì sono ideali in base ai quali essa è giudicata valutativamente. Nor si tratta più
del puro processo teorico di riferimento
di ciò che è empirico ai valori, ma di
giudizi di valore che vengono accolti nel concetto
del Cristianesimo. Poiché qui il tipo ideale pretende una validità
empirica, esso penetra nella regione dell’interpretazione valutativa del
Cristianesimo; il terreno della scienza empirica è abbandonato, e di fronte a
noi sta una professione personale, 707
un'elaborazione concettuale di carattere tipico-ideale. Per quanto questa
distinzione sia una distinzione di principio, tuttavia la mescolanza di quei due significati dell’
idea , così fondamentalmente diversi, si presenta molto spesso nel corso
del lavoro storico. Essa è sempre
prossima allorché lo storico comincia a sviluppare la sua concezione di una personalità o di un’epoca. In antitesi ai criteri etici costanti
che uno Schlosser® impiegava in
conformità allo spirito del razionalismo, lo storico moderno educato
relativisticamente, che vuole da un lato
intendere in base a se stessa e
dall’altro tuttavia anche
giudicarel’epoca di cui parla, sente il bisogno di assumere i criteri del proprio giudizio dalla materia, cioè di lasciar scaturire l’idea nel senso di ideale dall’idea nel senso di
tipo ideale . E l’attrattiva estetica di un procedimento del genere lo trascina continuamente a scordare
la linea in cui l’una e l’altra si
distaccano una deficienza che da un
lato non può fare a meno del giudizio
valutativo, e dall'altro porta a
respingere da sé la responsabilità dei propri giudizi. Di fronte a ciò è
tuttavia un dovere elementare dell’autocontrollo scien4. Weber si riferisce qui
alle discussioni sull’ essenza del
Cristianesimo, particolarmente vive nella cultura filosofico-religiosa tedesca
dci primi anni del secolo a partire
dalla pubblicazione di Das Wesen des Christentums di Adolf von Harnack (1900).
5. Friedrich Christoph Schlossser (1776-1861), storico tedesco, autore
della Welegeschichte in zusammenhingender Darstellung, della Geschichte des 18. Jahrhunderts, poi continuata col nuovo titolo
di Geschichte des 18. Jahr hunderts und
des 19. bis zum Sturz des franzòsischen Kaiserreichs mit besonderer Riicksicht
auf geistige Bildung (1836-49), di una Weltgeschichte fiir das deutsche Volk (1844-56) di carattere divulgativo e di
varic altre opere. tifico, e il solo mezzo per prevenire gli inganni,
distinguere con precisione la relazione
logica comparativa della realtà con tipi
ideali in senso logico dalla valutazione della realtà in base a ideali. Un tipo ideale nel nostro senso si può ripeterlo ancora una volta è completamente indifferente nei
confronti del giudizio valutativo, e non
ha nulla a che fare con una
perfezione che non sia puramente
logica. Vi sono tipi ideali tanto di
bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di bordelli che possono sembrare
tecnicamente conformi allo scopo dal
punto di vista dell’odierna etica di polizia, come ve ne sono di quelli per cui vale proprio
l'opposto. Deve qui necessariamente
venir messa in disparte la discussione approfondita del caso che si presenta di
gran lunga come il più complicato e
interessante la questione della
struttura logica del concetto di stato.
Si deve solamente osservare che,
chiedendoci che cosa corrisponda nella realtà empirica all’idea dello
stato , noi troviamo un’infinità di comportamenti umani attivi e
passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni regolate di fatto e giuridicamente che
presentano un carattere in parte
singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute insieme da un'idea, cioè dalla fede in norme
valide di fatto, o che devono valere, e
in rapporti di potere di uomini sugli
uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettualmente
elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte ancora passivamente
accolta e configurata nel modo più diverso nella testa di individui i quali, se
concepissero l’idea come tale in maniera
realmente chiara, non avrebbero bisogno della dottrina generale dello stato a
cui tale idea intende dare origine. Il concetto scientifico di stato, in
qualsiasi modo venga formulato, è naturalmente una sintesi che z0i assumiamo
per determinati scopi conoscitivi. Ma d'altra parte esso è pure astratto dalle
non chiare sintesi che sono state ritrovate nella testa degli uomini storici.
Però il contenuto concreto che lo
stato storico assume in quelle
sintesi dei contemporanei può venire illustrato soltanto se ci orientiamo in
base a concetti tipico-ideali. Inoltre non c’è il minimo dubbio che il modo in cui
quelle sintesi sono effettuate, in forma sempre logicamente incompiuta, dai
contem poranei, cioè il modo in cui essi si fanno le loro idee dello stato
per esempio la metafisica organica dello stato, sorta in Germania, in
antitesi alla concezione
commerciale americana è di importanza eminentemente pratica; cioè
anche qui, in altri termini, l’idea pratica
che si crede debba valere o valga e il zipo ideale teorico, costruito a scopi conoscitivi, si accostano
tra loro e mostrano la continua tendenza
a passare l’uno nell’altro. Noi abbiamo
sopra considerato di proposito il tipo
ideale essenzialmente quand’anche non esclusivamente come
una costruzione concettuale per la misurazione e la caratterizzazione
sistematica di connessioni individuali, cioè significative nella loro singolarità, come per esempio il
Cristianesimo, il capitalismo ecc. Ciò è
avvenuto allo scopo di mettere da parte
la banale nozione che nel campo dei fenomeni culturali cid che è astrattamente zipico sia identico con ciò
che è astrattamente conforme al genere.
Questo non è il caso. Senza analizzare qui
in linea di principio il concetto di
tipico, più volte discusso e
assai screditato per l’abuso fattone, noi possiamo assumere dal nostro precedente esame che l’elaborazione di
concetti di tipo, nel senso di
un’eliminazione di ciò che è accidentale
, trova la propria sede anche e
precisamente in rapporto agli individui
storici. Naturalmente anche quei concetti di genere, che troviamo a ogni
passo come elementi di esposizioni storiche e di concreti concetti storici, possono però venir
formati come tipi ideali mediante un
procedimento di astrazione e di accentuazio-ne di determinati elementi ad essi
concettualmente essenziali. Questo è
appunto un caso di applicazione dei concetti tipicoideali particolarmente
frequente e importante dal punto di vista
pratico; e ogni tipo ideale individuale si costruisce in base a clementi concettuali che sono generici, e che
sono stati formati come tipi ideali.
Anche in questo caso emerge però la specifica
funzione logica dei concetti tipico-ideali. Un semplice concetto di genere, nel senso di un complesso di
caratteristiche comuni a più fenomeni, è
per esempio il concetto di scambio
finché prescindo dal significato degli elementi concettuali e analizzo
semplicemente l’uso linguistico quotidiano. Se però pongo questo concetto in relazione, per esempio,
con la legge di utilità marginale ed elaboro il concetto di scambio economico come concetto di un processo economicamente RAZIONALE,
allora questo contiene in sé, al pari di ogni concetto logicamente sviluppato
in maniera compiuta, un giudizio sulle condizioni tipiche
dello scambio. Esso assume carattere genetico e diventa perciò al tempo
stesso tipico-ideale in senso logico, cioè si
allontana dalla realtà empirica, la quale può solo essere comparata con
esso e ad esso riferita. Una cosa analoga vale per tutti i cosiddetti
concetti fondamentali
dell'economia politica: essi possono venir sviluppati in forma genetica
soltanto come tipi ideali. L’antitesi
tra semplici concetti di genere, i quali
riuniscono ciò che è comune a certi fenomeni empirici, e tipi ideali di carattere generico come per esempio nel caso di un concetto tipico-ideale dell’ essenza dell’artigianato è naturalmente fluida nel caso singolo. Ma
nessun concetto di genere ha in quanto
tale carattere tipico, e non c’è nessun tipo
di media che sia puramente conforme a un genere. Ovunque parliamo, per
esempio in statistica, di grandezze
tipiche , si presenta qualcosa di più che una mera media. Quanto più ci troviamo dinanzi a una semplice
classificazione di processi che si presentano nella realtà come fenomeni di
massa, tanto più si tratta di concetti
di genere; quanto più invece vengono
formate concettualmente complicate connessioni storiche, prese in quei loro elementi su cui poggia il loro
specifico significato culturale, tanto
più il concetto o il sistema
concettuale assumerà il carattere del
tipo ideale. Poiché scopo dell’elaborazione di concetti tipico-ideali è sempre
quello di rendere esplicito con precisione 207 già ciò che è conforme al
genere, bensì, al contrario, il
carattere specifico di certi fenomeni culturali. Che tipi ideali, anche di carattere generico,
possano essere e siano impiegati,
presenta un interesse metodologico soltanto in
connessione con un altro fatto.
Finora abbiamo imparato a conoscere i tipi ideali essenzialmente
soltanto come concetti astratti di connessioni che, permanendo nel flusso
dell’accadere, sono da noi rappresentati come
individui storici, i cui si compiono determinate linee di sviluppo. Ora
si presenta però una complicazione, la quale reintroduce in maniera molto
facile, con l’aiuto del concetto di tipico , il pregiudizio naturalistico che
fine delle scienze sociali debba essere
la riduzione della realtà a leggi. Anche le
linee di sviluppo possono venir costruite come tipi ideali, e 614 MAX WEBER
queste costruzioni possono avere un valore euristico assai
considerevole. Ma così sorge, in misura particolarmente forte, il pericolo che vengano tra loro confusi il tipo
ideale e la realtà. Si può per esempio
pervenire al risultato teorico che in una
società organizzata in forma rigorosamente artigianale la
sola fonte di accumulazione del capitale sia la rendita fondiaria. Su
tale base si può forse poi costruire
poiché non si deve qui indagare
la correttezza della costruzione un
quadro ideale della trasformazione dell'economia a carattere artigianale
in un'economia capitalistica,
condizionato da determinati fattori
semplici terreno limitato,
popolazione crescente, afflusso di
metalli preziosi, razionalizzazione della condotta della vita. Se il corso storico-empirico dello sviluppo sia
stato di fatto quello costruito può
venir indagato soltanto con l’aiuto di questa costruzione in quanto mezzo
euristico, mediante la comparazione tra
tipo ideale e fatti. Se il tipo ideale è
correttamente costruito, e
tuttavia il corso oggettivo zor corrisponde al corso tipico-ideale, si verrebbe a conseguire la
prova che la società medievale 07 è
stata, in determinate relazioni, una società a
carattere rigorosamente
artigianale ». E quando il tipo ideale
è stato costruito in maniera ideale » euristica se e come
ciò possa avvenire nel nostro caso, rimane qui del tutto fuori della nostra considerazione allora esso orienterà nel medesimo tempo la
ricerca sulla via che conduce a una più precisa
penetrazione di quegli elementi della società medievale i quali non presentano carattere artigianale,
studiati nel loro specifico carattere e
nel loro significato storico. Esso ha attuato il suo scopo logico, quando reca a questo risultato,
proprio in quanto ha manifestato la sua propria irrealtà. Esso costituiva, in
tale caso, la prova di un'ipotesi. Il procedimento non è esposto a nessuna
riserva metodologica fin quando si tenga presente che la costruzione
tipico-ideale di uno sviluppo e la storia sono due cose da tenere rigorosamente
distinte, e che la costruzione è stata qui semplicemente il mezzo per compiere
in maniera sistematica l'imputazione valida di un processo storico alle sue
cause reali, entro l'ambito di quelle possibili in conformità allo stato della
nostra conoscenza. Mantenere rigorosamente in piedi questa distinzione è reso
sovente molto difficile secondo quanto
ci dice l’esperienza dalla seguente circostanza. Nell’interesse della
presentazione in forma intuitiva del tipo ideale o dello sviluppo tipico-ideale
si cercherà di #lustrarlo mediante materiale intuitivo tratto dalla realtà
storico-empirica. Il pericolo di questo procedimento, che pure è in sé del
tutto legittimo, consiste nel fatto che
il sapere storico appare qui come servitore della teoria, anziché viceversa. Il teorico si trova di fronte alla
tentazione di considerare questo rapporto come normale, oppure il che è peggio di accostare teoria e storia, e addirittura
di scambiarle tra loro. Questo caso si
presenta in misura ancor più accentuata
allorché la costruzione ideale di uno sviluppo è effettuata in maniera da inserirla, con la classificazione
concettuale di tipi ideali di
determinate formazioni culturali (per esempio delle forme di impresa industriale muovendo dall’
economia domestica chiusa », oppure dei concetti religiosi cominciando
dalle divinità dell’attimo »), entro
una classificazione genetica. La serie
dei tipi che risulta in base alle caratteristiche concettuali prescelte appare quindi come una loro
successione storica, legalmente necessaria. L'ordine logico dei concetti da un
lato, e dall’altro l'ordinamento
empirico di ciò che viene concepito
nello spazio, nel tempo e nella connessione causale, sembrano così legati tra loro che quasi irresistibile
diventa la tentazione di fare violenza alla realtà, per confermare nella realtà
la validità effettiva della
costruzione. Di proposito si è evitato
di condurre la dimostrazione in
riferimento a quello che per noi è di gran lunga il più importante caso
di costruzioni tipico-ideali cioè in
riferimento a Marx. Ciò è avvenuto per
non complicare ancora l’esposizione
tirando dentro anche le interpretazioni di Marx, e per non anticipare le discussioni con cui la nostra
rivista farà di regola oggetto di
analisi critica la letteratura accumulatasi sul
oppure in rapporto al grande
pensatore. Qui ci si può pertanto
limitare a constatare che tutte le leggi» e le costruzioni di sviluppo specificamente marxistiche in quanto sono teoricamente prive di
errore hanno naturalmente carattere
tipicoideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxistici conosce l’eminente, e anzi singolare significato
euristico di questi tipi ideali, quando
li si impieghi per comparare con essi la realtà, e conosce al tempo stesso la loro pericolosità
quando si voglia presentarli come validi empiricamente, oppure come forze operanti , tendenze ecc. reali (cioè, in verità,
metafisiche). Concetti di genere; tipi
ideali; concetti di genere tipico-ideali; idee nel senso di combinazioni
concettuali empiricamente operanti negli
uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali che dominano gli uomini storici; tipi ideali
di questi ideali; ideali a cui lo
storico riferisce la storia; costruzioni zeoriche effettuate mediante l’impiego illustrativo
del dato empirico; indagine storica
condotta mediante l’impiego di concetti teorici come casi-limite ideali; e
inoltre ancora le diverse complicazioni possibili a cui si è solo potuto
accennare sono tutte formazioni concettuali, il cui rapporto con
la realtà empirica del dato immediato
resta problematico in ogni caso particolare.
Questa elencazione mostra già da sola l’intrico senza fine dei problemi metodico-concettuali, che rimangono
sempre in vita nel campo delle scienze
della cultura. E noi abbiamo dovuto
astenerci assolutamente dall’esaminare le questioni metodologiche
pratiche connesse ai problemi che si è potuto soltanto indicare, e dal
discutere in maniera approfondita le relazioni della conoscenza tipico-ideale con la
conoscenza legale , dei concetti
tipico-ideali con i concetti collettivi, e così via. Lo storico persevererà tuttora, dopo queste
polemiche, nell’affermare che la prevalenza della forma tipico-ideale di
elaborazione concettuale e di costruzione è un sintomo specifico della giovinezza di una disciplina. E in
questo gli si deve in un certo senso dar
ragione, ma con conseguenze diverse da
quelle che egli vorrebbe trarne. Prendiamo un paio di esempi da altre discipline. È certo vero che lo
scolaro infastidito, al pari del
filologo primitivo, concepisce anzitutto una lingua organicamente , cioè come una totalità
sovra-empirica retta da norme, ma
concepisce il compito della scienza come la
determinazione di ciò che in
quanto regola linguistica deve valere.
Elaborare logicamente la lingua scritta , come
ha fatto ad esempio la Crusca, ridurne il contenuto a regole, è normalmente il primo compito che una filologia
si propone. E quando invece oggi
un insigne filologo proclama oggetto
della filologia il modo di
parlare di ogni individuo , la determinazione di un programma siffatto è
possibile solo in quanto nella lingua scritta ci si trova dinanzi a un tipo
ideale relativamente stabile, con cui può operare (almeno tacitamente)
l’analisi dell’infinita molteplicità del modo di parlare, che altrimenti sarebbe del tutto priva di orientamento e di
approdo. Non altrimenti le costruzioni
delle teorie dello stato a carattere giusnaturalistico o organico, oppure per rammentarci di un ideale nel nostro senso la teoria dello stato antico formulata da
Benjamin Constant‘, funzionavano in certa misura come porti di rifugio, finché
non si è imparato a orientarci
nell’immenso mare dei fatti empirici. La maturazione di una scienza comporta infatti sempre il
superamento del tipo ideale, nella
misura in cui esso viene concepito come empiricamente valido oppure come concetto di genere. E
perciò, per esempio, l’impiego dell’acuta
costruzione di Constant è ancor oggi del
tutto legittimo per l’illustrazione di determinati aspetti e di caratteristiche storiche peculiari
dell’antica vita statale, se si tiene
fermo con cura il suo carattere tipico-ideale. Non solo, ma soprattutto vi sono scienze alle quali è
assegnata un’eterna giovinezza; e queste
sono tutte le discipline storiche, tutte quelle cioè a cui il fluire sempre
progrediente della cultura propone di
continuo nuove posizioni problematiche. È connesso all’essenza del loro compito
che tuzte le costruzioni tipico-ideali
debbano tramontare, ma che al tempo stesso altre nuove siano sempre indispensabili. Di continuo si ripetono i tentativi di
determinare il senso proprio o vero dei concetti storici, e mai essi
giungono alla fine. Di conseguenza le
sintesi, con cui la storia di continuo lavora, rimangono regolarmente nella
forma di concetti solo relativamente
determinati, oppure, allorché si deve conseguire a ogni costo l’univocità del
contenuto concettuale, il concetto diventa un tipo ideale astratto e si rivela
come un punto di vista teorico, quindi
unilaterale , dal quale la realtà può 6. Benjamin-Henri Constant de
Rebecque, uomo politico francese del periodo napoleonico e dell'età della
Restaurazione, esiliato da Napoleone, in seguito uno dei maggiori esponenti
dell’opposizione liberale alla monarchia borbonica, autore del Cours de
politique constitutionelle, del famoso discorso De la liber:é des anciens
comparée è celle des modernes (1819), dell’opera De la religion, considéré dans
sa source, ses formes et ses dévelopments (1824-27), dei MÉlanges de politique
et de litiérature (1829) e di vari altri
scritti, tra cui il volume postumo Du polytAdisme romain. essere illuminata e al quale essa può
venir riferita ma che si mostra evidentemente inappropriato come
schema in cui essa potrebbe venir
inserita senza residuo. Poiché nessuno di quei
sistemi concettuali, di cui non possiamo fare a meno per la penetrazione degli elementi di volta in volta
significativi della realtà, può tuttavia
esaurirne l’infinita ricchezza. Nessuno è
qualcosa di diverso da un tentativo di recare ordine, sulla base della situazione del nostro sapere e delle
formazioni concettuali a nostra disposizione,
nel caos di quei fatti che abbiamo compreso nell’ambito del nostro inzeresse.
L'apparato concettuale che il passato ha
sviluppato mediante l'elaborazione, cioè piuttosto mediante la trasformazione
concettuale della realtà immediatamente data e il suo inserimento in quei
concetti che corrispondevano alla situazione della sua conoscenza e alla
direzione del suo interesse, sta in continua contrapposizione con la nuova conoscenza che noi possiamo e vogliamo
ottenere dalla realtà. In questa lotta
si compie il progresso delle scienze della
cultura. Il suo risultato è un continuo processo di trasformazione di
quei concetti con cui cerchiamo di penetrare la realtà. La storia delle scienze della vita sociale è e
rimane caratterizzata da un continuo
alternarsi tra il tentativo di ordinare concettualmente i fatti mediante
un’opera di elaborazione concettuale, la
risoluzione dei quadri concettuali così ottenuti mediante l’estensione e
l’approfondimento dell’orizzonte scientifico, e l’elaborazione di nuovi
concetti sul fondamento così mutato. Non viene
qui affatto in luce l’erroneità del tentativo di formare sistemi di
concetti 12 gezere ogni scienza, anche
la semplice storia descrittiva, lavora
con la provvista concettuale del suo
tempo bensì la circostanza che
nelle scienze della cultura umana la
formazione dei concetti dipende dalla posizione dei problemi, e quest'ultima varia con il
contenuto della cultura stessa. Nelle
scienze della cultura il rapporto tra il concetto e il suo contenuto comporta la transitorietà di
ogni sintesi siffatta. I grandi tentativi di costruzione concettuale hanno di
regola avuto il loro valore, nel campo
della nostra scienza, nel rivelare le
limitazioni di significato del punto di vista che sta alla loro base. I più importanti progressi nel campo
delle scienze sociali sono, dal punto di
vista oggettivo, connessi alla trasposizione
dei problemi pratici della cultura, e si presentano nella forma di una critica dell’elaborazione concettuale.
Sarà uno dei principali compiti della nostra rivista servire allo scopo di
questa critica, e perciò all'indagine
dei princìpi della sintesi nel campo della scienza sociale. Traendo le conseguenze di quanto si è detto,
noi perveniamo a un punto in cui le nostre opinioni si discostano talvolta da quelle di alcuni, anche eminenti,
rappresentanti della scuola storica, tra
i cui discendenti tuttavia ci siamo annoverati. Essi permangono sovente, in maniera espressa o
tacita, nella convinzione che il fine ultimo, lo scopo di ogni scienza sia
quello di ordinare la propria materia in
un sistema di concetti il cui contenuto
deve essere ottenuto mediante l'osservazione di regolarità empiriche,
l’elaborazione di ipotesi e la loro verifica,
finché non sia sorta su tale base una scienza compiuta e perciò deduttiva. In vista di questo fine il
lavoro storico-induttivo che si sta attualmente conducendo sarebbe un lavoro
preliminare, condizionato dall’imperfezione della nostra disciplina: nulla deve naturalmente apparire più
sospetto, dal punto di vista di questa
forma di considerazione, della formazione e
dell’impiego di concetti precisi che vorrebbero anticipare
prematuramente quel fine, proprio invece di un lontano futuro. Questa
concezione sarebbe in linea di principio incontestabile sul terreno della dottrina antica e scolastica
della conoscenza, a cui sono ancora
profondamente attaccati gli specialisti della scuola storica: scopo dei concetti si presuppone
essere la riproduzione rappresentativa
della realtà oggettiva, e da ciò deriva la
continua insistenza sull’irrealtà di ogni concetto preciso. Chi pensa però fino in fondo il principio
fondamentale della moderna dottrina della conoscenza, richiamantesi a Kant, che
i concetti sono e possono essere solamente mezzi del pensiero foggiati allo
scopo di dominare spiritualmente il dato empirico, non potrà ritenere la circostanza che i concetti
genetici siano necessariamente tipi ideali come un'obiezione valida contro la
loro elaborazione. Per lui il rapporto
tra concetto e lavoro storico si
inverte: quel fine ultimo gli appare logicamente impossibile, e i concetti si rivelano non già fire, bensì
mezzo in vista della conoscenza delle
connessioni significative da puntì di vista individuali. Proprio in guanto i
contenuti dei concetti storici sono necessariamente mutevoli, questi debbono
essere ogni volta formulati in maniera precisa. Egli avanzerà soltanto
l’esigenza che nel loro impiego sia
accuratamente tenuto fermo il loro
carattere di formazioni concettuali ideali, che cioè tipo ideale e storia non vengano scambiati tra loro. Dal
momento che non si può considerare come
fine ultimo quello di pervenire a concetti
storici realmente definitivi, per l’inevitabile mutamento delle idee di valore direttive, egli riterrà che
proprio in quanto concetti precisi e univoci vengono formulati in riferimento
al particolare punto di vista, che ogni volta esplica una funzione direttiva,
sia data la possibilità di mantenere chiari nella coscienza i limiti della loro validità, Si affermerà ora e noi l’abbiamo già ammesso che una
concreta connessione storica può nel caso particolare venir illustrata
intuitivamente nel suo corso, senza che sia di continuo posta in relazione con concetti definiti. E
di conseguenza si reclamerà per lo
storico della nostra disciplina che egli, al pari di ciò che si è detto dello storico politico,
parli la lingua della vita . Certamente!
Occorre solamente aggiungere che in
questo procedimento rimane necessariamente accidentale, in un grado spesso molto elevato, se il punto di
vista in base a cui il processo
considerato ottiene significato pervenga, o meno, a chiara coscienza. Noi non ci troviamo in
genere nella felice situazione dello
storico politico, per il quale i contenuti di
cultura, a cui egli riferisce la sua esposizione, sono di regola univoci
0 almeno così sembrano. Ogni rappresentazione che sia solo intuitiva assume il carattere
proprio di una rappresentazione artistica: ognuno vede ciò che reca in cuore.
Giudizi validi presuppongono sempre
l’elaborazione logicz del dato intuitivo, cioè l'impiego di concetti; ed è
certo possibile, e spesso esteticamente
soddisfacente, conservarli in petto, ma ciò minaccia di continuo il sicuro
orientamento del lettore, sovente anche quello di chi scrive, per ciò che
concerne il contenuto e la portata dei
suoi giudizi. Estremamente pericolosa
può però diventare l’omissione di una
precisa elaborazione concettuale per le discussioni pratiche di politica economica e sociale. Quale
confusione abbiano qui prodotto per
esempio l’impiego del termine
valore questo figlio del dolore
della nostra disciplina, al quale può appunto essere dato un senso univoco
soltanto su base tipico-ideale oppure
parole come produttivo , dal punto di vista economico-politico ecc., che non reggono a nessuna analisi
concettualmente chiara, è addirittura incredibile per lo spettatore che stia al di fuori. E a recar danno sono
qui prevalentemente i concetti collettivi assunti dal linguaggio quotidiano. Si
prenda, per fornire un'illustrazione il più possibile accessibile anche a chi
non abbia competenza specifica, il concetto di
agricoltura, quale si presenta nell’espressione interessi dell’agricoltura. Se assumiamo
anzitutto gli interessi
dell’agricoltura come le
rappresentazioni soggettive più o meno chiare, ed empiricamente determinabili,
che i singoli operatori economici hanno dei loro interessi, e prescindiamo
quindi del tutto dagli infiniti conflitti di interessi che qui sussistono tra
allevatori di bestiame, ingrassatori di bestiame, coltivatori di grano,
consumatori di grano, distillatori di acquavite e così via, non ogni estraneo
ma certo almeno ogni specialista si renderà conto dell'enorme groviglio di
relazioni di valore, tra loro antagonistiche e contraddittorie, che è qui sotto
oscuramente implicato. Noi vogliamo qui enumerarne solo alcune: interessi di
agricoltori che vogliono vendere il proprio podere, e che perciò sono
interessati esclusivamente a un celere rialzo del prezzo del terreno;
l'interesse contrapposto di coloro che intendono comperare, o accrescersi, o
prendere in affitto; l'interesse di coloro che, per motivi di vantaggio
sociale, desiderano conservare un determinato podere per i propri successori e
sono quindi interessati alla stabilità della proprietà terriera; l'interesse
contrapposto di coloro che desiderano, per sé e per i propri figli, un
movimento del terreno in direzione di un padrone migliore oppure il che non è senz'altro identico di un acquirente fornito di disponibilità di
capitali; l'interesse puramente economico dei
padroni più capaci, nel senso dell'economia privata, alla libertà di
movimento economico; l'interesse antagonistico di determinati strati dominanti
alla conservazione della tradizionale posizione sociale ed economica del
proprio ceto, e quindi della propria discendenza; l’interesse sociale degli
strati di agricoltori 207 dominanti al declino di quegli strati superiori, che
opprimono la loro posizione; il loro interesse, che talvolta risulta in collisione
col precedente, di possedere in quegli strati una guida politica per la
protezione dei propri interessi di guadagno. E l’elenco potrebbe ancora essere
accresciuto a lungo, senza trovare una fine, per quanto si proceda in maniera
sommaria e imprecisa. Noi trascuriamo il fatto che agli interessi più egoistici di questo tipo possono
mescolarsi o unirsi i più diversi valori
ideali, e che tali valori possono ostacolarli o
deviarli, per tenere soprattutto presente che, quando parliamo di interessi dell'agricoltura, pensiamo di
regola z0n soltanto a quei valori materiali e ideali a cui gli agricoltori
stessi riferiscono i propri interessi,
bensì anche a quelle idee di valore, in
parte completamente eterogenee, a cui noi possiamo riferire l'agricoltura: per esempio interessi
produttivi, derivanti dall’interesse in una nutrizione più a buon mercato
della popolazione e dall’interesse, che non
sempre coincide con quello, in una nutrizione qualitativamente migliore, a cui
possono contrapporsi in varia maniera
gli interessi della città e della campagna
mentre non c’è alcuna garanzia che l’interesse della generazione presente sia identico con
il probabile interesse di quelle future; oppure interessi demografici, in
particolare interessi a una 24merosa popolazione agricola, derivanti dagli interessi dello stato per motivi di politica di grande potenza o di politica interna, oppure da
altri interessi ideali di specie più
diversa, come dall’influenza prevista di una numerosa popolazione agricola sul
carattere culturale di un paese
interessi i quali possono contrastare con svariati interessi privati di
tutte le parti della popolazione agricola, e presumibilmente anche con tutti
gli interessi presenti della massa della
popolazione agricola. Oppure si può rammentare l’interesse a un determinato tipo di organizzazione sociale
della popolazione agricola, a causa delle influenze politiche o culturali che
ne derivano interesse che può urtarsi per il suo
orientamento con tutti i presumibili
interessi presenti e futuri, anche i più
urgenti, dei singoli agricoltori e anche
dello stato . E ciò che complica ulteriormente la cosa lo stato , al cui interesse
noi volentieri riferiamo questi e numerosi altri interessi particolari del genere, è per noi spesso solo
una designazione che riveste un
groviglio, in sé estremamente intricato, di idee di valore, con cui esso è da parte sua posto
in relazione nel caso singolo: sicurezza puramente militare verso l’esterno;
sicurezza della posizione dominante di una dinastia o di determinate classi
all’interno; interesse alla conservazione e all’estensione dell’unità statale della nazione, per se
stessa o in funzione della conservazione
di determinati beni culturali oggettivi, tra loro di nuovo assai diversi, che noi crediamo di
rappresentare in forma di un popolo
fornito di unità statale; trasformazione del
carattere sociale dello stato nel senso di determinati ideali culturali,
ancora assai diversi e si potrebbe
continuare a lungo se si volesse anche
soltanto accennare che cosa corre sotto l’etichetta di interessi statali , a
cui possiamo riferire l’agricoltura. L'esempio qui prescelto, e ancor più la
nostra sommaria analisi, è grossolano e
semplificato. Chi è privo di competenza
specifica potrebbe ancora analizzare in maniera simile (e più a fondo) per esempio il concetto di interessi di classe dei lavoratori , per
vedere quale groviglio, pieno di contraddizioni, in parte di interessi e di ideali dei
lavoratori, in parte di ideali in base a
cui noi consideriamo i lavoratori, stia al di sotto di esso. È impossibile superare lo slogan della
lotta di interessi mediante
un’accentuazione puramente empiristica della loro relatività: una chiara e precisa
determinazione concettuale dei diversi
punti di vista possibili è la sola via che ci consente di procedere oltre l'oscurità della frase. L’
argomento del libero commercio come
intuizione del mondo o come norma valida è una cosa ridicola, ma gravi danni ha
recato alle nostre discussioni di
politica commerciale e lo stesso vale
quali che siano gli ideali di politica
commerciale che il singolo vuole
rappresentare il fatto che noi
abbiamo sottovalutato nel suo valore
euristico l'antica esperienza di vita dei grandi mercanti depositata in tali formule tipico-ideali.
Solo mediante formule tipico-ideali
diventano realmente espliciti nel loro proprio carattere i punti di vista
considerati nel caso singolo, e ciò attraverso un’opera di confronto del dato
empirico con il tipo ideale. L'uso dei
concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il linguaggio quotidiano, è sempre il
rivestimento di oscurità del pensiero o
della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di ingannevoli raggiri in ogni caso è però un mezzo per ostacolare
lo sviluppo di una corretta impostazione problematica. Noi siamo alla fine di
queste considerazioni, che miravano
semplicemente a porre in luce la linea, spesso molto sottile, che separa scienza e fede, e a cogliere il
senso dell’aspirazione alla conoscenza
economico-sociale. La validità oggettiva di ogni sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto
sul fatto che la realtà data viene
ordinata in base a categorie che sono soggetti
ve in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presupposto
della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presupposto del vglore di
quella verità che soltanto il sapere empirico
può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa verità
e la fede nel valore della verità scientifica è infatti prodotto di determinate culture, e non già
qualcosa di naturalmente dato non
abbiamo nulla da offrire con i mezzi della
nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra verità che possa
sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può fornire
concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e che neppure la riproducono, ma che consentono
di ordinarla concettualmente in modo
valido. Nel campo delle scienze sociali empiriche della cultura l'abbiamo visto la possibilità di una conoscenza fornita di senso di ciò che
per noi è essenziale nell'infinità dell’accadere appare vincolata al costante
impiego di punti di vista di carattere specifico, i quali sono tutti, in ultima analisi, orientati verso idee di
valore che da parte loro possono essere
empiricamente constatate e vissute come elementi di ogni agire umano fornito di
senso, ma zor già fondate come valide in
base al materiale empirico. L’oggettività
conoscitiva delle scienze sociali dipende piuttosto dal fatto che
il dato empirico è sì orientato
continuamente verso quelle idee di
valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo, ed è compreso nel
suo significato in base ad esse, ma tuttavia non diventa mai piedestallo per la
prova, empiricamente impossibile, della
loro validità. E la fede, che sempre è in qualche forma presente in tutti noi, nella validità
sovra-empirica delle ultime e supreme
idee di valore a cui ancorare il senso della nostra esistenza, non esclude ma reca con sé
l’incessante mutabilità dei punti di
vista concreti da cui la realtà empirica deriva un significato: la vita nella
sua realtà irrazionale e il suo contenuto di
possibili significati sono inesauribili, perciò la concreta
configurazione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta com'è al
mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La luce, che emana da quelle supreme idee di
valore, cade sempre su una parte finita,
e continuamente mutevole, dell’immensa e
caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo. Tutto ciò non dovrebbe venir frainteso nel
senso che il compito proprio della
scienza sociale debba essere una continua caccia affannosa di nuovi punti di
vista e di nuove costruzioni concettuali. Al contrario, nulla dovrebbe qui
venir affermato in maniera più risoluta del principio che il contributo alla conoscenza del significato culturale di
connessioni storiche concrete è
l’esclusivo fine ultimo a cui, accanto ad altri mezzi, intende servire anche il lavoro di
elaborazione e di critica concettuale. Vi sono anche nel nostro campo, per
usare un’espressione di F. T. Vischer?,
cercatori di materiale e cercatori di
significato . La gola bramosa di fatti dei primi può essere saziata solo con materiale documentario, con
tavole statistiche e con inchieste, ma è
insensibile alla raffinatezza del nuovo
pensiero. La golosità dei secondi altera il proprio gusto con sempre nuovi distillati concettuali. Quella
genuina capacità artistica, che per esempio tra gli storici Ranke possedeva in
misura così grandiosa, si manifesta di
solito nella capacità di creare qualcosa
di nuovo mediante il riferimento di fatti z0t a punti di vista anch'essi noti. Ogni lavoro delle scienze della cultura in
un’epoca di specializzazione, dopo essersi diretto in base a determinate
impostazioni problematiche a considerare una determinata materia, e dopo essersi creato i suoi princìpi metodici,
riterrà l’analisi di questo materiale
come uno scopo a sé, senza controllare di
continuo in maniera consapevole il valore conoscitivo dei singoli fatti
in riferimento alle ultime idee di valore, e anche senza rimanere consapevole del proprio legame con
queste. Ed è bene che sia così. Ma a un
certo momento muta il colore: il significato dei punti di vista impiegato in
maniera non riflessa diventa incerto, e la strada si perde nel crepuscolo. La
luce dei 7. Friedrich Theodor Vischer,
autore di una Aesthetik oder Wissenschaft des Schònes in sci volumi (1846-58),
dì ispirazione hegeliana, e di numerosi
saggi di estetica e di critica artistico-letteraria. grandi problemi
culturali è di nuovo spostata. Allora anche la
scienza si appresta a mutare la propria impostazione e il proprio
apparato concettuale, e a guardare nella corrente dell’accadere dall'alto del
pensiero. Essa segue quegli astri che, essi
soli, possono mostrare senso e direzione al suo lavoro: ma sorge il nuovo impeto e mi slancio per bere alla sua luce
eterna. Il giorno innanzi a me, la notte
alle mie spalle, su di me il cielo,
sotto di me le onde”. 8. GoetHne, Faust,
vv. 1085-88 (tr. it, di F. Fortini). Per
valutazione si debbono qui di
seguito intendere, se nient'altro è
detto esplicitamente o risulta di per sé evidente, le valutazioni pratiche
di un fenomeno influenzabile mediante il nostro agire, il quale viene
considerato come riprovevole oppure come degno di approvazione *. Con il
problema della libertà di una
determinata scienza da valutazioni di questa
specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso a. Questo saggio è la trasformazione di una
comunicazione, diffusa in forma
manoscritta, preparata per una discussione interna nella riunione del 1913 del
Verein fr Sozialpolitik . È stato eliminato il più possibile tutto ciò che interessava soltanto questo
gruppo di studio, mentre sono state
ampliate le considerazioni metodologiche generali. Tra le altre comunicazioni
presentate per tale discussione è stata pubblicata quella del prof. E. Spranger!, nello Schmollers Jahrhbuch fir Gesetzgebung,
Verwaltung und Volkswirtschaft , XXXVIII, 1914, pp. 33-57. Io confesso di aver trovato stranamente debole, perché
non maturato chiaramente, questo lavoro di un filosofo che anch'io stimo assai;
ma evito qui, anche già per ragioni di
spazio, ogni polemica con lui, limitandomi a esporre il mio proprio punto di vista. * Der Sinn der Wertfreiheit der soziologischen und
dlkonom:schen Wissenschaften, Logos ,
VII, 1917, pp. 40-88, raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschafeslehre, Tiùbingen, ]. C. B.
Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes
Winckelmann) 1973, pp. 489-540 (Il significato della avalutatività delle scienze
sociologiche ed economiche, tr. it. di Pietro Rossi, in !/ metodo delle
scienze storicosociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 309-72). 1. Eduard Spranger (1882-1963), filosofo e
pedagogista tedesco, autore di Lebensformen (1914), di Kultur und Erzichung, di
Lebenserfahrung e di numerose altre
opere, fu allievo di Dilthey, del quale sviluppò soprattutto la teoria delle scienze dello spirito. 628 MAX WEBER
di questo principio logico, non ha nulla a che fare la questione del tutto diversa, di cui si deve ora preliminarmente
discutere la questione se si debba,
oppure no, fare professione nell'insegnamento accademico a favore delle
proprie valutazioni pratiche, di carattere etico oppure fondate in riferimento
a ideali di cultura o, in altra maniera, su un'intuizione del mondo. Questa non
può venir discussa scientificamente. Infatti essa stessa è una questione del
tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi non può essere decisa per
tale via. Per citare soltanto i poli estremi, vengono sostenuti: 2) sia il punto
di vista per cui la separazione di argomenti puramente logici o puramente
empirici dalle valutazioni pratiche, o etiche, oppure connesse a
un'intuizione del mondo è sì
giustificata, ma tuttavia (e forse proprio perciò) entrambe le categorie di problemi
appartengono all'ambito della cattedra; b) sia il punto di vista per cui, anche
se quella separazione n0n può essere
realizzata logicamente in maniera
coerente, si deve raccomandare di tener distanti il più possibile dall’insegnamento accademico tutte le
questioni pratiche di valore. Questo
secondo punto di vista mi sembra inammissibile. In particolare la distinzione, non di rado fatta
per le nostre discipline, delle valutazioni pratiche in valutazioni politiche di
parte e in valutazioni di altro
carattere mi sembra semplicemente ineseguibile, e appropriata soltanto a
nascondere la portata pratica della presa di posizione suggerita agli
ascoltatori. Inoltre, l'opinione che
alla cattedra si addica la mancanza di passione , e che di conseguenza debbano
essere evitati gli argomenti che comportano il pericolo di discussioni eccitate
, sarebbe una volta ammesso in genere che sulla
cattedra si possano enunciare
valutazioni una convinzione da
burocrati, che ogni insegnante
indipendente dovrebbe respingere. Di quegli studiosi che 70 hanno ritenuto di
dover rinunciare a valutazioni pratiche nelle discussioni empiriche, proprio i
più appassionati come per esempio
Treitschke, e a modo suo pure
Mommsen® furono quelli
maggiormente tollerabili. Poiché 2.
Theodor Mommsen, filologo e storico tedesco, autore di una fondamentale Romische Geschichte rimasta
incompleta (1849-85), di Uber das rimische Miinzivesen (1850), degli
Unteritalische Dialekte (1850), della Romische Chronoappunto mediante la forte
accentuazione emotiva l’ascoltatore è almeno posto nella situazione di poter da
parte sua stabilire la soggettività della valutazione del professore, nella
sua influenza su un'eventuale
distorsione delle sue proposizioni di
fatto, e di fare quindi da sé ciò che rimane precluso al temperamento
del professore. Può quindi restar affidata all’autentico pathos quell’efficacia sulle anime della
gioventù che come io presumo
i sostenitori delle valutazioni pratiche pronunciate dalla cattedra desiderano assicurare ad esse,
senza che l’ascoltatore venga traviato alla confusione reciproca di diverse
sfere come necessariamente accade
quando la determinazione di fatti
empirici e l'esortazione a una presa di posizione pratica di fronte a grandi problemi della vita sono
entrambe immerse nella stessa fredda
assenza di temperamento. Il primo punto
di vista mi sembra accettabile, e così lo è dal
punto di vista soggettivo dei suoi sostenitori, solo se
l’insegnante si pone come dovere
incondizionato in ogni caso particolare,
e fino al pericolo di rendere priva di
attrattive la propria lezione quello di
rendere inesorabilmente chiaro ai suoi ascoltatori e, ciò che costituisce la cosa principale, a se
stesso, che cosa delle sue asserzioni è
dedotto con un puro procedimento logico o è determinazione puramente empirica
di fatti, e che cosa è invece
valutazione pratica. Far questo mi sembra, d’altra parte, addirittura un
imperativo di onestà intellettuale, una volta ammessa l’estraneità delle due sfere; in questo caso
è assolutamente il minimo che si possa
chiedere. Invece la questione se dalla
cattedra si debba o no, in generale (pur con tale cautela), enunciare
valutazioni pratiche, è da parte sua una
questione di politica universitaria pratica, e può in ultima analisi essere decisa soltanto dal
punto di vista di quei compiti che
l’individuo vorrebbe assegnare, in base alle
sue valutazioni, alle università. Chi per esse, e quindi per se stesso, pretende ancor oggi in virtù della
sua qualificazione di professore
universitario la funzione universale di formare gli logie bis auf Casar (1858), delle Romische
Forschungen (1864-79), del Rémisches
Staatsrecht (1871-88), del Romisches Strafrecht (1899) e di varic altre
opere, editore del Corpus Inscriptionum
latinarum (a partire dal 1863), fu il maggiore storico dell'antichità
dell'Ottocento. uomini e di propagare una convinzione politica, etica,
artistica, culturale o di altra specie, si comporterà in maniera differente da
colui che ritiene di dover affermare il fatto (e le sue conseguenze) che le aule accademiche svolgono
oggi la loro azione realmente fornita di
valore soltanto mediante l’insegnamento specifico da parte di individui
specificamente qualificati, e che pertanto l’ onestà intellettuale è la sola virtù particolare alla quale essi
devono educare. Si può sostenere il primo
punto di vista sulla base di posizioni ultime altrettanto svariate che
il secondo. Quest'ultimo in particolare (che io personalmente accolgo) si può
derivarlo sia da una smisurata sia da
una molto modesta valutazione del significato della formazione specifica . Lo si può sostenere, per
esempio, non già perché si desideri che
tutti gli uomini nel loro senso intimo diventino il più possibile degli specialisti; ma,
proprio al contrario, perché si desidera
vedere le ultime e più personali decisioni di
vita, che un uomo deve prendere da sé, non confuse insieme con l'insegnamento specifico per quanto alto il suo significato possa
essere valutato non solo per la disciplina generale del pensiero, ma anche, indirettamente, per
l’auto-disciplina e per l'orientamento
etico del giovane e vedere altresì la
loro soluzione in base alla coscienza
propria dell’ascoltatore r07 eliminata da una suggestione che si esercita dalla
cattedra. Il pregiudizio di Schmoller*,
favorevole alla valutazione dalla cattedra, mi risulta personalmente del tutto
comprensi bile come l’eco di una grande
epoca, che egli e i suoi amici contribuirono a creare. Ma ritengo che neppure a
lui possa sfuggire la circostanza che
anzitutto la situazione di fatto è, per la
giovane generazione, mutata notevolmente in un punto importante.
Quarant'anni or sono, nel mondo degli studiosi delle nostre discipline era assai diffusa la fede
che nel campo delle valutazioni pratico-politiche
una soltanto delle possibili prese di
posizione dovesse essere quella eticamente giusta (anche se 3. Gustav von Schmoller (1838-1917),
cconomista e storico economico tedesco, autore
di Uber einige Grundfragen des Rechts und Volkswirtschaft (1875), delle
Grundfragen der Sozialpolitix und der
Volkswirtschaftslehre, del Grundriss der allgemeinen Volkswirtschaftslehre, di
Die soziale Frage e di varic altre opere, fu
il fondatore della cosiddetta
giovane scuola storica di
economia, c difese l'impostazione storica dell’econo mia politica nei confronti
della teoria marginalistica. Schmoller ha certamente rappresentato questo punto
di vista solo in misura assai limitata). Ma questo non è oggi più il caso, come
si può facilmente rilevare, proprio tra i sostenitori delle valutazioni dalla
cattedra. La legittimità delle valutazioni dalla cattedra non viene più oggi
sostenuta in nome di un’aspirazione etica, i cui postulati di giustizia
(relativamente) semplici in parte si configuravano, e in parte sembravano
essere, sia nel modo della loro giustificazione sia nelle loro conseguenze,
(relativamente) semplici e soprattutto (relativamente) impersonali, in quanto
erano univocamente sopra-personali. Essa viene invece sostenuta (per effetto di
uno sviluppo inevitabile) in nome di un variopinto mazzo di valutazioni culturali , cioè in verità di
pretese soggettive alla cultura o, in
termini chiari, del supposto diritto
della personalità dell’insegnante. Ci
si può anche indignare di fronte a
questo punto di vista, ma non lo si
potrà confutare e proprio in quanto esso
implica appunto una valutazione pratica
che di tutti i tipi di profezia
la profezia professorale, atteggiata in tal senso personalmente , è la sola realmente
insopportabile. È una situazione senza
confronto quella di numerosi profeti accreditati dallo stato, i quali non predicano per le strade o nelle
chiese o altrove sulla pubblica piazza,
oppure, privatamente, in conventicole personalmente scelte che si dichiarano
tali, ma si permettono invece di
esprimere in nome della scienza ,
nella quiete che si supponeoggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di
discussione, e soprattutto protetta da
ogni contraddittorio, di un'aula accademica privilegiata dallo stato, decisioni
dalla cattedra su questioni di intuizione del mondo. È un vecchio principio,
decisamente sostenuto da Schmoller in una certa occasione, che gli argomenti
enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sottratti alla discussione
pubblica. Sebbene sia possibile opinare
che ciò abbia eventualmente, pure nel campo delle scienze empiriche,
certi svantaggi, si assume ovviamente e
anch'io assumo che la lezione debba
essere appunto qualcosa di diverso da
una conferenza , che il rigore
impregiudicato, la conformità ai fatti,
la sobrietà dell’esposizione accademica possano essere danneggiati nel loro
scopo pedagogico dall’introdursi della pubblicità, per esempio della pubblicità
di tipo giornalistico. Solo che un siffatto privilegio di incontrollabilità
sembra in ogni caso appropriato soltanto all'ambito della pura qualificazione
specifica del professore. Non c’è però nessuna qualifica zione specifica per la profezia personale, e
quindi non può neppur esserci nessun
privilegio. E in primo luogo essa non
può abusare della situazione di costrizione esistente per lo
studente il quale deve, per progredire
nella vita, far ricorso a determinate
istituzioni accademiche e quindi ai rispettivi insegnanti per istillargli insieme a ciò di cui egli ha
bisogno, ossia allo stimolo e alla
disciplina della sua capacità di ragionare e del suo pensiero, e insieme a ciò
determinate conoscenze, anche in forma protetta da ogni contraddizione la propria cosiddetta intuizione del mondo , per quanto
interessante essa possa talvolta risultare (mentre sovente è abbastanza indifferente). Per la propaganda dei suoi ideali pratici il
professore, al pari di ogni altro
individuo, ha a disposizione altre opportunità; e quando non le ha, può
facilmente procurarsele nella forma più appropriata, come l’esperienza dimostra
per ogni onesto tentativo. Ma il professore non deve avanzare la pretesa
di recare nel suo zaino, in quanto
professore, il bastone di maresciallo dell’uomo di stato (o del riformatore culturale),
come egli fa quando utilizza la
protezione della cattedra per esprimere il suo sentimento di uomo di stato (o
di politico della cultura). Nella
stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunioni, nei saggi, in ogni altra
forma accessibile a ogni cittadino, egli
può (e deve) fare ciò che il suo dio o il suo demone gli significa. Ma ciò che oggi lo studente
dovrebbe soprattutto imparare nell'aula
accademica dal suo professore è la capacità:
1) di accontentarsi del semplice adempimento di un dato compito; 2) di
riconoscere anzitutto i fatti, anche e in primo luogo i fatti personalmente scomodi, e quindi di
distinguere la loro determinazione dalla
presa di posizione valutativa; 3) di posporre la propria persona alle cose, e
quindi di reprimere anzitutto il bisogno
dell’esibizione importuna del suo gusto personale e degli altri suoi sentimenti. Mi sembra che
questo sia oggi molto più urgente di
quarant'anni or sono, quando il problema non esisteva propriamente in questa
forma. Nor è vero affatto come è stato
affermato che la personalità
costituisce e debba costituire in questo senso un’ unità , e che essa
subisca per così dire detrimento quando non la si esibisce in ogni occasione. In ogni lavoro professionale,
infatti, il compito come tale reclama il
proprio diritto, e dev'essere adempiuto in
base alle sue leggi. In ogni lavoro professionale colui che vi si dedica deve limitarsi a esso, ed escludere
ciò che non appartiene rigorosamente al compito, ma soprattutto il proprio
amore e il proprio odio. E zor è vero
che una forte personalità sia
documentata dal fatto che in ogni occasione indaga secondo una nota personale ad essa soltanto propria. Si deve al contrario auspicare che proprio la
generazione che ora cresce si abitui di
nuovo soprattutto al pensiero che essere
una personalità è qualcosa che non si
può volere di proposito, e che c’è
soltanto una via per diventarlo (forse!)
la dedizione senza riserve a un
compito , quale possa essere nel caso specifico
questo compito, e l’ esigenza quotidiana che ne deriva. È contro le regole dello stile mescolare nelle
discussioni di fatto le faccende personali. E non compiere quel tipo specifico
di auto-limitazione, che esso richiede,
significa spogliare il lavoro
professionale del solo
significato che oggi gli è ancora realmente rimasto. Poco importa che il culto
della personalità ora di moda tenti di
affermarsi sul trono, nell'ufficio pubblico o
sulla cattedra: esso conduce sì quasi sempre a vasti effetti esteriori, ma interiormente è sempre misera
cosa, e danneggia ovunque il compito.
Spero che non ci sia particolare bisogno
di dire che gli avversari, a cui queste analisi si riferiscono, hanno certo ben poco da fare con questa
specie di culto di ciò ch e è personale
in quanto personale . Essi in
parte considerano il compito della cattedra in un'altra luce, in parte hanno
ideali educativi che io rispetto, ma che non condivido. Però si deve considerare non soltanto ciò che essi
vogliono, ma anche il modo in cui ciò che essi legittimano con la propria autorità opera su una generazione, la quale
rivela già una predisposizione
sviluppata in maniera inevitabilmente molto
forte a ritenersi importante. E
infine richiede appena un accenno il fatto che parecchi supposti azversari di valutazioni (politiche)
dalla cattedra non sono affatto
giustificati quando, per screditare le discussioni di politica culturale e sociale che si compiono
pubblicamente al di fuori dell’aula
accademica, si richiamano al principio dell’esclusione dei giudizi di valore , da loro ancora spesso
gravemente frainteso. L'indubitabile esistenza di questi elementi falsamente
avalutativi, ma in realtà tendenziosi, e introdotti nella nostra disciplina dall’ostinata e
consapevole posizione partigiana di forti cerchie di interessati, ci consente
di comprendere con chiarezza come un ampio numero proprio di studiosi
interiormente indipendenti possa attualmente continuare a sostenere la
valutazione dalla cattedra, poiché essi hanno troppo orgoglio per partecipare a
quella pagliacciata di una
avalutatività soltanto apparente.
Personalmente io ritengo che, ciò nonostante, debba essere fatto quello che
(secondo la mia opinione) è corretto, e che il peso delle valutazioni pratiche
di uno studioso sarebbe soltanto accresciuto dalla sua capacità di limitarsi a
sostenerle nelle occasioni opportune al di fuori dell’aula accademica, se si sa
che egli possiede il rigore di fare, entro l’aula, soltanto ciò che è proprio
del suo ufficio . Ma tutte queste sono appunto anch'esse questioni pratiche di
valutazione, e perciò non suscettibili di esser risolte. In ogni caso, però,
l'affermazione di principio del diritto della valutazione dalla cattedra
sarebbe coerente, a parer mio, solo se al tempo stesso si garantisse che tutte
le valutazioni di ogni parte abbiano l'opportunità di farsi valere sulla
cattedra *. Da noi, invece, con l’insistenza sul diritto alla valutazione dalla
cattedra si sostiene di solito precisamente l'opposto di quel principio di
un’equa rappresentanza di tutte le correnti (e ovviamente anche di quelle più estreme ). Era per esempio naturalmente
coerente, dal punto di vista personale di Schmoller, la tesi in base a cui egli
spiegava che marxisti e manchesteriani sono privi di qualificazione per occupare
cattedre universitarie, sebbene egli non abbia mai compiuto l’ingiustizia di a.
A tale scopo non basta affatto il principio olandese dell'emancipazione anche
della facoltà teologica dal controllo confessionale, congiunta alla libertà di
fondare università a condizione che siano assicurati i mezzi finanziari, che
siano osservate le prescrizioni per la qualificazione dei professori, e che sia
garantito il diritto privato di istituire cattedre con il patronato delle
candidature da parte di coloro che le istituiscono. Infatti ciò avvantaggia soltanto chi possiede denaro
e le organizzazioni autoritarie che si trovano già in possesso del potere:
soltanto gli ambienti clericali, come è noto, ne hanno fatto uso. ignorare i
contributi scientifici che sono venuti da queste direzioni. Proprio su questi
punti io personalmente non ho mai potuto
seguire il nostro venerato maestro. Non si può ovviamente insieme richiedere
l’autorizzazione alla valutazione dalla cattedra e allorché se ne devono trarre le
conseguenze sostenere che l’università
è un'istituzione statale per la formazione di funzionari fedeli allo stato . In tale maniera
l’università diverrebbe non una scuola specializzata (ciò che a
molti docenti sembra degradante), bensì un seminario di preti solo senza poterle dare la dignità religiosa
che questo possiede. Si è voluto dedurre certi limiti con un puro procedimento logico. Uno dei nostri più eminenti giuristi
spiegava una volta, mentre si
pronunciava contro l'esclusione dei socialisti
dalle cattedre, che egli non avrebbe potuto accettare come insegnante di
diritto soltanto un anarchico , poiché
questi nega in genere la validità del
diritto come tale ed egli riteneva ovviamente questo argomento come conclusivo.
Io sono dell’opinione precisamente opposta. L’anarchico può sicuramente essere
un buon conoscitore del diritto. E se egli è tale, allora proprio quel punto di Archimede che si pone
a/ di fuori delle convinzioni e dei
presupposti che ci appaiono così evidenti
quel punto in cui lo colloca, quando è pura, la sua oggettiva convinzione
può renderlo capace di riconoscere nelle concezioni fondamentali della
dottrina giuridica in uso una problematica la quale sfugge a tutti coloro per
cui esse sono troppo ovvie. Infatti il
dubbio più radicale è il padre della conoscenza. Il giurista ha tanto poco il
compito di dimostrare il valore di quei
beni culturali, la cui esistenza è legata alla
permanenza del diritto , quanto
il medico ha il compito di provare che l’allungamento della vita è degno di
essere perseguito in ogni circostanza. L'uno e l'altro non ne sono neppure in
grado, con i loro mezzi. Ma se si vuol fare della cattedra la sede di discussioni pratiche di valore,
allora sarebbe ovviamente un dovere quello di sottoporre proprio le questioni
fondamentali di principio a una libertà di discussione, senza restrizione
alcuna, da tutti i punti di vista. Può accadere questo? Ma le più decisive e importanti questioni
pratico-politiche di valore sono oggi escluse, per la natura della situazione
politica, dalle cattedre delle
università tedesche. Per colui al quale gli interessi della nazione stanno al
di sopra di tutte senza eccezione
le sue istituzioni concrete, è per esempio una questione di importanza centrale stabilire se
la concezione oggi predominante della posizione del monarca in Germania
sia conciliabile con gli interessi
internazionali della nazione, e con quei
mezzi, cioè : Ta guerra e la diplomazia, con cui ad essi si provvede. Non sono sempre i peggiori
patrioti, e neppure gli avversari della
monarchia, che sono oggi inclini a rispondere
negativamente a questa questione, e a non credere più nella possibilità di successi duraturi in quei due
campi, fino al momento in cui non subentrino dei mutamenti molto profondi. Eppure ognuno sa che queste questioni vitali
della nazione non possono venir discusse
in piena libertà sulle cattedre tedesche ®. Ma in considerazione di questo
fatto che cioè proprio le questioni decisive di valutazione
pratico-politica sono in permanenza sottratte alla libera discussione dalle
cattedre mi sembra confacente alla dignità dei
rappresentanti della scienza soltanto il
tacere anche su quei problemi di valore, che si
consente loro gentilmente di trattare.
In nessun caso si deve però mescolare la questione se sia lecito, o necessario, o si debba nell’insegnamento
presentare valutazioni pratiche che è una questione non risolubile, poiché condizionata da una valutazione con la discussione puramente /ogica della funzione che le
valutazioni assolvono per le discipline
empiriche, ad esempio per la sociologia e per
l'economia politica. Altrimenti qui ne soffrirebbe la discussione impregiudicata del problema propriamente
logico la cui decisione però non dà per
quelle questioni alcuna indicazione, al
di fuori di una che è richiesta su base puramente logica, cioè l'esigenza della chiarezza e della precisa
distinzione delle sfere problematiche
eterogenee da parte dei docenti. Io non
vorrei discutere inoltre se la distinzione tra determinazione empirica e
valutazione pratica sia difficile . Essa
lo è. Noi tutti, io che sostengo questa
pretesa al pari di altri, a. Questo non
è affatto un caso particolare della Germania. In quasi tutti i paesi vi sono, manifesti o celati,
dei limiti di fatto; ed è diverso
soltanto il tipo dei problemi di valore che vengono esclusi. commettiamo
sempre e ripetutamente degli errori in proposito. Ma per lo meno i sostenitori
della cosiddetta economia politica etica potrebbero ben sapere che anche la
legge morale è irrealizzabile pienamente, ma tuttavia vale in quanto è imposta
. E un’analisi della coscienza potrebbe forse mostrare che la realizzazione del
postulato è difficile soprattutto perché noi rinunciamo con riluttanza a
inoltrarci sul terreno così interessante delle valutazioni con la nota personale che ci stimola. Ogni docente avrà
naturalmente osservato che gli sguardi degli studenti si illuminano, e che i
loro volti diventano più attenti, quando egli comincia a dichiararsi
personalmente; e avrà osservato pure che la frequenza delle sue lezioni
è influenzata in maniera molto vantaggiosa dall’aspettativa che egli lo faccia.
Egli sa inoltre che la concorrenza tra le università per la frequenza mette
sovente in condizioni di vantaggio, per le chiamate, un profeta per quanto
piccolo, che riempia le aule, rispetto a uno studioso per quanto rilevante, che
si dedichi all'insegnamento
oggettivo s'intende quando la profezia
non si discosti troppo dalle
valutazioni, politiche o convenzionali,
considerate normali. Soltanto il profeta falsamente alieno da valutazioni, che esprime certi interessi
materiali, ha nei suoi riguardi una
possibilità maggiore, in virtù dell'influenza di tali interessi sui poteri politici. Io ritengo
tutto questo indesiderabile, e quindi non voglio addentrarmi a discutere la
tesi secondo cui l’esclusione di
valutazioni pratiche sarebbe cosa
meschina , e renderebbe
noiose le lezioni. Non voglio
pronunciarmi sulla questione se le lezioni su un campo specifico di esperienza
debbano tendere soprattutto a essere
interessanti , ma da parte mia
temo che in ogni caso uno stimolo realizzato
mediante una nota personale troppo interessante tolga alla lunga agli studenti il gusto per il semplice
lavoro di ricerca. Non voglio poi
discutere, ma riconoscere esplicitamente
che, proprio sotto l'apparenza della soppressione di ogni valutazione
pratica, si possono risuscitare suggestivamente, con particolare forza, tali valutazioni, secondo
il noto schema di far parlare i fatti.
La migliore qualità della nostra eloquenza parlamentare ed elettorale opera
appunto con questo mezzo e ciò è del tutto legittimo per i suoi scopi.
Non c'è però bisogno di sprecare nessuna
parola per mostrare che questo procedimento sarebbe sulla cattedra, proprio
dal punto di vista della pretesa di
quella distinzione, il più riprovevole di tutti gli abusi. E che un’apparenza,
slealmente suscitata, di realizzazione
di un imperativo possa presentarsi come la sua
realtà, non significa una critica dell’imperativo stesso. Questo è però senz’altro implicito: che, se l'insegnante
non ritiene di doversi precludere delle
valutazioni pratiche, deve però assolutamente dichiararle come tali e agli
studenti e 4 se stesso. Ciò che si deve
combattere nella maniera più decisa, infine,
è la convinzione non rara che la via dell’ oggettività scientifica sia rappresentata dalla
commisurazione reciproca delle diverse valutazioni, e da un compromesso diplomatico
tra di esse. La linea di
mezzo non può essere dimostrata scientificamente,
con i soli strumenti delle discipline empiriche, proprio allo stesso modo in
cui non possono esserlo le valutazioni
estreme . Inoltre, nella sfera della valutazione essa sarebbe normativamente ben poco univoca. Essa non
appartiene alla cattedra, bensì ai
programmi politici, agli uffici e ai parlamenti. Le scienze, sia normative sia
empiriche, possono rendere agli uomini
politici e ai partiti in lotta soltanto un servizio inestimabile, e cioè dire loro: 1) quali
siano le diverse prese di posizione
ultime concepibili di fronte a questo problema
pratico; 2) come stiano i fatti di cui essi devono tener conto nella scelta tra queste prese di posizione.
In questo modo noi rimaniamo fedeli al
nostro compito . Un fraintendimento senza fine, ma soprattutto
una disputa terminologica, e quindi
completamente sterile, si sono legati al
termine giudizio di valore il che
non ha ovviamente contribuito per nulla
alla questione. È del tutto fuori dubbio,
come è stato accennato, che queste discussioni riguardino, nelle nostre discipline, valutazioni pratiche di
fatti sociali, considerati come desiderabili o indesiderabili praticamente da
un punto di vista etico, o da qualche
altro punto di vista culturale, o per
altri motivi. Che la scienza 1) miri a conseguire risultati forniti di valore , cioè corretti dal punto
di vista logico e in riferimento ai fatti; 2) e miri a conseguire risultati
forniti di valore , cioè importanti nel
senso dell'interesse scientifico; che
inoltre già la scelta della materia implichi una valutazione
queste due cose sono state seriamente sollevate, nonostante quanto si è
detto in proposito *, come obiezioni .
Ed è pure sempre risorto il
fraintendimento, quasi incomprensibilmente
forte, secondo il quale la scienza empirica non può trattare come oggetto le valutazioni soggettive
degli uomini (e ciò mentre la
sociologia, e nell'ambito dell'economia politica tutta la dottrina dell’utilità marginale, poggia
sul presupposto contrario). Si tratta invece esclusivamente della pretesa, di
per sé perfino banale, che il ricercatore
e l’espositore debbano incondizionatamente fezer distinte poiché si tratta di problemi eterogenei
la determinazione di fatti empirici (compreso l’atteggiamento valutante , da lui constatato, degli uomini
empirici su cui indaga) e la sua presa di posizione pratica, che valuta questi fatti (comprese le valutazioni
di uomini empirici che sono oggetto di indagine) come apprezzabili o non
apprezzabili, e che in questo senso risulta valutativa . In una trattazione per altri aspetti fornita di
valore, uno scrittore si esprime così:
un ricercatore potrebbe assumere come
fatto anche la propria
valutazione, e trarne le conseguenze. Ciò che
qui si intende è incontestabilmente esatto, ma l’espressione scelta è
erronea. Si può naturalmente convenire, prima di una discussione, che una determinata misura
pratica per esempio che la copertura dei costi richiesti da un
aumento dell’esercito debba esser
ricavata soltanto dalle tasche dei possidenti
sia il presupposto
della discussione stessa, e che si debbano quindi discutere
semplicemente i mezzi per attuarla. Questo è anzi sovente opportuno. Ma una siffatta intenzione
pratica, presupposta di comune accordo, non la si chiama un fatto , bensì uno
scopo stabilito 4 priori. Che si tratti effettivamente anche di cose
diverse, potrebbe risultare presto nella discussione dei
mezzi salvo che lo scopo presupposto come indiscutibile fosse così concreto come
accendersi un sigaro. In tal caso anche
i mezzi hanno solo di rado bisogno di discussione. a. Debbo riferirmi a ciò che ho già detto nei
miei saggi precedenti (la correttezza
talvolta insoddisfacente di formulazioni particolari, che in essi possono riscontrarsi, non riguardano nessuno
dei punti essenziali della questione);
per l' inconciliabilità di certe
valutazioni ultime in un importante campo di problemi potrei rinviare a G.
RabBRUCH, Einfiihrung in die
Rechtswissenschaft, Berlin, 22 ed. 1913. Io divergo da lui in alcuni punti; ma essi non hanno importanza per il
problema qui discusso. In quasi ogni caso di un proposito generalmente
formulato, come in quello prima scelto come esempio, si farà invece esperienza
che nella discussione dei mezzi non soltanto appare che i vari individui hanno
inteso qualcosa di completamente diverso sotto tale scopo che si supponeva
preciso, ma in particolare risulta che proprio il medesimo scopo è voluto su
basi ultime differenti, e che ciò influenza la discussione sui mezzi. Ma
lasciamo questo da parte. Infatti, che si possa partire da un determinato
scopo, voluto in comune, e discutere soltanto i mezzi per conseguirlo, e che da
ciò risulti allora una discussione da condurre sul piano puramente
empirico non è ancora accaduto a nessuno
di contestarlo. Tutta la discussione si aggira sulla scelta degli scopi (e non
già dei mezzi in vista di uno scopo che
è dato), cioè concerne appunto il senso in cui la valutazione, a cui
l’individuo si richiama, non può essere assunta come fatto , ma può diventare oggetto di una
critica scientifica. Se non si è determinato questo, ogni altra discussione è
infruttuosa. Noi non discutiamo qui la
questione della misura in cui le
valutazioni pratiche, in particolare quelle etiche, possono da parte loro pretendere una dignità
mormativa, rivestendo quindi un
carattere diverso da quello implicito in questioni simili a quella introdotta da questo esempio,
se le bionde debbano essere preferite
alle brune, o in altri giudizi soggettivi di gusto. Questi sono problemi della
filosofia dei valori, non già della metodica delle discipline empiriche.
Ciò che concerne le ultime è soltanto
che da un lato la validità di un
imperativo pratico in quanto norma, e dall’altro la verità di una determinazione empirica di fatti
appartengono a settori problematici del
tutto eterogenei, e che si danneggia la dignità
specifica di ognuno dei due quando si dimentica ciò, cercando di unificare le due sfere. Questo è avvenuto
in forte misura, a mio parere,
soprattutto da parte di Schmoller*. Proprio il rispetto per il nostro maestro
mi proibisce di passare sopra questi
punti, in cui ritengo di non poter concordare con lui. a. Nella voce economia politica
(Volkswirtschaftslehre) nello Handwérterbuch
der Staatswissenschaften , Berlin, 3? ed. 1911, vol. VIII, pp. 426-501. In primo luogo vorrei rivolgermi contro la
tesi secondo cui, per i sostenitori
dell’ avalutatività , il mero fatto dell’instabilità storica e individuale
delle prese di posizione valutative di
volta in volta in vigore varrebbe come prova del carattere
necessariamente solo soggettivo , per esempio, dell’etica. Anche le determinazioni empiriche di fatti sono
spesso soggette a disputa; e sul fatto che un tale debba essere ritenuto un
furfante uò sovente esserci una
concordanza sostanzialmente più generale di quella relativa (proprio presso gli
specialisti) alla interpretazione di un'iscrizione mutilata. L'assunzione,
effettuata da Schmoller, di una
crescente unanimità convenzionale di tutte le
confessioni e di tutti gli uomini intorno ai punti principali delle valutazioni pratiche sta in aspra
antitesi con la mia impressione opposta. Ma questo mi sembra senza rilievo per
la questione. Ciò che in ogni caso è da
discutere, infatti, è che ci si possa
arrestare scientificamente di fronte a una qualsiasi evidenza di fatto, convenzionalmente
stabilita, di certe prese di posizione
pratiche, per quanto diffuse esse siano. La funzione specifica della scienza mi sembra, proprio
all’opposto, quella di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente
evidente. E proprio questo hanno fatto, al tempo loro, Schmoller e i suoi amici. Che si possa poi indagare, e in
certe circostanze valutare altamente,
l’efficacia causale della esistenza di fatto di
certe convinzioni etiche o religiose sulla vita economica da ciò
non deriva affatto che quelle convinzioni, che hanno forse causalmente operato molto, debbano perciò
anche essere condivise o anche soltanto ritenute fornite di valore; così come, al contrario, mediante l’affermazione del
valore di un fenomeno etico o religioso non si è detto proprio niente sulla
possibili tà di qualificare anche le
inconsuete conseguenze, che la sua
realizzazione ha avuto o avrebbe, con il medesimo predicato positivo di valore. Su queste questioni non
si arriva a niente attraverso
determinazioni di fatto; esse vengono giudicate dall'individuo in maniera assai
diversa, a seconda delle sue proprie
valutazioni religiose, o pratiche di altro genere. Tutto ciò non riguarda la questione che viene discussa. E
invece io mi oppongo energicamente alla convinzione che una scienza
realisti ca dei fenomeni etici, vale a
dire l’indicazione delle influenze di fatto che le convinzioni etiche,
prevalenti in un certo gruppo di uomini, hanno subito dalle altre condizioni di vita e a loro volta hanno esercitato su di
esse, possa da parte sua dare luogo a
un’etica , la quale possa asserire qualcosa
intorno a ciò che deve valere. Ciò avviene tanto poco quanto un'esposizione realistica
delle concezioni astronomiche, per
esempio, dei Cinesi che mostrasse
in base a quali motivi pratici e in qual
modo facciano dell’astronomia, a quali risultati e perché essa pervenga potrebbe avere per scopo di dimostrare la
correttezza di questa astronomia cinese; e quanto la constatazione che gli agrimensori romani
oppure i banchieri fiorentini (gli
ultimi proprio nelle partizioni di grandi patrimoni) pervennero sovente con i
loro metodi a risultati inconciliabili con la trigonometria o con la tavola
pitagorica, potrebbe porre in
discussione la validità di queste. Mediante l'indagine psicologico-empirica e storica di un
determinato punto di vista valutativo,
considerato nel suo condizionamento individuale, sociale, storico, non si perviene mai a
nient'altro che a questo a spiegarlo
comprendendolo. E ciò non è da poco. Esso è da
desiderarsi non soltanto per la conseguenza concomitante personale (ma
non scientifica), che si può più facilmente
rendere giustizia a chi, realmente o apparentemente, la pensa
in maniera diversa. Ma è anche scientificamente molto importante: 1) per lo scopo di una considerazione causale
empirica dell'agire umano, per imparare cioè a conoscere i suoi reali
motivi ultimi; 2) per determinare,
allorché si discute con qualcuno che
diverge (realmente o apparentemente) nella loro valutazione, i punti di vista valutativi delle due parti.
Infatti il senso vero e proprio di una
discussione di valore è questo di
comprendere ciò che l'avversario (o anche, ciò che colui che parla) realmente
intende, cioè il valore a cui ognuna delle due parti tiene in realtà, e non solo in apparenza, rendendo
così possibile in genere una presa di
posizione di fronte a questo valore. Ben
lungi dal ritenere che dal punto di vista dell'esigenza dell’ avalutatività delle analisi empiriche siano sterili, o
prive di senso, le discussioni intorno alle valutazioni, proprio la
conoscenza di questo loro senso risulta
il presupposto di ogni utile considerazione del genere. Esse presuppongono
semplicemente la comprensione della possibilità di valutazioni ultime
inconciliabilmente divergenti in linea di principio. Poiché tutto comprendere non significa anche tutto perdonare , né la mera comprensione del
punto di vista altrui conduce, di per sé, alla sua approvazione. Fssa conduce
almeno altrettanto facilmente, e sovente con maggiore probabilità, a conoscere
perché e in che cosa n0n si può concordare. Questa conoscenza è appunto una
conoscenza di verità, e 44 essa servono le
discussioni valutative . Ciò che su tale strada non si può certo
conseguire perché sta nella direzione
precisamente opposta è una qualsiasi
etica normativa, o in genere la capacità vincolante di qualche imperativo . Ognuno sa piuttosto che un fine
siffatto viene reso più difficile dall’azione
relativizzante , almeno in apparenza, di tali discussioni. Con questo
non si dice naturalmente che si debba, per tale motivo, evitarle. Proprio al
contrario. Una convinzione etica che si lascia scalzare dalla comprensione
psicologica di valutazioni divergenti è stata infatti fornita di valore
né più né meno delle opinioni religiose che vengono distrutte dalla conoscenza scientifica come talvolta accade. Quando infine Schmoller sostiene che i
propugnatori dell’ avalutatività delle
discipline empiriche possono riconoscere soltanto verità etiche formali (è
ovvio che egli le intende nel senso
della critica della ragione pratica ),
ci si deve addentrare sebbene il
problema non rientri senz’altro nella nostra
questione — in alcune considerazioni.
In primo luogo si deve respingere l’identificazione — implicita nella
concezione di Schmoller — degli imperativi etici con i
valori culturali , anche con i più alti. Infatti può esserci un punto di vista per il quale i valori
culturali sono imposti , anche nella misura in cui risultano in
inevitabile e inconciliabile conflitto con ogni etica. E viceversa è possibile,
senza interna contraddizione, un’etica
la quale rifiuti tutti i valori culturali.
In ogni caso le due sfere di valori non sono identiche. E così pure è un grave (per quanto diffuso)
fraintendimento ritenere che
proposizioni formali, come quelle
dell’etica kantiana, non contengano
alcuna indicazione di contenuto. La possibilità
di un'etica normativa non viene in alcun modo posta in questione per il
fatto che vi sono problemi di carattere pratico per i quali essa non può fornire, di per sé,
prescrizioni univoche (e a tale ambito
appartengono in modo specifico determinati problemi istituzionali, cioè appunto
i problemi politico-sociali ), e inoltre
che l’etica non è la sola cosa che valga nel mondo, ma che accanto ad essa sussistono altre sfere
di valori — i cui valori può, in certe
circostanze, realizzare soltanto chi si assuma una colpa etica. In ciò rientra
specialmente la sfera dell’agire
politico. Sarebbe da deboli, a parer mio, voler negare le tensioni nei confronti della sfera etica,
che essa appunto contiene. Ma ciò non è
affatto proprio soltanto di essa, come fa
credere la contrapposizione in uso di morale privata e di morale politica . — Indaghiamo ora
alcuni limiti dell’etica, a cui si è prima fatto
riferimento. Le conseguenze del
postulato della giustizia rientrano
nell’ambito delle questioni che non possono venir decise univocamente da
ressuna etica. Se per esempio — il che corrisponderebbe maggiormente alle
concezioni espresse a suo tempo da
Schmoller — si debba anche molto a colui che fa molto, o viceversa si possa chiedere molto a chi molto
può fare; se quindi in nome della
giustizia (eliminando allora altri punti
di vista — come quello dell’ incentivo
necessario) si debbano concedere al grande talento anche grandi
possibilità, o se si debba invece (come
riteneva Babeuf*) pareggiare l'ingiustizia
dell’ineguale distribuzione dei doni spirituali, preoccupandoci con rigore che il talento, il cui semplice
possesso già fornisce un sentimento di
prestigio che rende felice l’individuo, non
possa utilizzare ancora per sé le sue migliori possibilità nel mondo — tutto questo non può venir risolto in
base a premesse etiche . A questo tipo
appartiene però la problematica etica
della maggior parte delle questioni di politica sociale. Ma anche nel campo dell’agire personale vi
sono problemi fondamentali, di carattere
specificamente etico, che l’etica non
può risolvere in base ai propri presupposti. Tra di essi rientra in
primo luogo la questione fondamentale se il valore in sé dell’agire etico — il puro volere o
l’intenzione , come si vuole esprimerlo
— debba bastare alla sua giustificazio4. Frangois-Noel Babeuf, noto come
Gracchus Babeuf, esponente dell'ala
estremistica della Rivoluzione francese, pubblicò il giornale Le tribun du
peuple e diresse la Congiura
degli cguali: la sua teoria politica, di ispirazione rousscauiana, è fondata sulla rivendicazione
dell'eguaglianza non soltanto politica,
ma anche economica.ne, secondo la massima il Cristiano agisce bene e
rimette a Dio la conseguenza (come i moralisti cristiani l’hanno
formulata), oppure se si debba prendere in considerazione la responsabilità per
le conseguenze dell’agire, previste come possibili 0 come probabili, così come
esse sono condizionate dal suo inserimento nel mondo eticamente irrazionale.
Nel campo sociale ogni posizione
politica radicalmente rivoluzionaria, soprattutto il cosiddetto
sindacalismo , procede dal primo postulato, e ogni
politica realistica procede invece dal secondo. Entrambe si richiamano a
massime etiche; ma queste massime stanno
tra loro in un eterno contrasto, il quale non può essere affatto risolto senz’altro con i mezzi di un'etica
che abbia il proprio fondamento soltanto
in se stessa. Queste due massime etiche
sono massime di carattere rigorosamente
formale , in ciò simili ai noti assiomi della Critica della ragione pratica. Di questi ultimi si è
molto spesso creduto, per questo loro carattere, che non contenessero
indicazioni di contenuto per la
valutazione dell’agire. Ma ciò non è per niente esatto, come già si è
accennato. Prendiamo di proposito un
esempio il più possibile distante dalla
politica , il quale può forse
chiarire che senso abbia propriamente questo carattere solo formale, di cui si è a lungo parlato, di
tale etica. Supponiamo che un uomo dica,
riferendosi alla sua relazione erotica
con una donna, all’inizio il nostro
rapporto era soltanto una passione, ora esso costituisce un valore la temperata
oggettività dell’etica kantiana esprimerebbe così la prima metà di questa proposizione: all’inizio noi
eravamo entrambi, l’uno per l’altro, soltanto mezzi, e considererebbe
quindi l'intera proposizione come un
caso particolare di quel noto principio
che stranamente si è volentieri ritenuto un’espressione, condizionata solo
storicamente, dell’ individualismo , mentre in verità esso rappresenta una
formulazione quanto mai geniale di
un'infinita molteplicità di situazioni etiche, che si debbono appunto intendere correttamente.
Nella sua enunciazione negativa, ed escludendo qualsiasi asserzione su
quello che deve essere il contrapposto
positivo della considerazione dell’altro
soltanto come mezzo , che eticamente deve venir
rifiutata, essa comporta evidentemente: 1) il riconoscimento di sfere di valori autonome, al di fuori della
sfera etica; 2) la delimitazione della sfera etica nei loro confronti; 3) la
determinazione infine del fatto che e
del senso in cui si possono tuttavia
attribuire all’agire al servizio di valori extra-etici delle differenze di
dignità etica. Di fatto quelle sfere, che permettono o prescrivono la
considerazione dell’altro soltanto come mezzo , sono eterogenee rispetto
all’etica. L'analisi non può qui essere ulteriormente proseguita: in ogni caso
però risulta che il carattere
formale anche di quella
proposizione etica così astratta non rimane indifferente rispetto al contenuto
dell’agire. Ma il problema si complica ancora. Quel predicato negativo, che è
stato espresso con le parole soltanto
una passione , può da un determinato punto di vista venir considerato come un
insulto a ciò che di interiormente più puro e più proprio vi è nella vita,
dell'unica via o almeno della via primaria per uscire al di fuori dei
meccanismi di valore impersonali e sovra-personali, e perciò ostili alla vita,
per uscire dall’incatenamento alla pietra senza vita dell’esistenza quotidiana
e dalle pretese di un’irrealtà imposta .
Si può ad ogni modo pensare a una
concezione di questo punto di vista che
sebbene abbia a disdegno il
termine valore per designare la
concretezza dell’Erleben costituirebbe appunto una sfera la quale,
respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bontà, ogni legalità etica o estetica, ogni
significatività della cultura o
valutazione della personalità, pretenderebbe tuttavia, e anzi proprio a
causa di ciò, la sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa
essere la nostra presa di posizione nei
confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venir dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna
scienza . Ogni considerazione
empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart
Mill”, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di
metafisica ad essi adeguata. Una considerazione non più empirica, ma interpretativa, cioè un’autentica filosofia
dei valori, non potreb5. Weber si riferisce qui alla formulazione dei saggi
postumi Nature, the Utility of Religion, and Theism, London, 1874, pp. 130-31
(ma cfr. anche p. 150). Per questo
riferimento si veda il breve articolo Zwisclien zwei Gesetze, pubblicato
nella rivista Die Frau
del febbraio 1916 (ora raccolto in Gesammelte politische Schriften, 2°
cd. Tiibingen, 1958, pp. 139-42). be poi dimenticare, procedendo innanzi, che
uno schema concettuale dei valori , per
quanto bene ordinato, sarebbe incapace di rendere giustizia proprio al punto
decisivo della questione. Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in
ultima analisi, non già di semplici
alternative, ma di una lotta mortale
senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il
demonio . Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. Beninteso, non è
possibile in base al loro senso. Poiché,
come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono
sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, continuamente. In
quasi ognuna delle prese di posizione importanti di uomini reali, infatti, le sfere di valori si
incrociano e si intrecciano. La superficialità della vita quotidiana , in questo senso più
appropriato del termine, consiste appunto nel fatto che l’uomo il quale vive entro di essa non
diventa consapevole, e neppure vuole
diventarlo, di questa mescolanza di valori mortalmente nemici, condizionata in
parte psicologicamente e in parte
pragmaticamente; ed egli si sottrae piuttosto alla scelta tra dio e il demonio, evitando di decidere
quale dei valori in collisione sia
dominato dall’uno e quale invece dall’altro. Il frutto dell’albero della
conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non
consiste in nient’altro che nel dover riconoscere quell’antitesi e nel dover
quindi considerare che ogni singola
azione importante, e soprattutto la vita
nel suo insieme se essa deve non già
scorrere via come un evento naturale,
bensì essere condotta consapevolmente
rappresenta una catena di decisioni ultime, mediante cui l’anima (come
per Platone °) sceglie il suo proprio destino
e cioè il senso del suo agire e
del suo essere. Non a caso il fraintendimento più grossolano, al quale vanno
sempre incontro, di quando in quando, le intenzioni di coloro che sostengono la
tesi della collisione tra i valori, è
perciò costituito dall'interpretazione di questo punto di vista come
relativismo cioè come un'intuizione della vita la quale poggia
invece proprio sulla visione,
radicalmente opposta, del rapporto reciproco delle sfere di valore, e può essere realizzata (in forma
coerente) soltanto 6. Weber allude qui
al mito di Er, esposto nel libro X della Repubblica. sul terreno di una
metafisica configurata in maniera molto
particolare (cioè di una metafisica
organica ). Ritornando al nostro
caso specifico, mi sembra, senza possibilità di dubbio, che nel settore delle
valutazioni pratico-politiche (particolarmente anche di politica economica e
sociale), da cui devono essere tratte le
direttive per un agire fornito di
valore, le sole cose che una disciplina empirica può porre in luce con i suoi mezzi sono le seguenti: 1) i
mezzi indispensabili e 2) le inevitabili
conseguenze; 3) la concorrenza reciproca, in
tale maniera condizionata, di più valutazioni possibili, considerate
nelle loro conseguenze pratiche. Le discipline filosofiche possono in proposito, con i loro mezzi
concettuali, determinare il senso delle
valutazioni, cioè la loro struttura dotata di
senso e le loro conseguenze dotate di senso, indicando quindi il loro luogo entro la totalità dei valori ultimi che sono possibili in generale e delimitando le loro
sfere di validità significative. Ma già
questioni molto semplici per
esempio in quale misura uno scopo debba
sanzionare i mezzi che sono per esso
indispensabili; oppure in quale misura debbano venir messe in conto le conseguenze non volute;
oppure come si debbano appianare i
conflitti tra più scopi in concreto contrastanti, che sono oggetto di volontà o
di dovere sono in tutto e per tutto questioni di scelta o di
compromesso. Non c'è nessun procedimento
scientifico (razionale o empirico) di qualsiasi specie, che potrebbe qui
fornire una decisione. E meno ancora la
rostra scienza, che è rigorosamente empirica, può pretendere di risparmiare all'individuo
questa scelta; per cui essa non deve
neppure suscitare l'apparenza di poterlo fare. Occorre infine osservare esplicitamente che
il riconoscimento di questa situazione è, per le nostre discipline, del
tutto indipendente dalla presa di
posizione di fronte alle considerazioni di teoria dei valori prima accennate
con molta brevità. Non c’è infatti
nessun punto di vista logicamente sostenibile
in base a cui esso possa venir rifiutato, se si prescinde da una
gerarchia di valori univocamente prescritta mediante dogmi ecclesiastici. Debbo
aspettarmi che si trovi realmente della gente capace di affermare la
zon-diversità di senso dei due gruppi di questioni seguenti da un lato questioni come: un fatto concreto
avviene così o altrimenti? perché la situazione concreta in esame si è
configurata così e non altrimenti? a una data
situazione, secondo una regola dell’accadere di fatto, segue di solito un’altra, e con quale grado di
probabilità? e dall'altro questioni come: che cosa si deve praticamente
fare in una concreta situazione? da
quali punti di vista quella situazione
può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono proposizioni
(assiomi) formulabili, in qualsiasi maniera, generalmente, a cui si possano
ridurre questi punti di vista? Debbo aspettarmi che. sia sostenuta l'identità
della questione concernente la direzione
in cui una situazione di fatto, concretamente data (o in generale una situazione di un
determinato tipo, in qualche modo accessibile), si svilupperà con
probabilità e con quale misura di probabilità (cioè è solita
svilupparsi tipicamente) e dell’altra
questione concernente invece il dovere di
contribuire affinché una determinata situazione si sviluppi in una determinata direzione sia essa di per sé probabile, oppure opposta
o un’altra qualsiasi? Debbo aspettarmi infine che sia sostenuta l’identità della questione
concernente l’opinione che determinate
persone in certe circostanze concrete, o un
numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze, si formeranno con probabilità (o anche con
sicurezza) su un problema di qualche
specie, e dall’altra parte della questione
concernente la correttezza di questa opinione, che si forma con probabilità o con sicurezza? Debbo cioè
aspettarmi che vi sia della gente la
quale affermi che le questioni di ognuna di tali coppie antitetiche abbiano anche soltanto
qualcosa a che fare l'una con l’altra, e
che esse realmente come ogni tanto si ripete
non possano essere separate l’una dall'altra ? e che quest’ultima asserzione 207 sia in
contraddizione con le esigenze del pensiero scientifico? Se qualcuno, il quale
pur concede l'assoluta eterogeneità
delle due specie di questioni, tuttavia
pretende di esprimersi nel medesimo libro, nella medesima pagina, magari
in una proposizione principale o secondaria di
una medesima unità sintattica, da un lato sull’uno e dall’altro sull’altro di quei due problemi tra loro
eterogenei questo è affar suo. Ciò che
da lui si esige è semplicemente che egli non illuda senza volerlo (o anche per
volontaria mordacità) i suoi lettori sull’assoluta eterogeneità dei problemi.
Personalmente resto del parere che nessun mezzo al mondo è troppo pedantesco per essere impiegato allo scopo di
evitare confusioni. Il senso delle
discussioni intorno a valutazioni pratiche (degli stessi partecipanti alla
discussione) può essere dato soltanto dalle operazioni seguenti: a)
L'elaborazione degli assiomi di valore ultimi, internamente coerenti , da cui procedono le opinioni tra
loro contrapposte. Abbastanza spesso ci si inganna non soltanto sugli
assiomi dell'avversario, ma anche sui
propri. Questo procedimento costituisce un'operazione che, nella sua essenza,
parte dalla valutazione particolare e dalla sua analisi dotata di senso, per
procedere sempre più in alto verso prese di posizione valutative più fondamentali. Esso non opera con gli
strumenti di una disciplina empirica e non apporta nessuna conoscenza di fatti.
Esso vale nello stesso modo in cui vale
la logica. b) La deduzione delle conseguenze
connesse alla presa di posizione
valutativa, che derivano da determinati assiomi di valore ultimi, quando essi, ed essi soltanto,
sono posti a fondamento della valutazione pratica di un certo stato di cose.
Essa è puramente dotata di senso in
riferimento all’argomentazione logica, ma d’altra parte è vincolata a
osservazioni empiriche per quanto riguarda la casistica più esauriente
possibile di quelle situazioni empiriche che possono venir prese in
considerazione, in generale, in una valutazione pratica. c) La determinazione
delle conseguenze di fatto che produce la realizzazione pratica di una data
presa di posizione valutativa nei confronti di un certo problema: 1) a causa
del legame con determinati mezzi indispensabili; 2) a causa dell’inevitabilità
di determinate conseguenze concomitanti, non direttamente volute. Questa
determinazione puramente empirica può avere come risultato, tra l’altro: 1) l'assoluta
impossibilità di qualsiasi realizzazione, per quanto solo molto approssimativa,
del postulato di valore, in quanto non è possibile escogitare nessuna via per
realizzarlo; la maggiore o minore improbabilità di una sua realizzazione
compiuta, o anche soltanto approssimativa, o per gli stessi motivi oppure perché esiste la
probabilità che si verifichino conseguenze concomitanti non volute, che sono
tali da renderne direttamente o indirettamente illusoria la realizzazione; 3)
la necessità di accettare tali mezzi o tali conseguenze concomitanti, che il sostenitore del
postulato pratico in questione non aveva considerato, di modo che la sua
decisione valutativa tra scopo, mezzo e conseguenza diventi per lui stesso un
nuovo problema, e perda la sua forza coercitiva sugli altri. d) Infine possono
presentarsi nuovi assiomi di valore, e di
conseguenza nuovi postulati, che il sostenitore di un certo postulato
pratico non ha osservato, e di fronte ai quali non ha quindi preso posizione, sebbene la
realizzazione del proprio postulato
entri in collisione con essi, sia in linea di principio oppure per le conseguenze pratiche che ne
derivano, cioè per il loro senso o praticamente. Nell’un caso (contrasto di
principio) si tratta, nella discussione ulteriore, di problemi del tipo 4);
nell’altro (contrasto di conseguenze) si tratta di problemi del tipo c). Ben
lungi dall'essere prive di senso , le
discussioni valutative di questo tipo hanno, se sono intese correttamente nel
loro scopo €, a mio parere, allora
soltanto un'importanza molto rilevante.
L'utilità di una discussione intorno a valutazioni pratiche, condotta al luogo giusto e nel giusto senso,
non è però affatto esaurita con tali
diretti risultati , che essa può recare
a maturazione. Se è condotta correttamente, essa feconda nel modo più duraturo
il lavoro empirico, in quanto gli fornisce le impostazioni problematiche di cui
ha bisogno per la propria ricerca. I problemi delle discipline empiriche
debbono certo venir risoli, da parte
loro, in maniera avalutativa . Essi non
sono problemi di valore. Ma tuttavia
stanno, nell’ambito delle nostre
discipline, sotto l'influenza della relazione della realtà ai valori. Sul significato dell’espressione
relazione di valore debbo riferirmi alle mie precedenti formulazioni, e
soprattutto alle ben note opere di Heinrich Rickert. Sarebbe impossibile
riprendere qui ancora una volta tali questioni. È sufficiente quindi ricordare
che quell’espressione relazione di
valore rappresenta semplicemente
l’interpretazione filosofica di quello specifico interesse
scientifico che dirige la selezione e la formulazione dell'oggetto di
un'indagine empirica. Nell'ambito dell’indagine empirica, questa circostanza
puramente logica non legittima in ogni caso nessuna valutazione
pratica . In concordanza con l’esperienza storica essa pone però in rilievo che sono gli interessi
culturali, e perciò gli interessi di
valore, a indicare la direzione anche al lavoro delle scienze empiriche. È chiaro che questi
interessi di valore possono svilupparsi nella loro casistica mediante le
discussioni valutative. E queste possono diminuire di molto, o almeno
rendere più facile, al ricercatore che
lavora scientificamente, e soprattutto allo storico, il compito dell’interpretazione
di valore che per lui è un aspetto
preliminare così importante del suo
lavoro propriamente empirico. Infatti non soltanto la distinzione tra
valutazioni e relazioni ai valori, ma anche quella tra valutazione e interpretazione di valore (cioè
lo sviluppo delle prese di posizione
dotate di senso, che sono possibili di fronte a un dato fenomeno), sovente non
è compiuta chiaramente, e quindi ne
derivano oscurità per la determinazione dell’essenza logica della storia: mi
sia consentito di rinviare a questo proposito alle osservazioni già fatte
altrove* (senza ritenerle del resto in alcun modo conclusive). Invece di
inoltrarmi ancora una volta nella discussione di questi fondamentali problemi metodologici,
vorrei prendere in esame alcuni punti particolari, che sono praticamente
importanti per le nostre discipline. È ancora sempre diffusa la fede che si
debba, o che sia necessario, oppure che
si possa derivare delle indicazioni per
le valutazioni pratiche da
tendenze di sviluppo . Solo che da
tali tendenze di sviluppo , per quanto univoche esse siano, si possono
trarre imperativi univoci dell’agire soltanto rispetto ai mezzi che si
prevedono più appropriati per date prese di posia. Nel saggio Kritische Studien
auf dem Gebiet der Rulturwissenschaftlichen Logik, Archiv fir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik , XXII, 1906, pp. 168-69 [ora in Gesammelte Aufsitze zur
Wissenschaftslehre. zione, non però rispetto a quelle prese di posizione.
Certamente qui il concetto di mezzo è il
più ampio che si possa concepire. Chi
per esempio considerasse gli interessi di potenza dello stato come un fine ultimo, dovrebbe in
rapporto alla situazione data
considerare una costituzione assolutistica oppure una costituzione
democratico-radicale come il mezzo (relativamente) più adatto; e sarebbe
estremamente ridicolo prendere un
qualsiasi mutamento nella valutazione di questo apparato statale come mezzo per un mutamento nella
presa di posizione ultima . È però
inoltre evidente, come già si è detto, che al
singolo sì presenta sempre nuovamente il problema se egli debba lasciar cadere la speranza nella
realizzabilità delle sue valutazioni pratiche
di fronte alla conoscenza del sussistere di
una tendenza univoca di sviluppo, la quale condiziona lo scopo cui egli aspira all'impiego di muovi mezzi
che, per motivi etici o di altra specie,
gli appaiono eventualmente dubbi, o all’accettazione di conseguenze
concomitanti da lui aborrite, oppure la
rende così improbabile da fare apparire il suo lavoro, misurato in base alla
possibilità di successo, una sterile
donchisciotteria . Ma la conoscenza di tali tendenze di sviluppo , più o meno difficilmente mutabili, non occupa
affatto una posizione particolare. Ogri
nuovo fatto singolo può parimenti avere per
effetto di configurare in maniera nuova l'equilibrio tra lo scopo e i mezzi indispensabili, o tra il fine
voluto e la conseguenza concomitante
inevitabile. Se ciò debba accadere e
quali conclusioni pratiche se ne possano trarre
è una questione che non rientra
in una scienza empirica, e anzi, come si è detto, in nessuna scienza in genere, di qualsiasi
specie. Si può per esempio dimostrare tangibilmente al sindacalista convinto
che il suo agire non solo è
socialmente inutile , cioè non promette
alcuna conseguenza per il mutamento della situazione esterna di classe del proletariato, ma la peggiora
inevitabilmente provocando disposizioni reazionarie con questo però non gli si dimostra nulle, se egli è realmente fedele
alle conseguenze ultime della sua convinzione.
E ciò non perché egli sia un insensato,
ma perché può aver ragione dal suo punto di
vista come dovremo discutere. In
complesso gli uomini inclinano abbastanza fortemente ad adattarsi interiormente
al successo, 0 a ciò che promette di volta in volta il successo, e non
soltanto come è evidente nei mezzi o nella misura in cui si sforzano di realizzare i loro ideali
ultimi, ma anche nella rinuncia a questi
medesimi. In Germania si crede di poter
fregiare questo comportamento con il nome di politica realistica . In ogni caso non si
riesce a comprendere perché proprio i rappresentanti di una disciplina empirica
debbano sentire il bisogno di appoggiarlo, fornendo la propria approvazione
alla tendenza di sviluppo di volta in
volta prevalente e trasformando l’ adattamento
a questa tendenza da problema di
valutazione vitimo, da risolversi caso per caso da parte della coscienza dell’individuo, in un principio che
si suppone coperto dall’autorità di una
scienza . È esatto se correttamente inteso che una politica la quale rechi al successo è sempre l’ arte del
possibile . Ma non meno esatto è che il
possibile molto sovente è stato raggiunto solo in quanto si è mirato
all’impossibile che sta al di là di
esso. Infine, non è stata la sola etica realmente coerente dell’ adattamento al possibile, cioè la morale burocratica
del Confucianesimo, che ha prodotto le
qualità specifiche della nostra cultura
qualità che probabilmente noi tutti, nonostante ogni altra differenza, stimiamo (soggettivamente)
in maniera più o meno positiva. Da parte mia, almeno, non vorrei dissuadere
sistematicamente la nazione, proprio in nome della scienza, dal ritenere
che come prima si è posto in luce accanto al
valore di successo di un’azione
stia anche il suo valore di intenzione .
In ogni caso, però, il disconoscimento di questa circostanza danneggia la
comprensione dei fatti reali. Poiché, per rimanere all'esempio prima addotto
del sindacalista, è anche logicamente un’assurdità commisurare a scopo di
critica un atteggiamento, che se coerente
deve avere come regola il suo
valore di intenzione , semplicemente con il suo valore di successo . Il sindacalista
realmente coerente vuole semplicemente mantenere in se stesso, e per quanto è
possibile suscitare in altri, una determinata coscienza, che gli appare dotata
di valore e sacra. Le sue azioni esterne, proprio quelle che in partenza sono
condannate anche a un'assoluta mancanza di successo, hanno in ultima analisi lo
scopo di dargli, di fronte al proprio foro, la certezza che tale coscienza è
pura, che essa ha cioè la forza di
comprovarsi in azioni e non è
solo una mera smargiassata. Per tale scopo (forse) c’è soltanto il mezzo
costituito da tali azioni. Per il resto
se egli è coerente il suo regno,
come il regno di ogni etica dell’intenzione, non è di questo mondo. Scientificamente si può solo determinare che questo modo di
concepire i propri ideali è il solo internamente conseguente, e non è confutabile
mediante fatti esterni. Io ritengo che con questo sia stato
reso, sia ai sostenitori sia agli avversari del sindacalismo, un servizio e precisamente quel servizio che essi a buon
diritto pretendono dalla scienza. Mi sembra invece che nulla si possa ottenere,
nel senso di zessuza scienza di qualsiasi tipo, a trattare con locuzioni del
tipo da un lato dall’altro di sette motivi a favore e di sei
contro un determinato fenomeno (per esempio uno sciopero generale), e a
discuterlo secondo il modo della vecchia mentalità giuridica oppure dei moderni
memoriali cinesi. Con quella riduzione del punto di vista sindacalistico alla
sua forma il più possibile razionale e internamente coerente, e con la
determinazione delle sue condizioni empiriche di nascita, delle sue possibilità
e delle sue conseguenze pratiche conformi all’esperienza, è in ogni caso
esaurito il compito della scienza avalutativa nei suoi confronti. Se si debba
essere o non essere un sindacalista, ciò non si può mai provare senza far
ricorso a premesse metafisiche ben determinate, le quali non sono dimostrabili,
e in questo caso non lo sono certo mediante qualsiasi scienza, quale che essa
sia. Così pure, che un ufficiale
preferisca saltare in aria con il suo fortino anziché arrendersi, può nel caso specifico risultare
assolutamente inutile sotto ogni riguardo, se commisurato alla conseguenza.
Ma non sarebbe indifferente che sia
esistita o no l'intenzione che lo ha
spinto a ciò, senza indagarne l'utilità. Essa risulta priva
di senso tanto poco quanto lo è
quella del sindacalista coerente. Quando il professore, dalla comoda altezza
della cattedra, vuole raccomandare un
catonismo di tale specie, ciò non apparirebbe certo particolarmente
appropriato. Ma non è neppure indicato
che egli apprezzi l’opposto, facendo un dovere dell’adattarsi degli ideali alle
possibilità offerte appunto dalle tendenze di sviluppo attuali e dalle attuali
situazioni. È stato qui innanzi
ripetutamente usato il termine
adattamento , che nel caso specifico risulta, data la formulazione
scelta, abbastanza privo di fraintendimento. Ma si deve rilevare che di per sé ha un duplice significato: da
un lato designa l'adattamento dei mezzi
di una presa di posizione ultima a date
situazioni ( politica realistica in senso stretto) dall’altro
designa l'adattamento nella scelta delle medesime prese di posizione
ultime, che sono in genere possibili, alle possibilità momentanee che una di
esse realmente o apparentemente possiede
(ed è quel tipo di politica
realistica con cui la nostra politica,
da ventisette anni in qua, è pervenuta a così curiosi successi). Ma con ciò il
numero dei suoi possibili significati non è
ancora esaurito. Sarebbe perciò piuttosto opportuno, a mio parere, in
ogni discussione dei nostri problemi, sia di questioni di valutazione
che di altre, togliere di mezzo questo concetto di cui si è tanto abusato. Infatti esso è
sempre del tutto frainteso come espressione di un argomento scientifico, nella
cui forma si presenta ognora rinnovato sia a scopo di spiegazione
(per esempio della sussistenza empirica di certe intuizioni etiche
presso certi gruppi umani in determinate epoche) sia a scopo di
valutazione (per esempio di
quelle intuizioni etiche, esistenti di fatto, in quanto oggettivamente adattate
e perciò oggettivamente corrette
e fornite di valore). In nessuno di questi sensi esso serve però a
qualcosa, perché sempre ha bisogno a sua
volta di interpretazione. Esso ha la sua patria
nella biologia. Se fosse realmente preso in senso biologico, per designare la possibilità data dalle
circostanze, e relativamente
determinabile, che un gruppo umano possiede di mantenere la propria eredità psico-fisica mediante una
grossa riproduzione, allora gli strati
popolari economicamente meglio provvisti, e
capaci di regolare più razionalmente la loro vita, sarebbero i meno adattati , secondo le note esperienze
fornite dalla statistica delle nascite.
Adattati alle condizioni
dell'ambiente della zona di Salt Lake erano, in senso biologico ma anche in
ognuno dei numerosi altri significati puramente empirici i
pochi Indiani che vi vivevano prima dell’arrivo dei Mormoni, e lo erano nella stessa maniera, altrettanto
bene e altrettanto male, le più tarde e
numerose popolazioni mormoniche. In
virtù di questo concetto noi non perveniamo affatto a una migliore
comprensione sul piano empirico, ma ci immaginiamo facilmente di farlo. E
soltanto nel caso di due organizzazioni per il resto assolutamente equivalenti
sotto 0gr: rispetto questo può venir
stabilito fin d'ora si può dire che una
concreta differenza particolare è capace
di condizionare una situazione
empiricamente più opportuna per la permanenza di una di esse, e quindi in tal senso più adattata
alle condizioni date. Per ciò che
riguarda la valutazione si può tanto essere dell’opinione che il maggior numero
e le prestazioni e qualità materiali e di altra specie, che i Mormoni portarono
sul posto e vi svilupparono, siano una
prova della loro superiorità sugli Indiani, quanto essere invece del parere di
colui che aborre incondizionatamente i mezzi e le conseguenze concomitanti
dell’etica dei Mormoni, la quale è
almeno corresponsabile di quelle azioni, e quindi può pienamente preferire la
romantica esistenza degli Indiani nella
prateria senza che nessuna scienza al
mondo, di qualsiasi specie, possa pretendere di dissuaderlo. Qui si tratta già,
infatti, dell’irresolubile equilibrio tra scopo, mezzo e conseguenza
concomitante. Soltanto quando la questione concerne i mezzi appropriati per un dato scopo, stabilito in maniera
assolutamente univoca, essa può
realmente venir decisa sul terreno empirico. La proposizione x è il solo mezzo per y è infatti la semplice inversione della
proposizione a x segue y . Però il
concetto di adattazione (e tutti gli altri affini) non fornisce in
nessun caso e questa è la cosa principale la minima informazione sulle fondamentali valutazioni ultime, e anzi
semplicemente le cela; lo stesso fa, per
esempio, il concetto in fondo confuso, e di
recente prediletto, di economia umana.
Adattato nel campo della cultura è,
secondo il modo in cui il concetto
assume un significato, tutto o nulla. Poiché non si può eliminare la
lotta da ogni vita culturale. Si possono mutare i suoi mezzi, il suo oggetto, anche la sua direzione
fondamentale e i suoi portatori; ma non
si può metterla da parte. Essa può
costituire, anziché un conflitto esterno di uomini ostili per cose esterne,
un conflitto interno di uomini che si amano in vista di beni interiori, e quindi non una
costrizione esterna ma un'oppressione
interna (appunto anche in forma di dedizione
erotica o caritativa), o rappresentare infine un conflitto interiore
dell’anima dell'individuo con se stessa
ma sempre c’è, e sovente con
conseguenze tanto maggiori quanto meno viene notata, cioè quanto più il suo
corso assume la forma di un'ottusa o di una comoda indifferenza o anche di
un’auto-illusione, oppure si compie
mediante la selezione . La pace non significa nient'altro che un differimento
delle forme di lotta o degli avversari o
degli oggetti di lotta, o infine delle possibilità di selezione. Se e quando spostamenti del
genere passino la prova di fronte a un
giudizio valutativo, etico o di altra specie, non può ovviamente essere
stabilito in termini generali. Soltanto
una cosa è fuori dubbio: che ogni ordinamento, di qualsiasi tipo, di relazioni sociali, se si
vuole valutarlo, deve in ultima analisi
essere sempre esaminato in riferimento al #po
umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o interna, dà le migliori possibilità per
diventare predominante. Altrimenti
l'indagine empirica non è realmente esaustiva, e neppure c’è la base di fatto necessaria per
una valutazione, sia essa
consapevolmente soggettiva oppure pretenda invece una validità oggettiva. Questa circostanza sia
ricordata almeno a quei numerosi
colleghi i quali credono che si possa operare,
nella determinazione delle linee di sviluppo sociali, con un preciso concetto di progresso . Ciò ci conduce dinanzi al compito di un'analisi più ravvicinata di
questo importante concetto. Si può
naturalmente usare il concetto di
progresso in maniera assolutamente avalutativa, se lo si
identifica con il progredire di un qualsiasi concreto processo di
sviluppo, considerato isolatamente. Ma
nella maggior parte dei casi la cosa è
sostanzialmente più complicata. Noi prendiamo qui in esame alcuni casi in cui, in campi
eterogenei, la congiunzione con questioni di valore è la più intrinseca possibile.
Nel campo dei contenuti irrazionali, sentimentali, affettivi del nostro.
atteggiamento psichico, l'accrescimento quantitativo e la moltiplicazione
qualitativa che nella maggior parte dei
casi vi è legata delle possibili forme
di atteggiamento possono venir designati in modo avalutativo come progresso
della differenziazione psichica. Ma ad esso si unisce ben presto
il concetto di valore di un accrescimento
della portata o della
capacità di un’ anima concreta oppure il che già rappresenta una costruzione
tutt'altro che univoca di un’ epoca
(come avviene nel libro di Simmel, Schopenhauer und Nietzsche”).
È fuori di dubbio, naturalmente, che quel progredire della differenziazione esiste di fatto con la riserva che non sempre esso c'è là dove si crede alla sua
presenza. L'attenzione per le sfumature
del sentimento, che viene crescendo nel periodo attuale sia come conseguenza dell’aumentata
razionalizzazione e intellettualizzazione di tutti i settori della vita,
sia come conseguenza dell’aumentata
importanza soggettiva che l'individuo
attribuisce alle proprie manifestazioni di vita (per gli altri spesso estremamente
indifferenti) facilmente illude
sull’esistenza di una crescente differenziazione. Essa può rappresentare questa differenziazione, oppure
promuoverla; ma l'apparenza inganna con
facilità, e io confesso che vorrei stimare abbastanza alta la portata di tale
illusione. Ad ogni modo il fatto esiste.
Designare una differenziazione progressiva come progresso
è di per sé una questione di opportunità terminologica. Ma che essa
debba venir valutata come progresso nel senso di una crescente ricchezza interiore , non può in ogni caso essere deciso da nessuna disciplina
empirica. Infatti queste discipline non
hanno competenza per stabilire se le nuove possibilità di sentimento che si
vengono sviluppando, o che sono tratte
alla coscienza, con le nuove tensioni e i nuovi problemi
che in certe circostanze comportano, debbano venir riconosciute
come valori . Chi però non voglia
assumere una posizione valutativa di
fronte al fatto della differenziazione in quanto tale cosa che certamente nessuna disciplina
empirica può proibire ad alcuno e cerchi
un punto di vista adatto allo scopo,
viene di conseguenza condotto, anche da
alcuni fenomeni contemporanei, di fronte alla questione del prezzo che questo processo, in quanto è
diventato qualcosa di più di
un'illusione intellettualistica, è costato . Egli non potrà ad esempio
dimenticare che la caccia all’Erlebzis
questo valore alla moda peculiare
della Germania contemporanea può essere
in misura assai forte il prodotto di una diminuzione della forza di sostenere
interiormente la vita quotidiana, e che
quella pubblicità, che l’individuo sempre più sente 7. Schopenhauer und Nietzsche, ein Vortragszyklus,
Leipzig. il bisogno di dare al suo Erleden, potrebbe pure essere valutata come una perdita nel sentimento della
distanza, e quindi dello stile e della
dignità. In ogni caso, nel campo delle valutazioni dell’Erleben soggettivo il progresso della differenziazione è
identico con l’aumento del
valore soltanto nel senso
intellettualistico di un accrescimento dell’Erleden consapevole, oppure dell’accrescimento della capacità di
espressione e della comunicabilità. Le
cose sono alquanto più complicate a proposito dell’applicabilità del concetto
di progresso (nel senso di valutazione) al campo dell’arse. Essa viene talvolta contestata
con violenza; e, a seconda del senso in
cui viene intesa, a ragione o a torto.
Non c'è mai stata nessuna considerazione valutativa dell’arte che potesse procedere con l’antitesi esclusiva
di arte e nonarte , facendo a meno delle distinzioni
tra tentativo e riuscita, tra il valore
delle diverse riuscite, tra la riuscita compiuta e quella che risulta infelice in qualche punto
specifico, oppure in parecchi e anche
importanti, ma tuttavia non è senz'altro priva
di valore e ciò non soltanto per
una concreta volontà di creazione
artistica, ma anche per la volontà artistica di epoche intere. Il concetto di un progresso , applicato a queste situazioni,
appare banale, a causa del suo impiego in riferimento a puri problemi tecnici. Ma esso non risulta di
per sé privo di senso. Assai differente
appare il problema per la storia dell’arte e per la sociologia dell’arte,
condotte in modo puramente empirico. Per la prima non c’è naturalmente un progresso dell’arte nel senso della
valutazione estetica di opere d’arte
come opere riuscite in maniera dotata di senso; poiché questa valutazione non può venir compiuta con
i mezzi della considerazione empirica, e
si pone completamente al di là del suo
lavoro. Invece proprio essa può impiegare un concetto di progresso. puramente tecnico, razionale e
quindi univoco, del quale si deve adesso
parlare e la cui utilità per la
storia empirica dell’arte deriva dal
fatto che questo si limita esclusivamente alla determinazione dei 72e2z1
tecnici che una determinata volontà artistica usa per una data intenzione.
L'importanza per la storia dell’arte di
queste analisi così rigorosamente definite è facilmente sottovalutata, oppure
fraintesa nel senso di identificarle con una supposta conoscenza , del tutto subalterna e non genuina, che pretende di aver inteso un artista quando ha sollevato la tenda del suo laboratorio ed
esaminato i suoi mezzi esteriori di
rappresentazione, cioè la sua maniera . Soltanto il progresso tecnico , preso nel suo significato corretto,
è di competenza della storia dell’arte, poiché proprio esso e la sua influenza sulla volontà
artistica costituisce ciò che di empiricamente determinabile vi è nel
corso dello sviluppo dell’arte, senza implicare il ricorso a una valutazione
estetica. Prendiamo alcuni esempi che possano illustrare i reali significati
dell'elemento tecnico , nel senso genuino del termine, per la storia artistica. L'origine del gotico fu in prima linea il
risultato della soluzione tecnica di un problema di copertura degli spazi, in
sé di pura tecnica architettonica la questione dell’ottimo, dal punto di vista
tecnico, per l’edificazione di contrafforti di sostegno di una volta a croce, congiunta ad alcuni
altri particolari che non occorre qui
discutere. Vennero risolti problemi architettonici molto concreti; e la
conoscenza che in tale maniera diventava possibile una determinata maniera di
copertura di spazi non quadrati suscitò
l’entusiasmo appassionato di quegli architetti,
per adesso e forse per sempre ignoti, ai quali è dovuto lo sviluppo del nuovo stile di costruzione. Il
loro razionalismo tecnico condusse il
nuovo principio a tutte le sue conseguenze.
La loro volontà artistica lo utilizzò come possibilità di risolvere
compiti fino allora impensati, e spinse quindi la plastica sulla via di un nuovo senso del corpo,
suscitato in primo luogo dalle nuove
elaborazioni di spazio e di piani dell’architettura, Che questa trasformazione,
di carattere in primo luogo tecnico, si
sia incontrata con certi contenuti di sentimento, condizionati in forte misura sociologicamente
o dalla storia religiosa, fornì gli elementi essenziali di quel materiale di
problemi con i quali lavorò la creazione artistica dell’epoca del gotico.
Allorché la considerazione storica e sociologica dell’arte ha posto in luce queste condizioni oggettive,
tecniche o sociali o psicologiche, del
nuovo stile, essa esaurisce il suo compito puramente empirico. Ma essa non valuta » con ciò lo stile gotico in rapporto a quello romanico oppure a quello
rinascimentale, anch'esso fortemente
orientato in vista del problema tecnico
della cupola, e insieme in vista dei mutamenti dell'ambito di lavoro
dell’architettura, condizionati pure sociologicamente; né valuta » esteticamente, finché rimane una
storia empirica dell’arte, la singola costruzione. Anzi, l’interesse per le
opere d’arte e le sue particolari qualità esteticamente rilevanti, quindi il suo
oggetto, è ad essa eteronomo, cioè dato 4 priori in base al valore estetico
che, con i suoi mezzi, essa non può affatto stabilire. Lo stesso avviene per
esempio nel campo della storia della musica. Dal punto di vista dell’inzeresse
dell’uomo europeo moderno (riferimento di valore »!) il suo problema centrale
è questo: perché la musica armonica si
sia sviluppata dalla polifonia, affermatasi quasi ovunque su base popolare,
soltanto in Europa e in un determinato
spazio di tempo, mentre altrove la
razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra strada, il più delle volte precisamente
opposta, e cioè per la strada di uno
sviluppo degli intervalli mediante la divisione
delle distanze (per lo più una quarta) anziché mediante la divisione armonica (una quinta). Al centro si
colloca il problema dell'origine della terza nella sua interpretazione
armonica, cioè come elemento della
triade, e inoltre il problema del cromatismo armonico e ancora della ritmica
musicale moderna (della cadenza lenta e
veloce) invece della cadenza puramente
metronomica vale a dire di una ritmica
senza la quale è impensabile la moderna
musica strumentale. Si tratta qui di
nuovo prevalentemente di problemi di
progresso » razionale, e
puramente tecnico. Che per esempio il cromatismo fosse noto molto prima della musica armonica, come mezzo
di rappresentazione della passione »,
risulta infatti dall'antica musica cromatica (presumibilmente mono-armonica)
per gli appassionati Sé,uror del
frammento di Euripide di recente scoperto. Non
nella volontà espressiva artistica, bensì nei mezzi espressivi tecnici
stava la differenza di questa musica antica nei confronti di quella cromatica che i grandi innovatori
musicali del Rinascimento crearono in un’impetuosa aspirazione razionale alla
scoperta per poter appunto dare forma
musicalmente alla passione ». La novità
tecnica era però che questo cromatismo diventava quello dei nostri intervalli
armonici, e non già quello delle
distanze melodiche di semitono, o di quarto di tono, degli Elleni. E che potesse diventare tale,
ha a sua volta il fondamento in
precedenti soluzioni di problemi tecnico-RAZIONALI; cioè soprattutto nella
creazione della notazione razionale
(senza la quale nessuna moderna composizione sarebbe nemmeno
concepibile), e già prima nella creazione di determinati strumenti che costrinsero all’interpretazione
armonica di intervalli musicali, nonché, in particolare, del canto polifonico
razionale. Un contributo molto importante a queste scoperte lo aveva però fornito,
nel primo Medioevo, il monachesimo dell’area
missionaria nord-occidentale, il quale, senza presagire la posteriore
portata della propria opera, razionalizzò per i suoi scopi la polifonia popolare, invece di organizzare
la propria musica come fece il
monachesimo bizantino sul modello del uerorotég tratto dagli Elleni. Le
caratteristiche concrete, condizionate sociologicamente e dalla storia
religiosa, della situazione esterna e interna della chiesa cristiana in
Occidente consentirono qui che da un razionalismo proprio soltanto del
monachesimo occidentale sorgesse questa problematica musicale, che era nella sua essenza di carattere tecnico».
Dall'altra parte l'adozione e la
razionalizzazione della misura di danza, che è
la fonte delle forme musicali sfocianti nella sonata, furono condizionate
da certe forme di vita della società rinascimentale. Infine lo sviluppo del pianoforte, cioè di
uno dei più importanti portatori tecnici dello sviluppo musicale moderno e
della sua diffusione nella borghesia, si
radicò nello specifico carattere intra-domestico della cultura nord-europea.
Sono tutti progressi dei mezzi tecnici della musica, che hanno
così fortemente determinato la sua storia. La storia empirica della musica
potrà e dovrà appunto seguire queste componenti dello sviluppo storico, senza
avanzare, da parte sua, una valutazione
estetica delle opere musicali. Il
progresso tecnico si è molto spesso compiuto in prodotti che, valutati
esteticamente, appaiono del tutto insufficienti. Ma la direzione di interesse,
cioè l'oggetto da spiegare storicamente,
è data alla storia della musica eteronomamente, mediante la sua significatività
estetica. Per il campo dello sviluppo
della pittura, la nobile modestia
dell’impostazione problematica di Die k/assische Kunst di Wélfflin®
costituisce un esempio eminente delle fecondità di un lavoro empirico. 8. Heinrich von Woélfflin, storico dell’arte
tedesco, autore dei Prole La piena separazione
della sfera dei valori dalla realtà empirica emerge poi in maniera
caratteristica dal fatto che l’impiego di una determinata zecnica, per
quanto progressiva , non implica nulla sul valore estetico dell’opera
d'arte. Opere d'arte create con la
tecnica più primitiva per esempio quadri privi di ogni nozione di prospettiva possono risultare esteticamente di eguale
dignità di quelle più perfette prodotte mediante la tecnica razionale, se si
presuppone che la volontà artistica si
sia limitata a quelle formulazioni che sono adeguate a tale tecnica primitiva . La creazione di nuovi mezzi
tecnici rappresenta soltanto una
crescente differenziazione, e dà soltanto la possibilità di una crescente ricchezza
dell’arte, nel senso di un
incremento di valore. Di fatto essa ha avuto, non di rado, l’effetto opposto di un
impoverimento del senso della forma. Ma
per la considerazione empirico-causale è proprio il mutamento della tecnica
(nel senso più alto del termine) che
costituisce l'elemento di sviluppo più importante dell’arte, che si può determinare in linea
generale. Non soltanto gli storici
dell’arte, ma gli storici in genere
replicano di solito che essi non possono rinunciare al diritto di una valutazione politica o culturale o etica
o estetica, né sono in grado di
compiere, senza di essa, il proprio lavoro. La
metodologia non ha né la forza né il proposito di prescrivere a chicchessia ciò che egli intende offrire in
un’opera letteraria. Essa si prende, da
parte sua, soltanto il diritto di stabilire che
certi problemi hanno un senso tra loro eterogeneo, che il loro scambio reciproco conduce la discussione a
uno sterile gioco di contrapposizioni, e
che quindi una discussione condotta con i
mezzi della scienza empirica o della logica per gli uni è fornita di
senso, e per gli altri è invece impossibile. Forse si può qui aggiungere, senza per ora inoltrarci
nella sua dimostrazione, un'osservazione generale: un'analisi attenta di lavori
storici mostra con facilità che lo sforzo di seguire la catena causale,
storico-empirica, viene quasi senza eccezione interrotto, a danno dei risultati scientifici, allorché lo
storico comincia a gomena zu einer
Psycologie der Architektur (1866), di Renaissance und Barock (1888), di Die Klassische Kunst (1899), dei
Kunstgeschichtliche Grundbegrifle (1915), dei Gedanken zur Kunstgeschichte
(1940) e di varie altre opere. MAX WEBER
665 valutare . Egli incorre allora nel
pericolo, per esempio, di spiegare come conseguenza di una mancanza
o di una caduta ciò che forse era effetto di ideali a lui
eterogenei del soggetto che agisce, e
pecca quindi di fronte al suo compito più
proprio quello dell’ intendere .
Il fraintendimento si spiega per due ragioni. In primo luogo per il fatto che,
restando all’arte, la realtà artistica è
accessibile, oltre che alla pura considerazione valutativa estetica da un lato
e dall’altro alla pura considerazione
empirica, mirante alla determinazione delle cause, anche a una terza specie di
considerazione all’interpretazione di
valore (sulla cui essenza non occorre qui ripetere ciò che si è detto in altra sede). Sul suo valore
specifico, e sulla sua indispensabilità
per ogni storico, non sussiste alcun dubbio;
e così pure non c’è alcun dubbio che il consueto lettore di studi di storia dell’arte si aspetta di
trovare anche, e per l’appunto, questa trattazione. Soltanto che essa, presa
nella sua struttura logica, non è
identica con la considerazione empirica.
Questo però si deve riconoscere: chi vuole svolgere indagini di storia dell’arte, per quanto puramente
empiriche, deve possedere la capacità di intendere la produzione artistica e questo non è assolutamente concepibile
senza quella capacità di giudizio estetico, cioè senza la capacità di
valutazione. La stessa cosa vale pure per lo storico della politica o della
letteratura o della religione o della filosofia. Ma ovviamente ciò non implica
nient'altro sull’essenza logica del lavoro storico. Di ciò si dirà oltre. Qui si doveva discutere
semplicemente la questione del senso in
cui, a/ di fuori della valutazione
estetica, si può parlare di
progresso in sede di storia
dell’arte. È risultato che questo concetto acquista un senso tecnico e razionale che designa i mezzi necessari per
un certo proposito artistico, e può
diventare come tale significativo per la storia
dell’arte empiricamente condotta. È ora tempo di indagare questo
concetto di progresso razionale nel suo campo più proprio, considerandolo nel
suo carattere empirico o non-empirico.
Poiché quanto si è detto è soltanto un caso particolare di una circostanza molto universale. La maniera in cui Windelband ha delimitato il
tema della sua Geschichte der
Philosophie il processo mediante
cui l'umanità europea ha formulato la
sua concezione del mondo in concetti scientifici conduce nella sua pragmatica, a mio parere assai brillante, all'impiego di uno
specifico concetto di progresso che deriva da questo riferimento a valori
culturali (e di cui egli trae le
conseguenze); e questo concetto da un
lato risulta nient’affatto evidente per ogni storia
della filosofia, dall'altro, se si assume un corrispondente riferimento
a valori culturali, vale non soltanto
per una storia della filosofia, e
neppure soltanto per la storia di qualsiasi altra disciplina, ma diversamente da quanto Windelband
sostiene! per ogni storia in generale. Ciononostante, qui di
seguito dobbiamo parlare soltanto di
quei concetti razionali di progresso ,
che occupano un posto nelle nostre
discipline sociologiche ed economiche. La nostra vita sociale ed economica,
europeo-americana, risulta razionalizzata in un modo e in un senso specifico. Spiegare questa razionalizzazione, e
elaborare i concetti ad essa corrispondenti, è quindi uno dei principali
compiti delle nostre discipline. Perciò
ricompare il problema toccato nell’esempio della storia dell’arte, ma lasciato
in quella sede aperto: che cosa vuol
dire propriamente la designazione di un processo come
progresso razionale ? Si ripete anche qui la combinazione di progresso
nel triplice senso: 1) di un mero progredire
nella differenziazione; 2) di una progressiva razionalità tecnica dei
mezzi; 3) di un incremento di valore. In
primo luogo un comportamento soggettivamente
razionale non è identico con un
agire razionalmente corretto , che
impieghi cioè oggettivamente mezzi corretti, in conformità alla conoscenza
scientifica. Ma esso di per sé significa
soltanto che il proposito soggettivo è diretto a un orientamento ordinato in vista di mezzi
ritenuti corretti per un dato scopo. Una
progressiva razionalizzazione soggettiva dell’agire non è quindi, di necessità,
anche oggettivamente un progresso nella direzione verso l’agire razionalmente corretto .
La magia, per esempio, è stata sistematicamente razionalizzata al pari della fisica. La prima terapia
deliberatamente razionale ha significato quasi ovunque un disprezzo per
la 9. Lelrbuch der Geschichte der
Philosophie, Frciburg, i.B. cura dei sintomi empirici con erbe e bevande
provate solo empiricamente, a favore dello sforzo di scacciare le cause
(magiche o demoniache) vere e
proprie della malattia. Essa aveva perciò, formalmente, la medesima struttura
razionale che rivestono parecchi dei più importanti progressi della terapia
moderna. Ma noi non potremo valutare quelle terapie magiche di sacerdoti come progresso
verso un agire corretto , in
antitesi a quell'empiria. E d’altra parte non ogni progresso nella direzione verso l’impiego dei
mezzi corretti è conseguito mediante un
progredire nel primo senso, cioè nel
senso soggettivamente razionale. Che un agire più razionale soggettivamente
progressivo conduca a un agire oggettivamente
più conforme allo scopo , è soltanto una tra più possibilità, e
rappresenta un processo da aspettarsi con una (diversamente grande)
probabilità. Se però nel caso specifico è corretta la proposizione la quale asserisce che la
regola x è il mezzo (possiamo assumere
il solo) per raggiungere l’effetto y
ciò che costituisce una questione
empirica, poiché si tratta della
semplice inversione della proposizione causale: a x segue y e se ora questa proposizione viene
consapevolmente assunta da certi uomini per
l'orientamento del proprio agire in vista dell’effetto y il che è pure determinabile
empiricamente 4/lora il loro agire
risulta orientato in modo tecnicamente
corretto . Se l’atteggiamento umano (di qualsiasi specie) è orientato in qualche punto particolare in modo
tecnicamente più corretto di prima, ha
luogo un progresso tecnico . Se questo
sia il caso, è naturalmente presupponendo sempre l’assoluta
univocità dello scopo che viene stabilito
una determinazione che una
disciplina empirica deve compiere di fatto con i mezzi dell’esperienza scientifica, ossia una
questione empirica. Vi sono quindi, in
questo senso ben inteso, dato un
certo scopo 4nivoco concetti univocamente determinabili di
correttezza tecnica, e di progresso tecnico nei mezzi (dove qui
tecnica viene intesa nel suo
senso più ampio, cioè come comportamento
razionale valido in tutti i campi, anche in quelÈ, della manipolazione e del
dominio politico, sociale, educatio, propagandistico sulle masse). Si può in
particolare (per accennare soltanto alle
cose che ci toccano da vicino) parlare in
maniera abbastanza univoca di
progresso nel campo specifico
chiamato di solito tecnica, al pari però che nel campo della tecnica commerciale o anche di quella giuridica,
se si assume qui come punto di partenza
uno stato univocamente determinato di
una formazione concreta. Approssimativamente, infatti, i singoli princìpi
tecnicamente razionali, come ogni
esperto sa, entrano tra loro in conflitto, e tra di essi si può trovare sì un equilibrio da qualche punto di
vista di coloro che vi sono
concretamente interessati, ma non mai in maniera oggettiva. E assumendo dati bisogni,
stabilendo inoltre che tutti questi
bisogni in quanto tali, nonché la valutazione della loro importanza soggettiva, debbano essere
sostrazti alla critica, infine presupponendo una data maniera di
ordinamento economico di nuovo con la riserva che per esempio
gli interessi alla durata, alla
sicurezza e alla fecondità del soddisfacimento di questi bisogni possono
entrare, ed entrano, in conflitto c'è
anche un progresso economico verso un
optimum relativo di copertura del fabbisogno nel caso di date possibilità di mezzi disponibili. Ma c’è
soltanto in base a questi presupposti e a queste limitazioni. È stato fatto il tentativo di derivare da ciò
la possibilità di valutazioni univoche,
e perciò puramente economiche. Un esempio
caratteristico in merito è il caso, citato dal prof. Liefmann ", della
distruzione di proposito dei beni di consumo
scesi al di sotto del prezzo di costo, nell’interesse della redditività
dei produttori. Questa distruzione dovrebbe essere valutata anche come oggettivamente corretta dal punto di vista economico . Ma
tale illustrazione e tutte le altre simili
questo è quanto ci interessa assumono come evidenti una serie di presupposti che non lo sono; assumono cioè
non soltanto che l'interesse
dell'individuo vada oltre la sua morte, ma anche che esso deve valere come tale, una volta per
sempre. Senza questa trasposizione dall’
essere al dover essere
la valutazione in questione, che si pretende puramente economica,
non potrebbe venir effettuata
univocamente. Poiché senza di essa, per esempio, non si può parlare degli
interessi dei produttori e dei consumatori
come di interessi di persone che si 12. Robert Liefmann {1874-1941), economista
tedesco, autore dell’opera Die Unternchmungsformen (1912) e di altri scritti. perpetuano.
Che l'individuo prenda in considerazione gli interessi dei suoi eredi, non è
però più una circostanza puramente
economica. Agli uomini viventi vengono qui sostituiti piuttosto degli interessati, i quali utilizzano il capitale
nelle loro imprese ed esistono
per queste imprese. Ciò costituisce una finzione utile per scopi teorici; ma
anche come finzione non si adatta alla
situazione dei lavoratori, e in particolare di quelli senza figli. In secondo luogo essa ignora il
fatto della situazione di classe la quale, sotto il dominio del principio di
mercato, può assolutamente peggiorare (non che debba necessariamente), non già
nonostante ma proprio ir conseguenza della distribuzione ottima
di capitale e lavoro nei diversi rami produttivi ottima in quanto valutata dal punto di vista
della redditività il rifornimento di
beni per certi strati di consumatori.
Infatti quella distribuzione
ottima della redditività, che
condiziona la costanza dell’investimento di capitale, dipende a sua volta dalle costellazioni di forze esistenti
tra le classi, le cui conseguenze
possono nel caso concreto (non già che debbano necessariamente) indebolire la
posizione di quegli strati nella lotta per i prezzi. In terzo luogo essa ignora
la possibilità di durevoli antitesi di
interessi, prive di possibilità di composizione, tra i membri di diverse unità
politiche; e quindi prende partito 4
priori per l’ argomento della libertà di commercio , che si tramuta così, da mezzo euristico
estremamente utile, in una
valutazione tutt'altro che evidente,
appena da esso si traggano postulati
concernenti il dover essere. Quando però,
per uscire da questo conflitto, essa presuppone l’unità politica dell'economia mondiale (il che teoricamente è
senz'altro permesso), allora l’ineliminabile possibilità della critica che
suscita la distruzione di quei beni
consumabili nell'interesse dell’optimum di redditività permanente (dei prodotti
e dei consumatori) offerta dai rapporti esistenti quale viene qui presupposto si sposta semplicemente nella sua ampiezza.
La critica si dirige cioè contro
l’intero principio del rifornimento del mercato in base a tali direttive,
risultanti dall’optimum di redditività, esprimibile in denaro, di singole
economie in rapporto di scambio si dirige contro il principio în quanto tale.
Un'organizzazione di rifornimento dei beni, non organizzata in forma di mercato, non avrebbe alcun motivo per
tener conto della costellazione di interessi economici individuali data in base
al principio di mercato, e perciò non sarebbe
neppur costretta a sottrarre al consumo
quei beni già esistenti. Soltanto se si
presuppongono le seguenti condizioni: 1) esclusivi interessi di redditività
permanenti, di persone concepite come
costanti e con bisogni anch'essi concepiti come costanti per lo scopo; 2) esclusivo dominio
dell’organizzazione di rifornimento dei beni fondata sul capitale privato,
mediante uno scambio di mercato
completamente libero; 3) una potenza statale non interessata come mero garante
giuridico soltanto a queste condizioni la concezione del prof.
Liefmann risulta corretta anche solo dal punto di vista teorico, e perciò
giusta in maniera ovvia. Infatti la
valutazione concerne allora i mezzi
razionali per la migliore soluzione di un problema tecnico particolare
di distribuzione dei beni. Le finzioni dell’economia pura, utili a scopi teorici, non possono però
essere trasformate in base di
valutazioni pratiche di fatti reali. Rimane stabilito che la teoria economica non può asserire
assolutamente nient’altro che questo: per il dato scopo tecnico x la regola y è
il solo mezzo appropriato, oppure lo è
insieme a yy e a y, e nell’ultimo caso
tra y, yi e y. vi sono differenze del modo di operare ed eventualmente di razionalità; la loro
applicazione e il conseguimento dello scopo x obbligano a tener conto
delle conseguenze concomitanti 2, z, e 2. Tutto ciò è il risultato di semplici inversioni di proposizioni causali;
e nella misura in cui si possono
riferire ad esse delle valutazioni ,
queste risultano esclusivamente valutazioni del grado di razionalità di
un’azione prospettata. Le valutazioni sono univoche soltanto quando lo scopo
economico e le condizioni di struttura sociale appaiono date, quando si tratta
soltanto di scegliere tra diversi mezzi
economici, e quando questi sono diversi soltanto in riferimento alla sicurezza,
alla rapidità e alla produttività quantitativa dell'effetto, ma funzionano in
maniera del tutto identica sotto ogni
altro rispetto che possa risultare importante per gli interessi umani. Soltanto allora un mezzo
deve essere anche valutato
incondizionatamente come quello tecnicamente più corretto , e questa valutazione risulta
univoca. In ogni altro caso, che non sia
puramente tecnico, la valutazione cessa di essere univoca, e si presentano
valutazioni che non possono venir
determinate su base puramente economica.
Ma con la determinazione dell’univocità di una valutazione tecnica entro la sfera puramente economica
z0n si perviene, naturalmente, a una
univocità della valutazione definitiva.
Piuttosto, al di là di queste discussioni comincerebbe il turbine della infinita molteplicità di possibili
valutazioni, che possono venir
controllate soltanto riportandole ad assiomi ultimi. Infatti per menzionare una cosa soltanto dietro l’azione sta l’uomo, per il quale il progredire della
razionalità soggettiva e della
correttezza tecnico-oggettiva dell'agire in quanto tale può valere, al di sopra di un certo
grado e anzi, in base a certe concezioni, in maniera del tutto
generale come un pericolo a cui vengono esposti i beni
importanti (ad esempio quelli etici o
religiosi). Difficilmente qualcuno di noi condividerà l’etica (estrema)
buddistica, che respinge ogni azione diretta
a uno scopo perché essa è tale, cioè in quanto allontana dalla redenzione. Ma confutarla , nel senso in cui
si confuta un falso esempio aritmetico
oppure un’errata diagnosi medica, è
semplicemente impossibile. Pur senza ricorrere a esempi così estremi, è però agevole comprendere che i
processi di razionalizzazione economica, per quanto senza dubbio tecnicamente
corretti, non sono in nessuna maniera legittimati di fronte al foro della valutazione per questa loro
qualità. Ciò vale per tutti i processi
di razionalizzazione, nessuno escluso, comprendendovi pure campi in apparenza
puramente tecnici come quelli della banca. Coloro che si oppongono a tali
processi di razionalizzazione non sono
affatto necessariamente dei pazzi.
Piuttosto, ogni qual volta si voglia valutare, si deve prendere in
considerazione l’influenza dei processi di razionalizzazione tecnica sulla
modificazione dell’insieme delle condizioni
di vita, esterne e interne. Sempre, e senza eccezione, il concetto di
progresso legittimo nelle nostre discipline riguarda l’aspetto tecnico , il che vuol dire come si è accennato il
mezzo necessario per uno scopo dato univocamente. Mai esso si innalza alla sfera delle
valutazioni ultime . Dopo quanto si è detto, io ritengo l’impiego
del termine progresso » di per sé
inopportuno anche nel campo limitato
della sua applicabilità empiricamente incontestabile. Ma non è mai
possibile proibire ad alcuno l’uso di un termine; sono soltanto da evitare i possibili
fraintendimenti. Rimane ora da
discutere, prima di giungere alla fine, un
ultimo gruppo di problemi concernenti la posizione dell’elemento
razionale entro le discipline empiriche.
Quando ciò che è normativamente valido diventa oggetto di indagine empirica, allora perde, in quanto
oggetto, il suo carattere di norma; esso viene considerato come esistente »,
non come
valido ». Per esempio, qualora la statistica volesse stabilire il numero
degli errori aritmetici» entro una determinata
sfera di calcolo professionale il
che potrebbe pur avere un senso
scientifico i princìpi fondamentali
della tavola pitagorica varrebbero » per essa in due sensi del tutto diversi.
Per un verso la loro validità normativa
è naturalmente il presupposto assoluto del suo proprio lavoro di calcolo. Ma
per un altro verso, per cui si indaga il
grado di applicazione corretta » della tavola pitagorica in quanto oggetto
dell'indagine, le cose stanno, considerate logicamente, in maniera del tutto
diversa. Qui l’applicazione della tavola pitagorica da parte di quelle persone,
i cui calcoli sono oggetto di analisi statistica, viene studiata come una
massima effettiva di comportamento, divenuta loro abituale mediante
l’educazione; e si deve pertanto stabilire la frequenza della sua applicazione
di fatto, proprio come possono essere
oggetto di determinazione statistica certi fenomeni di pazzia. Che la tavola
pitagorica valga normativamente, sia cioè corretta , non è
oggetto di discussione in questo caso,
in cui l’ oggetto è invece la sua
applicazione; ed è anzi logicamente del
tutto indifferente. Lo statistico, nel corso della sua analisi statistica dei calcoli delle
persone su cui indaga, deve da parte sua
naturalmente adeguarsi a questa convenzione, di calcolare secondo la tavola pitagorica . Ma egli
dovrebbe parimenti impiegare un procedimento di calcolo falso ,
quale risulta se valutato normativamente, nel caso in cui esso fosse stato ritenuto corretto in un gruppo
umano ed egli dovesse indagare
statisticamente la frequenza della sua applicazione di fatto, che appariva
corretta dal punto di vista di quel gruppo. Per ogni considerazione
empirica, sociologica o storica, la
nostra tavola pitagorica, nel caso in cui si presenti come oggetto dell'indagine, è una massima di
comportamento pratico valida convenzionalmente in un gruppo umano, e seguita
con maggiore o minore approssimazione, e nient'altro. Ogni esposizione della dottrina pitagorica della
musica deve anzitutto assumere il calcolo
falso per il nostro sapere che 12
quinte siano eguali a 7 ottave. Così pure ogni storia della logica deve
assumere l’esistenza storica di asserzioni logiche (per noi) contraddittorie — ed è umanamente
comprensibile, ma non rientra tuttavia
nel compito di un'analisi scientifica, che si
possa accompagnare tali assurdità con esplosioni di sdegno, come ha fatto uno storico assai eminente
della logica medievale 13 Questa
metamorfosi di verità normativamente valide in opinioni valide
convenzionalmente, alla quale sottostanno intere formazioni spirituali, anche i
princìpi logici o matematici — metamorfosi che ha luogo quando tali verità
diventano oggetto di una considerazione
che si riferisce al loro essere empirico, e
non già al loro senso (normativamente) corretto — avviene in maniera del tutto indipendente dalla
circostanza che la validità normativa
delle verità logiche e matematiche costituisce d’altra parte l’a priori di ogni scienza empirica.
Meno semplice è la loro struttura logica
nel caso di quella funzione già prima
accennata, che loro spetta nell'indagine empirica di connessioni spirituali, e che deve di nuovo essere
distinta con cura dalle altre due — cioè
dalla loro posizione come oggetto di ricerca e
dalla loro posizione come 4 priori della ricerca. Ogni scienza di connessioni spirituali o sociali
costituisce una scienza del
comportamento ma7z0 (facendo rientrare nell’ambito di tale concetto, in questo caso, ogni atto
spirituale e ogni abito psichico). Essa vuole
intendere questo comportamento e
per questa via interpretare
esplicativamente il suo corso. Non
possiamo qui trattare il difficile concetto di intendere; a noi interessa, in questo contesto, soltanto una
sua specie particolare, cioè l'interpretazione
razionale . Noi intendiamo
ovviamente senz’altro che un pensatore
risolva un determinato problema
nel modo che noi stessi riteniamo normativamente corretto , che per
esempio un uomo calcoli in maniera 13.
Weber allude qui alla Geschichte der Logik im Abendland di Karl Prand, Leipzig, 1855-70. 43. STORiCISMO TEDESCO. 674 MAX WEBER
corretta o che impieghi per uno scopo che si propone i mezzi — a nostro parere — corretti . E la nostra comprensione di questi
processi è quindi particolarmente evidente, poiché si tratta appunto della realizzazione di ciò
che è oggettivamente valido . E tuttavia
ci si deve guardare dal credere che in
questo caso ciò che è normativamente corretto appaia, dal punto di vista
logico, nella medesima struttura che riveste nella sua posizione generale come 4 priori di ogni
indagine scientifica. Piuttosto la sua funzione come mezzo dell’intendere è
precisamente la stessa che la
penetrazione simpatetica
puramente psicologica compie nelle connessioni logicamente i irrazionali
dei sentimenti e degli affetti, allorché si tratta di conoscerle attraverso la
comprensione. Non già la correttezza normativa, bensì da una parte le abitudini
convenzionali del ricercatore e del docente a pensare così e non altrimenti,
dall’altra però anche, nel caso in cui
sia richiesta, la sua capacità di
poter penetrare simpateticamente
, a scopo di comprensione, in un
pensiero che si discosta da quel modo, e che gli appare quindi normativamente falso
secondo le sue abitudini, rappresentano qui il mezzo della spiegazione
comprendente. Già il fatto che il
pensiero falso, cioè l’errore , sia in linea di
principio accessibile alla comprensione al pari del pensiero corretto , dimostra infatti che ciò che vale
come normativamente corretto viene qui considerato non 12 quanto tale, ma soltanto come un tipo convenzionale, assai
facilmente intelligibile. Ciò conduce ora a un'ultima constatazione sulla
funzione di ciò che è normativamente corretto nell’ambito della conoscenza
sociologica. Già allo scopo di
intendere un calcolo, oppure
un’asserzione logica falsa, e di stabilire e di rappresentare il suo influire in quelle conseguenze di fatto che
ha avuto, si dovrà ovviamente non
soltanto provarlo calcolando
correttamente , oppure pensando
logicamente in maniera corretta, ma anche
indicare esplicitamente, con i mezzi del calcolo corretto o
della logica corretta , quel
punto in cui il calcolo o l’asserzione logica in esame diverge da ciò che
l’autore considera da parte sua come
normativamente corretto . E ciò non di necessità soltanto per quello scopo
pratico-pedagogico, che per esempio Windelband pone in primo piano
nell’Introduzione alla sua Geschichte der Philosophie" (stabilire tavole di ammonimento contro
vie errate ), e che costituisce soltanto un’auspicabile prodotto
secondario del lavoro storico. E ciò neppure
perché ogni problematica storiografica, nel cui oggetto rientri no conoscenze logiche o matematiche o
scientifiche di altro genere, debba
inevitabilmente avere a propria base come unica
possibile relazione di valore ultima, decisiva per la selezione, soltanto il valore di verità da noi
riconosciuto valido, e quindi il progresso
in direzione di questo; sebbene poi, se
questo fosse effettivamente il caso, rimarrebbe da tener presente la circostanza sovente constatata da
Windelband, che il progresso in questo senso ha varie volte imboccato, invece
della strada diretta, quella che in termini economici si può
dire la deviazione più redditizia
attraverso errori, cioè
attraverso confusioni di problemi. Ciò accade invece perché (anzi solo in quanto) quei punti in cui la
formazione spirituale, indagata come oggetto, diverge da ciò che l’autore
deve ritenere corretto , diventeranno di
regola per lui importanti vale a dire
specificamente caratteristici ai suoi occhi, e
quindi, dal suo punto di vista, o riferiti direttamente ai valori oppure legati in rapporto causale con altri
aspetti riferiti ai valori. Ciò avverrà
normalmente quanto più il valore di verità
di certi princìpi è il valore direttivo di un'esposizione storica, particolarmente della storia di una
determinata scienza (per
esempio della filosofia o dell’economia politica teorica). Ma questo non
è affatto il caso esclusivo. Una situazione almeno analoga sì presenta ovunque
un agire soggettivamente razionale, secondo il suo proposito, forma in genere
l’oggetto di una rappresentazione, e ovunque errori di pensiero o errori di calcolo possono costituire delle componenti causali
del corso dell’agire. Per intendere per
esempio la condotta di una guerra si dovrà inevitabilmente immaginare da
entrambe le parti sebbene non necessariamente in forma
esplicita o dettagliata un ideale
comandante supremo, al quale sia nota la
situazione generale e la dislocazione delle forze militari contrapposte,
e siano pure note e continuamente presenti le possibilità che ne derivano di
conseguire il fine, in concreto univocamente determinato, della distruzione
della potenza militare avversaria e che
in base a questa conoscenza abbia agito senza
errori, e anche senza
sbagliare logicamente. Soltanto
allora si può stabilire con precisione
quale influenza ha avuto sull’andamento delle cose la circostanza che i
comandanti reali non abbiano posseduto
né quella conoscenza né questa immunità
dagli errori, e non siano stati in genere delle macchine per pensare razionali. La costruzione razionale
ha qui pertanto il valore di servire
come mezzo di corretta imputazione causale. Il medesimo senso hanno quelle
costruzioni utopiche di un agire
razionale rigoroso e privo di errori, che crea la teoria economica
pura . Allo scopo
dell’imputazione causale di processi empirici noi abbiamo bisogno appunto di costruzioni
razionali, tecnico-empiriche o anche logiche, le quali rispondano a questa questione: come, nel caso di una correttezza
e non-contraddittorietà assolutamente razionale, sia empiricamente
sia logicamente, potrebbe configurarsi (oppure essersi configurata) una certa
circostanza, che rappresenta o una connessione esterna dell’agire o anche una
formazione concettuale (per esempio un sistema filosofi co). Considerata dal punto di vista logico,
la costruzione di una siffatta utopia
razionalmente corretta è però soltanto una
delle diverse formazioni possibili di un
tipo ideale come ho definito (in una terminologia per me
preferibile a ogni altra espressione)
tali costrutti concettuali. Infatti non soltanto è possibile concepire, come si
è detto, dei casi in cui una conclusione caratteristicamente fa/sa oppure un
determinato atteggiamento tipico
contrario allo scopo possono rendere, come tipo ideale, un migliore servizio; ma soprattutto vi sono
intere sfere di atteggiamento (le sfere
dell’ irrazionale ), nelle quali può
meglio servire a tale proposito non già il massimo di razionalità logica,
bensì semplicemente una univocità conseguita mediante l’astrazione isolante. Di
fatto il ricercatore impiega assai
spesso dei tipi ideali costruiti
in maniera normativamente corretta .
Considerata logicamente, però, la correttezza
normativa di questi tipi non è cosa essenziale. Ma un ricercatore può,
per caratterizzare per esempio una forma specifica di coscienza tipica agli uomini di un’epoca,
costruire sia un tipo di coscienza che
gli appare personalmente conforme alla normasotto il profilo etico, e quindi in
tal senso oggettivamente corretta , sia
un tipo che gli appare invece eticamente opposto alla norma per comparare con esso l'atteggiamento degli
uomini sui quali sta indagando oppure
può infine costruire anche un tipo di
coscienza a cui egli personalmente non attribuisce nessun predicato positivo o
negativo di qualsiasi specie. Ciò che è
normativamente corretto non ha nessun monopolio per questo scopo.
Infatti, quale che sia il contenuto di un tipo ideale razionale sia che esso rappresenti una norma di fede
etica, giuridica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica
giuridica o sociale o culturale, oppure una
valutazione di qualsiasi specie espressa nella forma il più possibile
razionale la sua costruzione ha sempre,
nell’ambito delle indagini empiriche, soltanto lo scopo di comparare
con esso la realtà empirica, e di stabilire il suo contrasto o la sua
lontananza da essa oppure il suo
relativo accostarsi ad essa, per poterla descrivere e intendere mediante l'imputazione causale e quindi
spiegarla, facendo uso di concetti
intelligibili 11 più possibile univocamente. Queste funzioni esplica, per esempio, l’elaborazione
concettuale della dogmatica giuridica
per la disciplina empirica della storia del
diritto, e così pure la dottrina del calcolo razionale per l’analisi
dell’atteggiamento reale delle singole economie nell’economia acquisitiva.
Entrambe le discipline dogmatiche ora citate
hanno naturalmente inoltre, in quanto dottrine tecniche , scopi eminentemente pratico-normativi. Ed
entrambe sono, in tale loro qualità di
scienze dogmatiche, così poco empiriche
nel senso qui discusso come possono esserlo la matematica o la logica, l’etica normativa o l’estetica, da
cui del resto esse differiscono, per altri motivi, tanto quanto queste sono
anche diverse tra loro. La teoria economica, infine, è ovviamente una
dogmatica in senso logicamente assai
diverso da quello, per esempio, della
dogmatica giuridica. I suoi concetti si riferiscono alla realtà economica in maniera specificamente
diversa da quella in cui i concetti della dogmatica giuridica si riferiscono
alla realtà dell’oggetto della storia o
della sociologia del diritto. Ma, come i
concetti dogmatici della scienza giuridica possono e debbono venir impiegati da queste ultime come
tipi ideali , così questa specie di
impiego per la conoscenza della realtà sociale presente e passata costituisce
addirittura il senso esclusivo della teoria economica pura. Essa formula
determinati presupposti, che nella realtà non si trovano quasi mai attuati
in forma pura, ma che si riferiscono ad
essa con un diverso grado di
approssimazione, chiedendosi come in base ad essi verrebbe a configurarsi l’agire sociale degli uomini,
qualora esso procedesse in maniera strettamente razionale. Essa assume, in
particolare, il predominio di puri interessi economici ed esclude quindi l'influenza di orientamenti politici o di
altra specie non economica. In essa ha
però avuto luogo il tipico procedere di una
confusione di problemi . Infatti quella pura teoria non-statale ,
amorale , individualistica , che è stata e sarà sempre indispensabile
come strumento metodico, è stata concepita dalla scuola liberistica radicale come una copia
esauriente della realtà naturale, cioè della realtà che non è stata
falsata dalla stupidità umana, e
inoltre, in base a ciò, come un dover
essere come un ideale valido nella sfera
normativa, che si poneva al posto di un
tipo ideale utilizzabile per la ricerca
empirica intorno a ciò che è. Allorché i mutamenti di valutazione dello
stato, prodottisi nella politica economica e sociale, provocarono una ripercussione nella sfera
valutativa, questa ripercussione colpì di nuovo la sfera dell’essere; di modo
che la teoria economica pura fu
rigettata non soltanto come espressione di un ideale sebbene essa non avesse mai potuto pretendere
tale dignità ma anche come metodo per la
ricerca sulla realtà di fatto.
Considerazioni filosofiche di specie più diversa dovevano sostituire la
pragmatica razionale; e l’identificazione di ciò che è psicologicamente con ciò che vale eticamente rendeva ineseguibile una precisa distinzione
della sfera della valutazione dal lavoro
empirico. Le straordinarie prestazioni
degli esponenti di questo sviluppo scientifico nel settore storico o sociologico o politico-sociale sono ormai
universalmente riconosciute; ma chi giudichi in maniera impregiudicata deve
pur riconoscere la completa caduta,
durata per decenni, del lavoro teorico e
in genere di una rigorosa scienza economica, che quella mescolanza di problemi ha avuto per
sua naturale conseguenza. Una delle due tesi principali, con cui lavoravano
gli avversari della teoria pura,
sosteneva che le costruzioni RAZIONALI di questa fossero pure finzioni , le quali non asseriscono nulla sulla realtà dei fatti. Correttamente
intesa, questa affermazione è valida. Infatti le costruzioni teoriche sono
soltanto al servizio della conoscenza
della realtà che da sole non possono
fornire; e anche nel caso estremo questa realtà, per la cooperazione di altre
circostanze e serie di motivi, non contenute nei loro presupposti, risulta
soltanto approssimata rispetto al corso così costruito. Ciò non dimostra
certamente nulla, secondo quanto si è detto, contro l’utilità e la necessità
della teoria pura. La seconda tesi sosteneva che non potesse esserci in ogni
caso una dottrina avalutativa concernente la politica economica, formulata
scientificamente. Essa è naturalmente del tutto
falsa, tanto falsa che proprio l’ avalutatività nel senso
precedentemente illustrato
rappresenta il presupposto di
ogni considerazione puramente scientifica della politica, in particolare
di quella sociale ed economica. Non occorre qui ripetere che è evidentemente possibile, e
scientificamente utile e necessario, formulare proposizioni di questo tipo: per
conseguire l’effeto (politico-economico) x, y è il solo mezzo, oppure date
le condizioni di, 52, d3 Yi Y yY:
sono i soli mezzi, o i mezzi più
appropriati. E c’è soltanto bisogno di accennare che il problema consiste nella possibilità di
un'assoluta urivocità di designazione
dello scopo a cui si tende. Se questa ha luogo,
allora si tratta di una semplice inversione di proposizioni causali, e quindi
di un problema puramente tecnico . Proprio
perciò la scienza non è affatto costretta, in tutti questi casi, a concepire queste proposizioni teleologiche di
carattere tecnico diversamente che come
semplici proposizioni causali, cioè in
questa forma: a y segue sempre, oppure a Yi, Ya 7: Se gue, nelle condizioni è;, 6, 6, l’effetto x.
Infatti ciò vuol dire precisamente la
stessa cosa, e l’uomo pratico può facilmente derivarne dei precetti . Ma la dottrina scientifica
dell'economia ha pure alcuni altri compiti, accanto alla determinazione di pure
formule tipico-ideali da un lato e dall'altro alla determinazione di tali connessioni economiche
particolari, di carattere causale poiché si tratta senza eccezione di
connessioni di questo genere, se x è abbastanza uzivoco, e se quindi l'imputazione dell’effetto alla causa, cioè
del mezzo allo scopo, dev'essere
abbastanza rigorosa. Esso deve inoltre indagare la totalità dei fenomeni
sociali nel modo in cui sono condizionati
da cause economiche; e ciò mediante l’interpretazione della storia e della società sotto il profilo
economico. E d'altra parte essa deve
pure determinare il condizionamento dei processi e delle forme di economia da parte dei fenomeni
sociali, secondo le loro diverse forme e
i loro diversi stadi di sviluppo; e ciò
mediante la storia economica e la sociologia dell'economia. Entro questi
fenomeni sociali rientrano evidentemente, e certo in prima linea, le azioni e le formazioni
politiche, in particolare lo stato e il
diritto garantito statalmente: ma, è pure ovvio, non soltanto quelle politiche bensì la totalità di quelle formazioni che
influenzano l’economia, in n grado abbastanza rilevante per l'interesse
scientifico. Indicare l'insieme di questi problemi come una dottrina della «
politica economica sarebbe naturalmente
assai poco appropriato. L’uso che tuttavia se ne fa a tale scopo può soltanto venir spiegato
esteriormente in base al carattere delle
università come istituti educativi per
funzionari statali, e interiormente in base agli enormi strumenti che lo
stato possiede per influire in modo intensivo sulla vita economica, e quindi in base all'importanza
pratica della sua considerazione. Non
occorre constatare di nuovo che in tutte
queste indagini è sempre possibile invertire le asserzioni sul rapporto « causa-effetto in asserzioni sul rapporto « mezzo-scopo ,
quando la conseguenza in questione può essere stabilita con sufficiente univocità. In tale maniera il
rapporto logico tra sfera della valutazione
e sfera della conoscenza empirica non
risulta naturalmente affatto mutato. E solo più a una cosa rimane, al termine di questa analisi, da
accennare. Lo sviluppo degli ultimi
decenni, e specialmente gli avvenimenti senza precedenti di cui siamo oggi
testimoni, hanno potentemente
accresciuto il prestigio dello stato. Ad esso soltanto, tra tutte le comunità
sociali, viene oggi attribuita una forza
«legittima sulla vita, la morte e
la libertà; e i suoi organi ne fanno
uso, in guerra contro i nemici esterni, in pace e in guerra contro gli oppositori interni. Esso è
in pace il maggiore imprenditore
economico e il più potente esattore di tributi dei cittadini; in guerra dispone nella maniera
più illimitata di tutti i beni economici
che gli sono accessibili. La sua moderna
forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numerosi
settori, compiti che senza dubbio nessun agire associato di altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure
in modo approssimato. Non poteva non accadere che da ciò si traesse la conseguenza
che lo stato deve anche essere
soprattutto nelle valutazioni che si muovono entro il campo della «
politica il « valore
ultimo, e che ogni agire sociale deve, in ultima analisi, venire
commisurato ai suoi interessi di esistenza. Solo che anche questo processo costituisce una
trasposizione, del tutto indebita, di
fatti della sfera dell’essere in norme della sfera della valutazione pur prescindendo qui dalla mancanza di univocità delle conseguenze tratte da quella
valutazione, come appare subito da ogni
considerazione dei mezzi (per la
conservazione o l’incremento dello stato ). Entro la sfera dei puri fatti oggettivi si deve far
valere anzitutto, di fronte a quel
prestigio, la constatazione che lo stato 207 può certe cose. E ciò anche nei campi che risultano
i suoi domini più propri, come in quello
militare. L'osservazione di alcuni
fenomeni che la guerra attuale ha reso manifesti negli eserciti di stati razionalmente eterogenei ci insegna
che la libera dedizione dell'individuo al compito che il suo stato
rappresenta una dedizione che lo stato
non può imporre è tutt'altro che indifferente per il successo militare. E per
il campo economico basta accennare che
la trasposizione di forme e di principi
dell’economia bellica in forma di fenomeni permanenti di pace potrebbe rapidamente avere conseguenze che
condurrebbero in rovina, proprio per i
suoi sostenitori, l'ideale di uno stato espansivo. Su questo, tuttavia, non
occorre soffermarci più a lungo. Nella
sfera della valutazione è però possibile sostenere, in maniera pienamente
dotata di senso, il punto di vista che vorrebbe
veder rafforzata il più possibile la potenza dello stato come mezzo coercitivo contro ogni resistenza, ma
che d'altra parte gli nega qualsiasi
valore proprio e lo qualifica come un mero
strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diversi, dai
quali soltanto esso potrebbe prendere in prestito la sua dignità e mantenerla anche solo finché non
cercasse di spogliarsi di questo suo compito ausiliario. Naturalmente qui non si deve né svolgere né
sostenere questo o qualsiasi altro possibile punto di vista valutativo. Si
deve però soltanto ricordare che, se ce
n'è qualcuna, l'obbligazione più particolarmente appropriata a pensatori di professione consiste nel mantenere di fronte agli ideali
dominanti al momento, anche di fronte ai più forniti di maestà, una mente fredda, nel senso di rimanere personalmente
capace di nuotare contro la corrente .
Le idee tedesche del 1914 furono un prodotto da letterati”. Il socialismo del
futuro è una frase per la
razionalizzazione dell'economia, da attuarsi mediante una combinazione di burocratizzazione ulteriore e
di amministrazione da parte di un gruppo organizzato di individui
interessati. Quanto il fanatismo dei
patrioti di ufficio della politica economica invoca per queste misure puramente
tecniche, in luogo di una discussione
oggettiva della loro opportunità, in buona parte condizionata semplicemente
dalla politica finanziaria, la
consacrazione non soltanto della filosofia tedesca ma anche della
religione come oggi avviene in ampie
proporzioni ciò non rappresenta altro che una ripugnante
degenerazione di gusto di letterati che
si reputano importanti. Come possano 0
debbano apparire le reali idee tedesche del 1918, alla cui elaborazione avranno parte anche i reduci
dalla guerra, nessuno può oggi ben prevedere. Ma da queste dipenderà appunto
il futuro. 15. Weber si riferisce qui al manifesto
nazional-socialista pubblicato nel 1916
dal sociologo tedesco Johann Plenge, col titolo 1789 und 1914: die
symbolische Jahre in der Geschichte des
politischen Geistes, nel quale le idee tedesche del 1914 erano contrapposte ai princìpi della
Rivoluzione francese. Per assecondare il vostro desiderio, dovrò parlare
della scienza come professione . Ebbene,
è una specie di pedanteria di noi
economisti, alla quale voglio attenermi, quella di prender sempre le mosse dalla situazione esteriore, e
quindi, nel caso nostro, dalla domanda:
come si configura la scienza come professione nel senso materiale della parola?
E questo, in sostanza, oggi praticamente significa: qual è la situazione di
un laureato che abbia deciso di
dedicarsi per professione alla scienza nell’ambito della vita accademica? Per
comprendere in che cosa consista su
questo punto la particolarità della situazione
tedesca, è opportuno procedere comparativamente, rendendoci conto di come stiano le cose nel paese
straniero che sotto questo aspetto
presenta la più recisa antitesi con le nostre condizioni, e cioè negli Stati
Uniti. Da noi come tutti sanno un giovane che si dedichi alla scienza come professione, inizia
normalmente la sua carriera come libero
docente . Dopo essersi consultato col professore titolare della materia e
averne avuto l'approvazione, egli consegue
l’abilitazione in una università, in base a un libro e a un esame, per lo più semplicemente formale,
da parte della facoltà, dopo di che
tiene lezioni senza stipendio,
compensato soltanto mediante le tasse d'iscrizione al suo corso intorno all'argomento da lui scelto entro i
limiti della sua verza * Wissenschaft
als Beruf (conferenza tenuta all’Università di Monaco, 1919), raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur
Wissenschaftslehre, Tiibingen, J. C. B.
Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 582-613
(La scienza come professione, tr. it. di
Antonio Giolitti, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi,
1948, pp. 41-77). legendi. In America la
carriera universitaria comincia normalmente in modo del tutto diverso, e cioè
con l'assunzione in qualità di assistente: qualcosa di simile a quel che
avviene di solito nei nostri grandi
istituti delle facoltà di scienze naturali e di medicina, dove è soltanto una
frazione degli assistenti ad
aspirare spesso solo dopo
parecchio tempo alla formale abilitazione a libero docente. La differenza
significa praticamente che da noi la carriera di un uomo di scienza poggia
interamente su presupposti plutocratici. Giacché, per un giovane studioso privo
di disponibilità patrimoniali, è estremamente arrischiato esporsi, in linea
generale, alle condizioni imposte dalla
carriera accademica. Egli deve poter tirare avanti almeno un certo numero di anni senza sapere in nessun
modo se avrà in seguito la possibilità
di riuscire a raggiungere una posizione
che gli permetta di provvedere al proprio mantenimento. Viceversa, negli
Stati Uniti vige il sistema burocratico. Là il giovane è pagato fin
dall’inizio. Modestamente, si capisce: lo stipendio, il più delle volte,
raggiunge appena il livello del salario di
un operaio a un grado minimo di specializzazione. Tuttavia egli comincia pur sempre con una posizione
apparentemente sicura, giacché
percepisce un compenso fisso. Ma è previsto
che possa essere licenziato, come i nostri assistenti, e tale sorte lo attende spesso inesorabilmente se non
corrisponde alle aspettative che si ripongono in lui. Tali aspettative però si
limitano a che insegni ad aula esaurita
. Ciò non può capitare a un libero docente tedesco. Una volta che egli lo
diventa, non ci si libera più di lui. Certamente egli non ha diritti. Tuttavia
ha motivo di pensare che, dopo un'attività di alcuni anni, gli spetti una
specie di diritto morale a esser preso in considerazione: anche e ciò è spesso importante quando si tratti dell’eventuale abilitazione di altri liberi
docenti. La questione se in linea di
principio si debba dare l’abilitazione a qualunque studioso di provata capacità o se invece si
debba tener conto dei bisogni dell’insegnamento
, attribuendo così ai docenti già
abilitati un monopolio dell’insegnamento, è un penoso dilemma connesso
con quel doppio aspetto della professione universitaria a cui ora accenneremo.
Di solito, si decide per la seconda
alternativa. Ma ciò aumenta il pericolo che il titolare della materia în questione, nonostante la massima
coscienziosità soggettiva, dia la preferenza ai propri scolari. Personalmente,
io ho seguito il principio sia detto di passaggio che uno
studioso laureato con me debba dar prova di sé e conseguire l'abilitazione presso n altro professore e in
un’altra università. Ma il risultato fu che uno dei miei più valenti
allievi venne respinto perché nessuno
credette che tale fosse il motivo del
suo trasferimento. Un'altra differenza
rispetto all'America è la seguente: da
noi, il libero docente è in generale meno occupato con le lezioni di
quanto egli stesso desidererebbe. Senza dubbio avrebbe il diritto di tenere tutte le lezioni della sua
materia. Ma ciò viene considerato una
sconveniente mancanza di riguardo verso
i docenti più anziani, e di regola le lezioni importanti sono
tenute dal titolare della cattedra, mentre il docente si accontenta di
lezioni 4 latere. Egli ne trae il vantaggio, sia pure involontariamente, di poter disporre degli
anni della giovinezza per il lavoro scientifico. Tutto ciò in America è organizzato in maniera
fondamentalmente diversa. Proprio nei primi anni il docente è assolutamente
sovraccarico di lavoro, appunto perché è pagato. In un dipartimento di
germanistica, per esempio, il professore ordinario terrà un corso di tre ore settimanali su
Goethe e basta, mentre l'assistente più
giovane sarà ben contento se con dodici ore
settimanali, oltre all'insegnamento elementare della lingua tedesca, gli
verrà assegnato qualche altro argomento su un poeta della levatura di Uhland'. Infatti sono gli
organi ufficiali della facoltà a
prescrivere il programma di insegnamento, al
quale l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da noi l’assistente d’istituto. Possiamo ora vedere chiaramente come da noi
il più recente sviluppo dell’organizzazione universitaria in vasti settori
della scienza segua l'orientamento di quella americana. I grandi istituti per gli studi di medicina o di
scienze naturali sono imprese capitalistiche di stato . Non possono esser
amministrati senza grandi mezzi. E anche lì si verifica, come in ogni 1. Johann Ludwig Uhland, poeta romantico
tedesco, autore anche di drammi storici,
di studi sull’antica letteratura tedesca e di volumi sulla mitologia germanica:
prese parte alla vita politica dell'età della Restaurazione, aderendo a posizioni nazionali-liberali, e nel 1848 fu
membro dell'assemblea di Francoforte. impresa capitalistica, la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione . Il lavoratore, vale a dire
l’assistente, è ridotto a servirsi degli
strumenti che lo stato mette a sua disposizione; egli viene pertanto a dipendere dal direttore
d’istituto allo stesso modo dell’impiegato in una fabbrica giacché quel direttore s'immagina, in
perfetta buona fede, che l'istituto sia swo
e vi fa da padrone e la sua
posizione è spesso altrettanto precaria
come quella di un qualsiasi
proletaroide o di un assistente di università americana. La nostra vita universitaria tedesca va
americanizzandosi, come la nostra vita
in generale, in certi punti assai importanti,
e questo sviluppo ne sono
convinto si estenderà in seguito anche a quei campi dove, come avviene ancor
oggi in larga misura nel mio, è
l’artigiano stesso a possedere lo strumento di
lavoro (essenzialmente la biblioteca), in modo del tutto analogo all’artigiano d’altri tempi nell’ambito del
suo mestiere. Il processo è in pieno sviluppo.
I vantaggi tecnici sono assolutamente indiscutibili, come in ogni azienda capitalistica e al tempo stesso
burocratizzata. Ma lo spirito che vi domina è tutt'altro
dall’antica atmosfera tradizionale delle
università tedesche. C'è un abisso straordinariamente profondo, esteriormente e
interiormente, tra il dirigente di una simile grande impresa capitalistica
universitaria e il solito professore
ordinario di vecchio stile: anche nell’atteggiamento interiore. Non posso qui
dilungarmi su questo punto. Tanto
all'interno quanto all’esterno l'antico ordinamento universitario è diventato
fittizio. Ma è rimasto, e anzi si è sostanzialmente accentuato, un motivo
caratteristico della carriera
universitaria: il fatto che un simile libero docente, divenuto ormai un assistente, riesca finalmente a
insediarsi nella posizione di ordinario o di direttore d'istituto, costituisce
un’opportunità che è un mero caso. Senza dubbio non domina soltanto il caso, ma esso ha tuttavia un'influenza
straordinariamente grande. Non conosco quasi altre carriere al mondo dove esso
abbia una parte così grande. Tanto più
sono in grado di dirlo io che
personalmente devo ad alcune circostanze meramenti accidentali di esser
stato chiamato giovanissimo, ai miei tempi, alla cattedra di una materia nella quale allora
altri della mia età avevano senza dubbio
acquisito meriti maggiori dei miei. E in base a questa esperienza presumo di
avere una vista più acuta per scorgere
l’immeritata sorte dei molti ai quali il caso ha giocato e ancora gioca il tiro opposto e che,
nonostante tutta la loro capacità, non
giungono attraverso quell’apparato selettivo al posto che loro
spetterebbe. Che il caso e non la
capacità in quanto tale abbia una parte
così grande, non dipende soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle debolezze umane che naturalmente
s'incontrano in questo processo di
selezione come in tutti gli altri. Sarebbe ingiusto attribuire a deficienze personali di facoltà
o di ministeri la responsabilità del
fatto che indubbiamente vi siano tante mediocrità a esercitare una parte
preponderante nelle università. Ciò fa
parte delle leggi dell’agire in comune degli uomini, e specialmente di più organismi,
cioè nel caso nostro delle facoltà proponenti e dei ministeri. Eccone una
riprova: possiamo seguire attraverso i
secoli le vicende delle elezioni papali, ossia il più importante esempio che ci sia dato
controllare di una selezione personale
del medesimo tipo. Soltanto di rado il cardinale di cui si dice che è il favorito
riesce eletto: di regola tocca al
candidato numero due o numero tre. La stessa cosa avviene col presidente degli Stati Uniti: per lo più è il
numero due e spesso il numero tre, e
solo eccezionalmente l’uomo più quotato ma anche più eminente, quello che entra
nella nomination delle convenzioni di
partito e quindi nel processo elettorale.
Gli Americani hanno già creato espressioni sociologiche tecniche per
queste categorie e sarebbe davvero interessante cercare in questi esempi le leggi di una selezione
mediante la formazione di una volontà collettiva. Non lo faremo ora. Ma esse
valgono anche per i corpi accademici, e c'è da meravigliarsi non già che ne scaturiscano frequenti errori, bensì
del numero pur sempre assai rilevante, da un punto di vista relativo, delle
nomine giuste. Soltanto dove si ha
l'intervento per motivi politici, di
parlamenti come in alcuni
paesi o, come prima da noi, di monarchi (entrambi operano allo stesso modo),
oppure, come adesso, di rivoluzionari
impadronitisi del potere, si può esser
certi che tutte le probabilità di successo vanno soltanto alle accomodanti mediocrità o agli arrivisti. Nessun professore universitario ripensa
volentieri alle discussioni per le nomine, perché di rado sono piacevoli.
Tuttavia posso affermare che in numerosissimi casi di cui sono a conoscenza,
mai è mancata la buona volontà di far dipendere la decisione da motivi puramente oggettivi. Bisogna infatti mettere in chiaro che non
dipende soltanto dall’inadeguatezza
della selezione in virtù di formazione di
una volontà collettiva se nella decisione delle sorti accademiche ha
tanta importanza il caso . Ogni giovane che senta la vocazione dello studioso deve piuttosto
rendersi ben conto che il compito a cui
si accinge presenta un duplice volto. Deve
avere non soltanto i requisiti dello studioso ma anche quelli dell'insegnante. Non è affatto detto che gli
uni e gli altri coincidano. Si può
essere uno studioso insigne e al tempo stesso
un pessimo maestro. Basta rammentare l’attività d’insegnamento di uomini
come Helmholtz e come Ranke. E non si tratta di
eccezioni rare. Ma le cose stanno ora in modo che le nostre università, specialmente quelle piccole, si
fanno la concorrenza più ridicola per le
frequenze. Le affittacamere delle città universitarie celebrano come una festa
il millesimo studente, e il duemillesimo
possibilmente con una fiaccolata. Gli interessi di propina dei singoli corsi bisogna ammetterlo apertamente risentono della nomina di un titolare di grido
in qualche cattedra affine, e
anche prescindendo da ciò il numero degli
uditori fornisce una tangibile testimonianza in cifre, mentre le qualità di dottrina sono imponderabili e
spesso (com'è del tutto naturale)
addirittura contestate nel caso di arditi innovatori. Perciò nella maggior parte dei casi tutto
soggiace a questa suggestione della benedizione
e del valore incommensurabili del
numeroso uditorio. Se di un docente si dice che è un cattivo maestro, ciò equivale per lo più alla
sua condanna a morte nel campo
universitario, quand’anche si tratti del primo
dotto del mondo. Ma la questione se egli sia un buono o un cattivo maestro trova risposta nella
frequenza di cui lo onorano i signori studenti. Sta però di fatto che, se gli
studenti si affollano intorno a un
professore, ciò è determinato in larghissima misura da circostanze meramente
esteriori, come il temperamento o perfino l’inflessione di voce e ciò a un punto tale che non si crederebbe possibile. Dopo
un'esperienza in ogni modo abbastanza
lunga e una fredda riflessione, ho concepito
una profonda sfiducia verso i corsi universitari di massa, per Max Weber nel 1919. quanto non si possa certo farne a meno. La
democrazia dev’essere applicata dove si conviene. Ma l’insegnamento
scientifico, quale dobbiamo esercitarlo
nelle università tedesche in conformità alla loro tradizione, è una
faccenda non dissimuliamocelo di aristocrazia dello spirito. D'altra parte
è certamente vero che saper esporre i
problemi scientifici in modo da renderli accessibili a una mente incolta ma
capace d’intendere, e da metter questa
in grado di farsene un'idea propria ciò
che per noi è l’unica cosa decisiva costituisce forse il compito pedagogicamente più difficile. Senza dubbio:
ma non è il numero degli uditori a decidere se esso sia stato risolto. E
quest’arte costituisce appunto per
ritornare al nostro argomento un dono
personale e non coincide affatto necessariamente con le qualità scientifiche di uno studioso. A
differenza dalla Francia, però, noi non abbiamo alcuna corporazione degli immortali
della scienza, ma per la nostra tradizione sono le università che devono
soddisfare a entrambe le esigenze: quella della
ricerca e quella dell’insegnamento. Ma è un puro caso che le capacità necessarie a questo scopo si
ritrovino tutte nello stesso individuo. La vita accademica è quindi abbandonata al
cieco caso. Quando dei giovani studiosi
vengono a chiedere consiglio per
l'abilitazione, la responsabilità che ci si assume accedendo alla richiesta è quasi intollerabile. Se si tratta
di un ebreo, gli si risponde,
naturalmente: lasciate ogni speranza . Ma anche
a chiunque altro bisogna domandare, in coscienza: credete di poter sopportare di vedervi passare avanti,
di anno in anno, una mediocrità dietro
l’altra, senza amareggiarvi e intristirvi
l'animo? E ogni volta la risposta è evidentemente la stessa: naturalmente, io vivo solo per la mia
vocazione; ma per mio conto ho saputo
solo di pochissimi che abbiano retto senza
risentirne un danno interiore.
Questo mi sembrava necesssario dire intorno alle condizioni esteriori della professione di studioso. Credo però che voi vogliate in realtà sentir
parlare di qualcosa d'altro, e precisamente della vocazione interiore alla
scienza. Al giorno d'oggi l’esercizio della scienza come professione è condizionato, sul piano interiore, dal fatto
che la scienza è pervenuta a uno stadio
di specializzazione prima sconosciuto, e tale rimarrà sempre in futuro. Non
soltanto esteriormente, no certo, ma
proprio interiormente, le cose stanno in modo che soltanto nel caso di un’estrema
specializzazione l’individuo può avere
sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente perfetto nel campo scientifico. Tutti i
lavori che sconfinano in campi contigui,
come talvolta ci capita di fare, e come per
esempio noi sociologi dobbiamo sempre fare, sono gravati dalla rassegnata coscienza di fornire tutt'al più
allo specialista un'’utile impostazione di qualche problema nel quale non gli
sarà tanto facile imbattersi nel suo
campo specifico, cosicché il proprio lavoro non potrà non rimanere estremamente
imperfetto. Soltanto attraverso una
rigorosa specializzazione l’uomo di scienza può giungere una volta e forse mai più nella vita a dire
con sicura coscienza: ho prodotto qualcosa che durerà. Un'opera realmente definitiva e valida è oggi
sempre un'opera specializzata. Resti
quindi discosto dalla scienza chi non è capace di mettersi, per dir così, dei
paraocchi, e di pervenire all’idea che il destino della propria anima dipende
appunto dall’esattezza, poniamo, di questa congettura proprio di questa rispetto a quel passo di quel manoscritto.
Altrimenti egli non avrà mai fatto
dentro di sé ciò che può chiamarsi l’ esperienza vissuta della scienza. Senza questa strana
ebbrezza, derisa dai non iniziati, senza
questa passione, questo dovevano passare
millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni attendono in silenzio* tutto per il successo di questa tua congettura
m0n c’è vocazione per la scienza e bisogna scegliere un’altra via.
Infatti per l’uomo in quanto uomo, nulla ha
valore di ciò che non può fare con passione. Ora, però, sta di fatto che, per quanto
grande, genuina e profonda possa essere
tale passione, il risultato appare ancora
lontano. Essa è certamente una condizione preliminare per il fattore decisivo: l’ ispirazione . È vero che
oggi negli ambienti giovanili è assai diffusa l'opinione che la scienza sia
diventata un esercizio di calcolo da eseguirsi nei laboratori o nelle cartoteche statistiche col solo ausilio del
freddo intelletto e non con tutta l’
anima , allo stesso modo di quel che avviene in
una fabbrica. A questo proposito si deve anzitutto osservare 2. Il passo citato è di Carlyle. che per lo
più queste persone non hanno un'idea chiara di quel che avviene in una fabbrica più di quanto
l’abbiano di ciò che avviene in un laboratorio.
Nell’uno o nell’altra all'uomo deve
venire in mente un'idea e proprio
l'idea giusta per produrre qualcosa che
abbia veramente valore. Ma quell'idea non
si ottiene per forza. Non ha nulla a che fare con un qualsiasi freddo calcolo. Senza dubbio anche questa è
una condizione imprescindibile. Nessun
sociologo, per esempio, avrà da pentirsi se, anche nei suoi tardi anni, avrà
speso qualche mese intorno a molte decine di migliaia di elementi di calcolo
del tutto banali. Non si può ricorrere
impunemente ai soli mezzi meccanici, se si vuol conseguire qualche risultato; e
quel che in definitiva si ricava è
spesso irrisorio. Ma chi non ha un'idea
determinata sullo scopo del calcolo e, durante il calcolo stesso, sulla portata dei risultati singoli, non ne
trae neppure quel minimo. Normalmente l’
idea si prepara a germogliare soltanto
sul terreno del duro lavoro. Non sempre, s'intende. L’idea di un dilettante può
avere un'importanza identica o maggiore di quella di uno specialista. Molte
delle nostre impostazioni e delle nostre conoscenze più importanti sono dovute
proprio ai dilettanti. Il dilettante si distingue dallo specialista — come ha detto Helmholtz a proposito di Robert
Mayer? — solo in quanto gli manca la
precisa sicurezza del metodo di lavoro e
non è quindi in grado di controllare 2 posteriori la portata della sua idea e di apprezzarla o applicarla.
L'idea non sostituisce il lavoro. E il lavoro dal canto suo non può sostituire
0 suscitare a forza l’idea più di quanto
non possa farlo la passione. L'una e l’altro — e specialmente tutti e due
insieme — la maturano. Ma essa viene
quando le aggrada e non quando pare a
noi. È infatti vero che le cose migliori vengono in mente, come dice Ihering, fumando il sigaro
sul divano oppure — come narra di sé
Helmholtz con precisione di naturalista —
passeggiando per una strada lievemente in salita, e via dicendo, ma
sempre, comunque, quando non si sta in loro attesa, non già durante l’ansia e lo sforzo di
ricerca a tavolino. Mayer, medico e fisico tedesco, autore del volume Dic organische Bewegung in ihren
Zusammenhinge mit dem Stoffwechsel (1845), contribuì alla formulazione del
principio della conservazione dell'energia: fu oggetto di aspra critica da parte di Helmholtz,
Certo, però, non sarebbero venute in mente senza i precedenti appassionanti
problemi e senza quel tormento a tavolino.
Comunque sia, l’uomo di scienza deve anche tener conto di quel caso che non va disgiunto da qualsiasi
lavoro scientifico: verrà o no
l’ispirazione? Si può essere un impareggiabile
lavoratore e non avere mai avuto una propria idea originale. Ma è un grave errore credere che ciò avvenga
soltanto nella scienza e che in
un’azienda, per esempio, le cose stiano diversamente che in un laboratorio. Un
commerciante o un grande industriale
privo di fantasia negli affari, cioè senza idee, senza idee geniali, rimarrà per tutta la
vita, nel migliore dei casi, un semplice
commesso o un impiegato tecnico: non creerà
mai qualcosa di vitale nell’organizzazione. Nel campo della scienza l’ispirazione non ha affatto
un'importanza maggiore — come immagina
la presunzione degli studiosi — che nel campo
dei problemi della vita pratica che deve padroneggiare un imprenditore
moderno. E d'altra parte la sua importanza non è minore — come spesso erroneamente si crede —
che nel campo dell’arte. È puerile
pensare che a tavolino, munito di un regolo o di altri mezzi meccanici o di
macchine calcolatrici, il matematico
giunga a un risultato di qualche valore scientifico; la fantasia matematica di un Weierstrass* si
presenta naturalmente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e
nel suo risultato, da quella di un
artista, e anche sotto il profilo
qualitativo è fondamentalmente differente. Non però quanto al procedimento psicologico. Entrambi sono
esaltazione (nel senso della mania
di Platone) e ispirazione . Ora, che uno abbia ispirazioni scientifiche,
dipende da un destino a noi ignoto, ma
soprattutto da un dono, Un
atteggiamento, di cui è ben comprensibile la popolarità specialmente tra i giovani, si è schierato — e
quell’indubitabile verità non è certo
l’ultima ragione di ciò — in favore di alcuni idoli il cui culto vediamo oggi trionfare a tutti gli
angoli di strada e in tutte le riviste.
Tali idoli sono la personalità e l’esperienza vissuta . L'una e l’altra sono
strettamente connesse: 4. Karl Theodor
Wilhelm Weicrstrass (1815-1897), matematico tedesco, autore di numerosi scritti raccolti nelle Gesammelte
Abhandiungen, diede importanti contributi alla teoria delle funzioni.
l'opinione dominante è che la seconda sia costitutiva della prima e le
appartenga. Ci si tormenta per vivere la propria esperienza — giacché questo fa parte del modo
di vivere che si addice a una
personalità — e non potendo riuscirvi bisogna
almeno fare come se si possedesse questa grazia. Una volta questa esperienza vissuta si chiamava in tedesco Sensation. E di quel che fosse e significasse la personalità , si aveva allora — ritengo — un'idea più esatta. Egregi ascoltatori! Nel campo scientifico ha
una sua personalità soltanto chi serve puramente la causa. E ciò
non si verifica soltanto in campo
scientifico. Non conosciamo alcun grande
artista che non si sia interamente dedicato alla propria causa e che abbia servito altri all’infuori
di questa. Perfino una personalità della
levatura di Goethe non ha potuto impunemente
per quel che concerne la sua arte
prendersi la libertà di voler
fare un’opera d’arte della propria vita.
Ma se pure non si voglia ammetterlo,
bisogna tuttavia essere un Goethe per
poterselo permettere, e ognuno dovrà convenire almeno sul fatto che nessuno mai ne è uscito immune,
neppure lui, la cui figura è unica nel
corso di millenni. Le cose non stanno altrimenti in politica: ma di ciò non si
parlerà oggi. Nel campo della scienza
non è certo una personalità colui il quale, al modo di un impresario, porta se stesso alla
ribalta insieme alla causa a cui
dovrebbe dedicarsi, e vorrebbe giustificare se medesimo col vivere la propria esperienza , e domanda:
come dimostrerò di essere qualcosa di più di un semplice specialista, come riuscirò a dire qualcosa
che non sia stato ancor detto da nessuno
nella stessa forma o con lo stesso contenuto?
Un fenomeno, questo, che oggi si osserva su larga scala e che lascia ovunque un’impronta di meschinità,
avvilendo colui che si pone una simile
domanda, laddove soltanto l’intima dedizione al proprio compito, e ad esso
soltanto, può innalzarlo all’altezza e alla dignità della causa che pretende
servire. Né diversamente avviene per l'artista.
Contrapposto a queste condizioni preliminari che il nostro lavoro ha in comune con l’arte, esiste un
destino che lo differenzia profondamente dal lavoro dell’artista. Il lavoro
scientifico è inserito nel corso del
progresso. E viceversa nessun progresso
in questo senso si attua nel
campo dell’arte. Non è vero che un’opera d’arte di un'epoca in cui siano stati
elaborati nuovi mezzi tecnici o, per
esempio, le leggi della prospettiva, si
trovi per questa ragione a un più alto livello, sul piano puramente artistico, di un’opera d’arte priva
di ogni conoscenza di quei mezzi e di quelle leggi se questa non è formalmente o materialmente
manchevole, cioè se ha scelto e plasmato il proprio oggetto come era possibile
fare a regola d’arte senza
l'applicazione di quelle condizioni e di quei mezzi. Un'opera d’arte veramente
compiuta non viene mai superata, non
invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente un significato di diverso valore; ma di
un’opera realmente compiuta in senso artistico nessuno potrà mai dire che
sia superata da un’altra pur essa
compiuta. Al contrario, ognuno di noi sa
che, nella scienza, il proprio lavoro dopo
dieci, venti, cinquant'anni è invecchiato. Questo è il destino, 0 meglio, questo è il senso del lavoro
scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui
si può dire la stessa cosa, è ad esso
assoggettato e affidato in modo del
tutto specifico: ogni lavoro scientifico compiuto comporta
nuove questioni e vole essere
superato e invecchiare. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire
la scienza. Senza dubbio vi sono opere
scientifiche che possono conservare durevolmente la loro importanza come mezzi
di godimento a causa della loro qualità
artistica, oppure come mezzo di addestramento al lavoro. Ma esser superati
scientificamente è giova ripeterlo
non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo. Non possiamo lavorare senza
sperare che altri si spingeranno più
avanti di noi. In linea di principio, questo
progresso tende all’infinito. E con ciò siamo giunti al problema del senso della scienza. Infatti, non appare
di per se stesso chiaro come possa avere
in sé un senso e una ragione qualcosa
che è sottoposto a una simile legge. Perché mai ci si adopera intorno a
quello che, nella realtà, non giunge e non può mai giungere alla fine? Ebbene,
anzitutto per scopi puramente pratici,
cioè per scopi tecnici nel senso ampio della parola: per poter orientare la nostra azione pratica in base
alle aspettative che ci fornisce
l’esperienza scientifica. Sta bene. Ma questo ha un significato solo per l'uomo
pratico. Qual è ora la posizione interiore dell’uomo di scienza di fronte alla
propria professione, ammesso che egli
cerchi di averne una in generale? Egli risponde: la scienza per amore della scienza e non per consentire ad altri di raggiungere successi nel campo
degli affari di carattere tecnico, per potersi meglio nutrire, vestire,
illuminare, governare. Quale opera fornita di senso crede egli dunque di produrre in tal modo, con queste creazioni
sempre destinate a invecchiare, col
lasciarsi incanalare in questa attività divisa in settori specializzati, e protraentesi
all'infinito? A questo proposito bisogna fare alcune considerazioni
generali. Il progresso scientifico è una
frazione, e senza dubbio la più
importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale siamo sottoposti da secoli e contro il quale
oggi di solito si prende una posizione
così straordinariamente negativa.
Anzitutto rendiamoci chiaramente conto di che cosa propriamente
significhi, dal punto di vista pratico, questa razionalizzazione
intellettualistica ad opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente. Vorrà forse
significare che oggi noi altri, per
esempio ogni persona presente in questa sala, abbiamo una conoscenza delle
condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella di un Indiano o di
un Ottentotto? Ben difficilmente.
Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea a meno ch'egli non sia un fisico di
mestiere di come la vettura riesca a mettersi in moto:
né, d’altronde, ha bisogno di saperlo.
Gli basta di poter fare
assegnamento sul modo di comportarsi di una vettura tranviaria,
ed egli orienta in conformità la propria
condotta; ma nulla sa di come si faccia
per costruire un tram capace di mettersi in moto. Il selvaggio ha una conoscenza dei propri
utensili incomparabilmente migliore. Se oggi spendiamo del denaro, scommetto
che, perfino se vi sono colleghi
economisti qui presenti, ognuno avrà
pronta una risposta diversa alla domanda: come avviene che qualcosa
ora poco, ora molto possa esser
comperato con il denaro? Il selvaggio sa
in quale modo riesce a procurarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni
gli servano a questo scopo. La
progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione n0n significa dunque una
crescente conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa
significa bensì qualcosa di diverso: la
coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento
provare che non vi sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le
quali intervengano in modo da impedire che si possa dominare in linea di principio tutte le cose mediante la previsione razionale. Ma ciò significa il
disincantamento del mondo. Non occorre
più ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come
fa il selvaggio per il quale esistono
potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e la previsione razionale. È soprattutto questo il
significato dell’intellettualizzazione in quanto tale. Questo processo di disincantamento proseguito
per millenni nella cultura occidentale
e, in generale, questo progresso del quale la scienza è un elemento e un
impulso, contiene un qualche senso che
vada al di Ià del fatto puramente pratico e
tecnico? Questa domanda la trovate formulata come questione di principio soprattutto nelle opere di Lev
Tolstòj. Egli vi giunse attraverso una
propria via. Il problema centrale intorno
al quale egli si tormentava era la questione se la morte fosse o no un fenomeno dotato di senso. E la sua
risposta, nei confronti degli uomini civili, è negativa. Ciò appunto in
quanto la vita del singolo individuo
civilizzato, inserita nel progresso,
nell’infinito, non può per il suo stesso senso immanente avere alcun termine. Giacché c'è sempre un
ulteriore progresso da compiere per chi
c'è dentro; nessuno muore dopo esser
giunto al culmine, che è situato nell'infinito. Abramo e un qualsiasi contadino dei tempi antichi
moriva vecchio e sazio della vita perché si trovava nel ciclo
organico della vita, perché la sua vita,
anche per il suo significato, alla sera della
sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed
egli poteva perciò averne abbastanza . Ma un uomo civile, il quale
partecipa all’arricchimento progressivo della civiltà in idee, conoscenze,
problemi, può diventare stanco della
vita ma non sazio. Di ciò che la vita dello spirito sempre
nuovamente produce egli coglie soltanto
la minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo: quindi la
morte è per lui un accadimento privo di
senso. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita culturale come tale, in quanto
appunto con la sua assurda
progressività fa della morte un
assurdo. Ovunque, nei MAX WEBER 697 suoi ultimi romanzi, quest'idea costituisce
il motivo fondamentale dell’arte di Tolstòj.
Quale posizione si può assumere in proposito? Al progresso, come tale, può riconoscersi un
senso che va al di là della tecnica,
cosicché avrebbe significato la professione dedicata al suo servizio? È un quesito che va posto. Ma
non si tratta soltanto del problema
della professione e della vocazione ne:
riguardi della scienza, e cioè del problema: che cosa significa la scienza come professione per colui il
quale vi si dedica? bensì anche di
questo: che cos'è la professione della scienza
nell’ambito dell'intera vita dell'umanità? e qual è il suo valore? L’antitesi tra passato e presente è qui
enorme. Vi ricorderete di quella meravigliosa immagine al principio del libro
VII della Repubblica di Platone: quegli
uomini in una caverna incatenati, col
viso rivolto alla parete di roccia, che la luce
colpisce alle spalle e che non possono vederla e si preoccupano perciò soltanto delle ombre che essa getta
sulla parete e cercano di stabilirne la
causa. Finalmente uno di loro riesce a spezzare
le catene, si volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intorno e
descrive balbettando quel che ha veduto. Gli altri gli dànno del pazzo. Ma a poco a poco egli impara
a vedere nella luce e allora si adopera
a scendere tra gli uomini delle caverne
e a trarli su verso la luce. Egli è il filosofo e il sole è la
verità della scienza, che sola non va in
caccia di fantasmi e di ombre ma
persegue il vero essere. Ebbene, chi
tiene oggi un simile atteggiamento verso la
scienza? È proprio la gioventù a manifestare oggi un sentimento opposto:
le formazioni concettuali della scienza sono un
mondo sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di cogliere con
le loro mani esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il sangue della vita reale. È qui nella vita, in
ciò che per Platone costituiva il gioco
d’ombre sulle pareti della caverna, che palpita la vera realtà: il resto sono
fantasmi senza vita astratti da quella,
e null’altro. Come si è effettuato un tale mutamento? L’appassionato entusiasmo di Platone nella
Repubblica si spiega in ultima analisi considerando che allora per la prima
volta si era scoperto consapevolmente il
senso di uno dei più importanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il
concetto. Socrate ne ha rivelato tutta
l’importanza. Ma non è stato il solo: in India potete trovare saggi di una
logica del tutto simile a quella di
Aristotele. Mai però con questa coscienza del suo significato. Allora per la prima volta sembrò
disponibile un mezzo per stringere
chiunque nella morsa della logica così da
non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o che questa e non altra è la verità, l'eterna
verità, che non è transeunte come
l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Fu questa la straordinaria esperienza vissuta
dai discepoli di Socrate. Da ciò sembrava conseguire che, ove si fosse trovato
l’esatto concetto del bello, del buono,
come pure del coraggio, dell’anima, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche
il vero essere, e ciò sembrava di nuovo
aprire la via per sapere e per insegnare
il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino. Infatti la mentalità completamente politica
dei Greci riduceva tutto a questo
problema. Perciò si coltivava la scienza.
Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presenta ora frutto del Rinascimento il secondo grande strumento del lavoro scientifico, l'esperimento razionale,
come mezzo per l’esperienza rigorosamente controllata, senza il quale sarebbe
impossibile la scienza empirica moderna. Anche precedentemente era stato adottato il metodo sperimentale:
nella fisiologia, per esempio, in India,
per servire alla tecnica ascetica dello Yogi;
nella matematica, tra gli antichi Greci, ai fini della tecnica bellica; per i lavori nelle miniere, durante
il Medioevo. Ma aver innalzato
l'esperimento a principio della ricerca come tale è un prodotto del Rinascimento. Ne furono
pionieri i grandi innovatori nel campo
dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e caratteristici soprattutto gli
sperimentatori di musica del Cinquecento con i loro clavicembali sperimentali.
Da questi l’esperimento passò nella
scienza soprattutto ad opera di Galilei, e nella teoria ad opera di Bacone; lo
adottarono poi le singole discipline
delle scienze esatte nelle università del continente, in primo luogo in Italia e in Olanda. Che cosa dunque significava la scienza per
quegli uomini alla soglia dell’età
moderna? Per gli sperimentatori nel campo
dell’arte, come Leonardo e gli innovatori nella musica, significava la
via per giungere alla vera arte, ciò che per loro equivaleva alla vera natura.
L'arte doveva esser elevata alla dignità di
una scienza, e cioè al tempo stesso, e soprattutto, l’artista al rango
di un dotto, dal punto di vista sociale e riguardo al senso della sua vita. È questa l’ambizione che sta
per esempio alla base anche del Trattato
della pittura di Leonardo. E oggi? La
scienza come via per giungere alla natura
questa frase suonerebbe come una
bestemmia alle orecchie dei giovani. No,
tutt'al contrario: liberiamoci dall’intellettualismo della scienza per ritornare alla nostra propria
natura e quindi alla natura in generale!
Sarà forse allora la via per giungere all'arte? A questa domanda è superflua
qualsiasi critica. Ma all’epoca dell’origine delle scienze esatte
della natura, ci si attendeva dalla
scienza qualcosa di più. Se rammentate il detto
di Swammerdam® vi reco qui la prova della provvidenza di Dio nell’anatomia d’un pidocchio , capirete
ciò che il lavoro scientifico, sotto
l'influenza (indiretta) del Protestantesimo e
del Puritanesimo, considerasse allora come proprio compito: la via per giungere a Dio. Questa, allora, non
la si trovava più nei filosofi, nei loro
concetti e nelle loro deduzioni: che non si
potesse trovare Dio per la via tentata dal Medioevo, ben lo sapeva tutta la teologia pietistica di quel
tempo, Spener* soprattutto. Dio è nascosto, le sue vie non sono le nostre vie,
i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. Ma nelle vie esatte della
natura, dove si poteva cogliere
fisicamente la sua opera, là si sperava di
poter rintracciare i suoi disegni in relazione al mondo. E oggigiorno?
Chi ancor oggi tranne alcuni grandi
fanciulli, quali è dato incontrare
proprio nelle scienze naturali crede che
le conoscenze dell'astronomia o della
biologia o della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa intorno al
serso del mondo, o anche soltanto
intorno alla via per la quale si possano rintracciare gli indizi di un
simile senso , se pur ve n'è uno? Quelle conoscenze sono semmai più adatte
a soffocare in germe la fede che vi sia
qualcosa di simile a un senso del 5. Jan
Swammerdam, naturalista olandese, autore del Tractatus physico-anatomico-medicus de respiratione
usuque pulmonum, del Miraculum naturae seu uteris muliebris fabrica, della
Ephemerae vita © di varie altre opere,
diede importanti contributi allo studio degli insetti, all'embriologia,
all'anatomia umana, e fu tra i pionieri del microscopio. Spener, teologo
protestante tedesco, autore di Pia
desideria, di Dus geistliche Priestertum, della Evangelische Glaubenslehre,
delle Evangelische Lebenspffichten c di varie altre opere, fu il fondatore del movimento pietistico. mondo! E finalmente, la scienza come via per
giungere a Dio? Essa, la potenza
specificamente estranea alla divinità?
Che tale essa sia nessuno oggi, nel suo intimo, può dubitarne, pur essendo più o meno disposto a
confessarlo. L’emancipazione dal razionalismo e dall’intellettualismo della
scienza costituisce il presupposto fondamentale della vita in comunione con
il divino: questa massima, o qualcosa di
significato identico, è una delle parole
d’ordine che si ritrovano ovunque nel sentimento dei nostri giovani dotati di
animo religioso o che aspirano a un'esperienza religiosa. Ed essa vale non
soltanto per l’esperienza religiosa, ma
per l’esperienza in generale. Paradossale però è la via seguita: si elevano ora
alla coscienza e si sottopongono alla
sua lente proprio quelle sfere dell’irrazionale, le sole che finora l’intellettualismo non
aveva ancora toccato. A ciò conduce
infatti, in pratica, il moderno romanticismo intellettualistico
dell’irrazionale. Questa via per liberarsi dall’intellettualismo porta a un
risultato esattamente opposto al fine immaginato da coloro i quali la
percorrono. Che infine per un ingenuo ottimismo si sia celebrato nella scienza,
ossia nella tecnica per il dominio della
vita su di essa fondata, la via per giungere
alla felicità, posso passarlo sotto silenzio dopo la critica demolitrice
rivolta da Nietzsche a quegli ultimi
uomini i quali hanno trovato la felicità.
Chi ci crede più, tranne alcuni grandi
fanciulli sulle cattedre o nei comitati di redazione? Torniamo al punto di partenza. Dati questi
presupposti intrinseci, qual è il senso
della scienza come professione, dal
momento che sono naufragate tutte quelle precedenti illusioni la via per il raggiungimento del vero
essere, la via verso la vera arte, la
via verso la vera natura, la via verso
il vero Dio , la via verso la vera felicità ? La risposta più semplice è stata data da Tolstòj con
queste parole: essa è priva di senso perché non risponde alla sola
domanda importante per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere? Il fatto che non vi risponda è assolutamente
incontestabile. Si tratta soltanto di
domandarsi in quale senso non dia
nessuna risposta, e se in luogo di questa essa non possa per caso dare un qualche aiuto a chi si ponga la
questione nei suoi termini esatti. Oggi si suole sovente parlare di una scienza
senza presupposti. Ce n'è una? Dipende da quel che si vuol intendere. Presupposto di qualsiasi lavoro
scientifico è sempre la validità delle
regole della logica e della metodologia, di
questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo. Ora siffatti presupposti, per lo meno quanto
alla nostra questione particolare, non sono affatto problematici. Si
presuppone inoltre che il risultato del
lavoro scientifico sia importante nel
senso che sia degno di essere
conosciuto . E qui evidentemente hanno la loro radice tutti i nostri problemi.
Infatti questo presupposto non può
essere a sua volta dimostrato con i mezzi
della scienza. Può essere soltanto interpretato nel suo senso ultimo, che bisognerà accogliere o respingere
a seconda della personale posizione
ultima di fronte alla vita. Assai
diverso, inoltre, è il tipo di relazione del lavoro scientifico con questi suoi
presupposti, a seconda della loro struttura.
Le scienze naturali come la fisica, la chimica, l’astronomia, presuppongono come evidente che le leggi
ultime dell’accadere cosmico costruibili, fin dove arriva la scienza siano degne
di esser conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si possono raggiungere successi tecnici, ma se devono essere professione per se stesse . Questo presupposto a
sua volta non è assolutamente
dimostrabile; e meno che mai si può
dimostrare se il mondo da esse descritto sia degno di esistere, se cioè esso abbia un senso , e se abbia un senso esistere in esso. Di ciò quelle scienze non si
preoccupano. Oppure prendete un'arte pratica così sviluppata scientificamente
come la medicina moderna. Il presupposto
generale dell'esercizio della medicina è
in parole povere che sia
considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione
della vita e della riduzione al minimo della sofferenza. E ciò è problematico.
Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo, anche se
questi implora di essere liberato dalla vita, anche se la sua morte è e
dev'essere desiderata più o meno
consapevolmente dai suoi congiunti, per
i quali la sua vita è ormai priva di valore mentre insopportabili sono gli
oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dalla sofferenza (si
tratta, poniamo il caso, di un povero folle). Ma i presupposti della medicina e
il codice penale impediscono al medico di desistere. La scienza medica non si
pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le
scienze naturali dànno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se
vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se dobbiamo e vogliamo dominarla
tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia propriamente un senso, esso lo
lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro scopi.
Prendiamo, se volete, una disciplina come la scienza dell’arte. Il fatto che vi
siano opere d’arte costituisce, per l’estetica, un dato. Essa cerca di
stabilire a quali condizioni quel fenomeno si verifichi. Ma non si pone la
domanda se il dominio dell’arte non sia per avventura un regno di magnificenza
diabolica, un regno di questo mondo, e perciò intimamente opposto al divino e,
per il suo carattere intrinsecamente aristocratico, allo spirito di fraternità.
Essa non si domanda quindi se debbano esservi opere d’arte. Oppure prendiamo la
giurisprudenza: essa stabilisce ciò che è valido secondo le regole del pensiero
giuridico, in parte coercitivamente logico e in parte vincolato da schemi
convenzionali; vale a dire, stabilisce se sono riconosciute obbligatorie
determinate regole giuridiche e determinati metodi per la loro interpretazione.
Non decide se debba esservi il diritto e se debbano esser formulate proprio
quelle regole; essa può indicare soltanto che, se si vuol conseguire un
risultato, il mezzo appropriato per raggiungerlo ci è dato da questa regola
giuridica, secondo le norme del nostro pensiero giuridico. O prendete ancora le
scienze storiche della cultura. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni
della cultura politici, artistici,
letterari e sociali in base alle
condizioni del loro sorgere. Ma non rispondono di per sé alla questione se
questi fenomeni culturali fossero e siano degni di sussistere, e neppure
all’altra questione se valga la pena di conoscerli. Esse presuppongono che
abbia un interesse partecipare, mediante tale procedimento, alla comunità degli uomini civili . Ma che così stiano le cose,
esse non sono in grado di dimostrarlo
scientificamente a nessuno, e che
esse lo presuppongano non dimostra affatto che ciò sia evidente. E infatti non
lo è per nulla. Soffermiamoci ora su quelle discipline alle quali sono più vicino,
e cioè la sociologia, la storia, l'economia, la dottrina dello stato, e su
quelle forme di filosofia della cultura che si propongono di darne
un’interpretazione. Si afferma e io lo
MAX WEBER 793 sottoscrivo che la
politica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da parte degli
studenti. Io vorrei deplorare per esempio che nell’aula del mio vecchio collega
Dietrich Schéfer? a Berlino gli studenti pacifisti si accalcassero intorno alla
cattedra e facessero un chiasso simile a quello che devono aver inscenato gli
studenti anti-pacifisti davanti al professor Fòrster®, dalle cui opinioni le
mie divergono radicalmente in molti punti. Ma la politica non si addice
all'aula neppure da parte degli insegnanti: meno che mai quando l’insegnante si
occupa di politica dal punto di vista scientifico. Infatti la presa di
posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni e partiti
politici sono due cose diverse. Quando uno parla sulla democrazia in una
riunione popolare, non fa mistero della propria presa di posizione personale:
anzi, è questo il dannato obbligo e dovere, prender partito in modo chiaramente
riconoscibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso strumenti
di analisi scientifica, bensì mezzi di propaganda per trarre dalla nostra parte
gli altri. Esse non sono un vomere per smuovere il terreno del pensiero
contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una
lezione o in un'aula sarebbe un misfatto usare la parola in questa maniera. Se.vi
si parlerà di democrazia , si
osserveranno le sue diverse forme, si analizzerà il modo in cui esse
funzionano, si stabilirà quali siano le conseguenze particolari dell’una o
dell’altra per le condizioni della vita, e poi vi si contrapporranno le altre
forme non democratiche di organizzazione politica e si cercherà di giungere
fino al punto in cui l'ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione
secondo i suo: ideali ultimi. Ma il vero maestro si guarderà bene dal
sospingerlo, dall'alto della cattedra, a prendere una qualsiasi posizione, sia
esplicitamente sia con suggerimenti
poiché naturalmente il metodo più sleale è quello di far parlare i fatti. 7. Dietrich Schifer
(1845-1929), storico tedesco allievo di Treitschke, di oricntamento
nazionalistico, 8. Friedrich Wilhelm Forster, filosofo e pedagogista tedesco,
autore di Lebensfiihrung, di Autorità und Freiheit, di Erziechung und
Selbsterziehung, di Hauptaufgaben der Erziehung e di numerose altre opere di
argomento etico-pedagogico ed etico-politico, fu sostenitore del pacifismo e
quiodi oggetto di violenti attacchi da parte degli studenti nazionalisti. Ma
per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene ? Premetto che diversi
tra i miei stimatissimi colleghi sono del parere che una siffatta discrezione
non sia attuabile e che, se anche lo fosse, sarebbe follìa pretenderla. Ora a
nessuno può dimostrarsi scientificamente quale sia il suo dovere di professore
universitario. Da lui si può pretendere soltanto la probità intellettuale, per
cui sappia comprendere che la constatazione dei fatti, la determinazione di
rapporti matematici o logici o della struttura interna di beni culturali da una
parte e dall’altra la risposta alla
questione del valore della cultura e dei suoi contenuti particolari e quindi del modo in cui si deve agire
nell’ambito della comunità civile e dei gruppi politici sono due problemi assolutamente eterogenei.
Se poi egli domanda perché non debba trattarli entrambi nell'aula di lezione,
ecco la risposta: perché il profeta e il demagogo non si addicono alla
cattedra. Al profeta e al demagogo è stato detto: esci per le strade e parla
pubblicamente . Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula di lezione,
ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al
maestro parlare, e reputo una mancanza di senso di responsabilità approfittare
della circostanza che gli studenti sono obbligati dal programma di studi a
frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a
controbatterlo, per inculcare negli ascoltatori la propria personale concezione
politica invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le
proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche. Può certamente
avvenire che l'individuo riesca solo imperfettamente a nascondere le proprie
simpatie soggettive. Allora, egli si espone alla critica più spietata davanti
al foro della sua coscienza. E ciò d'altronde non prova nulla, poiché anche
altri errori puramente di fatto sono possibili e non possono contrastare al
dovere di ricercare la verità. Io mi rifiuto di ammetterlo anche e precisamente
per l'interesse puramente scientifico. Sono disposto a provare sulle opere dei
nostri storici che, ogni qual volta l’uomo di scienza mette innanzi il proprio
giudizio di valore, cessa la perfetta comprensione del fatto. Tuttavia, ciò
esula dal tema di questo discorso ed esigerebbe lunghe considerazioni critiche.
Io domando semplicemente: come può da una parte un cattolico credente e
dall’altra un massone in un corso sulle
forme di chiesa e di stato o sulla storia della religione come possono mai questi due esser condotti a
un’eguale valutazione di tali oggetti? È impossibile. Eppure, il professore
universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i
suoi metodi tanto all'uno come all’altro. Ora voi direte giustamente: neppure
riguardo ai fatti relativi all'origine del Cristianesimo il cattolico credente
potrà mai accettare l’opinio ne prospettatagli da un maestro che non condivida
i suoi presupposti dogmatici. Senza dubbio! Ma la differenza consiste nel fatto
che la scienza priva di presupposti ,
nel senso che riftuta ogni vincolo religioso, non riconosce di fatto, dal canto
suo, il miracolo e Ia rivelazione . Altrimenti essa tradirebbe
i propri presupposti . Il credente li
riconosce entrambi. E quella scienza
priva di presupposti non pretende
da lui meno ma anche niente di più del riconoscimento che bisogna seguire la via
tentata dalla scienza, se si vuol spiegare quell’avvenimento prescindendo da
quegli interventi soprannaturali, che per una spiegazione empirica devono
essere esclusi come momenti causali. Ciò il credente può ammetterlo senza
tradire la propria fede. Ma la funzione della scienza non avrà allora alcun
senso per chi è indifferente al fatto in quanto tale e reputa importante
soltanto la presa di posizione pratica? Forse sì. E anzitutto: un abile maestro
considererà suo primo compito insegnare ai propri allievi a riconoscere i fatti
scomodi, e cioè tali, intendo dire, che siano scomodi per la sua opinione di
partito; e per ogni partito per esempio
anche per il mio vi sono fatti del
genere, estremamente imbarazzanti. Credo che il professore universitario, se
avvezza i propri ascoltatori a questa necessità, compia una funzione non
soltanto intellettuale, ma oserei
dire una
funzione etica , per quanto una simile espressione possa suonar troppo
patetica applicata a un fatto così semplice e ovvio. Finora ho parlato soltanto
dei motivi pratici che consigliano di evitare di imporre una presa di posizione
personale. Ma non è tutto qui. L’impossibilità di presentare scientificamente una presa di posizione
pratica eccetto nel caso di una
discussione dei mezzi per uno scopo che si presuppone già dato deriva da
ragioni ben più profonde. Una simile impresa è in linea di principio priva di senso, in quanto
i diversi ordini di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta inconciliabile. Il vecchio Mill la cui filosofia non intendo peraltro lodare, ma che su questo punto ha
ragione dice in qualche luogo: partendo
dalla pura esperienza si giunge al politeismo. Il principio è formulato
superficialmente e sembra un paradosso, tuttavia contiene una qualche verità.
Di questo, se non altro, oggi siamo certi: che qualcosa può essere sacro non
soltanto anche senza essere bello, ma perché e in quanto non è bello (potrete
trovarne le prove nel cap. 53 del Libro di Isaia e nel Salmo 21) e che qualcosa
può essere bello non soltanto anche senza essere buono bensì in quanto non è
tale, come abbiamo imparato da Nietzsche e come anche prima potete trovare
illustrato nelle Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo volume di poesie;
ed è infine una verità di tutti i giorni che qualcosa può essere vero sebbene e
in quanto non sia bello, né sacro, né buono. Ma questi sono soltanto gli esempi
più elementari di tale lotta tra gli dèi che presiedono ai diversi ordinamenti
e valori. Come si possa fare per decidere
scientificamente tra il valore
della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro. Anche qui c'è un antagonismo tra
divinità diverse, per tutti i tempi.
Avviene come nel mondo antico, ancora sotto
l'incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad
Afrodite e ora ad Apollo, e ciascuno in
particolare agli dèi della propria città,
così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto della forza plastica, mitica ma intimamente vera, di
quell’atteggiamento. Su questi dèi e
sulle loro lotte domina il destino, non certo la scienza . È dato solamente intendere che
cosa sia il divino nell’uno e nell’altro
caso, ovvero in un ordinamento e nell’altro. Ma con ciò la questione è
assolutamente chiusa a qualsiasi
discussione in un’aula di lezione e per bocca di un insegnante, quantunque naturalmente non sia affatto
chiuso l’enorme problema di vita che vi è racchiuso. Qui però la parola spetta
a potenze diverse che non alle cattedre
universitarie. Chi vorrà provarsi a confutare scientificamente l’etica del Sermone della Montagna, per esempio
la massima: non far resistenza al male , oppure l’immagine del porgere l’altra
guancia? Eppure è chiaro che, dal
punto di vista intra-mondano, vi si predica
un'etica della mancanza di dignità: bisogna scegliere tra la dignità religiosa, che questa etica comporta,
e la dignità virile, che predica
qualcosa di ben diverso: devi far resistenza al
male, altrimenti sei anche tu responsabile se questo prevale . Dipende dalla propria presa di posizione rispetto
al fine ultimo che l’uno sia il diavolo
e l’altro il dio, e spetta all’individuo
decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita.
Il grandioso razionalismo della condotta etico-metodica della vita, che sgorga
da ogni profezia religiosa, aveva
detronizzato questo politeismo a favore
dell’ Uno, che è necessario, e poi, di fronte alle realtà della vita esteriore e interiore, si è
visto costretto a scendere a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che
tutti conosciamo dalla storia del
Cristianesimo. Ma ciò è oggi una realtà
quotidiana per la religione. Gli antichi
dèi, spogliati del loro incanto e perciò
ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare
sulla nostra vita e riprendono quindi la
loro eterna lotta. Ma ciò che per l’uomo moderno è appunto tanto difficile, e
sommamente difficile per la giovane generazione, è saper far fronte a siffatta
realtà quotidiana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’ esperienza
vissuta deriva da questa debolezza.
Infatti è una debolezza non poter tenere levato lo sguardo al volto severo del
destino dei tempi. Ma il destino della nostra cultura è appunto quello di
essere diventati oggi nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò che per
un millennio l’orientamento esclusivo
vero o presunto verso il
grandioso pathos dell'etica cristiana aveva celato ai nostri occhi. Ma basta ora con questi problemi che ci conducono
troppo lontano. Poiché, quando una parte
dei nostri giovani volesse dare a tutto
ciò questa risposta: già, ma noi veniamo
a lezione per ricavarne un'esperienza che non consista soltanto in analisi e in constatazioni di fatto , essi
incorrerebbero nell’errore di cercare nel professore qualcosa di diverso da ciò
che sta loro di fronte e cioè un capo e non un maestro. La
cattedra ci è conferita solamente in
qualità di maestri. Si tratta di due
cose ben diverse, e di ciò è facile convincersi. Permettetemi di condurvi ancora una volta in America, dove
queste cose si possono spesso vedere nella loro più pesante originarietà.
Il ragazzo americano impara
incomparabilmente meno del nostro. Nonostante un'incredibile quantità di esami,
il senso della sua vita scolastica non è
ancora diventato tale da ridurlo un
tipo da esami , come avviene per
il ragazzo tedesco. Infatti la burocrazia, la quale esige il diploma di esame
come biglietto d’ingresso nel regno delle prebende degli uffici, è laggiù
ancora agli inizi. Il giovane americano
non porta rispetto a nulla e a nessuno, a nessuna tradizione e a nessun
ufficio, salvo che alla prestazione personale: questa è per l’Americano la
democrazia, Per quanto la realtà possa
comportarsi pur sempre in maniera distorta rispetto a questo contenuto di
senso, esso risulta però tale e di questo
dobbiamo qui tener conto. Dell’insegnante che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli
mi vende le sue nozioni e i suoi metodi
per il denaro di mio padre, così come
l’erbivendola vende i cavoli a mia madre. Con ciò è detto tutto. Tuttavia, se il maestro è per avventura
un alipone di football, in questo campo
egli è anche un capo. Ma se non è tale
(o qualcosa di simile in altri sport), egli è semplicemente un insegnante e nulla più, e a nessun giovane
americano verrà in mente di farsi
vendere da lui delle intuizioni del
mondo o delle regole per la sua
condotta di vita. Ora, noi respingeremo una simile opinione formulata in questi
termini. Bisogna però domandarsi se in
questo modo di sentire, che di proposito ho voluto spingere all'estremo, non si
annidi un nocciolo di verità. Fratelli d'armi e sorelle d'armi! Voi venite
alle nostre lezioni con la pretesa di trovare in noi qualità di capi, senza
aver riflettuto che, di cento
professori, almeno novantanove non pretendono e non possono pretendere di
essere non soltanto campioni di football della vita, ma neppure in generale
capi nelle faccende della condotta della
vita. Pensate che il valore dell'uomo
non dipende certo dal fatto di possedere le doti di un capo. E comunque, le qualità che fanno di
qualcuno un eminente studioso e un
professore universitario non sono quelle
stesse che ne fanno un capo sul terreno dell’orientamento pratico della vita o,
più specificamente, della politica. È un puro caso che qualcuno possegga anche
questa qualità, ed è una cosa assai preoccupante quando chiunque stia in
cattedra si sente posto di fronte alla pretesa che egli la possegga. E ancor più preoccupante, poi, è quando a ogni
professore universitario viene data facoltà di assumere nell’aula la posizione
di un capo. Infatti coloro che si
ritengono di esserlo più degli altri lo
sono spesso meno di tutti; ma soprattutto la cattedra non può offrire alcuna possibilità di
conferma. Il professore che si senta
chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda della loro fiducia, dovrà procurare di
mettersi alla prova discutendo con loro in un rapporto personale da uomo a
uomo. E se si sente chiamato a
partecipare alle lotte tra le intuizioni del
mondo e le diverse opinioni di partito, lo faccia al di fuori, nell’agone della vita: nella stampa, nelle
assemblee, nei circoli, dove gli pare. È
troppo comodo però dar prova del proprio
coraggio di confessore della fede là dove gli astanti, e fors'anche
quelli di diversa opinione, sono condannati al silenzio. Voi mi porrete infine la domanda: se così
stanno le cose, che offre allora la
scienza di veramente positivo per la vita
pratica e personale? E con ciò siamo daccapo al problema della vostra
professione . Anzitutto, naturalmente, la scienza offre cognizioni sulla tecnica per padroneggiare la
vita, rispetto agli oggetti esterni e
rispetto all’agire dell’uomo, mediante la previsione razionale: ebbene, voi
replicherete che con ciò siamo pur sempre
al punto dell’erbivendola del ragazzo americano. Sono perfettamente della vostra opinione. Ma c’è
in secondo luogo qualcosa che
quell’erbivendola non è tuttavia capace di fare: i metodi del pensare, l’attrezzatura e
l'addestramento a quello scopo. Direte
forse che, se questi non sono proprio gli ortaggi, non sono tuttavia più che i semplici mezzi
per procurarseli. Bene, diamolo oggi per
ammesso. Ma fortunatamente la funzione della scienza non è ancora finita, bensì
noi siamo in condizione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la
chiarezza. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se questo è il caso, possiamo renderlo chiaro: rispetto
al problema del valore, intorno al quale
sempre ci si aggira per comodità vi prego di riferirvi, come esempio, ai fenomeni
sociali — si possono prendere
praticamente diverse posizioni. Se si assume
l’una o l’altra, bisogna applicare — secondo le esperienze della scienza — certi mezzi o certi altri per
attuarla praticamente. Ora questi mezzi
possono essere di per sé tali che voi crederete di doverli respingere. Allora,
bisogna appunto scegliere tra lo scopo e
i mezzi indispensabili. Lo scopo giustifica o no questi mezzi? L'insegnante può mostrarvi la
necessità di questa scelta, ma non può
fare di più, in quanto voglia rimanere
insegnante e non diventare un demagogo. Naturalmente, può ancora dirvi: se volete questo o quell'altro
scopo, dovete mettere in conto anche questa o quell’altra conseguenza
concomitante che si verifica in conformità all'esperienza; la situazione, cioè, è sempre la medesima. Tuttavia, tutti
questi sono pur sempre problemi del
genere di quelli che possono sorgere anche per ogni tecnico, il quale in
innumerevoli casi deve decidere secondo il principio del minor male o del
meglio relativo. Ma per lui una cosa,
quella principale, è di solito già data: lo
scopo. Non così avviene per noi, non appena siano in questione problemi realmente ultimi . E con ciò siamo giunti alla funzione
più alta che la scienza in quanto tale può assolvere in servizio della chiarezza, e
contemporaneamente anche ai suoi
confini. Noi possiamo — e dobbiamo — anche dirvi: questa o quest'altra
posizione pratica può essere derivata con
intima coerenza e quindi con serietà, per quanto riguarda il suo senso, da questa o da quest'altra
fondamentale concezione del mondo — magari
da una soltanto o forse anche da più —
ma non mai da quell'altra. Voi servite questo dio — per parlar figuratamente — e offendete
quell'altro, se vi risolveteper questa presa di posizione. Infatti perverrete
necessariamente a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di senso, se
rimarrete fedeli a voi stessi. Quest'opera, almeno in linea di principio, può
esser compiuta. A ciò tendono la disciplina speciale della filosofia e le
discussioni di principio, per loro essenza filosofica, delle singole
discipline. Possiamo quindi, se abbiamo ben capito il nostro compito (il che
dev’esser qui presupposto), costringere l'individuo — o almeno aiutarlo — a
renderst conto del senso ultimo del suo proprio operare. Questo non mi sembra
sia troppo poco, anche per la vita puramente personale. Di un insegnante che
riesca in questo compito sarei tentato di dire che si è messo al servizio di
potenze etiche, del dovere di promuovere la chiarezza e il senso di
responsabilità, e credo che ne sarà tanto più capace quanto più
coscienziosamente eviterà di fornire bell'e pronta o di suggerire per proprio
conto all'ascoltatore una presa di posizione. Senza dubbio la soluzione che qui
vi ho prospettato riposa su questo fondamentale dato di fatto: che la vita, in
quanto deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in base a se stessa,
conosce soltanto la lotta eterna di quelle divinità tra loro — cioè, fuor di
metafora, l’inconciliabilità e quindi l’insolubilità della lotta tra le
posizioni ultime possibili in generale rispetto alla vita, vale a dire la
necessità di decidere per l’una o per l’altra. Se in queste condizioni la
scienza sia degna di diventare una professione
e se essa stessa costituisca una
professione fornita di valore
oggettivo ecco un altro giudizio di
valore sul quale non è dato pronunciarsi nell’aula di lezione. Per l'insegnamento,
infatti, la risposta affermativa è un presupposto. Io personalmente, col mio
stesso lavoro, rispondo affermativamente. E ciò vale anche per quel punto di
vista che la gioventù oggi professa, o
meglio che per lo più s'immagina semplicemente di professare il quale odia l’intellettualismo come il più
nero dei diavoli. Giacché ad esso si conviene il detto: il diavolo è vecchio,
pensateci: invecchiate e lo capirete °. Ciò non s'intende nel senso dell’atto
di nascita, ma nel senso che, anche riguardo a questo diavolo, se si vuol farla
finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come oggi si fa così volentieri,
ma bisogna scrutare bene a fondo tutte le sue vie prima di poter vedere la sua
potenza e i suoi confini. Che la scienza sia oggi una professione
spectalizzata, posta al servizio dell’auto-riflessione e della conoscenza di
situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di
mezzi di salvezza e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e
filosofi sul serso del mondo è
certamente un dato di fatto ineluttabile dalla nostra situazione storica, al
quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire. E se di
nuovo sorge in voi Tolstò) a domandare: se dunque non è la scienza a farlo, chi
risponde allora alla domanda: che cosa dobbiamo fare? e come dobbiamo dirigere
la nostra vita? , oppure, nel linguaggio che testé 9. Goetne, Faust, vv.
6817-18 (tr. it. di F. Fortini). abbiamo usato:
quale degli dèi in lotta dobbiamo servire? o forse qualcun altro, e chi
mai? , bisogna dire che la risposta spetta a un profeta o a un redentore. Se
questi non è tra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a
farlo scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori tentino di
rubargli il mestiere nelle loro aule di lezione, come tanti piccoli profeti
privilegiati o pagati dallo stato. Ciò servirà soltanto a nascondere tutto
l'enorme peso del significato del fatto decisivo, che cioè il profeta, che
invocano tanti della nostra più giovane generazione, zon esiste. L'interesse
interiore di un uomo davvero musicale in senso religioso non sarà mai e poi mai
soddisfatto, io credo, dall’espediente per cui si cerca di nascondergli con un
surrogato come sono tutti questi falsi
profeti in cattedra il fatto
fondamentale che il destino gli impone di vivere in una epoca lontana da Dio e
priva di profeti. La serietà del suo sentimento religioso dovrebbe, mi sembra,
ribellarvisi. Ora, voi sarete indotti a domandare: ma come ci si deve
comportare di fronte al fatto dell’esistenza della teologia
e delle sue pretese a porsi come
scienza? Cerchiamo di non sottrarci alla risposta. Teologia e
dogmi non si trovano certo sempre
e ovunque, ma neppure esclusivamente nel Cristianesimo. Li incontriamo
(guardando dietro di noi nel tempo) in forme molto sviluppate anche nell’Islam,
nel Manicheismo, nella Gnosi, nell’Orfismo, nel Parsismo, nel Buddismo, nelle
sette indù, nel Taoismo, nelle Uparishad e naturalmente anche nell’Ebraismo.
Com'era naturale, essi sono sviluppati sistematicamente in misura assai
diversa. E non è un caso che non soltanto il Cristianesimo occidentale li abbia
costruiti, o tenda a costruirli in forma più sistematica a differenza della teologia, per esempio,
dell’Ebraismo ma anche che il loro
sviluppo abbia avuto qui un significato storico di gran lunga più importante. È
questo un prodotto dello spirito greco, dal quale deriva tutta la teologia
dell’Occidente come (evidentemente) tutta la teologia orientale deriva dal
pensiero indiano. Ogni teologia consiste nella razionalizzazione intellettuale
del patrimonio religioso della salvezza. Nessuna scienza è assolutamente priva
di presupposti e nessuna può stabilire il fondamento del proprio valore per chi
rifiuti tali presupposti. Tuttavia, ogni teologia aggiunge alcuni presupposti
specifici per il proprio lavoro e quindi per la giustificazione della propria
esistenza. In diverso senso e con diversa portata. Per ogni teologia, per
esempio anche per quella induistica, vige il presupposto che il mondo deve
avere un senso; e la questione da risolvere è la seguente: come bisogna
interpretarlo, perché ciò possa esser concepito? In modo del tutto simile alla
teoria della conoscenza di Kant, la quale muoveva dal presupposto che c'è una
verità scientifica, ed essa vale e
quindi si domandava: in virtù di quali condizioni del pensiero ciò è possibile
(in modo dotato di senso)? Oppure al modo degli estetici moderni i quali
(esplicitamente come per esempio Georg
von Lukics!” oppure di fatto) muovono
dal presupposto che vi sono opere d’arte e si domandano: come ciò è possibile (in modo
dotato di senso)? Tuttavia, le teologie non si accontentano di regola di quel
presupposto (appartenente essenzialmente alla filosofia della religione); esse
muovono di regola dal presupposto ancor più remoto per cui determinate rivelazioni devono essere assolutamente
credute in quanto fatti che rivestono un’importanza per la salvezza come tali, cioè, che soli rendono possibile
una condotta nella vita dotata di senso
e per cui determinati modi di essere e di agire possiedono la qualità
della santità, ossia costituiscono una condotta di vita dotata di senso
religioso o sono elementi di questa. La domanda che si pone la teologia è
allora di nuovo: come possono essere interpretati in modo dotato di senso,
nell’ambito di un'immagine complessiva del cosmo, questi presupposti che vanno
accettati in modo assoluto? Quei presupposti sì trovano per la teologia al di
là di ciò che è scienza. Essi non sono un sapere nel senso corrente, bensì
un possedere . Non possono esser
sostituiti la fede o gli altri stati di
grazia da nessuna teologia, per chi non
li possieda . Meno che mai, poi, da
un’altra scienza. Anzi, in ogni teologia
positiva il credente giunge al
punto dov'è valida la massima agostiniana: credo non quod, sed quia absurdum
est. La capacità di compiere questo estremo
sacrificio dell’intelletto
costituisce il carattere decisivo dell’uomo che appartiene a una
religione 10. Weber si riferisce qui ai primi volumi di Lukics, Die Seele und
die Formen (1911) e Die Thcorie des Romans (1916). positiva. E così stando le
cose, è chiaro che, ad onta (o piuttosto in conseguenza) della teologia (che
svela questo stato di cose), la tensione tra la sfera di valore della scienza e
quella della salvezza religiosa è insuperabile. Il sacrificio dell'intelletto
lo compie, com'è naturale, il discepolo al profeta e il credente alla chiesa.
Ma non è ancora mai sorta una nuova profezia
riprendo qui di proposito questa immagine che ha urtato molte
suscettibilità semplicemente per il
fatto che molti intellettuali moderni abbiano sentito il bisogno di arredare,
per così dire, la loro anima con oggetti antichi garantiti come autentici, e si
siano ricordati in quest'occasione che tra questi vi è anche la religione, che
essi certamente non possiedono, ma che sostituiscono con una specie di cappella
privata addobbata come per gioco con immagini sacre di tutti i paesi, oppure
con ogni sorta di esperienze vissute alle quali conferiscono la dignità di un
patrimonio mistico di salvezza e che vanno a vendere in piazza. Tutto ciò è
semplicemente ciarlataneria o auto-illusione. Ma non è davvero una
ciarlataneria, bensì qualcosa di assai serio e sincero quantunque non esente, talvolta, da qualche
fraintendimento del suo stesso significato
il fatto che alcune di quelle comunità di giovani, sorte nel silenzio di
questi ultimi anni, diano alle loro relazioni reciproche il senso di un legame
religioso, cosmico o mistico. È vero che ogni atto di genuina fratellanza può
connettersi con la consapevolezza che con ciò viene in certo qual modo
accumulato in un dominio sovra-personale qualcosa che non andrà perduto; ma
altrettanto mi sembra dubbio che la dignità delle relazioni puramente umane tra
i membri di una comunità venga elevata attraverso siffatte interpretazioni
religiose. Tuttavia, questo non rientra
più nel nostro tema. È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica
razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo
disincantamento del mondo, che proprio i valori ultimi e più sublimi siano
diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extra-mondano
della vita mistica o nella fraternità di relazioni immediate tra gli individui.
Non è accidentale che la nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e
che oggi soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da uomo a
uomo, nel piazissimo, palpiti quell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava
come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità. Proviamoci
a forzare e a inventare un senso monumentale dell’arte, ed ecco nascere un
pietoso aborto come quello dei numerosi monumenti commemorativi degli ultimi
vent'anni. Qualcosa di simile si riproduce nella sfera interiore, con effetti
ancor più deleteri, se si cerca di escogitare nuove formazioni religiose senza
una nuova genuina profezia. E la profezia formulata dalla cattedra potrà forse
dar vita a sette fanatiche, mai però a un'autentica comunità. A chi non sia in
grado di affrontare virilmente questo destino della nostra epoca bisogna
consigliare di tornare in silenzio, senza la consueta conversione
pubblicitaria, ma schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chiese,
largamente e misericordiosamente aperte. Esse non gli rendono il passo
difficile. Comunque, egli dovrà in qualche modo compiere è inevitabile
il sacrificio dell’intelletto .
Non glielo rimprovereremo, se egli ne sarà realmente capace. Infatti un simile
sacrificio dell’intelletto in favore di un’incondizionata dedizione religiosa è
pur sempre qualcosa di moralmente diverso da quel modo di evitare la semplice
probità intellettuale che si verifica quando, non avendo il coraggio di
rendersi chiaramente conto della propria posizione ultima, si allevia questo
dovere con una debole relativizzazione. E lo considero anche più rispettabile
di quella profezia dalla cattedra che non ha capito che entro le pareti
dell’aula di lezione nessun'altra virtù ha valore al di fuori della semplice
probità intellettuale. Questa ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti
coloro i quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si trovano
nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto della sentinella idumèa
durante il periodo dell’esilio, che si legge nell’oracolo di Isaia: Una voce
chiama da Seir in Edom: sentinella quanto durerà ancora la notte? E la
sentinella risponde: verrà il mattino e anche la notte; se volete domandare,
tornate un’altra volta !. Il popolo, al
quale veniva data questa risposta, ha domandato e atteso ben più di due
millenni, e sapIr. Isaia, cap. 21, 11-12. 716 piamo il suo tragico destino. Ne
vogliamo trarre insegnamento che anelare e attendere non basta, e ci
comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo
al compito quotidiano nella nostra qualità di uomini e nella nostra
attività professionale. Ciò è semplice e facile quando ognuno abbia trovato e
segua il démone che tiene i fili della sua Vita. SPENGLER nascue a Blankenburg,
ai confini della Sassonia, figlio di un ingegnere minerario e di una madre con
forti inclinazioni artistiche. Dopo aver compiuto gli studi liceali a Halle,
frequenta le università di Monaco, di Berlino e di Halle. Consegue il dottorato
a Halle, con una dissertazione sul pensiero d’Eraclito. Insegna al liceo di
Amburgo; dopo di che si trasfere a Monaco. Durante la grande guerraSpengler si
dedica alla stesura della sua opera maggiore, Der Untergang des Abendlandes, di
cui il primo volume compare al termine del conflitto (Miinchen; tr. it.
Milano). Il titolo di quest'opera che
incontra subito un enorme successo
esprime la sua connessione con il clima politico della sconfitta
tedesca: il crollo della Germania si traduce nel tramonto
della civiltà occidentale, interpretato come il necessario momento di
decadenza a cui ogni cultura è condannata. I presupposti filosofici generali
dell’opera di Spengler possono essere rintracciati per un verso nel pensiero di
Dilthey sviluppato in senso
relativistico e per l’altro verso in
Goethe e in Nietzsche, i due autori di Spengler. Da Dilthey deriva la
rivendicazione di una via di accesso alla storia che sia irriducibile al metodo
della scienza naturale, così come deriva l'affermazione del carattere storico
di tutte le manifestazioni del mondo umano. Spengler non soltanto accoglie
l’antitesi tra due modi di considerare la realtà, ma dà alla distinzione tra
natura e storia un rilievo ontologico; d'altra parte egli si richiama alla tesi
diltheyana dell’auto-centralità delle epoche storiche, applicandola alle
culture e facendo così di ogni cultura un organismo chiuso in se stesso, privo
di rapporto con le altre culture. Da Goethe deriva invece la prospettiva
biologica in base alla quale la storia viene interpretata come un processo
organico, contrapposto all’uniformità delle vicende naturali nel cui ambito
vale il principio di causalità: la natura vivente di Goethe si trasforma
nel mondo come storia , definito in
antitesi al mondo come natura, e la sua
logica è intesa come una logica organica, eterogenea alla logica meccanica
della natura. Da Nietzsche, infine, deriva lo schema ciclico di interpretazione
della storia, per cui il processo di ogni cultura appare come la ripetizione di
un processo sempre eguale: la dottrina dell'eterno ritorno viene tradotta
nell’affermazione dell'identità del ciclo biologico degli organismi elementari
della storia, cioè delle culture. Queste diverse componenti confluiscono in una mescolanza talvolta eclettica a costituire l'impianto teorico di Der
Untergang des Abendlandes. In base ad esse Spengler si propone di dimostrare
che ogni cultura, essendo un organismo biologico, nasce, si sviluppa, decade e
muore, secondo la legge ineluttabile della sua specie: perciò ogni cultura anche quella dell'Occidente è destinata, a un certo momento, a perire. E
nulla valgono gli sforzi degli uomini rivolti a sottrarla a questa sorte,
poiché la logica organica della storia incarna il volere del destino, al quale
l’uomo non può che sottomettersi. Però, se il ciclo evolutivo è comune a tutte
le culture, diverso è il patrimonio biologico di ognuna: ogni cultura dà
origine a un proprio mondo simbolico, le cui manifestazioni valgono soltanto
all’interno di essa e non sono partecipabili dai membri delle altre culture. Da
ciò la conclusione relativistica a cui Spengler perviene: tra le culture non è
possibile alcuna comunicazione, poiché non vi sono valori comuni tra di esse.
Ogni cultura crea i propri valori, che sono del tutto diversi da quelli delle
altre culture. In questo quadro la civiltà occidentale si presenta come una
cultura particolare ormai pervenuta al proprio tramonto, e inarrestabilmente
avviata alla fine. Analizzando i fenomeni politico-economici che caratterizzano
il mondo contemporaneo l'affermazione
della classe borghese, il prevalere dell'economia sulla politica, la
dernocrazia, l’organizzazione capitalistica
Spengler cerca di porre in luce i sintomi di questa decadenza, in virtù
della quale la civiltà occidentale si presenta non più come una cultura
ma come una civiltà in declino , ossia come una Zivilisation. Il tentativo
di costruire una morfologia della storia universale (come Spengler definisce la
sua impresa filosofica) mette così capo alla profezia, in chiave pessimistica,
dell'imminente conclusione del ciclo storico della civiltà occidentale. Benché
oggetto di numerose critiche e confutazioni, l’opera di Spengler ebbe una larga
accoglienza positiva, e le sue idee contribuirono in misura rilevante a
preparare quel clima ideologico da cui trarrà origine e alimento il nazismo.
Nei volumi successivi a Der Untergang des Abendlandes da Preussentum und Sozialismus (Miinchen,
1919) a Politische Pflichten der deutschen ]ugend (Miinchen, 1924) e a Neubau
des deutschen Reiches (Miinchen, 1924), e poi ancora da Der Mensch und die
Technik (Miinchen, 1931; tr. it. Milano, 1931) a Jahre der Entscheidung
(Miinchen, 1933; tr. it. Milano)
Spengler conduce un'aspra polemica contro il liberalismo, il regime
parlamentare, i partiti politici, affermando la necessità di restaurare
l’autorità dello stato e di dar vita a un socialismo coerente con la tradizione
prussiana. È pur vero che egli non aderì mai al nazismo; ma l'opposizione alla
repubblica di Weimar e l’esaltazione del primato della politica, della
superiorità della razza bianca, del cesarismo, ne fanno uno dei padri
ideologici del regime. Negli ultimi anni Spengler vive ritirato, ritornando sui
temi della morfologia della storia universale e dedicando una particolare
attenzione al passaggio dalla preistoria alla storia e all’origine delle
culture: questi scritti, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubblicati
soltanto in epoca recente (Urfragen, Miinchen, 1965; tr. it. Milano, 1971; e
Friihzeit der Weltgeschichte, Minchen, 1966). Muore a Monaco l'8 maggio 1936.
Di Der Untergang des Abendlandes esiste una recente riedizione in un volume,
Miinchen, 1963, 19697, nonché un’edizione economica nei Deutsche Taschenbiicher , 1973; anche Der
Mensch und die Technik è stato ristampato nel 1971. Gli altri scritti del
periodo 1919-24 sono stati raccolti nel volume Politische Schriften, Miinchen,
1933. Ai volumi già menzionati si devono aggiungere le Reden und Aufsitze (a
cura di H. Kornhardt), Minchen, 1937, 1938 ?, 1951° che comprende anche Preussentum und
Sozialismus e i Gedanken (a cura di H.
Kornhardt), Miinchen, 1941. L'epistolario di Spengler è stato pubblicato col
titolo Briefe (a cura di A. M. Koktanek,
in collaborazione con M. Schròter), Minchen, 1963. Sul dibattito a cui diede
origine la pubblicazione di Der Untergang des Abendlandes riferisce ampiamente
M. ScHnòrER, Die Streit um Spengler, Miinchen, 1922, ora ristampato come prima
parte di Metaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie tiber Oswald
Spengler), Miinchen, 1949. Tra la vasta letteratura critica concernente l’opera
e il pensiero di Spengler segnaliamo gli studi seguenti: Logos , IX, 1920-21, n. 2 (fascicolo speciale
dedicato a Spengler), con articoli di K. JoéL, E. ScHwartz, W. SpreceLBere, L.
Curtius, E. Frank, E. Mezcer. T. L. Harins, Die Struktur der Weltgeschichte, Tibingen, 1921. A.
Messer, Oswald Spengler als Philosoph, Stuttgart, 1922. A. Fauconnet, Oswald
Spengler, Paris, 1925. R. G. Corrinewoon, Oswald Spengler and the Theory of
Historical Cycles, Antiquity: a Quaterly
Review of Archaeology , I, 1927, pp. 311-25 € 435-46. V. Bronio-BroccHieri, Spengler. La dottrina politica
del pangermanesimo post-bellico, Milano, 1928. tr A. G. . Fenvre, De Spengler à Toynbee:
quelques philosophies opportunistesde l’histoire, Revue de métaphysique et de morale Giusso,
Spengler e la dottrina degli universi formali, Napoli, 1936. . Gaune, Spengler und die
Romantik, Berlin, 1937. Scunoter, Mesaphysik des Untergangs (Eine
kulturkritische Studie ber Oswald Spengler), Miinchen, 1949. S. Hucnes, Oswald
Spengler: a Critical Estimate, New York, 1952. . Barrzer, Oswald Spenglers
Bedeutung fiir die Gegenwari, NeheimHiisten, 1959. . Stutz, Oswald Spengler als
politischer Denker, Bern, 1959. A. Waismann, E? historicismo contemporaneo:
Spengler, Troeltsch, Croce, Buenos Aires, 1960, parte I. Barrzer, Philosoph
oder Prophet? Oswald Spenglers Vermichtnis und Voraussagen, Neheim-Hiisten,
1962. Mitter, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Geschichtswissenschaft, Zeitschrift fir philosophische Forschung,
XVII, 1963, pp. 483-98. Spengler-Studien: Festgabe fiir Manfred Schròter zum
85. Geburtstag (a A. cura di A. M. Koxraner), Miinchen, 1965. M. Koxraner,
Oswald Spengler in seiner Zeit, Miùnchen, 1968. Un elenco completo degli scritti di Spengler è dato da
A. M. KorraNEK, Oswald Spengler in seiner Zeit. Manca invece una bibliografia
aggiornata degli scritti su Spengler: si vedano però le indicazioni contenute
nei volumi sopra menzionati di M. ScHRòTER e di H. S. HucHs. È ora finalmente
possibile compiere il passo decisivo e abbozzare un'immagine della storia non
più dipendente dalla posizione accidentale dell’osservatore in un determinato presente
il suo presente e dalla sua
qualità di membro interessato di una particolare cultura, le cui tendenze
religiose, spirituali, politiche, sociali lo inducono a ordinare il materiale
storico sulla base di una prospettiva temporale e spazialmente delimitata, e a
imporre quindi a ciò che è accaduto una forma arbitraria e superficiale, ad
esso intimamente estranea. Ciò che finora mancava era la distanza dall’oggetto.
Nei confronti della natura essa era stata acquisita da lungo tempo; ma qui era
anche più facile acquisirla. Il fisico traccia il quadro meccanico-causale del
suo mondo come cosa ovvia, come se egli non esistesse affatto. La stessa cosa è
però possibile anche nel mondo formale della storia. Fino ad oggi noi non lo
sapevamo. Caratteristico degli storici moderni è l'orgoglio dell'oggettività;
ma con ciò essi tradiscono quanto poco siano consapevoli dei propri pregiudizi.
Perciò si può forse dire (e lo si farà in avvenire) che è fino ad oggi mancata
una reale considerazione della storia di stile faustiano, ossia una
considerazione che possegga la di* Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer
Morphologie der Weltgeschichte, cap. I: Das Problem der Weltgeschichte, sezione
1: Physiognomik und Systematik, Miinchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung,
ed. definitiva 1923, vol. I, pp. 125-151 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro
Rossi, autorizzata, per gentile concessione della Casa Editrice Longanesi).
stanza sufficiente per osservare, nell'immagine complessiva della storia
universale, anche il presente che è tale
solo in rapporto a una delle innumerevoli generazioni umane come qualcosa di infinitamente distante ed
estraneo, come un lasso di tempo che non ha un peso maggiore di tutti gli
altri, senza il criterio falsificante di qualche ideale, senza il riferimento a
se stessi, senza desiderio, preoccupazione e intima personale partecipazione,
come li pretende la vita pratica; una distanza, quindi, che consenta per dirla con Nietzsche, che però non la
possedeva a sufficienza di considerare
il fatto uomo da una lontananza immensa; un colpo d’occhio sulle culture, anche
sulla propria, come quello che si dà sulla serie di vette di una catena di
montagne all’orizzonte. Per far questo bisognava, ancora una volta, portare a
compimento un'impresa simile a quella di Copernico, una liberazione
dall’apparenza in nome dello spazio infinito come quella che da tempo lo
spirito occidentale aveva compiuto nei confronti della natura, allorché passò
dal sisterna tolemaico del mondo al sistema che oggi è il solo per lui valido,
eliminando in tal modo come formalmente determinante la posizione accidentale
dell'osservatore su un particolare pianeta. La storia universale è
suscettibile, e ha bisogno, del medesimo distacco da una posizione di
osservazione accidentale dall’ età moderna
. Certo, il secolo x1x ci appare infinitamente più ricco e importante che non,
per esempio, il secolo xIx avanti Cristo; ma anche la Luna ci sembra più grande
di Giove e di Saturno. Da lungo tempo il fisico si è liberato dal pregiudizio
della distanza relativa; non così lo storico. Noi ci permettiamo di designare
la cultura dei Greci come antichità in rapporto alla nostra età moderna. Lo era
forse anche per i raffinati Egizi alla corte del grande Thutmosi!, che si
trovavano al culmine del loro sviluppo storico
un millennio prima di Omero? Per noi gli avvenimenti che si sono svolti
dal 1500 al 1800 sul terreno dell'Europa occidentale riempiono il terzo più
importante della storia universale. Per lo storico cinese che
1. Thutmosi (o Tutmosi) III, faraone della Diciottesima dinastia vissuto
intorno al 1600 a. C., sotto il cui regno la potenza egiziana raggiunse il suo
culmine, estendendosi fino alla Siria e a Cipro. guarda indietro ai quattromila
anni di storia cinese e giudica in base ad essa, non sono che un breve e poco
significativo episodio, neppure lontanamente così importante come i secoli
della 10, Depp dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) che fanno epoca nella sua
storia universale . L'intento delle pagine che seguono è di svincolare la
storia dal pregiudizio personale dell’osservatore, che nel nostro caso la
riduce essenzialmente alla storia di un frammento del passato, assumendo come
fine ciò che è accidentalmente presente ’ P nell'Europa occidentale, e come
criteri di ciò che è stato raggiunto e dev'essere raggiunto gli ideali e gli
interessi validi in questo particolare momento. II Natura e storia: in questo
modo si contrappongono tra loro, agli occhi di ogni uomo, le due possibilità
estreme di ordinare in un'immagine del mondo la realtà circostante. Una realtà
è natura in quanto subordina ogni divenire al divenuto, è storia in quanto
subordina ogni divenuto al divenire. Una realtà può essere vista nella sua
forma ricordata così sorge il mondo di
Platone, di Rembrandt, di Goethe, di Beethoven
oppure può essere concepita criticamente nella sua esistenza sensibile
presente ed ecco i mondi di Parmenide e
di Descartes, di Kant e di Newton. Conoscere, nel senso rigoroso del termine, è
quell’atto dell'esperienza vissuta il cui risultato compiuto si chiama natura. Il conosciuto e la natura sono
identici. Ogni conosciuto è equivalente
come dimostra il simbolo del numero matematico a ciò che è meccanicamente limitato, a ciò
che è esatto una volta per sempre, a ciò che è posto. La natura è il complesso
di ciò che è necessario in virtà di leggi: vi sono soltanto leggi maturali.
Nessun fisico che sia consapevole della propria funzione vorrà procedere al di
là di questo limite. Il suo compito è quello di determinare la totalità, il
sistema ben ordinato di tutte le leggi che si possono ritrovare nell'immagine
della su4 natura e, più precisamente, che rappresentano in maniera esauriente e
senza residuo l’immagine della sua natura. D'altra parte l'intuire e rimando al detto di Goethe: l’intuire va
ben distinto dal guardare ? è quell’atto
dell’esperienza vissuta che, in quanto si compie, è esso medesimo storia. Ciò
che viene immediatamente vissuto è l’accaduto, è storia. Ogni accadere è
singolare e irripetibile. Esso reca in sé la caratteristica della direzione
(del tempo), dell’irreversibili tà. L’accadere, contrapposto come ormai
divenuto al divenire, come realtà irrigidita alla realtà vivente, appartiene
irrevocabilmente al passato: il sentimento di ciò è l'angoscia cosmica. Ogni
cosa conosciuta è però atemporale, né passata né futura, bensì semplicemente
esistente e perciò di validità
permanente. Questa è la struttura interna di ciò che è oggetto di leggi
naturali. La legge ciò che è posto è anti-storica; essa esclude il caso. Le
leggi naturali sono forme di una necessità priva di eccezione, e quindi
inorganica. È chiaro il motivo per cui la matematica, come ordine quantitativo
del divenuto, si riferisce sempre alle leggi e alla causalità, e soltanto ad
esse. Il divenire non ha numero .
Soltanto ciò che è privo di vita e il
vivente soltanto se si prescinde dal suo essere vivente può venir contato, misurato, analizzato. Il
puro divenire, la vita, è in questo senso illimitato. Esso si pone oltre
l'ambito della causa e dell’effetto, della legge e della misura. Nessuna
profonda e genuina ricerca storica va in cerca della legalità causale; in caso
diverso non ha compreso la sua essenza più propria. E tuttavia la storia
osservata non è puro divenire; essa è un'immagine, una forma del mondo che
irradia dall’essere desto dell'osservatore, e nella quale il divenire domina il
divenuto. È sulla presenza in essa del divenuto, e quindi su una deficienza,
che poggia la possibilità di ricavarne scientificamente qualcosa; e quanto
maggiore è tale presenza, tanto più essa appare meccanica, intellettualistica,
causale. Anche la natura vivente di Goethe
un'immagine del mondo completamente estranea alla matematica conteneva tanto di morto e di rigido da
poterne trattare scientificamente almeno la facciata. Se questo contenuto
diminuisce molto, se essa è prossima al 2. Goerne, Lettera a Wilhelm von
Humboldt del 3 dicembre 1795. puro divenire, allora l’intuire è divenuto un
puro Erlebnis che consente soltanto modi di elaborazione artistica. A ciò che
vide con il proprio occhio spirituale come destino dei mondi, Dante non avrebbe
potuto dare forma scientifica; neppure Goethe avrebbe potuto darla a ciò che
scorse nei grandi attimi del suo abbozzo faustiano; e altrettanto poco Plotino
e Giordano Bruno alle loro visioni, che non sono state il risultato di
ricerche. Qui sta la causa più importante del conflitto concernente la forma
intima della storia. Di fronte allo stesso oggetto, allo stesso materiale di
fatti, ogni osservatore ha, secondo la sua disposizione, una diversa impressione
della totalità, inafferrabile e incomunicabile, che sta a base del suo giudizio
e gli conferisce un colore personale. Il grado del divenuto sarà sempre diverso
nella visione di due uomini: motivo sufficiente per cui essi non possono mai
intendersi sul compito e sul metodo. Ognuno dà all’altro la colpa per la
mancanza di chiarezza di pensiero, e tuttavia ciò che è designato con questa
espressione, e sulla cui struttura nessuno ha potere, non è qualcosa di peggio
ma una diversità necessaria. La stessa cosa vale per tutta la scienza naturale.
Ma si tenga ben presente che pretendere di trattare scientificamente la storia
è, in ultima istanza, sempre qualcosa di contraddittorio. La scienza genuina si
estende fin dove hanno validità i concetti di vero e di falso: ciò vale per la
matematica, e vale pure per la disciplina di raccolta, di ordinamento e di
esame del materiale, che è preliminare rispetto alla storia. Ma lo sguardo
storico vero e proprio, che procede soltanto di qui, appartiene al regno dei
significati, in cui i termini decisivi non sono il vero e il falso, ma il
superficiale e il profondo. Il vero fisico non è profondo, ma acuto . Solamente quando abbandona il campo
delle ipotesi di lavoro e sfiora le cose supreme, può essere profondo; ma
allora è diventato ormai anche lui un metafisico. La natura dev'essere
considerata scientificamente, mentre la storia deve essere oggetto di poesia.
Il vecchio Leopold von Ranke avrebbe detto, una volta, che il Quentin Durward
di Scott? rappresenta la vera storiografia. E 3. Walter Scott (1771-1832),
pocta e romanziere scozzese, autore di famosi romanzi storici che ebbero larga
influenza anche sugli storici romantici: il Quentin Durward, qui citato, è del
1823. 730 OSWALD SPENGLER le cose stanno proprio così; una buona opera storica
ha il suo vantaggio nel fatto che il lettore può diventare il suo proprio
Walter Scott. D'altra parte, dove dovrebbe dominare il regno dei numeri e del
sapere esatto, Goethe aveva chiamato natura vivente proprio ciò che era un'intuizione immediata
del puro divenire e del formarsi, e che quindi era storia nel senso qui
definito. Il suo mondo era anzitutto un organismo, un essere vivente; e si
comprende che le sue ricerche, anche quando recano esteriormente un’impronta
fisica, non hanno come scopo in sé numeri né leggi né una causalità fissata in
formule, e in generale nessun’analisi, ma sono piuttosto morfologia nel senso
più alto ed evitano perciò il mezzo specificamente occidentale (e nient'affatto
antico) di ogni considerazione causale, l'esperimento misuratore, senza però
farne mai lamentare l’assenza. La sua considerazione della superficie terrestre
è sempre geologia, mai mineralogia (che egli chiamava scienza di ciò che è
morto). Diciamolo ancora una volta: non esiste nessun confine preciso tra i due
modi di concepire il mondo. Se è vero che divenire e divenuto sono antitetici,
altrettanto sicuro è il fatto che essi sono presenti entrambi in ogni specie di
intendere. Rivive la storia colui che intuisce entrambi i termini come
divenienti e in via di compimento; conosce la natura chi li analizza come
divenuti e compiuti. In ogni uomo, in ogni cultura, in ogni grado di cultura è
presente una disposizione originaria, un’originaria inclinazione e
determinazione a preferire una delle due forme come ideale di comprensione del
mondo. L’uomo dell’Occidente è in alto grado disposto storicamente *, mentre
l’uomo antico lo fu in misura minima. Noi consideriamo tutto ciò che è dato in
rapporto al passato e al futuro, l’antichità riconobbe come esistente soltanto
il presente nella sua puntualità: il resto diventaa. L’anti-storico come
espressione di una decisa disposizione sistematica dev'essere nettamente
distinto da ciò che è astorico. L'inizio del quarto libro di Die Welt als Wille
und Vorstellung di Schopenhauer ($ 53) è indicativo di un uomo che pensa in
modo anti-storico, che cioè reprime, in base a fondamenti teoretici, l'elemento
storico che è presente in lui e lo respinge contrapponendogli l’astorica natura
ellenica che non lo possiede e non lo comprende. va mito, In ogni nota della
nostra musica, da Palestrina‘ fino a Wagner, abbiamo davanti a noi anche un
simbolo del divenire; i Greci avevano in ogni loro statua un'immagine del puro
presente. Il ritmo di un corpo poggia sul rapporto simultaneo delle parti, il
ritmo di una fuga sul corso temporale. III In questo modo i principi della
forma e della legge ci si presentano come i due elementi fondamentali di ogni
configurazione del mondo. Quanto più decisamente un’immagine del mondo reca in
sé i tratti della natura, tanto più illimitatamente valgono in essa la legge e
il mumero. Quanto più puramente un mondo viene intuito come un esterno
diveniente, tanto più l’inafferrabile ricchezza del suo processo di formazione
è estranea al numero. La forma è qualcosa di mobile, di diveniente, di
transeunte. La dottrina della trasformazione. La dottrina della metamorfosi è
la chiave per penetrare tutti i segni della natura si dice in un’annotazione postuma di Goethe,
Così la celebre fantasia sensibile
esatta di Goethe, che lascia il vivente
agire su di sé*, si distingue già sotto il profilo metodologico dal
procedimento esatto e mortifero della fisica moderna. Il residuo dell’aliro
elemento che si troverà sempre si manifesta nella scienza naturale rigorosa
sotto forma di scorie e di ipotesi inevitabili, il cui contenuto intuitivo
riempie e sostiene tutto ciò che è rigidamente numerabile e aderente a formule;
e nella ricerca storica si manifesta come cronologia, vale a dire come una rete
di numeri intimamente del tutto estranea al divenire (e qui mai tuttavia
percepia. Vi sono fenomeni originari, che noi non dobbiamo turbare e
pregiudicare nella loro divina semplicità
(GoetHE, colloquio con Falk del 25 gennaio 1813, citato da J.D. Fark,
Goethe aus naherm persònlichem Umgange dargestellet, Leipzig, 1832 [ed.
Artemis, vol. XXII, p. 680]). 4. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1526-1594),
compositore italiano, autore di celebri messe, di magnificat, di inni, di
mottetti, di lamentazioni ecc., è la principale figura della musica sacra del
Cinquecento. S. GortHe, Fragmente zur vergleichenden Anatomie (morfologia), in
Natur wissenschafdlichen Schriften, Zurich ta nella sua estraneità), che
avvolge e penetra il mondo delle forme storiche come uno scheletro di date o
come statistica, senza che si possa parlare di matematica. Il numero
cronologico designa ciò che è reale singolarmente, il numero matematico designa
ciò che è costantemente possibile. Il primo delimita forme ed elabora per
l’occhio del comprendere i contorni di epoche e di fatti; è al servizio della
storia. Il secondo è esso stesso la legge che deve stabilire il termine e il
fine della ricerca. Il numero cronologico è preso in prestito, come mezzo di
una scienza preliminare, dalla scienza per eccellenza, cioè dalla matematica;
nel suo uso si prescinde tuttavia da questa qualità. Si colga la differenza tra
i due simboli seguenti: 12 x 8 = 96 e 18 ottobre 1813 °. Qui l’uso del numero
si distingue completamente, proprio come l’uso linguistico nella prosa e nella
poesia. Ancora un’altra cosa occorre qui osservare. Poiché a base del divenuto
sta sempre un divenire e la storia rappresenta un ordinamento dell'immagine del
mondo nel senso del divenire, la storia è la forma del mondo originario, mentre
la natura nel senso di un meccanismo
elaborato del mondo è una forma
successiva, che può essere realmente realizzata soltanto da parte dell’uomo
appartenente a culture mature. Di fatto l’ambiente oscuro e animistico
dell'umanità primitiva, di cui ancor oggi testimoniano i suoi usi e i suoi miti
religiosi, quel mondo completamente organico e pieno di arbitrio, di demoni
ostili e di potenze capricciose, costituisce una totalità vivente,
inafferrabile, enigmaticamente fluttuante e imprevedibile. Si può anche
chiamarlo natura, ma esso non è la nostra natura, non è il riflesso irrigidito
di uno spirito conoscente. Questo mondo originario risuona ancora talvolta,
come un frammento di umanità da lungo tempo passata, soltanto nell’anima
infantile e nei grandi artisti, in mezzo a una
natura rigorosa che lo spirito cittadino delle culture mature ha
costruito con tirannica energia intorno al singolo. Qui sta il motivo della
tensione irritata tra intuizione scientifica ( moderna ) e intuizione artistica
( non pratica ) del mondo, nota a ogni epoca tarda. L’uo6. Data della battaglia
di Lipsia, in cui Napolcone fu sconfitto dal generale prussiano Blicher. mo
aderente ai fatti e il poeta non perverranno mai a intendersi reciprocamente.
Qui dev'essere cercato anche il motivo per cui ogni ricerca storica che aspiri
alla scientificità, mentre dovrebbe sempre recare in sé qualcosa della
fanciullezza e del sogno, qualcosa di goethiano, sfiora il rischio di diventare
una mera fisica della vita pubblica cioè
una storia materialistica , come si è
essa stessa chiamata senza alcun sospetto.
Natura nel senso esatto del
termine è il modo più raro, limitato agli uomini delle grandi città di culture
più tarde, il modo maturo e forse già senile di possedere la realtà; la storia
è invece il modo ingenuo e giovanile, e anche più inconsapevole, proprio di
tutta l'umanità. Così almeno la natura numerabile, priva di mistero, analizzata
e analizzabile di Aristotele e di Kant, dei Sofisti e dei darwinisti, della
fisica e della chimica moderna si contrappone a quella natura immediatamente
vissuta, illimitata, sentita di Omero e dell’E444”, dell’uomo dorico e di
quello gotico. "Trascurare questo vorrebbe dire disconoscere l’essenza di
ogni considerazione della storia. Essa è la natura propriamente zazurale, mentre
la natura esatta, ordinata meccanicamente, è una concezione artificiale
dell'anima di fronte al suo mondo. Ciononostante o proprio per questo la scienza naturale è facile per l'uomo
moderno, mentre la considerazione della storia gli è difficile. Le spinte del
pensiero meccanicistico, che procede completamente sulla base della
delimitazione matematica, della distinzione logica, della legge e della
causalità, compaiono assai per tempo. Si trovano nei primi secoli di tutte le
culture, per quanto ancora deboli, isolate, ancora tendenti a svanire nella
ricchezza della coscienza religiosa del mondo; basti citare il nome di Ruggero
Bacone®. Presto esse assumono un carattere più rigoroso; non manca loro come a tutto ciò che è conquista spirituale e
sottoposto alla minaccia della natura umana
7. Raccolta di canti mitologici ed epici, redatti in Islanda tra il
secolo x e il secolo xur, a cui fa seguito un trattato di arte poetica composto
dall'islandese Snorri Sturluson: è la principale fonte di conoscenza
dell’antica religione germanica, che si presenta tuttavia già in forma
dottrinalmente elaborata. 8. Ruggero Bacone (1214-1292?), filosofo inglese e
monaco francescano, autore dell'Opus maius, dell'Opus minus, dell'Opus tertium
e di vari altri scritti, è considerato il maggior rappresentante
dell'orientamento empiristico nella Scolastica del secolo xuI. l'aspetto
tirannico ed esclusivistico. In modo non percepibile il regno di ciò che è
espresso in concetti spaziali infatti i
concetti sono per loro essenza numeri, di costituzione puramente
quantitativa penetra il mondo esterno
del singolo, produce nelle, con e tra le semplici impressioni della vita
sensibile una connessione meccanica di tipo causale e numerico, sottoponendo in
ultimo la coscienza desta degli uomini civili delle grandi città si tratti della Tebe egizia o di Babilonia,
di Benares, di Alessandria o delle metropoli dell'Europa occidentale a una costrizione continua da parte del
pensiero fondato sulle leggi naturali. In tal modo nulla più si oppone al
pregiudizio di ogni filosofia e di ogni scienza (giacché di un pregiudizio si
tratta) secondo cui questa situazione è /o spirito umano e ciò che gli sta di
fronte, l’immagine meccanicistica del mondo circostante, è il mondo. Logici
come Aristotele e Kant hanno elevato questa visione a visione dominante, ma
Platone e Goethe vi si oppongono. IV Il grande compito della conoscenza del
mondo, che per l'uomo appartenente alle culture superiori è un bisogno, una
specie di penetrazione della sua esistenza che egli crede dovuta a sé e ad
essa sia che il suo procedimento venga
chiamato filosofia o scienza, sia che la sua affinità con la creazione
artistica e con l’intuizione della fede venga sentita con intima certezza
oppure venga contestata è in ogni caso
sicuramente il medesimo: quello di rappresentare nella sua purezza il
linguaggio formale dell'immagine del mondo che è determinato anteriormente
all'essere desto del singolo e che questi, finché non la pone a confronto con
altre, deve considerare come il mondo. Tenendo conto della differenza tra
natura e storia, questo compito deve essere duplice. L'una e l’altra parlano il
proprio linguaggio formale, differente sotto ogni riguardo; in un’immagine del
mondo non ben caratterizzata come di
regola avviene i due linguaggi possono
sovrapporsi e confondersi, mai però congiungersi in un’unità intima. Direzione
e estensione sono le caratteristiche dominanti in virtù delle quali si
distinguono l'impressione storica e quella naturalistica del mondo. L’uomo non
è affatto in grado di lasciarle operare contemporaneamente nella loro azione
formativa. Il termine lontananza ha un
doppio senso indicativo: da un lato significa futuro, dall'altro distanza
spaziale. Si osserverà che il materialista storico percepisce quasi di
necessità il tempo come dimensione matematica. Per l'artista nato, al
contrario come dimostra la lirica di
tutti i popoli le lontananze
panoramiche, le nuvole, l'orizzonte, il sole calante sono tutte impressioni che
si legano irresistibilmente col sentimento di qualcosa di là da venire. Il
poeta greco nega il futuro e di conseguenza non vede, non canta tutto questo:
dal momento che appartiene del tutto al presente, appartiene anche del tutto
alla vicinanza. Lo scienziato naturale, l’uomo di intelletto produttivo in
senso proprio sia egli uno sperimetatore
come Faraday”, un teorico come Galilei o un calcolatore come Newton trova nel suo mondo soltanto quantità prive
di direzione che egli misura, vaglia e ordina. Soltanto ciò che è quantitativo
sottostà alla formulazione numerica, è determinato in modo causale, può
diventare concettualmente accessibile ed essere formulato in leggi. Con ciò
sono esaurite le possibilità della pura conoscenza della natura. Tutte le leggi
sono connessioni quantitative o come si
esprime il fisico tutti i processi
fisici si svolgono nello spazio. Senza modificare il dato di fatto, il fisico
antico avrebbe corretto tale espressione nel senso dell’antico sentimento del
mondo, negatore dello spazio, dicendo che tutti i processi Hanzo luogo tra
corpi. Tutto ciò che è quantitativo è estraneo alle impressioni storiche. Il
suo organo è diverso. Il mondo come natura e il mondo come storia hanno i loro
propri modi di apprendimento. Noi li conosciamo e li usiamo quotidianamente,
senza però essere stati finora consapevoli della loro antitesi. Ci sono una
conoscenza della natura e una conoscenza dell’uomo, vale a dire l’esperienza
scientifica e l’esperienza della vita. Si segua Faraday, fisico e chimico
inglese, autore della C/hemical Manipulation, delle Experimental Researches in
Electricity, delle Experimental Rescarches in Chemistry and Physics (1859),
diede contributi fondamentali allo sviluppo della teoria dell'elettricità e del
magnetismo. quest’antitesi fino alle sue ultime profondità e si comprenderà che
cosa intendo. Tutti i modi di concepire il mondo possono essere definiti, in
ultima analisi, come morfologia. La morfologia di ciò che è meccanico ed
esteso, cioè una scienza che scopre e ordina leggi naturali e relazioni
causali, si chiama sistematica; la morfologia di ciò che è organico, della
storia e della vita, vale a dire tutto quanto reca in sé direzione e destino,
si chiama fisiognomica. V Il modo sistematico di considerazione del mondo ha
raggiunto e oltrepassato il suo culmine in Occidente durante il secolo scorso;
il modo fisiognomico ha invece ancora davanti a sé il suo grande momento. Tra
un centinaio di anni tutte le scienze ancora possibili su questo terreno sono
destinate a diventare frammenti di un’unica immensa fisiognomica di tutto
quanto è umano. Questo significa una morfologia della storia universale . In
ogni scienza, dal punto di vista del fine come del materiale, l’uomo racconta
se stesso. Esperienza scientifica vuol dire auto-conoscenza spirituale. Da
questo punto di vista la matematica è stata considerata poco prima come un
capitolo della fisiognomica. Non abbiamo preso in esame ciò che si proponeva il
singolo matematico: il dotto in quanto tale e i suoi risultati in quanto
esistenza di una somma di sapere si differenziano reciprocamente. Il matematico
come uomo la cui operosità costituisce una parte del suo manifestarsi, e il cui
sapere e opinare costituisce una parte della sua espressione, è qui il solo ad
avere importanza, e precisamente come orgazo di una cultura. Essa parla di sé
per il suo tramite. Come personalità, come spirito, nel suo scoprire, nel suo
conoscere, nel suo formare egli appartiene alla fisiognomica di quella cultura.
Ogni matematica che, in quanto sistema scientifico oppure come nel caso dell'Egitto nella forma dell’architettura, rende
manifesta a tutti l’idea del suo numero, inerente al suo essere desto, è la
confessione di un’anima. Quanto è certo che la funzione che si propone
appartiene soltanto alla superficie della storia, altrettanto certo è che il
suo elemento inconscio, cioè il numero stesso e lo stile dello sviluppo che la
conduce alla costruzione di un mondo formale chiuso, costituisce un’espressione
dell’esistenza, del sangue. La sua storia vitale, il suo fiorire e sfiorire, la
sua relazione profonda con le arti figurative, con i miti e i culti della
medesima cultura, tutto ciò appartiene a una morfologia del secondo tipo, cioè
a una morfologia storica, finora ritenuta quasi impossibile. La facciata
visibile di ogni storia ha perciò lo stesso significato dell'apparenza
esteriore dell’uomo singolo, vale a dire della statura, del volto, del
portamento, dell’andatura: non il linguaggio, ma il parlare; non lo scritto, ma
la scrittura. Tutto ciò è ben presente al conoscitore di uomini. Il corpo con
tutte le sue operazioni, il limitato, il divenuto, il transitorio, è
espressione dell'anima. Ma essere conoscitore di uomini vuol dire anche
conoscere quei grandi organismi umani di stile superiore che chiamo culture;
vuol dire cogliere il loro volto, il loro linguaggio, le loro azioni, nello
stesso modo in cui si colgono quelle di un uomo singolo. La fisiognomica
descrittiva e figurativa è arte del ritratto trasferita all'elemento
spirituale. Don Chisciotte, Werther, Julien Sorel! sono i ritratti di un’epoca.
Faust è il ritratto di un'intera cultura. Lo scienziato naturale, il morfologo
in quanto sistematico, conosce il ritratto del mondo soltanto come compito
imitativo; la stessa cosa vale per la fedeltà alla natura e la somiglianza
nel caso dell’artigiano che dipinge, il quale, in fondo, si accinge alla
sua opera in modo puramente matematico. Ma un ritratto genuino nel senso di
Rembrandt è fisiognomica, cioè storia racchiusa in un attimo. La serie dei suoi
autoritratti non è altro che un’autobiografia autenticamente goethiana. Così si
dovrebbe scrivere la biografia delle grandi culture. La parte imitativa, il
lavoro dello storico di mestiere sulle date e sui numeri è soltanto mezzo, non
fine. Ai tratti del volto della storia appartiene tutto ciò che è stato finora
valutato soltanto in base a criteri personali, in base all’utilità e alla
dannosità, al bene e al male, al piacere e al dispiacere: forme statali e forme
economiche, battaglie e arti, scienze e divinità, matematica e morale. Tutto
ciò che è divenuto in generale, tutto 10. Personaggio principale de Le ronge et
le noir di Stendhal. ciò che si manifesta è simbolo, è espressione di un’anima;
aspira a essere considerato con l’occhio del conoscitore di uomini, a non
essere ricondotto a leggi, ma sentito nel suo significato. In tal modo
l’indagine si eleva a una certezza ultima e suprema: tutto ciò che è
transitorio è soltanto un'immagine. Alla conoscenza della natura ci si può
educare, ma conoscitore della storia si nasce. Il conoscitore coglie e penetra
uomini e fatti di un colpo, sulla base di un sentimento che non s’impara, che è
sottratto a ogni influenza intenzionale, che ben raramente si produce nella sua
massima forza. Analizzare, definire, ordinare, delimitare in base a cause ed
effetti, si può sempre farlo, se si vuole: questo è un lavoro, l’altra è una
creazione. Forma e legge, immagine e concetto, simbolo e formula hanno un
organo completamente diverso. Ciò che si manifesta in quest’antitesi è il
rapporto tra vita e morte, tra generazione e distruzione. L'intelletto, il
sistema, il concetto uccidono in quanto
conoscono ; fanno del conosciuto un oggetto irrigidito, che si può
misurare e suddividere. Invece l’intuizione vivifica; incorpora il singolo in un’unità
vivente, intimamente sentita. Il poetare e la ricerca storica sono affini
quanto affini sono il calcolare e il conoscere. Ma come disse una volta Hebbel !! i sistemi non possono venir sognati né le
opere d’arte calcolate o, il che è lo stesso, escogitate . L'artista, lo
storico autentico intuisce il modo in cui qualcosa diviene. Egli rivive ancora
una volta il divenire nei tratti di ciò che è osservato. Il sistematico sia egli fisico, logico, darwiniano oppure
scrittore di storia pragmatica ha
esperienza di ciò che è divenuto. L'anima di un artista è, come l’anima di una
cultura, qualcosa che aspira a realizzarsi, qualcosa di concluso e di perfetto
o nel linguaggio della filosofia
antica un microcosmo. Lo spirito
sistematico staccato dal sensibile
as-tratto è un fenomeno tardo,
ristretto e perituro, e appartiene agli stadi più maturi di una cultura. È un
fenomeno collegato alle città, in cui la sua vita si concentra sempre di più:
esso appare e di nuovo scompare insieme con esse. La scienza antica sussiste
Hebbcl, poeta e drammaturgo tedesco, autore di vari drammi di argomento
storico, di poesie, dì saggi estetici, nonché di Tagedécher (iniziati nel
1836): il suo pensicro è ispirato da Gocthe e dalle tcorie idcalistiche, in
particolare da Schelling c da Hegel. soltanto nel periodo che va dagli Ionici
del secolo vi fino all’epoca romana; di artisti antichi ve ne furono per tutta
l’antichità. Possa servire da ulteriore chiarimento lo schema seguente: Anima
Mondo Esistenza Possibilità Compimento Realtà (Vita) Divenire Divenuto Essere
Direzione Estensione desto Organico Meccanico Simbolo, immagine Numero,
concetto Storia Natura Immagine Ritmo, forma Tensione, legge del mondo
Fisiognomica Sistematica Fatti Verità Se si cerca di pervenire a chiarezza sul
principio di unità in base al quale ognuno dei due mondi viene concepito, si
troverà che la conoscenza regolata matematicamente si riferisce in tutto e per
tutto, e in modo tanto più deciso in quanto più è pura, a qualcosa che è
costantemente presente. L'immagine della natura, quale il fisico la considera,
è ciò che si dispiega al momento dinanzi ai suoi sensi. Tra i presupposti per
lo più sottintesi, ma non per questo meno saldi, di ogni ricerca naturale vi è
quello secondo cui la natura è la medesima per ogni essere desto e per tutti i
tempi: un esperimento decide una volta per tutte. Non che il tempo venga
negato, ma all’interno di questo orientamento si prescinde da esso. La storia
reale poggia invece sul sentimento, altrettanto certo, del contrario. La storia
presuppone come suo organo un tipo di sensibilità interiore, difficile da
descrivere, le cui impressioni vengono colte in un’infinita trasformazione e
non possono quindi essere raccolte in un punto del tempo (del supposto tempo
dei fisici si parlerà più oltre). L'immagine della storia si tratti della storia dell'umanità, del
mondo degli organismi, della terra o del sistema delle stelle fisse è un'immagine della memoria. La memoria viene
qui concepita come uno stato superiore che non è affatto proprio a ogni
essere-desto, ed è concesso a qualcuno solo in grado minimo, vale a dire come
una forma del tutto particolare di immaginazione che consente di rivivere
l’attimo singolo sub specie aeternitatis, in continua relazione con tutto ciò
che è passato e futuro: essa è il presupposto di ogni specie di contemplazione
retrospettiva, di auto-conoscenza e di autoconfessione. In questo senso l’uomo
antico non possiede alcuna memoria, e quindi neppure storia, né in sé né
intorno a sé. Nessuno può emettere giudizi
sulla storia, se non chi ne abbia fatto esperienza egli stesso (Goethe !). Nella coscienza del mondo
dell’antichità tutto il passato è assorbito nell’attimo. Si confrontino le
teste quanto mai storiche delle sculture del duomo di Naumburg, delle
figure di Direr e di Rembrandt, con quelle ellenistiche, per esempio con quella
della celebre statua di Sofocle. Le prime narrano l’intera storia di un’anima,
mentre i tratti delle seconde si limitano strettamente all’espressione di un
essere momentaneo. Esse tacciono tutto ciò che ha condotto, nel corso di una
vita, a questo essere sempre che se ne
possa in generale parlare di fronte a un uomo genuinamente antico, che è sempre
compiuto, mai un essere diveniente. VI È ora possibile rintracciare gli
elementi ultimi del mondo formale della storia. Forme innumerevoli, che
compaiono e scompaiono, che si stagliano e si dileguano nuovamente in una
ricchezza senza fine; una confusione smagliante di mille colori e di mille
luci, caratterizzata in apparenza dalla più libera accidentalità questa è, a prima vista, l’immagine della
storia universale, quale essa si dispiega nella sua totalità di fronte
all’occhio interiore. Ma lo sguardo che penetra più profondamente
nell’essenziale separa da questo arbitrio quelle forme pure che, fittamente
ricoperte e disvelantisi soltanto controvoglia, stanno alla base di ogni umano
divenire. Dell’immagine del divenire complessivo del mondo con i suoi orizzonti
che si accumulano potenzialmente così
come 12. GoerHe, Maximen und Reflezionen l'occhio faustiano che li abbraccia e quindi del divenire del cielo stellato,
della superficie terrestre, degli esseri viventi, degli uomini, noi
consideriamo ora soltanto l’unità morfologica estremamente piccola della storia
universale nel senso consueto della
parola, cioè della storia (poco apprezzata dal vecchio Goethe) dell'umanità
superiore, che abbraccia circa seimila anni, senza affrontare l’arduo problema
dell’analogia interna di tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà senso e
contenuto a questo fuggevole mondo di forme, e che è rimasto finora
profondamente sommerso sotto la massa quasi impenetrabile di date e di fatti
tangibili, è il fenomeno delle grandi culture. Soltanto quando queste forme
originarie siano state individuate, sentite, elaborate nel loro significato
fisiognomico, può ritenersi compresa da noi l'essenza e la forma intima della
storia umana in antitesi all’essenza
della natura. Soltanto partendo da questo sguardo profondo e prospettico si può
parlare seriamente di una filosofia della storia. Soltanto allora si può
cogliere ogni fatto presente nell’immagine storica, ogni idea, ogni arte, ogni
guerra, ogni personalità nel suo contenuto simbolico, e considerare la storia
non più come mera somma del passato, priva di un proprio ordine e di una
interna necessità, bensì come un organismo di struttura quanto mai rigorosa e
con un'articolazione fornita di senso, nel cui sviluppo il presente accidentale
dell’osservatore non indica una semplice sezione e il futuro non appare più
come informe e indeterminabile. Le culture sono organismi; la storia universale
è la loro biografia complessiva. L’immensa storia della cultura cinese o della
cultura antica è morfologicamente l’esatta contropartita della piccola storia
del singolo uomo o di un animale, di un albero, di un fiore. Per lo sguardo
faustiano non si tratta di un’esigenza, ma di un'esperienza: se si vuol
conoscere la forma interna, ovunque ripetuta, la morfologia comparativa delle
piante e degli animali ha già da lungo tempo preparato il metodo adatto. Nel
destino delle singole culture che si succea. Non si tratta del metodo analitico
del pragmatismo zoologico dei darwinisti con la loro caccia
di connessioni causali, bensì del metodo intuitivo e sintetico di Goethe. dono,
che crescono l’una accanto all’altra, si toccano, si ostacolano, si soffocano,
viene a esaurirsi il contenuto di tutta la storia umana. E se passiamo
spiritualmente in rassegna le loro forme, che finora erano troppo profondamente
nascoste sotto la superficie del corso banale di una storia dell'umanità , perveniamo
a scoprire la forma originaria della cultura, libera da ogni elemento
perturbatore e privo di significato, la quale sta alla base di tutte le culture
particolari come loro ideale formale. Distinguo qui l’idea di una cultura, il
complesso delle sue possibilità interne, dalla sua manifestazione sensibile
nell’immagine della storia, che costituisce la sua realizzazione compiuta.
Questo è il rapporto dell’anima con il corpo vivente, con la sua espressione in
mezzo all'universo visibile ai nostri occhi. La storia di una cultura è la
progressiva realizzazione di ciò che ad essa è possibile. Il compimento
equivale alla fine. In questo modo l’anima apollinea che alcuni di noi possono forse comprendere e
rivivere stava in rapporto con il suo
dispiegamento nella realtà, con l’ antichità
della quale l’archeologo, il filologo, lo studioso di estetica e lo
storico indagano i resti accessibili all’occhio e all’intelletto. La cultura è
il fenomeno originario di tutta la storia universale passata e futura. La profonda
e poco apprezzata idea che Goethe scoprì nella sua natura vivente, e che ha
sempre posto a base delle sue ricerche morfologiche, deve qui venir applicata,
nel suo senso più preciso, a tutte le formazioni della storia umana pienamente
maturate, morte mentre ancora stavano fiorendo, semi-sviluppate o soffocate
ancora in germe. Si tratta di un metodo fondato sul sentire simpatetico, non
sull’analisi. Il massimo a cui l’uomo
può pervenire è la meraviglia; perciò sia soddisfatto quando il fenomeno originario
lo pone in uno stato di meraviglia; non gli è concesso niente di superiore, e
neppure.deve cercarvi qualcosa di più: qui sta il limite !. Fenomeno originario
è quello in cui l’idea del divenire sta dinanzi agli occhi nella sua purezza.
Goethe vide chiaramente, davanti al suo occhio spirituale, l’idea della pianta
originaria nella forma di ogni pianta singola, nata accidentalmente o anche
solo possibile. Nella sua indagine sull’os intermazillare 13. GoerHe, Gespriche
mit Eckermann. egli partì dal fenomeno originario del vertebrato, e in altro
campo partì dalla stratificazione geologica, dalla foglia come forma originaria
di ogni organo vegetale, dalla metamorfosi delle piante come immagine
primordiale di tutto il divenire organico.
La medesima legge si potrà applicare a tutti gli altri esseri
viventi !* scrisse da Napoli a Herder, comunicandogli la
sua scoperta. Si trattava di uno sguardo sulle cose che Leibniz avrebbe potuto
intendere; il secolo di Darwin ne restò invece il più possibile distante. Non
esiste però ancora una considerazione della storia che sia completamente libera
dai metodi del darwinismo, cioè dalla scienza naturale sistematica poggiante
sul principio causale. Mai si è discusso di una fisiognomica rigorosa e chiara,
compiutamente consapevole dei suoi mezzi e dei suoi limiti, i cui metodi
dovevano essere ancora trovati. Questo è il grande compito del secolo xx: porre
accuratamente in luce la struttura interna delle unità organiche attraverso le
quali e nelle quali si compie la storia universale; distinguere ciò che è
morfologicamente necessario ed essenziale da ciò che è accidentale, cogliere
l’espressione degli avvenimenti e scoprire il linguaggio che sta alla sua base.
VII Una massa sterminata di esseri umani, una corrente senza sponde che
scaturisce dall’oscuro passato, là dove il nostro sentimento del tempo perde la
propria capacità ordinatrice e l’inquieta fantasia o l’angoscia
ha suscitato come per magia in noi l'immagine di epoche geologiche per
nascondere un enigma insolubile; una corrente che va a perdersi in un futuro
altrettanto oscuro e atemporale questo è
il substrato dell’immagine faustiana della storia umana. L’onda uniforme di
innumerevoli generazioni muove questa vasta superficie. Fasci di luce si
estendono abbaglianti. Effimeri bagliori passano e danzano, scompigliano e
turbano il chiaro specchio, si trasformano, balenano e scompaiono: sono ciò che
abbiamo chiamato 14. GoerHE, Italienische Reise, lettera a Herder.generazioni,
stirpi, popoli, razze. Essi abbracciano una serie di generazioni in un ambito
delimitato della superficie storica. Quando si spegne la forma plasmatrice in
esse presente e questa forza è assai
diversa, e predetermina un’assai diversa durata e plasticità di queste
formazioni si dissolvono anche le
caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, spirituali, e il fenomeno si
risolve di nuovo nel caos delle generazioni. Arii, Mongoli, Germani, Celti,
Parti, Franchi, Cartaginesi, Berberi, Bantù, sono tutti nomi che designano
formazioni estremamente differenziate di tale ordine. Ma su questa superficie
le grandi culture tracciano i loro maestosi cerchi di onde. Esse compaiono
all’improvviso, si estendono seguendo direttrici fastose, si acquietano,
scompaiono lasciando di nuovo solitario e stagnante lo specchio della marea.
Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato
psichico originario dell’umanità eternamente fanciulla e se ne distacca, come
una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro
dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio
delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una
cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l’intera somma delle sue
possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti,
di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità
originaria. Ma la sua esistenza vivente, cioè quella successione di grandi
epoche che designano in una linea retta il suo compimento progressivo, è una
lotta interiore e piena di passione per l’affermazione dell'idea contro le
potenze del caos verso l'esterno, e verso l'interno contro l’inconscio in cui
esse si sono astiosamente ritirate. Non è soltanto l’artista a combattere
contro la resistenza della materia e l’'annientamento dell’idea entro di sé.
Ogni cultura si trova in una relazione profondamente simbolica e quasi mistica
con ciò che è esteso, con lo spazio nel quale e attraverso il quale essa vuole
realizzarsi. Quando il fine è raggiunto e l’idea, la molteplicità delle sue
possibilità interne, si è compiuta e si è realizzata verso l'esterno,
improvvisamente la cultura si irrigidisce; essa muore, il suo sangue si
coagula, le sue forze vengono meno ed essa
diventa una civiltà in declino. Questo è ciò che sentiamo e intendiamo parlando
di egizianismo, di bizantinismo, di mandarinismo. Così essa può ancora, come un
gigantesco albero marcito nella foresta, protendere i suoi rami fradici per
secoli e millenni. È quello che vediamo in Cina, in India, nel mondo islamico.
In questo modo l’antica civiltà in declino dell’epoca imperiale si elevava
gigantesca, con apparente forza giovanile e apparente ricchezza, sottraendo
aria e luce alla giovane cultura araba dell’Oriente. Questo è il senso di tutti
i tramonti della storia del compimento
interno ed esterno, dell’esaurimento che sovrasta ogni cultura vivente. Di essi
quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il tramonto dell’antichità
, mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi
di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene
ai primi secoli del prossimo millennio: il
tramonto dell’Occidente ?. Ogni
cultura percorre le età dell’individuo: ognuna ha la sua infanzia, la sua
giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. Un’anima giovanile, timida,
ricca di presentimenti si manifesta negli albori del romantico e del gotico.
Essa riempie di sé il passaggio faustiano dalla Provenza dei Trovatori fino al
duomo di Hildesheim del vescovo Bernward”. Qui soffia un vento di
promavera. Nelle opere dell’antica
architettura tedesca dice Goethe! si vede il fiorire di una situazione
straordinaria. Chi si trovi immediatamente di fronte una fioritura del genere,
non può che stupirsi; ma chi penetri nella segreta vita interna della pianta,
nel muoversi delle forze, seguendo passo passo lo sviluppo della fioritura,
vede la cosa con occhi del tutto diversi; sa quello che vede . L'infanzia ci a.
Non si tratta della catastrofe delle migrazioni dei popoli che costituisce come
nel caso della distruzione della cultura maya da parte spagnola un caso privo di necessità più profonda,
bensì dell'intimo disfacimento che sopravviene fin da Adriano, e
corrispondentemente in Cina sotto la dinastia orientale. 15. Hildeshcim è una
città della Bassa Sassonia, sede episcopale dall'epoca di Carlo Magno: San
Bernward vi fu vescovo dal 993 al 1022, facendo costruire le mura intorno alla
città e favorendo lo sviluppo della metallurgia. 16. GoerHE, Gespricke mit
Eckermann, 21 ottobre 1823. parla in modo simile e con voci del tutto affini,
con l’arte dorica pre-omerica, con quella cristiana antica, cioè
arabo-primitiva, e con le opere dell’antico regno egizio che ha inizio con la
quarta dinastia. Qui una coscienza del mondo mitica lotta con tutto ciò che di
oscuro e di demoniaco è presente in essa e nella natura come con una colpa, per
poter maturare fino alla pura luminosa espressione di un'esistenza finalmente
conquistata e compresa. Quanto più una cultura si avvicina al mezzogiorno della
sua esistenza, tanto più il suo linguaggio formale finalmente assicurato
diventa maturo, aspro, controllato, denso, tanto più essa è certa nel
sentimento della propria forza e tanto più chiari diventano i suoi tratti.
Nell’epoca primitiva tutto ciò era ancora sordo e confuso, procedeva per
tentativi, pieno al tempo stesso di nostalgia e di angoscia infantile. Si
consideri la decorazione dei portali delle chiese romanico-gotiche della
Sassonia e della Francia meridionale: si pensi alle catacombe cristiane
primitive, ai vasi in stile diploico. Ora, nella piena coscienza della forza
plasmatrice giunta alla maturità come si
manifesta nelle epoche dell’inizio del Medio Impero, dei Pisistrati, di
Giustiniano I, della Controriforma ogni
singolo tratto espressivo appare scelto, rigoroso, misurato, di una
meravigliosa levità e naturalezza. Qui troviamo ovunque attimi di perfezione
luminosa, attimi in cui sono sorti la testa di Amenemhet III ” (la sfinge di
Hyksos di Tanis), la cupola di Santa Sofia, i dipinti di Tiziano. Ancora più
tardi, delicati, quasi fragili, della dolcezza dolorosa degli ultimi giorni
d’ottobre, sono l’Afrodite di Cnido e la sala dei cori dell’Eretteo, gli
arabeschi degli archi saraceni a ferro di cavallo, lo Zwinger di Dresda",
Watteau! e Mozart. Infine, nella vecchiaia della civiltà in declino, il fuoco
dell’anima si spegne. Per una volta ancora la forza calante trova l’ardire,
pervenendo con parziale successo a una grande creazione nel classicismo, che non è estraneo a nessuna
cultura in via di estinzione; 17. Amenembet II, faraone della Dodicesima
dinastia vissuto intorno al 18501800 a, C. 18, Lo Zwinger è il castello rcale
di Dresda, costruito nell'età barocca, sede di celebri collezioni. 19.
Jcan-Antoinc Wattcau, uno dci maggiori pittori francesi del Settecento. l’anima
ripensa ancora una volta dolorosamente
nel romanticismo alla propria
infanzia. Alla fine stanca, neghittosa, fredda, essa smarrisce la gioia
dell’esistenza e come nell’epoca
imperiale di Roma aspira a fare
nuovamente ritorno dalla luce millenaria nell’oscurità della mistica spirituale
originaria, nel grembo materno, nella tomba. Questa è la magia della seconda religiosità , che i culti di Mitra,
di Iside, del Sole hanno esercitato una volta sull'uomo della tarda
antichità i medesimi culti che in
Oriente un’anima appena albeggiante aveva riempito di un’interiorità
completamente nuova, facendone l’espressione primitiva, sognante, angosciata
della sua solitudine in questo mondo. VII Si parla dell’abito di una pianta e
con ciò si intende la forma di apparenza esterna propria ad essa soltanto, cioè
il carattere, l'andamento, la durata del suo manifestarsi nel mondo visibile ai
nostri occhi l'elemento per cui ognuna
si distingue, in ogni sua parte e in ogni fase della sua esistenza, dagli
esemplari di tutte le altre specie. Applicherò questo importante concetto
fisiognomico ai grandi organismi della storia, e parlerò dell'abito della
cultura, della storia o della spiritualità indiana, egiziana, antica. Un sentimento
indeterminato di esso è stato da sempre a base del concetto di stile; e quando
si parla dello stile religioso, intellettuale, politico, sociale, economico di
una cultura, e dello stile di un'anima in generale, ci si limita a chiarirlo e
ad approfondirlo. Questo abito dell’esistenza nello spazio, che nell'uomo
singolo si estende al fare e al pensare, al portamento e alla disposizione
spirituale, abbraccia nell'esistenza di intere culture l’espressione
complessiva della vita di ordine superiore, come la scelta di determinati
generi artistici (la scultura e l'affresco da parte dei Greci, il contrappunto
e la pittura a olio in Occidente) e il riftuto deciso di altri generi artistici
(l’arte plastica da parte degli Arabi), la propensione all’esoterismo (in
India) o alla popolarità (nel mondo antico), al discorso orale (nell’antichità)
o allo scritto (in Cina e in Occidente), come forme di comunicazione
spirituale, nonché il tipo di costumi, di amministrazione, di mezzi di
trasporto e le forme di rapporto sociale. Tutte le grandi personalità antiche
costituiscono un gruppo a sé, il cui abito spirituale è rigorosamente distinto
da quello dei grandi uomini appartenenti al gruppo arabo o occidentale. Si
confronti un Goethe o un Raffaello con gli uomini dell’antichità, ed Eraclito,
Sofocle, Platone, Alcibiade, Temistocle, Orazio, Tiberio ci appariranno subito
come raccolti in un’unica famiglia. Ogni metropoli antica dalla Siracusa di Gerone fino alla Roma
imperiale in quanto incarnazione e
simbolo di un medesimo sentimento della vita, è profondamente diversa per piano
urbanistico, per la struttura delle strade, per il linguaggio dell’architettura
privata e pubblica, per il tipo delle piazze, dei vicoli, dei cortili, delle
facciate, per il colore, il chiasso, il traffico, per lo spirito delle sue
notti, dal gruppo delle metropoli indiane, arabe, occidentali. A Granada molto
tempo dopo la sua conquista si poteva ancora sentire l’anima delle città arabe,
di Bagdad e del Cairo, mentre nella Madrid di Filippo II si incontrano già
tutte le caratteristiche fisiognomiche delle immagini di città moderne come
Londra e Parigi. In ogni diversità di questa specie c'è un alto grado di
simbolismo: si pensi alla propensione occidentale per le prospettive e i
tracciati stradali rettilinei, come lo scorcio possente dei Champs Elysées
visti dal Louvre o la piazza di San Pietro, e alla loro antitesi rispetto alla
confusione e alla ristrettezza quasi intenzionale della Via Sacra, del Foro
romano e dell’Acropoli con il loro ordine asimmetrico e aprospettico delle
parti. Anche la struttura della città ripete o per un oscuro impulso (come
avviene nel gotico) o consapevolmente (come dopo Alessandro e Napoleone) qui il
principio matematico leibniziano dello spazio infinito, là quello euclideo dei
corpi isolati. Ma all’abito di un gruppo di organismi appartiene anche una
determinata durata della vita e un determinato ritmo di sviluppo. Questi
concetti non possono mancare in una dottrina della struttura della storia. Il
ritmo dell’esistenza antica era diverso da quello dell’esistenza egizia o
araba. Si può parlare dell’ andante
dello spirito ellenico-romano e dell’ allegro con brio di quello faustiano. Al concetto di durata
della vita di un uomo, di una farfalla, di una quercia, di un filo d'erba si
connette, del tutto indipendentemente da ogni accidentalità del destino
individuale, un determinato valore. Nella vita di tutti gli uomini dieci anni
costituiscono una sezione approssimativamente equivalente, e anche la
metamorfosi degli insetti è legata, nei casi singoli, a un numero di giorni già
noto con precisione in anticipo. I Romani ricollegavano ai loro concetti di
pueritia, adulescentia, juventus, virilitas, senectus una rappresentazione
fornita di precisione quasi matematica. Senza dubbio la biologia del futuro
farà della durata predeterminata della vita delle varie specie e dei vari
generi in antitesi al darwinismo, e con
un'esclusione di principio dei motivi causali di finalità riguardo all'origine delle
specie il punto di partenza di una problematica
completamente nuova. La durata di una generazione poco importa di quali esseri è un fatto di significato quasi mistico.
Queste relazioni posseggono anche, in maniera finora mai percepita, una
validità per tutte le culture superiori. Ogni cultura, ogni sua epoca iniziale,
ogni crescita e ogni declino, ognuna delle sue fasi e dei suoi periodi
internamente necessari possiede una durata determinata, sempre eguale, sempre
ricorrente con l'insistenza di un simbolo. In quest'opera si dovrà rinunciare a
svelare questo mondo di connessioni piene di mistero, ma i fatti che verranno
in seguito sempre più in luce sveleranno tutto ciò che qui rimane celato. Che
cosa significa il sorprendente periodo di cinquant’anni, che si riscontra in
ogni cultura, nel ritmo del divenire politico, spirituale, artistico? *® Che
cosa significano i periodi di trecento anni del barocco, dello ionico, delle
grandi matematiche, dell’arte plastica attica, della pittura a mosaico, del
contrappunto, della meccanica galileiana? Che cosa significa la durata ideale
di un millennio nella vita di ogni cultura, in confronto a quella
dell'individuo, in cui la vita dura settant'anni ? a. Mi limiterò a fare qui riferimento alla
distanza delle tre guerre puniche e alla serie, anch'essa da intendersi in
maniera puramente ritmica, della guerra di successione spagnuola, delle guerre
di Federico il Grande, di Napoleone, di Bismarck e della guerra mondiale.
Affine a ciò è il rapporto spirituale tra nonno e nipote. Di qui trae origine
la convinzione dei popoli primitivi che l’anima del nonno ritorni nel nipote e
il costume diffuso di dare al nipote il nome del nonno, che con la sua forza
mistica ne rievoca l’anima nel mondo corporeo. Nel modo in cui le foglie, i
fiori, i rami, i frutti recano ad espressione nella loro forma, nella loro
foggia e nel loro portamento l’essere vegetale, lo stesso fanno le formazioni
religiose, intellettuali, politiche ed economiche nell’esistenza di una
cultura. Ciò che per l’individualità di Goethe significa una serie di
manifestazioni così differenti quali il Faust, la Farbenlehre, il Reineke
Fuchs, il Tasso, il Werther, il viaggio in Italia, l'amore per Federica, il
West-ostliche Divan e le Ròmische Elegien, per l’individualità del mondo antico
significano le guerre persiane, la tragedia attica, la polis, il dionisiaco, al
pari della tirannide, delle colonne ioniche, della geometria di Euclide, della
legione romana, dei combattimenti tra gladiatori e del panem et circenses
dell’epoca imperiale. In questo senso ogni esistenza individuale in qualche
modo significativa ripete, con profonda necessità, tutte le epoche della
cultura a cui appartiene. In ciascuno di noi la vita interiore si desta in quell’istante decisivo a partire dal quale
si sa di essere un Io nel punto e nel
modo in cui si è destata l'anima dell'intera cultura. Ognuno di noi, uomini
dell’Occidente, ancora rivive da fanciullo, nei suoi sogni ad occhi aperti e
nei giochi infantili, il suo gotico, le sue cattedrali, i castelli feudali e le
saghe degli eroi, il Dieu Je veut delle Crociate e il tormento del giovane
Parsifal’. Ogni giovane greco aveva la sua epoca omerica e la sua Maratona. Nel
Werther di Goethe, immagine di una svolta giovanile nota a ogni uomo faustiano,
ma a nessun uomo antico, ritorna l’epoca di Petrarca e del Minnesang”®. Quando
Goethe abbozzò l’Urfaust, egli era Parsi fal; quando finì la prima parte, era
Amleto; soltanto con la seconda parte diventò l’uomo universale del secolo x1x,
quale 20. Eroc di una leggenda popolare di origine celtica, poi collegato con
il ciclo di Re Artà o dei cavalieri
della tavola rotonda : in questo nuovo contesto Parsifal diventa il personaggio
principale della ricerca del Graal, dando così il titolo nel secolo xt
a un noto pocma cavalleresco di Chrétien de Troyes. A quest'ultima
versione si è richiamato Wagner nella sua ultima opera, il Parsifal. 21.
Designazione collettiva della lirica tedesca dei secoli xir e xm, affine alla
poesia trobadorica provenzale, che si ispira all'ideale dell’ amor cortese . La
parola è composta dai termini Minne (= Liebe, amore) c Sang (= Gesang, canto o
canzone); essa si riferisce all'omaggio reso dal cavaliere alla sua dama,
cspresso con la parola Minnedienst. Byron lo intese. Perfino la senilità, quei
secoli capricciosi e infecondi dell’Ellenismo più tardo, la seconda
fanciullezza di un'intelligenza stanca e
svogliata, si può studiare in più d’uno dei grandi vegliardi dell’antichità.
Nelle Baccanti di Euripide è anticipato molto del sentimento della vita, e nel
Timeo di Platone molto del sincretismo religioso dell’età imperiale. Il secondo
Faust di Goethe e il Parsifal! di Wagner svelano in anticipo quale forma la
nostra spiritualità assumerà nei prossimi secoli, negli ultimi secoli creativi.
Per omologia degli organi la biologia intende la loro equivalenza morfologica,
in antitesi all’analogia, che si riferisce invece all’equivalenza della loro
funzione. Goethe ha concepito questo concetto importante, e così fecondo nelle
sue conseguenze, il cui sviluppo lo ha condotto a scoprire nell'uomo l’os
intermaxillare; Owen? ne ha dato una formulazione rigorosamente scientifica. Io
introduco questo concetto anche nel metodo storico. È noto che a ogni parte del
cranio umano corrisponde in modo preciso in tutti i vertebrati fino ai pesci
un’altra parte, in modo tale che le pinne pettorali dei pesci e i piedi,
le ali, le mani dei vertebrati terrestri sono organi omologhi, anche se hanno
perduto ogni più piccola parvenza di somiglianza. Omologhi sono i polmoni degli
animali terrestri e la vescica natatoria dei pesci; analoghi sono invece in riferimento all’uso i polmoni e le branchie®. Qui si manifesta un
talento a. Non è superfluo aggiungere che questi fenomeni puri della natura
vivente sono estranei a ogni elemento causale, e che il materialismo dovette
pervertirne l'immagine con l’introduzione di cause finali, per ottenere un
sistema adatto all'intelletto comune. Goethe, che del darwinismo aveva grosso
modo anticipato ciò che di esso rimarrà ancora tra cinquant'anni, escluse
completamente il principio di causa. Egli caratterizza la vita reale priva di
cause e di scopi in modo tale che i darwinisti non si sono qui affatto avveduti
dell'assenza del principio. Il concetto di fenomeno originario non permette
nessuna assunzione causale, a meno che non si voglia fraintenderlo in senso
meccanicistico. Owen, biologo inglese, autore della Memoir on the Pearly
Nautilus, della Odontography (1840-1845), della History of British Fossil
Mammals and Birds (1846), della History of British Fossil Reptils (1849-1884) e
di varie altre opere, diede importanti contributi alla paleontologia degli
animali vertebrati. morfologico approfondito, ottenuto attraverso una
rigorosissima educazione dello sguardo, che è del tutto estraneo all’attuale
ricerca storica con la sua comparazione superficiale, tra Cristo e Budda, tra
Archimede e Galilei, tra Cesare e Wallenstein”?, tra i piccoli stati tedeschi e
quelli ellenici. Nel corso di quest'opera diventerà sempre più chiaro quali
immense prospettive si aprano allo sguardo storico, non appena questo metodo
rigoroso venga compreso ed elaborato anche all’interno della considerazione
della storia. Formazioni omologhe sono
per menzionarne qui soltanto alcune
l’arte plastica antica e la musica strumentale dell'Occidente, le
piramidi della Quarta dinastia e le cattedrali gotiche, il Buddismo indiano e
lo Stoicismo romano (mentre Buddismo e Cristianesimo z07 sono neppure
analoghi), l'epoca degli stati in lotta
della Cina, degli Hyksos e delle guerre puniche, le epoche di Pericle e degli
Omeiadi, le epoche del Rigveda”, di Plotino e di Dante. Omologhi sono la
corrente dionisiaca e il Rinascimento, analoghe sono invece la corrente
dionisiaca e la Riforma. Per noi lo ha
giustamente sentito Nietzsche Wagner
riassume la modernità . Di conseguenza dev’esserci qualcosa di corrispondente
anche per la modernità antica; ed è l’arte di Pergamo. Dall’omologia dei
fenomeni storici deriva nel medesimo tempo un concetto del tutto nuovo. Io
definisco contemporanei due fatti
storici che, ognuno nella sua cultura, compaiono esattamente nel medesimo luogo
(relativo) e hanno perciò un significato esattamente corrispondente. Si è già
mostrato come lo sviluppo della matematica antica e di quella occidentale siano
avvenuti in piena coerenza. In questo caso Pitagora e Descartes, Archita* e
Laplace, Archimede e Gauss” dovrebbe23. Albrecht Wenzel Euscbius von Waldstein
o Wallenstcin, condottiero delle armate imperiali durante la guerra dei
Trent'anni, in seguito accusato di tradimento e ucciso, La sua vita ispirò la
trilogia di Schiller che da Wallenstein prende il nome. 24. Prima parte dei
Veda, raccolta di inni e di racconti cosmogonici anteriori all'800 a. C., che
costituiscono il primo nucleo della letteratura metafisica indiana. 25. Archita
di Taranto, matematico greco della prima metà del secolo Iv, sviluppò l’opera
di Pitagora e fu in relazione con Platone. Gauss, matematico c astronomo
tedesco, autore delle Disquisitiones arithmeticae (1801) e di numerosi altri
scritti, dicde una nuova impostazione alla teoria dei numeri e aprì la strada
alle geometrie non cuclidec. Non meno ro essere designati come contemporanei;
la nascita dello ionico e del barocco si compie contemporaneamente; Polignoto”
e Rembrandt, Policleto” e Bach sono contemporanei. Contemporanei appaiono, in
tutte le culture, la Riforma, il Puritanesimo, e soprattutto la svolta che reca
alla civiltà in declino. Nell'antichità quest'epoca porta i nomi di Filippo e
di Alessandro; nell'Occidente l’avvenimento ad essa contemporaneo compare nella
forma della Rivoluzione francese e di Napoleone. Alessandria, Bagdad e
Washington vengono costruite contemporaneamente; l'apparizione delle antiche
monete e della nostra contabilità a partita doppia, della prima tirannide e
della Fronda, di Augusto e di Shih Huang Ti”, di Annibale e della guerra
mondiale avvengono contemporaneamente. Spero di dimostrare che tutte senza eccezione le grandi creazioni e forme della religione,
dell’arte, della politica, della società, dell'economia, della scienza sorgono,
si compiono e periscono contemporaneamente nelle diverse culture; che la
struttura interna di una corrisponde completamente a quella delle altre; che
nell'immagine storica di ogni cultura non c’è un solo fenomeno fornito di
profondo significato fisiognomico di cui non si possa rintracciare la
contropartita, in una forma rigorosamente definibile e in un luogo ben
determinato, anche nelle altre. Ma per cogliere l’omologia tra due fatti
occorre un approfondimento e un’indipendenza dall’apparenza della facciata completamente
diversi da quelli finora consueti tra gli storici, i quali non si sarebbero mai
sognati che il Protestantesimo trova il suo corrispettivo nel movimento
dionisiaco e che il Puritanesimo inglese dell'Occidente corrisponde all’Islam
nel mondo arabo. Da questo aspetto deriva una possibilità che va molto al di là
dell’ambizione di ogni ricerca storica precedente, la quale si importanti sono
le sue ricerche astronomiche: calcolò per primo l'orbita del pianetino Ccrere
cd elaborò un nuovo metodo di calcolo dell'orbita dei piancti. 27. Polignoto di
Taso, pittore greco vissuto nella prima metà del secolo v. 28. Policleto,
grande scultore greco del secolo v. 29. Shih Huang Ti, primo imperatore sovrano , è il titolo assunto
dal re Cheng dello stato di Ch'in dopo l'unificazione della Cina e la
soppressione degli altri stati indipendenti. A lui si devono la semplificazione
della scrittura cinese, l'estensione del sistema giuridico Ch'in a tutto
l'impero, l'organizzazione amministrativa dell'impero, nonché il completamento
della Grande muraglia. limitava essenzialmente a ordinare il passato, nella
misura in cui esso era conosciuto, secondo uno schema unilineare cioè la possibilità di procedere oltre il
presente come limite dell’indagine e di determinare in anticipo anche le epoche
zoz ancora trascorse della storia occidentale nella loro forma interna, nella
loro durata, nel loro ritmo, nel loro senso, nel loro risultato, ma anche la
possibilità di ricostruire con l’aiuto di connessioni morfologiche le epoche da
gran tempo scomparse e sconosciute, e perfino intere culture del passato. Si
tratta di un procedimento non dissimile da quello della paleontologia che oggi
è in grado di fornire, sulla base di un singolo frammento del cranio, nozioni
ampie e sicure sullo scheletro e sull’appartenenza del frammento a una specie
determinata. Una volta presupposto il ritmo fisiognomico è del tutto possibile
ritrovare, sulla base di particolarità disperse della decorazione,
dell’architettura e della scrittura, e di dati isolati di natura politica,
economica, religiosa, i tratti organici fondamentali dell'immagine storica di
interi secoli; è possibile ricavare da elementi del linguaggio formale
dell’arte la forma statale ad essa contemporanea, dalle forme matematiche il
carattere delle corrispondenti forme economiche. Si tratta di un procedimento
genuinamente goethiano, che riporta all’idea goethiana di feromeno originario,
e che è corrente nel limitato ambito della zoologia e della botanica
comparativa, ma che può venir esteso, in misura finora mai sospettata,
all'intero campo della storia. Sul concetto di politica abbiamo riflettuto più
di quanto fosse opportuno, e tanto meno ci siamo intesi sul modo di considerare
la politica reale. I grandi uomini di stato sono soliti agire immediatamente,
sulla base di un sicuro intuito dei fatti. Per essi ciò è tanto evidente che
non viene loro neppure in mente la possibilità di riflettere sui concetti
generali fondamentali di questo agire
posto che tali concetti esistano. Essi sapevano da sempre che cosa
dovevano fare. Una teoria in proposito non corrispondeva né al loro talento né
al loro gusto. Ma i pensatori di professione che posavano lo sguardo sui fatti
creati dagli uomini erano così intimamente distanti da questo agire che
perdevano tempo almanaccando di astrazioni
preferibilmente in immagini mitiche come quelle di giustizia, virtù,
libertà e in base ad esse misuravano
l’accadere storico del passato e soprattutto del futuro. Essi dimenticarono che
si trattava in fondo di semplici concetti, e pervennero alla convinzione che la
politica esista per dare forma al corso del mondo secondo una ricetta ideale. E
poiché una cosa simile non è avvenuta mai e in nessun luogo, l’agire politico
apparve loro così ristretto in confronto al pensiero astratto che nei loro
libri disputavano sul fatto se possa in qualche modo esserci un genio dell’azione . * Der Untergang des Abendlandes:
Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, cap. Il-iv: Der Staat, sezione 3: Philosophie der Politig,
Minchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-22, cd. definitiva 1923,
vol. II, pp. 544-579 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata,
per gentile concessione della Casa Editrice Longanesi). Qui si compirà invece il tentativo di creare,
anziché un sistema ideologico, una fisiognomica della politica quale è stata
realmente fatta nel corso della storia intera, e non così come avrebbe dovuto
essere fatta. Il compito era quello di penetrare il senso ultimo dei grandi
fatti, di vederli, di sentire e di circoscrivere il loro elemento
simbolicamente significativo. I progetti di miglioramento del mondo non hanno
nulla a che fare con la realtà storica?. Noi chiamiamo storia le correnti
dell’esistenza umana nella misura in cui le concepiamo come movimento; le
chiamiamo generazione, ceto, popolo, nazione nella misura in cui le concepiamo
invece come qualcosa di mosso. La politica è il modo e la maniera in cui
quest’esistenza che scorre si afferma, cresce, trionfa sulle altre correnti
della vita. Tutta la vita è politica, in ogni suo tratto istintivo, fino al
midollo. Ciò che oggi designiamo volentieri come energia vitale (come
vitalità), quel qualcosa in noi che vuole ad ogni costo avanzare e
sollevarsi, il cieco, cosmico, nostalgico impulso alla validità e alla potenza
che rimane legato a mo’ di pianta e di
razza alla terra, alla patria », quell’essere diretto e quel dover
necessaria mente agire costituisce quello che ovunque, tra gli uomini
superiori, cerca ed è costretto a cercare, come vita politica, le grandi
decisioni per essere oppure per subire un destino. Infatti o si cresce 0 si
muore: non c'è una terza possibilità. Per questo motivo la nobiltà come
espressione di una razza forte è il ceto propriamente politico: la disciplina,
non la cultura è la forma propriamente politica di educazione. Ogni grande
politico, che è un centro di forza nella corrente di ciò che accade, ha
qualcosa di nobile nel modo di sentire la propria a. I regni passano, un buon
verso rimane» così si esprimeva Wilhelm
von Humboldt sul campo di battaglia di Waterloo. Ma la personalità di Napoleone
ha plasmato in anticipo la storia dei secoli successivi, Per ciò che riguarda i
buoni versi, egli avrebbe dovuto interrogare in proposito un contadino per
strada. È vero che essi rimangono, ma per l'insegnamento della letteratura.
Platone è eterno, ma per i filologi. La figura di Napoleone domina però
interiormente noi tutti, i nostri stati e i nostri eserciti, la nostra opinione
pubblica, tutto il nostro essere politico
e in misura tanto maggiore quanto meno ne abbiamo coscienza. OSWALD
SPENGLER 757 vocazione e nel proprio legame interiore. Invece tutto ciò che è
microcosmico, tutto ciò che è spirito», è anche apolitico; perciò ogni politica
programmatica e ogni ideologia hanno qualcosa di sacerdotale. I migliori
diplomatici sono i fanciulli quando giocano o vogliono avere qualcosa. Allora
la sostanza cosmica presente nell'esistenza singola si fa strada immediatamente
e con una sicurezza da sonnambulo. Col destarsi della giovinezza gli uomini non
imparano, ma anzi disimparano questa maestria dei primi anni di vita: proprio
per questo motivo l’uomo di stato è cosa rara tra gli uomini. Queste correnti
dell’esistenza nell’ambito di una cultura superiore perché soltanto all’interno di essa e tra di
esse vi è grande politica — sono possibili solo al plurale. Un popolo esiste
realmente soltanto in rapporto ad altri popoli. Ma proprio per questo motivo il
rapporto naturale, razziale, tra di essi è la guerra. Si tratta di un fatto che
nessuna verità cambierà mai. La guerra è la politica originaria di ogzi essere
vivente, fino al punto che la lotta e la vita sono in fondo tutt'uno e che con
la volontà di lotta si spegne anche l'essere. Vi sono antiche parole germaniche
come orrusta e orlog che significano serietà e destino, in antitesi allo
scherzo e al gioco: è un rafforzamento, non una differenza di essenza. E se
ogni alta politica vuol essere una sostituzione della spada con armi
spirituali, se l'ambizione dell’uomo di stato alla sommità di tutte le culture
è quella di rendere quasi non più necessaria la guerra, rimane pur sempre
l’affinità originaria tra diplomazia e arte della guerra: il carattere di
lotta, la medesima tattica, la medesima astuzia bellica, la necessità di avere
sullo sfondo forze materiali per dare peso alle operazioni. Anche il fine
rimane lo stesso: la crescita della propria unità vitale — ceto o nazione — a
spese delle altre. Ogni tentativo di escludere questo ele- mento razziale
conduce soltanto alla sua trasposizione in un campo diverso: anziché tra
partiti c'è la lotta tra territori o, quando la volontà di crescita viene meno
anche qui, tra bande di avventurieri a cui il resto della popolazione
volontariamente si rassegna. In ogni guerra tra potenze della vita si tratta di
stabilire chi debba governare il tutto. È sempre una vita e mai un sistema, una
legge o un programma, che fornirà il ritmo nella 758 OSWALD SPENGLER corrente
dell’accadere ®. Essere il centro di azione, il centro attivo di una massa,
elevare la forma interiore della propria persona a forma di interi popoli e di
intere epoche, avere il comando della storia per poter condurre il proprio
popolo e la propria stirpe, con i suoi fini, al culmine degli avvenimenti —
questo è l'impulso inconsapevole e irresistibile operante in ogni essere
individuale fornito di vocazione storica. C'è soltan- to storia personale, e
quindi anche soltanto politica personale. La lotta non di princìpi ma di
uomini, non di ideali ma di caratteri razziali per esercitare il potere
costituisce il presuppo- sto e il fine della politica: le rivoluzioni stesse
non costituisco- no un'eccezione, poiché la
sovranità popolare non è che una
parola per esprimere il fatto che il potere dominante ha assun- to il titolo di
capo-popolo anziché quello di re. Con questo non muta il metodo di governare, e
neppure la posizione dei gover- nanti. Anche la pace universale, tutte le volte
che c’è sta- ta, non è stata altro che la schiavitù dell’umanità intera sotto
il governo di un piccolo numero di nature forti decise a dominare. Il concetto
di esercizio del potere implica già tra
gli animali che un’unità vitale si
frantumi in soggetti e oggetti di governo. Ciò è talmente ovvio che questa
struttura interna di ogni unità di massa non va perduta neppure un istante,
anche durante le crisi più gravi come quella del 1789. Soltanto il detentore
del potere scompare, non però l’ufficio; e quando nel corso degli avvenimenti
un popolo perde realmente ogni guida e si spinge in avanti senza regola, ciò
significa soltanto che trasferisce all’esterno la propria guida, perché è
diventato oggetto nella sua totalità. Non vi sono popoli politicamente dotati;
vi sono soltanto popoli che sono saldamente in mano a una minoranza gover-
nante e che quindi si trovano bene nella loro costituzione. Come popolo, gli
Inglesi sono altrettanto privi di giudizio, ristretti e poco pratici di cose
politiche che qualsiasi altra nazio- ne, ma posseggono, pur con tutto il loro
gusto per i dibattiti pubblici, una tradizione di fiducia. La differenza consiste
sem- plicemente nel fatto che l’Inglese è oggetto di un governo che a. È questo
il significato della frase inglese men not measures, che indica il segreto di
ogni politica che ha successo. OSWALD SPENGLER 759 ha consuetudini assai
antiche e ricche di successo, a cui egli acconsente perché ne conosce per
esperienza il vantaggio. Da questo consenso, che dal di fuori appare come
accordo, non c’è che un passo per arrivare alla convinzione che tale governo
dipenda dalla volontà popolare, anche se all’inverso è proprio esso che gli
inculca sempre, per motivi tecnici, questo punto di vista. La classe di governo
inglese ha sviluppato i suoi fini e i suoi metodi in piena indipendenza
dal popolo ; essa lavora con e in
una costituzione non scritta le cui finezze nient’affatto teoriche, nate
dall’uso, sono impenetrabili e in- comprensibili al profano. Ma il coraggio
della truppa dipende dalla fiducia nella guida
una fiducia che vuol dire rinuncia non arbitraria alla critica. È
l'ufficiale che rende eroi i codardi o codardi gli eroi: ciò vale per gli
eserciti, per i popoli, per i ceti come per i partiti. Il talento politico di
una massa non è altro che fiducia nella sua guida. Ma essa dev'essere guadagna-
ta; deve maturare lentamente, venir mantenuta in virtù del successo e diventare
tradizione. Il difetto di capacità direttive nello strato dominante si
manifesta come scarso sentimento di sicurezza presso i dominati, cioè come
quella specie di critica priva d'istinto e petulante, che mette fuori forma un
popolo con la sua semplice presenza. II Come si fa politica? L'uomo di stato nato è soprattutto un
conoscitore: un conoscitore di uomini, di situazioni, di cose. Egli possiede
lo sguardo che abbraccia integralmente, senza esitare,
l'ambito del possibile. Il conoscitore di cavalli saggia con ro sguardo il
portamento dell’animale e sa quali prospettive esso possiede nella corsa. Il
giocatore lancia uno sguardo all’avversario e ne conosce la prossima mossa.
Fare ciò che è giusto senza saperlo , la
mano sicura che allenta imper- cettibilmente o lascia andare del tutto la
redine tutto ciò è l'opposto dell’uomo
teoretico. Il ritmo segreto di ogni divenire è il medesimo in lui e nelle cose
storiche. L'uno ha sentore dell’altro, l’uno esiste per l’altro. L'uomo di
azione non si trova mai in pericolo di condurre una politica sentimentale o
programmatica. Non crede alle grandi parole: egli ha continua- 760 OSWALD
SPENGLER mente sulle labbra la domanda di Pilato. Verità ma l’uomo di stato nato sta al di là del vero
e del falso, non scambia la logica degli avvenimenti con la logica dei sistemi.
Le verità o gli errori , che sono qui la stessa
cosa vengono da lui considerate soltanto
come correnti spirituali, riguardo alla loro efficacia: egli ne scorge la
forza, la durata e la direzione, e le mette in conto per il destino della
potenza da lui diretta. Certamente possiede convinzioni che gli sono care, ma
come uomo privato; nessun politico di statura si è mai sentito dipendente da
esse mentre agiva. Colui che agisce è
sempre privo di coscienza; nessuno ha coscienza come ne ha l’uomo
contemplativo !. Ciò vale per Silla e
Robespierre così come per Bismarck e Pitt. I grandi papi e i capi-partito
inglesi, finché dovevano dirigere il corso delle cose, non seguivano princìpi
diversi da quelli dei conquistatori e degli agitatori di tutti i tempi. Si
tragga dalle azioni di Innocenzo III, che ha condotto la Chiesa vicino al
dominio del mondo, la loro regola fondamentale, e se ne ottiene un catechismo
del successo che rappresenta l’estremo opposto di ogni morale religiosa, ma
senza il quale nessuna chiesa, nessuna colonia inglese, nessun patrimonio
americano, nessuna rivoluzione vittoriosa, infine nessun stato e nessun
partito, nessun popolo si troverebbe in una situazione sopportabile. La vita,
non l’individuo, è priva di coscienza. Perciò occorre intendere il tempo per il
quale si è nati. Chi non avverte e non coglie le sue potenze più segrete, chi
non sente in se stesso qualcosa di affine che lo spinge in avanti per un
cammino che non si può circoscrivere con concetti, chi crede a ciò che sta in
superficie, all'opinione pubblica, alle grandi parole e agli ideali del giorno,
non è all’altezza dei suoi avvenimenti. Allora questi lo hanno in loro potere,
e non viceversa. Mai guardarsi alle spalle e mai trarre il criterio dal
passato! e tanto meno di fianco, da un qualsiasi sistema! In epoche come
l’attuale o come quella di Gracco vi sono due specie di idealismo infausto:
quello reazionario e quello democratico. L'uno crede nella reversibilità della
storia, l’altro nella presenza in essa di un fine. Ma per il necessario
insuccesso in cui entrambe gettano la nazione sul cui destino hanno acquisito
potere, è indifferente 1. GorrHe, Maximen und Reflexionen, 241. che la si sacrifichi a un ricordo o a un
concetto. L’uomo di stato genuino è la storia fatta persona; è il suo
orientamento in forma di volontà singola, la sua logica organica in forma di
carattere. Ma l’uomo di stato di valore dovrebbe anche essere un educatore in
senso elevato: non come rappresentante di una morale o di una dottrina, ma come
modello nel suo agire. È un fatto noto che nessuna religione nuova ha mai
mutato lo stile dell’esistenza. Essa ha penetrato l’essere desto, l’uomo
spirituale, ha gettato nuova luce su un mondo al di là, ha creato una felicità
incommensurabile con la forza della modestia, della rinuncia e della
sopportazione fino alla morte; ma sulle forze della vita non possedeva alcun
potere. Soltanto la grande personalità
la sostanza impersonale, la razza in essa presente, la forza cosmica che
le è connessa opera creativamente sul
vivente, non istruendo ma disciplinando, trasformando il tipo di interi ceti e
di interi popoli. Non /e verità, # bene, i sublime, bensì i;7 Romano, #
Puritano, : Prussiano costituiscono un fatto. Il sentimento dell’onore, il
sentimento del dovere, la disciplina, la decisione sono tutte cose che non si
imparano dai libri; esse vengono destate, nel fluire dell’esistenza, da un
modello vivente. Perciò Federico Guglielmo I? fu uno dei più grandi educatori
di tutti i tempi e il suo portamento personale, plasmatore di una razza, non è
più scomparso nel susseguirsi delle generazioni. Ciò che distingue l’uomo di
stato genuino dal semplice politico, dal giocatore per diletto, dal cacciatore
di felicità che opera sulle sommità della storia, dall’avido e dall’ambizioso,
dal maestro di scuola che va predicando un ideale, è il fatto che egli può
esigere il sacrificio e lo ottiene perché il sentimento di essere necessario
all’epoca e alla nazione viene condiviso da migliaia di uomini, li plasma fin
nel loro intimo e li rende capaci di imprese alla cui altezza non si sarebbero
altrimenti mai sollevati*. a. Ciò vale, in definitiva, anche per le chiese, le
quali sono qualcosa di completamente diverso dalle religioni, cioè elementi del
mondo dei 2. Federico Guglielmo I (1688-1740), re dì Prussia dal 1713 alla
morte, pose le basi dell’amministrazione dello stato prussiano: la sua
parsimonia e la sua vita frugale servirono di esempio a generazioni di funzionari
del nuovo stato. Ma il momento supremo
non consiste nell’agire, bensì nel poter comandare. Soltanto con questo il
singolo cresce al di sopra di sé, diventando il punto centrale di un mondo
attivo. C'è una specie di comandare che fa dell’obbedire una consuetudine
fiera, libera e nobile e che Napoleone,
per esempio, non ha posseduto. Un residuo di mentalità subalterna gli ha
impedito di educare degli uomini e non degli strumenti di registrazione, di
dominare tramite personalità anziché mediante decreti; e poiché non era capace
di questa sensibilità sottile del comandare e doveva quindi fare da solo tutto
quanto era veramente decisivo, doveva a poco a poco fallire a causa della
sproporzione tra i compiti della sua posizione e i limiti della capacità di azione
umana. Ma chi possiede questa dote suprema e ultima dell’umanità più
perfetta come Cesare o Federico il
Grande alla sera di una battaglia,
quando le operazioni vanno incontro all’esito voluto e la campagna si decide
con la vittoria, oppure nell’ora in cui si conclude, con l’ultima firma,
un’epoca della storia, prova un sentimento di potenza meraviglioso che rimane
per sempre precluso agli uomini della verità. Vi sono attimi che indicano i punti più alti delle correnti
cosmiche in cui l’individuo è
consapevole di essere identico al destino e di stare al centro del mondo, e
percepisce la sua personalità quasi come il manto di cui la storia futura è in
procinto di avvolgersi. Il primo compito è di fare qualcosa da sé; il secondo,
meno appariscente ma più difficile e più grande nella sua efficacia remota, è
di creare una tradizione, di coinvolgere altri affinché proseguano la propria
opera, il suo ritmo e il suo spirito; scatenare una corrente di attività
unitaria che non ha più bisogno del primo capo per mantenere la propria forma.
Con ciò l’uomo di stato cresce a un’altezza che l’antichità ha definito come
divinità: diventa il creatore di una vita nuova, il capostipite spirituale di
una razza giovane. Dopo pochi anni egli scompare, come essere singolo, da
questa corrente. Ma una fatti e quindi
nel carattere della loro guida
fenomeni politici e non religiosi. Non la predica cristiana, ma il
martire cristiano ha conquistato il mondo, e del possesso di questa forza egli
era debitore non già alla dottrina, ma all’esempio dell'Uomo sulla croce.
minoranza da lui suscitata, un altro essere di specie assai rara, subentra al
suo posto per un tempo indeterminato. Un individuo può produrre e lasciare come
eredità questo elemento cosmico, quest’anima di uno strato dominante; in tutta
la storia questo ha sempre dato effetti durevoli. Il grande uomo di stato è
raro: se egli venga, se si affermi, se troppo presto o troppo tardi tutto ciò è affidato al caso. I grandi
individui spesso distruggono più di quanto non abbiano costruito, e ciò a causa
del vuoto che la loro morte lascia nella corrente dell’accadere. Ma creare una
tradizione vuol dire escludere il caso. Una tradizione alleva un tipo medio
elevato su cui il futuro può fare sicuro affidamento: non un Cesare, ma un
senato; non un Napoleone, ma un corpo incomparabile di ufficiali. Una forte
tradizione attrae da tutte le parti i talenti e consegue grandi successi con
ridotte capacità: lo dimostrano le scuole pittoriche italiane e olandesi non
meno dell’esercito prussiano e della diplomazia della curia romana. È stata una
grande debolezza di Bismarck in
confronto a Federico Guglielmo I che
egli abbia sì saputo agire, ma non formare una tradizione, che non abbia creato
accanto al corpo di ufficiali di Moltke® una razza corrispondente di politici
che si identificasse con il suo stato e con i nuovi compiti da esso posti, che
traesse continuamente dal basso uomini importanti incorporando per sempre il
loro stile di azione. Se ciò non avviene, anziché uno strato di governo formato
di un sol getto si avrà un insieme di teste che affronta disarmata
l’imprevisto. Ma se ciò riesce, allora sorge un
popolo sovrano nell’unico senso
che è degno di un popolo e che è possibile nel mondo dei fatti; una minoranza
ben integrata e altamente selezionata, provvista di una tradizione sicura e
maturata attraverso una lunga esperienza, che attrae c utilizza sul suo cammino
ogni talento e che proprio per questo motivo si trova in accordo con il resto
della nazione da essa governato. Una minoranza siffatta diventa a poco a poco
una razza genuina anche se una volta era
stata un partito e 3. Helmuth Carl
Bernhard von Moltke (1800-1891), generale prussiano, prestò dapprima servizio
nell’esercito turco; ritornato in Germania nel 1840, diresse le armate
prussiane nella guerra del 1866 conuo l’Austria e poi nella guerra
franco-tedesca del 1870-71. A lui si deve l’organizzazione in forma moderna
dell’esercito prussiano: grande stratega, ebbe una parte decisiva nell'esito
vittorioso delle due guerre. decide con la sicurezza del sangue, non
dell’intelletto. Proprio per questo motivo tutto accade in essa da sé: non ha più bisogno del genio. Ciò
significa, se così si può dire, la sostituzione del grande politico con la
grande politica. Ma che cos'è la politica?
Essa è l’arte del possibile: è una formula antica, che dice quasi tutto.
Il giardiniere può trarre una pianta dal seme o nobilitarne la specie; può
dispiegare o lasciar deperire le disposizioni in essa latenti, la sua crescita
e la sua foggia, la sua fioritura e i suoi frutti. Dal suo sguardo per il
possibile, e quindi per il necessario, dipendono la perfezione, la forza,
l’intero destino della pianta. Ma la forma fondamentale e la direzione della
sua esistenza, le sue fasi di sviluppo, la sua velocità e la sua durata, la
legge secondo cui si manifesta 70n sono
in potere del giardiniere. Essa deve realizzarla, oppure muore; e la stessa
cosa vale per quell’immensa pianta che è la cultura e per le correnti dell’esistenza
di generazioni umane racchiuse nel suo mondo di forme politiche. Il grande uomo
di stato è il giardiniere di un popolo. Ogni individuo che agisce è nato in e
per un determinato tempo. In tal modo è determinato anche l’ambito di ciò che
può venir conseguito da /ui. Il nonno e il nipote hanno di fronte cose
differenti; anche il loro fine e il loro compito sono quindi differenti.
L'ambito si restringe ulteriormente a causa dei limiti della sua personalità e
delle qualità del suo popolo, della situazione e degli uomini con cui deve
lavorare. Ciò che qualifica il politico di statura è il fatto che di rado egli
deve fare sacrifici per essersi ingannato su questi limiti, ma anche il fatto
che non tralascia nulla di quanto può essere realizzato. In ciò rientra pure e proprio tra Tedeschi non si ripeterà mai
abbastanza il fatto che egli non scambia
ciò che dovrebbe essere con.ciò che sarà. Le forme fondamentali dello stato e
della vita politica, la direzione e il luogo del suo sviluppo sono dati con un
determinato tempo, e sono immutabili. Tutti i successi politici vengono
conseguiti con questi clementi, non già a loro spese. Gli adoratori degli
ideali politici creano dal nulla: essi sono
nelle loro teste
sorprendentemente liberi; ma i loro edifici ideali, costruiti su
concetti vuoti come quelli di saggezza, giustizia, libertà, eguaglianza sono in
definitiva sempre gli stessi, e ricominciano sempre da capo. A chi è padrone
dei fatti basta dirigere in modo impercettibile ciò che gli è semplicemente
presente. Questo sembra poca cosa; e tuttavia soltanto qui comincia la libertà
in senso elevato. Ciò che conta sono le piccole mosse, l’ultima cauta pressione
sul timone, la fine sensibilità per le sfumature più sottili dell’anima dei
popoli e degli individui. L'arte dello stato è da un lato chiara visione delle
grandi linee tracciate in modo irrevocabile; dall’altro è mano sicura per ciò
che è singolare e personale, per ciò che in questo quadro può trasformare un
disastro che si approssima in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria
risiede nell’organizzazione di quanto non appare. Chi sa far questo può
dominare il vincitore come rappresentante dei vinti, al pari di Talleyrand a
Vienna. Cesare, la cui posizione era allora quasi disperata, ha posto a Lucca
al servizio dei propri fini, senza farsi accorgere, la potenza di Pompeo,
scavandogli così la fossa. Ma vi è un pericoloso limite del possibile, che la
perfetta sensibilità dei grandi diplomatici dell’epoca barocca non ha quasi mai
toccato, mentre è privilegio degli ideologi inciamparvi continuamente sopra. Vi
sono svolte nella storia da cui il conoscitore si lascia trascinare per un
intero periodo, pur di non perdere il dominio. Ogni situazione possiede la
propria misura di elasticità, sulla quale non ci si può ingannare in nessun
modo. Una rivoluzione giunta al suo scoppio dimostra sempre una deficienza di
sensibilità politica, sia dei governanti sia dei loro avversari. Il necessario
dev'essere fatto al tempo giusto, cioè fin quando è un dono con cui il potere
del governo si assicura la fiducia, e non dev'essere fatto come un sacrificio
che manifesti debolezza e desti disprezzo. Le forme politiche sono forme
viventi che si trasformano inesorabilmente in una determinata direzione. Si
cessa di essere in forma quando si vuol
ostacolare questa marcia oppure deviarla in direzione di un ideale. La nobiltà
romana possedette questa sensibilità; non così quella spartana. Nell’epoca
dell’ascesa della democrazia si è sempre pervenuti all’attimo fatale in Francia prima del 1789, in Germania prima
del 1918 in cui era troppo tardi per
presentare una riforma necessaria come un libero dono, e quindi si sarebbe
dovuto rifiutarla con energia priva di esitazione in quanto ora, come sacrificio,
preparava la dissoluzione. Ma chi non vede per tempo la prima necessità,
disconoscerà ancora più sicuramente la seconda. Anche il viaggio a Canossa può
avvenire troppo presto o troppo tardi; in ciò risiede, per interi popoli, la
decisione se essi saranno in futuro un destino per gli altri, oppure se
dovranno subirlo da altri. Ma la democrazia in decadenza ripete lo stesso
errore di voler tenere fermo ciò che era l’ideale di ieri: questo è il pericolo
del secolo xx. Su ogni sentiero che conduce al cesarismo si trova un Catone.
L'influenza che anche un uomo di stato in posizione eccezionalmente forte può
avere sui metodi politici è assai ristretto; è proprio del valore dell’uomo di
stato non farsi illusioni in proposito. Il suo compito è di lavorare con e
dentro le forme storiche presenti; soltanto il teorico si entusiasma a scoprire
forme più ideali. Nell’essere in forma politico rientra però l’incondizionato
padroneggiamento dei più moderni. Qui non c'è nessuna scelta: i mezzi e i
metodi sono dati dal tempo, e appartengono alla forma interna di un’epoca. Chi
si sbaglia su di essi, chi consente al suo gusto e al suo sentimento di
prevalere sulla propria sensibilità, perde di mano i fatti. Il pericolo di
un’aristocrazia è di essere conservatrice nei mezzi; il pericolo della
democrazia è di scambiare la formula con la forma. I mezzi del presente sono
ancora per molti anni quelli parlamentari: le elezioni e la stampa. Su di essi
si può avere l’opinione che si vuole, si può onorarli o disprezzarli, ma
bisogna padroneggiarli. Bach e Mozart padroneggiavano i mezzi musicali del loro
tempo: questo è l’indice di ogni specie di maestria. Le cose non stanno
diversamente per l’arte dello stato. Ma quella che importa non è, in ogni caso,
la forma esteriore generalmente visibile, bensì ciò di cui è il rivestimento.
Perciò essa può venir mutata senza che sia mutato qualcosa nell’essenza
dell’accadere; può venir tradotta in concetti e in testi costituzionali senza
neppur incidere sulla realtà; e l’ambizione di tutti i rivoluzionari e
dottrinari si riduce a immischiarsi in questo gioco di diritti, di princìpi e
di libertà alla superficie della storia. L'uomo di stato sa che l’estensione
del diritto di voto è del tutto inessenziale rispetto alla tecnica ateniese o
romana, giacobina, americana e ora anche tedesca, di fare le elezioni. Comunque
suoni la costituzione inglese, ciò è indifferente di fronte al fatto che la sua
applicazione è controllata da un piccolo strato di famiglie nobili, di modo che
Edoardo VII‘ era un ministro del proprio ministero. Per quanto riguarda la
stampa moderna, il visionario può ben appagarsi del fatto che essa è
costituzionalmente libera ; il
conoscitore si domanda soltanto chi ne dispone. La politica è infine la forma
in cui si compie la storia di una nazione in una pluralità di nazioni. La
grande arte consiste nel mantenere internamente in forma la propria nazione in
vista degli avvenimenti esterni. Non soltanto per i popoli, gli stati e i ceti,
ma per le unità viventi di ogni specie fino ai gruppi di animali più semplici e
al corpo dell'individuo, questo è il rapporto naturale tra politica interna e
politica estera: la prima esiste esclusivamente per la seconda, e non
viceversa. Il democratico genuino tratta di solito la politica interna come uno
scopo in sé, mentre il diplomatico di media levatura pensa soltanto alla politica
estera. Ma proprio per questo motivo i risultati particolari di entrambi
restano sospesi in aria. Senza dubbio il maestro nell’arte politica si rivela
nel modo più marcato nella tattica delle riforme interne, nella sua attività
economica e sociale, nell’abilità di mantenere in accordo, e al tempo stesso
funzionante, la forma pubblica della totalità
diritti e libertà con il gusto
dell’epoca, e nell'educazione di sentimenti senza i quali non è possibile che
un popolo si mantenga in buona costituzione: fiducia, rispetto dei capi,
consapevolezza della propria potenza, soddisfazione e, se diventa necessario,
entusiasmo. Ma tutto ciò mantiene il suo valore soltanto in riferimento al
fatto fondamentale della storia superiore, cioè al fatto che un popolo non è
solo al mondo e che per il suo futuro è decisivo il rapporto di forze con altri
popoli e altre potenze, non il semplice ordinamento interno. E poiché lo
sguardo dell’uomo comune non giunge tanto in là, è la minoranza governante che
deve possederlo anche per il re4. Edoardo VII (1841-1910), re d’Inghilterra a
partire dal rgor, alla morte della madre regina Vittoria, promosse una politica
di entenze con la Francia e la Russia: il suo regno come allude qui Spengler si ispirò ai più rigorosi principi costituzionali.
sto del popolo: quella minoranza in cui l’uomo di stato trova lo strumento con
cui può realizzare i suoi propositi *. III Per la politica primitiva di ogni
cultura le potenze direttive rappresentano un dato di fatto. L’intera esistenza
riveste una forma rigorosamente patriarcale e simbolica; i condizionamenti del
territorio materno sono così forti, il vincolo feudale e anche lo stato fondato
sul ceto sono, per la vita così circoscritta, una cosa talmente ovvia che la
politica dell’epoca omerica e dell’epoca gotica si limita ad agire nel quadro
di forme date. Queste forme mutano, in certa misura, per proprio conto. Che
questo sia un compito della politica non perviene mai chiaramente alla
coscienza, anche quando una monarchia è rovesciata o una nobiltà è
assoggettata. Esiste soltanto una politica di ceto, una politica imperiale,
papale, di vassalli. Il sangue, la razza, parla con imprese impulsive e
semi-consapevoli, poiché anche il sacerdote, nella misura in cui fa politica,
agisce qui come uomo di razza. I
problemi dello stato non si sono ancora destati. La signoria e i ceti
originari, l’intero mondo di forme primitive, sono dati da Dio, e soltanto in
base a questo presupposto si combattono minoranze organiche, fazioni. È proprio
dell’essenza della fazione che non le venga neppua. Non ci sarebbe neppure
bisogno di sottolineare che questi non sono i princìpi di un governo
aristocratico, ma del governare in genere. Nessun capo di masse fornito di
talento né Cleone5 né Robespierre né
Lenin ha mai considerato diversamente il
suo ufficio. Chi si sente realmente l’incaricato della moltitudine anziché il
dirigente di coloro che non sanno quello che vogliono, non sarà padrone in casa
propria neppure per un giorno. La questione è soltanto quella di stabilire se i
grandi capi-popolo facciano uso della loro posizione a vantaggio proprio o
degli altri; e su quest'argomento ci sarebbe parecchio da dire. 5. Cleone, uomo
politico ateniese del secolo v a. C., pervenuto al potere dopo la morte di
Pericle (429 a. C.), capeggiò il partito favorevole a una guerra offensiva
contro Sparta. Morì in battaglia ad Amfipoli nel 422 a. C., dopo che le sorti
del conflitto già volgevano a sfavore di Atene. re in mente l’idea di poter
mutare secondo un programma l’ordine delle cose. La fazione vuol conquistare un
posto all’in- terno di quest'ordine, vuole conquistare potenza e possesso, co-
me tutto ciò che cresce in un mondo che cresce. Si tratta di gruppi in cui
hanno un ruolo la parentela tra i casati, l'onore, la fedeltà, i vincoli di
un’interiorità quasi mistica, e da cui rimangono del tutto escluse le idee
astratte. Di questo genere sono le fazioni dell’epoca omerica e gotica,
Telemaco e i Proci di Itaca, gli Azzurri e i Verdi sotto Giustiniano, i Guelfi
e i Ghibellini, i casati di Lancaster e di York, i Protestanti?, gli Ugonotti,
e ancora le potenze che hanno suscitato la Fronda e la prima tirannide. Il
libro di Machiavelli poggia completamen- te su questo spirito. Una svolta
subentra non appena assume la guida con
le grandi città il non-ceto, cioè la
borghesia. Ora, al contrario, è la forma politica che assurge a oggetto della
lotta, a proble-ma: fin allora era maturata, ora dev'essere creata. La politica
si desta; non soltanto viene concepita, ma anche tradotta in concetti. Contro
il sangue e la tradizione si sollevano le poten- ze dello spirito e del denaro.
Al posto dell'organico subentra l'organizzato, al posto del ceto subentra il
partito. Un partito non è una formazione razziale, ma un insieme di teste e
per- ciò tanto superiore agli antichi ceti nello spirito, quanto più povero
nell’istinto. Esso è il nemico mortale di ogni articolazio- ne sviluppata in
base al ceto, la cui semplice presenza ne con- traddice l’essenza. Proprio per
questo motivo il concetto di partito è sempre legato con il concetto
incondizionatamente negatore, dissolutore e socialmente livellatore
dell'eguaglianza. Non si riconoscono più ideali di ceto, ma solamente interessi
professionali ®. Ma esso è legato anche a quello, altrettanto ne- gatore, della
libertà: / partiti sono un fenomeno puramente cittadino. Con la completa
liberazione della città dalla campa- gna la politica di ceto lascia ovunque il
passo alla politica di partito poco
importa che ne abbiamo conoscenza oppure a. I quali erano, in origine,
un'alleanza di diciannove principi e città libere. b. Perciò sul terreno
dell’eguaglianza borghese il possesso di denaro prende subito il posto che
prima occupava il rango genealogico. no: in Egitto con la fine del Regno di
mezzo®, in Cina con gli stati combattenti”, a Bagdad e a Bisanzio con gli
Abassidi*. Nelle capitali dell'Occidente si formano i partiti di tipo parla-
mentare, nelle città-stato antiche i partiti del foro; partiti di stile magico
li conosciamo nel Maali® e presso i monaci di Teodoro di Studion *"°. Ma è
sempre il n0m-ceto, l’unità della protesta contro l’essen- za del ceto in
generale, la cui minoranza dirigente
cultura e possesso si presenta come
partito fornito di un program- ma, di uno scopo non sentito ma definito, e che
rifiuta tutto quanto non si lascia cogliere intellettualmente. Esiste perciò,
in fondo, un unico partito quello della
borghesia, quello liberale; ed esso è anche pienamente cosciente di questo
rango. Esso si identifica con il popolo
. I suoi avversari, soprattutto i ceti genuini,
Juzker e preti, sono nemici e traditori
del popolo , mentre la propria opinione è la voce del popolo , che viene iniettata a
questo con tutti i mezzi della manipolazio- ne politica di partito come il
discorso del foro o la stampa occidentale, per poterla quindi rappresentare. a.
Cfr. anche J. WeLLHausen, Die religiòs-politischen Oppositionspar- teien im
alten Islam, Gòttingen, 1901. 6. Periodo della storia egiziana che abbraccia
l'Undicesima e la Dodicesima di- nastia, dal secolo xx1 a. C. all'invasione
degli Hyksos: in quest'epoca la capitale del- l'Egitto fu trasferita da Memfi a
Tebe, c il nuovo stato raggiunse un maggior grado di unità attraverso il
controllo esercitato sulla nobiltà feudale delle province e le sue ten- denze centrifughe.
7. Con l’espressione Clan-kso ( stati combattenti ) si designano gli ultimi duc
secoli e mezzo di dominio della dinastia Chou
vale a dirc il periodo che va dal 500 circa al 249 a. C. caratterizzati da una situazione di anarchia
feudale e di lot- te tra i diversi regni che costituivano l'Impero cinese. 8.
Dinastia araba succeduta a quella omeiade, che salì al potere nel 750 trasfe-
rendo Ja capitale del mondo arabo da Damasco a Bagdad. Il suo dominio entra in
erisi verso la fine del secolo, giungendo al termine nel 1055, quando i Turchi
selgiu- cidi da tempo convertiti alla
fede islamica conquistano Bagdad.
Tuttavia il ca- liffato abasside continuerà formalmente a esistere fino al
1258, quando sarà soppresso dai Mongoli che subentreranno ai Turchi nel
possesso di Bagdad. 9. Il Maali (o Mali) è una regione dell’Africa a sud del
Sahara, sull'alto corso del Niger, dove nei secoli xiv e xv si sviluppò un
regno reso particolarmente fiorente dal- la posizione strategica di alcune
città-mercato come Timbuktu c Gao. 10. Tcodoro di Studion (759-826), monaco
bizantino, abate del monastero di Stu- dion a Costantinopoli, fu coinvolto
nella disputa sull’iconoclastia e assunse posizione favorevole al culto delle
immagini: scrisse tre Légoi antirretikoì, inni sacri e varie lettere. I ceti
originari sono la nobiltà e il clero. Il partito origina- rio è quello del
denaro e dello spirito, il partito liberale, il partito della grande città. Qui
risiede la giustificazione profon- da dei concetti di aristocrazia e di
democrazia, e ciò per tutte le culture. Aristocratico è il disprezzo per lo
spirito delle cit- tà, democratico è il disprezzo per il contadino, l’odio per
la campagna. È questa la differenza tra politica di ceto e politica di partito,
tra coscienza di ceto e mentalità di partito, tra razza e spirito, tra crescita
e costruzione. Aristocratica è la cultura compiuta, democratica è l’incipiente
civiltà in declino della metropoli, finché l’antitesi non viene superata nel
cesarismo. Come è certo che la nobiltà è :/ ceto, e che il terzo stato non
perverrà mai a essere realmente in forma in questa maniera, così è certo che la
nobiltà riuscirà sì a organizzarsi in partito, ma non a sentirsi tale. Ma la
rinuncia a ciò non le è consentita. Tutte le costituzioni moderne rinnegano i
ceti e sono organizzate sulla base del partito come l’ovvia forma fondamentale
della politica. Il secolo x1x, e nello stesso modo anche il n a. C., è l’apogeo
della politica di partito. Il suo carattere democratico impone la formazione di
partiti contrapposti, e mentre una volta
ancora nel secolo xvi il terzo
stato si costituiva come ceto secondo il modello della nobiltà, ora invece la
formazione difensiva del partito conservatore sorge in base al modello del
partito liberale ® completamente dominato dalle forme di esso, borghesizzato
senza essere borghese, costretto a una tattica i cui mezzi e i cui metodi sono
esclusivamente determinati dal liberali smo. Esso ha soltanto la scelta tra
maneggiare questi mezzi meglio dell'avversario © o soccombere. Ha però profonde
radici a. Alla democrazia inglese e americana è essenziale il fatto che in
Inghilterra i contadini sono scomparsi e che in America non sono mai esistiti.
Il farmer è spiritualmente un abitante dei sobborghi, e praticamente esercita
l'agricoltura come un'industria: in luogo dei villaggi vi sono soltanto
frammenti di metropoli. b. Ed essa sorge ovunque tra i due ceti originari
sussiste anche una antitesi politica, come in Egitto, in India e in Occidente,
e anche dove c'è un partito clericale, cioè non una religione ma una chiesa,
non dei fedeli ma un clero. c. E il suo più forte contenuto di razza gliene dà
tutte le prospettive. nell’essenza di un ceto il fatto che esso non colga
questa situazione e voglia combattere non il nemico, ma la forma: di qui un
appello ai mezzi estremi che ha devastato, all’inizio del declinare di ogni
civiltà, la politica interna di interi stati, consegnandoli inermi
all’avversario esterno. La necessità, propria di ogni partito, di essere
borghese nell’apparenza diventa caricatura non appena, a fianco degli strati
cittadini forniti di cultura e di possesso, si organizza come partito anche il
resto del popolo. Così, per esempio, il marxismo, che in teoria è una negazione
della borghesia, come partito è invece del tutto piccolo-borghese nel suo
comportamento e nella sua guida. Vi è un conflitto permanente tra la volontà,
che esce necessariamente fuori del quadro della politica di partito e quindi di
ogni costituzione entrambe sono
esclusivamente liberali e che può venir
designata in modo onorevole solo come guerra civile, e il suo modo di
presentarsi, al quale ci si crede obbligati e che in ogni caso bisogna tenere
per conseguire in quest'epoca qualche risultato durevole. Ma il modo di
presentarsi di un partito nobiliare in parlamento è intimamente tanto poco
genuino quanto quello di un partito proletario. Qui soltanto la borghesia è a
casa propria. A Roma patrizi e plebei hanno combattuto essenzialmente come
ceti, dall’istituzione dei tribuni nel 471 a. C. fino al riconoscimento del
loro pieno potere legislativo nella rivoluzione del 287 a. C. A partire da quel
momento l’antitesi ha un’importanza soltanto più genealogica, e si sviluppano
partiti che si possono a buon diritto designare come partito liberale e partito
conservatore: il populus che dava il tono al foro® e la nobiltà che aveva il
proprio sostegno nel senato. Intorno al 287 a. C. quest’ultimo si trasforma da
consiglio di famiglia delle antiche stirpi in un consiglio di stato
dell’aristocrazia amministrativa. Vicini al populus .sono i comizi centuriati,
organizzati in base al posa. La plebs corrisponde al terzo stato borghesi e contadini del secolo xvin, mentre il populus corrisponde
alla massa metropolitana del secolo xix. Questa
differenza si esprime nel comportamento nei confronti degli schiavi liberati,
in gran parte di origine non italica, che la plebs come ceto cerca di relegare
nel minor numero possibile di tribus, mentre nel populus come partito essi
avranno ben presto un'importanza determinante. sesso, e il gruppo dei grandi
finanzieri, gli equites; vicino alla nobiltà è invece la classe contadina,
influente nei comizi tributi. Si pensi da un lato ai Gracchi e a Mario,
dall’altro a Caio Flaminio; e basta guardare un po’ più attentamente per osservare
la posizione del tutto mutata dei consoli e dei tribuni. Essi non sono più gli
uomini di fiducia nominati dal primo e dal terzo stato, il cui comportamento è
determinato da questo fatto, bensì rappresentano e cambiano il partito. Vi sono
consoli liberali come Catone il Vecchio
e tribuni conservatori come Ottavio,
l'avversario di Tiberio Gracco. Entrambi i partiti stabiliscono i loro
candidati per le elezioni e cercano di imporli con tutti i mezzi di manipolazione
demagogica; e se l’uso del denaro non ha avuto successo nelle elezioni, avrà
miglior sorte sugli eletti. In Inghilterra tories e whigs si sono costituiti
come partiti all’inizio del secolo x1x, borghesizzandosi nella forma e
assumendo entrambi alla lettera il programma liberale: in tal modo l'opinione
pubblica era, come sempre, completamente convinta e soddisfatta. In virtù di
questa conversione magistrale, e compiuta al tempo giusto, non si arrivò alla
formazione di un partito nemico del ceto, com’era avvenuto nella Francia del
1789. I membri della Camera Bassa diventarono, da emissari dello strato sociale
dominante, rappresentanti del popolo che ne dipendevano d’ora in poi
finanziariamente; ma la guida rimase nelle stesse mani e l’opposizione tra i
partiti, per la quale fin dal 1830 vennero spontaneamente coniati i
termini liberale e conservatore, poggiò
su una questione di più o di meno, non già su un alternata Sono i medesimi anni
in cui l'aspirazione letteraria alla libertà della Giovane Germania si trasformava in una mentalità di partito;
gli anni in cui nell’America del presidente Jackson " il partito
repubblicano si organizzava contrapponendosi a quello democratico, e il
principio che le elezioni sono un affare e che tutti gli uffici pubblici sono
bottino del vincitore veniva riconosciuto formalmente *. a. Contemporaneamente
la Chiesa cattolica passa silenziosa dalla politica di ceto alla politica di
partito, con una sicurezza strategica che non 11. Andrew Jackson (1767-1845),
presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837: sotto la sua presidenza si
consolidò la struttura bipartitica della vita politica americana. 774 OSWALD
SPENGLER Ma la forma della minoranza dirigente si sviluppa izarrestabilmente
dal ceto, attraverso il partito, fino a diventare un seguito di individui. La
fine della democrazia e il suo trapasso al cesarismo si manifesta quindi nel
fatto che non scompare tanto il partito del terzo stato, il liberalismo, bensì
il partito come forma in generale. La mentalità, il fine popolare, gli ideali
astratti di ogni genuina politica di partito si dissolvono e in loro luogo
subentra la politica privata, la sfrenata volontà di potenza di pochi uomini di
razza. Un ceto ha un istinto, un partito ha un programma, un seguito ha un
padrone: questa è la strada che dal patriziato e dalla plebe, passando
attraverso ottimati e popolari, conduce ai pompeiani e ai cesariani. L'epoca
del genuino dominio dei partiti abbraccia a malapena due secoli e presso di noi
è, dopo la guerra mondiale, già in piena decadenza. Che l’intera massa
dell’elettorato mandi avanti, per un impulso comune, uomini che devono
sostenere la sua causa come è detto
ingenuamente in tutte le costituzioni
era possibile soltanto all’inizio, e presuppone che non siano presenti
neppure le premesse dell’organizzazione di determinati gruppi. Così era nel
1789 in Francia, e nel 1848 in Germania. All’esistenza di un’assemblea è però
subito legata la formazione di unità tattiche la cui coesione poggia sulla
volontà di affermare la posizione dominante acquisita e che non si considerano
più affatto portavoce dei propri elettori, ma, al contrario, li rendono docili
con tutti i mezzi di propaganda per disporli ai propri scopi. Una tendenza del
popolo che si sia organizzata è con ciò già diventata lo strumento
dell’organizzazione, e sarà mai ammirata abbastanza. Nel secolo xvi essa era
stata completamente aristocratica per ciò che riguardava lo stile della sua
diplomazia, l'assegnazione delle grandi cariche e lo spirito dei suoi circoli
più elevati. Si pensi al tipo di abate e ai principi della chiesa che
diventarono ministri e ambasciatori, come il giovane cardinale di Rohan !?.
Ora, in modo del tutto liberale , alla nobiltà dell'origine si sostituisce Ia
mentalità, al gusto la capacità di lavoro, e i grandi mezzi della democrazia stampa, elezioni, denaro vengono da essa manipolati con un'abilità che
il liberalismo vero e proprio ha raggiunto ben di rado, e mai superato. 12.
Louis René Edouard cardinale di Rohan (1734-1803), fu ambasciatore speciale a
Vienna dal 1771 al 1774, e in seguito arcivescovo di Strasburgo dal 1779 al
1801. procede inarrestabilmente su questa strada finché anche l’organizzazione
non è diventata strumento dei capi. La volontà di potenza è più forte di ogni
teoria. All’inizio, la guida e l’apparato sorgono in funzione del programma;
poi vengono difesi dai detentori a causa della potenza e del bottino come oggi avviene generalmente, dato che in
tutti i paesi migliaia di persone vivono del partito, degli uffici e degli
affari che esso offre; infine il programma scompare dal ricordo e
l’organizzazione lavora soltanto a proprio profitto. Nel caso del più vecchio
degli Scipioni e di Quinto Flaminio possiamo ancora parlare di amici che li
seguono in guerra, ma Scipione minore si è formata una colors amicorum certamente il primo esempio di un seguito
organizzato che lavora poi anche davanti
al tribunale e nel corso delle elezioni * Analogamente, il rapporto di fedeltà
tra patrono e clienti, in origine del tutto patriarcale e aristocratico, si
sviluppa fino a diventare una comunità di interessi basata su un fondamento
assai materiale; e già prima di Cesare vi sono contratti scritti tra candidati
ed elettori con la precisa determinazione del compenso e della prestazione
corrispondente. D'altra parte si costituiscono
esattamente come nell’America odierna®
i circo- li e le associazioni elettorali dei tribuni che dominano o
spaven- tano la massa elettorale del distretto per poter negoziare l’affa- re
elettorale con i grandi capi (i precursori dei Cesari) da poten- a. Per quanto
segue cfr. M. Getzer, Die Nobilitàt der ròmischen Republik, Leipzig, 1912, p.
43 sgg., e A. Rosemsero, Untersuchungen zur ròmischen Zenturienverfassung,
Berlin, 1911, p. 62 sgg. b. Universalmente nota è la Tammany Hall a New York;
ma in tutti i paesi governati da partiti la situazione si avvicina a questa. Il
caucus americano che distribuisce gli uffici pubblici tra i suoi aderenti
costringendo la massa degli elettori a confluire sui loro nomi, è stato intro-
dotto in Inghilterra da Chamberlain !* con il nome di National Liberal
Federation, e dopo il 1919 è in rapido sviluppo anche in Germania. 13. Sede di
riunione della Società di St. Tammany, fondata fin dal 1789, che co- stituì il
primo nucleo del partito democratico; per tutto l’Ottocento, e ancora nei pri-
mi decenni di questo secolo, fu un importante circolo e gruppo di pressione
nella vita politica degli Stati Uniti. 14. Joseph Chamberlain (1836-1914), uomo
politico inglese, fu tra l’altro segreta- rio alle colonie durante la guerra
anglo-boera; ebbe una parte importante nella questione irlandese. za a potenza.
Questo non è il naufragio, bensì il senso e il necessario risultato finale
della democrazia; e il lamento che gli idealisti estranei al mondo levano su
questa distruzione delle loro speranze indica soltanto la loro cecità di fronte
all’inesorabile divergenza tra verità e fatti e all’intima connessione tra
denaro e spirito. La teoria politico-sociale è soltanto un substrato, ma un
substrato necessario, della politica di partito. L’orgogliosa serie che da
Rousseau va fino a Marx ha il proprio corrispettivo nell'antichità in quella
che dai Sofisti giunge fino a Platone e a Zenone. In Cina si possono ancora
ritrovare nella letteratura confuciana e taoistica i tratti fondamentali di
dottrine corrispondenti: basti menzionare il nome del socialista Mo Ti”. Nella
letteratura bizantina e araba del periodo abasside, dove il radicalismo si
presenta sempre in una formulazione rigidamente ortodossa, esse occupano largo
spazio e agiscono come forze motrici in tutte le crisi del secolo rx; in Egitto
e in India la loro presenza è dimostrata dallo spirito degli avvenimenti del
periodo di Budda e degli Hyksos. Esse non hanno bisogno di una formulazione
letteraria; altrettanto efficace è la loro diffusione orale, la predicazione e
la propaganda da parte delle sette e delle leghe, come avviene generalmente
all'origine delle correnti puritane, nonché nell’Islam e nel Cristianesimo
angloamericano. Se queste dottrine siano vere o false è una questione senza
senso si deve sottolinearlo sempre per il mondo della storia politica. La
confutazione del marxismo, per esempio,
rientra nell’ambito delle discussioni accademiche o dei dibattiti pubblici, in
cui ognuno ha ragione e gli altri hanno sempre torto. Ciò che importa è se queste
dottrine sono efficaci, cioè da quando e per quanto tempo la fede nel
miglioramento della realtà mediante un sistema di idee costituisce, in
generale, una potenza con cui la politica deve fare i conti. Noi ci troviamo in
un'epoca di fiducia illimitata nell’ onnipotenza della ragione. I grandi
concetti generali di libertà, di giustizia, 15. Mo Ti (o Mo Tsc), filosofo
cinese vissuto tra la seconda metà del secolo v e i primi decenni del secolo 1v
a. C., all’epoca degli stati combattenti
, si distaccò dal Confucianesimo per elaborare, nell'opera che da lui trac il
nome il Mo-tse una teoria dell'amore universale. di umanità,
di progresso, sono sacri; le grandi teorie sono vangeli. La loro forza di
convinzione non poggia su motivi, poiché la massa di un partito non possiede né
l’energia critica né la distanza necessaria per sottoporle a una prova seria,
bensì sul crisma sacramentale delle loro parole d’ordine. Ma questa magia si
limita alla popolazione delle grandi città e all’epoca del razionalismo, di questa religione dei dotti . Essa non agisce però
sulla classe contadina, e sulle masse cittadine ha influenza soltanto per un
certo periodo, con la violenza di una nuova rivelazione. Ci si converte, si
aderisce con fervore alle parole e ai loro annunciatori, si diventa martiri
sulle barricate, sui campi di battaglia, sul patibolo; allo sguardo si apre un
aldilà politico e sociale, e la critica spassionata sembra bassa e profana,
degna di morte. Ma con ciò scritti come il Contract social e il Manifesto
comunista diventano strumenti di potenza di prim’ordine nella mano di uomini
energici, che si sono affermati all’interno della vita di partito e che sanno
formare e utilizzare le convinzioni della massa da essi dominata. Ciononostante
questi ideali astratti hanno una potenza che si estende appena oltre i due
secoli il periodo della politica di
partito. Non che vengano confutati, ma diventano noiosi. Rousseau lo è già da
lungo tempo, tra breve lo sarà anche Marx. Alla fine si abbandona non questa o
quella teoria, ma la fede nelle teorie in generale, e con questa anche
l’ottimismo esaltato del secolo xvitI, convinto di poter correggere i difetti
della realtà mediante l’applicazione di concetti. Quando Platone, Aristotele e
i loro contemporanei definivano le forme di costituzione antiche e le
mescolavano per ottenere la costituzione più saggia e più bella, tutto il mondo
li ascoltava; ed è stato proprio Platone, col suo tentativo di riformare
Siracusa secondo una ricetta ideologica, a rovinare questa città ®. Altrettanto
sicuro mi sembra che gli stati meridionali della Cina sono stati messi fuori
forma a causa di esperimenti filosofici dello stesso tipo, e si sono così posti
alla mercè dell’imperialia. Sulla storia di questo tragico esperimento cfr. E.
MerEr, Geschickie des Althertums, Stuttgart, 1884-1902, vol. V, $ 987 sgg. smo Ch’in®!. I fanatici giacobini della
libertà e dell’eguaglianza hanno consegnato per sempre la Francia, dopo il
Direttorio, al mutevole dominio dell’esercito e della borsa, e ogni rivolta
socialista apre nuove vie al capitalismo. Ma al tempo in cui Cicerone scrisse
il suo De republica per Pompeo e Sallustio le sue esortazioni a Cesare, più
nessuno vi poneva attenzione. In Tiberio Gracco si può forse ancora scoprire
un'influenza di quello stoico entusiasta, Blossio, che morì più tardi suicida
dopo aver condotto alla rovina anche Aristonico di Pergamo"; ma
nell’ultimo secolo prima di Cristo le teorie sono diventate un abusato tema
scolastico, e d’allora in poi conta soltanto la potenza. Nessuno deve
illudersi: l’epoca della teoria volge al termine anche per noi. I grandi
sistemi del liberalismo e del socialia. I
progetti degli stati combattenti , il Ch'un-ch'iu Fan lu e le biografie
che si trovano in Ssu-ma Ch’ien sono pieni di esempi di uno scolastico
immischiarsi della saggezza nella politica !*. b. Sulla sua città del
sole formata di schiavi e di salariati
giornanalieri cfr. PauLy-Wissowa, Real-Encyclopidie der classischen Alterturmswissenschaft, vol. II, col. 962. In
modo analogo il rivoluzionario re Cleomene III di Sparta (235 a. C.) subì
l’influenza dello stoico Sfero!9. Si capisce perché il senato romano mise
ripetutamente al bando filosofi e retori
, cioè politicanti, acchiappanuvole e mestatori. 16. Lo stato di Ch'in si
affermò, alla fine dell’epoca degli
stati combattenti , come nucleo di riunificazione dell’impero,
sconfiggendo c sottomettendo a sé gli stati meridionali: ciò condusse nel 249
a. C, alla deposizione dell'ultimo imperatore Chou c, tre anni dopo, all'ascesa
al trono di Shih Huang Ti, che fondò la nuova dinastia Ch'in. 17. Blossio di
Cuma, filosofo stoico della seconda metà det secolo Il a. C., allievo di
Antipatro di Tarso, fu amico di Tiberio Gracco; dopo la sua morte si rifugiò a
Pergamo, dove nel 133 a. C. Aristonico, fratello del defunto re Attalo III (che
aveva lasciato i suoi domini in eredità a Roma), aveva rivendicato per sé il
regno, appoggiandosi sui proletari e sugli schiavi e vagheggiando la formazione
di uno stato socialista, detto MALéTOALE,
città del sole . Nel 130 l'intervento romano mise fine al tentativo di
Aristonico, che fu fatto prigioniero, condotto a Roma e giustiziato; Blossio si
tolse invece la vita. 18. Il Ch'un-ch'iu Fan lu è il titolo dell'opera
principale di Tung Chung-shu (179104 2. C.), filosofo confuciano del periodo
Han. Ssu-ma Ch’ien (145-86 a. C.) fu autore, insieme con il padre Ssu-ma T'an,
della prima grande storia cinese, i SMik Chi. 19. Cleomene III, re di Sparta
dal 235 al 219 a. C., tentò una riforma politico-sociale dello stato spartano
estendendo la cittadinanza ai pericci e redistribuendo le terre; combattè
contro la lega achea e contro Antigono Dosone, re di Macedonia, rimanendo però
sconfitto. Suo ispiratore c consigliere fu il filosofo stoico Sfero, discepolo
di Clcante. OSWALD SPENGLER 779 smo sono sorti nell’insieme tra il 17750 e il
1850. Quello di Marx è oggi vecchio quasi di un secolo, ed è rimasto l’ultimo.
Con la sua concezione materialistica della storia esso rappresenta internamente
l’estrema conseguenza del razionalismo, e perciò anche una conclusione. Ma come
la fede rousseauiana nei diritti dell’uomo ha perduto la sua forza all’incirca
nel 1848, così la fede in tale concezione l’ha perduta con la guerra mondiale.
Chi confronta la dedizione fino alla morte, che le idee di Rousseau hanno
incontrato nella Rivoluzione francese, con il comportamento dei socialisti del
1918, costretti a conservare di fronte ai loro seguaci e a se stessi una
convinzione che non possedevano più e
non in vista dell'idea, ma in vista della potenza che da essa dipendeva può vedere già tracciata in anticipo la via
su cui cadrà alla fine ogni programma, in quanto intralcia la lotta per il
potere. La fede in un programma aveva dato distinzione all’avo; per il nipote è
una dimostrazione di provincialismo. Al suo posto spunta già oggi, dal bisogno
dell’anima e dal tormento della coscienza, una nuova rassegnata pietà che
rinuncia a fondare un nuovo mondo terreno, e che in luogo di concetti acuti
cerca il mistero, per trovarlo finalmente nella profondità di una seconda
religiosità. IV Questo è un aspetto, l'aspetto linguistico, di quel grande
fatto che è la democrazia. Rimane da considerare l’altro fatto decisivo, quello
della razza. La democrazia sarebbe rimasta nelle teste e sulla carta se tra i
suoi apostoli non vi fossero state nature genuine di dominatori per cui il
popolo non era che un oggetto e gli ideali non erano che mezzi, anche se spesso
non ne erano consapevoli. Tutti i metodi, anche i meno sospetti, della
demagogia, che è nel suo intimo la stessa cosa della diplomazia dell’ancien
régime soltanto che si fonda sulle masse
anziché sui prìncipi e ambasciatori, su opinioni, disposizioni, esplosioni di
volontà disordinate anziché su spiriti eletti, e quindi sembra un'orchestra di
ottoni anziché antica musica da camera
sono stati elaborati da democratici onesti ma pratici; e i partiti della
tradizione li hanno appresi soltanto da loro. La via della democrazia è però
caratterizzata dal fatto che 780 OSWALD SPENGLER gli autori delle costituzioni
popolari non hanno mai avuto sospetto dell'efficacia reale dei loro progetti;
né l'hanno avuto il creatore della costituzione
serviana ? di Roma o l’Assemblea
nazionale di Parigi. Poiché tutte queste forme non sono cresciute come il
feudalesimo, ma sono state escogitate, e non già sulla base di una conoscenza
profonda degli uomini e delle cose, bensì sulla base di rappresentazioni
astratte del diritto e della giustizia, un abisso separa lo spirito delle leggi
dalle consuetudini pratiche che si formano silenziosamente, sotto la loro
pressione per adattarle al ritmo della vita reale o per tenerle distanti da
questa. Soltanto l’esperienza ha insegnato
al termine dell’intero sviluppo
che i diritti del popolo e l’influenza del popolo sono cose differenti.
Quanto più universale è il diritto di voto, tanto più ristretto è il potere di
un elettorato. Agli inizi di una democrazia il campo appartiene soltanto allo
spirito. Non c’è nulla di più nobile e di più puro della seduta notturna del 4
agosto 1789 e del giuramento della pallacorda o della mentalità presente nella
chiesa di San Paolo a Francoforte?! dove, avendo già in mano il potere, si
discusse tanto a lungo su verità universali da dare il tempo alle potenze della
realtà di riunirsi e di spazzare via i sognatori. Ciononostante, l’altra
grandezza di ogni democrazia si annuncia abbastanza presto e rammenta il fatto
che si può far uso dei diritti costituzionali soltanto se si ha del denaro ?.
Il funzionamento approssimativo del diritto di voto presuppone, qualsiasi cosa
ne pensi l’idealista, che non esista alcuna dirigenza organizzata la quaa. La
democrazia primitiva, caratterizzata da progetti costituzionali pieni di
speranza e che per noi giunge fino all’epoca di Lincoln, Bismarck e Gladstone,
deve faure quest'esperienza; la democrazia successiva che per noi è quella del parlamentarismo
maturo prende le mosse da essa.
Da_allora, verità e fatti si sono separati definitivamente nella forma
dell'ideale di partito da un lato, della cassa del partito dall’altro. Il parlamentare
genuino si sente, in virtà del denaro, svincolato dalla dipendenza che è
contenuta nella concezione ingenua che l’elettore ha dell’eletto, 20. Questa
costituzione trac il proprio nome da Servio Tullio, il sesto (secondo la
tradizione) re di Roma, vissuto probabilmente nel secolo vi a. C. 21. Luogo di
riunione dell'Assemblea costituente tedesca nel 1848. le agisce sugli elettori
nel proprio interesse e assumendo come criterio il denaro disponibile. Ma se
questa esiste, il voto ha ancora soltanto il significato di una censura che la
massa esercita sulle singole organizzazioni; sulla loro formazione essa non
possiede però più la minima influenza. Analogamente, il diritto ideale delle
costituzioni occidentali, cioè il diritto della massa di determinare
liberamente i propri rappresentanti, rimane mera teoria, poiché in realtà ogni
organizzazione sviluppata si completa da sé. Si desta infine il sentimento che
il suffragio universale non contiene alcun diritto reale, neppure quello della
scelta tra i partiti, poiché le formazioni di potere cresciute sul suo terreno
dominano col denaro tutti i mezzi spirituali del discorso parlato e scritto e
così dirigono a piacimento l’opinione dei singoli sui partiti, mentre questi
allevano da parte loro, attraverso la disponibilità dei pubblici uffici,
l'influenza e le leggi, una schiera di partigiani fedeli cioè appunto il caucus che esclude tutti gli
altri individui inducendoli a una fiacchezza elettorale che alla fine non potrà
più essere superata neppure nelle grandi crisi. Apparentemente sussiste una
forte differenza tra la democrazia parlamentare occidentale e quella delle
civiltà egizia, cinese, araba, nel periodo del loro declino, a cui è
completamente estranea l’idea di elezioni condotte con il suffragio universale.
Ma per noi, in quest'epoca, la massa come elettorato è in forma nel medesimo senso in cui lo era stata
precedentemente come insieme di sudditi, cioè come oggetto per un soggetto, e
in cui lo era stata a Bagdad e a Bisanzio come setta o come monacato, e altrove
come esercito governante, come associazione segreta o come stato particolare
all’interno dello stato. La libertà è, come sempre, semplicemente negativa.
Essa consiste nel rifiuto della tradizione
della dinastia, dell’oligarchia, del califfato. Ma l’esercizio della
potenza trapassa subito intatto da questi poteri ad altri nuovi, cioè a
capi-partito, a dittatori, a pretendenti, a profeti e ai relativi aderenti, e
di fronte ad essi la massa rimane ancor sempre incondizionatamente ogget?.
Il diritto del popolo
all’auto-determinazione è un modo a. Se
ciononostante si sente invece liberata, ciò dimostra nuovamente la profonda
incompatibilità tra spirito metropolitano e tradizione, mentre di dire cortese:
di fatto con ogni suffragio universale
non organico cessa anche il senso
originario dell’eleggere in generale. Quanto più vengono dissolte politicamente
le articolazioni dei ceti e delle professioni, tanto più priva di forma e
inerme diventa la massa degli elettori, tanto più incondizionatamente essa è
alla mercé dei nuovi poteri, cioè delle direzioni dei partiti, che dettano ad
essa la loro volontà con tutti i mezzi di coercizione spirituale, per decidere
tra loro la lotta per il dominio cioè
con metodi di cui in fondo la massa non vede né comprende nulla e che utilizzano ognuno a proprio vantaggio
l'opinione pubblica come un’arma da essi stessi forgiata. Ma proprio per questo
una spinta irresistibile muove la democrazia su tale via, che conduce alla
propria auto-dissoluzione °. I diritti fondamentali di un popolo antico ($fuog,
populus) si estendevano fino alla possibilità di occupare gli uffici pubblici
più elevati e di amministrare la giustizia®. A tal fine si era in forma nel
foro in modo del tutto euclideo, come
massa fisicamente presente riunita in un punto: qui si diventava oggetto di una
manipolazione di stile antico, effettuata cioè con mezzi fisici, diretti,
sensibili, con una retorica che agiva in tra la sua attività e l'essere
governata dal denaro sussiste un’intima relazione. a. La costituzione tedesca
del 1919, sorta quindi già sulla soglia di una democrazia declinante, contiene
in piena ingenuità una dittatura delle macchine di partito, che hanno
trasferito a sé ogni diritto e che non sono seriamente responsabili di fronte a
nessuno. Il famigerato voto proporzionale e la lista nazionale assicurano ad
esse l’auto-integrazione. In luogo dei diritti
del popolo come idealmente li
conteneva la costituzione del 1848
esistono soltanto i diritti dei partiti: ciò suona come innocuo, ma
racchiude in sé il cesarismo delle organizzazioni. In questo senso essa è però
la più progredita costituzione di quest'epoca; lascia giù riconoscere la fine;
alcune piccolissime trasformazioni, ed essa concederà ai singoli il potere
illimitato. b. Al contrario, la legislazione è connessa con un ufficio. Anche
quando l'accoglimento o il rigetto di una legge spettano formalmente a
un'assemblea, la legge può essere introdotta soltanto da un magistrato, per
esempio da un tribuno. Le aspirazioni della massa al conseguimento di un
diritto spesso suggerite dai detentori
del potere si manifestano quindi in
occasione delle elezioni a qualche carica, come ci insegna l'età dei Gracchi. modo immediato sull’occhio e sull’orecchio di
ognuno e che con i suoi strumenti, a noi diventati in parte disgustosi e
difficilmente sopportabili, con lacrime studiate, con vesti stracciate =, con
la lode spudorata dei presenti, con menzogne insensate sull’avversario, con un
repertorio fisso di brillanti locuzioni e cadenze armoniose, con giochi e con
doni, con minacce e percosse, ma soprattutto con denaro è sorta esclusivamente in questo luogo e a
questo scopo. Noi ne conosciamo gli inizi dall’Atene del 400° e la fine, in
misura spaventosa, dalla Roma ‘di Cesare e di Cicerone. È come sempre: le
elezioni si sono trasformate da nomina di rappresentanti di ceto in una lotta
tra candidati di partito. Ma con ciò è ormai data l’arena in cui penetra il
denaro e dopo Zama con un enorme
incremento di dimensioni. Quanto
maggiore era la ricchezza che si poteva concentrare nelle mani dei singoli
individui, tanto più la lotta per la potenza politica diventava una questione
di dena10 °. Con ciò è detto tutto. Ma in un senso più profondo sarebbe
tuttavia falso parlare di corruzione. Non è la degenerazione del costume, ma il
costume stesso quello della democrazia
matura che assume con una necessità
fatale forme del genere. Il censore Appio Claudio (310) senza dubbio un genuino ellenista e ideologo
della costituzione (come potevano essercene soltanto nel circolo di Madame
Roland ?) ha sicuramente pensato nelle
sue riforme ai diritti elettorali e non all’arte di fare le elezioni; ma quei
diritti preparano soltanto la a. Ancora a cinquant'anni Cesare dovette recitare
una commedia siffatta davanti ai suoi soldati sul Rubicone, perché essi erano
abituati a questo se si voleva qualcosa da loro. Ciò corrisponde più o meno
alla voce sincera della convinzione
nelle assemblee odierne. b. Ma il tipo Cleone era ovviamente presente a
Sparta come a Roma al tempo dei tribuni consolari. c. Cfr. M. GELZER, op. cit.,
p. 94. Insieme al César di Eduard Merer, questo libro fornisce il migliore
sguardo d’insieme sul metodo della democrazia romana. 22. Jcanne-Manon Phlipon
(1754-1793), moglic dell'uomo politico Jean-Marie Roland, ministro nel governo
girondino: fu arrestata dopo la fuga del marito e in seguito ghigliottinata nel
1793, durante il Terrore: nel carcere scrisse un Appel è l'impartiale
postérité. Le sue Mémoires furono pubblicate postume molti anni più tardi, nel
1820. strada a quest'arte. La razza si
manifesta soltanto in essa, e ben presto si afferma completamente. All’interno
di una dittatura del denaro il lavoro del denaro non può però essere definito
come decadenza. La carriera dei pubblici uffici romani richiedeva, da quando si
svolgeva nella forma di elezioni popolari, un capitale che rendeva il futuro
uomo politico debitore verso tutto il suo ambiente. Ciò valeva soprattutto per
la carica di edile, nella quale si doveva superare in magnificenza i
predecessori attraverso l'offerta di pubblici giochi, per poter ottenere più
tardi i voti degli spettatori. Silla fallì la prima canditatura alla pretura
perché non era stato edile. C'era poi lo splendido seguito con cui ci si doveva
quotidianamente mostrare nel foro per far colpo sulla massa oziosa. Una legge
impediva la scorta dietro pagamento; ma ancora più costoso era obbligarsi i
nobili mediante i prestiti, mediante la raccomandazione agli uffici e agli
affari, mediante la difesa davanti al tribunale, che li impegnava a far da
scorta e alla visita quotidiana del mattino. Pompeo era patrono di mezzo mondo,
dai contadini del Piceno fino ai re orientali; egli rappresentava e proteggeva
tutti. Questo era il suo capitale politico, che poteva mettere in campo contro
i prestiti senza interesse di Crasso e contro l’ indoramento ° di tutti gli
ambiziosi da parte del conquistatore della Gallia. Si facevano servire agli
elettori colazioni estese all’intero circondario”, si concedevano posti
gratuiti per assistere ai giochi dei gladiatori o si mandava perfino
direttamente in casa del denaro come
faceva Milone. Cicerone chiama tutto ciò rispettare i costumi dei padri . Il
capitale elettorale assunse dimensioni di tipo americano, raggiungendo talvolta
la somma di centinaia di milioni di sesterzi. Nel corso delle elezioni del 54
a. C. il tasso di interesse salì dal 4% all’8%, perché la maggior parte
dell'enorme massa di liquido disponibile a Roma fu investita nella propaganda.
Cesare, quand'era edile, aveva speso tanto che Crasso fu costretto a garantire
per venti milioni affinché i creditori gli consentissero di partire per la
provincia, a. Inaurari: a questo scopo Cicerone raccomandò a Cesare il suo
amico Trebazio. b. Tributim ad prandium vocare (Cicerone, Pro Murena, 72).
OSWALD SPENGLER 785 e ancora nell’elezione a pontefice massimo aveva talmente
oltre: passato il suo credito che il suo avversario Catulo poté offrirgli del
denaro perché si ritirasse, dal momento che in caso di sconfitta sarebbe stato
perduto. Ma la conquista della Gallia
che egli intraprese anche per questo motivo e il relativo sfruttamento fecero di lui
l’uomo più ricco del mondo: così è stata realmente ottenuta la vittoria di
Farsalo *. Infatti Cesare ha conquistato tutti questi miliardi avendo di mira
la potenza, come Cecil Rhodes”, e non per il piacere di ricchezza, come Verre e
in fondo anche Crasso, il quale era un grosso finanziere che faceva
parallelamente anche il politico. Egli comprese che, sul terreno di una
democrazia, i diritti costituzionali non significano nulla senza denaro, tutto
col denaro. Mentre Pompeo ancora sognava di poter trarre legioni dalla terra,
Cesare le aveva da lungo tempo tradotte in realtà con il suo denaro. Egli aveva
trovato già pronti questi metodi: li padroneggiava, ma senza identificarsi con
essi. Si deve aver ben chiaro il fatto che, fin dal 150 a. C., i partiti
riuniti sulla base di princìpi si dissolvono in seguiti personali raccolti
intorno a uomini i quali avevano un fine politico privato e conoscevano bene le
armi del loro tempo. Tra di esse rientra, accanto al denaro, anche l'influenza
sui tribunali. Dato che le antiche assemblee popolari votavano solamente, ma
senza discutere, il processo di fronte ai rostra è una a. Si tratta di miliardi
di sesterzi, che passarono da allora per le sue mani. Le offerte votive dei
templi della Gallia, che egli fece vendere in Italia, provocarono un crollo nel
valore dell’oro. Cesare e Pompeo costrinsero il re Tolomeo a versare, per il
suo riconoscimento, 144 milioni (e altri 240 gliene fece versare Gabinio). Il
console Emilio Paolo (50 a. C.) fu comperato con 36 milioni, Curione con 60
milioni. Da ciò si possono inferire le invidiabilissime possibilità
dell'ambiente che circondava Cesare. Per il trionfo del 46 a. C. ognuno dei
suoi oltre centomila soldati ricevette 24.000 sesterzi, mentre agli ufficiali e
ai capi toccarono somme ben superiori, Ciononostante, alla sua morte il tesoro
pubblico era così ricco da garantire la posizione di Antonio. 23. Cecil John
Rhodes (1853-1902), uomo politico e finanziere sud-africano di origine inglese,
fu primo ministro della colonia di Città del Capo dal 1890 al 1896. Diede una
spinta decisiva allo sviluppo dell'industria diamantifera nel Sud-Africa,
soprattutto nella regione che da lui prese il nome. 50. STORICISMO TEDESCO. 786
OSWALD SPENGLER forma di lotta di partito e la scuola vera e propria di
eloquenza politica. Il giovane politico iniziava la sua carriera accusando e,
se possibile, annientando una grossa personalità ®, come fece Crasso a
diciannove anni contro il famoso Papirio Carbone, amico dei Gracchi, che era
passato più tardi dalla parte degli ottimati. Per tale motivo Catone fu
accusato quarantaquattro volte e sempre assolto. La questione giuridica passa
qui in secondo piano *. La cosa determinante è la posizione di partito del
giudice, il mumero dei patroni e l’ampiezza del seguito; il numero dei
testimoni serve propriamente a mettere in luce la potenza politica e
finanziaria dell’accusatore. Tutta l’eloquenza di Cicerone contro Verre vuol
convincere i giudici, sotto Ja maschera di un magnifico pathos etico, che la
sua condanna è nel loro interesse di ceto. Secondo la generale concezione
antica è ovvio che il seggio in tribunale debba servire agli interessi privati
e a quelli di partito. Ad Atene gli accusatori democratici erano soliti
avvertire i giurati popolari, al termine del loro discorso, che assolvendo
l’accusato ricco avrebbero messo in forse i loro onorari processuali ©. La
grande potenza del senato romano poggia in gran parte sul fatto che esso aveva
in mano, attraverso la nomina di tutti i tribunali, il destino di ogni
cittadino; su questa base si può misurare la portata della legge graccana del
122 a. C., che trasferiva i tribunali al a. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 68. b.
Si tratta in gran parte di concussione e di corruzione. Dal momento che ciò
faceva allora tutt'uno con la politica, che giudice e accusato avevano fatto la
stessa cosa e che tutti lo sapevano, l’arte consisteva nel tenere nelle forme di una ben recitata passione
morale un discorso di partito il cui
scopo vero e proprio era inteso soltanto dall’iniziato. Ciò corrisponde del
tutto alle moderne usanze parlamentari. Il
popolo rimarrebbe molto stupito
se vedesse come, dopo gli accaniti discorsi durante la seduta (destinati alla
stampa), gli avversari di partito si intrattengono amabilmente tra di loro. Si
pensi anche ai casi in cui un partito scende in campo con passione a favore di
una proposta dopo averne assicurata, mediante un accordo con gli avversari, la
disapprovazione. A Roma la sentenza non importava affatto; bastava che
l’accusato abbandonasse in precedenza volontariamente la città, escludendosi
così dalla lotta di partito e dal concorso agli uffici. c. Cfr. R. von
Ponumann, Griechische Geschichte, Miinchen, 5° ed. 1914, pp. 236-37. OSWALD
SPENGLER 787 ceto dei cavalieri e metteva quindi la nobiltà, cioè le alte
cariche, alla mercé del mondo della finanza. Nell’82 a.C. Silla restituì al
senato, contemporaneamente alle proscrizioni dei grandi finanzieri, anche i tribunali
come arma politica, beninteso; e la lotta finale tra i detentori del potere
trova la sua espressione anche nel continuo mutare della scelta dei giudici. Ma
mentre l’antichità e il foro di Roma in
testa raccoglieva la massa popolare in
un corpo visibile e compatto per costringerla a fare dei suoi diritti l’uso che
si voleva fosse fatto,
contemporaneamente la politica
europeo-americana introduceva mediante la stampa un campo di forza di tensioni
spirituali e finanziarie esteso a tutta la terra, nel quale ogni individuo è
inserito senza averne coscienza e in modo da dover pensare, volere e agire come
ritiene opportuno da qualche parte, di lontano, una personalità dominante.
Questo è dinamica contrapposta alla statica, sentimento faustiano del mondo contrapposto
al sentimento apollineo, pathos della terza dimensione contrapposto al puro
presente sensibile. Non si parla da uomo a uomo; la stampa e, collegato con
essa, il servizio elettrico di informazioni mantengono l’essere desto di interi
popoli e di interi continenti sotto l’assordante fuoco di fila di frasi, di
parole d'ordine, di punti di vista, di scene, di sentimenti, giorno per giorno,
anno per anno, cosicché ogni io diventa mera funzione di un'immensa entità
spirituale. Il denaro prende la sua strada politica non come metallo che passa
di mano in mano; non si converte più in giochi e in vino. Esso si trasforma
invece in forza e determina, mediante la sua quantità, l'intensità di questa
manipolazione. Polvere da sparo e stampa sono connesse l’una con l’altra, in
quanto entrambe sono inventate nell'antico periodo gotico e scaturite dal
pensiero tecnico germanico, come i due grandi strumenti della tattica faustiana
della distanza. La Riforma conobbe all’inizio dell'età successiva i primi
manifesti e le prime artiglierie da campagna; la Rivoluzione francese conobbe,
all’inizio del declinare della civiltà, la prima ondata di opuscoli a. In
questo modo Rutilio Rufo poté essere condannato nel famigerato processo del 93
a. C. perché come proconsole, aveva doverosamente proceduto contro le
concussioni delle società di appalto. 788 OSWALD SPENGLER dell'autunno 1788 e a
Valmy il primo fuoco di massa di un’artiglieria. Ma con ciò la parola stampata
impiegata in forma massiccia ed estesa su superfici infinite diventa un’arma
infida nelle mani di chi sa dirigerla. In Francia, nel 1788, si trattava ancora
di un'espressione spontanea di convinzioni private, ma in Inghilterra si era
già al punto di suscitare intenzionalmente un'impressione nei lettori. La
guerra condotta contro Napoleone da Londra, su territorio francese, con
articoli, libelli, memorie inautentiche, ne costituisce il primo grande
esempio. I fogli isolati dell’età illuministica si trasformano nella stampa , come si dice con indicativa
anonimità *. La campagna di stampa nasce come la continuazione o la preparazione della guerra condotta con altri mezzi, e la
sua strategia fatta di scontri di avamposti, di diversivi, di sorprese e di
attacchi a ondate viene elaborata durante il secolo xix fino al punto che una
guerra può già essere perduta prima ancora che parta il primo colpo, perché la
stampa l’ha vinta nel frattempo. Oggi noi viviamo senza possibilità di
resistenza sotto l’azione di questa artiglieria spirituale, di modo che quasi
nessuno acquisisce la distanza interiore necessaria per rendersi conto
dell’enormità di tale spettacolo. La volontà di potenza in veste puramente
democratica ha compiuto il suo capolavoro facendo sì che il sentimento di
libertà degli oggetti venga addirittura adulato pur nella schiavitù più
completa che sia mai esistita. Il senso borghese liberale è fiero
dell’abolizione della censura, che costituiva l’ultimo limite, mentre il
dittatore della stampa Northcliffe! * assoggetta la folla di schiavi dei suoi
lettori alla frusta dei suoi articoli di fondo, dei suoi telegrammi e delle sue
illustrazioni. La democrazia ha completamente soppiantato il libro con il
giornale nella vita spirituale delle masse popolari. Il mondo dei libri, con la
sua ricchezza di punti di vista che costringevano il pensiero alla selezione e
alla critica, è un possesso reale ancora soltanto per circoli ristretti. Il
popolo legge l’unico giornale il suo
giornale che quotidiaa. E quasi in
analogia con l'artiglieria . 24. Alfred Charles William Harmsworth, visconte di
Northcliffe (1865-1922), creatore del giornalismo moderno: a lui si deve la
fondazione del Daily Mail nel 1896 c del Daily Mirror
nel 1903. Nel 1908 si assicurò pure il controllo del Times . namente penetra in ogni casa in
milioni di esemplari, attraendo di buon mattino gli spiriti nella propria
orbita, facendo passare nel dimenticatoio i libri con i propri supplementi e,
se questo o quel libro compare ancora all’orizzonte, eliminando la sua
influenza con una critica che arriva prima di esso. Che cos'è la verità? Per la
massa è ciò che si legge e si ascolta continuamente. Può ben esserci da qualche
parte un povero minchione che se ne sta seduto e raccoglie motivi per stabilire
la verità questa rimarrà sempre la sua
verità. L’altra verità, la verità pubblica del momento, che sola importa nel
mondo reale degli effetti e dei risultati, è oggi un prodotto della stampa. Ciò
che essa vuole, è vero. Coloro che la comandano producono, trasformano,
cambiano Ja verità. Tre settimane di lavoro di stampa, e tutto il mondo ha
riconosciuto la verità*. I suoi argomenti sono inconfutabili finché si dispone
del denaro per ripeterli senza interruzione. Anche la retorica antica faceva
conto sull’impressione e non sul contenuto
Shakespeare ha brillantemente mostrato, nell’orazione funebre di
Antonio, di che cosa si trattasse ma
essa si limitava al presente e al momento. La dinamica della stampa esige
effetti duraturi. Essa deve mantenere durevolmente gli spiriti sotto pressione.
I suoi argomenti vengono confutati non appena una potenza finanziaria maggiore
sposa gli argomenti contrari e li pone ancora più spesso davanti a tutte le
orecchie e a tutti gli occhi. Nello stesso attimo l’ago magnetico dell’opinione
pubblica si orienta verso il polo più forte. Ognuno si convince subito della
nuova verità: all'improvviso ci si sveglia da un errore. Alla stampa politica
si connette il bisogno di un'istruzione a. L'esempio più forte sarà sempre, per
le future generazioni, la questione della responsabilità della guerra mondiale, vale a dire la
questione di chi possiede attraverso il
dominio della stampa e dei cavi telegrafici di ogni parte della terra il potere di stabilire davanti all'opinione
mondiale la verità di cui ha bisogno per i suoi scopi poli tici, e di
mantenerla in vita finché ne ha bisogno. Questione completamente diversa, che
soltanto in Germania viene confusa con la prima, è quella puramente scientifica
di sapere chi aveva interesse a provocare proprio nell’estate 1914 un
avvenimento, sul quale esisteva già allora un'intera letteratura. scolastica generale, che mancava
completamente all’antichità. È una pressione del tutto inconsapevole per
avvicinare le masse, in quanto oggetti della politica di partito, a quello strumento
di potere che è il giornale. All’idealista degli inizi della democrazia ciò
appariva come illuminazione priva di intenzioni recondite, e ancor oggi vi sono
qua e là degli sciocchi che si entusiasmano al pensiero della libertà di
stampa; ma proprio in questo modo hanno via libera i futuri Cesari della stampa
mondiale. Chi ha imparato a leggere soccombe alla loro potenza, e la tarda
democrazia si trasforma, dalla sognata auto-determinazione, in una radicale
determinazione dei popoli da parte dei poteri a cui la parola stampata
obbedisce. Oggi ci si combatte per sottrarre agli altri quest'arma. Agli
ingenui inizi della potenza giornalistica, questa era ancora ostacolata dai
divieti della censura, con la quale i rappresentanti della tradizione si
difendevano; la borghesia protestava che la libertà dello spirito era in
pericolo. Ora la massa percorre tranquillamente la sua strada: ha finalmente
conquistato questa libertà, ma sullo sfondo le nuove potenze combattono, non
viste, per comperare la stampa. Senza che il lettore lo avverta, il giornale e con esso anche il lettore cambia di padrone *. Anche qui il denaro
trionfa costringendo al suo servizio gli spiriti liberi. Nessun domatore ha mai
avuto meglio in suo potere i propri animali; si scatena il popolo come massa di
lettori, ed esso si precipita per le strade, si getta sull’obiettivo indicato,
minaccia e spacca le finestre. Un cenno all’apparato della stampa e il popolo
tace e ritorna a casa. La stampa è oggi un esercito con proprie armi
accuratamente organizzate, con giornalisti come ufficiali, con lettori in
qualità di soldati. Ma anche qui accade come in ogni esercito: il soldato
obbedia. Durante la preparazione della guerra mondiale la stampa di interi
paesi cadde finanziariamente sotto il controllo di Londra e di Parigi; e quindi
i relativi popoli caddero sotto una rigorosa schiavitù spirituale. Quanto più
democratica è la forma interna di una nazione, tanto più facilmente e
completamente essa si espone a tale pericolo. Questo è lo stile del secolo xx.
Un democratico di vecchio stampo oggi non richiederebbe più libertà per la
stampa ma dalle stampa; nel frattempo i capi sono mutati in arrivati ,
costretti a garantire la propria posizione di fronte alla massa, sce ciecamente, i mutamenti di obiettivi bellici
e di piano operativo si compiono senza che egli ne venga a conoscenza. Il
lettore nulla sa di ciò che si vuol fare con lui, e non deve neppure sapere
quale sarà il suo ruolo. Non esiste una satira più tremenda della libertà di
pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è
permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve
volere, e proprio questo viene percepito come libertà. L’altro aspetto di
questa tardiva libertà è che a ognuno è permesso di dire ciò che vuole, ma la
stampa è libera di prenderne conoscenza oppure no. Essa può condannare a morte
ogni verità rifiutandosi di comunicarla al mondo: una
spaventosa congiura del silenzio, tanto più onnipotente quanto più la massa
servile dei lettori di giornale non si accorge affatto della sua presenza*. Qui
affiora, come sempre durante le doglie del cesarismo, un frammento dell’epoca
primitiva perduta. Il cielo del divenire è in procinto di chiudersi. Come nelle
costruzioni di cemento armato e di acciaio ricompare ancora una volta la
volontà espressiva del primo gotico ora
però fredda, dominata, civilizzata così
qui la ferrea volontà di potenza della chiesa gotica sopra gli spiriti si
annuncia nella forma della libertà della democrazia . L’età del libro è compresa tra la predica gotica e il
giornale moderno. I libri sono un’espressione personale; la predica e il
giornale obbediscono a uno scopo impersonale. Nella storia universale gli anni
della Scolastica offrono l’unico esempio di una disciplina spirituale in grado
di impedire in tutti i paesi la comparsa di scritti, di discorsi, di pensieri
che contraddicono l’unità voluta. Tutto ciò è dinamica spirituale. Gli uomini
antichi, indiani, cinesi avrebbero guardato inorriditi a tale spettacolo. Ma
proprio questo ritorna come risultato recessario del liberalismo
europeo-americano, quale l’intese Robespierre:
il dispotismo della libertà contro la tirannide . Al posto dei roghi
subentra il grande silenzio. La dittatura dei capi-partito si appoggia sulla
dittatura della stampa. Mediante il denaro si cerca di sottrarre schiere di
lettori e popoli interi all'influenza nemica, portandoli nella propria sfera di
idee. Qui essi vengono a conoscere soltanto ciò a. Al confronto i grandi roghi
di libri dei Cinesi sono cosa innocua.
che devono sapere, e una volontà superiore plasma l’immagine del loro
mondo. Non occorre più obbligare i sudditi al servizio militare, come facevano
i principi dell’età barocca. Con articoli, telegrammi, immagini Northcliffe!
se ne fustigano gli spiriti, finché essi stessi richiedono le armi e
costringono i loro capi a una lotta a cui questi volevano essere costretti.
Questa è la fine della democrazia. Se nel mondo delle verità la dimostrazione è
l'elemento decisivo, nel mondo dei fatti lo è il successo. Successo vuol dire
il trionfo di una corrente dell’esistenza sopra le altre. La vita ha affermato
i suoi diritti; i sogni dei riformatori sono diventati strumenti di nature
dominatrici. Nella tarda democrazia la razza irrompe asservendo gli ideali
oppure gettandoli con scherno nel baratro. Così è avvenuto nella Tebe egizia, a
Roma, in Cina; ma in nessun’altra civiltà in declino la volontà di potenza
assume una forma tanto inesorabile. Il pensiero, e quindi anche l’agire della
massa, viene tenuto sotto una pressione ferrea. Per questo motivo, e soltanto
per questo, si è lettori ed elettori, sotto una doppia schiavitù, mentre i
partiti diventano seguiti obbedienti di pochi, sui quali il cesarismo getta
ormai la sua prima ombra. Come la monarchia inglese del secolo x1x, così i
parlamenti del secolo xx diventano a poco a poco spettacoli solenni ma vuoti.
Come là scettri e corone, così qui i diritti popolari vengono presentati alla
massa con un grande cerimoniale e rispettati tanto più scrupolosamente quanto
minore è la loro importanza. Questo è il motivo per cui l’astuto Augusto non ha
mai perduto occasione di celebrare le usanze avite della libertà romana. Ma già
oggi il potere si trasferisce dai parlamenti nei circoli privati, e le elezioni
si riducono inarrestabilmente a una commedia, per noi come per Roma. Il denaro
ne organizza il corso nell’interesse di coloro che lo posseggono* e l’azione a.
Qui risiede il mistero del perché tutti i partiti radicali e quindi poveri diventano necessariamente gli strumenti delle
potenze finanziarie, a Roma degli equites, e oggi della borsa. Teoricamente
essi attaccano il capitale, ma in pratica attaccano non già la borsa bensì,
nell'interesse di questa, la tradizione. All'epoca dei Gracchi le cose andavano
né più né meno di oggi, e lo stesso vale per tutti i paesi. La metà dei capi
delle masse, e con loro l’intero partito, può essere comperata con denaro,
uffici, partecipazioni ad affari. elettorale diventa un gioco convenuto in
precedenza, inscenato sotto forma di auto-determinazione popolare. Se originariamente
un’elezione era una rivoluzione in forme legittime, questa forma si è esaurita
e, quando la politica del denaro diventa insopportabile, si elegge nuovamente il proprio destino con i mezzi
primitivi della violenza sanguinaria. La democrazia annienta se stessa con il
denaro, dopo che il denaro ha annientato lo spirito. Ma proprio perché sono
svaniti tutti i sogni di migliorare la realtà mediante le idee di uno Zenone” o
di un Marx, e si è imparato che nel regno della realtà una volontà di potenza può
essere piegata soltanto da un'altra volontà
questa è la grande esperienza dell’epoca degli stati in lotta sorge alla fine una profonda nostalgia per
tutto ciò che ancora vive delle vecchie e nobili tradizioni. Si è stanchi fino
al disgusto dell'economia monetaria. Si spera in una liberazione da qualsiasi
parte venga, in una nota genuina di onore e di cavalleria, di nobiltà
interiore, di rinuncia e di senso del dovere. Viene allora il tempo in cui le
potenze del sangue ricche di forma si ridestano nel profondo, dopo essere state
cacciate dal razionalismo delle grandi città. Tutto ciò che si è conservato per
il futuro della tradizione dinastica e dell’antica nobiltà, tutto ciò che si è
conservato del costume superiore che si mantiene al di sopra del denaro, tutto
ciò che è in sé abbastanza forte per essere
secondo il detto di Federico il Grande
servitore dello stato in un lavoro duro, pieno di rinunce, scrupoloso,
anche nel possesso del potere illimitato, tutto ciò che ho designato come
socialismo in contrapposizione al capitalismo
tutto ciò diventa all'improvviso il punto di raccolta di immense forze
vitali. Il cesarismo cresce sul terreno della democrazia, ma le sue radici
affondano nel substrato del sangue e della tradizione. L’antico Cesare deve il
suo potere al tribunato, ma la sua dignità e quindi anche la sua durata la
possiede in quanto princeps. Anche qui si ridesta l’anima del a. Cfr. O.
SrencLER, Preussentum und Sozialismus, Miinchen, 1919, PP. 41-42. 25. Zenone di
Cizio (336-264 a. C.), fondatore della scuola stoica, autore di numerosi
scritti pervenutici in forma frammentaria.
gotico primitivo: lo spirito degli ordini cavallereschi supera lo
spirito vichingo avido di bottino. Per quanto i futuri detentori del potere
possano dominare il mondo come possesso privato, essendo ormai
irrimediabilmente caduta la grande forma politica della cultura, questa potenza
priva di forma e di limiti contiene tuttavia un compito: quello di
un’instancabile cura per questo mondo, che costituisce l’opposto degli interessi
propri dell’età del dominio del denaro e che richiede un elevato sentimento
dell’onore e un'alta coscienza del dovere. Ma proprio per questo si scatena ora
la lotta finale tra democrazia e cesarismo, tra le potenze dominanti di
un'economia monetaria dittatoriale e la volontà ordinatrice puramente politica
dei Cesari. Per intendere questa lotta finale tra economia e politica, in cui
la politica riconguista il suo regno, occorre uno sguardo alla fisiognomica
della storia economica. TROELTSCH nasce a Hauenstetten, presso Augusta. Frequenta
le università di Erlangen, di Goòttingen e di Berlino, dedicandosi
soprattutto sotto la guida di Ritschl e
Lagarde agli studi teologici. Conseguì
il dottorato con la dissertazione Geschichte und Metaphysik (Gòttingen). Dopo
esser stato pastore luterano a Monaco, ottiene l’abilitazione a Géttingen, con “Vernunft
und Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton” (Géòttingen). Inizia la
carriera accademica a Bonn, e viene chiamato a coprire la cattedra di teologia
sistematica a Heidelberg, impegnandosi anche nella vita politica e sedendo per
due legislature alla camera alta del Baden. I saggi di Troeltsch mostrano
chiaramente il prevalere degli interessi religiosi e teologici, i quali si
incontrano e si scontrano, talvolta in maniera drammatica, con la
consapevolezza della storicità della vita religiosa. Fin dall'inizio egli
prende posizione nei confronti della concezione idealistica della religione,
denunciando il carattere fittizio della conciliazione da essa operata tra il processo storico e
l’assolutezza della fede religiosa. Nel saggio Die christliche Weltanschauung
und ihre Gegenstromungen (1894) egli respinge insieme l'idealismo e il
positivismo, a causa della loro incapacità di intendere la vita religiosa e di
dare una giustificazione filosofica dell'autonomia della religione. Al centro
del pensiero di Troeltsch si colloca, in questo periodo, il problema del
rapporto tra storia e religione, concepiti come termini antitetici: da una
parte la coscienza storica ci mostra il condizionamento di ogni forma di vita
religiosa e la sua appartenenza a un processo di sviluppo, dall'altra la
religione avanza una pretesa di validità assoluta. Quest'antitesi viene
illustrata nei successivi scritti del periodo di Hcidelberg, da Die
Selbstindigkeit der Religion (1895) a Christentum und Religionsgeschichte
(1897) e a Uber historische und dogmatische Methode in der Theologie (1898), da
Die wissenschafiliche Lage und ihre Anforderungen an die Theologie (Tibingen,
1900) ai Grundprobleme der Ethik (1902; tr. it. Napoli, 1974) e al volume Die
Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (Tiibingen, 1902, 19127, 1929; tr. it. Napoli, 1968).
L’urto della coscienza storica mette in crisi non soltanto la fede religiosa,
ma anche la teologia: da un lato la religione cristiana ha perduto la sua
fondazione soprannaturale, dall'altro lo sforzo di darne una giustificazione
teologica non può più prescindere dalla coscienza storica. Questa
giustificazione viene cercata da Troeltsch considerando il Cristianesimo non
come la religione assoluta, ma come la religione più alta, cioè come quella in
cui si realizza non già il possesso, bensì il grado maggiore di partecipazione
alla verità. Muovendo da questa prospettiva Troeltsch interviene con il saggio Was heisst Wesen des Christentums ? (1903; tr. it.
Napoli, 1974) nel dibattito suscitato
dalla pubblicazione dell’opera di Adolph von Harnack, e successivamente prende
parte alla discussione sul modernismo. Negli scritti posteriori, dal volume
Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft (Tibingen, 1905,
19227) al saggio Wesen der Religion und der Religionswissenschaft (1909), il
problema della religione e della sua validità viene ricondotto al quadro di
un’impostazione neocriticistica, modificata però attraverso l'assunzione di un
fondamento 4 priori autonomo della vita religiosa che viene individuato in un
complesso di valori irriducibili a quelli conoscitivi o etici o estetici. La
ricerca delle condizioni di possibilità della religione mette così capo alla
determinazione della sua autonomia nei confronti degli altri campi
dell’attività umana. In questo stesso periodo, a contatto con Max Weber,
Troeltsch ha sviluppato il proprio interesse per la religione anche sul terreno
storiografico, studiando le relazioni tra il Cristianesimo e lo sviluppo
politico ed economico della società europea. Il punto di partenza della sua
analisi è la Riforma protestante, considerata nel suo distacco dal
Cristianesimo medievale e nel suo rapporto con il processo di formazione del
mondo moderno. Nel saggio Protestantisches Christentum und Kirche in der
Neuzeit (Leipzig-Berlin, 1906, 1922°) e nel volume Die Bedeutung des
Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906, poi Miinchen, 19112,
1924}; tr. it. Venezia, 1929) egli prende in esame le differenze di
orientamento che caratterizzano la religione protestante e la cultura moderna;
in seguito la sua attenzione si estende, investendo tutto il processo storico
del Cristianesimo, con particolare riguardo alle origini della fede cristiana e
alla figura di Cristo come termine di riferimento dello sviluppo ulteriore indagata nel volume Die Bedeutung der
Geschichtlichkeit Jesu fiir den Glauben (Tibingen, 1911) o all’opera di Agostino studiata in Augustin, die christliche Antike
und das Mittelalter (Minchen, 1915; tr. it. Napoli, 1970). Ma il contributo
storico di maggior rilievo fornito da Troeltsch è l'ampia analisi delle
dottrine politico-sociali cristiane, condotta in Die Soziallehren der christlichen
Kirchen und Gruppen (Tiùbingen, 1912; tr. it. Firenze, 1941-60). In
quest'opera la quale raccoglie una serie
di saggi apparsi dapprima nell' Archiv fiir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik Troeltsch si propone di
studiare le dottrine che, dal Cristianesimo primitivo alla Riforma protestante,
caratterizzano sotto il profilo sociale lo sviluppo della religione cristiana,
ponendo in luce il rapporto di condizionamento reciproco che in tal modo si
instaura tra la vita religiosa e la vita economica che la religione intende
regolamentare, ma dalla quale viene nel medesimo tempo influenzata. Troeltsch
si accosta alle indagini weberiane sulla sociologia della religione,
riconoscendo l'appartenenza del Cristianesimo al processo di sviluppo di una data
civiltà e la dipendenza delle sue dottrine dalla struttura sociale che questa è
venuta creando. Ma, a differenza di Weber, egli fa valere il postulato
dell'autonomia della vita religiosa, avanzando l'esigenza di delimitare
l'ambito storico proprio della religione. Come risulta anche dal saggio
Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (1913), che enuncia i presupposti
metodologici di questa impostazione, il condizionamento reciproco tra religione
e vita economico-sociale viene a configurarsi come l’incontro di serie causali
indipendenti una delle quali è appunto
la serie dei fenomeni religiosi. Nel 1915 Troeltsch lascia Heidelberg, chiamato
all’Università di Berlino a insegnarvi filosofia. Il mutamento di cattedra rispecchia
il mutamento di interessi che si determina, in questi ultimi anni, nel pensiero
di Troeltsch, e che lo spinge ad affrontare in termini generali il problema
dello storicismo. Fin dal 1904, del resto, egli aveva espresso la sua adesione
di massima alla posizione di Rickert nel saggio Moderne Geschichtsphilosophie
(tr. it. Napoli, 1974). Ritornando sui problemi della storia e della conoscenza
storica a distanza di circa un decennio, in una serie di saggi che hanno inizio
nel 1916 (e che saranno poi raccolti col titolo Der Historismus und seine Probleme,
Tiibingen, 1922), Troeltsch sottolinea le conseguenze relativistiche dello
storicismo, e quindi la crisi del pensiero storico che esso esprime. Lo
storicismo, inteso come relativismo storico, riduce i valori a prodotto storico
e porta quindi all’ anarchia dei valori . Contro questo pericolo egli si
richiama alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, rivendicando il
rapporto di ogni momento del processo storico con valori assoluti, capaci di
dare un senso alla successione degli eventi. Ma questo rapporto non
comporta come per Rickert una trascendenza metastorica dei valori,
bensì la loro immanenza a ogni oggetto storico, considerato nella sua
individualità. Il punto di arrivo di Troeltsch è quindi il significato
romantico di individualità, recuperato attraverso il riferimento alla nozione
leibniziana di monade. Questa impostazione viene in parte ripresa nei saggi
postumi Der Historismus und seine Uberwindung (Berlin, 1924), nei quali è
riaffermata l’esigenza della restaurazione di un sistema di valori, da
compiersi attraverso il richiamo a una determinata tradizione culturale. Il
dopoguerra vede Troeltsch intensamente impegnato nella vita pubblica, come
deputato al parlamento prussiano e come sotto-segretario (dal 1919 al 1921) per
gli affari evangelici presso il Ministero dell'educazione. Egli partecipa alla
fondazione del partito democratico, e nel 1920 difende la costituzione della
repubblica di Weimar in una serie di lettere pubblicate sulla rivista Der Kunstwart (e poi raccolte col titolo di
Spektator-Briefe, Tùbingen, 1924). Muore a Berlino il 1° febbraio 1923. NOTA
BIBLIOGRAFICA Le opere di Troeltsch sono state raccolte, anche se soltanto
parzialmente, nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Mohr in
quattro volumi, dal 1912 al 1925: dopo la guerra la Scientia Verlag di Aalen ne
ha dato una ristampa anastatica, apparsa tra il 1961 e il 1966. Il primo volume
(apparso nel 1912, e ristampato nel 1965) contiene Die Soziallehren der
christlichen Kirchen und Gruppen; il secondo (apparso nel 1913, e ristampato
nel 1962) raccoglie, sotto il titolo Zur religiòsen Lage, Religionsphilosophie
und Ethik, numerosi saggi di argomento religioso e storico-religioso, tra cui
Die theologische und religiòse Lage der Gegenwart, Die Kirche im Leben der
Gegenwart, Religion und Kirche, Die christliche Weltanschauung und ihre
Gegenstrimungen, Christentum und Religionsgeschichte, Was heisst Wesen des Christentums ?, Wesen der Religion
und der Religionswissenschaft, Grundprobleme der Ethik, Moderne Geschichtsphilosophie,
Uber historische und dogmatische Methode in der Theologie; il terzo (apparso
nel 1922, e ristampato nel 1961) racchiude Der Historismus und seine Probleme;
il quarto (apparso nel 1925, e ristampato nel 1966) comprende, sotto il titolo
Aufsitze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, diversi saggi di storia
religiosa e intellettuale, tra cui Religion, Wirtschaft und Gesellschaft,
Epochen und Typen der Sozialphilosophie des Christentums, Das
stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, Das
Verhdltnis des Protestantismus zur Kultur, Luther, der Protestantismus und die
moderne Welt, Renaissance und Reformation, Das Wesen des modernen Geistes,
nonché numerose recensioni a libri di argomento analogo. Rimangono al di fuori
di questa raccolta diversi volumi e saggi, i più importanti dei quali sono
stati menzionati nella nota biografica. Ad essi occorre aggiungere le lezioni
sulla G/aubenslehre, Miinchen-Leipzig, 1925, e la raccolta di saggi Deutscher
Geist und Westeuropa (a cura di H. Baron), Tibingen, 1925. In epoca recente
sono stati ristampati i seguenti volumi: Die Absolutheit des Christentums und
die Religionsgeschichte, Minchen, 1960; Augustin, die christliche Antike und
das Miztelalter, Aalen, 1963; Der Historismus und seine Uberwindung, 51. STORICISMO TEDESCO. 802 ERNST
TROELTSCH Aalen, 1966; Spektator-Briefe, Aalen, 1966; Deutscher Geist und
Westeuropa, Aalen, 1966. Dell’ampia
letteratura critica concernente l'opera e il pensiero di Troeltsch segnaliamo
gli studi seguenti: E. Vermelt, La pensée religieuse de Troeltsch,
Strasbourg-Paris, 1922. A. Passerin d’EnTrÈèvEs, Il concetto del diritto
naturale cristiano e la sua storia secondo E. Troeltsch, Atti della R. Accademia delle Scienze di
Torino , LXI, 1925-26, pp. 664-704. O. Hintze, Troelisch und die Probleme des
Historismus, Historische Zeitschrift,
CXXXV, 1927, pp. 188-239, ora raccolto nel volume Soziologie und Geschichte (a
cura di G. Oestreich), Gòttingen, 1964 7, PP. 323-73. H. Liesricn, Die
historische Wahrheit bei Ernst Troeltsch, Giessen, 1937. W. BracHmann, Ernst
Troeltschs historische Weltanschauung, Halle, 1940. D. Frerssero, Das Problem der
historischen Objektivitàt in der Geschichtsphilosophie von Ernst Troeltsch,
Emsdetten, 1940. W. Koncer, Ernst Troeltsch, Tibingen, 1941. J. J. ScHaar,
Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichtsmethodologie von
Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiubingen, 1946. E. Fiuino, Geschichte als
Offenbarung (Studien zur Frage Historismus und Glaube von Herder bis
Troeltsch), Berlin, 1956, cap. 1v. W. Bopenstein, Neige des Historismus: Ernst
Troeltschs Entwicklungsgang, Giitersloh, 1959. H. G. DrescHer, Das Problem der
Geschichte bei Ernst Troeltsch,
Zeitschrift fir Theologie und Kirche , LVII, 1960, pp. 186-230. A.
WAIsMann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, Buenos
Aires, 1960, parte II. I. E. ALserca, Gewinnung theologischer Normen aus der
Geschichte der Religion bei E. Troeltsch, Miinchen, 1961. W. F. KascH, Die
Sozialphilosophie von Ernst Troeltsch, Tiibingen, 1963. E. Lessinc, Die
Geschichtsphilosphie Ernst Troeltschs, Hamburg-Bergstedt, 1965. B. A. Rest,
Toward a Theology of Involvement: the Thought of E. Troeltsch, Philadelphia,
WincgeLHaus, Kirchengeschichte und Soziologie im neunzehnten ]ahrhundert und
bei Ernst Troeltsch, Heidelberg, 1965, capp. ir. G. von ScHLIppe, Die
Absolutheit des Christentums bei Ernst Troeltsch auf dem Hintergrund der
Denkfelder des 19. Jahrhunderts, Neustadt a.d. Aish, 1966. H. Henrno, Max Weber
und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker,
Kantstudien , LIX, 1968, pp. 410-34. L'elenco completo degli scritti di Troeltsch si trova
nelle Gesammelte Schriften cit., vol. IV, pp. 863-72. Manca invece una
bibliografia aggiornata degli scritti su Troeltsch: si vedano però le
indicazioni contenute nei volumi sopra menzionati di I. E. ALserca e di E.
Lessinc, nonché nella traduzione de L’assolutezza del Cristianesimo e la storia
delle religioni (a cura di A. Caracciolo), pp. LXI-LXIv. CRISTIANESIMO E STORIA
DELLA RELIGIONE* Il carattere più generale della situazione religiosa che può essere riconosciuto da ognuno e che
si impone a ognuno consiste in una
decomposizione della religione ecclesiastica la quale, nonostante il dominio
esterno che all’occasione incide assai profondamente, si è seriamente allentata
nelle sue strutture interne e non riesce più a dominare la vita interna degli
ambienti che spingono spiritualmente in avanti. La misura di devozione
soggettiva e di bisogno religioso non è oggi presumibilmente molto inferiore a
un tempo. Sono soltanto caduti i mezzi di coercizione esterna e il generale
attaccamento alla chiesa che suscitavano, nelle epoche di forte dominio
esteriore delle chiese e di rigorosa subordinazione della scienza alla
teologia, la parvenza di una fede diffusa. Là dove prima c’era semplicemente
una sottomissione indifferente o una fede consuetudinaria priva di sentimento,
troviamo oggi un’antitesi aperta e una consapevole emancipazione, oppure la
medesima fede consuetudinaria in teorie anti-religiose oppure la stessa
indifferenza, soltanto diventata dominante e che si ritiene interessante o
progredita. La differenza importante consiste piuttosto nella scossa subìta
dalla fede anche presso i credenti e coloro che vogliono credere, nella lotta
risolutiva delle nuove grandi conoscenze e dei nuovi metodi scientifici contro
i concetti fondamentali e i metodi espositivi della fede cristiana così come si
era fin allora presentata. Certamente, questi effetti sconcertanti *
Christentum und Religionsgeschichte,
Preussische Jahrbicher , LXXXVII, 1897, PP. 415-447, raccolto in
Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von 1.C.B. Mohr, vol. II, 1913, pp.
328-363 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 806 ERNST TROELTSCH non
procedono soltanto dalla scienza, ma procedono in egual misura dalle reazioni
etiche, e più spesso anti-etiche, contro la morale qual è stata finora,
dall’impulso precipitoso di una felicità indirizzata in senso puramente
intra-mondano e all’interno della quale manca alla fede la risonanza
corroborante nella coscienza complessiva e in una tradizione avita
universalmente venerata. Ma, ciononostante, in tutti gli spiriti gravi €
profondi le conseguenze della scienza costituiscono i motivi autentici di
questa situazione precaria, almeno per quanto riguarda il Protestantesimo. Da
quando nell’età illuministica si è creata una fondazione completamente nuova
del pensiero scientifico, e quindi una nuova forma di cultura europea, il
Protestantesimo ha concluso con la scienza
in parte per un’intima concordanza, in parte a causa della sua minore
chiusura ecclesiastica un’alleanza
indissolubile, che lo ha legato ad essa in una lotta perpetuamente oscillante,
dove talora prevale l’influenza della scienza moderna, talora quella della
tradizione. Il Cattolicesimo ha invece, dopo alcuni imbarazzi transitori,
annientato la scienza moderna all’interno del suo ambito di potere e poiché anch'esso doveva naturalmente concludere
un compromesso con il mondo moderno lo
ha fatto non già con la scienza, ma con le correnti politiche, giuridiche e
sociali dell’età moderna, con le potenze del suffragio universale; e a
condizione di ottenere un franco riconoscimento della sua esistenza, concede ai
dotti una posizione privata molto differenziata nei confronti delle sue
dottrine. Il suo destino dipende in primo luogo dallo sviluppo delle
conseguenze che farà scaturire la politica che esso ha impostato nel corso del
nostro secolo. Il destino del Protestantesimo, invece, dipende in primo luogo
dallo sviluppo degli effetti che sono derivati e che derivano tuttora
dall’alleanza contratta con la scienza nel secolo xvi. Non si deve però
dimenticare che oggi l’interesse per la situazione religiosa non si esaurisce
affatto nell'interesse per il destino di queste due confessioni. Anche se ha
preso prevalentemente le mosse dal Protestantesimo, e se è possibile solamente
in base a questo, si è tuttavia venuto formando un ambito più ampio di persone
le quali estranee alle chiese piuttosto
che irreligiose indagano oggettivamente
la questione religiosa nel suo rapporto con i problemi scientifici e cercano di
districare e, per quanERNST TROELTSCH 807 to è possibile, di chiarire la
situazione. Anche chi, come me, è fermamente convinto che un risanamento delle
condizioni religiose sia in definitiva possibile soltanto muovendo dal terreno
delle comunità religiose, deve tuttavia ammettere che al presente il centro di
gravità di tutte le trattazioni concernenti la religione risiede in questo
gruppo di persone, e non nella teologia corporativa. Chi vuole ottenere
chiarezza sulla situazione, deve cominciare l'indagine di qui. Le pagine
seguenti devono illuminare la situazione, appunto nel senso di una
considerazione nient’affatto corporativa, per un aspetto la cui importanza
diventerà ogni anno più chiara. Il fondamento della scossa critica non è la
nuova speculazione sorta con l’Illuminismo, la quale poneva al posto della
filosofia ecclesiastica costruita con elementi neoplatonici, aristotelici e
biblici una nuova metafisica che assumeva in modo autonomo la tradizione antica
ponendo al tempo stesso le premesse di una metafisica la quale preparava la
moderna scienza della natura e della storia. Speculazione e teologia sono
affini per natura. Entrambe scaturiscono dall’impulso della natura umana verso
l’infinito e il soprasensibile, che l’una cerca di cogliere scientificamente e
l’altra religiosamente. Laddove c’è un generale senso speculativo, si comprende
anche ciò che vuole la tcologia; e dove nell’uomo è presente un forte bisogno
religioso, vi è anche l'impulso più forte alla speculazione. Per quanto possano
divergere nei risultati e ciò
particolarmente a partire dall’Illuminismo, dove la speculazione assunse
elementi del tutto nuovi, sconosciuti all’antichità e alla Bibbia essi si ritrovano sempre e si rafforzano a
vicenda. L’Illuminismo si è imposto con una nuova speculazione proprio perché,
in base alla tradizione precedente, l'interesse religioso agiva come elemento
dominante; e proprio perché la speculazione e la teologia sono affini nonostante
qualsiasi antitesi, esso è pervenuto a soluzioni pacifiche e di compromesso,
che a molti tra gli uomini migliori del secolo xviti apparvero una soluzione
durevole del problema posto dall’epoca e l’inizio di un periodo magnifico.
L'epoca di Schleiermacher e di Hegel parve approfondire questa soluzione
pacifica, e porla su una base di principio. Il frutto principale della nuova
speculazione, la formulazione in termini di immanenza metafisica del rapporto
tra Dio e il mondo e la diffusio808 ERNST TROELTSCH ne etica del contenuto
spirituale sull’ambito complessivo della vita intra-mondana, sembrava debitore
della sua essenza a influenze cristiane, oltre che antiche, e suscettibile di
essere agevolmente assimilato dal principio cristiano. Pareva così aprirsi un
luminoso campo di nuove indagini teologiche e filosofiche, a cui come indicano le biografie di quel tempo prendevano parte attiva uomini di ogni
professione. Questa pace e questo interesse sono scomparsi da tempo, in parte
perché la chiesa e la religione popolare non volevano accettare un compromesso
del genere, che incideva assai profondamente, preferendo isolarsi dalla vita
scientifica, ma in parte, e soprattutto, perché la speculazione fu sconfitta
dalla crescita autonoma degli elementi che all’inizio aveva saputo subordinare
a sé e tenere al proprio servizio. Le due nuove creazioni dell’Illuminismo, la
scienza matematico-meccanica della natura e la scienza critico-comparativa
della storia, si svincolarono e conobbero una diffusione straordinaria, che
assorbiva ogni attività e ogni interesse. La speculazione precedente non era
più in grado di affermarsi nei loro confronti. La conseguenza di ciò fu
che nella cultura respinta
dall’ortodossia rinnovata insieme alla
speculazione andò perduto anche il senso del soprasensibile vissuto e insegnato
dalla religione, e un pensiero educato in modo completamente empiristico non
seppe più avvicinarsi a quei problemi. Ma ancora più importante fu l’altra
conseguenza, che ognuna delle due scienze suscitava un’enorme trasformazione
dell'immagine del mondo e della storia, la quale sembrava dover distruggere
passo a passo i concetti religiosi di Dio e dell'anima, e nello stesso tempo
minava i fondamenti storici su cui aveva poggiato la precedente intuizione che il
Cristianesimo aveva di se stesso. La lotta così scoppiata è molto più violenta
e pericolosa di quella con la speculazione nemica, ma pur sempre affine: si
tratta di una lotta con una conoscenza e una concezione dei fatti differente,
che penetra in tutti i campi della vita. La discussione richiesta da questa
situazione fa tutt'uno con esse. La speculazione compare soltanto in secondo
piano. Delle due nuove scienze, la scienza della natura sembra a molti
l'avversario autentico; essi si rallegrano o si dolgono dei trionfi che fanno
arretrare ogni giorno di più la fede. Il tentativo di generalizzare e di
trasferire conoscenze e metodi che hanno dimostrato nel loro campo una
straordinaria capacità di prestazione costituisce però una delle illusioni
maggiori tra quelle che di solito accompagnano i successi inattesi. Non c'è
dubbio che la legalità autonoma e la regolarità del processo naturale, poste in
luce dalla scienza della natura, hanno reso impossibili le vecchie
rappresentazioni antropomorfiche dell’azione divina. Ma queste rappresentazioni
sono già state scosse da altri motivi, e in parte proprio da motivi religiosi,
e possono ritrarsi dinanzi a una concezione approfondita del concetto di Dio.
Nello stesso tempo i tentativi di sottomettere la vita spirituale alle leggi
naturali hanno mostrato soltanto che essa possiede una sua propria legalità e
un suo proprio modo di agire, del tutto differente e nient’affatto coincidente
con quello della natura. Certamente, anche la scienza della natura ha
rafforzato l'impressione che la natura proceda insensibile soltanto in base
alle proprie leggi, senza curarsi affatto della vita spirituale, dei suoi scopi
e dei suoi beni, e che sembri capricciosamente talora prepararla e favorirla,
talora però anche annientarla brutalmente. Ma questa impressione è
antichissima, e proprio in essa la nostalgia religiosa si compiace soprattutto
di mettere radici nel fondamento più profondo della vita spirituale per non
rimanere soffocata da quei grandi enigmi e per diventare libera nei riguardi
della semplice natura. Del resto, ogni indagine seria ha mostrato che, per
quanto tutte le connessioni possano essere concepite come puramente meccaniche,
per quanto si escluda ogni derivazione e deviazione in vista di particolari
scopi arbitrari, nelle forme di questa connessione agiscono tuttavia idee
organizzatrici; che, almeno nella vita organica, il caso meccanico non spiega
nulla; che ogni spiegazione fondata su leggi naturali concerne soltanto
l’elemento di regolarità generale tratto dall'esperienza, ma non l’esperienza
stessa nella sua realtà concreta. Ciò che il mondo reale offre è, in verità, un
dualismo di elementi razionali e forniti di valore da un lato, di elementi
irrazionali e puramente fattuali dall’altro. Le leggi generali e i contenuti
forniti di senso si compenetrano. Le prime ricoprono ogni realtà con la rete
orientativa delle loro lince direttrici, i secondi stanno nelle maglie di
questa rete. Che uno di questi due aspetti sia parvenza, oppure che uno
soltanto sia veramente dominante, è cosa impossibile da dimostrare: decidere in
un senso o nell’altro è, e rimane sempre, una questione di fede. Che però la
fede secondo cui la natura e la materia sono tutto, e che da esse deriva tutto
il resto, sia impossibile da sostenere, lo mostra l’effettiva autonomia del
mondo spirituale. Questa soltanto è la questione che dobbiamo porre alla
scienza della natura se il mondo
spirituale, con il suo dover essere e i suoi valori culturali, sia qualcosa di
autonomo e fornito di una propria forza rispetto alla natura; per il resto
possiamo lasciare che essa percorra tranquillamente il suo cammino, il quale
resta precluso a chiunque si occupa di scienza dello spirito. La risposta di
tutti gli studiosi realmente importanti è affermativa, anche se diverse sono le
intuizioni più precise in merito a tale rapporto. Per la ricerca naturale, i
problemi particolari confluiscono nelle questioni relative al rapporto tra
cervello e anima e alla presenza di idee teleologiche oganizzatrici nello
sviluppo della natura, che mostrano una natura al servizio almeno in generale degli scopi dello spirito. Entrambi i
problemi possono essere risolti soltanto da scienziati e filosofi uniti; essi
sono ancora oggi, come tutti sanno, straordinariamente dibattuti. Ma lo storico
e l’indagatore della vita spirituale non ha bisogno di attendere queste
soluzioni. Per lui è un punto fermo non soltanto ciò che costituisce al
presente un patrimonio comune nei confronti di ogni tipo di materialismo, cioè
il fatto che lo spirito è una forza autonoma inderivabile dalla natura, ma
anche il principio più importante che questa potenza autonoma non manifesta la
sua forza specifica in un adattamento formale alla natura, ma contiene
piuttosto di per sé anche contenuti spirituali, disposizioni e impulsi
autonomi, dai quali sorge, in un'azione reciproca con le esigenze della realtà
sensibile, il ricco mondo della storia. Nel suo campo l'autonomia, la legalità
autonoma e la forza creativa meno
familiari allo studioso della natura
dello sviluppo spirituale nella religione, nella morale e nella cultura
si presentano così chiaramente che egli può applicarsi a questo campo
considerandolo almeno relativamente autonomo, e trattare i suoi problemi come
problemi del mondo spirituale. In questo nostro campo d’indagine risiede però
anche il vero e proprio centro di gravità della questione religiosa. Poiché la
religione è un elemento costitutivo della vita storica, le questioni principali
che la riguardano si collocano in campo storico. La scienza storica moderna,
che si estende a epoche e a regioni prima sconosciute, ha anche posto la fede
cristiana di fronte a problemi del tutto nuovi; e il sorgere di una storia
comparativa delle religioni l’ha scossa profondamente alla base. Fino al secolo
xviri la teologia, e la scienza in generale, conosceva soltanto con eccezioni scarse e prive di
influenza il presupposto rigorosamente
soprannaturale del mondo cristiano, cosicché il Cristianesimo riposava su una
rivelazione comunemente ritenuta soprannaturale e legittimata da miracoli che
interrompevano il corso della natura. Il pensiero scientifico si estendeva
soltanto alla sua interpretazione, non alla sua realtà di fatto. Di fenomeni
concorrenti, non cristiani, si conoscevano soltanto la mitologia greco-romana e
l’Islam. La prima veniva però considerata come la corruzione peccaminosa di
residui di una conoscenza risalente all’Eden, e il secondo come un’eresia del
Cristianesimo. I suoi miracoli erano, come quelli dell’eretico, scimmiottamenti
del demonio. Al contrario, la credenza in dio della filosofia greca non
comportava alcuna concorrenza alla rivelazione cristiana, ma rappresentava il
frutto del pensiero naturale , il
prodotto normale e canonico del lumen naturale, che costituiva nei confronti
della rivelazione un’analogia e un grado preliminare più o meno amichevolmente
apprezzato, di cui non si poteva fare a meno per la definizione € l’esposizione
del contenuto della rivelazione. Questo mondo angusto e ristretto, dai
presupposti storici semplici ed evidenti, fu distrutto dal secolo xvi.
Certamente, furono in primo luogo la moderna scienza della natura e la
metafisica moderna a porre in questione il miracolo e il soprannaturale, ma ben
presto questo effetto derivò in misura sempre crescente dalla ricerca storica.
Accanto al Cristianesimo, all’antichità e all’Islam si collocavano le altre
grandi religioni del mondo antico con le loro analoghe dottrine teologiche; e,
al di fuori del mondo cristiano, uno sterminato mondo pagano si apriva nelle parti della terra
recentemente dischiuse al commercio e descritte da resoconti di viaggi molto
ammirati. Ne venivano così posti doppiamente in dubbio gli analoghi miracoli ed
elementi soprannaturali della storia ebraica e cristiana, e la pretesa unicità
della Chiesa. Voltaire e Montesquieu amavano procedere mediante questi
paralleli tra religione cristiana e religione pagana. L'applicazione dei nuovi
metodi pragmatici e critici, approntati dal deismo ed energicamente
approfonditi dai teologi tedeschi del secolo xvi, si mostrava possibile anche
per la storia del Cristianesimo, e distruggeva sia la finzione cattolica
secondo cui la chiesa sarebbe la semplice prosecuzione del Cristianesimo
primitivo, sia la finzione protestante secondo cui la Riforma ne costituirebbe
la restaurazione. Tutte le impostazioni della precedente visione confessionale
della storia furono negate c sostituite da una nuova impostazione, che inseriva
la storia della rivelazione e della chiesa nel generale pragmatismo storico.
Ciò che il secolo xvilt aveva cominciato a fare ancor sempre esitante, cercando
in ogni cosa un’immutabile verità di ragione e onorando in tutte le religioni,
ma particolarmente nel Cristianesimo, la
religione naturale , fu proseguito dal secolo xIxX con crescente
successo e con una smisurata estensione. Esso ha dissolto la vita dell'umanità
in una corrente ininterrotta di divenire storico, di trasformazioni continue,
mostrandone il frammento a noi accessibile nel suo movimento interno, e per le
parti a noi ignote che si collocano
prima e dopo tale frammento dispiegando
agli occhi della fantasia l’immagine di trasformazione senza fine. Ma esso ha
soprattutto fornito sia ai singoli campi sia alla considerazione complessiva
della storia metodi storico-filologici concreti
e in luogo del metodo pragmatico quello genetico, che poggia sul
presupposto di uno sviluppo continuativo e omogeneo della vita spirituale,
indaga le leggi di formazione della tradizione presso i popoli antichi €
proprio qui mostra come, muovendo da queste tradizioni le quali offuscano ogni
sviluppo e ogni condizionamento naturale, si possa chiaramente ricostruire il
corso reale delle cose. In quella corrente impetuosa anche le religioni piccole
e grandi alle quali si aggiungeva con
l’inizio del secolo anche la religione indiana appena scoperta, insieme alle
varie religioni ad essa imparentate
apparvero nient'altro che onde che si alzano e si abbassano,
infinitamente diverse e senza quiete. Infatti dal nuovo metodo filologico
scaturì naturalmente anche un’indagine del tutto nuova delle religioni antiche.
E le antichità religiose nella loro stretta connessione con il
diritto, la politica, l'articolazione della società, l’arte e la scienza dei
popoli antichi, costituiscono il corpo principale della tradizione. Miti e
tradizioni, culti e leggi religiose vengono sempre più riconosciuti nella loro
connessione naturale con la vita complessiva. Di qui scaturirono, alla fine, le
indagini degli etnologi e degli antropologi sui popoli senza storia , le quali hanno mostrato la
presenza presso di questi di un gran numero di tratti molto prossimi alle
tracce più antiche dello sviluppo culturale e religioso dei popoli civili e
gettato nuova luce sui loro inizi. Dalla cooperazione tra scienza dell’antichità,
filologia orientale ed etnologia è così sorta una nuova grande disciplina, la
storia delle religioni, che è certamente elaborata in modo ancora molto
incompleto e diseguale, ma da cui provengono già ora, direttamente o
indirettamente, gli effetti più forti. I suoi metodi sono profondamente penetrati
nell’analisi della religione israelitica e cristiana. Nessuno poteva più
mettere in dubbio la sua splendida influenza nel campo profano ed
extra-cristiano; non appena la si applicò a fondo alla totalità della
tradizione cristiana, si vide che questa chiave, capace di aprire tutte le
porte, si adattava anche qui alla serratura. La storia del Cristianesimo è così
stata inserita irrevocabilmente nella storia generale della religione, per
quanto si cercasse di nuovo di sottrarlo ad essa nei punti più importanti.
D'altra parte, anche l’indagine di principio sull’essenza e sulla verità delle
conoscenze religiose aveva bisogno di abbracciare con lo sguardo la
molteplicità storica delle religioni. Lo spirito del pensiero moderno,
orientato in senso storico, ha costretto in ogni campo filosofi e teologi a
considerazioni storiche, soppiantando il vecchio e più elementare procedimento,
puramente logico-speculativo. In tal modo il cerchio della considerazione
storica religiosa si è chiuso da tutte le parti intorno al Cristianesimo. Gli
effetti di tutto ciò sono evidenti; ma essi sono più importanti di quel che si
è in un primo tempo supposto e di quel che ancora oggi spesso si suppone. La
conoscenza prossima fu che tutti gli elementi soprannaturali, e in particolare
le relazioni causali asserite dal pensiero giudaico-cristiano, sono scomparsi
dalla concezione della storia del Cristianesimo, e che questa storia è stata
studiata secondo l’analogia con altre tradizioni, mantenendo in pieno
l’importanza che prima rivestiva. In tale maniera il Cristianesimo ha però
perduto la fondazione soprannaturale che lo distingueva da tutte le altre
religioni; la sua storia primitiva era solo più la fonte, non più la sua prova.
I suoi fondamenti storici, che avevano avuto un’importanza decisiva per la sua
precedente concezione di se stesso, hanno cominciato a vacillare, e ciò ha
trasformato tutta la sua essenza. In tale maniera, però, era minacciata non
soltanto la sua soprannaturalità, ma anche
come presto è risultato la sua
singolarità e il suo valore esclusivo di verità. Esso diventava solamente una
delle grandi religioni universali accanto all'Islam e al Buddismo, una
religione che, al pari di queste, si è sviluppata attraverso una lunga
preistoria e che ha raccolto l'eredità di formazioni storiche di larga portata.
Dov'è rimasta allora la sua verità esclusiva o anche soltanto la sua posizione
di privilegio, dov'è rimasta soprattutto la fede nella sua rivelazione
esclusiva e unica? La questione dell’autenticità dell’anello diventava ancora
più grave di quanto era stata per la religione razionale di Lessing. Ma la
conseguenza va ancora più in là. Non soltanto la validità e la verità del
Cristianesimo, ma anche quella della religione in generale come campo autonomo
e particolare della vita viene trascinata via da questo vortice della
molteplicità storica. Come può esserci comunque una verità nella fede
religiosa, la quale si manifesta in mille forme diverse, chiaramente dipendenti
dalla situazione e dalle circostanze, e si riporta a rivelazioni che si
presentano tutte come infallibili e universalmente valide, o almeno come
un'opera soprannaturale immediatamente procedente dalla divinità, e che al
tempo stesso si contraddicono completamente? Come può esserci ancora una
religione nell’infinita molteplicità e nelle profonde differenze delle
religioni, se la religione deve significare in verità una comunità con la
divinità? Non si dovrebbe almeno dire, con le note parole di Schiller: Quale
religione riconosco? Nessuna di tutte quelle che mi nomini. E perché? per religione '? Oppure con le
parole di Goethe, che certamente non esprimono tutta la sua autentica
intuizione al riguardo: Chi possiede
scienza ed arte ha anche la religione; 1. ScuitLer, Epigramme, Mein Glaube. chi
non ha né Vl’una né l’altra s'abbia la religione ?? Si tratta di una storia di
follia e di superstizione, nel migliore dei casi del rozzo precedente e del
surrogato popolare della filosofia e dell’arte, scaturito esclusivamente dal
pensiero e dall’errore umano, non dell’opera della divinità per lo meno non più e non diversamente di
quanto lo sia qualsiasi altro evento dal
momento che la divinità non può mettersi in dissenso con se stessa. Ma con ciò
le questioni riprendono da capo: perché allora queste innumerevoli vie traverse
delle religioni per giungere alla verità della filosofia e dell’arte? perché la
necessità di un surrogato popolare? donde viene l’enigmatica autonomia e la
forza propria delle religioni, che ora si accordano con l’arte e la scienza
ispirandole alle più alte imprese, ora le annientano nel loro fiorire e ne
prendono il posto? donde viene il caratteristico contenuto interno di relazioni
coercitive e viventi con la divinità, che non può essere vissuto altrove e che
la scienza e l’arte possono soltanto trarre dalla religione ? Qui stanno
infatti i problemi veri e propri per chi ha visto che la scienza naturale non
può decidere nulla in merito alla possibilità o impossibilità della religione,
o può decidere soltanto le questioni preliminari più generali. Essi
costituiscono anche la base più profonda della crisi attuale, sebbene la
cultura media continui ad attribuire questo progresso o questa sfortuna secondo il punto di vista solamente alla scienza della natura. Come la
scepsi, che invade oggi tutti i campi, ha il suo fondamento principale nel
relativismo prodotto dal diffondersi degli studi storici, così ha qui la sua
radice, ora più consapevolmente, ora più inconsapevolmente, anche la posizione
contraddittoria della nostra migliore cultura nei confronti della religione,
che oscilla avanti e indietro tra un mezzo riconoscimento e una mezza
contestazione, riconoscendo in qualche modo la verità e la necessità di un
fenomeno storico così potente e tuttavia non impegnandosi seriamente con
nessuna delle sue forme concrete. 2. GoetHE, Xenien. Ma le grandi crisi
storiche guariscono spesso come Ja
lancia di Odino le ferite che hanno
inferto. Come la moderna scienza della natura costringeva, proprio in virtù
della sua coerente elaborazione, a indagini gnoseologiche sulla causalità e
sulla sostanza, conducendo perciò al superamento del suo carattere
materialistico e naturalistico, così anche la nuova scienza storica ha
costretto a cercare con maggiore profondità di prima le forze propulsive e
unitarie della storia. Se 1’Illuminismo, ancora sottoposto all’influenza del
soprannaturalismo, aveva riposto il contenuto della storia in una verità di
ragione sempre eguale, rigida, spiegando a partire da essa tutte le deviazioni
e tutti i mutamenti in base a motivi puramente soggetti vi, la nostra
intuizione della storia procedeva all'indietro
sotto l’influenza delle nuove idee poetiche di Lessing, Herder,
Goethe dai variopinti e molteplici
fenomeni esterni alle tendenze spirituali di fondo della natura umana che stanno
alla loro base e che sono in essi soltanto incorporate, e insegnava poi a
riconoscere di nuovo queste tendenze nella loro interna connessione come il
dispiegarsi della ragione umana complessi va, che nel corso dello sviluppo
dispiega il proprio contenuto spirituale
come un grande individuo
attraverso la successione delle generazioni. In tal modo è stata fondata
la grande intuizione moderna della storia, che costituisce il presupposto nuovo
di ogni scienza dello spirito: essa racchiude ancora in sé gravi problemi, ma
si è già dimostrata estremamente feconda. Da essa è sorta anche una nuova
intuizione della religione e del suo sviluppo storico. Anche nella religione si
è pervenuti, muovendo da forme fenomeniche infinitamente diverse, a un nucleo
interno, sempre presente e almeno formalmente identico, agli Er/ebnisse interni
della coscienza, che si cristallizzano e si ramificano a formare quelle forme
fenomeniche soltanto in virtù della cooperazione di varie condizioni esterne.
Era questo Erlebnis fondamentale ciò che occorreva comprendere e analizzare. In
base alle rivelazioni originarie e acquisite di questo Erlebnis si doveva
comprendere la formazione dei gruppi di religioni; e nel sorgere di gruppi di
religioni sempre più grandi e comprensivi si doveva riconoscere il dispiegarsi
dell’idea religiosa. C'erano naturalmente vie molto differenti per procedere a
quest’analisi, e numerosi sono stati gli errori. Il presupposto di un’indagine
di questo tipo è naturalmente la conoscenza approfondita della storia empirica
delle religioni, ma di tale conoscenza si può finora parlare solo parzialmente.
Nel complesso questa è la strada che si accorda con la tendenza del pensiero
scientifico, e che ha già condotto a molte conoscenze fornite di valore.
Dobbiamo soltanto imparare a considerare la religione con occhio sempre più
amorevole, sempre più libero da presupposti dottrinali, razionalistici e
sistematizzanti, e a studiarla in modo sempre più penetrante proprio nei suoi
caratteristici e appariscenti fenomeni e personalità specificamente religiosi,
anziché nell'uomo comune. Allora ci si disvela
come il nucleo più profondo della storia religiosa dell'umanità un Erlebnis non suscettibile di essere
ulteriormente analizzato, un fenomeno originario ultimo che, al pari del
giudizio etico e dell’intuizione estetica, rappresenta un fatto ultimo e
semplice della vita psichica, ma che è caratteristicamente diverso da entrambi.
Noi riconosciamo leggi particolari
proprie di questo campo della vita
nella formazione di idee e di norme, nella produzione di simboli e di
azioni religiose, nell’allargamento, nella crescita e nell’elaborazione, nella
contrapposizione e nella lotta con forze estranee o antitetiche;
nell’alienazione e nell’approfondimento, nell’intreccio con altri sistemi di
vita e della concentrazione che ne viene di nuovo fuori, nella formazione della
tradizione e della comunità nonché nella produzione originale che continua
sempre a sussistere accanto a queste, nel rapporto degli spiriti produttivi con
i fedeli ad essi subordinati. In tutte queste formazioni diversissime vive pur
sempre una realtà fondamentale unitaria, ossia la religione, il contatto
indeducibile, puramente fattuale, sempre nuovamente vissuto, con la divinità.
Si può passare da una religione all’altra: anche le religioni tra loro più
opposte possono comprendere, con qualche attenzione, il linguaggio religioso
l'una dell’altra. Si tratta sempre della stessa realtà, che viene colta in
diversi gradi e da diversi lati. Ma questa unità non è l’unità rigida della
religione naturale come aveva ritenuto
la concezione della storia del secolo xvi
e non si basa sull’accordo tra operazioni intellettuali coscienti; essa
è invece fondata su una comune tendenza di movimento dello spirito umano, la
quale spinge avanti in direzioni diverse e si compie attraverso il movimento
dello spirito divino che opera misteriosamente nella profondità inconscia dello
spirito umano unitario. Incapace di raggiungere il suo fine nel breve tratto
della vita individuale, questo movimento si compie attraverso il lavoro in
comune di innumerevoli generazioni che, afferrate e condotte dall’agire divino,
si affidano ad esso vivendone sempre più riccamente e profondamente l’intimo
contenuto. Questo movimento è uno sviluppo perturbato in vario modo, ma che in
tutte le perturbazioni si riprende sempre di nuovo, reca a realizzazione il
contenuto posto come possibilità e come nucleo nel sistema religioso di vita,
mostra i diversi gruppi di religioni nella loro relazione reciproca e nella
loro graduale successione, e nel corso stesso della storia porta alla luce con la contrapposizione di diverse
religioni il criterio della loro
valutazione. In tal modo si innalza davanti ai nostri occhi, anziché il caos,
un cosmo di religioni, a proposito del quale non si deve dimenticare che qui la
successione di gradi indica non soltanto una serie temporale, ma anche una
contemporaneità. Questo cosmo è stato spesso considerato un gioco che presenta
in sfumature quanto mai variopinte e ricche la realtà fondamentale comune,
oppure come una cooperazione di diverse verità parziali che costituiscono la
bella totalità. Ma questa considerazione estetica, che faceva della storia
delle religioni uno spettacolo ricco e bello per la divinità, contraddice sia
il vero senso dell’idea di sviluppo sia l’essenza reale delle religioni. L'idea
di sviluppo, tratta attraverso diverse idee mediatrici dai fenomeni spirituali
del movimento di un fine unitario, si spinge fino al conseguimento di questo
scopo finale a cui sempre si tende e che sempre agisce; e le grandi religioni
tanto meno si arrestano in sé quanto più hanno compreso il loro fine, ma anzi
tendono con passione spesso struggente verso la verità totale e intera.
Soltanto dove l’idea di sviluppo viene mantenuta nel suo senso pieno, essa non
opera in modo snervante e distruttivo; e soltanto dove le religioni sono
animate da questa passione, esse hanno una vitalità intima che le spinge in
avanti. Perciò occorre in ultima analisi, e soprattutto, rintracciare il fine o
almeno la tendenza al fine della storia delle religioni, la quale non può
trovare il suo termine nei sistemi della scienza e dell’arte ad essa prossimi
oppure in un concetto astratto di religione elaborato in base a varietà delle
religioni, ma soltanto in una religiosità concreta, particolarmente profonda e
potente, particolarmente forte e coniata in forma pura. Essa deve contenere i
momenti di verità delle altre o potersene appropriare, e deve in ogni caso
incorporare in modo vivente l’idea centrale che emerge dal loro sviluppo. In
quale misura essa sia configurata unitariamente e in quale misura possa
penetrare universalmente, nessun postulato può stabilirlo 4 priori. Si tratta
soltanto di un postulato che deriva dallo stesso sviluppo religioso, in modo
tale da fornire una tendenza al fine e da fare sì che essa si renda
riconoscibile, almeno come avviamento e come tendenza verso il futuro. Il
vecchio metodo della teologia soprannaturalistica ne risulta pertanto
capovolto. Essa muoveva dal presupposto, assunto come ovvio, che il
Cristianesimo costituisce a causa del
suo carattere soprannaturale l’unica
verità, e si curava soltanto di porre le altre poche religioni conosciute in un
rapporto tollerabile con questa religione soprannaturale, ed essa sola vera. La
sua filosofia della storia collegava immediatamente il Cristianesimo, inteso
come restaurazione soprannaturale, al perfetto e semplice inizio dell’umanità;
la molteplicità delle altre religioni non era che un prodotto dell’offuscamento
successivo al peccato, e i loro elementi di verità erano residui dell’antica
perfezione dello stato originario. Il Cristianesimo era non soltanto la suprema
e più profonda redenzione, ma l’unica redenzione operata immediatamente da Dio,
mentre tutte le altre religioni nascevano esclusivamente dal pensiero e
dall’errore umano, e la loro fede di redenzione doveva essere stata soltanto
auto-redenzione in base a una forza naturale. La ricerca storica moderna
costringe a percorrere il cammino inverso. Essa mostra che questo
soprannaturalismo e questa forma di fondazione costituiscono un modo, comune a
tutte le religioni superiori, di esprimere la loro convinzione della propria
verità. Essa distrugge l’idea di un semplice inizio soprannaturale
dell’umanità, e mostra anche presso i devoti dell’Indo e delle montagne
persiane la forza profondissima e vivissima della fede redentrice e della
comunanza immediata con Dio. Essa percorre in tal modo la via dall’universale
al particolare, dall'indagine della religione come contatto particolare con la
divinità, che ha luogo ovunque, all’indagine dei particolari ambiti concreti di
religione. Cercando di coglierli nel loro rapporto interno, in una prospettiva
storico-evolutiva, essa va alla ricerca del prodotto supremo di questa storia,
guidata dalla convinzione certamente
indimostrabile, e che rappresenta essa stessa una fede etico-religiosa che la storia non è un gioco di varianti
senza fine, bensì il dispiegarsi del contenuto più profondo e unitario dello
spirito umano. Ai suoi occhi la storia della religione è una storia di Dio con
gli uomini, una storia della redenzione che eleva l’umanità e l’uomo singolo al
di sopra del legame con la mera natura sensibile, con il bisogno e con
l’aspirazione puramente naturale, fino alla comunità con Dio e alla libertà
dello spirito sul mondo e sulla mera, ottusa fattualità dell’esistenza. In
quanto la storia della religione raggiunge in questo modo, o meglio realizza,
la verità in grado diverso secondo la
situazione e le condizioni vincolando
l’uomo con il fondamento più profondo della sua esistenza e con l’insieme dei
suoi beni spirituali, ne è nata la convinzione che in essa, e in essa soltanto,
si raggiunge un reale progresso della storia e che essa può credere, del tutto
diversamente dalla storia degli altri campi della vita, nel conseguimento di
uno scopo definitivo e semplice. Mentre la morale, il diritto, la cultura, la
scienza e l’arte si riferiscono a una situazione mondana sempre mutevole e sono
perciò sempre costrette a comportare nuovi impercettibili adattamenti,
innumerevoli dissoluzioni e nuove formazioni, la religione ha invece a che fare
con il fondamento eterno, sempre identico a se stesso, della vita. Penetrandolo
sempre più profondamente, essa può ritenere possibile raggiungere quella misura
di verità e di unificazione interna che è in generale concessa all’uomo sulla
terra certamente sempre intrecciata, in
relazioni continuamente mutevoli, con la situazione complessiva che si
trasforma, in lotta con le potenze contrapposte dell’inerzia, del peccato, dell’esteriorizzazione
egoistica, e creando, in base alla verità una volta raggiunta, una sempre nuova
e più profonda forza vitale, ma pur sempre nella certezza di avere vissuto ed
esperito il nucleo del mondo soprasensibile. Si tratta di un postulato di cui
nessuno, che abbia riconosciuto nella religione un campo autonomo della vita,
può fare a meno. Certamente, a questo punto si aprono i problemi ultimi e più
profondi, le questioni fondamentali della storia: perché abbia luogo in
generale una storia; perché gli uomini debbano essere tratti fuori e liberati
dalla balia della natura e delle sofferenze da essa a noi inflitte,
dall’inerzia e dall’egoismo, soltanto in virtù della religione; perché le
condizioni di questo processo e i suoi effetti siano talmente differenti e non
si possa parlare di una possibilità identica per tutti di partecipare al suo
frutto; perché innumerevoli generazioni e individui debbano venir consumati in
esso, e pur sempre rimanere differenze di grado; se, e come, tutta questa
diseguaglianza potrà mai essere appianata. Queste sono le questioni ultime e
più profonde che un’epoca fornita del coraggio della speculazione cercherebbe
di illuminare mediante una speculazione che muova dai fatti della vita
interiore, e nelle quali un’epoca stanca di speculazione come la nostra venera
invece rassegnata i limiti della conoscenza umana; questioni a cui risponde in
modo oscuro e logoro, ma profondo e comprensivo, la religione stessa attraverso
la dottrina dell’amore creativo di Dio e della vita dopo la morte,
dell’auto-redenzione di Dio nell’elevazione dei regni degli spiriti finiti alla
comunità con lui. Non sono quindi queste questioni ultime a dover essere ancora
indagate se si deve risolvere il problema posto dalla considerazione
storico-religiosa. E neppure può trattarsi di garantire l'assunzione
fondamentale qui presupposta cioè che la
religione è un campo di vita autonomo, un contatto interiore con la
divinità contro le obiezioni che dalla
pienezza delle particolarità storiche traggono l’occasione per una spiegazione
di tipo illusionistico la quale deriva la religione, intesa come prodotto
secondario, da altri fatti fondamentali. Ogni D spiegazione del genere naufraga
sempre dinanzi al fatto che la religione non può essere derivata dal pensiero
causale o dall’impulso filosofico, e neppure dalla fantasia e dal bisogno di
felicità: ciò risulta particolarmente chiaro nelle più eminenti personalità
religiose, in cui opera ancora la forza completa dell’ispirazione e la
religione non si è ancora risolta in teologia, in etica o in culto, ma anche
ogni fedele può constatarlo in se stesso, nella sua propria esperienza. Egli
segue una coercizione che lo trascende, una tendenza verso qualcosa che non
trae origine dal mondo delle esperienze sensibili e dai bisogni sensi bili, ma
che doveva già essere contenuto nel sentimento prima di poter essere
manifestato o postulato. Per una spiegazione realmente di tipo illusionistico
resterebbe soltanto l’ipotesi che è
stata anche tentata e che da molti punti di vista sarebbe ancora la più
accettabile che si richiama a una follia
contagiosa, ad allucinazioni di visionari invasati, le quali poi si sarebbero
trasmesse, in forma più debole, ai comuni fedeli mantenendo sempre un’enigmatica
forza di contagio. Su un'ipotesi siffatta non si può naturalmente discutere:
essa significa soltanto il riconoscimento del fatto che nella religione siamo
sempre di fronte al fenomeno fondamentale ultimo non ulteriormente risolubile, che rimane
sempre enigmatico e incommensurabile
della vita spirituale, e che in esso è presente un proprio autonomo
principio di sviluppo condizionato sì dal resto della vita, ma non
esclusivamente prodotto da essa. Si può quindi restare fermi, in generale,
all’intuizione fondamentale già ricordata, ossia alla filosofia della storia di
Hegel, di Schleiermacher e di Humboldt, che riconosce nella religione un
fenomeno universale della vita spirituale e applica alla sua storia l’idea di
sviluppo, che può condurre soltanto a uno studio sempre più realistico e impregiudicato
dei fenomeni specificamente religiosi e che dev'essere liberata dalla
connessione troppo stretta e ancora
dominante della religione con intuizioni
complessive di carattere metafisico ed estetico. Le questioni che scaturiscono
da tale concezione sono piuttosto quelle che si riferiscono, in modo
particolare, al rapporto della molteplicità e relatività storica con l’unità
ultima e con la propria verità, postulato della fede religiosa. E proprio per
gli storici che si immergono nella pienezza della realtà sorgono sempre di
nuovo certi problemi: come si possa, da questo punto di partenza, Spiegare o
piuttosto sostenere, in rapporto a quella tendenza all’assoluto, l'effettiva
diversità delle concezioni religiose fondamentali, la diversità di intensità e
di purezza, la debolezza di vita religiosa che caratterizza talvolta interi
periodi e interi popoli. L’altra questione, che tocca in maniera ancora più
immediata l’interesse generale, è se realmente una delle religioni concrete
oppure dal momento che esso rappresenta
la grande religione storica dell'ambito di cultura europeo-americano, € può
praticamente costituire per noi il culmine dello sviluppo religioso,
collocandosi sicuramente, per interiorità e attività religiosa, ali sopra del
Giudaismo, dell'Islam, del Buddismo e del Bramanesimo se il Cristianesimo possa essere realmente
considerato il punto di convergenza della vita religio sa e il fondamento di
ogni sviluppo ulteriore. Per rispondere alla prima questione occorre riflettere
che il concetto di religione è rimasto, con quanto si è detto, ancora assai
indeterminato e incompiuto. La storia della religione mostra piuttosto
chiaramente, per quanto è possibile, che la religione non può essere un’azione
di Dio sul sentimento, chiusa internamente in sé a ogni altra realtà, immediata
e sempre riproducentesi in modo spontaneo. Che essa sia questo, lo afferma
ovunque soltanto la teoria della mistica, cioè di quel particolare risultato di
complicati sviluppi storico-religiosi che compare ogni volta che si è smarriti
dinanzi alle singole forme concrete della fede in Dio e si ritorna a un'azione
ineffabile e sempre eguale di Dio sull’anima, oppure quando, rifuggendo
paurosamente da ogni esteriorità e da ogni mediazione, si aspira a una
comunanza il più possibile interiore e immediata con Dio. Il vuoto e
l’auto-limitazione priva di rapporti comunitari di questa devozione, la
concentrazione artificiosa che si punisce con l’irritazione e la spossatezza,
il distacco dal mondo mostrano fin dall’inizio quanto poco si tratti di
fenomeni normali. Una teoria del genere passa anzi sopra fatti di importanza
fondamentale. Quell’influenza divina non si compie cioè in ogni uomo in maniera
nuova e autonoma, e in modo puramente interiore come se fosse una specie di
magia dell'anima, ma si compie attraverso mediazioni di vario genere.
L'impressione religiosa o per impiegare
un’immagine tratta dalla psicologia empirica
lo stimolo religioso scaturisce sempre soltanto da avvenimenti e da
esperienze vissute di tipo esterno e interno, nella natura e nella storia,
nella coscienza e nel cuore. Per la grande maggioranza degli uomini l’elemento
mediatore dello stimolo religioso è la tradizione religiosa, accanto alla quale
stimoli religiosi indipendenti rivestono un'importanza solitamente più
ristretta. L’enigma proprio dello sviluppo religioso individuale consiste nel
vedere come da tradizioni non comprese, dapprima estranee e interpretate in
modo infantile, sorga gradualmente la devozione autonoma, interiore e
personale, la quale è cosciente, almeno nei punti più alti, della sua comunanza
interiore e della sua relazione reciproca con la vita divina. Se ci si
riferisce però all’origine di questi ambiti di tradizione talvolta racchiusi l’uno nell’altro ©
incrociantisi tra di loro ci si imbatte,
dove è possibile risalire fino agli inizi di una religione, in personalità
straordinariamente originali che, legate meno strettamente alla mediazione
della tradizione, ricevono dai grandi avvenimenti della natura o della storia,
dai destini della vita individuale o dai processi della loro vita interiore lo
stimolo a nuove grandi intuizioni, attraendo le altre sotto la potenza della
loro devozione e della loro personalità. Quanto più queste concezioni
fondamentali, che compaiono in modo puramente fattuale e non possono venir
derivate da altre, sono profonde e personali, e collegate con avvenimenti
grandi e importanti, tanto più esse si presentano come nuclei di grandi
contenuti di vita, come princìpi che si dispiegano nel lavoro di molte
generazioni. I visionari, gli estatici e gli ispirati delle antiche religioni,
i profeti, i riformatori e i santi sono di solito personalità di questo genere,
e la loro caratteristica principale è un’enorme unilateralità che respinge
tutto il resto, e mediante la quale soltanto essi possono produrre tale
effetto. Ma, una volta dischiusa da essi in questo modo determinato, la
comunanza con Dio crea un allargamento e una diffusione straordinaria dei
rapporti fondamentali così dati. Essa si sviluppa finché possiede una forza di
sviluppo non ancora utilizzata e finché non viene sopraffatta da impressioni
più potenti. Il fatto che nel campo della religione, come in tutti gli altri,
le disposizioni e le capacità siano diverse, che il contenuto e la portata di
un principio religioso possano essere sviluppati soltanto mediante il lavoro di
appropriazione di molte generazioni, che l’esperienza religiosa scaturisca da
elementi diversi di una realtà infinitamente varia, e che in tale maniera
l’unica verità sia colta diversamente in differenti concezioni
fondamentali tutto ciò è inerente
all’enigma stesso della storia, la quale distribuisce il contenuto della vita
spirituale nel lavoro di miliardi di uomini, e il cui mistero è noto soltanto a
Dio. Ma tutto ciò non cancella la fede che in questa molteplicità sia vissuta
una verità unitaria. Procedendo dalle differenze condizionate dal luogo e dal
tempo, da particolarità personali e storico-culturali, dalla mescolanza dei
nomi di divinità e delle mitologie, da alienazioni e da deformazioni infantili
e rozze, o egoistiche e sacrileghe, fino al nucleo unitario, troviamo sempre
una verità molto affine. Osserviamo il grande terrore dinanzi al mistero di un
mondo soprasensibile che si introduce nel corso della vita quotidiana e che
desta l’uomo, ora spaventandolo ora consolandolo, dal sonno di un'esistenza
puramente intra-mondana; la manifestazione di forze divine nella natura, da cui
scaturisce in definitiva una sensibilità panteistica; l'autorizzazione di norme
etiche e giuridiche da parte della divinità, la quale si rivela come sacra ed
esige anzitutto purezza e verità, dirittura e rigore nell’agire. In
particolare, beni superiori e beatificanti si collocano al di sopra del mondo
sensibile, un elemento permanente ed eterno si eleva sul mutare del desiderio e
del bisogno, e da ciò sorge la fede nella redenzione, che nella religione in
generale riconosce la redenzione dal dolore e dalla colpa, dal carcere
dell’insoddisfazione eternamente mutevole. Tutte queste cose possono essere
viste come oggettivamente connesse, come impulsi verso una concezione unitaria;
e la questione del perché gli individui prendano parte in modo così diseguale
alla piena verità oggettivamente connessa non può turbare questa conoscenza, in
quanto è una questione eternamente insolubile sulla terra. In base al medesimo
fatto fondamentale della mediazione di tutte le spinte religiose si spiegano
però, in collegamento con un secondo fatto fondamentale, anche gli altri
fenomeni che abbiamo menzionato: la diversa intensità e direzione
dell’interesse religioso, la debolezza della vita religiosa, che non sempre
dipende soltanto da ottusità e da rifiuto nei confronti dell’elevazione ideale
o da una consapevole opposizione. Non parleremo qui, in quanto si tratta di
cose ovvie, di quest’ultimo condizionamento da parte dell’inerzia,
dell’egoismo, della rozzezza e dell’esteriorità, né degli effetti della lotta
continua della religione contro gli impedimenti ad essa opposti dalla volontà.
Occorre considerare piuttosto altre cose. L'intuizione di Dio non è isolata in
sé, e neppure è un'esperienza vissuta accolta passivamente. Essa è fin
dall’inizio rivestita di determinati tratti di simbolizzazione poetica, e opera
mediante riferimenti concreti a certi campi di fenomeni naturali o etici e con
determinati strumenti di espressione linguistica. Agendo come stimolo
sull’anima in virtù di questo contenuto concreto, essa suscita
immediatamente al pari di ogni altro
stimolo una quantità di reazioni,
cosicché non può mai liberarsene in tutta la sua purezza, ma in ogni momento
della sua influenza è sempre indissolubilmente collegata con le più svariate
reazioni psichiche. La connessione è qui più stretta e ramificata di quanto non
avvenga per qualsiasi altro stimolo, perché l’esperienza religiosa è
l’esperienza dominante, che attrae o respinge ogni cosa, e perché eccita più di
ogni altra il sentimento in tutte le sue sfumature. Esiste anche un'
appercezione religiosa in virtù della
quale lo stimolo religioso penetra immediatamente nella connessione di tutte le
rappresentazioni e di tutti i sentimenti, e ne viene influenzato nella sua
direzione, nella sua forza e nel suo ambito, anche se poi dà a sua volta nuove
linee direttive e nuove intonazioni all’intera struttura. È noto che le nature
specificamente religiose intrecciano impetuosamente, nelle loro idee religiose
fondamentali, tutto ciò che è vicino e ciò che è lontano, oppure respingono
tutto quanto si oppone, o che non si connette immediatamente, come cose del
mondo e cure quotidiane; allo stesso modo coloro che hanno il loro centro di
gravità in altre disposizioni, adattano la religione a interessi scientifici,
etici, estetici, cercando di mediarla con il resto oppure, dove
quest’adeguazione risulta impossibile, di respingerla. Nelle condizioni di
quest’appercezione, differente in ogni individuo, risiede per lo più il motivo
delle enormi diversità individuali all’interno di ogni particolare ambito
religioso, delle diverse rappresentazioni e sensazioni religiose, della diversa
posizione e forza dello stimolo religioso all’interno del contenuto psichico
complessivo, della prevalente dipendenza dalla tradizione e dal simbolo, della
prevalente autonomia e reazione, della diversa misura di forza trascinante e di
appropriazione riflessiva. Quanto più sviluppata e più ricca è la vita
spirituale, tanto più intricate e impenetrabili diventano le condizioni di
quell’appercezione, e tanto più energicamente la religione richiede quel
raccoglimento e quell’attenzione silenziosa allo stimolo religioso, che si chiama
devozione e preghiera. Non si deve quindi dimenticare che gli individui non
stanno soli, ma innalzano, nella più stretta relazione reciproca, certe
inclinazioni e certe tendenze a potenze socialmente dominanti. Così anche dal
punto di vista religioso vi sono epoche prevalentemente conservatrici ed epoche
prevalentemente critiche, in cui ora la tradizione consolidata nel culto e
nella chiesa domina ogni cosa con il sentimento di una sacralità intangibile,
ora un'autonomia critica suscitata da sconvolgimenti generali della vita
spirituale si ribella mettendo in questione la legittimità e la connessione di
ogni idea. Così può esserci alla fine, dopo violente lotte religiose, un
periodo di fastidio che si rivolge alle cose del mondo e di più facile acquisizione;
può esserci, sotto l’influenza di grandi movimenti materiali, politici e
sociali, o sotto l'influenza di conoscenze scientifiche, una crescente
ripugnanza di grandi masse nei confronti della religione, come dimostrano per
esempio la cultura dell’età imperiale romana, la morale confuciana delle classi
superiori della Cina non areligiosa ma
assai povera dal punto di vista religioso
e le moderne condizioni della vita europea. In modo analogo si devono
intendere anche le situazioni di debolezza della vita religiosa di alcuni
popoli primitivi, a cui se ne contrappongono altri forniti di un fervore molto
più vivo e relativamente puro. Anche qui ci sorprende di nuovo, naturalmente,
la partecipazione misteriosamente diseguale dell'individuo al valore ultimo dell’esistenza
e l’inevitabile unilateralità di tutto cid che è umano; ma di per sé la
religione è, e rimane, essenzialmente la stessa. Non abbiamo nessun motivo di
dubitare della sua essenziale unità interna. Si tratta della medesima verità,
che viene raggiunta da diverse parti e in un diverso rapporto con gli altri
elementi della vita spirituale. Con ciò siamo di fronte alla seconda questione
precedentemente accennata: se cioè vi sia un punto di convergenza, un culmine
che emerga in modo visibile, tra queste diverse concezioni parziali della
verità o, più precisamente, se il Cristianesimo
che vuole esserlo possa anche
realmente valere come tale. Il motivo che ci induce a formulare in modo così
determinato la questione non è la propensione ad assolutizzare la religione in
cui siamo nati e siamo stati educati, e che sola ci è completamente familiare,
facendone l’essenza della verità in generale. Infatti il suo dominio non è più
così ovvio e ingenuamente immediato che si debba senz'altro sottostare a questo
impulso di universalizzazione. L'ottimismo del sentimento panteistico della
natura che sempre si sprigiona dall’arte antica e, dall’altro lato,
l'impressione delle religioni pessimistiche e piene di mistero dell'Oriente
agiscono tra di noi in modo abbastanza forte da costringerci a una decisione
pienamente consapevole. Da questa impostazione viene fuori anche non soltanto
il necessario postulato che la piena verità della religione deve pur rivelarsi
in qualche luogo. In sé e per sé, ciò potrebbe essere forse riservato solamente
a un lontano futuro. Se impostiamo così la questione, il motivo è che soltanto
il Cristianesimo nel suo sviluppo ha avanzato in modo sempre più netto e
penetrante questa pretesa. Sorretto dall’autorità del tutto interiore e
personale ma che conteneva in sé un
residuo di incommensurabilità del suo
maestro, esso si rivolge esclusivamente al nucleo interiore dell'individuo, ai
bisogni più universali, più profondi e più semplici di quiete e di pace del
cuore, a un senso positivo, ultimo, definitivo dell’esistenza; si rivolge a
ogni individuo senza eccezione, poiché presuppone presente in ciascuno questo
nucleo essenziale ed è sicuro di poter educare tutti a tali bisogni. Pace
dell’anima con Dio, e quindi superamento della sofferenza del mondo e di tutti
i dolori della coscienza, ma anche viva e attiva realizzazione della volontà
divina; il comandamento dell’amore verso i fratelli, che sono fratelli in virtù
del Padre comune: ecco il suo vangelo. Da ciò scaturisce anche la comunità più
salda e comprensiva, in quanto esso fa derivare l’origine dell'essere umano
dallo spirito divino e lo riconduce al fine della comunità con Dio e con i
fratelli, costringendo ogni credente a collaborare a quella universalità e al
fine della perfezione comune. Esso è quindi l’unica religione che pretenda una
universalità assolutamente incondizionata, l’unica che abbia perciò prodotto
dal proprio seno una filosofia della storia che connetta inizio, metà e fine
della storia dell'umanità, e che in questa storia riconosca una realtà in sé
internamente connessa, irripetibilmente specifica e al servizio di fini
incondizionatamente validi. Ma soprattutto si tratta di una validità universale
non asserita solamente in linea di fatto: essa scaturisce per il suo sentimento
dall’intima necessità dell'essenza di Dio, che creando il mondo deve poi
ricondurre a sé le sue creature traendole dal mondo e dall’errore, dalla colpa
e dallo scoramento. La sua grazia non è arbitrio, e i suoi comandamenti non
sono una mera statuizione; l’una e gli altri emanano dalla sua essenza e si
realizzano dall’interno median-te l’amore per Dio, che per primo ha amato i
suoi figli. Qui la tendenza della religione alla validità universale ha
raggiunto la sua vetta: tutto ciò che è particolare, proprio di un popolo,
condizionato dal mondo, è spazzato via; ogni dipendenza da una situazione
meramente data, sempre incoerente, è superata dall’universalità di un fine
ancora da raggiungere, ma già fondato nella sua determinazione e nella sua
essenza. Certamente, ciò mostra anche l’unilateralità del tipo di vita
determinato in modo prevalentemente religioso. Ma, secondo la legge che domina anche la religione della differenziazione dell’essenziale,
questo non costituisce nulla di sorprendente, e neppure costituisce un limite.
Non si può concepire come essenza dei gradi supremi un monismo di valori
culturali che non differenzia nulla, ma soltanto una costituzione dello spirito
che sviluppi coerentemente le singole tendenze riequilibrando le tensioni che
ne sono derivate. Proprio in quella unilateralità il Cristianesimo raggiunge la
piena interiorità e l’universalità puramente umana. La tensione così
determinatasi, e ora più che mai aperta, nei confronti dei valori culturali
intra-mondani dà al tutto il carattere della vita spirituale superiore, si
riunifica sempre di nuovo nel lavoro vivente e consapevole. In tutte le sue
trasformazioni e le sue mescolanze, in tutte le caricature e gli abomini, in
tutte le stagnazioni e gli irrigidimenti, il Cristianesimo annunciava tuttavia
questa tendenza superiore a ogni
cosa verso ciò che è
individuale-personale, verso ciò che è universalmente umano, verso ciò che è
totale e ricco di tensione. Lo conferma anche lo sguardo alle altre grandi
religioni universali, che soltanto possono essere prese in considerazione
accanto al Cristianesimo. L'Islam, il fratello più giovane scaturito dal
Giudaismo insieme con il Cristianesimo, ha accolto da essi in modo puramente
estrinseco questo universalismo, insieme alla forma della rivelazione scritturale
e ai frammenti della sua filosofia della storia. Esso gli inerisce soltanto per
l’unità del suo dio e per la semplice intelligibilità dei suoi pochi e poveri
comandamenti morali, ma non discende dall’intima necessità dell'essenza del suo
dio, che anzi è un dio caratterizzato da un duro e imprevedibile arbitrio.
L'Islam rappresenta una regressione rispetto al Giudaismo e al Cristianesimo, e
non ha mai potuto nascondere del tutto il suo carattere di religione guerriera
nazionale araba. Il Buddismo per vari
aspetti parallelo al Cristianesimo è fin
dall'inizio soltanto la religione di un ordine monastico, al quale possono e
devono accostarsi tutti coloro che hanno riconosciuto la nullità della volontà
di vivere, e dal quale scaturisce quindi un vivo impulso missionario. Ma la sua
validità universale è conseguenza semplicemente della validità universale di
questa conoscenza, non già dell’essenza di una divinità che chiami tutti a un
fine comune al cui posto si presenta qui
piuttosto un ordine impersonale di redenzione. L’ordine degli illuminati
presuppone pur sempre la grande massa degli sprovveduti e dei laici, che
forniscono sostentamento al monaco. La grande maggioranza ritorna sempre nel
circolo della migrazione delle anime e costituisce soltanto la massa da cui i
sapienti si separano e della cui carità vivono fin quando scompaiono nel
Nirvana uscendo dal cielo delle anime. Questo processo si ripete senza fine e
senza connessione in periodi cosmici che si susseguono all'infinito; ma sempre
alcuni illuminati si separano dal mondo della parvenza, e sempre la massa
rimane imprigionata in questo stesso mondo della parvenza. Come il mondo non ha
nessun fine positivo unitario, così non l’hanno la vita e la devozione. Si
aspira all’ordine e si apprezza la pace della redenzione, ma nessuna necessità
interiore costringe tutta l’umanità a unirsi in vista di essa. Per quanto
l'universalità della religione possa farsi valere in esso, così come
nell’Islam, e per quanto venga talvolta reclamata, la pretesa dell'uno e
dell’altro è per estensione di fatto e
nella sua fondazione meno intensa che
quella del Cristianesimo. Questo è l’unica religione che si riconosce e si
afferma incondizionatamente, in virtù della propria forza religiosa, come
verità universalmente valida, e che perciò consegue di fatto ciò che è insito
nella tendenza della religione in generale. Esso è l’unica religione che, in
base al proprio impulso vitale, ottiene sempre la vittoria sull’inclinazione
all’irrigidimento dogmatico e rituale; l’unica che non si irrigidisce nella
legge, né si fissa, nel concepire l’idea di redenzione, semplicemente nella
negazione. Che essa sia veramente conclusiva, e immutabile nella sua essenza
per tutto il futuro, non si può certo dimostrare mediante una semplice costruzione
storico-filosofica. Per quanto convinti possiamo essere che nella storia delle
religioni ha luogo un progresso continuativo, il quale poggia sul movimento
interno dello spirito divino in quello umano, non possiamo tuttavia proporre un
concetto generale della religione come forza di questo sviluppo, e presentare
il Cristianesimo come il suo necessario compimento. Quel concetto potrebbe
essere proposto sulla base di un’esperienza difettosa ed essere trasformato in
modo sostanziale da sviluppi futuri. Né possiamo indicare nel Cristianesimo la
convergenza effettivamente realizzata delle diverse serie di sviluppo, per
quanto possiamo trovarvi la trascendenza astratta del Giudaismo attenuata
mediante l’assunzione degli inevitabili elementi panteistici del paganesimo, e
l’antitesi superata mediante un'unità superiore. Infatti soltanto ai nostri
giorni si profila l’incontro tra gli abitanti del nostro pianeta, e quindi una
convergenza delle diverse linee di sviluppo. La discussione e la convergenza
del Cristianesimo con le religioni orientali appartiene ancora al futuro, e
accentuerà forse in modo sorprendente nel Cristianesimo aspetti rimasti finora
non sviluppati. Tutte le costruzioni del genere poggiano su un’intuizione della
storia che risulta inevitabile nella sua
idea fondamentale per ogni
considerazione religiosa e idealistica, ma non sono sufficienti a fornire una
prova. Questa sarebbe forse possibile soltanto alla fine dei giorni. L'unico
elemento che può essere fatto immediatamente valere a conferma della pretesa
del Cristianesimo è la circostanza che a questa sua singolare pretesa
corrisponde anche un'effettiva singolarità del suo contenuto e della sua
essenza, che si presenta chiaramente a una ricerca storico-religiosa. D'altra
parte le religioni costituiscono un'unità che progredisce nel suo complesso, e
si può riconoscere una tendenza generale diretta a una spiritualizzazione,
interiorizzazione, eticizzazione e individualizzazione crescente, e quindi poiché questa è la necessaria
conseguenza al formarsi di una fede
sempre più profonda nella redenzione: a ciò si è già accennato sopra. In tutte
le grandi religioni ha luogo uno sviluppo caratterizzato in questo modo. Attraverso
la liberazione dai fenomeni naturali esso spiritualizza le divinità, fino al
tramonto di tutte le divinità particolari in un’essenza divina universale, in
cui esse diventano forme del suo agire; attraverso l’eticizzazione delle
singole divinità e la compenetrazione religiosa della morale esso traduce in
forma etica la divinità, facendone il nucleo e il custode delle leggi etiche, e
subordina la fede negli spiriti alla fede negli dèi in un’escatologia più o
meno influenzata da motivi etici, mentre le divinità che non si inseriscono in
questo processo diventano dèi locali, demoni e spiriti cattivi. Facendo sì che
gli dèi si rivolgano alla coscienza e alla volontà, anziché semplicemente
all’obbedienza culturale e alla scrupolosità cerimoniale, esso pone la divinità
in relazione con l’individuo in quanto tale, non più soltanto con la famiglia,
la stirpe, lo stato e la conclusione di un'alleanza. Con l’individualizzazione
comincia infine a emergere il carattere universalistico della religione. Ma
proprio con questo esso innalza Dio sopra il mondo e sopra la natura, facendone
la fonte originaria più profonda, che si fa valere al di là di ogni finitudine
e di ogni confusione, e con la divinità solleva al tempo stesso l’uomo dalla
frammentarietà, dalla dispersione e dall’inquietudine del finito, così come
dalla colpa e dal destino della vita terrena. Secondo la quantità di forza che
fin dall’inizio ha posto nella concezione fondamentale, questo processo va più
o meno avanti: qui si arresta prima, là più tardi. Ma anche dove le religioni
pervengono a una completa altezza e maturità, dove sboccano nella mistica e
nella fede nella redenzione, il limite inerente al fatto di essere sorte
dall’adorazione della natura non viene per lo più superato. Esse conservano le
tracce della loro origine particolaristica e naturalistica, capovolgendosi in speculazioni
sacerdotali fantastiche, in una filosofia monistica, in una mistica acosmistica
o com'è il caso del Buddismo in una metodica scettica della redenzione.
L’eticizzazione già conseguita sprofonda di nuovo nell’abisso del panteismo, e
la religione popolare decade in culti orgiastici o in una rigogliosa
superstizione sincretistica, che la riporta all'antico politeismo. Soltanto ra
religione ha rotto completamente l’incanto della religione naturale e si
presenta, in quanto tale, in forma singolare: la religione di Israele e il
Cristianesimo. Davanti all'imminente decadenza del suo popolo, la religione di
Israele si è sostanzialmente svincolata dai suoi fondamenti particolaristici e
naturalistici, collegando la fede in Jahvè con la purezza del cuore e con la
certezza di una chiarificazione risolutiva del corso della vita terrena alla
fine dei giorni. Da questo nucleo è venuto fuori, nella persona di Gesù, il
Cristianesimo, che, pur sentendo Dio più prossimo ai singoli cuori e
immediatamente operante nel mondo, è però impedito da questo fondamento di
ricadere nel panteismo e nella mistica di una compiuta religione della natura e
che, pur donando al cuore la beatitudine e la quiete in Dio, si aspetta
tuttavia nella certezza della transitorietà dell’esistenza sensibile un mondo
superiore ed esclude quindi un immergersi puramente immanente in Dio. In quanto
esso libera non soltanto dalla sofferenza della finitudine e dalla pressione
della natura, ma soprattutto dall’ostinazione e dalla pusillanimità del cuore
umano, dalla debolezza e dalla coscienza della colpa, in quanto con questa
liberazione del cuore e con la certezza di una comunità con Dio che supera il
tempo conferisce forza per agire e amare sulla terra, il Cristianesimo
rappresenta una religione della redenzione di ordine superiore che sovrasta in
egual misura sia il pessimismo buddistico sia la mistica neoplatonica i due prodotti estremi della devozione
extra-cristiana. In virtù di questa rottura di principio con ogni specie di
religione della natura, esso porta a compimento
unico tra tutte le religioni la
tendenza alla redenzione, nello stesso modo in cui ha recato a compimento, in connessione
con questa, la tendenza a una validità universale puramente interiore. In virtù
di questa specificità di fatto, di questo accordo intimo tra esigenza ed
essenza, noi riconosciamo nel profetismo e nel Cristianesimo il culmine, o
meglio un nuovo punto di partenza nella storia della religione il sorgere del sole dopo l'aurora, non
conclusione e fine che porta alla quiete, ma inizio di un nuovo giorno con
nuovo lavoro e nuove lotte. Vi sono ancora molti lati oscuri da chiarire,
occorre ancora conoscere con maggiore purezza la sua luce propria. Un lavoro
sterminato sta ancora di fronte ad esso, e dalla sua forza interna risulterà,
nel contatto con la mutevole situazione del mondo e con le altre religioni,
un'ulteriore crescita della religione, certamente non costruibile 4 priori. Il
fatto stesso che ne sia capace, che possieda questa capacità di costante
ringiovanimento e adattamento, costituisce appunto un'ulteriore conseguenza
della sua particolarità. In quanto religione dello spirito che a differenza da ogni religione della natura,
sia essa approfondita in senso panteistico o configurata eticamente si riferisce al nucleo interno, spirituale ed
etico, sempre vivente e attivo, dell’essenza degli uomini, il Cristianesimo
possiede la forza dell’autocritica e della purificazione, dell’approfondimento
e del rinnovamento; esso può sempre richiamarsi attraverso le scorze
mitologiche alla sua essenza intima e purificarsi sempre di nuovo dalle
inevitabili contaminazioni con ambiti di pensiero ad esso estranei, Il
Cristianesimo non è vincolato a determinate concezioni della natura e a
formazioni sociali transitorie e particolari; esso contiene un impulso di
aspirazione, di attività e di perfezionamento che manca a qualsiasi mistica che
si immerga soltanto nell’unità data dell’universo; contiene fini positivi che
il quietismo buddistico volto solo al pessimismo non conosce; abbraccia infine
la fede universalistica con una profondità ricca di impulso, di cui l'Islam ha
potuto acquisire soltanto l’aspetto superficiale. Poniamo per esempio il
caso in sé possibile che l’astronomo Schiaparelli® ha ipotizzato
per il nostro pianeta, traendo lo spunto dai cosiddetti canali di Marte, che
cioè con il raffreddamento della terra e il restringersi dei mezzi di
sussistenza che essa offre possa diventare necessaria un’analoga enorme
unificazione del lavoro umano; e che soltanto tali lavori di protezione,
intrapresi con un'estrema fatica collettiva, rendano possibile ancora
l’esistenza: in tal caso dovremmo pensare immediatamente a infinite
trasformazioni nel diritto, nella morale, nella società e nello stato; e
sicuramente anche nella religione. Non è verosimile che un'impresa del genere
possa svolgersi sotto la protezione della benedizione papale o sotto l'impulso
di disposizioni di istanze ecclesiastiche superiori, o che possa essere
disturbata da una disputa sul Simbolo apostolico. Nulla ci impedisce però di
pensare che la forza dello spirito comune, necessaria per quest'opera,
scaturisca da una viva 3. Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), astronomo
italiano, autore de Le stelle cadenti (1873), delle Norme per le osservazioni
delle stelle cadenti e dei bolidi (1896) e di varie altre opere, studiò in
particolare i pianeti intorno alla Terra e osservò per primo i canali di Marte.
I suoi ultimi studi furono dedicati a L'astronomia nell'Antico Testamento.
dzione teistica, quali che siano le forme che potrebbe assumere in un’epoca
siffatta, Come si è detto, è il significato effettivo del Cristianesimo tra le
religioni, l’elaborazione di una religione della redenzione di tipo
personalistico in antitesi a ogni religione della natura, non già una
costruzione storico-filosofica conclusa, che autorizza questa fiducia. A tale
fiducia non si può quindi obiettare il fatto che essa indulga al caso, il quale
ci fa appunto apparire il sole della verità sopra il piccolo frammento di
storia a noi noto, come sopra un'isola nel mare sconfinato. Non si tratta
perciò tanto di una determinata forma storica del Cristianesimo, quanto
piuttosto dell'idea della religione personalistica della redenzione, la cui
forma odierna essendosi formata nel
tempo sicuramente non è nulla di eterno.
Ma nel profetismo e nel Cristianesimo quest'idea è diventata una forza storica
e si svilupperà ulteriormente, muovendo da questa forma fondamentale, verso
risultati che oggi non conosciamo ancora, né abbiamo bisogno di conoscere. Basti
il fatto che, così come sono, essi significano il trapasso alla religio ne
della redenzione di tipo personalistico, e che possiamo sentire l’eterno in
questo elemento temporale. Possiamo ben ammettere che l’origine delle grandi
religioni in generale avvenga nella giovinezza dell’umanità, quando la vita è
più semplice e più facile è l’incondizionato immergersi nella religione, quando
le connessioni dell’esistenza sulla terra sono ancora meno intricate e la pura
formazione di forze religiose è meno disturbata. L’origine delle religioni
della natura si perde in oscure epoche primitive che si sottraggono
all'indagine. La religione di Israele con la sua duplice progenie Cristianesimo e Islam è una religione giovane e ha impostato il
tema del futuro, in base a cui il Cristianesimo ha elaborato, come fondamento
di ogni ulteriore sviluppo, la decisiva e universale verità religiosa. A ciò si
aggiunge un’altra considerazione. Le variazioni della vita e del pensiero umano
sono imprevedibili nel particolare, assai limitate in una prospettiva ampia.
Così anche la fantasia rivolta al futuro potrà rappresentarsi non già un gioco
infinitamente oscillante di contenuti di vita spirituale fondamentalmente
diversi, bensì un’elaborazione sempre più ardua e intricata, sempre più estesa
e complicata di idee fondamentali acquisite. Tra queste idee fondamentali la
più salda e la più forte sarà quella della devozione cristiana, poiché essa
sola collega l’umanità con il fondamento permanente ed eterno della vita
spirituale in maniera puramente interiore, e in questa connessione supera, con
un'attività redentrice, al tempo stesso la necessità e la sofferenza
dell’esistenza terrena. In questo modo l’intreccio della storia della religione
si rischiara, e viene in luce una tendenza di sviluppo in cui possiamo
riconoscere la direzione del futuro. Disperso e isolato, in lotta con la natura
per la vita, commosso da impressioni e da avvenimenti nella natura, nella vita
collettiva e nella vita individuale, il mondo primitivo dell’uomo produce
innumerevoli religioni, esteriormente assai diverse, ma intimamente
imparentate, la maggior parte delle quali si sono indurite con la vita delle
orde, delle stirpi e dei popoli a cui appartengono, arrestandosi al loro
livello. Qui la natura e l’uomo vengono presi così come si presentano
immediatamente, e da questa situazione scaturiscono impressioni religiose
fornite di una capacità di sviluppo molto ristretta. Soltanto pochi grandi
popoli realizzano, con la loro più ampia coesione nazionale e linguistica, una
prosecuzione e un approfondimento rispetto a questo grado di religione, in
quanto i tratti fondamentali suscettibili di sviluppo vengono estesi e
approfonditi, la rozza mitologia e il culto superstizioso vengono eliminati o
depotenziati e tutti gli impulsi religiosi che procedono dalle nuove
impressioni di vita e di cultura vengono fusi nella tradizione precedente. Essi
sfociano nella religione della moralità, nel panteismo, infine nel pessimismo e
nella mistica, ma si arrestano ancor sempre al mondo e all'uomo lasciandolo
così come l’hanno trovato, senza indicargli fini positivi che superino la
natura. Soltanto la nostalgia e il presentimento accennano in essi a tali fini.
Soltanto za religione ha definitivamente sciolto il legame che la univa immediatamente
con la natura e, riconoscendo un dio creatore che, in quanto spirito, si
distingue dalla natura, ha indicato al tempo stesso all’uomo il fine di
un’elevazione positiva sulla natura materiale e la natura spirituale in esso
innata. Questa è stata la religione di Israele, che rappresenta uno dei fatti
più importanti all'interno della storia universale a noi nota. In quanto
conclusione dello sviluppo interno di Israele e congiunzione con il monoteismo
filosofico ellenico, il Cristianesimo si è posto saldamente sul campo di rovine
delle religioni nazionali distrutte dagli imperi universali, mentre in Israele
il profetismo si rattrappiva nel Giudaismo e accanto ad essi l'Islam
raccoglieva i suoi credenti, intorno a poveri frammenti di queste religioni, sul
campo di rovine dell'Asia e dell’Africa. Con il sorgere di questi grandi
princìpi religiosi, la produzione religiosa è diventata sempre più ristretta, e
si muove soltanto più nella creazione di formazioni intermedie di tipo
sincretistico o di varianti. Il futuro appartiene alla lotta delle grandi
formazioni religiose. Tra di queste il Cristianesimo, in quanto punto di
partenza di un grado sostanzialmente nuovo, costituisce però la forza che ricca di tensioni con la cultura più elevata
e tuttavia inscindibilmente legata ad essa
sta al centro della grande lotta mondiale, non già come sistema finito e
rigido, bensì come una potenza vivente che forma il punto di riferimento di
ogni ulteriore conoscenza e di ogni ulteriore impulso religioso, sviluppandosi
ancora nel futuro secondo la legge imprevedibile della vita religiosa. Una gran
parte di questo processo di sviluppo, che ha già prodotto mutamenti di grande
rilievo, si trova alle nostre spalle; mentre un momento importante di esso,
cioè la progressiva differenziazione, la dissoluzione dal legame immediato con
lo stato e la politica, con il diritto e la morale mondana, con la scienza e la
spiegazione del mondo, la concentrazione nel suo contenuto puramente religioso
e la rinnovata influenza di questo contenuto sulla situazione complessiva, si
compie davanti ai nostri occhi. Il Cristianesimo si raccoglie in se stesso e si
tramuta in una nuova operosità. Perciò non deve indurci in errore la miseria
ecclesiastica della sua realtà momentanea e la ripugnanza morale per le lotte
interne al clero. Si tratta della tendenza al futuro che sempre ritorna di
nuovo alla luce, non già della sua attuale confusione confessionale. È evidente
che, come l’intera intuizione della storia fino ad oggi dominante rimanda alla
nostra letteratura e filosofia classica, così questa intuizione della storia
delle religioni in particolare ha stretti punti di contatto con le idee di
Lessing, Goethe, Herder, Kant, Hegel, Schleiermacher e di altri pensatori
affini. Essa cerca solamente di liberare la concezione della religione dalla
prossimità eccessiva in cui questi l'avevano collocata con altre potenze
spirituali. Lessing ha concepito il suo evangelium aeternum secondo un
“analogia troppo stretta con la libera scienza dell’Illuminismo, che si reggeva
da sé pervenendo a dimostrazioni in base alla propria connessione interna.
Herder ha accostato troppo la religione al concetto etico di umanità e, iché
vedeva questa umanità ovunque, ha troppo sfumato i confini delle religioni,
mentre Schleiermacher l’ha dissolta troppo in uno spinozismo romantico che
nelle religioni vedeva soltanto i modi individualmente diversi in cui si è
consapevoli dell’immanenza in Dio. Analogamente, Hegel ha conformato in modo
eccessivo la religione al monismo metafisico e ha soprattutto derivato in
maniera dottrinaria e rigida il suo sviluppo dalla necessità logica del
movimento delle idee, pregiudicando così l'originaria realtà di fatto dei suoi
diversi sviluppi e la sua misteriosa potenza. Anche Goethe questo spirito universale ha troppo commisurato la particolarità del
Cristianesimo tra le altre religioni, da lui chiaramente riconosciuta, alla
propria concezione poetica e organica della matura, e ne ha invece respinto
sullo sfondo gli elementi pessimistici, nella sua avversione artistica per le
rotture e le catastrofi, le tensioni e le lotte. E tuttavia la saggezza della
sua vecchiaia ha una serie di visioni profonde, alle quali la fede e la
miscredenza attuale si richiamano volentieri come a indicazioni di uno sviluppo
più soddisfacenti. Ne è testimonianza, invece di molti altri, questo brano
spesso citato dei Warderjahre: Ma quanto
ci è voluto non solamente per lasciare la terra sotto di sé e per richiamarsi a
un luogo di nascita più alto, ma anche per riconoscere come cose divine pure
l’abiezione e la povertà, la beffa e il disprezzo, l’ignominia e la miseria, il
dolore e la morte; per considerare il peccato e il delitto non già come
ostacoli, ma per venerarli e amarli come incrementi del sacro! In tutte le
epoche si trovano tracce di quest’atteggiamento; ma una traccia non è il fine,
e una volta raggiunto quest’ultimo l’umanità non può più tornare indietro e si
può dire che una volta fatta la sua
comparsa la religione cristiana non può
più scomparire: una volta preso corpo divino, non può più venir dissolta *. I
suoi misteri dovevano appunto diventare un epos
simboleggiante 4. Goetne, Wilhelm Meisters Lehrund Wanderjahre, libro I, cap. 1
la storia della religione, che doveva essenzialmente contenere le idee
fondamentali qui prospettate e che, in un frammento compiuto, rappresenta con il simbolo della Croce circondata di rose il Cristianesimo come scopo finale,
analogamente alle considerazioni dei Wanderjahre. Certamente, la scienza moderna
si è nel frattempo allontanata in larga misura almeno nella sua parte più cospicua da questi fondamenti profondi della nostra
cultura. Determinanti ai fini di questo allontanamento sono state non tanto le
conseguenze scientifiche, quanto invece gli effetti di condizioni esterne che
procedono dalle enormi trasformazioni pratiche del nostro secolo. Le operazioni
della nuova tecnica, che tutto modificano, le scottanti questioni sociali che
ne derivano, il risvegliarsi dell’egoismo nazionale, non da ultima la
popolazione che si è accresciuta in queste condizioni pervenendo a un
sostentamento migliore, hanno distolto l’interesse verso questioni culturali
pratiche e posto al centro il problema della felicità intramondana. Il dogma
del progresso della cultura, l’ottimismo culturale, domina l’opinione odierna,
e tutte le conquiste scientifiche vengono viste alla luce di esso. Si fa in
fretta a trarre dal periodo di pensiero storicizzante, aperto dalla nostra
grande epoca, la conseguenza del relativismo, ma soltanto per togliere valore
alle potenze ideali finora operanti, e in particolare al Cristianesimo, mentre
si crede tranquillamente nel progresso e in una felicità assoluta del futuro.
Si applica con sollecitudine la scienza naturale allo scopo di sottoporre ogni
esistenza e ogni vita alle leggi
naturali , ma soltanto per ridurre a favole tutti i valori spirituali che vanno
oltre la felicità intra-mondana, mentre si attribuisce alla volontà umana nei confronti della medesima legalità
naturale un potere enorme, in grado di
sottometterla artificialmente alla felicità culturale. Ci si innalza molto al
di sopra dei sogni fantastici di una metafisica alla ricerca della connessione
tra mondo sensibile e mondo soprasensibile, e si assume senza alcuna
precauzione la propria situazione come il logico fine ultimo della storia,
contrapponendo al periodo della spiegazione religiosa, e quindi metafisica, del
mondo il periodo positivo , al servizio
di scopi pratici puramente intra-mondani. Contro questi stati d'animo
collettivi non si può fare nulla in modo diretto, tanto meno indicando le loro
contraddizioni. Essi devono dispiegare le loro conseguenze pratiche ancor più
chiaramente di quanto non sia avvenuto finora. La devastazione e l’inaridimento
della vita spirituale, la progressiva decadenza della forza etica e della
serietà religiosa, l’ottusità che si consuma nel godimento di sempre nuovi
desideri devono mostrarci dove ci stiamo dirigendo in questo modo, nonostante
tutti i progressi esteriori, e che una completa felicità intra-mondana è la più
illusoria delle chimere. Allora ci si richiamerà di muovo al nostro migliore
possesso spirituale, e in base ad esso sapremo valutare i progressi
scientifici. Allora i gravi pericoli impliciti nella storicizzazione di ogni
scienza, e anche della scienza della religione, potranno essere superati più
facilmente di adesso. Non è questa la sede adatta per indagare in quale misura
le intuizioni qui sviluppate possano e siano in grado di influire sulla
teologia ufficiale delle chiese e delle facoltà universitarie. Finora esse
agiscono in misura abbastanza forte nella configurazione delle ricerche di
critica biblica o di storia del dogma, le cui conseguenze di rado vengono
tratte fino in fondo. D'altra parte esse hanno appena modificato, più che
trasformato realmente, le loro strutture sistematiche. Ma la teologia, per sua
stessa natura, è qui di fatto costretta a una maggiore prudenza, e deve imporsi
un certo ritegno. Essa non è pura scienza, e in ogni caso non è scienza libera;
ma è piuttosto vincolata alle determinazioni giuridiche, alla tradizione
effettiva, ai rapporti e agli scopi presenti, e costituisce pertanto più un
compromesso con la scienza che una scienza vera e propria. I suoi compiti sono
in primo luogo compiti pratici, posti dallo stato effettivo dell’istituto
ecclesiastico; ed essa può rendere operanti sulla sua materia le conoscenze
scientifiche in modo soltanto indiretto, eliminando le antitesi troppo aspre, e
per il resto mediando ed equilibrando. Certamente i teologi possono, in quanto
uomini di cultura, promuovere in modo significativo le grandi questioni; ma in
quanto devono servire scopi ecclesiastici, sono vincolati da compiti e da
rapporti pratici. In realtà, pur tenendo conto dell'importanza della
collaborazione dei teologi, le grandi questioni scientifiche sono sempre state
decise al di fuori della teologia. Queste decisioni reagiranno poi sulla
teologia, dando luogo a una specie di equilibrio delle temperature. Il singolo
teologo potrà, in queste condizioni di antitesi, distinguere tra teologia essoterica
e teologia esoterica nella misura in cui è consapevole di volere in entrambe,
in verità, il medesimo scopo; ma non potrà spezzare il circulus vitiosus per
cui ogni chiusura della teologia rafforza l’avversione della scienza e ogni
ostilità della scienza rafforza la chiusura della teologia, almeno fin quando
la straordinaria importanza della questione ecclesiastica rimane celata alla
vita complessiva di un’indifferenza illuminata. All’interesse generale
importano cose ben diverse che non le indagini specificamente teologiche. Ciò
richiede che il relativismo storico, che in tutti i campi della vita
intellettuale cerca di soffocarci nell’erudizione e di paralizzare ogni forza
creativa, venga riconosciuto come il nemico più pericoloso anche nel campo
della religione, e venga quindi superato. Da tutte le parti aumentano i segni
che si comincia a esserne stanchi. Si cerca di superarlo mediante l’entusiasmo
patriottico, mediante l'ideale della giustizia sociale, mediante le fantasie
del futuro, mediante un altruismo areligioso; si ha sete di ideali semplici,
assoluti e universalmente validi. Ma tutto ciò non sarà sufficiente. Su tale
strada si riconoscerà che la patria autentica di tutti questi ideali è la
religione, e che quindi occorre riacquistare la fede sicura e gioiosa in un
fine assoluto soprattutto in seno ad essa. Certamente questo non può avvenire
ignorando di colpo la storia e rinnegando i suoi metodi. Può invece avvenire se
riprendiamo le grandi idee fondamentali della nostra letteratura, filosofia e
storiografia classiche e se scorgiamo nella storia il dispiegarsi di un
contenuto spirituale unitario e semplice nel suo nucleo; se nelle religioni più
grandi e più potenti non cerchiamo semplicemente il fenomeno storico
interessante, ma la connessione con quel nucleo eterno della vita spirituale.
Allora si riconoscerà di nuovo che anche la storia delle religioni non ha
soltanto elementi, ma anche un legame spirituale, e che questo non è così
difficile da trovare come ritengono le persone prudenti le quali suppongono che
la verità storica sia accessibile soltanto allo studio specialistico. Non si
avrà più terrore della possibilità che il capo di questo filo stia in mano
nostra e richieda da noi soltanto di venire tirato in modo schietto e semplice.
Se la storia è, di fatto, soltanto la lotta infinitamente complicata per il
dispiegarsi di un contenuto spi- rituale semplice, ci sarebbe poi tanto da
stupirci se fossimo pervenuti nel Cristianesimo al nucleo di tale contenuto, e
doves- simo dar forma alla nostra realtà in base ad esso e nell’ambito della
sua forza? Ci resterebbe ancora abbastanza lavoro da com- piere per riempire
una dozzina di millenni. Religione ed
economia è un tema che tempo addietro sarebbe suonato assai strano. Filosofia ed economia , musi- ca ed economia, matematica ed economia non avrebbero
suscitato stupore. Fin quando s’intendeva la religione in modo puramente
ideologico come dogma o come dottrina o come metafisica, o come una morale
vincolata a determinate rappre- sentazioni del cosmo, il tema non poteva che
essere privo di senso. I dotti dell’Illuminismo si sarebbero riferiti con un
sorri- so pieno di ironica intelligenza all'economia finanziaria dei papi, agli
interessi materiali degli ecclesiastici e dei principi devoti, e in questo tema
avrebbero scorto soltanto la questione dell'impulso assai comune che sta sotto
cose in apparenza tanto sublimi: così Hume ha considerato la Riforma come
conseguen- za di una polemica sul denaro per le indulgenze. Intorno alla metà
del secolo scorso, quando per la prima volta le conseguen- ze del sistema
capitalistico urtarono apertamente con le esigen- ze tecniche del
Cristianesimo, si aveva certamente una compren- sione più profonda del
problema. Ma qui esso si presentò come una questione puramente etico-pratica,
cioè come il problema del modo in cui si potevano superare, dal punto di vista
del senti- mento cristiano dell'amore e dell’educazione cristiana del carat-
tere, le conseguenze devastatrici del liberalismo economico man- chesteriano.
Kingsley'!, Maurice ?, Carlyle alzarono la bandiera di una riforma cristiana
della società; e ad essi fece seguito, in * Religion, Wirtschaft und
Gesellschaft (conferenza tenuta alla Gehe-Stiftung di Dresda, 1913), in
Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von J.C.B. Mohr, vol. IV, 1925, pp.
21-33 (traduzione di Sandro Barbera e Pictro Rossi). Kingsley, sacerdote
anglicano, pocta e scrittore inglese, au-
Germania, il socialismo cristiano di Stòcker® e di Friedrich Naumann ‘.
Ma neppure questo è il senso del tema, quale oggi lo poniamo. Con questo tema
si allude a una questione pura- mente teorica di storia della religione e di
storia della cultura: l'impostazione scaturisce dalla teoria economica della
storia della cultura per lo più
designata erroneamente come materia- lismo storico che dalle grandi opere di Karl Marx si è
diffusa a tutte le concezioni storiche dell’epoca. Essa era stata già pro-
posta da qualche storico, come per esempio Karl Nitzsch', e aveva trovato
rispondenza in particolare nella storia politica e nella storia del diritto.
Essa non ha quindi nessuna connessione necessaria con il vero e proprio sistema
del socialismo. Si tratta, in verità, di una questione che in parte è scaturita
dall’affina- mento e dall’ampliamento avvenuto nella ricerca delle relazio- ni
causali nella storia, e in parte ci è imposta dalle influenze della struttura
economica sulla vita complessiva ovunque
percepibili nella nostra esperienza odierna. Nella storia poli- tica essa è
diventata oggi ovvia. Ma il suo significato è molto più profondo. La
connessione con i fondamenti economici ri- sulta particolarmente chiara
soltanto nella storia politica e nella storia del diritto. Ma essa sussiste di
fatto anche nel campo della cultura spirituale fino ad arrivare al suo centro,
cioè alle intui- zioni religiose e metafisiche del mondo. Essa è in massima
parte tore di numerosi romanzi, sermoni religiosi e saggi politici, fu uno dei
principa- li rappresentanti del socialismo cristiano in Gran Bretagna. 2. John
Frederick Denison Maurice (1805-1872), sacerdote anglicano e teologo in- glese,
autore della History of Moral and Metaphysical Philosophy (1850-60), dei TAco-
logical Essays, delle Lectures on Ecclesiastica! History, di What is Re-
velation, di The Conscience, di Social Morality e di varie altre opere, svolse
un'intensa azione educativa rivolta verso le masse operaie e ispirò il
movimento del socialismo cristiano. Stòcker, teologo protestante e uomo
politico tedesco, autore di vari saggi e discorsi, fondò la Berliner Bewegung,
di ispirazione cristiano-sociale, opponendosi alla politica bismarckiana e
criticando pure la social-dernocrazia. 4. Friedrich Naumann (1860-1919),
teologo protestante e uomo politico tedesco, autore di Demokratie und
Kaîisertum (1900), dci Briefe tiber Religion (1903), di Mit- teleuropa (1915),
nonché di numerosi altri scritti in parte raccolti sotto il titolo Gotteshilfe,
fu esponente di un socialismo cristiano che aderiva ai principi di espansione
imperialistica della politica guglielmina; in seguito il suo pensiero si spostò
verso posizioni liberali. Fu amico di Weber e di Trocltsch. Nitzsch, storico
tedesco, allievo c continuatore di Nicbuhr, autore della Geschichte der
ròmischen Republik (pubblicata postuma nel 1884-85) e di altre opere. una connessione
inconscia e non intenzionale, ma le connessioni di questo genere sono appunto
le più forti e durature nella vita dello spirito. Proprio in questo Karl Marx
non ha imparato invano dalla fine arte di Hegel, che con straordinaria acutezza
sapeva portare alla luce gli intrecci e le mescolanze del complesso dei
contenuti dell'anima, e ricostruire le forze fondamentali di quelle mescolanze.
Non c’è dubbio che proprio una attenzione maggiore a queste connessioni sia in
grado di gettare moltissima luce sulla comprensione della religione come
potenza pratica della vita. Forse non si esagera se si afferma che soltanto in
questo modo diventa possibile una comprensione reale della religione e del suo
significato per la vita. Con ciò perviene alla coscienza un aspetto di essa che
naturalmente agiva anche prima di questa chiarificazione teoretica, ma che si
sottraeva alla coscienza scientifica, e se ne sottrae in gran parte anche oggi.
Finora la concezione della religione era, soprattutto tra i Protestanti,
puramente ideologica e dogmatica. I Cattolici avevano una comprensione più
profonda almeno per il suo aspetto culturale e organizzativo. Il culto e
l’elemento irrazionale in essa presenti sono stati sottolineati in misura
sempre più forte dalla ricerca etnografica, e in tal modo è stata sempre più
delimitata l’intuizione puramente ideologico-dogmatica dell'oggetto. Ma la
stretta connessione con la vita sociale e
poiché questa è in gran parte condizionata da motivi economici anche con la vita economica è stata
considerata troppo poco. Fa eccezione qui soltanto la brillante opera di Fustel
de Coulanges’ La cité antique, apparsa nel 1864, che però non ha avuto il
seguito che avrebbe meritato. Soltanto la storia socialistica della cultura e
le influenze da essa derivanti hanno recato il problema a un più ampio anche se non si può ancora dire più
generale riconoscimento. 6. Numa-Denis
Fustel de Coulanges (1830-1889), storico francese, autore de La cité antique
(1864), della Histoire des institutions politiques de l'ancienne France (1875),
poi rielaborata in una successiva edizione in tre volumi (La Gaule romane del
’gr, L'invasion germanique et la fin de l'empire del *g1, La monarchie frangaise
dell'88), de L’Alleu et le domain rural pendant l'époque mérovingienne (1889),
de Les origines du systeme féodal: le bénéfice et le patronat (1890), de Les
transformations de la royauté pendant l'épogue carolingienne (1892), nonché di
alcune raccolte di saggi, studiò in particolare le basi religiose della
struttura politico-sociale romana, aprendo la strada a una considerazione
antropologica della città antica. Di ciò è certamente colpevole in larga misura
il modo in cui tale compito è stato affrontato nella letteratura socialistica,
per esempio nelle opere di Kautsky” sulle origini del Cristianesimo. Qui
domina, nonostante alcune buone intuizioni particolari, la più pedantesca
dogmatica della ben nota costruzione della storia: i puri rapporti economici
sono la causa della stratificazione di classe; ogni classe si rispecchia in una
metafisica e in una religione che proteggono la sua esistenza e i suoi
interessi; il Cristianesimo è il rispecchiamento utopico-trascendente della
plebaglia disorganizzata e inerme della tarda antichità; questa organizzazione
puramente religiosa, e quindi impotente, del proletariato, in disaccordo con lo
sviluppo sociale dell’epoca, fu poi sottomessa dalle classi dominanti e
assoggettata, attraverso certe trasformazioni della sua dogmatica e della sua
etica, agli interessi della proprietà e del potere; soltanto a tratti si è
manifestato e si manifesta ancor
oggi l’originario carattere proletario
del movimento cristiano. Questa è certamente una ricostruzione del tutto
fantastica dell’origine del Cristianesimo. Ma anche nell’esposizione molto più
raffinata ed esperta che degli stessi processi ha fornito Maurenbrecher*, la
derivazione della religione cristiana dalla psicologia di massa proletaria
viene trattata come un ovvio principio di ricerca della causalità storica, e di
conseguenza al Vangelo viene attribuito un significato proletario del tutto
astorico. Anche qui appare, come presupposto dogmatico, la teoria di una
dipendenza unilaterale dell'elemento religioso dalle situazioni di classe 7.
Karl Kautsky (1854-1938), teorico socialista tedesco, fondatore della
rivista Die neue Zeit nel 1883, fu uno dei maggiori esponenti della
Seconda Internazionale e critico aperto del
revisionismo social-democratico,
contro il quale difese la tesi della necessità della rivoluzione. Dopo il 1917
prese posizione contro la rivoluzione sovietica e contro Lenin. È autore di
numerose opere, come Das Erfurter Programm in seinem grundsdtzlicheri Teil
erldutert (1892), Bernstein und das sozialdemokratische Programm (1899), Der
Weg zur Macht, Vorlàufer des Sozialismus, Der politische Massenstreil (1914),
Die Internationale und der Krieg (1915), Die Diktatur des Proletariats (1918),
Ethik und materialistische Geschichtsauffassung (1922), Materialistische
Geschichtsauffassung (1927). Troelisch si riferisce qui al volume Der Ursprung
des Christentums, Stuttgart, 1908. 8. Max Heinrich Maurenbrecher, storico
tedesco, autore di Von Nasareth nach Golgota: Untersuchungen tiber die
weltgeschichtlichen Zusammenginge des Urchristentums, Berlin-Schéneberg, 1909 a cui si riferisce qui Trocltsch e di altri volumi di argomento storico. condizionate economicamente: la religione è,
nella sua essenza, il rispecchiamento di situazioni di classe. Qui e anche altrove nella letteratura
socialista non si è tentato di
illustrare e di provare questo principio in base al materiale generale della
storia della religione. Esso viene in fondo utilizzato soltanto a scopo di
polemica contro il Cristianesimo. Ma soltanto con un’indagine che si estenda a
tutta la storia della religione si può mostrare il significato reale di questo
principio, e anche la trasformazione quanto mai diversa di tale significato ai
differenti gradi della vita religiosa *. Il problema è molto più complicato.
Non può esser fatto coincidere con un problema così ampio quale quello dell’origine
della religione. Infatti esso non può venir risolto in modo puramente storico e
psicologico, e conduce a costruzioni puramente astratte, ben distanti da ciò
che effettivamente ci mostra la realtà concreta e vivente. Esso dev'essere
riferito alla vita reale delle religioni a noi note, e qui trova sicuramente
abbastanza materiale per la sua trattazione. La questione puramente
filosofico-religiosa della nascita e dell’origine può quindi essere risolta. Si
tratta piuttosto di chiederci: in quale misura la vita reale delle religioni ci
rivela un condizionamento interno ed essenziale dell’elemento religioso da
parte della vita economica, nonché da parte della struttura di classe e della
stratificazione sociale in larga misura determinata da essa? e viceversa, in
quale misura la vita economica ci rivela la presenza di effetti essenziali e
interni dell'elemento religioso sul lavoro economico? Occorre pertanto lasciar
da parte i contatti semplicemente accidentali e transitori, e piuttosto
considerarli soltanto nella a. Un sociologo acuto e sensibile come Simmel ha
cercato di acquisire e di fondare, in questa maniera più generale, le
conoscenze storico-religiose. Egli indica nel sentimento della dedizione dei
singoli membri di una connessione sociologica alla sua potenza presente in modo
non sensibile, onnipenetrante, la radice psicologica della religione, derivando
quindi la fede nei miracoli dall’inafferrabilità di tale potenza, percepita con
stupore. Soltanto attraverso l’autonomizzazione dell’elemento religioso
soprasensibile qui racchiuso nascerebbe la religione propriamente detta. Ma
anche questa è semplicemente una fantasia spiritosa, che oltre tutto assume dal
marxismo soltanto la sopravvalutazione delle connessioni dei grup pi e delle
masse, ma non il loro fondamento esclusivamente economico. misura in cui ne
scaturisce qualcosa di durevole e di intimo. Un tale significato di
accidentale, cioè quello dell’incontro di due direzioni di sviluppo del tutto
separate e tra loro indipendenti, ma che s’incrociano in un determinato punto,
non è raro nella storia, e proprio nel nostro campo dobbiamo aspettarcelo,
poiché le due forze che qui si toccano sono fin dall’inizio prevalentemente
estranee l’una all'altra. Ma proprio se si riconosce questo fatto occorre escludere
dalla nostra indagine quegli clementi accidentali meramente transitori che
rimangono, per così dire, esteriori e
che il pragmatismo illuministico collocava volentieri in primo piano anche se essi costituiscono una parte
pratica, tutt'altro che priva di importanza, del nostro problema. Con questa
impostazione si presuppone che nelle religioni considerate storicamente
l’elemento religioso presente nel mito e nel culto, nel mondo della
rappresentazione e del sentimento, sia qualcosa di relativamente autonomo ed
entri in connessione con tutti gli interessi economici, ma non coincida mai
pienamente con essi. Tale è il caso di tutte le religioni evolute. La ricerca
etnografico-antropologica sulla religione è ancora assai poco orientata verso
questa impostazione, e non è perciò in grado di rispondere alla questione. Essa
deve quindi restare al di fuori della nostra considerazione. Ciò è possibile,
del resto, perché qui abbiamo di fronte cose che devono essere comprese non già
sulla base dell’originario sviluppo preistorico dello spirito, bensì in base
agli intrecci di una cultura in qualche misura ormai differenziata. In essa si
può riconoscere ovunque la tendenza a un’autonomizzazione della vita e del
pensiero specificamente religioso e a un’analoga autonomizzazione del lavoro
economico, che diventa così comprensibile in base al suo scopo pratico. La
nostra questione può sorgere soltanto a partire dalle influenze reciproche, in
parte consapevoli e in parte inconscie, e dal compenetrarsi delle due tendenze.
Ma se queste due tendenze sono distinte nella loro essenza, il loro contatto
non può essere affatto diretto. Né le religioni sono ideali economici, né le
forme e gli interessi economici sono leggi religiose. I contatti sono soltanto
mediati. La questione consiste allora nel determinare in che cosa consista
quell’entità mediatrice; e la risposta è molto semplice. Essa consiste nelle
grandi forme ERNST TROELTSCH 849 sociologiche dell’esistenza, che da un lato
vengono continuamente create dalla religione e, una volta assicuratesi tale
fondamento, incidono nel modo più profondo su ogni lavoro economico, dall’altro
sorgono su fondamenti economici tra gli
altri assorbendo nella loro onnipotenza
il mondo della rappresentazione religiosa. Già Fustel de Coulanges aveva posto
la questione in modo straordinariamente chiaro e aderente. Egli mostra come tra
gli Indiani, i Greci e i Romani la forza organizzativa del culto religioso dei
morti o degli antenati pone i fondamenti della famiglia patriarcale, del
diritto familiare e privato, della proprietà privata del suolo, dell’economia
domestica o familiare chiusa, della posizione giuridica delle donne, dei figli
e degli schiavi. Una volta consacrate e vincolate religiosamente, queste regole
conservano un potere enorme sulla vita pratica. In base ai loro princìpi si
compie l'associazione in curie e in fratrie e infine, con forme di culto del
tutto analoghe, il sinecismo verso la città, mentre tutta la vita della polis
rimane nel diritto e nel costume, in
guerra e in pace vincolata a un sistema
rituale che ha la massima importanza per tutta la vita politica, per tutto il
diritto e, attraverso di questo, anche per ogni lavoro economico. Qui è
chiarissima l’iniziativa fortemente determinante dell’idea religiosa e
dell’organizzazione sociologica da essa creata. A questo punto ci si può
certamente domandare se, all’inverso, questa configurazione del culto degli
antenati non dipenda dall’acquisizione di una dimora stabile e dalla
transizione dell'agricoltura, cosicché l’iniziativa sarebbe di nuovo dalla
parte della vita economica e questa fornirebbe le condizioni necessarie per la
tendenza decisiva di sviluppo del culto religioso degli antenati. Una
comparazione con lo sviluppo del culto presso popoli nomadi e semi-nomadi, come
i Tartari e i Mongoli, dovrebbe dare qui un chiarimento. In relazione agli
Israeliti, il sociologo americano Wallis*® ha di fatto mostrato come la
venerazione religiosa del dio-clan della grande famiglia e la comunità nomade
che stava sotto la sua protezione abbiano durevolmente impresso al popolo di
Israele il carattere 9g. Wallis, sociologo americano, autore del volume
Messiahs: Christian and Pagan, Boston, 1918
al quale allude qui Troeltsch e
di vari manuali di sociologia e di antropologia. di una morale economica
primitivo-conservatrice o di una religione della solidarietà tribale
contrapposta a una religione cittadina. Questa morale primitiva della
fratellanza, colorata di socialismo, che si pone in antitesi alla cultura della
città e del regno mondano, sarebbe poi stata sublimata e interiorizzata dai
profeti nella morale religiosa umanitaria che conosciamo dalle più nobili leggi
e profezie dell’Antico Testamento. A questi esempi si potrebbe accostare la
struttura delle caste indiane e la loro connessione con il mondo della
rappresentazione religiosa, da cui è determinato il carattere economico
dell’India; © anche il culto familiare cinese, che possiede una grandissima
importanza per la struttura sociale dell'impero e quindi per ogni modo e
direzione di lavoro economico. In ogni caso è chiaro che abbiamo qui davanti
relazioni straordinariamente strette, ma sviluppate e mediate in modo piuttosto
vario, che incidono profondamente da entrambi i lati da quello della religione e da quello del
lavoro economico sulla totalità dello
spirito e del senso della vita. Si tratta
come ha posto giustamente in luce Fustel de Coulanges di un rapporto di azione reciproca che può
essere determinato sempre soltanto caso per caso e in cui è molto difficile, a
causa del carattere inconscio dei processi, stabilire l'iniziativa dell’uno o
dell’altro elemento. Il medesimo studioso indica però anche, in modo non meno
chiaro e intuitivo, la graduale rottura dell’ordinamento sociale, condizionato
dalle originarie potenze sociologico-culturali, da parte del razionalismo degli
interessi economici e politici il quale
impara a seguire i propri impulsi non appena vi siano masse sufficientemente
vaste i cui bisogni non vengono più soddisfatti nel vecchio sistema
socio-culturale. In base all’esempio dei Greci e dei Romani, egli descrive le
rivoluzioni rivolte contro l’ordinamento e il legame religioso della società,
il razionalismo dei bisogni che in esse si sprigiona e i tentativi di nuove
ricostruzioni razionali della società che poi, reagendo sull’etica e sulla
dottrina sociale della filosofia, cercano di crearsi un nuovo ideale etico. A
ciò si può aggiungere che una rivoluzione siffatta si è relativamente affermata
ed è penetrata soltanto in Grecia e a Roma. Nel resto dell’umanità dominano ancor
oggi prescindendo dagli ambiti delle
religioni universali di cui avremo occasione di parlare tra poco quelle stesse situazioni di vincolo
sociologico-culturale della società e dell’economia. Basta fare riferimento,
per esempio, al libro di viaggi dell'americano Henry Frank" Peter the
Hermit (New York, 1907), con le sue immagini della società colte dal basso, per
avere l'impressione immediata dell’effetto di queste cose sulla vita economica
pratica e, reciprocamente, prove stupefacenti della divinizzazione religiosa
degli ordinamenti esistenti. In questo consistono le difficoltà
politico-religiose del Giappone moderno, il quale ha scelto il razionalismo
dello stile economico europeo e non può conciliarlo con i fondamenti
sociologico-culturali della sua vita precedente. Da ciò derivano gli
esperimenti religiosi che ora intendono creare artificialmente una nuova
religione statuale e imperiale, ora cercano un appoggio nel Cristianesimo, ora
si accontentano dell’indifferente ateismo europeo. Non è però possibile seguire
qui il tema in questa sua enorme estensione; si deve piuttosto fare riferimento
a un singolo punto determinato. A ciò siamo indotti anche dal fatto che la
religione etnica del culto degli antenati e dello stato la sola che abbiamo finora toccata non è affatto dominante in modo esclusivo.
Essa ha subìto rotture in singoli punti, ad opera di religioni universali e
spirituali, la cui essenza consiste soltanto nell’idea di Dio, nell’ethos, nel
sentimento, nell’intuizione religiosa del mondo, e che producono di conseguenza
forme sociologiche del tutto differenti. In luogo della comunità di culto
coincidente con determinati gruppi naturali, compare qui la comunità religiosa
di idee e di sentimenti cioè una comunità
universale e propagandistica. Pertanto anche il rapporto tra religione ed
economia è completamente diverso. Si tratta del Buddismo e delle tendenze ad
esso affini in Oriente, del Giudaismo con le sue due grandi ramificazioni Cristianesimo e Islam in Occidente. Certamente, anche queste nuove
formazioni religiose non sono sorte senza una preistoria 10. Frank, predicatore
prima metodista e poi congregazionalista, passò infine a una forma di religione
liberale con simpatie positivistiche. Fondatore della Rationalist Society di
New York nel 1897, scrisse tra l'altro numerosi romanzi filosofici (tra cui
quello citato nel testo) e un poema allegorico dal titolo The Last Enigma
(1924). sociale, e quindi anche economica, che le condizionasse. Qui però non
possiamo approfondire ancora quest’elemento: basti rilevare che emerge ora un
concezione e una posizione in linea di principio nuova del nostro problema. Qui
l’idea religiosa è essa stessa un'idea etica e metafisica; essa comporta non
più soltanto in modo mediato, attraverso le sue conseguenze sociologiche, ma
anche in modo immediato, attraverso la sua valutazione religiosa della vita,
una presa di posizione nei confronti della vita sociale ed economica. Tuttavia
essa è diversa nelle diverse religioni che abbiamo elencato. Il Buddismo
considera i vecchi ordinamenti di casta conservati dal culto come indifferenti;
li lascia comunque sussistere e non crea affatto una propria autonoma comunità
religiosa. Così esso agisce con la piena coerenza della sua idea che consiste nella totale assenza di
proprietà soltanto attraverso i suoi
specifici portatori, i monaci; per il resto lascia sussistere gli ordinamenti
così come sono, e impedisce solamente il sorgere di ogni vita razionalistica
diretta al profitto, che potrebbe distruggerlo. Tra le religioni occidentali il
Giudaismo ha acquistato notoriamente un’enorme importanza economica, la quale
in parte è fondata sull’accettazione attiva del mondo implicita nella sua fede
nella creazione e sulla considerazione religiosa delle virtù della diligenza,
dell’operosità, della sobrietà, ma per la maggior parte è scaturita dai suoi
destini storici? In verità, nel Giudaismo la religione rimane anzitutto legata
a un saldo contesto popolare, e la sua etica economica e il suo atteggiamento
verso l’economia sono influenzati da quest'idea fortemente terrena del futuro e
della destinazione del popolo eletto. Qui la frattura dell’elemento religioso
con l’elemento sociale e quindi anche
con quello economico non si è ancora
compiuta. Ma essa non è avvenuta neppure nell'Islam, che rimane internamente
legato, attraverso il Corano e il suo specifico diritto, a gradi primitivi di
organizzazione della società e a livelli primitivi di economia. a. Nel ben noto e per molti versi illuminante libro di Sombart!! quest'ultimo elemento è sottovalutato,
almeno quanto è sopravvalutato il primo. 11. Troeltsch si riferisce qui alle
tesi sostenute da Sombart in Die /uden und das Wirtschaftsleben, Munchen. Ciò
costituisce la base della forza e del successo della sua missione tra le razze
inferiori, ma anche della sua debolezza e della sua ostilità nei confronti
dello stile economico europeo. Questo non è infatti conciliabile già con la
natura primitiva del diritto islamico e con i suoi giudizi da cadì. La
liberazione reale dell’interiorità religiosa e della comunità religiosa
separata da tutti gli elementi sociali ed economici ha avuto veramente luogo
soltanto nel Cristianesimo, ma pur sempre in modo tale che essa non significa
una completa negazione ascetica del mondo, ma si richiama nel medesimo
tempo insieme con il Giudaismo alla bontà della creazione e al significato
del mondo come luogo di lavoro. In ciò è però contenuta non già una soluzione
particolarmente chiara del problema, ma piuttosto un’impostazione più difficile
e complicata del compito. In particolare si deve badare ai seguenti punti di
rilievo. In primo luogo, con questa totale interiorizzazione e
spiritualizzazione della religione, essa viene liberata dalle sue implicazioni
con la vita sociale ed economica. Ma ciò significa anche che influenze e
determinazioni dirette su questo mondo profano della vita possono svilupparsi
dall'idea religiosa soltanto con grande difficoltà. Tale idea si muove sempre a
un'altezza ideale che si contrappone indifesa ai concreti rapporti della vita e
alle loro potenti formazioni di interesse. In particolare ciò significa,
reciprocamente, che il lavoro economico rimane ora abbandonato a se stesso e
può sviluppare, del tutto indisturbato, il suo razionalismo degli interessi e
delle opportunità come un principio puramente mondano. Ma dato che il
razionalismo della vita economico-sociale si configura, in ultima analisi, come
lotta economica per l’esistenza 0 come concorrenza, questa etica religiosa si
contrappone ovunque alla lotta razionale per l’esistenza, che non può mai
impedire direttamente. Il mondo delle idee religiose non possiede nessun mezzo
suo proprio e diretto per organizzare € per interrompere tale lotta, e si
rivolge ai mezzi razionali con cui la stessa visione profana degli scopi si
propone di regolarla. La santificazione religiosa del carattere e l’amore
fraterno non sono in grado di risolvere in modo diretto, e di per sé soli,
questi problemi. Il libro dell'inglese Benjamin Kidd Social
Evolution!" a suo tempo oggetto di
larga considerazione, e a cui lo zoologo A. Weismann ha premesso
un’introduzione ha riconosciuto in modo
molto aderente questo stato di cose, contrapponendo il razionalismo della lotta
per l’esistenza, come principio puramente razionale, al principio religioso
dell’autorità e dell’ordine sulla base dei sovrastanti princìpi dell'amore. Se
però le cose stanno in questo modo, allora la soluzione del problema riposerà
sempre su qualche mezzo atto a far tacere, o almeno a regolare, la lotta per
l’esistenza, ma che la religione non può mai sviluppare semplicemente da se
stessa. Essa dovrà sempre fare affidamento su qualche auto-regolamentazione
razionale o accidentale di quella lotta per l’esistenza che sia ad essa
favorevole e che le venga incontro, ma che essa può soltanto cogliere e
fissare. Si tratterà però sempre di compromessi e di equilibri con la vita
reale. In secondo luogo, l’idea religiosa dominante sembra qui essere, in sé e
per sé, di natura puramente religiosa e ideologica. Infatti il punto di
partenza non è un vincolo immediato della vita naturale da parte del culto, una
coincidenza tra certe forme naturali e le forme culturali della comunità, bensì
l'ideale etico. Ma la sua indipendenza è anche qui molto condizionata. Il
rapporto reale è molto più complicato di quanto non appaia a prima vista. In
verità, anche qui gli ideali fondamentali non sono affatto così liberi dal
sostrato reale e concreto sul quale, e nei confronti del quale, si elevano. Gli
ideali di Gesù sono connessi con il grado di economia e con le situazioni climatico-naturali
della Galilea: non sarebbero potuti nascere in una grande città moderna. In
modo analogo, tutti i successivi ideali economici dell’epoca cristiana recano,
inconsapevolmente e involontariamente, l'impronta del suolo su cui sorgono.
Essi contengono sempre qualcosa che appartiene all’epoca e alla situazione, ma
che non percepiscono come tale e che fissano in forma di verità eterne, di
comandamenti divini, di interpretazioni della Bibbia. Come il mondo ideale
della Bibbia lascia ovunque trasparire il fondamento sociale ed economico 12.
Social Evolution, London, 1894; tr. ted. col titolo Soziale Evolution, Jena,
1895. La prefazione di Weismann è premessa a questa traduzione. su cui poggia,
così tutte le successive interpretazioni della Bibbia sono da parte loro
condizionate dalle idee ovvie che le circondano e che esse presuppongono.
Cattolicesimo, Luteranesimo, Calvinismo, sette e mistici leggono la Bibbia in
base a certi determinati presupposti sociologici, considerati come ov-vi, che
vogliono vedere confermati e regolati dalla Bibbia. All'inverso, anche i tipi
di azione in apparenza soltanto filosofici e razionalistici, o che si
presentano come costume e come prassi, sono inconsciamente determinati da
presupposti cristiani, e nei sistemi che pretendono di essere completamente
profani vi è una ricchezza di spirito cristiano. Il rapporto deve qui essere
ogni volta illuminato e stabilito caso per caso. Qui non vi sono quelle leggi e
formule generali di sviluppo progressivo, tanto care al moderno bisogno di
generalizzazione. Si tratta di un gioco di forze che oscilla avanti e indietro,
il cui risultato dev'essere determinato in ogni caso particolare di un'idea
economico-sociale che domina i grandi periodi. In terzo luogo, occorre
considerare che, proprio per la sua pura interiorità e per l’autonomia
dell'elemento religioso che viene qui elevata al massimo grado, l’idea
cristiana non possiede alcun mezzo di influenza diretta, e che anche le
esigenze etiche molto idealistiche non sono, di per sé sole, un mezzo del
genere. Essa esercita le sue influenze principali nonostante la pretesa spesso avanzata di un
condizionamento diretto puramente ideologico
non già attraverso l’esigenza etica ma indirettamente, attraverso le
forme di comunità religiosa da essa create. Queste scaturiscono da idee
dogmatiche, di culto e puramente religiose, e non vengono mai progettate a
scopi sociali profani; tuttavia possiedono una potenza organizzatrice e
vincolante, che nessuna formazione sociale del puro razionalismo possiede. Con
queste forti forme sociologiche esse abbracciano però anche analogamente a quanto ha mostrato Fustel de
Coulanges per gli antichi culti degli antenati e della città la vita complessiva, e costituiscono la sua
ovvia base etico-spirituale. Nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo è
certamente presente qualcosa del terreno sociale da cui traggono la loro linfa
vitale. Ma l’organizzazione sociologico-religiosa dell’autorità,
dell’istituzione, dell’individualismo ha determinato in misura ancora maggiore la
generale atmosfera culturale, e soltanto per il suo tramite è stata influenzata
la vita profana nell'economia e nella società. Nonostante l’apparente autonomia
dell’ideologia etica sussiste anche qui il problema marxistico, ma in modo che
esso non significa semplicemente la dipendenza dell’elemento religioso da
quello sociale ma anche, reciprocamente, la dipendenza dell'elemento sociale da
quello religioso. Ciò che si presenta nel caso singolo non può venir chiarito
da una teoria generale, ma soltanto da un’indagine condotta caso per caso.
Partendo da ciò risulta parimenti chiaro che il razionalismo economico, laddove
perviene a un'autonomia illimitata, si volgerà contro questi vincoli
sociologico-religiosi e cercherà di rendersene del tutto indipendente. Non sono
dunque soltanto l'impossibilità di abbracciare il problema in tutta l'ampiezza
della sua realtà storico-religiosa, la limitazione della sua osservazione e
della sua conoscenza ai pochi punti finora accessibili, e la necessità di
indagarlo sempre concretamente caso per caso, che hanno in ultima analisi
limitato l’indagine all’unica religione che ci è, da questo punto di vista,
perfettamente familiare. E neppure è la sua importanza per la nostra
cultura che ha peso pratico soltanto per
noi. Si tratta piuttosto, in primo luogo, della particolare importanza
intrinseca che, da questo punto di vista, il Cristianesimo riveste. Esso si è
sviluppato sulla linea di confine tra Oriente e Occidente, dall’umanità religiosamente
fondata e dalla speranza di redenzione dei profeti di Israele, e si è quindi
configurato svincolandosi completamente
da tutte le condizioni naturali e sociali
nella forma della più pura interiorità religiosa e della fratellanza
umana, e al tempo stesso nella forma di una radicale speranza di redenzione,
che si aspettava dal cielo lo stato corrispondente ai suoi ideali come
un’imminente fondazione miracolosa del regno di Dio. Questo ethos e questa
speranza di redenzione si sono uniti con la venerazione religiosa del nunzio
del regno di Dio, dando così luogo a una nuova comunità umana puramente
religiosa e culturale ed essendo poi costretti, per il mancato avvento del
regno di Dio, ad applicare il loro ideale
come regola di vita della Chiesa
alla vita pratica e duratura nella società e nell’economia. In tal modo
ha avuto immediatamente inizio il problema, che perdura fino ai nostri giorni.
STORIA E DOTTRINA DEI VALORI * Il problema è quello della creazione della
sintesi culturale contemporanea sulla base dell’esperienza e della conoscenza
storica. Ciò ha condotto alla connessione del comprendere storicoindividuale
con l’idea di un criterio. Questo criterio si è però dimostrato complicato, in
quanto racchiudeva in sé una duplice applicazione all’accaduto e al futuro,
assumendo un diverso significato nei due casi. Esso comportava da un lato la
misurazione dell’accaduto in base agli ideali ad esso di volta in volta propri,
dall’altro la direzione verso il dover essere da produrre nel presente, il
quale non può scaturire da un’astratta ragion pura, ma solamente in stretto
contatto con le possibilità e le tendenze effettive del momento. La connessione
di questi due momenti del criterio risultava infine nell’idea
dell’individualità di ogni formazione presente di un criterio, in quanto questa
è anche, da parte sua, una formazione e creazione della vita storica. Tale essa
apparirà agli storici futuri, e fin da ora dobbiamo comprenderla e sentirla in
questo modo. Tutto poggia perciò anche qui sull’idea di individualità; solo che
ora in questa idea non compare soltanto la fatticità del particolare e del
singolare, come avviene prevalentemente nella logica empirica della storia, ma
l’individualizzazione di volta in volta di un ideale, la concrezione di un
dover essere. In questo nuovo e più profondo senso dell’individualità idea e
fattualità sono ora, già nell’accaduto, una cosa sola; e lo sono l’una e
l’altra anche, ® Der Historismus und seine Probleme, 1. Uber Masstàbe zur
Beurteilung historischer Dinge und ihr Verhdltnis zu cinem gegenwirtigen Kulturideal,
sezione 5: Geschichte und Werilehre, in Gesammelte Schriften, Tiùbingen von J.
C. B. Mohr, vol. III, 1922, pp. 200-221 (traduzione di Barbera e Rossi). e con
un interesse pratico ben altrimenti rafforzato, nella formazione di un criterio
e nella sintesi culturale contemporanea; in tale senso poggia infine anche la
connessione delle tendenze ideali trascorse con quelle da creare muovendo dal
presente. La comprensione di questa connessione è però una questione di azione
e di creazione intuitiva, per la quale non esiste nessun’altra oggettività al
di fuori della coscienza del fatto che, essendo creata da un tratto interno
della storia stessa, si conferma nella coscienza come vincolante e
nell’esperienza come feconda. È chiaro
ed è stato più volte sottolineato
che in questo modo si passa dal terreno della pura logica storica al
terreno di una nuova regione scientifica. È il terreno della dottrina dei
valori o assiologia, come oggi si usa dire. L’intestazione di questo capitolo
avrebbe quindi potuto anche essere
Storia e dottrina dei valori
esattamente come quello precedente avrebbe potuto anche intitolarsi
Storicismo e naturalismo . Se sono stati preferiti i titoli sopra segnati, lo
si è fatto per ottenere la massima prossimità ai problemi della vita di oggi e
per evitare un’astrattezza troppo esangue. Ma da un punto di vista puramente
logico si è compiuto, in questo capitolo, il trapasso dalla storia alla
dottrina dei valori; si è cioè entrati in questa nuova regione scientifica
attraversando la porta del concetto di individualità, che solo può condurre
dall’una all’altra. E lo può perché il concetto di individualità non significa
soltanto la particolarità puramente fattuale di un complesso storicospirituale
dato di volta in volta, ma significa al tempo stesso un’individualizzazione
dell’ideale o del dover essere, che certo non si realizza compiutamente in ogni
forma particolare, ma che aspira a realizzarsi e che in essa si incorpora,
secondo le circostanze, più o meno felicemente *. Entrare nella regione a.
Sulla. progressiva scoperta del regno dell’individuale, che lo spirito tedesco
intraprese con focoso zelo , si veda F. MEINEcKE, Weltbiirgertum und
Nationalstaat, Miinchen und Berlin, 1908, p. 277. Significativa è anche
l'osservazione sulla duplicità dell’individuale che viene qui presupposto, cioè
il suo aspetto fattuale e l'aspetto della doverosità: si veda a p. 281, dove si
rimanda a Novalis! e a Ranke (nonché a Humboldt). 1. Friedrich Leopold von
Hardenberg, detto Novalis, uno dei maggiori poeti romantici tedeschi, autore
degli Hymnen an die Nacht, del romanzo incompiuto Die Lekrlinge zu Sais, di un
altro romanzo anch'esso non condotto a della dottrina dei valori per questa
porta non costituisce la regola; e tuttavia ciò è imprescindibile per una filosofia
materiale della storia, cioè per poter pensare e porre il valore in base alla
storia. Si tratta del primo grande problema di ogni filosofia della storia,
rispetto al quale tutti gli altri passano in seconda linea. Rimane da dire
ancora qualche parola polemica in merito alla consueta configurazione della
dottrina dei valori nella filosofia moderna. Che cos'è la teoria generale dei
valori o assiologia? Come si coordina con le scienze della natura e dello
spirito entrambe scienze del reale,
fortemente e coercitivamente determinate nel loro rapporto con l'oggetto nel g/obus intellectualis delle scienze? È
una scienza empirica o @ priori, formale o materiale? Questa impostazione
influenzata dal neokantismo, e oggi così predominante, è però troppo semplice ed
esclusiva. In verità nessuna scienza è puramente empirica, ma ognuna è
frammista di princìpi di elaborazione @ priori; e d'altra parte nessuna scienza
è puramente formale, ma comporta sempre un'elaborazione dei fatti
dell'esperienza e delle realtà vissute, con la cui materialità sta al tempo
stesso in stretta connessione
prescindendo naturalmente dalla logica formale (si può qui trascurare
l'ardua filosofia della matematica, ossia la questione se sia puramente formale
e 4 priori, oppure anch'essa carica di sensibilità e di intuizione). In ogni
caso la dottrina dei valori non può quindi essere una scienza puramente 4
priori e formale. Anch’essa rivela princìpi di elaborazione della realtà
vissuta che stanno in stretta connessione con questa e che possono venir
trovati soltanto in base all’analisi della vita reale. La sua distinzione dalle
altre scienze della realtà consiste soltanto nel diverso significato e nella
diversa posizione che i princìpi di elaborazione a cui essa fa riferimento
hanno nei confronti della realtà vissuta. Questi si propongono non già il
collegamento esistenziale e oggettivo del reale, ma la sua valutazione e
formazione soggettiva e normativa. Ma, come quelle forme di collegamento si
connettono strettamente con l’essenza del reale, così anche queste norme di
valutazione e di formazione si connettotermine su Heinrich von Ofterdingen
(1799) c di Fragmente di argomento filosofico. Il suo pensiero storico-politico
è esposto in Die Clristenheit oder Europa (1799), romantico vagheggiamento dell'unità
del mondo cristiano medievale. no indissolubilmente con le tendenze di
contenuto già presenti nella vita reale. Perciò, come quelle forme possono
essere astratte soltanto dalle scienze già esistenti e reagiscono poi sulle
scienze in forma più raffinata e sistematizzata, così anche queste vengono
tratte da valutazioni e formazioni effettive. Ciò può accadere soltanto in
virtù di una fenomenologia comprensiva, quale è stata oggi ormai intrapresa,
soprattutto da parte della scuola fenomenologica. Tutte le valutazioni, anche
quelle più soggettive, più accidentali e più legate ai sensi, vengono in tal
modo collocate su un terreno comune insieme con quelle più oggettive, più
ideali e più svincolate dalla sensibilità, per poter poi rintracciare su questa
base le diverse classi di valori e la loro legge essenziale, e per poter infine
ricondurre il rapporto reciproco delle varie classi di valori a una legge
universale, che naturalmente è una legge concernente non l’essere ma il dover
essere, pur essendo, in quanto tale, sempre profondamente radicata nell’essere.
Non è qui il caso di inoltrarci in particolari assai spinosi. È necessario
sottolineare la cosa principale, cioè che questo inquadramento complessivo dei
valori ha il significato di mostrare fondamentalmente l’essere vivente non già
come un essere contemplativo e riflessivo, ma come un essere che agisce
praticamente, che sceglie, lotta e tende a qualcosa, in cui ogni mera
intellettualità e ogni mera contemplazione si pone, in ultima istanza, al servizio
della vita, sia essa animale o personale-spirituale. Ciò è importante, nel suo
significato assolutamente decisivo, anche per il nostro argomento. Altrettanto
importante è però mettere in rilievo che, a un’analisi più prossima,
l’unitarietà di questi valori pratici
inizialmente ammessa si articola
immediatamente nei valori meramente animali e nei valori personali-spirituali
della cultura, ai quali appartiene il carattere formale della doverosità e
dell’impegno allarealizzazione. Particolarmente significativa è poi, sempre
all’interno di questi ultimi, la scissione tra le conseguenze tratte dalla
doverosità formale le quali, in quanto
doveri individuali e doveri comunitari, designano l’elemento morale in senso
stretto® e i contenuti culturali, di cui
si a. Di questa scissione si dovrà ancora parlare nell'analisi conclusiva
sull’etica e sulla filosofia della storia. tratta nelle scienze della cultura o
nelle scienze sistematiche dello spirito relative allo stato, al diritto,
all'economia, all’arte, alla religione e alla scienza (per lo meno nella misura
in cui questa è bene culturale e non logica). Il fine ultimo di quest’analisi è
perciò naturalmente, come ogni volta che si confidi nell’unità e nel senso del
reale, la sintesi in vista di una costruzione e di un sistema dei valori in cui
il presupposto di questa fiducia che è,
in ultima analisi, una fiducia religiosa
non dev'essere dimenticato, e in cui anche l’intera questione
dell’esistenza e dell’origine di questi valori nell’essere vivente finito deve riportare
al rapporto della coscienza assoluta o Dio con la coscienza finita. La dottrina
dei valori conduce necessariamente a sfondi metafisici in cui dev'essere
risolto, in particolare, anche il problema del rapporto tra vita e materia
della vita, tra dover essere ed essere ?, a. Purtroppo lo sviluppo e la
formazione storica della dottrina dei valori non sono ancora stati studiati in
maniera sufficiente. Sarebbe urgente un libro in proposito del tipo della
Geschichte des Materialismus di Lange? o dell’Erkenntnisproblem di Ernst
Cassirer3. Le esposizioni attuali prendono invece le mosse soprattutto da
Lotze, che ha dato inizio al mutamento propriamente moderno della metafisica in
una dottrina dei valori e ha quindi inserito, come in ultima istanza decisive
per il contenuto della metafisica, le idee della dottrina kantiana della ragion
pratica su una base metafisica alquanto più ampia. La dottrina dei valori
costituisce di per sé un problema molto più antico e comprensivo, e
l’inserimento kantiano-lotziano nella metafisica è soltanto una delle molte
forme possibili di collegamento con la metafisica. Il suo problema ultimo, più
caratteristico e generale consiste quindi nella permanente conversione
dell’essere nell’aspirazione e nel dovere, e di questi ultimi nuovamente
nell'es2. F. A.
Lance, Die Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der
Gegenwart, Iserlohn, 1866. Friedrich
Albert Lange (1828-1875), filosofo tedesco di orientamento neokantiano, fu
altresì autore di Die Grundlagen der mathematischen Psychologie (1865), di Die
Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung fiir Gegenwart und Zukunfe (1865), dei Neue
Beitrige zur Geschichte des Materialismus (1867) e delle postume Logische
Studien. 3. E. Cassirer, Das
ErZenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschafe der neueren Zeit, Berlin,
1906-1920 (il quarto e ultimo volume sarà pubblicato in inglese a New Haven,
nel 1950). Cassirer, filosofo tedesco di orientamento neokantiano, autore di Stbstanzbegrif
und Funktionsbegriff (1910), della Philosophie der symbolischen Formen
(1923-1929), di Zur Logik der Kulturwissenschaften (1942), di An Essay on Man
(1944) e di altre importanti opere di storia della filosofia, in particolare
sul Rinascimento e sull'Illuminismo, sviluppò l'impostazione neocriticistica
propria della scuola di Marburg nel senso di una filosofia della cultura . In tal modo non è
stata ancora caratterizzata abbastanza la specificità di questa scienza, e
soprattutto non è stata illustrata la particolarità dell’attuale stato del
problema, sottoposto a oscillazioni così sensibili. Essa pure riesce a fare
completa chiarezza sul metodo e sul fine soltanto se, anche qui, si ritorna
alle radici dei punti di vista e delle terminologie moderne, cioè alla svolta
cartesiana verso la filosofia della coscienza, da cui abbiamo già visto
scaturire il naturalismo e lo storicismo. Ciò che qui inganna è soltanto la
circostanza che l’equiparazione terminologica di tutte le reazioni pratiche,
sia del sentire sia del volere, in quanto valori, è dovuta alla filosofia
moderna successiva a Lotze e all’influenza dell'economia politica. In sé e per
sé, invece, l'impostazione è antica e coincide con il cartesere un problema che non può venir risolto in base
ai presupposti della logica puramente formale e astratta della riflessione, ma
che rimanda a quel piano meta-logico giù sopra accennato. Se viene mantenuto
sul piano della logica astratta della riflessione, esso conduce sempre ad
antinomie e a impossibilità, a semplici accostamenti tra essere e dover essere,
tra causalità e teleologia, tra determinismo e libertà, tra immobilità e
movimento, tra rappresentazione e volontà in breve, a un dualismo
insostenibile, in cui alla fine rimane soltanto l'essere come il più facile da
rappresentare e da elaborare logicamente. Tra le esposizioni storiche cfr. K.
WieperHoLp, Wertbegriff und Wertphilosophie (Erginzungs-Heft alle Kantstudien , 52, Berlin, 1920); E. HevpE,
Grundlegung der Wertlehre, Leipzig, 1916 (dal punto di vista della filosofia
dell’immanenza di Grefswald); W. SrricH, Das Wertproblem und die Philosophie
der Gegenwart (Diss.), Leipzig, 1909; G. Picx, Die Ubergegensdtzlichkeit der
Werte, Tibingen, 1921 (si richiama a Lask e a Rickert). Accanto ai lavori più
volte citati di Ehrenfels, Meinong, Miinsterberg, Volkelt, si devono segna-
lare E. von Hartmann, System der Philosophie im Grundriss, vol. V: Grundriss
der Axiologie, oder Wertwigungslehre, Sachsa, 1908; E. von Srrancer,
Lebensformen, Halle, 2° ed. 1921; M. ScHeLER, Der Forma- lismus in der Ethik
und die materiale Wertethik, Halle, 22 ed., 1921; D. von Hitpesranp,
Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis, Jahrbuch fiir Philosophie und
phinomenologische Forschung , V, 1922, pp. 462-601 (trattazione di finissima
psicologia cattolica da cura dell'anima, intesa co- me legge essenziale dell'ordinamento dei valori); T. Lessine,
Studien zur Wert-Axiomatik, Leipzig, 2° ed. 1914 (di tendenza anti-psicologi-
stica e indifferente a ogni reale, con conseguenze pessimistiche). Sono lar-
gamente d’accordo con J. VoLkeLr, di cui si veda il System der Asthetik,
Miinchen, vol. III, 1914. Lo stesso problema ritornerà in seguito dal punto di
vista del concetto di sviluppo, e ci costringerà a menzionare e a distin- guere
le diverse scuole e i diversi gruppi: per ora basti un accenno. sianesimo. Se
il punto di partenza decisivo è la coscienza, l'analisi dei suoi contenuti e
dei suoi principi formali e la costruzione filosofica della realtà in base agli
clementi e ai princìpi in essa trovati, allora le rappresentazioni, i
sentimenti e le volizioni vale a dire la
cosiddetta esperienza interna ed esterna
diventano il solido nucleo di ogni pensiero, e i fatti teoretici e
pratici della coscienza si accostano gli uni agli altri come datità in larga
misura omogenee, a partire dalle quali soltanto si può procedere a
un'articolazione e a una distinzio- ne. Le cose stavano in modo completamente
diverso nella filoso- fia antica e medievale. Qui non c’era una dottrina della
ragion pratica o dei valori, bensì una dottrina dei beni e degli scopi, rispetto
ai quali la vita affettiva sensibile apparteneva fin dall’i- nizio all’aspetto
finito e sensibile, inessenziale, dell’esistenza. In Platone e Aristotele i
beni erano scopi cosmici, contenuti nella ragione divina, che si realizzavano
nello sviluppo teleolo- gico attraverso la
partecipazione dello spirito
finito alla ra- gione divina. Non diversamente stavano le cose con la legge
naturale dello Stoicismo, che era una legge cosmica e alla qua- le la ragione
umana partecipava in una maniera particolare. Anche l’edonismo, che si
esprimeva in forma collaterale, sfocia- va in un'imitazione dell'armonia e
della bellezza dell’universo, e per di più non riuscì ad affermarsi. La
dottrina cristiana fondava i beni su un ordine cosmico e su una gerarchia dei
beni, accogliendo così fondamentalmente le idee antiche, e svi- luppava il suo
sistema gerarchico dei beni come una copia dei gradi di realizzazione della
vita di Dio nel mondo. In ultima analisi essi non procedono più qui in base
alla mera partecipa- zione al sistema soprasensibile delle idee e delle
leggi, ma scaturiscono da una conciliante auto-partecipazione di Dio nella
creatura, che si esprime in valori umanitario-naturali e in valori
religiosi-soprannaturali. Identità e diversità tra spirito divino e spirito
finito vengono qui affermate contemporaneamente, e da questa coincidentia
oppositorum scaturisce il sistema dei beni come manifestazione di un movimento
di vita divino *. Soltan- a. Cfr. il mio Augustin. Die christliche Antike und
das Mittelalter, Miinchen, 1915, e H. Hemsòra, Die sechs grossen Themen der
abendlin- dischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters, Berlin.to la
svolta cartesiana ha trasformato i beni in fatti esclusivi di coscienza.
L’empirismo inglese ne ha subito tratto la conseguen- za dell’equiparazione di
tutte le reazioni pratiche in quanto sensazioni di piacere e si è sforzato di
costruire l’etica e il sistema culturale sulla base del piacere. I grandi
razionalisti continentali si attennero certamente, anche nella filosofia prati-
ca, alla scissione tra sensibilità e ragione, ma nel complesso cercarono di
ricondurre i valori all’intelletto, e cioè di sviluppa- re l’etica in base al
fatto immanente alla coscienza dell’in- telletto e quindi della sua antitesi
rispetto alla sensibilità. An- che un metafisico dogmatico come Spinoza non
faceva eccezio- ne, poiché tutta la sua metafisica è, in definitiva, il
dispiega- mento dell’essenza formale del pensiero, e in quanto tale proce- de
da parte sua dalla coscienza. La terminologia si muove ancora all’interno del
linguaggio antico e cristiano, mescolata con la terminologia del piacere anch'essa del resto derivante dall’antichità.
Ma il principio è già quello dei valori. La dottrina kantiana produsse infine i
concetti universali della ra- gione teoretica e della ragione pratica,
distinguendo poi all’in- terno di quest'ultima tra scopi ipotetici e scopi
categorici e sovra-ordinando in linea generale il pratico al teorico. Anche la
speculazione post-kantiana non è tanto distante come può sem- brare, poiché la
sua dottrina dell'identità procede ancora dalla conoscenza e cerca di derivare
i valori dall’essenza formale della ragione, non dalla ricchezza ontologica
dell’idea di Dio. I valori non sono partecipazione o derivazione della grazia,
bensì produzione e creazione umana in base all’impulso della ragio- ne. Infine
le dottrine del positivismo, che è assai vicino all’utili- tarismo inglese,
fanno egualmente sorgere nello sviluppo i valo- ri culturali dall’intelletto e
dal senso comune, cioè spiegano tutto sulla base di dati fondamentali
psicologici e delle loro implicazioni evoluzionistiche, per fondare in
definitiva con la maggiore sobrietà
possibile una sistematica dei fini
sociali così posti sulla base di una conoscenza positiva delle leggi della
natura e della società. La naturale conseguenza di ciò è stata alla fine la
terminologia dei valori, cioè la riunione
oggi consueta di tutte le
reazioni e formazioni pratiche nella teoria dei valori; e l’indagine
sistematica del significato del valutare poteva ora essere intrapresa non
soltanto per la coscienza, ma per la filosofia nel suo complesso come è accaduto 2 partire da Lotze, fino a
confluire oggi con la filosofia pratica di Kant. La filosofia dei valori in senso stretto, sviluppatasi oggi in
seguito a questa confluenza, la quale edifica l’intera dottrina dei valori in
base al valore teoretico o al valore di validità dell’elemento logico e la pone
in questa forma al posto della metafisica
ci riferiamo in particolare alle teorie di Miinsterberg, di Rickert e di
Lask rappresenta pertanto un tentativo
di spremere dall’elemento soggettivo o immanente alla coscienza l’elemento
oggettivo: tentativo che esprime, con tutta la sua acutezza, soltanto la precarietà
di un siffatto punto di vista dell’immanenza. Queste teorie costituiscono,
entro la dottrina dei valori, soltanto una specificazione acuta ma poco
feconda. Questo fondamentale soggettivismo non costituisce però l’elemento
decisivo per la connessione che abbiamo ora di fronte. Esso non potrà venir
mutato nel suo punto di partenza analitico-coscienziale finché dura il pensiero
moderno, e si potrà discutere soltanto dei suoi risultati e del modo delle sue
conclusioni metafisiche in quanto
mutamenti siffatti non sono mai mancati e vengono oggi ripresi in modo sempre
più pressante, senza dimenticare l'applicazione assai approfondita di
Malebranche alla conoscenza in Dio anche dei valori pratici *. Per il nostro
argomento è però decisivo un altro punto. Dato il carattere
immanente-soggettivo dell’utilitarismo, della ragione pratica e del
positivismo, il solo mezzo per distinguere i valori oggettivi, oggetto di
dovere, o i valori culturali etici dai valori animali e sensibili della vita e
dell’utilità diventa l’universalità a. In Spranger e in Scheler* i punti di
contatto con Malebranche sono innegabili. Sulla genesi dell'idea di
individualità in Leibniz cfr. H. ScHmaLENBACH, Leibniz, Mùnchen, 1921 libro molto istruttivo, anche se l’asserita
connessione con il Calvinismo non mi sembra abbastanza persuasiva. Scheler,
filosofo tedesco, autore di Die transzendentale und die psychologische Methode
(1900), di Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, di Wesen
und Formen der Sympathie, di Die Wissensformen und die Gesellschaft, della
Philosophische Weltanschauung c di varie
altre opere, appartiene al movimento fenomenologico: egli si propose
soprattutto di costruire un'etica materiale , fondata sulla determinazione di
una gerarchia di valori e contrapposta quindi all'etica formale kantiana. delle valutazioni — da un lato
l’uziversalità empirica e di fatto, dall’altro la validità universale ideale,
che dev'essere riconosciuta. La maggiore utilità possibile del maggior numero
possibile di persone oppure la validità universale formale della ragion pura,
libera dalla sensibilità, o ancora la vittoriosa diffusione riconoscibile nel
corso dello sviluppo: questi diventano gli strumenti di distinzione, e quindi i
criteri di valutazione. Ma con ciò viene scartato il concetto di individualità.
Esso diventa un insieme di punti d’intersezione accidentali di leggi
psicologiche generali da cui si deve estrarre, in modo faticoso e artificioso,
l’universale dover essere; o diventa intorbidimento, adattamento e
individualizzazione storica, che perviene alla norma in sé, atemporale e
universalmente valida. Nell’uno e nell'altro caso non c’è alcuna via verso
l’individuale, inteso come unità intima di fattuale e di ideale. Una via
siffatta non è stata ancora trovata neppure nelle odierne considerazioni fenomenologiche,
le quali prendono tutte quante le mosse da norme, dalla visione dell'essenza e
dalla legalità atemporale, per aggiungervi soltanto in seguito il rattoppo
dell’individualizzazione empirica. Proprio perciò queste dottrine dei valori
urtano sempre, senza speranza, contro la storia. Esse disconoscono l'autentica
individualità presente nella storia, come stato particolare e determinato di un
intreccio reciproco di essere e dover essere, di fattuale e ideale;
disconoscono l’inesauribile e imprevedibile produttività della storia, la quale
produce sempre nuovi elementi individuali e quindi non individualizza leggi
generali, ma ci pone di fronte a formazioni di valori sempre nuove e
imprevedibili. Questo è il nucleo in cui, più che altrove, la moderna dottrina
dei valori ha bisogno di una riforma. Ciò che insegnarono i Romantici,
Schleiermacher, Wilhelm von Humboldt, Goethe, dev*essere sempre riconosciuto di
nuovo come il suo problema principale, e posto al centro® per cacciare via gli
a. Si veda il Politisches Gesprich di Ranke in Werke, voll. XLIX.L: Zur
Geschichte Deutschlands und Frankreichs im 19. Jahrhundert (a cura di A. Dove),
Leipzig, 1887, p. 325: Senza una tensione, senza un nuovo inizio non si può
pervenire dall’universale al particolare. Lo spirituale, che ti sta
improvvisamente davanti nella sua imprevista realtà, non si lascia derivare da
nessun principio superiore. Partendo dal particolare puoi clevarti, con cautela
e risolutezza, all’universale; ma dalla teoria spettri di leggi generali e atemporali,
con le quali la storia e la vita non possono cominciare nulla e che aprono
sempre nuovi abissi immaginari tra storia e dottrina dei valori, le quali
tendono invece a unificarsi. Il fatto che le teorie fenomenologiche, nella loro
aspirazione ben consolidata a leggi generali di essenza, pervengano, nei
diversi pensatori, a risultati diversi
nonostante la conclamata visione dell'essenza costituisce la prova di questo stato di cose
assolutamente decisivo. È del tutto impossibile, partendo dalla fragile,
isolata e vuota coscienza per quanto si
possa attenuarla e dissolverla mediante la teoria della non-sostanzialità o
dell’inconoscibilità dell'io ottenere in
virtù di una semplice psicologia delle reazioni la comprensione
dell’individualità, che dovrebbe appunto avere la sua sede principale nella
dottrina dei valori. Di qui si perviene sempre soltanto ad acuti sofismi o a
nullità tautologiche, alla disputa se il valore risieda nell’oggetto o nel
soggetto o nella relazione tra i due termini, se esso sia una sensazione e una
percezione oppure una disposizione e una reazione soggettiva, se sia fondato su
un giudizio di esistenza o di non-esistenza, se sia semplicemente momentaneo o
costante, semplicemente relativo o se scaturisca dal sentire o dal volere o dal
rappresentare o da un elemento psichico ad esso proprio, se sia meramente
accidentale e personale oppure sovrapersonale e oggettivo, e così via. Tutte
queste difficoltà artificio se e insolubili, oppure solubili soltanto
introducendo di soppiatto valori dogmaticamente normativi (e proprio per ciò
oggetto di fede), cadono qualora si concepisca in modo diverso il punto di
partenza, cioè il cosiddetto io, qualora lo si consideri non più come qualcosa
di isolato e di vuoto, provvisto soltanto delle facoltà formali del
rappresentare, del sentire e del volere, ma come virtualmente comprensivo e ogni volta in un ambito assai diverso della totalità della coscienza, oppure si consideri
quest’ultima come comprendente in sé l'io, qualora si ritorni (in qualche forma
oggi possibile) all'idea leibniziana della monade, e in particolare della
monade umana, che assume in base generale non c'è strada che conduca
all’intuizione del particolare . Si veda inoltre p. 327: Natura della cosa, opportunità, gezio e
fortuna coopePriz/e OPp 6 P rano [al
sorgere di nuove forme] . alle sue
complicazioni una posizione particolare. Allora è possibile intendere i valori
nella loro ovvia soggettività e nel loro carattere relazionale, che deriva dal
carattere pratico e dai fini pratici di ogni essere, cioè dalla vita che tutto
riempie. Allora le valutazioni estranee, passate e future, possono venir
sentite come proprie, perché portiamo al tempo stesso in noi gli io estranei.
Allora possono esserci coincidenze nelle valutazioni, in quanto noi tutti
deriviamo dal medesimo fondamento della totalità della vita, e possiamo quindi
sentire allo stesso modo. Allora è possibile distinguere i valori animali, cioè
i valori meramente vitali che derivano dalle relazioni ambientali, rispetto ai
valori oggettivi o spirituali, poiché questi ultimi esistono per la totalità
dello spirito divino nella sua totalità che comprende la finitudine, e poiché
l’essere individuale partecipa a questa totalità dello spirito. Allora possono
esserci medie e sedimentazioni sociologicamente condizionate di queste
valutazioni, oscurità, turbamenti e disordini dei conflitti tra motivi, da cui
scaturiscono alla fine sempre soltanto il rischio e l’auto-riflessione, cioè
una propria disposizione la quale non è tuttavia invenzione. Psicologia e
sociologia possono descrivere tutte queste forme di realizzazione, ma non
possono fondare alcun valore particolare e scoprirne le origini ultime. Ma,
soprattutto, soltanto in questo modo si può cogliere il senso autentico
dell’individualità, così come i Romantici e i poeti, i filosofi e gli
storici in primo luogo Wilhelm von
Humboldt lo hanno sottratto
all’intellettualismo leibniziano, ancora chiuso in sé senza finestre. Questo
essere individuale che partecipa alla totalità della vita rappresenterà e
realizzerà nella sua situazione, nel suo ambiente e nella sua influenza
particolare il fondamento comune della vita in una maniera ad esso propria sia sotto l'aspetto animale del
soddisfacimento dei bisogni e della promozione della vita, sia sotto l’aspetto
della comprensione del mondo delle idee divine. L'uomo, nel suo grado di
realizzazione della coscienza, diventerà quindi un essere storicamente
individualizzato, nonostante i mille aspetti di omogeneità e di comunanza che
ha con altri uomini, e possiederà in tal modo non soltanto una determinatezza
di fatto, ma anche un compito che è oggetto di dovere, nella cui realizzazione
crca e acquisisce la sua essenza. Rimangono naturalmente le questioni ultime
come Dio o l’assoluto o la totalità della vita pervenga a questo movimento
costante dell’essere verso i valori, che altro non è se non la vita, e come
questa totalità della vita pervenga all’auto-divisione nelle monadi finite. Si
tratta di questioni a cui nessuno può rispondere, ma che non possono neppure
essere sostituite da altre impostazioni più corrette e più facilmente
suscettibili di risposta. Esse sono eterne come il pensiero: soltanto
l’auto-divinizzazione e l’auto-svuotamento dello spirito moderno due momenti strettamente connessi tra
loro hanno potuto dimenticarle o
considerarle mal poste. Si ritornerà ancora su di esse trattando della teoria
della conoscenza storica. Qui ci limitiamo per ora ad accennare al significato
decisivo di questa impostazione per l’individualizzazione storica di tutti i
valori. Essa vale sia per gli individui particolari che per gli individui
collettivi, senza i quali non si potrebbero concepire neppure i primi e che, da
parte loro, possono essere concepiti soltanto in base ai presupposti indicati.
In tal modo il concetto centrale della dottrina dei valori diventa quello
dell’individualità, nel senso di un’unificazione di fattuale e di ideale, di
dato naturalmente e in conformità alle circostanze e, nel medesimo tempo, di
eticamente imposto. In questo senso il concetto di individualità coincide con
quello della fondamentale relatività dei valori. Ma relatività dei valori non
vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio, bensì designa l’intreccio
sempre mobile e creativo, e perciò mai deter- minabile atemporalmente e
universalmente, di ciò che esiste di fatto e di ciò che dev'essere. Questo
intreccio può e dev'essere colto ogni volta
sia che si tratti dell’individualità singola di una persona, sia che si
tratti dell’individualità collettiva di un popolo e di una comunità
culturale mediante l’auto-rifles- sione
e l’approfondimento in se stessi, nonché mediante la com- prensione e la
conoscenza della situazione e del condizionamen- to storico. Non è senz'altro a
portata di mano, ma dev'essere creato; non si tratta quindi di un naturalismo
di tipo vegetale. Proprio perciò questo intreccio non è qualcosa di estetico,
che induca all’auto-godimento o alla semplice curiosità come viene spesso frainteso ma è un compito e un dovere, e al tempo
stesso anche un orientamento universale, assai sobrio e pratico, sulle
possibilità e sui presupposti della situazione. Esso esige un sapere
spassionato, una volontà chiara, uno sguardo acuto. Tanto meno l’individuale,
inteso in questo senso, costituisce una mera categorica logica, che debba
essere applicata a qualsiasi oggetto in virtù di una coercizione logica, a
fianco di una considerazione dal punto di vista di leggi generali che derivi
dalla medesima coercizione. Esso è piuttosto una creazione umana e una realtà
metafisica, l’intreccio di fatto e di spirito, di natura e di ideale, di
necessità e di libertà, di universale e di particolare. Esso emerge con forza e
importanza molto diversa dagli sfondi nascosti dei processi storici. Vi sono
uomini e periodi, strati sociali e gruppi ricchi di individualità e poveri di
individualità; i primi sono sempre caratterizzati da una salda fede in questo
loro procedere dall’universale. Essi percepiscono la loro particolarità come
missione divina e come compito, e non badano all’interesse della propria
personalità, ma alla specificità del loro compito. Si apre così, muovendo
dall’individuale, lo sguardo verso la metafisica, del quale non si ritiene di
aver bisogno quando ci si attiene a ciò che è astrattamente generale, poiché
questo in apparenza sostituisce la metafisica. Il costante procedere
dell’individuale e dei suoi criteri da uno sfondo oggettivo e universale è però
un’idea che non si può formulare senza la metafisica, a meno di non farla
rientrare nell’ambito del resto
impossibile del mero accidentale o
dell’interessante auto-compiaciuto. A questo punto si stabilisce la relazione
della dottrina dei valori con la metafisica, che in altri punti appare meno
pressante. Ma la relatività dei valori ha senso soltanto se in questo relativo
c'è qualcosa di assoluto che vive e che crea; altrimenti essa sarebbe soltanto
relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un processo vitale
dell’assoluto, nel quale questo può essere colto e formato in ogni punto nella
maniera corrispondente a tale punto. L’assoluto dev'essere colto ovunque e in
primo luogo dev’'essere anche formato. Infatti esso è una volontà di creazione
e di forme, la quale negli spiriti finiti diventa auto-formazione in base a un
fondamento e a un impulso divino. E questi diversi punti devono connettersi e
succedersi secondo una determinata regola, che costituisce l’essenza del
divenire dello spirito divino e che si afferma, nonostante tutto, nelle vicende
accidentali e negli erramenti o nei cedimenti della volontà. Tutto ciò inerisce
al concetto d’individualità, di relatività dei valori, di criterio e di sempre
nuova creazione. Questa connessione con l’assoluto può essere un mito, com'era
un mito la dottrina platonica della partecipazione Ia quale conteneva già il
nucleo di una dottrina dell’individualità, almeno nella misura in cui lo
consentiva lo spirito dell’antichità, che ipostatizzava i valori e li
considerava come affari generali dello stato. Anche la dottrina cristiana
dell’auto-disvelamento di uno spirito divino vivente nello spirito finito
costituisce un mito; però essa ha condotto alle più fini e profonde
osservazioni psicologiche, che chiariscono gli enigmi dell'anima molto più
profondamente di quanto non possano farlo le aride teorie psico-genetiche o
aprioristiche con cui si sono sostituiti gli antropomorfismi e i dualismi,
certamente sovente rozzi, di questo modo di pensare. Con mezzi semplici come la
derivazione psicologica dal piacere o da un altro principio analogo, o come
l’estrazione dei caratteri meramente formali, non si può cogliere il miracolo
dei valori, dell’individualità e della relatività, che la storia pone in mille
modi davanti ai nostri occhi?. a. Su tutta questa tematica si veda T. Lit,
Geschichte und Leben, Leipzig, 1918, assai vicino al punto di vista qui
sviluppato. Stimolante e per molti versi affine è pure R. MicLer-FrerenFELS,
Philosophie der Individualitàt, Leipzig, 1921. In questo libro si percorre
energicamente fino in fondo la strada, sovente tentata, della trasformazione
del punto di partenza cartesiano, sostituendo la coscienza con il concetto di
inconscio, e con la correlazione tra soggetto e oggetto nell’universale
corrente cosmica della vita, che lampeggia nell’io singolo, nel singolo momento
della coscienza. Ma in tal modo il concetto di individualità viene dissolto in
quello del semplice io o dell'essere singolo, e quest'ultimo viene poi radicato
nell’universale corrente della vita, al di sopra o al di sotto della coscienza.
Si dissolve così l'intreccio di generale e di particolare, di assoluto e di
relativo, che mi raffiguro; l’individuale diventa immediatamente caos e
turbine, e la valutazione diventa anche qui qualcosa di semplicemente
razionale-generale, che deve poi essere una
razionalizzazione sempre soltanto
parziale e relativa, sempre fittizia, inevitabile per gli scopi della vita.
Nessuno sa da dove questa possa venire, in queste circo stanze, dal momento che
l’autore non vuole vedervi semplicemente delle finzioni utili sotto il profilo
biologico. Analoghe obiezioni continuo a
mantenere contro le idee affini esposte da G. Simmer in Lebensanschauung,
Miinchen und Leipzig, 1918. Qui l’individuale diventa un felice caso di
coincidenza della vita con una forma che la penetra. Anch'egli conosce In tal modo siamo ritornati alla storia. Di
fatto l’uomo che agisce e la storia che parla di lui non possono affatto essere
compresi senza il concetto della relatività dei valori. Per quanto riguarda
l’uomo che agisce basta fare riferimento a Goethe, la cui dottrina
dell'attività sempre nuova e vivente, che scaturisce dall'esigenza quotidiana,
che trova conferma nella sua fecondità ed è, in ultima analisi, fondata su un
impulso divino, rappresenta addirittura il vangelo della relatività dei valori.
Da tutt'altro versante Kierkegaard ha formulato, nelle sue discussioni
estremamente istruttive con Hegel e con il Romanticismo, la stessa idea: L'elemento storico è l’unità del metafisico e
dell’accidentale. Io divento a un tratto consapevole di me stesso, nella mia
necessità e nella mia finitudine accidentale (in quanto io, questo essere
determinato, nato in questa regione e in quest'epoca, sono sotto l’influenza
molteplice di tutte queste mutevoli circostanze). E quest’ultimo aspetto non
può essere trascurato, anzi la vera vita dell'individuo è l’apoteosi quindi
nella storia soltanto le epoche di grazia, cioè le poche isole in cui si
raggiunge tale felice coincidenza. Per me l’individuale come fatticità è
distinto dali’individualità che dev’esserne formata come suo compito: risulta
così possibile vedere un’aspirazione e un travaglio continuo attraverso cui
queste isole si riuniscono a formare dei continenti. Le isole simmeliane sono
soltanto le vette di questo massiccio montuoso che le connette. È facile scorgere quanto la mia idea sia
vicinissima alla concezione di Wilhelm von Humboldt. Ma ja fondazione
gnoseologica e la valutazione relativa all'etica e alla filosofia della storia
sono differenti. Su Humboldt si veda l'opera citata di E. SpranceER e l’analisi
(condotta da un punto di vista antitetico) di J. GoLDFRIEDRICH, Die historische
Ideenlehre in Deutschland, Berlin, 1902, che costituisce del resto la sola
analisi utilizzabile del libro. Per il modo in cui il problema si configura
presso un pensatore evoluzionista che rifiuta l’individualismo storico, si può
vedere Hans DriescH 5, Si svaluta la storia, e si hanno criteri soltanto in
base all'unico elemento che si sviluppa, cioè al sapere, Driesch stesso (nella
Wirklichkeitslehre, Leipzig, 1917, PP327 -34) si riferisce a Schopenhauer e agli
Indiani. Sui diversi concetti di individualità cfr. H. ScHmaLENBACH, Indi
vidualitit und Individualismus,
Kantstudien , XXIV, 1920, pp. 365-88. 5. Hans Driesch (1867-1941),
zoologo, biologo e filosofo tedesco, autore di Der Vitalismus als Geschichte
und als Lehre (1905), della Philosophie des Organischen (1909), della
Ordaungslehre (1912), di Leib und Scele (1916), della Wirklichkeitslehre
(1917), della MerapAysik der Natur e di numerose altre opere, formulò una concezione
vitalistica della realtà in opposizione al punto di vista del
meccanicismo. della finitudine, la quale
non consiste nel fatto che l’io privo di contenuto esca di soppiatto da questa
finitudine per volatizzarsi e svaporare nella sua emigrazione celeste, ma nel
fatto che il divino abita e si trova nelle finitudine . Dal lato dell’uomo
questo divino individualizzato non può essere colto, secondo lo stesso
Kierkegaard, solamente nel salto e nel rischio esistenziale; non si tratta di
una concrezione estetico-panteistica, ma di un prodotto dell’azione e
dell’auto-formazione che si deve rischiare nel pericolo dell'errore e che ci si
deve ogni volta riproporre per acquisire, nella ripetizione, una connessione e
una consistenza *. Interessanti sono anche le considerazioni con cui il
generale von Radowitz® guarda retrospettivamente al suo lavoro, e che si
possono qui citare per le osservazioni che vi aggiunge a commento uno dei
nostri storici più significativi. Radowitz aveva combattuto per la
realizzazione di un sistema di norme religiose e razionali di politica e di
cultura, e nei suoi Neue Gespriche (1851), in genere veramente istruttivi, era
pervenuto a questo risultato: la verità non è assoluta, bensì relativa allo
spazio e al tempo ma, beninteso, rimane
pur sempre verità. Osserva in proposito Meinecke: Tutte queste idee erano onde nella corrente
del movimento generale dell’epoca, che era diretto a frantumare dogmi,
speculazioni e costruzioni astratte, e a sostituire l'elemento di assoluta
verità e guida nella vita con ciò che è storicamente vero e vivente. Così
Radowitz, nell’ultimo stadio del suo sviluppo, si approssimava al moderno
realismo storico *. E alcune pagine prima:
Due a. Cfr. H. Reuter, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken
im Verhéltnis zu Hegels religionsphilosophischem System, Leipzig. Si veda anche
Ranke (Politisches Gespràch cit., pp. 337-39):
Ogni vita reca in sé il proprio ideale: l'impulso intimo della vita
spirituale è il movimento verso l'idea, verso una maggiore eccellenza. Questo
impulso è innato, radicato nella sua origine... Quante comunità spirituali
terrene, tratte alla luce dal genio e dall'energia morale, comprese entro uno
sviluppo inarrestabile, ognuna a proprio modo! Guarda a queste costellazioni
nei loro corsi, nella loro azione reciproca, nei loro sistemi! . 6. Joscph
Maria von Radowitz (1797-1853), uomo politico tedesco, ebbe una parte
importante nella politica prussiana dopo il 1848; nel 1858 fu per alcuni mesi
ministro degli affari esteri, conducendo una politica apertamente
anti-austriaca. 7. F. Meinecge, Radowitz und die deutsche Revolution, Berlin.compiti
strettamente connessi tra loro si ponevano allo spirito e alla volontà di
quell’epoca: ricollegare alla realtà la sfera delle massime ideali, minacciate
di isolamento, e riunire organicamente all’interno di tale realtà le potenze
vitali antiche e nuove, passate e future *. Si tratta della fondamentale teoria
del realismo storico di cui Meinecke
parla qui e in altri passi, e con cui si indica la trasformazione della storia
ideale di tipo hegeliano e della storia organicistica di tipo schellinghiano,
ma anche della storia politica troppo soggettivamente diretta agli scopi del
presente, nel realismo universale della metà del secolo xix. Questo realismo
storico è, almeno in Germania, qualcosa di completamente diverso
dall’equiparazione della storia con le scienze della natura. Esso non si
esaurisce affatto nel forte rilievo dato agli elementi economici e sociologici
nella comprensione storica 0 nell’apprezzamento dell’accidentale,
dell’irrazionale e della personalità. La sua essenza più propria non è altro
che l’idea dominante della relatività dei valori e dell’individuale, sia che si
tratti di individualità particolari o di individualità collettive. Esso risulta
quindi completamente autonomo dal realismo delle scienze naturali; e anche con
la politica realistica di Bismarck ha a che fare soltanto nella misura in cui
questa ha contribuito a rendere diffidenti verso le risoluzioni troppo
idealistiche del reale e dei suoi conflitti in generalità ideali e in
contraddizioni meramente logiche. Per il resto, questo realismo è quanto mai
lontano dalla concezione amorale e cinico-scettica della storia: esso vede
nelle formazioni storiche il divino nelle sue concrezioni e nella sua lotta
contro il caos e la malvagità, come mette in rilievo lo stesso Meinecke.
Certamente, esso è stato finora troppo poco indagato sotto il profilo
teoretico, ed è difficile estrarre i suoi tratti fondamentali più generali
dalla smisurata letteratura storica. Esso è ancora molto insicuro nel cogliere
l’assoluto nel relativo, e perciò non trova o non cerca la via verso una
sintesi culturale contemporanea®. Non si può tuttavia disconoscere a. Sul
relativismo storico si veda G. P. Goocn, History and Historians in the
Nineteenth Century, London, 1913, nonché J. E. E.D. Acton, The 8. che proprio
con la più stretta connessione tra storia politica e storia della cultura alla quale tende tutta la storia moderna il realismo storico si dirige soprattutto
all’idea dell’individualità nel senso qui descritto, e quindi anche all’idea
della relatività dei valori. Risulta quindi chiaro che tutta questa storia non
ha affatto rinunciato all'idea di una connessione interna e di un profondo
fondamento spirituale dello sviluppo, ma anzi scorge almeno in linea di principio nell’individuale un universale e nel relativo
un assoluto, anche se, per il suo timore dinanzi alla filosofia, di rado si
arrischia a determinare in modo più preciso e concreto questo rapporto. Anche
qui si deve osservare che questo relativismo dei valori e questo realismo
appartengono in modo preponderante alla storia e all’etiGerman Schools of
History, English Historical Review , I,
1886, trad. ted. col titolo Die neuere deutsche Geschichtswissenschaft (a cura
di J. Imelmann), Berlin, 1887, nonché E. RorHacger, Einleitung in die
Geisteswissenschaften, Tùbingen, 1920, pp. 130-90 (la letteratura relativa si
trova a pp. 163-64). Rothacker riconosce giustamente in esso uno costituzione
spirituale, un atteggiamento di valore e una dottrina dello sviluppo, senza
però mai giungere a una caratterizzazione vera e propria che muova dal punto
centrale. Un'indagine approfondita
risulta qui impossibile. Basterà accennare a varie osservazioni di Meinecke,
che più di tutti accompagna il pensiero storico con una riflessione su di esso
e che spiega da parte sua il realismo storico come uno specifico atteggiamento
spirituale. Del suo Radowitz ho sopra riferito i punti importanti. Da
Weltbirgertum und Nationalstaat cit. prendo nota dei punti seguenti: carattere
decisivo del concetto di individualità (p. 138); il sorgere dello spirito
moderno e in particolare del passaggio dal pensiero costruttivo al pensiero
empirico, dal pensiero idealistico-speculativo a quello realistico (p. 265); la
relatività dei valori e tuttavia l’insostituibilità dell’individuale (p. 271);
il panteismo ottimistico-realistico, che del sentimento trapassa subito ai
fatti. E ancora: Alla fine si pervenne
alla giusta delimitazione, per cui ideale ed esperienza, oggetto considerato e
soggetto considerante furono distinti in modo da rendere a tutti giustizia: una
delimitazione si può quasi dire nello spirito di Kant, anche se si trattava
di un confine fluido e dileguantesi. Ma questo fluire del particolare nel
generale, dell'esperienza nella speculazione, era fondato sulla natura vera e
propria delle cose. L'elemento principale in tutto questo era che il regno
dell’esperienza veniva liberato, mentre veniva allontanato ulteriormente quello
dei tentativi di interpretazione universale e speculativa (p. 289). Noto poi da Preussen und
Deutschland, Miinchen, 1918: Ciò che
finora sembrava intelligibile soltanto come emanazione di determinati princìpi,
si traca tedesca, che ci hanno insegnato con Kant la separazione tra ciò che è
dato naturalmente e ciò che è imposto idealmente, e con il Romanticismo
l'intreccio organico delle forze storiche in un’individualità di volta in volta
creativa, e che quindi cercano il loro compito nell’unificazione delle due
tendenze. La posizione di primario rilievo attribuita allo stato e alla
politica realistica costituisce perciò soltanto 40 dei suoi tratti
caratteristici, ma non quello decisivo. Anche senza questa particolare
inclinazione il relativismo dei valori è sempre il punto più importante nel
diritto, nell’economia, nella società, nella religione e nell’arte, anche nelle
idee ultime e più generali di razze e di ambiti culturali. Le idee del
Politisches Gesprich di Ranke conservano tutta la loro verità anche se le si
applica non solamente o non prevalentemente allo stato. Invece la storia
delsformò agli occhi di una
considerazione realistica delle cose nel
risultato di necessità momentanee, in adattamenti alla situazione (p. It1);
quel flusso del divenire che lascia scorrere ciò che nello spirito è
saldo non già per farne gioco di onde, ma perché l’eterna e aremporale natura
divina venga riconosciuta nella ricchezza e nella connessione interna delle sue
produzioni semporali (p. 114). Meinecke
scorge molto chiaramente anche la stretta connessione della sintesi culturale
contemporanea con la conoscenza storica dell’individuale passato, dove un
elemento determina l’altro. La fonte
della luce che cade sul passato risiede negli ideali di vita dell'osservatore:
così la storia e la vita, l'io e il mondo confluiscono in modo misteriosamente
vivente, in un gioco di riflessi contrapposti
(p. 104). Il nostro pensiero
storico e il nostro ideale culturale vivono e si muovono nell’intuizione della
molteplicità e dell’accostamento di stati, nazioni, culture libere e forti...
In questo specchio della divinità noi guardiamo ancora oggi, affascinati e
creduli come cent'anni or sono (p. 502).
Certamente, da questa correlazione data insieme con l’idea della relatività dei
valori Meinecke si solleva al pari di
Ranke a una concezione puramente
contemplativa, assoluta, della storia in sé: ma di ciò si parlerà in
seguito. Sull’antitesi del realismo
storico tedesco, che è al tempo stesso mistica, rispetto al pensiero
anglo-francese si veda l’acuto scritto di E. KaurMann, Kritik der neukantischen
Rechtsphilosophie, Tibingen, 1921, p. 92 sgg., dove sono sottolineate anche le
deficienze di realizzazione. Ma anche in quel campo vi sono posizioni diverse.
Cfr. anche il saggio di E.R. Curtius, Das franzòsische Universitàtsleben, Frankfurter Zeitung , 22 maggio 1918
(edizione serale), il quale scrive: è
interessante che questi giovani Francesi del 1918 vedano nella Germania di
Goethe, del Romanticismo e dell’età successiva un modello per la ‘ giusta
sintesi tra speculazione ed esperienza” .
l’Europa occidentale vive piuttosto nella prosecuzione dell’Illuminismo,
il quale tendeva a sviluppare il dover essere dall’elemento naturale
e quindi a rifarsi a fini astrattamente universali, mentre il suo
realismo si faceva valere nella considerazione dei condizionamenti naturali e
sociologici e l’individuale veniva per lo più nascosto o assunto in maniera
inconsapevole nell'inserimento dei propri ideali in quei valori universali naturali . Di qui è nata una vasta polemica:
ciò che agli uni appare insieme cinicamente brutale e mistico, agli altri
appare come superficialità e ipocrisia. Ma in verità il realismo privo di
pregiudizi risulta ovunque molto diffuso. Ciò appare chiaramente
dall’eccellente libro di G. P. Gooch *
il quale si distingue per il limpido panorama dei risultati conseguiti
dai diversi studiosi anche se nella
storiografia inglese e francese emerge innegabilmente una preponderanza dei
valori nazionali, di partito o
naturali rispetto all’universale
relatività dei valori. E non di rado ciò accade anche da noi. È evidente che
questa relatività storica dei valori presenta una certa analogia con la
dottrina della relatività fisica, che oggi prevale in tutto il mondo
nell’impostazione problematica così fortemente potenziata da Einstein. Ciò non
avviene a caso, né è privo di fondamento oggettivo, anche se la relatività dei
valori si è formata dall’epoca del Romanticismo e del realismo storico senza
alcuna relazione con la seconda. Il fondaa. G. P. GoocH rimprovera per esempio
a Sismondi? la mancanza di
relatività (op. cit., p. 137), e a
Carlyle che egli non si rese mai conto che il dovere principale di uno storico
non è né l'apologia né l’invettiva, ma l’interpretazione dei processi
complessivi e degli ideali in conflitto, che hanno costituito la varietà delle
vita umana (p. 339). Questo è il
realismo storico; certamente, nella formula interpretativa che spesso ricorre
in Gooch vi sono problemi filosofici in cui egli non si addentra. b. Anche in
me mancava qualsiasi relazione del genere, e me ne sono reso conto solamente a
fatto compiuto. Altri l'hanno rilevato prima di me: A.C. Bouquet (Is
Christianity the Final Religion?, London, p. 241) mi 9. Jean-Charles Simonde de
Sismondi (1773-1842), storico ed economista svizzero, autore della Histoire des
républiques italiennes au Moyen dge (1807-1818), dei Nosveaux principes
d'économie politique, dell'Histoire des Frangais e di numerosi saggi raccolti negli
Etwdes sur les constitutions des peuples libres (1836) e negli Erudes sur
l’économie politigue (1837), nonché di varie altre opere. mento interno
dell’incontro risiede nel fatto che la relatività fisica è la forma
d’individualità decisiva sul terreno della scienza fisica, cioè è la
particolarità della posizione da cui si deve ogni volta stabilire e calcolare
il sistema di riferimento. Ciò accadeva già nel sistema galileiano-newtoniano,
ma qui la validità universale del principio d’inerzia, considerato come una
specie di assoluta verità di ragione, poteva nascondere le conseguenze della
relatività della posizione. Se, come avviene in Einstein, l'inerzia viene
dissolta e si afferma una velocità crescente dei movimenti, la posizione stessa
viene immessa da ogni parte in un movimento reciproco e mutevole, diventando
così del tutto singolare. Ma anche questa relatività non è un relativismo
illimitato, bensì nella misura in cui il
sistema di riferimento viene calcolato da ogni posizione ed è possibile
determinare matematicamente, nonostante la sua mobilità, la relazione con gli
altri oggetti permane l’assoluto nel
relativo, il carattere di sistema e di riferimento della realtà naturale, a cui
contribuisce anche la costanza della velocità maggiore di tutte, la velocità
della luce. Ma anche se non fosse possibile conservare quest’ultimo principio,
si potrebbe certamente stabilire attraverso il calcolo il suo mutamento e
costruire in tal modo la possibilità di una sistematica, diversa soltanto da
una posizione all’altra. In tutto il resto le due dottrine della relatività
sono certo fondamentalmente diverse. Ma il punto principale del loro accordo è
abbastanza importante: l’incontro del relativo e dell’assoluto
nell’individuale qui come fatto, lì come
compito. Alla posizione particolare corrisponde l’individualità della
situazione storica; al sistema di riferimento universale, diverso di caso in
caso, corrisponde lo sviluppo interno o la connessione del divenire storico,
che dev'essere costruita di nuovo a partire da ogni momento culturale e da ogni
nuovo ideale. Questo secondo punto, cioè l’immagine dello sviluppo
storidefinisce una specie di Einstein del mondo religioso . Cfr. anche A.
Dierericn, Die neue Front, Berlin, 1922, p. 168 sgg. In entrambi i casi si
tratta del problema del criterio, su cui ha attirato la mia attenzione, subito
dopo la conferenza, uno dei più eminenti fisici. Invece il raffronto tra
Einstein e Spengler, che si trova spesso, è del tutto insenx sato. Einstein non
è un scettico! co-universale che corrisponde alla sintesi culturale contempora-
nea, rappresenta quindi il secondo tema centrale della filosofia materiale
della storia, già presente da sempre nel primo tema, ma che adesso richiede una
considerazione a parte. Per chi proviene da Kant, Fichte, Schiller, Nietzsche
il primo punto è da tempo in posizione di rilievo; per chi proviene da Schel-
ling, Hegel, Ranke*, Comte e Spencer lo è invece il secondo. Ad esso sarà
dedicata un’analisi particolare nel prossimo capito- lo, dove avremo a che fare
con un'elaborazione letteraria mol- to più ricca del tema, e tratteremo in modo
più approfondito le teorie relative. a. Ranke sottolinea però entrambi gli
aspetti: Ciò che importa è che si
rimanga sempre fedeli a se stessi, collegando il nuovo con il vecchio, la
resistenza con il procedere in avanti, incamminandosi sicuramente e
grandiosamente sul cammino dello sviluppo (Reflexionen iiber die Theorie [ossia
sul sistema dei valori assoluti della ragione], in Werke, volumi XLIX-L, p.
237). Ma Ranke tende a privilegiare lo sviluppo ri- spetto alla propria e
contemporanea creazione sintetica. La forza vera, storicamente fondata, è per
lui identica con l'energia morale.
Potrai menzionarmi poche guerre importanti per le quali non si possa
dimo- strare che la vera energia morale ha riportato la vittoria (op. cit., p.- 327). Certamente, che cosa
voleva dire energia vera ? Le due cita-
zioni contengono entrambi i temi di cui qui si tratta, e i loro sfondi devono
essere presi in esame separatamente. Quando assolutisti morali e di altro
genere designano Ranke come adoratore
del successo , que- sto non è del tutto sbagliato. Ma ciò dipende dal prevalere
del concetto di sviluppo che si può riscontrare in lui, in Hegel e in molti
alui. Ma anche questo non è propriamente corretto: infatti Ranke conosceva la
correlazione del concetto di sviluppo con il concetto di valore, e se non ha
determinato con precisione quest'ultimo, lo ha sempre coscientemente
presupposto. Tale correlazione costituisce il problema vero e proprio; e uno
degli scopi principali del mio libro è di chiarirla e di trarre le neces- sarie
conseguenze pratiche da questo chiarimento. Certamente soltanto il secondo
volume conterrà le conseguenze pratiche, vale a dire l’atteg- giamento che ne
risulta nei confronti della storia; ma già il quarto capi- tolo di questo primo
volume le prepara. MEINECKE nasce a Salzwedel, presso Magdeburgo. Si trasferì a
Berlino, dove Meinecke compe gli studi liceali e (eccetto per due semestri
passati a Bonn) anche quelli universitari, seguendo tra gli altri l’ultimo
corso di Droysen. Dopo aver conseguito il dottorato a Berlino con una
dissertazione sull’autenticità di un documento della storia tedesca entra
nell'amministrazione degli archivi prussiani. Alla morte di Sybel che guida i suoi primi passi di storico Meinecke assume la direzione della
Historische Zeitschrift, destinata a diventare, sotto la sua guida, il maggiore
organo della storiografia tedesca. Risale a questi anni la preparazione della
monumentale biografia di un generale delle guerre napoleoniche, Das Leben des
Generalfeldmarschall Hermann von Boyen (Stuttgart, 1896-99). Nel 1896 ottiene
l’abilitazione a Berlino, con il primo volume di questa biografia, e nel 1901
viene chiamato all’Universi- tà di Strasburgo, da dove passerà nel 1906 a
Friburgo e nel 1914 a Berlino. Erede della tradizione storiografica prussiana
dell'Ottocento, ammira- tore di Bismarck e della sua costruzione politica,
Meinecke ha ben presto concentrato il proprio interesse sulla resistenza al
dominio napoleo- nico e sul processo di formazione della Germania come stato
nazionale. Rientrano in questo filone di ricerca il volume Des Zeitalter der
deu- tschen Erhebung (Bielefeld-Leipzig) e i saggi raccolti in Von Stein zu
Bismarck (Berlin, 1909), nonché il successivo volume Radowitz und die deutsche
Revolution (Berlin, 1913) e numerosi altri studi sui rap- porti tra Prussia e
Germania. Ma esso trova la sua maggiore espressione nella prima grande opera di
Meinecke, Weltbiirgertum und National stat (Miùnchen-Berlin, 1908; tr. it.
Firenze, 1930), dedicata all’esa- me del processo di traduzione in termini
politici dell'ideale nazionale tedesco, e del contemporaneo processo di
allargamento dell’atteggiamento politico prussiano che fa suo quell’ideale c
gli offre una base concreta di realizzazione. La nazione culturale tedesca e la
nazione territoria- le prussiana appaiono qui i termini dialettici di
una relazione in virtù della quale la Germania perviene a costituirsi come stato
nazionale. Il punto di arrivo di tale processo viene indicato nell'opera di
Bismarck, di cui Meinecke fornisce una giustificazione storico-politica,
riconoscen- do in essa la confluenza di uno sforzo storico secolare. Nel corso
di quest’analisi Meinecke enuncia una concezione dello stato che appare fondata
sull’attribuzione ad esso del carattere dell’individualità: in quan- to
individuo, lo stato possiede il diritto all'auto-determinazione, e il suo
compito è quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la permanenza e
l’accrescimento della sua potenza. Il distacco dal cosmopo- litismo
illuministico appare quindi la premessa indispensabile per il riconoscimento
del valore autonomo dello stato, del suo diritto ad affer- marsi e a farsi
valere nei confronti degli altri stati. Questa prospettiva, al tempo stesso
politica e filosofica, è stata posta in crisi dalla guerra e dalla sconfitta
tedesca. Se già negli anni di Strasburgo, e soprattutto in quelli di Friburgo,
Meinecke aveva corretto in senso liberale il giovanile nazionalismo
conservatore di stampo prussia- no, dopo il 1918 egli appoggia la repubblica di
Weimar, pronunciandosi in favore della democrazia. Ciò lo spinge sulle tracce di Weber e di Troeltsch, suo
collega a Berlino ad assumere un
atteggiamento critico verso la soluzione bismarckiana del problema nazionale
tedesco e a ricono- scerne le insufficienze. Fin dai saggi raccolti nel volume
Nach der Revolution (Minchen-Berlin, 1919) egli intraprende così un'opera di
revisione delle prospettive storiografiche tradizionali, da lui stesso condi-
vise negli anni precedenti, la quale si tradurrà, sul piano politico, in una
costante opposizione al nazismo. Questo diverso orientamento di pensie- ro si
rivela chiaramente nella seconda grande opera di Meinekce, Die Idee der
Staatsrison in der neueren Geschichte (Minchen-Berlin, 1924; tr. it. Firenze,
1942), che ha il suo motivo conduttore nell’antitesi tra krdtos ed éthos, tra
potenza e spirito. Quest’antitesi si presenta, agli occhi di Meinecke, come
costitutiva del mondo della politica; e nel prevalere della potenza sullo
spirito quale si è avuto appunto nella
storia tedesca da Bismarck in poi egli
addita il demone intrinseco alla politica. Lo stato è nel medesimo tempo
potenza e spirito; ma proprio per questo motivo non deve smarrire la propria
essenza spirituale, riducendosi a mera potenza. In quanto condizionata da una
situazione oggettiva, e quindi inserita in una serie di rapporti causali,
l’esistenza dello stato sorge su una base naturale; ma lo stato è pure
orientato verso la realizzazione di valori, e perciò si eleva a una vita
spirituale. La ragion di stato (che dà il titolo all'opera) è il ponte gettato
tra la potenza e lo spirito allo scopo di risolvere la loro antinomia e di
garantire la permanenza dello spirito nell’ambito della politica. Ma tale
antinomia non è altro che un caso specifico di un contrasto più generale,
quello tra il fondamento naturale della storia e il compito, ad essa inerente,
di realizzare valori culturali. In questi stessi anni, attraverso la
collaborazione con Troeltsch e lo studio dell'idea della ragion di stato ,
Meinecke approda anch'egli alla teoria dei valori. Fin dal saggio
Personlichkeit und geschichiliche Welt (1918), egli aveva rivendicato
l'autonomia della personalità, definendola in base al rapporto tra necessità e
libertà, poi ripreso per qualificare la potenza e lo spirito nella loro
antitesi; in seguito, in Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus (1923)
e in Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924), l’affermazione
dell'autonomia dei valori rispetto alle serie causali che costituiscono il
processo storico lo conduce a doverne giustificare l’assolutezza, messa in
questione dalle conseguenze relativistiche dello storicismo. Dopo essersi
opposto all'avvento del nazismo, Meinecke è costretto al silenzio dopo il 1933,
e nel ’35 deve lasciare Ia direzione della
Historische Zeitschrift . Il problema dello storicismo e del suo
rapporto con i valori diventa, in questo periodo, l'oggetto principale della
riflessione e dell'analisi storica meineckiana. Convinto che lo storicismo non
conduca necessariamente al relativismo, ma possa coesistere con la fede in
valori assoluti secondo l'insegnamento
che egli trova in Goethe e in Ranke
Meinecke traccia, in Die Entstehung des Historismus (Minchen-Berlin,
1936; tr. it. Firenze, 1954), un ampio quadro dello sviluppo dello storicismo
dalle sue origini settecentesche fino alla cultura romantica. Al suo inizio, lo
storicismo si è affermato in antitesi al giusnaturalismo e al suo presupposto
di una ragione umana immutabile, depositaria di un sistema di verità eterne:
l'atteggiamento giusnaturalistico appare così il grande antagonista dello
storicismo. In seguito lo storicismo ha fatto valere, nel pensiero tedesco
della fine del secolo xvitt, una diversa forma di considerazione della realtà,
fondata su due princìpi il principio
dell’individualità di ogni fenomeno storico e il principio dello sviluppo. Ma
questa concezione individualizzante ed evolutiva del processo storico non
riveste senz'altro un significato relativistico; e proprio la lezione di Goethe
e di Ranke ci dimostra che lo storicismo non esclude la possibili tà di
considerare ogni epoca, ogni momento della storia in riferimento a valori
assoluti. In vari saggi, poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn
der Geschichte (Leipzig, 1939; tr. it. Napoli) e negli Aphorismen und Skizzen
zur Geschichte (Leipzig, 1942, 1953; tr. it. Napoli, 1962), Meinecke ha
ribadito richiamandosi soprattutto a
Ranke la presenza dell’assoluto nella
storia, e al tempo stesso la sua irriducibilità al processo storico. Ma in tale
maniera il rapporto tra immanenza e trascendenza dei valori viene a
configurarsi come un mistero, la cui soluzione può essere fornita non già in
termini razionali, ma soltanto dal ricorso alla fede. Dopo la fine della guerra
e il crollo del nazismo Meinecke ha ripreso la critica dell’edificio politico
bismarckiano, cercando in Die deutsche
Katastrophe (Wiesbaden, 1946; tr. it. Firenze, 1948) una spiegazione del fenomeno nazista che ne
individuasse le radici profonde nella storia tedesca. Questa critica lo ha pure
condotto a moderare l’entusiastico richiamo a Ranke delle opere precedenti, e a
rivalutare invece l’importanza di Burckhardt. In seguito ebbe gran parte nella
costituzione della Freie Universitit di Berlino-Ovest, di cui fu il primo
rettore. Morì a Berlino-Dahlem il 6 febbraio 1954, più che novantenne. Gli
scritti di Meinecke sono stati raccolti nei Werke, pubblicati per iniziativa
del Meinecke-Institut della Freie Universitit di Berlino, ad opera dell'editore
Oldenbourg di Minchen, della Toeche-Mittler Verlag di Darmstadt e della Koehler
Verlag di Stuttgart. Il primo volume (a cura di W. Hofer, Miinchen, 1957)
contiene Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte; il secondo (a cura
di G. Kotowski, Darmstadt, 1958) racchiude le Politische Schriften und Reden
dal 1910 al 1951, ordinate cronologicamente; il terzo (a cura di C. Hinrichs,
Miinchen, 1959) comprende Die Entstehung des Historismus; il quarto (a cura di
E. Kessel, Stuttgart, 1959) raccoglie, sotto il titolo Zur Theorie und
Philosophie der Geschichte, i principali saggi metodologici e filosofici, tra
cui Persòonlichkeit und geschichiliche Welt, Kausalititen und Werte in der
Geschichte, Geschichte und Gegenwart, gli scritti minori sulla storia dello
storiciimo e in particolare su Goethe, Schiller, Schleiermacher, Ranke,
Dilthey, Troeltsch, Spengler ecc.; il quinto (a cura di H. Herzfeld, Miinchen,
1962) contiene Weltbirgertum und Nationalstaat; il sesto (a cura di L. Dehio e
P. Classen, Stuttgart, 1962) racchiude un'ampia scelta di lettere, col titolo
Ausgewdhlter Briefwechsel; il settimo (a cura di E. Kessel, Miinchen, 1968)
raccoglie, sotto il titolo Zur Geschichte der Geschichtsschreibung, numerosi
saggi su Ranke, Burckhardt, Droysen, Sybel, Treitschke, Lehmann, Delbriick,
Baumgarten, Schmoller, Lamprecht, Dove, Below, Neumann ecc. Rimangono al di
fuori di questa raccolta diversi volumi, in particolare la monografia su Boyen,
il volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung, il volume Radowitz und die
deutsche Revolution, e altri già menzionati nella nota biografica. Ad essi si
devono aggiungere î due libri di memorie Er/ebtes 1862-1901, Leipzig, 1941, e
Strassburg-FreiburgBerlin, 1901-1919, Stuttgart, 1949, poi raccolti in unico
volume col titolo Erlebtes, Stuttgart, 1964 (tr. it. Napoli, 1971). Dell’ampia
letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Meinecke segnaliamo
gli studi seguenti: F. CHÙiasop, Uno storico tedesco contemporaneo: Federico
Meinecke, Nuova rivista storica , XI,
1927, pp. 592-603. E. Seeserc, Zur Entstehung des Historismus: Gedanken zu
Friedrich Meineckes jiingstem Werk,
Historische Zeitschrift , CLVII, 1937, pp. 241-66. W. Horer, Geschichtsschreibung
und Weltanschauung: Betrachtungen zum Werk Friedrich Meineckes, Miinchen, 1950.
W. Goetz, Friedrich Meinecke:
Leben und Persònlichkeit, Historische
Zeitschrift (l’intero fascicolo è dedicato a Meinecke, ma contiene anche saggi
di altro argomento). L. Denio, Friedrich Meinecke: der Historiker in der Krise, Berlin, 1953.
H. Hottpack, Friedrich Meinecke: das Machiproblem in der neuesten deutschen
Geschichte, Hochland. F. CuÙason,
Meineke, Rivista storica italiana ,
LXVII, 1955, pp. 272-88. P. J. Wotrson, Friedrich Meinecke, Journal of the History of Ideas , XIV, 1956,
pp. 511-25. R. W. SterLIino, Ethics in a World of Power (The Political Ideas of
Friedrich Meinecke), Princeton, 1958. A. Neeri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e Meinecke, Milano,
1959, parte II. S. Pistone, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale
tedesco, Torino, 1969. F. Tessitore, Friedrich Meinecke storico delle idee,
Firenze, 1969. Un'ampia bibliografia degli scritti di e su Meinecke è fornita
da A. M. Reinotp nel fascicolo speciale della
Historische Zeitschrift dedicato
a Meinecke; successive indicazioni si possono trovare nei volumi sopra
menzionati di S. Pistone e F. TESssITORE. Quando ho accettato di svolgere il
tema della conferenza odierna, ho subito chiarito a me stesso che le
applicazioni pedagogiche (che ci si attende forse in primo luogo da questa
conferenza) potevano esaurirsi in breve tempo, mentre i princìpi e le
convinzioni generali da cui esse devono scaturire si affacciano su problemi che
oggi toccano non soltanto lo storico, ma ogni uomo che aspiri alla personalità.
Parlare di questi problemi e prima ancora confrontarmi con essi, mi stimolava
tanto più fortemente quanto più le tempeste di quest'epoca, nel mezzo della
lotta e della preoccupazione senza respiro a cui ci costringono, hanno
ridestato in noi tutti una nuova prepotente nostalgia per il raccoglimento interiore
e per l’auto-riflessione. La questione principale sarà quindi la seguente: che
cosa significa il mondo storico per la formazione della personalità? Dalla
risposta che ne seguirà si potranno trarre subito, e facilmente, le conseguenze
per lo spirito e il metodo dell’insegnamento della storia. Ma che cos'è dobbiamo chiederci anzitutto la personalità, che cosa vuole e deve essere?
Il detto di Goethe, che la personalità è la felicità suprema dei figli della
terra, risuona * Die Bedeutung der geschichtlichen Welt und des
Geschichtsunterrichts fiir die Bildung der Einzelpersonlichkeit, Geschichtliche Abende im Zentralinstitut fir
Erzichung und Unterricht , 2, Berlin, E.S. Mittler und Sohn, 1918, 2* ed. col
titolo Personlichkeit und geschichtliche Welt, 1922, poi raccolto in Staat und
Persònlichkeit, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1933, pp. 1-27, e in
Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibung und
Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 211-228,
infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di
E. Kesscl), Stuttgart, K. F. Koehler Verlag, 1959, pp. 30-60 (traduzione di
Sandro Barbera e Pietro Rossi). all'orecchio come il suono di campana di una
chiesa che ci dà, nelle dispersive cure quotidiane, una promessa quieta e
regolarmente ripetuta, una promessa che è però, al tempo stesso, una richiesta.
E invero essa promette e richiede da noi una certa costanza interiore in mezzo
a tutte le cose esterne che ci assediano e che ci pongono in uno stato di
attività o di compartecipazione, ossia un limite saldo che possiamo e dobbiamo
custodire tra l’interno e l’esterno, e che deve non già chiudere ermeticamente
l’interno, ma regolare e guidare il suo rapporto con il mondo esterno, un
santuario interiore con vie di entrata e di uscita, egualmente adatto per
riposare tranquillamente e raccogliere le forze in noi stessi come per
scaricare attivamente tali forze verso l’esterno; in breve, un mondo autonomo e
tuttavia organicamente connesso con il grande mondo, singolare e
insostituibile, e tuttavia soltanto configurazione particolare di forze
universali della vita, libero in sé e tuttavia dipendente dalla totalità, che
abbraccia contemporaneamente, al di là di tutto questo, l'elemento più reale e
vivente che abbiamo e che nessuna critica della conoscenza può sottrarci, vale
a dire l’io consapevole di se stesso. Questo elemento più vitale di ogni altro
ci è dato dalla natura come un dono miracoloso. Un miracolo altrettanto grande,
ma che richiede un’elaborazione attiva, è quello di costruire in base ad esso
la personalità e di elevarci in tal modo al di sopra della semplice natura. Si
comprende che la personalità dev'essere la felicità suprema dei figli della
terra soltanto quando si diventa consapevoli di questo duplice miracolo. Mentre
la natura costringe tutta la vita di altro genere che essa reca alla luce nei
ferrei vincoli della determinatezza, all’uomo essa lascia la possibilità di
sciogliere questi vincoli, di costruire in sé un mondo della libertà, di curare
in esso il bene supremo della libertà
peculiarità inimitabile senza
però perdere la connessione con tutto il resto della vita. Non si può essere
felici nell’isolamento completo, ma non si può esserlo neppure nella completa
fusione con il mondo esterno. Per diventarlo si deve sentire nella libertà il
legame e la partecipazione alla totalità della vita e sentire di nuovo in ogni
legame e in ogni comunanza la libertà e l’unicità della propria vita. In questo
rapporto della personalità con il mondo è prefigurata al tempo stesso la forma
originaria di ogni buona e vitale costituzione dello stato e della società. Il
singolo e la totalità, l'io e l’ambiente
nella loro azione reciproca, nella loro auto-conservazione reciproca
all’interno di una connessione inseparabile scorre anche la vita storica.
Sorgono così due problemi: che cosa significa la personalità per il mondo
storico? e che cosa significa il mondo storico per la formazione della
personalità? Viene subito in luce che il primo problema è stato trattato molto
più di frequente, e in modo manifestamente più interessato del secondo. Forse
che in ciò si manifesta un certo sentimento di fondo che la prima questione sia
più importante della seconda? Bisognerebbe ammettere che la totalità ha maggior
valore del singolo e che si tratta anzitutto di indagare questa totalità del
mondo storico nei fattori in essa operanti? Non c’è dubbio che in questo
privilegiamento del primo problema si palesano sia lo spirito storico del
secolo x1x sia l’allargamento della vita storica complessiva che ha avuto luogo
nel corso di esso. Agli inizi e fino al culmine della filosofia idealistica si
muoveva ancora dai bisogni della personalità; in Kant e in Fichte era quindi
dominante il problema della libertà etica. Ma già in Hegel il processo storico
complessivo, che travolge gli individui
lo vogliano o no nella sua
corrente, diventava il tema predominante. Con lo sviluppo della moderna scienza
storica e con l’importanza crescente delle masse si giunse quindi alla grossa
disputa tra tendenza collettivistica e tendenza individualistica. Il
collettivismo e in intimo accordo con
esso il positivismo e la nuova scienza
sociologica presero le mosse, nella loro impostazione dei problemi,
dall’importanza predominante delle collettività rispetto agli individui. La
tendenza individualistica della scienza storica e la filosofia ad essa prossima
si sentivano, nei confronti di quelle tendenze, più in difesa che all'attacco,
e si sforzavano al tempo stesso coscienziosamente di riconoscere il nucleo di
legittimità presente nelle tesi dei collettivisti. In tal modo sulla nostra
immagine della storia è stata distesa una robusta rete di nozioni
collettivistiche e, di fronte alla pressione esercitata dalle grandi forze
della vita storica complessiva sul singolo individuo, sempre più fievole è
diventata la questione del senso e dello scopo del mondo storico per la
formazione delle personalità libere e singolari. Quest'ultima minacciava di
fatto di perdere importanza e di recedere da scopo in sé a mezzo subordinato
nei confronti del corso complessivo. Dovremo ancora occuparci della situazione
che ne risultava per il rapporto della moderna personalità con il mondo
storico. Una cosa è però certa, cioè che le due questioni dell'importanza della
personalità per la storia e dell’importanza della storia per la personalità
sono connesse tra loro, e che la risposta all'una pregiudica sempre la risposta
all’altra. Coloro che sostenevano l’importanza della personalità per la storia
lo facevano proprio perché sentivano profondamente l’importanza del mondo
storico per la loro propria vita personale. Essi nascondevano con pudore il
loro interesse etico-pratico mascherandolo sotto un problema di pura
conoscenza. Ora noi torniamo a districarlo chiarendoci le conseguenze del
collettivismo e dell’individualismo per il nostro problema. Il collettivismo
nella sua forma più netta vede nell’individuo solamente un punto di
intersezione e di passaggio delle varie forze sociali. Le grandi istituzioni, i
costumi e le opinioni diventati
stabili dei gruppi sociali e delle
comunità dei popoli trascinano e attraversano l’individuo inerte, che dalla
natura ha ricevuto il carattere di un individuo da gregge. Pertanto progresso e
sviluppo verso nuove istituzioni e nuove intuizioni non sono l’opera di singoli
uomini, ma l’espressione di mutati rapporti di vita esterni. Gli individui, che
sembrano rappresentare € realizzare questi rinnovamenti, sono soltanto gli
esponenti di rapporti e di tendenze più generali. Il mondo storico, così come
viene praticamente vissuto nella sua pienezza di istituzioni tramandate e di
forze vitali, ha quindi sì un’importanza enorme e addirittura predominante per
l’individualità, ma non lascia spazio né materia alla costruzione di una libera
e singolare personalità da parte dell'individuo. Ciò che appare sotto forma di
personalità libera e incomparabile viene costruito piuttosto dall'ambiente, e
tutti i materiali dell’edificio derivano da questo. La composizione di tali
elementi all’interno del singolo individuo può essere singolare e individuale,
ma soltanto come la composizione dell'immagine multicolore nel caleidoscopio.
Inoltre il mondo storico, così come può essere vissuto teoricamente
nell'indagine e nell’intuizione del passato, darà alla testa pensante la seria
e rigorosa nozione fondamentale che l’uomo è fatto di materia comune e che
l’abitudine è la sua nutrice. Tuttavia un deprimente determinismo di tal genere
non è rimasto l’ultima parola delle teorie positivistiche e collettivistiche.
Piuttosto, proprio dal loro centro risuona il richiamo al progresso e
all’ascesa, alla liberazione dell'umanità dalla gravosa pressione del passato.
Ma la sua speranza si collega in tal modo non alle forze etico-individuali, ma
a quelle etico-sociali. Esse credono alla presenza e alla crescita graduale di
una ragione collettiva, di una disposizione generale dell'umanità o di certe razze dell'umanità a sollevarsi dallo stato di pura naturalità,
attraverso lo stadio di semi-civiltà, fino a uno stato di popoli compiutamente
civili. E questo processo di incivilimento raggiunge poi anche il singolo
individuo, lo arricchisce e lo libera in qualche misura, crea il moderno uomo
civile e il moderno soggettivismo ma
sempre soltanto in virtù di un’organizzazione generale che sta al di sotto di
esso e lo spinge in avanti. Anche ogni etica pratica che si connetta a questo
modo di vedere procede in maniera caratteristica dall’affermazione di
possibilità generali, di diritti universali, di libertà e di miglioramenti
della situazione sociale, economica e politica che devono mettere l’individuo
in grado di partecipare, secondo la misura delle sue doti, a tutti i beni
culturali elaborati dalla collettività. Questo è il processo ideale della
moderna democrazia occidentale, la quale riposa ampiamente su presupposti
positivistici e collettivistici. Ma con questo tipo di costruzione teoretica e
pratica del mondo storico dobbiamo ora
chiederci si può sviluppare la piena
felicità di ciò che Goethe intendeva parlando di personalità? Ciò è possibile
soltanto se essa dimentica i tetri presupposti di questa costruzione, se essa
si sente non soltanto come prodotto di uno sviluppo generale, come compartecipe
dei suoi frutti dei dividendi da esso in
certa misura versati ma anche come
portatrice di uno sviluppo individuale del tutto specifico, come detentrice di
un grado elevato di libera auto-determinazione, come proprietaria di una fonte
nascosta di vita spontanea. Un positivismo intelligente si spinge anche fino ad
ammettere che una fede siffatta è utile per suscitare nell’individuo il massimo
di forza e di felicità, perché l'illusione di essere liberi ha lo stesso
effetto di esserlo veramente. Quest'illusione può poi aggirarsi nella luce
crepuscolare del dubbio e della fede, come ama fare il moderno uomo di cultura,
spiritualmente differenziato e soggettivisticamente eccitabile. Su tale via si
possono ottenere molteplici sensazioni e impressioni sul rapporto tra io e
mondo, un raffinato auto-godimento, anche uno slancio ostinato verso uno stato
di superuomo con prove svariate e perfino eroiche: spesso incontriamo queste
disposizioni nei profili dei nostri giovani in uniforme, e la nostra poesia e
la nostra arte più recenti ne sono piene. Ma una quieta e profonda chiarezza
sul rapporto del mondo storico con la personalità, un’armonica sicurezza della
personalità, un vittorioso superamento del dubbio paralizzante e distruttivo
sul valore della vita storica non possono essere ottenuti in questo modo. Per
sciogliere tale dubbio occorre partire da un’altra concezione della
personalità proprio da quella che
sviluppavo in apertura. Essa non si fonda soltanto sul fatto che ci è gradita e
forse ci aiuta nella lotta della vita, ma sul fatto che viene richiesta sia da
un’auto-osservazione immediata sia da una considerazione impregiudicata della
vita storica. L’auto-osservazione ci insegna che la ferrea legge causale, entro
cui vediamo incatenata senza eccezioni la vita storica, ha tuttavia la sua
radice ultima solamente nella profondità dello spirito umano, e che da questa
stessa profondità scaturiscono anche altri bisogni, altrettanto costrittivi,
che non permettono di considerare il mondo storico soltanto come una sezione
dalla generale connessione causale della natura. Lo spirito umano crea, ed è
costretto a creare in base a un impulso
spontaneo e a una disposizione originaria
un mondo di valori spirituali ed etici i cui destini sono sì sottoposti
nella vita alla legge causale e al mutare delle cose, ma la cui esîstenza in sé
rivela nell'uomo una sfera superiore alla connessione naturale e causale.
Costruire questa sfera non vuol soltanto dire creare la cultura e la storia, ma
vuol dire anche creare la personalità; poiché alla personalità spetta
conservare e continuare i valori della cultura una volta creati questa è la sua funzione storica. Tali valori
culturali non sono solamente, come vuole il positivismo, puri prodotti causali
di rapporti e di forze generali
certamente, questi vi cooperano potentemente e devono essere
assolutamente riconosciuti ma sono affidati,
per mantenere la loro vitalità ed essere incrementati, al lavoro comune di
innumerevoli individui singoli. Non è soltanto la grande personalità dominante,
l’eroe nel senso di Carlyle, che fa la storia e produce la cultura; ogni
singolo uomo in cui si è destata una vita spirituale, liberata dal vincolo
naturale, vi coopera e può contribuire ad essa con qualcosa di originale e di
proprio. In tutte le nuove formazioni della vita storica la ricerca deve
sempre, quando vi riesce, indagare più a fondo la loro genesi; deve sentire il
respiro della vita individuale e personale
uomini che non erano soddisfatti di sopportare ancora pazientemente il
passato, di essere mera impronta dell'ambiente e di rimanere un numero nella
massa oscura, ma che aspiravano inquieti, con nostalgia e desiderio, ad
acquistare per sé un frammento di libertà e il dominio sull’ambiente, di
imprimere nell'ambiente un frammento del proprio io, creando il bene come il
male ma diventando con ciò fermento della storia. Certamente, si deve subito
aggiungere che ogni elemento di novità che la personalità singola può imporre
alla vita storica si trova nella più stretta continuità e connessione causale
con l’antico, con ciò che è tramandato, e ne è a ogni passo condizionato e
delimitato. La libertà di movimento e il carattere specifico della personalità
possono sì apparire talmente piccoli che si capisce che si sia voluto
eliminarli dalla storia considerata come fattore essenziale; ma sono abbastanza
grandi per poter comprendere il miracolo per cui lo spirito si è sollevato al
di là dei limiti della natura, nonostante ogni legame con essa, e ha potuto
produrre un mondo storico. Soltanto a questo punto possiamo dare una risposta
all’altro aspetto, oggi dominante, del duplice problema e cercare di chiarire
l’importanza del mondo storico per la costruzione della personalità. Fin dal
principio esso assume ora, per l’individuo, colori più chiari e gioiosi che in
una concezione rigorosamente positivistica del mondo storico. E gli fa cenno
dicendo: entra in me, io non ti soffocherò se ti farai coraggio e se vorrai
guardarmi nel cuore. Io non sono per te un ferreo destino che non ti lascia
scelta alcuna nel pensiero e nell'azione, ma sono un compito alla cui soluzione
sei chiamato a collaborare. Devi servirmi, ma non come schiavo, bensì come uomo
libero; poiché solamente in quanto innumerevoli altri prima di te l'hanno
fatto, sono diventato ciò che sono e sono in grado di offrirti la mano per
liberarti dall’oppressione della legge naturale. Guardami inoltre nella
pienezza delle mie configurazioni, nessuna delle quali è eguale all’altra e che
pure sono tessute tutte insieme da me. Da ciò trai la speranza che anche il tuo
elemento più proprio € più peculiare sarà conservato in me, anche se costituirà
soltanto un piccolo filo nel mio manto regale. E perciò ti dico: diventa
libero, diventa te stesso. Il mondo storico pone quindi alla singola
personalità una richiesta generale e una richiesta individuale. Essa deve
compiere qualcosa di universalmente valido, impiegando tutto ciò che di
soltanto istintivo è in essa presente come materia e mezzo per scopi etici e
spirituali ed erigendo così in sé il dominio di ciò che è ideale. Anche questi
scopi ideali compaiono anzitutto come qualcosa di universale, imposti alla
personalità dall’esterno. Tutti i doveri e i compiti la famiglia, il lavoro, la società, la
patria, lo stato e la cultura rientrano
in questo ambito. In essi si nasce e non si può sceglierli a piacimento, perché
fin dall’inizio ci assalgono imperiosamente. Se dalla personalità non si
richiedesse altro se non che, opprimendo i suoi impulsi egoistici, essa si
elevasse in virtù
dell’auto-determinazione etica nel senso kantiano a organo degli interessi universali e agisse
soltanto secondo massime di una legislazione universale, non si sarebbe ancora
fatto abbastanza. Si otterrebbe soltanto una libertà formale, non ancora
riempita di contenuto; poiché il contenuto di questo agire eticamente libero ci
sarebbe fornito dal mondo esterno. E all’osservatore critico gli uomini che
volessero accontentarsi di questa specie di libertà non potrebbero ancora
apparire come personalità compiute, ma soltanto come inservienti volontari di
scopi oggettivi forse molto grandi, ma pur sempre formati dall’esterno. Inoltre
questi scopi storici sfocerebbero facilmente in una rigidità priva di vita, e
diventerebbero simili a quel carro degli dèi indiano il quale stritola le masse
dei fedeli che si buttano davanti ad esso. In questa maniera i nostri nemici
hanno rappresentato, durante la guerra, il rapporto del Tedesco con il suo
stato tramandato e ci hanno attribuito un cieco, fanatico servilismo verso lo
stato, che per fortuna è lungi da noi ma che
comunque lo Friedrich Meinecke intorno si consideri può essere ammesso come possibilità estrema
di certi germi di sviluppo presenti in noi. La personalità stessa e il mondo
storico che la circonda soffrirebbero di questa specie di rapporto, perché
dalla personalità non si potrebbe trarre fuori tutto quanto c’è in essa, tutto
ciò che potrebbe servire e contribuire al mondo storico. La dottrina
dell’imperativo categorico questa legge
fondamentale di formazione della personalità
dev'essere quindi integrata, così come la legge del Vecchio Testamento
ha trovato il suo compimento nel Nuovo Testamento. Diventa te stesso dice questa legge del Nuovo Testamento alla
personalità. Coltiva la tua peculiarità non con l’amore animale, senza capacità
di scelta, per tutto ciò che ti spinge verso la peculiarità e vorrebbe
affermarsi contro il mondo esterno, poiché ciò conduce soltanto alla
soggettività vana o all’ostinata eccentricità. Riconosci invece la legge
organica in base a cui le tue forze individuali e i beni vitali tratti dal tuo
ambiente possono connettersi in un mondo unitario, in sé concluso; cerca un
principio direttivo, un’idea della tua vita in te stesso che possa valere
solamente per te e per nessun altro allo stesso modo, perché a ogni passo
decisivo nella vita devi interrogare solo te stesso e la tua coscienza in
merito al tuo dovere. Questa formazione in noi di un’idea individuale della
vita permette anche come lo permetteva
già l'imperativo categorico la lotta
contro gli impulsi inferiori, sensibili, non già per reprimerli bensì per
ordinarli ed educarli, per dare anche al bisogno presente in noi, indifferente
e gregario, una nota particolare, un valore consono con la totalità della vita.
Nel concetto di individualità non è possibile infatti conservare la divisione
netta tra spirito e materia. La dote naturale della natura sensibile-spirituale
complessiva è e rimane il terreno che alimenta la personalità; e soltanto in
base all’armonia, alla reciproca compenetrazione e illuminazione dei sensi e
dell'anima cresce la sua peculiarità, la sua bellezza e la sua forza. È
un’acquisi-zione della sensibilità moderna che essa non pretenda più di
dividere questa connessione data e vivente con un atto di violenta ascesi dello
spirito nei riguardi del mondo sensibile. In tal modo le svolte storiche del
secolo xtx penetrano nella formazione del moderno ideale di personalità. Il
carattere rigoristico 5 dell’etica kantiana tradisce ancora la sua origine
dall’ascesi cristiana. Ma contemporaneamente già nasceva, con Rousseau e
Goethe, un nuovo sentimento della vita la
coscienza dell’unità ultima di natura e spirito, dello stretto e misterioso
intreccio di forze sensibili e forze spirituali, dell’accresciuta pienezza
vitale dell’uomo, che si immerge gioioso in questo sentimento di unità. In
stretta connessione con tutto ciò Herder, Goethe, Wilhelm von Humboldt e i
Romantici scoprivano il valore insostituibile dell'individuale, di ciò che è
cresciuto in modo originale e singolare nella storia e nella vita. Lo spirito
realistico del secolo x1x fece uso pratico di queste nuove sensazioni e
conoscenze in quanto, distruggendo dottrine e pregiudizi, riconobbe il diritto
alla propria esperienza e osservazione della vita, colse e sfruttò ovunque ciò
che c’è di attivo, di naturalmente dato e di potente, e cercò così anche di
dispiegare in pieno la forza dell’individuale e della personalità. Ne è
derivata certamente con alcune riserve
che dobbiamo ancora avanzare una più
robusta ondata di sangue vitale per il nostro ideale di personalità. La situazione
storica che si presenta di volta in volta ha quindi un’importanza enorme per la
formazione della personalità. La disposizione e l’impulso a diventare
personalità è universalmente umano e opera a tutti i livelli dello sviluppo,
anche a quelli più bassi, sebbene la pressione del mondo esterno e della
tradizione permetta che su questi si dispieghino soltanto pochi germi,
particolarmente forti. Inoltre la specificità dell’ambiente storico agisce in
modo da destare in primo luogo le disposizioni che hanno una corrispondenza con
esso e da lasciar cadere altre disposizioni, non circondate dal favore della
costellazione. Intere pleiadi di pittori o di dotti, di teste politiche o di
nature religiose possono prosperare stupendamente in un'epoca, mentre l’epoca
successiva ricopre nuovamente quelle strade già aperte alla personalità. Un
Goethe potrebbe diventare ancor oggi Goethe? Appartiene alla tragicità della
vita storica che la vocazione di un’epoca
si potrebbe dire la sua predestinazione
tocchi sempre soltanto alcuni lasciando invece altri, che in epoca
diversa avrebbero potuto attingere una grandezza umana, nell'esercito
sonnolento della massa. Ma un'autentica natura gocthiana metterebbe in moto i
suoi clementi e mediterebbe la propria ascesa anche in epoca sfavorevole.
Perciò anche le masse non possono mai essere considerate nella storia come
masse del tutto morte. Esse sono piene di personalità potenziali che, se anche
non possono risplendere, gettano tuttavia un barlume di luce sul loro ambiente.
Anche i guerrieri dell'esercito sonnolento sognano la vittoria e la gloria. Buona e cattiva stagione per la personalità
si alternano quindi nel corso della storia. I tempi più favorevoli al suo
sviluppo sono quelli dell’albeggiare tra vecchie e nuove epoche, quando forme
vitali, idee e istituzioni da tempo dominanti si rilassano e si trasformano,
perdendo la loro forza vincolante. Allora il bisogno sociale, politico e
spirituale procede incerto alla ricerca di nuove vie; ma presto, come in
un'alta marea, spumeggia il coraggio di un pensiero e di un agire nuovo, fresco
e perfino rivoluzionario, e brulicano d’un tratto teste vitali e originali.
Così avvenne quando la Grecia passò dall’epoca arcaica a quella delle guerre
persiane: le rigide costituzioni aristocratiche delle sue città-stato furono
turbate dal nuovo fermento della democrazia, e contemporaneamente si destò il
dubbio verso l’antica fede negli dèi. La stessa cosa accadde nel mondo
romano-germanico alle soglie tra Medioevo ed età moderna, anzitutto nella
vivace Italia del Rinascimento, ma anche sul pesante e più duro terreno della
Germania agli inizi dell’Umanesimo e della Riforma. Sarebbe però errato cercare
in queste epoche l’esigenza e la capacità di produrre nuova vita personale
esclusivamente presso i rinnovatori e le loro nuove idee riformatrici. Si
potrebbe piuttosto azzardare la tesi che, con quanta maggiore forza e
personalità irrompe la nuova vita, tanto più forza vitale dev’esserci ancora in
ciò che è vecchio. Le nuove idee non scaturiscono mai da situazioni totalmente
marce e senili. La Chiesa romana non era marcia e senile quando Lutero se ne
distaccò. Proprio ciò che vi era ancora di vitale nel Cristianesimo medievale
gli ha dato un infinito travaglio, e Lutero non si è mai completamente
sottratto al suo dominio. Tutte le grandi personalità riformatrici sono state uomini
di transizione, la cui interiorità era campo di battaglia tra due epoche e il cui mondo ideale di penetrante ricerca
mostra spesso una continuità sorprendente con la tradizione dalia quale si sono
liberati. Di regola il rinnovatore respinge consapevolmente soltanto una parte
di ciò che è vecchio, e non ne abbandona mai completamente il terreno. Ma i
conflitti che ne derivano sono adatti, come nessun altro, ad agitare l’assopita
profondità dell’uomo, spingendolo a raccogliere saldamente e a organizzare gli
elementi della sua natura per poter affrontare la lotta con il passato e il
mondo esterno e costruire così la
personalità. Allora anche nature di media forza e di medio talento possono
innalzarsi al di sopra di se stesse. Ulrico di Hutten' non era affatto un
pensatore profondo né un carattere armonico, e probabilmente in tempi normali
non sarebbe andato oltre una certa varietà problematica di impieghi del suo
focoso impulso vitale; nella sua nuova missione crebbe nel volgere di pochi
anni, quasi di colpo, fino a diventare una personalità orgogliosa, libera e
sicura di sé. Con un grande senso delle condizioni di vita della personalità
Conrad Ferdinand Meyer? ha contrapposto allo Hutten morente il giovane Loyola?,
uno dei massimi maestri della storia universale per quanto riguarda la
costruzione della propria personalità. Anche il vecchio mondo può infatti
mostrare, in queste epoche rivoluzionarie, di che cosa sia ancora capace, e
gettare contro l'epoca nuova potenti caratteri rappresentativi. Quando un secolo
fa la Prussia muoveva i primi passi decisivi da stato organizzato in base a
ceti a stato borghese-nazionale e tutta una serie di importanti personalità si
sollevava storicamente all'altezza di questo compito, era al tempo stesso uno
spettacolo magnifico vedere lo Junker Marwitz* impegnarsi in una lotta
cavalleresca, da antico gentiluomo della Marca, come in 1. Ulrico di Hutten,
umanista tedesco, autore dell’Ars versificandi (1511), del Mordus gallicus
(1519) e di vari altri scritti, fu coinvolto nella vita politica c nelle
polemiche letterarie della Germania del primo Cinquecento; fu tra i maggiori
collaboratori della raccolta di Epistelae obscurorum virorum (1517). Allo
scoppio della Riforma prese posizione contro la Chiesa romana, cd ebbe un'aspra
polemica con Erasmo. 2. Conrad Ferdinand Meyer, poeta c romanziere svizzero,
autore di Balladen (1867), di Romanzen und Bilder (1870), del poema Muttens
letzte Tage e di un altro pocma su Engelberg, nonché di numerose altre poesie e
di romanzi, soprattutto di argomento rinascimentale, come /iirg Jenatsch (1876)
c Der Heilige (1880). Mcinccke si riferisce qui, ovviamente, al pocma su
Hutten. Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, una delle più cminenti
figure della Controriforma cattolica. 4. Friedrich August Ludwig von der
Marwitz (1777-1837), generale dell'esercito prussiano dal 1817, vagheggiò la
restaurazione della vecchia società organizzata in base ai ceti : le sue opere
sono apparse postume nel 1852. un’armatura sferragliante, contro l’epoca nuova.
Anche il contenuto vitale della vecchia epoca può essere spesso toccato dalle
nuove idee, nonostante la sua resistenza esterna, e presentarsi quindi in modo
particolarmente ricco d’interiorità e raffinato. I colti amici di Federico
Guglielmo IV, accesi di entusiasmo per l’autorità di diritto divino e per il
vecchio stato patrimoniale, vedevano nel soggettivismo e nel panteismo dei
moderni un peccato mortale; tuttavia non sempre potevano, alla luce di una
sottile indagine psicologica, assolversi l’un l’altro da questo peccato. Per
comprendere tale gioco riflesso di idee la semplice storia delle idee non è
sufficiente, perché essa non può non cedere alla tentazione di vedere
l’individuale come qualcosa di soltanto ideale. Solamente la domanda relativa
all’effetto che questi intrecci di idee hanno avuto sulla formazione della
personalità conduce nel cuore dell’uomo. Ogni epoca produce anche i suoi
particolari tipi di personalità. Nei periodi di ampio e inarrestato
dispiegamento delle forze nazionali, quando le lotte di liberazione e di
unificazione gloriosamente condotte a termine, la fine dei disordini cittadini,
la prosperità economica elevano il sentimento di sé, risvegliano la fiducia in
sé e nell’epoca, stimolano il senso imprenditoriale, la personalità si sviluppa
in modo diverso che nei tempi di lotta e di transizione. L'Atene di Pericle, la
Roma augustea, l’Inghilterra nell’epoca di Elisabetta e l'Olanda nel suo secolo
d’oro hanno vissuto periodi del genere. Allora recedono le tensioni interne e
le lotte psicologiche, in cui il singolo cerca se stesso seguendo la sua legge;
si appianano le rughe dei volti e gli uomini ci appaiono più armonici e
pacifici, più ricchi e rigogliosi. Allora spiriti grandi, medi e piccoli
possono dispiegarsi l’uno accanto all’altro in una pienezza brulicante e recare
alla luce tutto quanto è in essi presente. Un Sofocle e un Orazio, uno
Shakespeare e un Rembrandt crebbero in queste condizioni. Anche i caratteri
politici possono, in queste epoche che scorrono tranquille o il che è assai simile alla testa di piccoli stati non scossi
fortemente dalle lotte per la potenza, perdere qualcosa della rigida
unilateralità della loro 5. Federico Gugliclmo IV (1795-1861), re di Prussia
dal 1840 alla morte, amante dell'antichità e delle arti. volontà, e apparire
più rilassati, più inclini al compromesso e più disposti al godimento e a una
cultura più varia. Pericle non ha sviluppato la sua poliedrica personalità
durante le guerre persiane e neppure in quelle peloponnesiache, ma negli
opulenti decenni intermedi. E le repubbliche cittadine italiane e tedesche, i
piccoli e medi stati tedeschi, la Svizzera, hanno prodotto non pochi uomini di
stato forniti di una certa forza mite, di costante avvedutezza e di equilibrio
spirituale dal borgomastro strasburghese
Jakob Sturm ai moderni uomini di stato del Baden all’epoca della fondazione
dell'Impero. Non si deve certo dimenticare che un'epoca di lotta e di
transizione non è mai esclusivamente tale, c che non vi sono neppure epoche e
situazioni di pura fioritura e raccolta. Ogni epoca storica ha sopra di sé
diversi strati atmosferici disposti l’uno sull’altro, tempestosi o sereni, e i
contemporanei cercano ora nell’uno ora nell’altro la collocazione della loro
personalità. Spesso però i caratteri più grandi e più ricchi possono muoversi
contemporaneamente con eguale energia in tutti questi strati. Occorre ancora
una volta pensare al Rinascimento italiano, in cui si vedono sovrapposti
immediatamente gli strati di una forza che erompe rigogliosamente, di una contemplazione
dimentica del mondo, di conflitti appassionati di idee e di tenza. Nella sua
qualità di uomo di stato in esilio Machiavelli racconta come passava il tempo
nel suo villaggio giocando per alcune ore al giorno con gente del popolo, per
poi ritornare nel suo santuario e alzare con venerazione lo sguardo alle opere
degli antichi. Contemporaneamente, però, scriveva il libro sul Principe, che
conteneva una forza la quale avrebbe mosso il mondo. In questa doppia vita di
passione politica e di godimento spirituale egli ebbe un precursore
nell’imperatore Federico II”, certamente la personalità più colta del Medioevo.
Sturm, giurista e uomo politico tedesco, fu uno dei capi della Riforma
protestante in Germania. Avviato alla carricra ecclesiastica c poi a quella
diplomatica, studiò diritto a Liegi c a Porigi; rientrato nel 1524 a
Strasburgo, fece parte del Senato c quindi, a partire dal 1526, del Consiglio
dei Tredici; in seguito fu varie volte presidente del Senato. Convertitosi alla
dottrina luterana, prese parte alle controversie religiose dell'epoca, e svolse
un'intensa attività diplomatica, rappresentando Strasburgo alla prima dicta di
Spira e in varie altre occasioni. 7. Federico Il di Svevia, re di Germania c,
dal 1220, imperatore del Sacro Romano Impero, viene qui ricordato per i suoi
interessi culturali, che fecero Anche questi viveva in un secolo intimamente
duplice, in cui c'era la compenetrazione e l'accostamento di vecchie e nuove
idee, il rigoglioso dispiegamento della vita e lo scontro più violento; in
tutte queste sfere Federico II si muoveva con eguale virtuosismo, artista nella
vita e uomo di volontà a un tempo, e di durezza diamantina nel nucleo del suo
essere. Emerge qui la personalità, per alcuni aspetti comparabile, di Federico
il Grande, che dal suo secolo prese sia gli ideali filantropici e i gusti
spirituali della filosofia illuministica sia il lavoro di formazione dello
stato e della potenza che disprezza gli uomini, mescolando eroicamente queste
contraddizioni nelle prove imposte dal destino alla sua personalità. Attraverso
l’irradiarsi della sua natura e delle sue azioni egli diventò uno degli
elementi di formazione delle personali tà della nostra epoca classica. Nulla
agisce in modo così immediato sul destarsi della personalità nell’uomo come il
modello di una personalità estranea. Tutta la vecchia concezione della storia e
la vecchia etica della storia non conoscevano consiglio migliore che quello di
fare come ha detto Machiavelli come l’arciere che dirige il suo arco più in
alto del bersaglio, e di scegliersi a modelli della propria condotta di vita i
maggiori eroi, i grandi eroi irraggiungibili del passato. Da allora noi
sappiamo che con la semplice imitazione di tratti estranei non si è fatto ancor
nulla, e che non basta l’imitazione da sola a mediare le influenze di una
personalità sull’altra. Tutti i materiali e gli stimoli del mondo storico, che
l’individuo trae da esso per formare la sua personalità, equivalgono agli
elementi del terreno che la pianta estrae scegliendo secondo il bisogno della
propria legge di formazione organica e respingendo ciò che non le si confà.
Federico il Grande aveva tratti quanto mai estranei, addirittura antipatici, a
Goethe, Schiller, Kant e Fichte: non si appassionavano per lui, anzi lo
rifiutavano in vari modi, ma lo rivivevano. Non potevano fare a meno del
miracolo che aveva reso possibile un uomo del genere eroe e filosofo al tempo stesso nella loro epoca, che ritenevano della sua
corte palermitana uno dei maggiori centri della vita intellettuale della prima
metà del secolo xt. Fu egli stesso uomo esperto di matematica e di scienza
naturale; le sue liriche ne fanno uno dei primi pocti italiani, esponente della
scuola siciliana. Alla sua iniziativa si deve il codice. troppo colta e
raffinata. Sicché Federico il Grande non ha solamente rafforzato la loro
coscienza nazionale e l'orgoglio di essere Tedeschi, ma ha anche
consolidato cosa ancor più necessaria
per loro la fede che la loro vocazione e
il loro dovere consisteva nel rompere i limiti della convenzione, i pregiudizi
dell’epoca, e diventare uomini seguendo la propria legge. Anche dai tempi in
cui vissero essi e le altre personalità della loro generazione attinsero la
linfa di cui avevano bisogno, secondo le leggi della più individuale affinità
elettiva. Essi vissero successivamente un’epoca di dispiegamento, un’epoca di
lotta e poi ancora una pacifica età di dispiegamento nei giorni dell’ancien
régime al tramonto, della Rivoluzione francese e di Napoleone, e poi della
Restaurazione una molteplicità
d’impressioni di incomparabile vantaggio non soltanto per coloro che da esse
furono chiamati ad agire e ad affrontare la vita, ma anche per coloro che
vollero accoglierle in sé soltanto con anima silenziosa e indipendenza
interiore. Dapprima si vinse con uno sviluppo interiore la pressione esercitata
sulla vita personale dalle invecchiate articolazioni di ceto della società e
dalla tutela da parte dello stato assistenziale; si edificò in sé un autonomo
mondo spirituale, così saldamente fondato sull'essenza dello spirito umano da
poter affrontare tutte le scosse e i rivolgimenti successivi delle situazioni
storiche senza suscitare alcun dubbio sulla giustizia e sulla fecondità dei
suoi princìpi fondamentali. La vita interiore dei nostri grandi poeti e
pensatori procedette regolare e potente senza mai deviare, pur in mezzo a tutte
le esperienze dell’epoca, dalla convinzione che lo spirito si costruisce il
corpo ed è in grado di riedificare secondo il proprio bisogno qualsiasi forma
distrutta. Perciò, non appena questo compito si presentò allo stato prussiano
dopo il 1806,.le forze erano immediatamente disponibili. Ora essi non avevano
altro pensiero se non quello di risollevare lo stato caduto in basso
risvegliando nella nazione una nuova vita personale. Non già che si
immaginassero di poter creare delle personalità ad opera dello stato: ciò che
si voleva creare era soltanto la possibilità, per l'individuo, di diventare una
personalità, liberandolo dalle catene di un mondo storico invecchiato, offrendogli
nuove forme di azione e confidando per il resto nell’alito dello spirito. E per
quanto la distruzione delle vecchie forme di stato e di società e la
costruzione di quelle nuove non giungessero allora neppure a metà cammino,
questa fiducia conservò tuttavia la sua legittimità. Anche nell’ibrido mondo
dell’età della Restaurazione, che da alcuni fu sentito e vissuto come prospero
dispiegamento, come bonaccia alcionesca , da altri come indegna vittoria delle
forze del passato sulle forze del futuro, le personalità eruppero trovando in
essa sia il sereno silenzio di cui gli uni avevano bisogno, sia la lotta
turbinosa di idee che per gli altri costituiva l’aria vitale. Fin dopo la metà
del secolo x1x l’idealismo e l’individualismo classico hanno così fecondato,
attraverso l’influenza immediata delle loro idee originali, lo sviluppo
dell’individuo a personalità. Anche la rappresentazione dell’essenza della
personalità in generale, di cui si è detto all’inizio, si è sviluppata su
questo terreno. Ma prima essa dovette essere riconquistata perché come abbiamo visto correva il pericolo di venir svalutata da un
nuovo modo di pensare dannoso alla personalità. Questa crisi non era però altro
che l’aspetto parziale di una svolta di tutta la nostra vita storica, che da
una considerazione puramente teoretica ci conduce sempre più ai problemi
pratici del nostro tempo e ci ripropone una duplice questione: che cosa
significa il mondo odierno, così com’è storicamente divenuto, e che cosa
significa il mondo storico del passato, così come esso ci si rappresenta oggi,
per la formazione della personalità moderna? Queste due questioni sono ancora
una volta strettamente connesse tra loro. Paragoniamo i vantaggi e gli
svantaggi della nostra situazione storica odierna con quella in cui Goethe e
Wilhelm von Humboldt poterono formarsi come personalità. Anzitutto si mostrano
alcuni parallelismi. Come quell’epoca dopo la pace di Hubertusburg, così anche
noi abbiamo vissuto un'epoca di indisturbato e rigoglioso dispiegamento delle
forze nazionali. Ciò che per quell’epoca fu la personalità di Federico il
Grande, per noi è stato con un'influenza
ancor più 8. È la pace che conclude, nel febbraio 1763, la guerra dei Sctte
anni, assicurando fino allo scoppio della Rivoluzione francese pur con alcune interruzioni un lungo periodo di pace in Europa.
costrittiva e più ampia la personalità
di Bismarck. Come quell’epoca fu risvegliata dalla sua pace dalla catastrofe
mondiale delle guerre rivoluzionarie, così noi siamo stati risvegliati dalla
catastrofe della guerra mondiale. Alcune somiglianze più sottili potranno un
giorno svelarsi, sulla base di questi fatti comparabili, allo sguardo dello
storico. Oggi ancora non riusciamo a vederle; abbiamo l’impressione che
prevalgano le differenze interne. Molti degli impedimenti esterni che allora
ostacolavano lo sviluppo della vita individuale sono scomparsi soprattutto le barriere sociali e i legami
della società organizzata in ceti dell’ancien régime. Il nobile non opprime più
il borghese, i contadini sono da un secolo liberi dal giogo. Nella vita statale
ed economica l’impulso produttivo dell’individuo, fecondato dagli impulsi di
una grande e potente esistenza nazionale, può agire in modo incomparabilmente
più libero e più ricco. Anche il costume e la condotta della vita si sono da
allora allentati in modo che ogni forte bisogno personale può manifestarsi
liberamente. Le possibilità esterne di dispiegamento della personalità sembrano
quindi essersi moltiplicate, mentre l’ambiente che avrebbe potuto ostacolarlo
sembra diventato più pieghevole e flessibile. Abbiamo messo un individualismo
di massa al posto dell'individualismo della nostra epoca classica, limitato a
piccoli strati e a piccole cerchie; e nelle masse del quarto stato, da poco
comparse sulla scena, si è oggi largamente diffuso l’impulso a prender parte a
tutti i beni culturali secondo la misura della propria possibilità e del
proprio desiderio. E tuttavia, nonostante tutte queste facilitazioni e
moltiplicazioni di possibilità, la nostra epoca non può competere con la
grandezza dell’opera di quella, che pur in mezzo a tutti gli ostacoli esterni e
all’angustia della vita nazionale e sociale era in grado di costruire
l’autonomo mondo spirituale della personalità. Forse che, in presenza di
un’accresciuta fecondità esterna, siamo diventati interiormente più piccoli e
infecondi? Può essere; ma solamente le generazioni successive potranno
giudicare in modo definitivo. Possiamo tuttavia forse dire, acuendo lo sguardo,
che il compito di diventare personalità è per l’uomo moderno non già più
facile, ma più difficile; che lo sviluppo moderno non soltanto ha liberato la
strada da vecchi ostacoli, ma ha ammassato ostacoli nuovi e forse maggiori.
L’ideale classico di umanità e di personalità fu creato con la risoluzione di
ignorare l’ambiente storicamente divenuto con i suoi ostacoli e con la sua
meschinità, di collocarsi al di sopra di esso, di metterlo in disparte per
potersi accingere indisturbati alla costruzione del mondo interiore e della
libera personalità. Questa risoluzione fu allora possibile perché nell’ancien
régime al tramonto lo stato e l’individuo potevano ignorarsi reciprocamente e
fare a meno l’uno dell’altro, perché non avevano ancora nulla di essenziale da
offrirsi. Altrettanto poco sviluppati erano lo scambio e l’azione reciproca tra
il concreto mondo economico-sociale e il mondo spirituale. Questa distanza
dalla vita e dalla realtà, in cui da noi si dispiegò all’inizio la libera
personalità propria dell’ideale di umanità, non poteva però durare. La personalità
stessa si spinse ben presto nel calore e nella pienezza della vita che a sua
volta aveva bisogno di essa, la invocava e le poneva compiti grandi e fecondi
nello stato, nella società e nell’economia. Questa prossimità vitale tra
personalità e ambiente concreto, acquisita nella prima metà del secolo x1x e da
allora ancor sempre accresciuta, rappresentava per la personalità come sempre avviene tanto un guadagno quanto una perdita. Essa
acquistò in fini creativi e in impulso creativo, sviluppando un gran numero di
forze e di capacità prima sonnolenti, che non ci si sarebbe mai aspettato dai
Tedeschi; perdette in indipendenza interiore, in auto-riflessione e in
auto-determinazione interiore e quindi, in ultima analisi, anche in intima
forza spontanea e rigenerativa. Essa correva ora, di fatto, il rischio di
diventare mera funzione al servizio dei nuovi compiti sui quali si gettava, di
cessare di essere scopo autonomo e di diventare mezzo per altri scopi, certo
assai grandi ma pur sempre impersonali. Tutte le istituzioni che spingono gli
uomini a raccogliersi in una massa
pensava il giovane Wilhelm von Humboldt
sono oggi più dannose che mai per la formazione degli individui, e
l’uomo non dovrebbe essere sacrificato al cittadino. Humboldt non poteva
immaginare fino a qual punto il secolo xrx avrebbe riunito gli uomini in masse
e li avrebbe trasformati in cittadini. E non soltanto la vita politica borghese
contribuiva a raccogliere gli uomini in masse, ma anche le diverse professioni
cominciavano a impegnare la personalità con forza maggiore che nell’epoca
classica. La divisione del lavoro agevolava il lavoro collettivo e in apparenza
anche il lavoro individuale, ma danneggiava le radici della loro forza. Essa
costringeva l'individuo a scomporsi in se stesso, a restringere la sfera della
pura vita personale il rifugio
dell'anima in sé per soddisfare le
accresciute pretese del mondo esterno. Ne sono nate tensioni spesso assai feconde
per la formazione del carattere, perché si voleva ora bastare insieme a se
stessi e al compito di vita oggettivo, e nel complesso la vita tedesca è
risultata più ricca di tipi di personalità professionalmente differenziati. Il
moderno imprenditore, il moderno politico di professione, e inoltre i vecchi
tipi del funzionario amministrativo, dell’ufficiale, del dotto tedesco adattati ai nuovi tempi presentano nel loro insieme un quadro
incomparabilmente più ricco di varie forme di personalità oggi possibili che
non quello, per esempio, della società nobiliare dei ceti superiori che compare
nel Wilhelm Meister di Goethe. Ma ora è anche facile che il tipico sopraffaccia
il singolare e l’individuale. È chiaro che queste difficoltà, con cui deve
combattere la formazione della personalità moderna, sono prodotte da essa in
virtù del suo proprio lavoro storico, Costruendo a poco a poco le singole sfere
della cultura moderna, consacrando loro il proprio sangue vitale, accrescendo
il loro contenuto e la loro importanza, essa fece sì che queste diverse sfere
ottenessero per sé anche individualità e personalità, che entrassero in lotta
tra loro per il proprio potere, per la propria auto-affermazione. Procedendo
dalla comunità spirituale-mondana ancora originariamente unificata nel corpus
christianum del Medioevo, vennero dapprima a separarsi tra loro una sfera
statuale e una sfera ecclesiastica; ma anche la scienza, l’arte, l'economia, le
classi sociali ecc. si costruirono a poco a poco sedi proprie, e tale processo
si è moltiplicato nel secolo x1x. Queste diverse sfere culturali crescono come gli atolli corallini in virtù del lavoro di milioni di personalità
grandi e piccole; ciò che prima era vivente opera personale diventa ben presto
opera rigida, inflessibile, convenzionale, costringendo sotto il suo dominio la
personalità che per la prima volta si presenta al posto di lavoro. Proprio una
considerazione unilaterale di questo processo fu quella che produsse la
dottrina positivistica della personalità. AI contrario, noi dicevamo che le
diverse sfere culturali e i beni culturali che in esse hanno la loro sede
possono conservarsi e accrescersi soltanto attraverso l’opera delle
personalità. È chiaro però che l’epoca più favorevole per il pieno, libero,
vivente manifestarsi della personalità nel mondo culturale è appunto quella in
cui quest’ultima viene costruita per la prima volta e non è ancora edificata
troppo compiutamente. Dov'è possibile scoprire un nuovo territorio, là
compaiono in gran numero i grandi costruttori di cultura. Ma la nostra
situazione è simile a quella di una città vecchia e densamente abitata che
esige sì, anche nelle sue parti antiche, parecchie trasformazioni e muove
costruzioni, ma con compromessi continui, travagliati, che paralizzano il
libero volo dei progetti. Oggi il mondo storico è costruito tutto intorno alla
personalità questo è il nostro destino.
Guai a te se sei un nipote! Oppure c'è una possibilità di liberarsi dalla
pressione del passato, dalle opera operata, e di dispiegare di nuovo
liberamente l’ala della personalità? Forse che ci affanniamo troppo intorno a questo
passato, che sappiamo troppo di esso e lo rispettiamo con eccessivo timore? è
forse il cosiddetto storicismo a tormentarci e a renderci deboli? Ne deriva la
questione di ciò che significa per la formazione della personalità la
conoscenza, l'intuizione del mondo storico passato e l’immergersi in esso con
amore forse con troppo amore di cui ci vantiamo come di una delle grandi
conquiste del secolo xrx. È noto che Nietzsche cominciò la sua carriera di
sovvertitore dei valori con un attacco appassionato allo storicismo, quando nel
1873-74 scrisse la dissertazione sull’utilità e sullo svantaggio dello studio
della storia’. La moderna formazione storica
egli asseriva indebolisce gli
istinti creativi della personalità perché la forza plastica riposa sul
dimenticare, sul poter dormire. La sazietà della storia condurrebbe a una fede
da epigoni, rende l'individuo spaurito: la storia è sopportata soltanto dalle
forti personalità, mentre dissolve completamente quelle deboli, poiché essa
confonde il sentimento dove questo non è abbastanza 9g. Meinecke si riferisce
qui alla dissertazione Vom Nutzen und Nachteil der Historie fiir das Leben, che
costituisce la prima delle Unscitgemasse Betrachtungen, Leipzig. forte da
commisurare a sé il passato. I Greci sono stati un popolo eminentemente
astorico. Nietzsche avrebbe anche potuto fare riferimento alle generazioni
della nostra epoca classica, che hanno prodotto la maggiore ricchezza in fatto
di personalità. Anch’esse erano in alto grado astoriche; o almeno esse cominciarono
come tali. Come tennero il più possibile distanti lo stato e l’ambiente sociale
concreto, così esse trascurarono, anche nella formazione dei loro ideali, il
passato storico. Esse fecero eccezione solamente per la Grecità, elevandola a
proprio canone ma non per la Grecità
storica, bensì per la Grecità plasmata secondo i loro propri ideali, la quale
diventò così un’ipostasi di questi ideali. Agiva qui un potente istinto
plastico che non si sottometteva al passato, ma che sottometteva a sé il
passato trasformandolo in leva della propria volontà di vita. Ma miracolosamente in questa lotta tra la personalità e il
passato accadde che anche il passato acquistò forza, la sua ombra si riempì di
sangue vitale, acquistò forma e linguaggio e cominciò a dare testimonianza di
sé. Dal movimento di pensiero dell’idealismo tedesco e dal Romanticismo, che ad
esso si collega, sono infatti scaturite la nuova concezione della storia e la
nuova ricerca storica culminata in Ranke. Questo movimento di pensiero era
nello stesso tempo strettamente connesso con quelle grandi svolte che
condussero le personalità più in profondo nella vita concreta dello stato e
della società. La contemplazione storica e Ja creazione politico-sociale del
secolo xIx non devono essere separate nella loro origine, e si sono pure
continuamente fecondate tra loro. Potenti e istintivi bisogni fondamentali
spinsero la personalità dapprima ad acquistare la propria libertà e autonomia
in una distanza vitale priva di storia e di stato, per inserire in seguito nel
mondo storico, con l’azione e il pensiero, la forza così acquisita. Nietzsche
ha completamente trascurato il fatto che lo storicismo, il quale uccide a suo parere
gli istinti creativi, era in ultima analisi scaturito proprio da istinti
creativi quali quelli che egli esigeva. Si è a buon diritto obiettato a
Nietzsche, anche sul piano personale, che lui, il critico amaro della cultura
storica, ha poi tratto la sua forza da una cultura storica di inconsueta
finezza. Una delle conoscenze più sottili che la cultura storica potesse
fornire era appunto la capacità di apprezzare anche la forza e il significato
degli istinti non storici nella vita storica. Nessuno che abbia spinto lo
sguardo fin dentro i suoi abissi potrà negarlo. E neppure si potranno negare i
pericoli dello storicismo che Nietzsche ha scoperto. Si può tuttavia porre in
dubbio la possibilità di liberarsi dalla cultura storica una volta che la si è
accolta in sé. Si può definire un paradiso il mondo degli istinti creativi non
gravati dal sapere storico; ma una volta che si sia mangiata la mela della
conoscenza storica, non possiamo più far ritorno in questo paradiso. Come nel
volgersi della personalità verso la vita produttiva, anche qui c'è una
necessità storica che ha prodotto dal suo seno gli irrobustimenti e gli
indebolimenti della nostra vita. Noi veniamo indeboliti dalla cultura storica
quando ci lasciamo ridurre a puri suoi recipienti, quando ci lasciamo
sopraffare da un’erudizione massiccia che però non riusciamo a penetrare del tutto
spiritualmente. Noi veniamo ancora seriamente indeboliti nella nostra intima
forza produttiva quando non osiamo più svincolarci dalle dande della tradizione
storica e dei modelli storici o quando ci immaginiamo di poter padroneggiare
spiritualmente la nostra erudizione con quel relativismo rapido e virtuosistico
che crede di comprendere tutta la realtà storica, al pari del presente,
attraverso un’elegante illustrazione della sua necessaria causalità e quindi
attraverso la sua giustificazione. A chi crede di poter in questo modo chiudere
le questioni, a chi non è capace di tacere di fronte agli enigmi e agli abissi
spaventosi dell’umanità storica, e anche di fronte ai miracoli divini che in
essa si manifestano, la cultura storica ha di fatto tolto dalle ossa ogni
midollo. Nietzsche ha allora ragione: essa è veleno per il debole, e nutrimento
per il forte. In definitiva ogni cultura, e quindi anche ogni educazione, deve
in primo luogo pensare ai forti e non ai deboli. Ma spesso la forte personalità
trova oggi proprio nel mondo storico la consolazione e il sostegno minacciati
dal gravoso e opprimente presente. Essa trova consolazione € sostegno
partecipando interiormente alle lotte del passato, lasciandosi scuotere dagli
oscuri destini e dai poteri sotterranei che irrompono nella vita dello spirito,
lasciandosi sollevare dall’immortale volontà dello spirito, per sconfiggere il
destino e costruire un proprio mondo in mezzo al mondo della ferrea connessione
causale. Allora si riconosce che il problema della vita individuale non è
diverso da quello della storia universale
cioè la contrapposizione tra libertà e necessità. Ma si riconosce pure
che libertà e necessità non soltanto si contrappongono, ma al tempo stesso si
intrecciano, e che senza il fecondo impulso coercitivo della necessità non è
possibile alcuna libertà. Ciò che importa è penetrare il necessario con la
libertà. Quelle potenze storiche vitali dello stato, della società, delle sfere
culturali e delle professioni, che oggi sembrano minacciare più fortemente che
mai la libertà e la specificità della persona, hanno quest’effetto, ossia
sprofondano nel regno della rigida necessità, solamente quando la personalità
rinuncia a trasporre in esse il suo elemento più proprio, sia sfuggendole
codardamente, sia sottomettendovisi ciecamente. Ma la pressione e la
coercizione dell’ambiente storico cedono e diventano una benefica atmosfera
vitale se la personalità comprende la sua posizione organica e il suo compito
nel processo storico complessivo, e riconosce la possibilità di rimanere libera
e se stessa anche al servizio della totalità. Tuttavia lo stesso processo
storico complessivo è il grande modello e la camera del tesoro
dell’individualità. L'aspetto di ricchezza infinita di forme umane ch’esso
offre dischiude spesso nell’osservatore
come una bacchetta magica forze
affini, scioglie impedimenti e pregiudizi interni, lo rende indulgente e
comprensivo. E per quanto il senso affinato della multiformità individuale
della vita storica possa indurre nature più deboli a perdersi in essa, il
bisogno dell’individuo più forte non si acquieterà finché non scopre la
struttura interna di questa pienezza brulicante, finché non scorge nella loro
lucentezza dorata i più alti tra tutti i fenomeni individuali le idee
sorretti da personalità. Ma allora scocca la scintilla dentro la vita
personale, destando anche in essa l’infinita esigenza di venir governata dalle
idee. Questa via alla personalità, che passa attraverso la cultura storica, è
quindi diversa, più faticosa e più minuziosa di quella che indicano gli istinti
elementari di una vita tutta immersa nel presente. Qui la riflessione deve per
più versi sostituire ciò che la fresca natura non è più in grado di fare. Essa
lotta continuamente con la zavorra del materiale storico. Prima di essere in
grado di diventarne signore, lo spirito deve sottoporsi alla pressione di
un’educazione rigorosa e faticosa, la quale deve renderlo capace di creare la
vita passata dalla fonte stessa, anziché da torbide derivazioni. Questo tipo di
educazione rischia a sua volta di snaturarsi in mero addestramento, perché il
carattere di massa della vita moderna lo spinge a rivolgersi più alla media
degli uomini che alla individualità. Tutte le difficoltà e le contestazioni con
cui deve oggi combattere l’insegnamento storico-umanistico, tutti i tormenti e
le manchevolezze dell'esame devono qui essere presi in considerazione. In
definitiva, però, il valore o disvalore di questo processo di formazione può
venir riconosciuto soltanto dai frutti che matura; e qui, ancora una volta,
decide non la quantità, ma la bellezza e la dolcezza del frutto. E presso di
noi esso continua pur sempre a crescere verso una nobile perfezione. Chi tra
noi, che l’abbia gustato, potrebbe rinunciarvi? Tra noi, se non vogliamo
diventare più poveri e ritornare in basso, non può scomparire quel tipo di
personalità che nel mondo storico si allarga fino all’infinità dello spirito e
del senso, fino a una dolce e forte sensibilità per tutto ciò che è umano.
Anche la vita moderna si preoccupa che altri tipi si pongano a fianco di questo
e lo conservino vivo con la loro concorrenza reciproca. È emerso, senza vincoli
e risoluto, il moderno uomo di volontà e di potere, che aspira a governare con
mano salda le leve rafforzate della civiltà, dell'economia e della tecnica
odierna, apprezzando tutti i valori culturali in base alla utilità ed
effettualità immediata. Non è solamente un utilitarismo sensibile-egoistico
quello che fa qui la sua comparsa e che, se pervenisse al dominio, minaccerebbe
nel modo più pesante la vita della personalità. Anche l’utile della comunità
può diventare un motivo che spinge la personalità; e per sua fortuna lo diventa
in larga misura, perché i bisogni della moderna vita comunitaria sono cresciuti
così infinitamente e sono diventati talmente prepotenti che nessuno può più
sottrarvisi del tutto; essi sono in grado di sollevare al di sopra di sé anche
chi all’inizio perseguiva soltanto il proprio utile. Questa socializzazione
della nostra vita, che è rapidamente cresciuta nel corso della guerra e che
crescerà ancor di più per le sue conseguenze, minaccia certamente anche la
personalità come abbiamo osservato con il destino di perdersi nella totalità e
di diventare una semplice funzione di essa. Ma meno di tutti ne sono minacciati
proprio i più forti tra gli uomini di volontà e di azione. Lo ha dimostrato già
Bismark, che sotto vari aspetti prefigurava questo tipo. Certamente egli aveva
ancor sempre un sentimento di partecipazione alla cultura storica più vivo di
quel che possiede di solito il moderno uomo di volontà. Questo tipo si trova
ancora in fase di sviluppo, ed è ancora troppo presto per valutare le
possibilità di una umanità superiore che sono in esso presenti. Ma qui e là si
manifesta in lui la buona volontà di ricostruire i ponti spezzati con la
cultura storica, di diventare al tempo stesso uomo di volontà e di spirito.
Allora da un istinto veramente plastico nascerebbe tra noi qualcosa di nuovo e
di grande. Si vorrebbe concedere la stessa fiducia anche a un terzo tipo di
aspirazione moderna alla personalità, che condivide con il corso della cultura
storica il bisogno di un contenuto culturale interiore e con l’utilitarismo il
rifiuto di una formazione storica rigorosa. Si tratta del soggettivismo moderno
che, adirato contro la rigida disciplina di questa formazione, si abbandona,
seguendo Nietzsche, agli innati istinti originari della natura e
dell’individualità e il giorno innanzi a
me, la notte alle mie spalle 1! esce
allo scoperto. Ad esso si affidano soprattutto le nature dotate artisticamente.
La loro mancanza di rispetto per la cultura storica e il mondo storico ha le
proprie radici, in ultima analisi, nelle esperienze storiche del secolo x1x e
nella situazione tragica che esso ha creato per lo spirito artistico. In esso
sono state distrutte e lacerate le salde forme di vita della vecchia società al
pari dei saldi stili della creazione artistica. Il nuovo, ciò che ne prese il
posto nella società e nell’arte, assomigliò a edifici a scopo di utilità o di
moda, rapidamente costruiti per i bisogni della massa, senza quella patina
dignitosa, senza un gusto delle forme, ma sfigurati piuttosto dal gusto rozzo
degli arricchiti. La vecchia forma irrevocabilmente perduta e il ritorno ad
essa afflitto dalla maledizione propria degli epigoni; la nuova forma
insufficiente e ripugnante, e in verità l'assenza di forma accompagnata
tuttavia da un insopprimibile bisogno di forma: non c’era da 1o. Goetne, Faust,
v. 1087 (tr. it. di F. Fortini), meravigliarsi che il soggetto dotato di sensibilità
artistica, senza sostegno nel mondo storico e rigettato su di sé, si
abbandonasse a un’irrequieta sperimentazione e all’escogitazione di nuove forme
arbitrarie, trovando la libertà della personalità nella mancanza di legami.
Ogni volta ci viene assicurato di nuovo che ora il tempo della ricerca è
finalmente passato e che è stata trovata la nuova sintesi della vita con la
nuova forma artistica. E quando ci avviciniamo pieni di aspettative, ogni volta
ci accorgiamo di una lotta di nature altamente dotate, che però sembra
condannata a una tragica mancanza di radici e all’artificiosità. Noi
comprendiamo il fatto che la loro personalità tormentata si rivolta contro la
pressione che viene dall’ambiente odierno non soltanto socializzato, ma anche
utilitaristico e meccanizzato; e a questo proposito non si deve neppure
dimenticare la pressione del falso storicismo, scolasticamente meccanizzato. Ma
i mezzi di difesa a cui ricorre lo spirito soggettivistico ci sembrano violenti
e spasmodici. La distanza dalla vita e dalla realtà, in cui esso ritorna in
varie guise a perdersi, non è comparabile a quella in cui vivevano gli uomini
della nostra epoca classica, perché viene soltanto artificiosamente estorta a
una vita alle cui potenti correnti complessive nessuna personalità sana e forte
può più sottrarsi. Spesso in luogo dell’interiorità cercata e preesistente
emerge soltanto una nuova esteriorità dall’acconciatura moderna, una mera moda
culturale. Nel moderno espressionismo ci si sottrae nel modo più coerente a tutti
i diritti e a tutte le catene della tradizione e della realtà. Ma ancor più
immediatamente la cultura storica è minacciata dalle esigenze di riforma
educativa e scolastica avanzate dal movimento giovanile. Invece noi chiediamo:
è realmente impossibile pensare al tempo stesso in modo moderno e storicamente?
ed è impossibile tuffarsi nella corrente della vita moderna senza perdere la
solitudine sacra della vita interiore? Occorre anzitutto riconoscere
liberamente e coraggiosamente la difficile situazione in cui oggi si trova la
personalità. Noi viviamo in una cultura vecchia, ma probabilmente ancora
lontana dall’essere decrepita. Proprio perché oggi sentiamo di nuovo con tanta
passione il problema della personalità, possiamo aver fiducia che sotto la lava
irrigidita degli strati culturali del passato, che sovrastano la nostra vita,
esso arde ancora potentemente. Noi viviamo altresì in un’epoca di rivolgimenti
inauditi delle condizioni di vita esterna, e come potevamo già definire una
rivoluzione ciò che avevamo vissuto nei decenni prima della guerra, così
possiamo farlo per ciò che è accaduto dopo di allora e per ciò che dobbiamo
ancora aspettarci. Si susseguono nuove libertà e nuove estensioni, ma anche
nuove forme di dipendenza e nuove restrizioni della vita individuale. Affermare
il carattere aristocratico del tipo tedesco di formazione della personalità,
come si è configurato finora, è inevitabile, ma anche infinitamente faticoso.
Noi abbiamo vissuto la successione e la mescolanza di epoche di rigoglioso
dispiegamento e di epoche di transizione e di lotta. Questi possono essere come abbiamo già chiarito tempi in cui le personalità prosperano, ma
noi percepiamo soprattutto la pressione e la minaccia a cui siamo esposti.
Contemporaneamente sentiamo però ancora il potente appello che la nostra epoca
rivolge alla personalità. Intorno a noi si è accumulato un vecchio vivente, un
vecchio irrigidito, un vecchio distrutto
un mondo insieme di vita e di ruderi, oggi scosso più fortemente che mai
dalle tempeste distruttrici e purificatrici del nuovo. Qui l’individuo deve
scegliere e distinguere, secondo la propria coscienza e il proprio impulso, ciò
che vuol affermare, ciò che vuol lasciar andare, ciò che vuol riprendere di
nuovo. Egli può farlo solamente se si conserva libero dalla coercizione gravosa
del passato, ma in profonda compartecipazione con tutti i valori vitali del
passato. Pensare al tempo stesso in modo moderno e storicamente è, in una
situazione del genere, non soltanto possibile ma necessario. Soltanto così
all'impeto dall'esterno è possibile opporre la più possente ma nello stesso tempo sempre elastica. forza interna, e conservare il nerbo vitale
della personalità, l’auto-determinazione interiore. Mai è stata più impellente
l’esortazione rivolta ad essa: diventa
libera, diventa te stessal . Possiamo adesso trarre le conseguenze per
l'odierno insegnamento della storia. S'intende che qui non parlo soltanto
dell’insegnamento della storia in senso stretto, ma di tutte le discipline che
tramandano un contenuto storico, delle lingue antiche e moderne così come
dell’insegnamento della religione. Esse costituiscono un’unità in cui un
elemento deve integrare l’altro e in tutti quanti devono essere presenti le
stesse idee direttrici. In primo piano si colloca il desiderio che l’insegnante
di discipline storiche abbia egli stesso l'impulso alla personalità. Fin
dall’inizio il mondo storico può diventare vivo ai nostri occhi soltanto
attraverso la mediazione di una personalità estranea, che sta con esso in un rapporto
immediato. A ciò si collega l’ulteriore desiderio che questo rapporto immediato
con le fonti del passato, a cui l'insegnante di storia si è accostato durante i
suoi studi, non lo abbandoni durante la sua professione pedagogica. Non già che
pretenda dall’insegnante di storia un lavoro produttivo di ricerca, per quanto
questo sia benvenuto quando deriva dall’impulso del talento. Ma desidero che
l’insegnante di storia si faccia un diletto personale non soltanto del leggere,
ma anche del gustare le fonti del passato in cui si rispecchiano in modo
particolarmente individuale lo spirito e la situazione propri di un'epoca.
Un’influenza particolarmente feconda mostrano qui le opere dei pensatori
dominanti dei secoli precedenti. La cultura storica si rafforza fino a
diventare formazione della personalità per colui che, durante tutta la sua
vita, non può fare a meno di Platone e di Agostino, di Lutero, Machiavelli e
Montaigne, di Federico il Grande e Rousseau, dei grandi idealisti tedeschi e di
Bismarck. In una lettura siffatta, derivante sempre da una scelta guidata dal
bisogno più intimo, ripongo maggior valore che nell’attenzione che l’insegnante
di storia dedica alla letteratura specialistica e alle controversie
scientifiche. Egli non potrà mai evidentemente sottrarsi del tutto a
quest'ultime; ma per conservarsi interiormente fresco, per poter riempire
l'insegnamento con fermenti di vita personale, non esiste miglior mezzo della
familiarità con i grandi. L'allievo ben dotato sa distinguere con precisione l'insegnante
colto da quello che è soltanto ben informato. Se nell’insegnante l'impulso ad
arricchirsi interiormente con la materia che tratta, ad acquistare nell’umanità
storica la propria umanità, non diventa visibile attraverso tutto il suo
sapere, l’effetto dell'insegnamento della storia per il destarsi della
personalità futura dell’allievo può ridursi a niente. Ai fini della formazione
della personalità non mi aspetto nulla da una preparazione intenzionale e
sistematica all’insegnamento della storia. Ciò significherebbe voler ottenere
frutti dall’oggi al domani attraverso un’irradiazione violenta. Si diventa una
personalità mediante la vita, non già mediante la scuola; attraverso il lavoro
su di sé, non attraverso l’influenza da parte di altri. L'insegnamento può
soltanto gettare i primi semi in un terreno di cui egli stesso non conosce
affatto le possibilità di sviluppo, le capacità e i bisogni. Ma egli dev'essere
pieno di questa intenzione magnanima del seminatore della parabola, e quando il
suo cuore è pieno del valore delle personalità storiche, può anche esprimersi
in parole. Egli sa bene che nulla prende l’animo dell’allievo quanto lo
spettacolo dei grandi uomini e degli eroi che lottano con se stessi e con la
loro epoca. Il senso storico dell’individuale si avvinghia in generale
all’intuizione della loro peculiarità. Nel complesso l’insegnamento della
storia rappresenterà più ciò che vi è di concluso e di compiuto nelle
personalità storiche, e non potrà evitare una certa stilizzazione. La psiche
non ancora sviluppata dell’allievo richiede anche una tale raffigurazione
semplice e monumentale. Ai gradi superiori dell’insegnamento l'insegnante può
anche osare di fargli gettare uno sguardo sui problemi del divenire, delle
antitesi insolute, dello Sturm und Drang: gliene offriranno l’occasione gli
anni dello sviluppo di Lutero, di Federico il Grande, di Bismarck. Ma nel
complesso alcune parole significative, che il maestro lascia cadere, possono
spesso trasportare lo spirito dell’allievo in uno stato di vibrazione più forte
di quanto non possa una psicologia portata avanti con minuzia. Ciò vale in modo
particolare anche per la trattazione delle grandi poesie classiche
nell’insegnamento del tedesco e delle lingue straniere. Esse sono piene di
problemi della personalità; ma tutti sappiamo anche quanto si pecca di
pedantesca prolissità nell’affrontare la materia, e quanto spesso l’allievo non
soltanto non viene introdotto alle fonti di vita personale che ne scaturiscono,
ma ne viene distolto con spavento. E non lo si tormenti con componimenti su
conflitti psicologici per la cui valutazione egli dispone soltanto di mezzi
primitivil Un'unica parola accortamente allusiva dell’insegnante, che lo induca
a riflettere in maniera autonoma, lo aiuta qui molto di più della riproduzione
maldestra di interi processi di pensiero che l’insegnante cerca di inculcargli.
Soprattutto, però, si inciti l’allievo alla lettura personale e lo si incoraggi
a fondare comunità di lettura con amici e compagni. Questi tentativi
costituiscono spesso il primo moto della personalità dell’allievo, il suo
incontro più peculiare con il mondo storico. All’insegnante di storia è
affidata una professione particolarissima, che richiede al tempo stesso piena
dedizione e rigorosa sobrietà. Egli sta come nessun altro immediatamente in
mezzo tra il mondo storico e le personalità del futuro. Spesso si domanderà,
guardando i suoi scolari negli occhi: quale vita storica avvenire dorme dentro
di voi? Soltanto questa domanda può suscitare ritegno e rispetto, in modo da
non fare violenza alle radici di ciò che può dispiegarsi unicamente secondo la
propria legge. Lo stesso timore contenuto si confà anche di fronte al mondo
storico e ai suoi miracoli. Individuum est ineffabile. Soltanto la venerazione
e l’amore possono saldare il legame spirituale tra le personalità del passato e
quelle del futuro. Nell’odierno stadio di sviluppo delle scienze storiche
crediamo di poter percepire due grandi tendenze che non operano però
isolatamente, ma ognuna delle quali reca con sé, in misura maggiore o minore,
anche elementi dell’altra tendenza. Nessuna di queste tendenze può essere
perseguita in modo unilaterale: per ottenere il suo fine, ognuna ha bisogno
dell'altra. Ciò che per l’una appare come fine, per l’altra costituisce una via,
una guida verso il fine. Una tendenza vuol indagare relazioni causali; l’altra
vuol comprendere e rappresentare valori. Non è possibile una ricerca di
relazioni causali nella storia senza far riferimento ai valori, ma neppure è
possibile una comprensione dei valori senza un'indagine sulla loro origine
causale. Che cosa sono le relazioni causali? che cosa sono i valori? Noi ci
poniamo, a torto o a ragione, dal punto di vista dell’osservazione storica
immediata, e distinguiamo tre differenti tipi di causalità: quella meccanica,
quella biologica e quella etico-spirituale. La causalità meccanica poggia su
un’equivalenza completa di causa ed effetto (causa aequat effectum); la ®
Kausalititen und Werte in der Geschichte, in Historische Zeitschrift, poi raccolto
in Staa und Persònlichkeit, Berlin, E. $. Mittler und Sohn, 1933, pp. 28-53, c
in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibune und
Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 56-93, infine
in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di E.
Kesscl), Stuttgart, K.F, Kochler Verlag, 1959, pp. 61-89 (traduzione di Sandro
Barbera e Pietro Rossi). causalità biologica lascia apparentemente che
l’effetto oltrepassi la causa, mediante il pieno dispiegamento dei germi della
vita a esseri viventi forniti di una propria struttura, di una propria
conformità a uno scopo e di una propria legalità; ma soltanto la causalità
etico-spirituale spezza la connessione causale puramente meccanica,
rappresentando impulsi spontanei della personalità, diretti a determinati
scopi, che non possono essere spiegabili né in termini meccanicistici né in
termini biologici, che influenzano l’agire umano e incidono quindi anche sulla
connessione causale di tipo meccanico la
quale tuttavia, d’altra parte, si presenta di nuovo al nostro pensiero come
onnipotente e continua, escludendo ogni frattura. Miracolo su miracolo.
Infatti, nella sua profondità ultima, ognuno dei tre tipi di causalità rimane
enigmatico. Il nostro pensiero viene così posto di fronte a contraddizioni che
non può risolvere o che può risolvere soltanto in modo illusorio e apparente.
Nella vita storica, ognuno dei tre tipi di causalità si impone, in modo
indimostrabile, come operante agli occhi del ricercatore impregiudicato. Egli
ha continuamente a che fare con tutti e tre i tipi di causalità. Se indaga le
cause della povertà e della ricchezza dei popoli, delle vittorie e delle
sconfitte nelle battaglie, egli incontrerà e dovrà indagare una serie di cause
operanti in modo puramente meccanico, e comprensibili in quanto tali. La sua
attenzione aumenterà allorché nei fenomeni studiati sembra compiersi un
processo interno di crescita, allorché ai suoi occhi si manifestano determinate
forme e figure di vita della comunità umana che si dispiegano, si organizzano,
fioriscono in pieno e poi di nuovo decadono secondo un proprio processo di
crescita. Ogni esistenza umana, ogni fenomeno della vita storica gli appare, in
definitiva, determinato morfologicamente
ma non soltanto determinato morfologicamente: infatti al di là di quelle
relazioni causali meccaniche, operanti spesso in maniera accidentale,
intervengono anche le azioni spontanee degli uomini, le quali possono quindi
interrompere, stornare, rafforzare o indebolire l’accadere morfologico,
conferendo così alla vita storica quel carattere intricato e singolare che si
fa beffa di tutti i tentativi di spiegarla secondo leggi prive di eccezioni. Su
di essa si imprimono perciò successivamente tre diversi sigilli: a ogni lettera,
a ogni immagine che uno di essi imprime, si sovrappone quella degli altri.
Soltanto il dilettante crede di poter distinguere tra loro in modo agevole e
non soggetto a obiezioni questi scritti e queste immagini. Più semplici e
chiare, meno discutibili possono essere le impressioni del primo sigillo, ossia
della causalità meccanica. Ma quando si tratta di distinguere il secondo e il
terzo, è fin troppo facile incorrere nell’errore di leggerne soltanto uno e di
trascurare l’altro. La più antica concezione della storia, fino
all’Illuminismo, vide in essa prevalentemente l'impronta di decisioni e azioni
individuali e cercò quindi in quanto era
una trattazione cosiddetta pragmatica della storia
di ordinare razionalmente la confusione di queste azioni con il filo
rosso di scopi razionali o irrazionali dell'agire. La moderna concezione della
storia, che ha scoperto le relazioni causali e le formazioni sovra-individuali
della vita storica, poteva nuovamente inclinare
se applicata in maniera dilettantesca e sbrigativa a sottovalutare l’influenza autonoma
dell’individuo e a considerarlo soltanto come organo di grandi potenze e forze
collettive della vita che si potevano rappresentare come più o meno viventi,
co- me sorte e operanti in modo prevalentemente meccanico oppu- re
prevalentemente organico. Il positivismo inclinava a una concezione piuttosto,
anche se non certo esclusivamente, meccani- ca delle forze collettive; la
tendenza più moderna, orientata invece verso l’elemento organico che ha raggiunto il suo culmine con
Spengler presumeva di spiegare tutti i
fenome- ni storici particolari in base alle differenti leggi biologiche di
formazione delle grandi culture. La trattazione scientifica del- la storia, che
procede da Ranke, rinunciava invece a qualsiasi spiegazione causale univoca e
generale, e di conseguenza doveva sopportare il rimprovero di fare a meno della
scientificità vera e propria; ma così vedeva in modo più fresco e immediato
l’in- treccio delle tre impronte della causalità meccanica, della causa- lità
biologica e della causalità individuale-personale. Anch’essa non poteva
rinunciare al tentativo di distinguerle tra loro e di mostrare la prevalenza
dell’azione ora dell’una ora dell’altra; ma aveva un timore naturale di
opprimere e di risolvere l’una nell'altra. Nella spiegazione dei singoli
fenomeni e nella loro disposizione i in grandi serie e formazioni essa si
lasciò guidare più da un istinto indefinibile che da un atteggiamento
consapevole, assunto in linea di principio. Essa considerava l’intuizio- ne
artistica e la raffigurazione artistico-intuitiva dell’accadere non soltanto
come un ornamento bello, ma in ogni caso super- fluo, della sostanza della
storia indagata secondo un procedi-
mento puramente causale ma come uno
strumento di lavo- ro essenziale e indispensabile di fronte all’intreccio delle
tre impronte intreccio che si può
sciogliere solo in parte, mai del tutto. La scienza assume qui dunque come
strumento l’arte. Essa vuol completare la conoscenza con mezzi che si pongono
al di fuori della sfera del conoscere vero e proprio. In altre parole, essa non
rimane pura scienza che vuol spiegare soltanto causal- mente, ma si trasforma
in qualcosa d’altro. Perciò il rimprove- ro di non-scientificità che il
positivismo muove alla scienza sto- rica condotta nello spirito di Ranke non è,
dal punto di vista formale, del tutto ingiusto. Ma questa non- “scientificità
può giu- stificarsi in base al fatto che proprio la matura delle cose, e in
certa misura la complicata situazione delle fonti storiche nel suo complesso,
spinge verso tale procedimento, che ogni tentati- vo di padroneggiare il
materiale storico con mezzi conoscitivi esclusivamente causali conduce, se
portato avanti con radicale immodestia, a violentare la materia, a cancellare
un’impronta causale con un’altra, mentre se viene intrapreso con una mode- stia
rispettosa deve ben presto arrestarsi, perplesso, di fronte alla Ayle della
realtà. Soltanto una via non più puramente scien- tifica, cioè non più
puramente causale, ci conduce d’un sol tratto nelle sue profondità; e anche se
non può certo dischiuder- cela completamente può tuttavia darci, attraverso
un’intuizio ne vivente, un senso partecipante di essa. Alla scienza è più utile
ricorrere a uno strumento sopra-scientifico dove lo stru- mento scientifico
vien meno, anziché applicare questo anche dove una sua applicazione conduce
necessariamente a falsi risul- tal. Ma il diritto di applicare strumenti
sopra-scientifici nelle scienze storiche può essere fondato ancora più
profondamente che attraverso la semplice indicazione dell’intreccio, non padro-
neggiabile in altro modo, delle tre impronte causali. Se queste scienze
volessero rimanere pure, cioè scienze che spiegano in modo esclusivamente
causale, sarebbero costrette a considerare come proprio campo di ricerca e a
rivolgersi, almeno in linea di principio, alla totalità dell’accadere umano. È
noto che non lo fanno; esse scelgono invece da questa massa enorme e ster-
minata soltanto una parte assai piccola, quella che si ritiene essere essenziale,
e giustamente ritengono un’oziosa micrologia occuparsi di processi umani
inessenziali. Ma che cosa significa qui essenziale? soltanto ciò che è
casualmente essenziale? sol- tanto ciò che ha influenzato in modo
particolarmente incisivo e potente i destini degli uomini e dei popoli? A volte
lo si intende così, e si ritiene che soltanto ciò che è diventato partico-
larmente efficace meriti l’attenzione dello storico. Ma di- ce con ragione Rickert l'efficacia non può mai fornire da sola il
criterio di ciò che è storicamente essenziale
®. Da un punto di vista puramente causale, le condizioni e i bisogni
della vita di carattere fisico suolo e
sole, fame e amore sono i fattori più efficaci
dell’accadere umano; mentre lo storico
almeno lo storico non materialista
li considera di regola soltanto come un ovvio presupposto causale di
quei pro- cessi che propriamente lo interessano, e li ritiene degni di atten-
zione soltanto laddove essi incidono in misura particolare e non comune. Dal
punto di vista causale sono pure particolarmente effica- ci, accanto a questi fattori
originari della vita umana, anche le grandi decisioni nelle lotte di potenza
dei popoli e degli stati, alle quali da sempre
fin dalla storiografia più primitiva
è andata l’attenzione degli storici, e perciò anche l’intero ambito
delle istituzioni dello stato e della società, che a ragione attrae l'interesse
comune di tutte le tendenze della moderna ricerca storica, di quella
positivistica come di quella idealistica, della storia della cultura come della
storia politica. Ma se qui si suole porre in rilievo in quanto essenziale ciò che è efficace , mettendo da parte come
inessenziali altre masse di processi umani, di regola si combinano due diverse
accezioni del termine efficace . Da un
lato con esso si intende ciò che a suo tempo ha esercitato effetti causali
sulla vita dell'umanità e qui si rimane
nell’ambito della pura ricerca di relazioni a. H. Ricgerr, Kulturiwvissenschaft
und Naturwissenschaft, Tubingen. causali. Ma con esso si intende anche ciò che
agisce in modo durevole e che anche oggi opera su di noi che viviamo. E questa
specie di influenza su di noi ha un significato insieme causale e sovra-causale
®. Ha un significato causale in quanto i grandi e potenti avvenimenti del passato per esempio la fondazione dell'Impero
romano determinano ancora causalmente,
attraverso mille influenze secondarie, la nostra esistenza odierna; ha un
significato sovra-causale in quanto la catena delle relazioni causali non ci
interessa da un punto di vista puramente scientifico, ma perché ne vogliamo
trarre un vantaggio particolare per la nostra propria vita. Questo vantaggio
può essere soltanto di tipo pratico, tale da renderci atti a incidere con
maggiore efficacia nella vita attiva, oppure può consistere in una pura
contemplazione, libera da scopi pratici immediati; ma in entrambi i casi si
tratta di valori, di valori vitali che vogliamo ricavare dalla storia; in
entrambi i casi essa ci fornisce dovremo
ritornarci sopra con maggiore precisione più avanti contenuto, insegnamento e guida per la nostra
vita. E questo bisogno è quello che ci spinge in fondo da sempre, ma in modo
particolarmente forte nell'epoca moderna
accanto e dietro al puro impulso conoscitivo rivolto alle relazioni
causali verso la storia. Soltanto a
questo punto comprendiamo del tutto che la ricerca delle relazioni causali, in
quanto tentdi svelare l'intreccio delle tre impronte in fondo direta. Storico
dice Eduard Meyer nella Geschichte des Altertums è quel processo del passato la cui efficacia
non si esaurisce nel momento della sua comparsa, ma che agisce ancora in modo
riconoscibile in periodo successivo, producendovi nuovi pro cessi . In questo
passo decisivo si fa purtroppo riferimento soltanto all’elemento causale, e non
all'elemento di valore, nella determinazione concettuale di ciò che è storico . Tuttavia un paio di pagine dopo
viene menzionato anche il valore interno
, cioè la maggiore formazione di una specificità individuale, come criterio di
selezione di ciò che è storico. Si tratta di una discrepanza interna che è
caratteristica dello stato del pensiero che domina la scienza specialistica. Si
scorge sì l’intreccio di causalità e di valore presente nell'interesse storico,
ma non lo si affronta in modo intrinseco soggiacendo così, dove si fornisce la
definizione principale, a una pura idea di causalità. Per una critica a Meyer
si veda anche H. Ricgert, Probleme der Geschichtsphilosophie, Heidelberg, 3?
ed. 1924, P. 59. ta dal più personale
impulso vitale oltrepassa la ricchezza
degli strumenti conoscitivi puramente causali e cerca di avvicinarsi allo
stesso modo dell’artista, con l’intuizione e la raffigurazione vivente, ai
fenomeni storici. È il suo valore per noi e per la nostra propria vita che
cerchiamo di conquistare per questa strada. Il bisogno teoretico di conoscenza
causale e il bisogno di valori vitali si sono sviluppati in modo strettamente,
anzi inseparabilmente connesso, nell'interesse storico. Forse che il bisogno
teoretico non è già in sé anche il bisogno di un valore vitale, del valore di
verità? Certamente, ogni scienza deve servire in modo coerente e rigoroso,
senza lasciarsi disturbare da intenti pratici collaterali, alla ricerca della
verità, delle vere relazioni causali. Ma per noi servitori della scienza la
nostra vita non sarebbe una vita completa se non fosse riempita da questa pura
aspirazione alla verità. Per questo motivo noi l’accresciamo e l’approfondiamo,
e la nostra teoria si trasforma in prassi vivente e in formazione della vita.
La tendenza pratica non può introdursi troppo presto in essa, e influenzare la
ricerca di relazioni causali. Prima la via delle relazioni causali deV’essere
percorsa con sicurezza fino all’ultimo punto raggiungibile, e solamente allora
si può, anzi si deve ricorrere a quei mezzi sovra-causali per soddisfare il
bisogno di valori vitali che opera dal profondo. Che l’ essenziale nella storia comprenda però non soltanto
relazioni causali, ma anche valori vitali, può essere illustrato con un esempio
ipotetico. Poniamo il caso che si scopra l'opera di un autore sconosciuto del
passato, di grande forza e profondità spirituale ma rimasta completamente
ignota agli stessi contemporanei e quindi completamente priva di influenza
causale sul suo tempo: la dichiareremo perciò storicamente ines-senziale e
inefficace? Essa potrebbe agire nel modo più forte su di roi e comincerebbe
quindi ad agire ora causalmente tra di noi, ma soltanto perché rappresenta per
noi un valore vitale. Questo è perciò l'elemento primario per il nostro
interesse, e si realizza in noi né
potrebbe avvenire altrimenti attraverso
la causalità. Ma il nostro interesse storico non è diretto qui alla ricerca di
questa causalità, bensì alla comprensione e alla rianimazione di un grande
valore spirituale del passato. Questa comprensione deve naturalmente applicare
ancora strumenti causali e tentare di mediare l’origine storico-temporale
dell’opera in questione; ma la ricerca causale è qui soltanto un mezzo diretto
allo scopo del pieno ripristino di un valore spirituale. Un fanatico della
causalità potrebbe obiettare che si può e si deve certo indagare quell’opera
rimasta causalmente inefficace nella sua epoca, ma per il fatto che essa vale
come effetto di relazioni causali, e riporta alla luce forze impulsive di
quell’epoca finora ignote, le quali soltanto potevano produrre una tale opera.
Ma queste relazioni causali si
risponderà subito non ci
interesserebbero affatto se qui non fosse appunto presente un grande valore,
che ci avvince di per sé arricchendo così la nostra vita. No: sotto ogni
ricerca di relazioni causali sta, mediatamente o immediatamente, la ricerca di
valori, la ricerca di quella che si chiama cultura nel senso più alto irruzioni e manifestazioni dello spirituale
all’interno della connessione causale della natura. La terza delle tre impronte
del corso storico è quella che produce questi valori. La piccola selezione di
ciò che consideriamo degno di indagine nella sterminata massa dell’accadere si
compie come ha mostrato Rickert in conformità alla relazione che questo
accadere ha avuto con i grandi valori culturali. Egli ci insegna che lo storico
indaga soltanto fatti in relazione a valori; e aggiunge che lo storico deve
soltanto indagarli e rappresentarli, non già valutarli, se vuol rimanere entro
i limiti della sua scienza. La seconda tesi scaturisce dalla preoccupazione per
la conservazione del carattere scientifico della ricerca storica, dalla
preoccupazione verso la penetrazione di tendenze soggettive. Ma è possibile
rispettare tale prescrizione? Essa è irrealizzabile *. Già soltanto la
selezione di fatti in a. H. Ricgerr (Probleme der Geschichtsphilosophie cit.,
p. 67) ammette sì l’ inseparabilità psicologica del valutare dalla designazione
di valore , ma vuol separare il valutare dall’essenza /ogica della storia. Ora,
ciò che è psicologicamente inseparabile dall’attività dello storico dev'essere
riconosciuto anche dal logico per quanto
egli possa separarlo con i suoi strumenti
come psichicamente connesso con tale attività in modo essenziale. E il
valutare non è una funzione accessoria superflua nell'attività dello storico.
Io concedo a Rickert che lo storico riferimento a valori non è possibile senza
una valutazione. Lo sarebbe solamente se i valori a cui i fatti si riferiscono
consistessero come ritiene Rickert in categorie tanto generali quanto lo sono la
religione, lo stato, il diritto. Ma lo storico non sceglie il suo materiale
soltanto secondo queste categorie generali, ma anche in base all'interesse
vivente per il loro contenuto concreto. Egli lo concepisce come più o meno
fornito di valore, cioè lo valuta. La rappresentazione e l'illustrazione di
fatti culturalmente importanti non è affatto possibile senza la più viva
sensibilità per i valori che in essi si manifestano. Per può astenersi da ogni
giudizio valutativo sui suoi oggetti , ma una siffatta storiografia, libera da
valutazioni, o è soltanto raccolta di materiale e lavoro preparatorio per la
vera e propria storiografia oppure, se ha la pretesa di essere storiografia,
appare del tutto insulsa a meno che il
temperamento dell'autore non la colori e la renda viva di nuovo con valutazioni
non arbitrarie, come avviene per esempio nelle straordinarie ricerche ed
esposizioni storiche di Max Weber. Anche
Heinrich Maier (Das geschichiliche Erkennen, Gòttingen, 1914, p. 34) ritiene,
pur discostandosi fortemente da Rickert, che
cadere in giudizi di valore non è affare della storia ; ma spiega
contemporaneamente che vietare giudizi di valore allo storico pieno di
temperamento è soltanto noiosa pedanteria. Egli distingue cioè tra una
posizione propriamente storica, la quale esclude i giudizi di valore, e
un'altra posizione di fronte alla storia, anch'essa legittima, di carattere
etico-estetica e quindi valutativa. Deve lo storico assolvere
contemporaneamente entrambi i compiti nello spazio della stessa opera, anche se
il primo il compito propriamente
storico esclude il secondo? Ciò è
impossibile e ibrido, una specie di doppia morale professionale che rompe
l’intima connessione psichica presente nell'attività dello storico. Una logica
della storia che voglia raggiungere il suo fine deve partire da questa, deve
analizzare lo storico reale, vivente, non lo storico costruito logicamene ed egli di regola si comporta, anche se non
lo vuole, in maniera valutativa. Chi sta dentro la prassi ininterrotta della
storiografia percepisce questo elemento in modo completamente differente dal
filosofo G. von Below (Die deutsche
Geschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unseren Tagen:
Geschichtschreibung und Geschichtsauffassung, Miinchen und Berlin) scrive: una connessione di fatti non può essere
effettuata senza giudizi di valore . Quest'affermazione si spinge forse troppo
in là. Certe connessioni causali di tipo semplice possono essere effettuate
anche senza giudizi di valore; quelle di tipo più complesso per esempio la constatazione delle cause
della Riforma, della Rivoluzione francese e, ora, del crollo del 1918 vengono sempre determinate insieme da giudizi
di valore. quanto lo storico possa, almeno formalmente, anche sospendere il
proprio giudizio di valore su di essi, questo è tuttavia presente tra le righe,
e in quanto tale influenza il lettore. Sovente esso agisce quindi particolarmente in Ranke in modo più profondo e incisivo di quanto non
accadrebbe se fosse rivestito della forma di una censura immediata, ed è perciò
da raccomandare come espediente. Il giudizio di valore soltanto implicito dello
storico stimola l’attività valutativa propria del lettore in maniera più forte
di quello apertamente dispiegato. Nella misura in cui si presentano in
apparenza soltanto relazioni causali, tanto più immediatamente e creativamente
lampeggia in esse l'elemento di valore, la manifestazione di una potenza
spirituale all’interno della connessione causale. Ma spesso il giudizio diretto
di valore non dev'essere evitato, per recare a piena chiarezza il valore di ciò
che è accaduto. Avviene qui come in quelle forme di culto divino in cui il
silenzio sacro e la parola del sacerdote si alternano nella venerazione del
divino. E la ricerca storica è precisamente culto del divino, preso nel senso
più ampio. Si vuole vedere confermato nel mondo, attraverso la sua rivelazione,
ciò che si percepisce per sé come fine spirituale della vita. Si vuol diventare
consapevoli della forza e della continuità della corrente spirituale della
vita, che per l'individuo sfocia sempre in lui stesso; si vuol trovare la via
per cui l'uomo è venuto, per indovinare quella che percorrerà. Si vuol venerare
le potenze che consentono di innalzare la nostra esistenza dal vincolo naturale
alla libertà dell’elemento spirituale. In qualsiasi modo si rappresenti la
divinità, si vuol cercarla nella storia. Anche il ricercatore che fa valere
soltanto la connessione causale spogliata del carattere divino, e che nella
storia cerca quindi soltanto relazioni causali, è spinto come abbiamo chiarito dal bisogno di un valore superiore e
comprensivo, anche se si tratta soltanto del valore della verità in sé.
Certamente anche lo scienziato naturale è spinto dal valore della verità, e può
tuttavia lavorare libero da tutti gli altri valori. Ma delle tre funzioni del
distinguere, scegliere e giudicare ', che costituiscono il compito specifico
dell’umanità, egli 1. Allusione a una coppia di versi di Goetne, Das Gòtiliche.
deve esercitare nel suo ambito di lavoro soltanto quella del distinguere. Lo
studioso della cultura deve invece esercitarle tutte e tre, perché i processi
che indaga scaturiscono dalla natura umana nel suo complesso, si sono
costituiti in virtù di un distinguere,
scegliere e giudicare e sono
comprensibili soltanto attraverso le medesime operazioni. Se lo scienziato
naturale può lavorare libero da valori, lo studioso della cultura deve lavorare
vincolato ai valori, anche quando vuol trattarla secondo il metodo dello
scienziato naturale — e perfino al semplice raccoglitore di materiale ciò viene
risparmiato di rado. Diventa ora chiaro che nella storiografia possono esserci
due tendenze principali: la prima è attratta dalle relazioni causali, anche se
non può mai spogliarsi dei valori e quasi mai dei propri valori; la seconda si
sente attratta dai valori, pur senza potersi sottrarre alle relazioni causali.
Ognuna di esse presenta dunque una duplice polarità, e in entrambe sono
possibili e presenti sfumature e transizioni, mescolanze diverse dei due
elementi. La distinzione delle due tendenze è risultata più chiara soltanto
quando la storia cominciò a venir esercitata secondo metodi rigorosamente
scientifici, e si approfondirono le questioni riguardanti l’essenza della
storia e i compiti dello storiografo. La più antica storiografia politica
mescolava, narrando gli eventi in forma epica, valori ingenuamente sentiti e
relazioni causali®. La storia illuministica voleva porre in luce i a, Il punto
di vista valutativo come criterio di selezione del materiale storico fa la sua
comparsa in modo significativo in Machiavelli. Nella prefazione alle /storie
fiorentine egli biasima i suoi predecessori Leonardo Bruni? e Poggio
Bracciolini* per aver narrato soltanto la storia esterna, e non la storia
interna, della città di Firenze, con tutte le sue lotte movimentate: Né considerarono come le azioni che hanno in
sé grandezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunche elle si
trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che
biasimo . BRUNI (vedasi), filosofo, uomo politico c umanista italiano, è cancelliere
della Repubblica fiorentina; traduttore di Platone c di Aristotele, autore
degli Episcolarum libri VIII, del De studtis et litteris e del trattato di
ctica Isagogicon moralis disciplinae, nonché di duc importanti opere storiche,
gli Historiarum florentini populi libri XII e il Commentarius rerum suo tempore
gestarum. 3. BRACCIOLINI (vedasi), filosofo, uomo politico e umanista italiano.
È dapprima segretario apostolico e in seguito, cancelliere della Repubblica
valori della cultura progressiva dell'illuminismo come l’unico oggetto
veramente degno della storiografia, ma non fu in grado di penetrare con essi lo
spessore dell’accadere politico — che pure non osò mettere da parte — e in tal
modo accostò i due elementi in maniera disorganica. La storia politica di
tendenza vuole proprio porre in luce dei valori, cioè i valori dei suoi ideali
politici, ma dev'essere completamente esclusa dalla nostra considerazione
perché il concetto di valore storico, nel senso in cui lo intendiamo, non
abbraccia soltanto i nostri propri ideali politici o apolitici, ma ogni forte
manifestazione di vita propriamente spirituale, e quindi anche gli ideali
dell’avversario. Humboldt è stato forse il primo a richiedere una storiografia
del genere, rivolta a tutti i valori spirituali dell'umanità — questo sono
infatti le sue /deen — e fondata sull’indagine di tutte le relazioni causali
conoscibili. Ranke ha realizzato questa storiografia riunendo tra loro
organicamente, in maniera ideale, la ricerca delle relazioni causali e la
rappresentazione dei valori, in ultima analisi cercando quindi Dio nella
storia; cosicché lo si può far rientrare in quella tendenza che, nel suo
fondamento ultimo e decisivo, si lascia attrarre dai valori. Il positivismo del
tardo Ottocento scatenò la controffensiva e pretese una trattazione avalutativa
e puramente causale della storia: esso riuscì soltanto sporadicamente a farla penetrare
in pieno nel lavoro della storiografia scientifica, tuttavia rafforzò in essa
la tendenza a porre in primo piano la ricerca delle relazioni causali. Ne
conseguì una ricerca sterminata e specializzata del particolare, che è in auge
ancor oggi. Nei fatti indagati causalmente lampeggiavano sì nuovi valori
sconosciuti del passato, ma la loro indagine fu eccessivamente meccanizzata
dall’inevitabile divisione del lavoro, e la loro massa diventò troppo grande
per poter essere padroneggiata e gustata spiritualmente. Ne derivò quindi e ne
deriva ancor oggi un contraccolpo che spinge a più forti e appassionate
sensazioni di valore, la tendenza alla raccolta e al vaglio dei valori, al
rifiuto dei valori minori, all’accentuazione (e anche alla sofiorentina; infaticabile
scopritore di codici, autore di saggi filosofici come il De gvaritia, il De
varietate fortunae, i! De nobilitate, il De infelicitate principum – cf. Grice
on Wilde on The Happy Prince -, il De miseria humanae conditionis. Redatta gli
Historiarum florentini populi libri VII. pravvalutazione) dei valori
culturalmente superiori. Ciò consente, in linea di principio, la fondazione
mediante una solida indagine di relazioni causali, ma qua e là, nella prassi
degli storici più giovani, si comincia a trascurarla in modo preoccupante. La
sintesi è la parola d’ordine con cui dall’angusto lavoro dell’indagine causale
si aspira ai grandi valori dominanti della vita e del passato. Si mettono in
moto sensazioni soggettivistiche e mistiche le quali premono, senza la strada
faticosa della ricerca del particolare, verso la riunificazione immediata con
l’anima del passato. Si vuol trarre da essa
come ci si esprime volentieri
soltanto l’ eterno e l’ atemporale , lasciandone cadere i presupposti
storico-temporali. Si costruisce senza molta induzione, in base ad alcune
vestigia impressionanti della tradizione e con l’aggiunta esorbitante dei
propri ideali, e poi si abbraccia l’immagine fantastica che ci si è creati da
sé. Quest’aspirazione agli alti e supremi valori culturali contrassegna in modo
peculiare la scuola dei cosiddetti
georgiani , cioè i seguaci di Stefan George* anche perché essa si pone pretese rigorose,
rimanendo nelle sue opere migliori intatta dagli errori di un modo di lavoro
negligente e attingendo varie volte un'alta perfezione formale, ma con una
tendenza all’eccessiva raffinatezza e all’assottigliamento dell’atmosfera
spirituale, in cui si dissolvono le rozze relazioni causali terrene. Il lavoro
di ricerca della corporazione vera e propria degli storici è ancora
relativamente poco toccata da queste tendenze, ma chi conosce i bisogni della
giovane generazione sa che qui spesso si agita, in modo prepotente, qualcosa di
esse. È la costellazione spirituale complessiva della nostra epoca che ha
prodotto queste tendenze la reazione di
ciò che si può chiamare anima contro la minacciosa meccanizzazione
civilizzatrice della vita e contro gli sterminati poteri delle masse, che si
sono manifestati nella guerra mondiale e durante il crollo. Essi si gonfieranno
presumibilmente in misura ancora più forte, diventando un fattore importante
nel futuro delle scienze storiGeorge, pocta lirico tedesco, autore di numerosi
volumi di versi come gli Hymnen, Algabal, Das Jahr der Scele, Der Teppichk des
Lebens und die Lieder von Traum und Tod, Der siebente Ring, Stern des Bundes,
Das neue Reich, raccolse intorno a sé un cenacolo letterario che prese il nome
di George-Kreis e in seguito di George-Bund. che. E dato che anche i miei
tentativi si muovono in questa direzione, posso ben parlarne in base alla mia
propria esperienza, poiché avverto personalmente la loro grande necessità
interna al pari dei loro pericoli. Da un lato calcificazione corporativa,
dall’altra imbarbarimento soggettivistico, sono i due scogli su cui potrebbe
frantumarsi la nostra scienza nel corso della prossima generazione. La bussola
può essere sempre e soltanto questa: nessuna causalità senza valori, nessun
valore senza relazioni causali. Senza una robusta fame di valori l’indagine
delle relazioni causali si trasforma, anche se condotta con tecnica
virtuosistica, in mestiere triviale. Senza il piacere immediato della realtà
concreta e delle sue connessioni causali, rozze o raffinate, la
rappresentazione di valori ideali perde il suo terreno naturale, diventando
vuota e arbitraria. L'equilibrio tra le due tendenze non si realizzerà stando così le cose in modo ideale com'era possibile in Ranke,
perché la problematicità della situazione moderna e del pensiero moderno ha
distrutto le armonie in cui egli viveva interiormente ed esteriormente. Oggi
sembra che solamente una certa unilateralità possa proteggere l’uomo spirituale
dallo sconcertante predominio dell'ambiente. Ma l’aspirazione all’armonia deve
restare operante e potrebbe estinguersi soltanto con la decadenza o il crollo
completo della nostra cultura. II Quando Rickert ha aperto il cammino con la
sua teoria dei valori culturali e ha collocato questo concetto al centro della
dottrina della storia, Alfred Dove ha parlato con diffidenza e sospetto della
sua anguillesca elusività, Un diretto
scolaro di Ranke qual egli era, abituato a porre l'intuizione al di sopra della
comprensione concettuale, e che per giunta viveva e si muoveva familiarmente
tra i valori culturali, non aveva bisogno di un nome per ciò che già recava in
sé. Ma il pensiero concettuale segue da vicino il pensiero intuitivo e non può
a. A. Dove, Ausgewàhlte Aufsitze und Briefe (a cura di F. Meinecke ce O.
Damman), Miinchen rinunciare al
tentativo di delimitare in modo più preciso ciò che ci stava dapprima davanti
agli occhi soltanto in modo intuitivo e vivente. Se come in questo caso di chi pensa piuttosto in modo intuitivo si
deve dire che non raggiunge il suo scopo e che rende non già più chiaro, ma più
confuso l'oggetto di cui si tratta, ci si può sì scusare della povertà dello
strumento linguistico che costringe anzitutto all’uso di una parola equivoca,
ma si deve anche tentare di sanare l’indistinzione del nuovo concetto con più
precise determinazioni particolari. Tentiamone alcune. Come spesso avviene, una
nuova parola d'ordine, nata dalla vita e all’inizio assai cangiante, non
sviluppa una fecondità inaspettata, in quanto induce piuttosto a unificare in
connessioni determinate i fenomeni particolari che erano dispersi. Chiarimento
e delimitazione, nella misura in cui sono possibili, seguono sempre soltanto
gradualmente. Umanità, umanesimo, nazionalità, nazionalismo, storicismo,
individualismo e così via non sono che parole d’ordine e concetti familiari,
equivoci e sfuggenti ma tuttavia fecondi, indispensabili, che si chiariscono e
si approfondiscono a poco a poco, anche se mai in modo definitivo, attraverso
l’uso. Determinare l’essenza dei valori è l'impegno scottante della filosofia
moderna. Lo storico tenterà di imparare da essa, ma non per questo può e deve
rinunciare a formare in base alle sue esperienze più proprie la sua immagine
dell’essenza dei valori, che dal punto di vista del filosofo apparirà molto
sommaria, equivoca e perciò lacunosa, ma che proprio perché creata dalla prassi
della ricerca storica possiede forse una maggiore sicurezza di istinto rispetto
a quella che nasce da sforzi di carattere più logico-astratto. Con Troeltsch
noi distinguiamo i valori inferiori della vita, puramente animali che lo storico può prendere in considerazione
soltanto sotto forma di relazioni causali
dai valori superiori della vita, dai valori spirituali o culturali * che
costituia. Non posso condividere picnamente le distinzioni di H. Rickert
(Lebensiwerte und Kulturwerte, Logos ,
II, 1911-12, pp. 131-66, e Philosophie des Lebens, Tiibingen, 1920, p. 156
sgg.), secondo cui non esisterebbero in fondo valori che siano soltanto valori
vitali, e i valori culturali sarebbero più o meno distanti o anche opposti alla
vita per quanto scono la sfera
d'interesse propria dello storico, e la cui comprensione è il suo fine supremo.
Con il termine spirito non intendiamo semplicemente l’elemento psichico bensì secondo il significato antico la vita psichica altamente sviluppata, ossia
appunto ciò che distingue, sceglie e
giudica , producendo in tal modo cultura. La cultura è pertanto rivelazione e
irruzione di un elemento spirituale all’interno dell’universale connessione
causale. Tra la vita culturale e la vita naturale dell’uomo sta un campo
intermedio che partecipa di entrambe, che designiamo con il termine (oggi
sempre più impiegato in questo senso) di civiltà e che distinguiamo dalla
cultura superiore, spirituale in senso pieno
mentre un uso linguistico più vago, ma anche molto più diffuso, confonde
tra loro i due concetti *. La civiltà si innalza al di sopra della mera natura,
la quale viene trasformata dall’intelletto spinto dalla volontà vitale e
rivolto all’utile. In essa rientra anzitutto l’intero ambito delle scoperte
tecniche. Come scoperte, come realizzazioni di una mente spiritualmente
produttiva e originale, sono anche opere di cultura. Ma esse possono venir
spiegate anche biologicamente, in base a ciò che si chiama adattamento . L’atto stesso delle scoperte ha
quindi un aspetto biologico e un aspetto culturale. Una volta compiute,
applicate ed estese, esse minacciano, se non le sorregge una vita spirituale
autonoma, di sprofondare di nuovo nell’elemento meramente naturale e infatti una tecnica applicata si trova
anche presso gli animali. Ho cercato di illustrare questo campo intermedio
dell’utilitario con un esempio, quello della ragion di stato. Lo storico dovrà
avere continuamente a che fare con esso, non soltanto perché la parte di gran
lunga maggiore delle relazioni causali mi senta vicino, anche nel contenuto,
alla sua concezione dell'essenza della cultura. In fondo, qui ci separa più la
terminologia che non una differenza sostanziale. a. Si dovrebbe una buona volta
indagare l'origine e la storia delle distinzione tra cultura e civiltà. A
quanto mi risulta, essa è stata espressa per la prima volta da Kant nella sua
/dee 2u ciner allgemeinen Geschichte in weltbitrgerlicher Absicht. Nella
settima tesi si legge: L'idea di
moralità rientra ancora nella cultura; ma l’uso di questa idea, che riguarda
soltanto ciò che è conforme al costume nell'amore dell'onore e nella
correttezza esteriore, costituisce semplicemente la civiltà . che deve indagare
appartiene a questo ambito, ma anche perché i processi in esso presenti possono
diventare, in virtù di un incremento spesso non percettibile, opere di cultura.
Se ciò che è soltanto utile deve diventare bello e buono, l’anima deve
vibrare non abbiamo davvero altro
termine; altrimenti esso rimane appunto prestazione intellettuale senz'anima e
senza spirito, mera civiltà e non cultura. La cultura compare soltanto dove
l’uomo intraprende la lotta con la natura impegnandovi tutta la sua
interiorità, non soltanto la volontà e l’intelletto, dove agisce valutando nel
senso più alto, ossia dove crea o cerca qualcosa di buono o di bello in quanto
tale, oppure cerca il vero in quanto tale*. Tutto quanto l’uomo compie
valutando in tal senso, è fornito di valore anche per lo storico”, e gli offre
conferma della continuità e fecondità dell’elemento spirituale nella storia,
gli indica la via che il suo dispiegarsi ha preso fino a lui. Ma per poterlo
comprendere completamente, lo storico deve
come abbiamo detto indagare
l’intero campo in cui si radicano processi causali che in gran parte non hanno
nulla a che fare con la cultura. All’interno della sua rappresentazione se questa procede onestamente ciò che è legato ai valori e fornito di
valore risplenderà quindi soltanto qua e là, al pari che nella vita, come una
gemma rara tra ciò che cresce. Ma quanto sono rari in confronto alla massa di
processi umani in generale, altrettanto incomparabilmente numerosi sono
all’interno della storia queste realizzazioni e questi valori a. Pongo qui a
fondamento l'antica tripartizione dei beni ideali, anche se essa non esaurisce
il loro ambito e il loro contenuto. Ma essa può venir utilizzata a scopo di
abbreviazione. b. Identifico quindi realizzazione culturale e valore culturale.
I valori culturali non soltanto
aderiscono come ritiene
Rickert alle realtà storiche senza
essere essi stessi realtà, ma costituiscono un fattore integrante delle realtà
storiche, poiché queste possono venire alla luce soltanto in virtù della
cooperazione della causalità etico-spirituale, realizzatrice di valori, con la
causalità meccanica e biologica. Si veda anche la critica che E. TroeLTscH ha
rivolto (in Der Historismus und seine Probleme, Tibingen, 1922, p. 153) alla
dottrina rickertiana della mera aderenza
dei valori culturali ai fenomeni storici reali. La questione se al di là
della realtà storica esista un sistema di valori oggettivi, è un problema
metafisico che lo storico deve lasciare al filosofo. culturali. Ogni anima
umana individuale è infatti in grado di produrre valori culturali si tratti anche soltanto dei valori del
semplice adempimento del dovere a causa del bene. Secondo quali princìpi si
compie qui la selezione dello storico? Anzitutto, certamente, secondo il
principio dell’efficacia causale. Tutte le realizzazioni culturali che hanno
influenzato con maggior forza e permanenza la conservazione e l'ulteriore
sviluppo della cultura sono degne d’indagine e di rappresentazione. Il confine
tra ciò che è importante e ciò che non è importante risulta quindi fluido, e
dipende dalla sensibilità e dalla posizione dello storico. Dipende dalla posizione
perché, a seconda che si riferisca a formazioni storiche più limitate o più
comprensive, egli deve vagliare in modo diverso il materiale dei fatti: ad
esempio, per l’esposizione della storia di una città assumerà come importanti
fatti che su un piano superiore, come in una storia nazionale, devono essere
senz’altro ritenuti non importanti*. Altrettanto fluida e dipendente dalla
sensibilità è l’applicazione del secondo criterio di selezione delle
realizzazioni culturali, del quale abbiamo già parlato prima in un altro
contesto: quello del valore culturale proprio dei fenomeni storici. Mai e poi
mai le grandi realizzazioni culturali e le manifestazioni di un elemento
spirituale possono essere valutate esclusivamente in base al grado della loro
influenza causale sul progresso della cultura. Esse poggiano del tutto indipendentemente dal fatto che
abbiano influito o no sulla loro epoca
anche su se stesse, e sono di per sé degne di indagine, di
rappresentazione e di venerazione. Di esse vale ciò che il poeta dice
dell’antica lampada, che non ha più nessuna utilità ma che lo incanta: ma ciò che è bello, sembra felice in se
stesso 5. Questo è il punto che le
abituali intuizioni degli storici su ciò che è degno di indagine non sono
ancora giunte a decidere. Ho spesso discusso con Troeltsch in merito alla sopravvalutazione delle rea. Heinrich Mater
ha richiamato l'attenzione, in modo molto istruttivo, su questa specie di
procedimento cartografico: si veda Das geschichiliche Erkennen cit., p. 33. s.
Mòrire, nella lirica Auf cine Lampe, in Werke in drei Binden, Miinchen. lazioni
causali che ancor oggi domina la scelta
del materiale* Si sopravvalutano le relazioni causali particolarmente quando si
disconosce il momento individuale dell’origine dei valori culturali e si
trascurano quindi quelle relazioni causali che scaturiscono dalla spontaneità
dell’agire etico-spirituale personale e che non sono perciò così facili da
inserire nella connessione causale come le relazioni causali di natura
meccanica e biologica. I valori culturali nascono sempre soltanto
dall’irruzione di una forza spirituale specifica entro le serie causali
meccanicamente o biologicamente determinate. Ogni elemento spirituale, ogni
valore culturale è specifico, individuale, insostituibile da altri. Chi gusta
l’individuale in esso presente proverà anche subito il senso del suo valore e
lo apprezzerà quindi non soltanto come un elemento importante della catena
causale, ma anche di per se stesso. Certamente c’è pure un’individualità
indifferente e libera da valori ogni
oggetto ne ha una. Individualità storiche sono però soltanto quei fenomeni che
hanno in sé qualche tendenza al bene, al bello o al vero, e che perciò
diventano per noi fornite di significato e di valore. Esse lo diventano tanto
più quanto più fortemente questa tendenza si aggiunge, nobilitandola, alla mera
tendenza all'affermazione della vita e all’auto-affermazione delle formazioni
umane. La comprensione più profonda dell’individualità, sia della personalità
singola sia delle formazioni umane sovra-personali, fu la grande acquisizione
realizzata in Germania dall’idealismo e dal Romanticismo, e che creò lo
storicismo moderno. Soltanto in virtù di questa comprensione anche l’idea di
svilupa. Tale era anche il pensiero di Alfred Dove. Alludo alla sua bella
lettera a Rickert del 2 gennaio 1899 (in Ausgewahlte Aufsitze und Briefe cit.,
vol. II, p. 208). Lo storico in essa si
dice dedica alla vita passata un
interesseche è del tutto indipendente dalla questione relativa alla misura in
cui ha preparato la nostra vita presente. E perché vuol far questo? La
relazione che essa ha con noi è presente anche senza una causalità del genere:
se appena la vita passata che si prende in considerazione è in sé
significativa, essa desta il nostro sentimento di partecipazione, in quanto
fornita di valore dal punto di vista umano in generale. Noi non ci poniamo in
relazione con il passato in modo meramente causale, anzi saltiamo l’intero
spazio causale intermedio in virtù della semplice simpatia . po che a torto viene spesso considerata criterio
principale dello storicismo moderno, ma che è troppo versatile ed equivoca per
poterlo essere trovò il suo retto
cammino *. Lo sviluppo del feto umano è uno sviluppo biologico, non uno
sviluppo storico. Uno sviluppo storico ha luogo soltanto dove compare il
fattore spontaneo dell’uomo che agisce in base a valori e che produce quindi
qualcosa di specifico e di singolare. Perciò l’individualità storica si sviluppa e ciò che si sviluppa storicamente
sono sempre soltanto individualità, le quali si manifestano nello sviluppo *.
Anche la storia universale intesa per esempio nel senso rankiano che possiamo ancor sempre difendere, con
alcune correzioni e riserve è soltanto
un'unica grande individualità, piena di innumerevoli individualità grandi e
piccole. Tutti i valori culturali di questa storia sono al tempo stesso
individualità storiche, fino all’individualità suprema della storia universale,
e quindi pienamente comprensibili sempre soltanto in connessioni
storico-universali. Tutto nella vita lotta per avere forma e figura, e viene
sospinto da leggi di formazione. Questa conoscenza morfologica che per quanto riguarda la storia è stata
sostenuta nel modo estremo e più unilaterale da Spengler domina sempre più il pensiero moderno.
Storicamente fornite di valore diventano però soltanto quelle forme e figure
della vita umana che a. H. Ricgert ha potuto distinguere ben sette diversi tipi
di sviluppo! Cfr. Die Grenzen der naturwissenschlichen Begriffsbildung,
Tùbingen. Contro la sopravvalutazione
dell'idea di sviluppo si rivolge anche la lettera sopra citata di Alfred Dove a
Rickert, ma con una motivazione che non posso condividere. Egli scrive: dall’individuale all’individuale non c'è
sviluppo . Qui si dimentica che ogni individualità è inserita in
un’individualità di grado superiore, e che lo sviluppo che ha luogo entro
questa individualità superiore collega tra di loro, con filo spirituale, anche
le individualità più concrete che si sviluppano separatamente le une dalla
altre. Così esiste di fatto, per esempio, uno sviluppo dall’individuo Lutero
all'individuo Kant, ossia lo sviluppo che si è compiuto nel mondo dello spirito
tedesco-protestante. In merito al modo di vedere la storia proprio di Dove, si
vedano le mie osservazioni nella
Historische Zeitschrift , CXVI, 1916, p. 83. b. Gli sviluppi storici non sono altro che
individualità storiche concepite nel loro divenire e nel loro crescere (H. Ricxert, Probleme der
Geschichtsphilosophie cit., p. 47). servono non soltanto alla sua necessità
vitale, ma anche a un qualsiasi ideale e a valori etico-spirituali. Non appena
dalla forma traspare qualcosa di individuale-spirituale, essa desta l’interesse
dello storico; altrimenti rimane circoscritta alla sfera biologica della
semplice affermazione della vita, e lo storico può considerarla soltanto da un
punto di vista causale, per spiegare altri valori e non come valore in sé.
Però, almeno per l’occhio umano, la sfera biologica e la sfera dei valori
etico-spirituali non sono tra loro separate chiaramente e univocamente, ma
spesso si sovrappongono in modo impercettibile. È quanto abbiamo mostrato mi riferisco di nuovo al mio libro sulla Idee
der Staatsrison a proposito del campo
intermedio dell’utilitario. Questa impossibilità di determinare confini netti
tra le due sfere è propriamente ciò che ha prodotto tutte le differenze
presenti nel moderno pensiero relativo alle scienze dello spirito. Ognuno può
infatti interpretare e tracciare in modo diverso questi confini, riconoscerli o
non riconoscerli. Questa è la questione più tormentosa che perseguita lo
storico. Troppo spesso egli deve lottare con l’incertezZa se questo o
quell’elemento che egli indaga debba essere spiegato in base alla mera
necessità vitale e naturale, oppure facendo anche ricorso a fattori
etico-spirituali, a fattori di valore. Le necessità vitali e naturali, le
relazioni causali di tipo biologico, attraversano da capo a piedi anche colui
che agisce in base a valori e lo minacciano di intorbidare i valori, di far
passare valori apparenti per valori autentici. La cosa più inquietante è che
spesso un vincolo causale strettissimo unisce tra loro le due sfere, che spesso
valori culturali grandi e benefici hanno un’origine comune e sporca, vengono su
faticosamente dalla notte e dalla profondità
cosicché sembra, in certo senso, che Dio abbia bisogno del diavolo per
realizzarsi. Se poi si è d'accordo nel credere
di nuovo nel senso goethiano
all’unità della natura-dio, una luce più confortante cade anche su
queste connessioni. Dove i processi naturali della vita umana non entrano in
contraddizione con i precetti dell'etica, e quindi non diventano peccato, essi
possono apparire come lo sfondo naturale indispensabile, gentilmente
alimentante, per la produzione delle più splendide fioriture. Anche Goethe ha
ben sfogato la sua sensibilità nella sua arte così elevata poco importa se ciò sia avvenuto con o senza
peccato. È caratteristico il fatto che proprio in tale questione anche la
ricerca storica che è abitualmente più rivolta alle relazioni causali
dimentichi la causalità operante sui valori, cioè ignori o nasconda le grandi
acquisizioni della cultura rispetto alla sua origine spesso spaventosa e
disgustosa. Soltanto pochi storici hanno l’acuta sensibilità posseduta da
Burckhardt quando scoprì i presupposti politici e sociali della cultura del
Rinascimento in tutto il loro orrore, rimanendo egli stesso turbato da questa
connessione demoniaca. Soltanto allora si cominciano a registrare con una certa
equanimità i successi della politica di potenza che hanno trasformato e
rifecondato la vita culturale, e a considerarne i presupposti e gli effetti
collaterali più machiavellici come una conditio sine qua non. E in apparenza
essi lo sono anche ma con ciò va perduto
il sentimento della tragicità della storia. La cultura che si fonda sulla
spontaneità, sulla causalità la quale produce valori etico-spirituali ed è
quindi di nuovo strettamente connessa alle relazioni causali di tipo biologico
e meccanico questo è l’enigma che lo
storico non può risolvere. Cultura e natura
possiamo anche dire Dio e natura
costituiscono sì un’unità, ma un’unità scissa in sé. Dio si solleva al
di sopra della natura con lamenti e gemiti, e carico di peccati; e perciò si
trova ogni momento in pericolo di ricadere nella natura. Questa è l’ultima
parola per colui che osserva le cose spregiudicatamente e onestamente ma non può essere l’ultima parola in
generale. Soltanto una fede che è però diventata sempre più generale nel suo
contenuto e che deve lottare in permanenza col dubbio può offrire il conforto
che esista una soluzione trascendente del problema per noi insolubile della vita e della cultura. Ma noi abbiamo
perduto la fiducia che qualche filosofo abbia fornito o possa ancora fornire
questa soluzione trascendente. Il valore di verità dei sistemi filosofici e
delle ideologie è quindi dubbio; indubbio rimane invece il loro valore
culturale. Le formazioni ideali dei grandi pensatori sono quasi le più alte
vette dello spirito in mezzo alla natura che lo sorregge, quasi sempre le
realizzazioni supreme del misero essere umano, assetato di verità e sempre
errante: soltanto l’opera della grande religiosità e l’opera d’arte stanno più
in alto di esse. Se si riflette su quanto si è detto, ne risultano due specie
di valori culturali. Gli uni vengono intenzionalmente elaborati in uno sforzo
già prima diretto a tale scopo: formazioni ideali di tipo religioso e
filosofico, politico e sociale, opere d’arte, scienza. Gli altri fioriscono
mediatamente, e non secondo un intento precedente, dalle necessità della vita
concreta, indirizzata in senso pratico. Con i primi l’uomo cerca il cammino più
diretto e rapido dalla natura alla cultura; con i secondi rimane sul terreno
della natura, ma con lo sguardo rivolto alle alte vette dei valori che lo
guidano. Soddisfacendo le necessità della vita, egli cerca alla fine di
soddisfarle in modo che si realizzino contemporaneamente i valori del vero o
del bene o del bello. Vale quindi a questo proposito quanto ha detto Aristotele
a proposito dello stato: è stato costituito per poter vivere, ma esiste per
vivere bene. Ed è in primo luogo nello stato che la natura diventa in questo
modo, capovolgendosi, cultura. Nel lavoro immediato o mediato entro la cultura
sorgono così ovunque degli esseri spirituali, individualità storiche, delle
quali lo storico indaga contemporaneamente l’origine e l’efficacia causale al
pari del valore. La soggettività, che è ora connessa a tutti i valori, viene
posta almeno in secondo piano per il fatto che si apprezza in primo luogo il
valore del fenomeno che essa reca in sé, come rivelazione specifica e
insostituibile di vita spirituale *. Occorre inoltre trasferirsi nell'anima
stessa di chi agisce per poterne osservare l’opera e la realizzazione culturale
in base ai presupposti che gli sono propri, e in ultima analisi per rianimare
con l'intuizione artistica la sua vita passata
il che non è possibile senza la trasfusione del proprio sangue vitale.
Solamente un senso aperto con amore e tolleranza a tutto quanto è umano
raggiungerà quindi quel grado di oggeta. In ciò consiste anche la protezione
contro la pericosa tendenza dei moderni
sintetici a considerare il
fenomeno individuale soltanto come elemento e rappresentante dello sviluppo
universale, vale a dire nella prassi soltanto come punto di incrocio di tanti ismi
astratti. In tal modo si arriva nuovamente a una pericolosa vicinanza
con il positivismo, che pure si crede di aver superato. Nella più recente
storia della letteratura e dell’arte questa tendenza spadroneggia ormai in modo
inquietante. tività che è possibile. Qui si inserisce allora anche la teoria
della relatività dei valori, che Troeltsch ha formulato ?. Relatività dei valori non vuol dire
relativismo, anarchia, caso o arbitrio, bensì designa l’intreccio sempre mobile
e creativo, e perciò mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò
che esiste di fatto e di ciò che dev'essere . Ciò significa che la relatività
dei valori non è altro che l’individualità in senso storico, l’orma, in sé
fornita di valore, di un assoluto ignoto
poiché esso varrà per la fede come il fondamento creativo di tutti i
valori in ciò che è relativo e legato
alla natura temporale. Dal valore proprio delle individualità storiche si deve
logicamente distinguere il valore che esse hanno per noi e per la nostra vita.
Nella determinazione di questo valore deve naturalmente agire con forza
maggiore il bisogno soggettivo. Trarre dalia storia un insegnamento, un modello
e un’esortazione rientra quindi tra i motivi ineliminabili che hanno da sempre
condotto alla storiografia. Di qui i pericoli più gravi che minacciano il suo
carattere scientifico: la distorsione tendenziosa, l’idealizzazione o la
deformazione. Un senso storico purificato, che riconosca la legittimità sia del
carattere scientifico sia di quello sopra-scientifico della storiografia,
concederà che noi vogliamo imparare dalla storia anche per la nostra vita. Già
lo studio delle relazioni causali offre insegnamenti pratici in gran quantità.
Tutte le cause generali e ricorrenti in modo tipico, che operano nella storia,
possono ripetersi anche nel presente ed essere quindi considerate in base alle
esperienze compiute nel passato ®. Ciò che nel corso storico è individuale,
inimitabile, a. Cfr. Der Historismus und seine Probleme. În questo contesto
rinunciamo ad approfondire quelli che si chiamano i pericoli dello storicismo,
cioè gli effetti relativizzanti del pensiero storico nei riguardi di tutti i
valori, e ci limitiamo a quest'unica osservazione: che soltanto anime deboli e
di poca fede possono scoraggiarsi e fallire sotto il peso di questo storicismo
relativizzante. La fede in un assoluto ignoto non può venir scossa da esso. Ma
la pretesa che questo assoluto ignoto si sveli, in modo da poter essere toccato
con mano, è un residuo di rappresentazione antropomorfica della divinità. b.
Hegel ha sì negato che popoli e governi abbiano mai appreso qualcosa dalla
storia e abbiano agito secondo gli insegnamenti che se ne potevano trarre. Ma è
più giusto dire che di rado essi hanno imparato ciò che insostituibile, non
sopporta invece una tale applicazione pratica. Può però diventare contenuto
spirituale, modello ideale per coloro che possiedono un’individualità affine e
rispondente, e contribuire in tal modo alla loro più profonda e più ricca
formazione. Epoche e generazioni intere possono anche nutrirsi dei valori
culturali di un determinato passato, ad esse particolarmente affine. Le culture
tarde di regola hanno bisogno di sostegni siffatti. Ma sempre incombe allora il
pericolo di una mancanza di autonomia da epigoni, il pericolo di soccombere
interiormente agli spiriti del passato. Al contrario, uno spirito forte come
Max Weber poteva motivare il suo disegno immaginario di indagare la storia in
modo avalutativo con uno scopo altamente carico di valori: voglio vedere fino a
qual punto posso resistere. L'insegnamento più raffinato e più alto che la
storia ci dà è però quello che scaturisce senza essere cercato come lo abbiamo descritto sopra dalla pura valutazione delle individualità
storiche in sé. Il suo valore proprio è allora ciò che diventa valido anche per
noi. Esso non consiste in altro che nella conferma dell’infinita forza creativa
dello spirito, la quale non ci garantisce certamente un processo rettili neo,
bensì all’interno dei limiti della
natura un’eterna rinascita di
individualità storiche fornite di valore. In quanto queste individualità sono
tutte causalmente connesse tra loro e l'osservatore desidererebbe che avessero
imparato. Bene o male, Bismarck lo ha riconosciuto: Per me la storia è servita anzitutto a
imparare da essa qualcosa. Anche se gli avvenimenti non si ripetono, si
ripetono tuttavia le situazioni e i caratteri, in base al cui spettacolo e al
cui studio si può stimolare e formare il proprio spirito (Gesprich mit Memminger, , in Die gesammelten
Werke, Berlin). a. Marianne Weser, Max Weber. Ein Lebensbild, Tibingen, 1921,
p. 690. b. A questo proposito si veda l'acuta osservazione di G. von BeLOw,
Deutsche Geschichtsschreibung cit., p. 113, nota. Non posso quindi considerare, con Troeltsch,
la comprensione del presente sempre come
il fine ultimo di ogni ricerca storica
(cfr. Die Bedeutung des Protestantismus fiir die Entstchung der modernen
Welt, Minchen, 1911, p. 6). Essa è certo un fine assai giustificato e
necessario, ma non è né l’unico né il più alto. Ho spesso polemizzato con
Troeltsch su questo punto; e anche nel suo Historismus (p. 696) egli mi
rimprovera la tendenza a evadere verso
una contemplazione oggettiva e pura . formano nel loro insieme la grande
individualità complessiva della storia universale, anche l’individualità
storica della nazione, dello stato, della società, della chiesa ecc. entro le quali viviamo storicamente e alle
quali cooperiamo diventa cosciente del
proprio radicarsi nel processo complessivo. Proprio questa consapevolezza può,
a sua volta, sviluppare le più robuste forze etiche. La tradizione, che per
conto proprio e inconsapevolmente si
potrebbe dire naturalmente opera come
legame tra le generazioni, come custode dei valori culturali acquisiti,
soltanto ora si spiritualizza veramente, diventando valore culturale in senso
pieno: E così il vivente acquista di
passo in passo nuova forza °. Da quanto abbiamo detto risulta che la storia non
è altro che storia della cultura, dove cultura significa produzione di valori
spirituali di volta in volta specifici, ossia di individualità storiche. La
polemica tra gli orientamenti storiografici della storia politica e della
storia della cultura ha potuto aver luogo soltanto perché da entrambe le parti
non si era chiarito il rapporto tra relazioni causali e valori nella storia. La
storiografia politica vedeva nello stato il fattore centrale della vita
storica e, dal punto di vista causale,
con pieno diritto, perché le influenze causali più forti anche sulla vita
culturale provengono sempre dallo stato. E in quanto ogni comunicazione di
valori culturali ha bisogno della più ampia fondazione causale, già per questo
motivo anche lo stato dovrà rimanere sempre al centro della ricerca storica. Ma
esso è anche il valore culturale più alto possibile? Una certa inclinazione a
elevarlo a valore supremo era presente fin da Hegel, anche se trovò sempre un
limite nel giusto sentimento che, come valore, la religione gli è superiore. Lo
stato non può essere quindi il valore supremo, perché è vincolato in modo più
forte di quasi tutte le altre individualità storiche a necessità naturali,
biologiche, che gli impediscono di spiritualizzarsi e di eticizzarsi
completamente. La religione nelle sue forme più pure e l’arte nelle sue
realizzazioni più alte costituiscono i 6. GorrHE, Zur Logenfeier des 3.
September 1825, Zuwischengang. valori culturali supremi. Solamente dietro di
esse la filosofia e la scienza possono reclamare la loro posizione. Ma ci si chiederà immediatamente la vita attiva e produttiva dell’uomo non
viene con ciò sminuita nel suo valore a profitto delle attività meramente
contemplative e spirituali dell’uomo? Forse che la fuga dalla vita, la quale è
sempre in qualche misura connessa con queste, deve porsi più in alto della
formazione della vita? La risposta a tale interrogativo non può essere
semplicemente un sì o un no. Si manifesta qui il peculiare incrociarsi dei
valori. Se si chiede in quali sfere l’uomo può maggiormente innalzarsi al di
sopra della natura, occorre indubbiamente indicare le sfere della religione,
dell’arte, della filosofia e della scienza. La vita produttiva lega l’uomo più
fortemente alla natura: i valori culturali che l'uomo produce in essa recano su
di sé più polvere terrena, sono più torbidi e impuri di quelli delle sfere
contemplative che rifuggono dal mondo. Il compito di produrli non è soltanto
più difficile, ma è anche più pressante e inevitabile che quello di portare
alla luce i valori culturali delle sfere puramente spirituali. Il compito
stesso di creare il valore culturale della religione acquista la sua piena
urgenza e inevitabilità se essa non rimane auto-godimento mistico del divino,
ma penetra nella vita produttiva e ne diventa fermento. Analogamente, dagli
altri valori culturali elaborati in modo contemplativo cioè l’arte, la filosofia, la scienza si pretende a buon diritto che essi fecondino
non immediatamente, ma mediatamente, la vita produttiva. Tutti i valori
culturali supremi sono tenuti a servire questa vita. Possiamo anche dire che la
vita produttiva non crea certamente di per sé i valori culturali supremi, ma
che il compito primo e più urgente è di creare in essa valori culturali. La
vita contemplativa forma soltanto immagini della vita, non la vita stessa. Per
questo motivo essa può creare qualcosa di più spirituale e di più perfetto di
quanto non possa fare la vita produttiva. Queste immagini devono e possono
servire come guida alla vita produttiva nella sua lotta per i valori culturali.
Lo storico deve quindi rivolgere la massima attenzione a questo problema: fino
a qual punto e in quale grado la vita connessa alle necessità naturali venga in
tal modo trasformata e mutata in cultura. Attraverso queste considerazioni
l’importanza centrale della storiografia politica all’interno delle scienze
storiche risulta fondata più profondamente
riteniamo che non mediante gli
argomenti finora addotti a tale scopo. Essa ha a che fare con valori culturali
più imperfetti che non la storia della religione, dell’arte ecc. Ma non invidia
certamente a queste la fortuna di muoversi sulle vette dell'umanità. Indagando
lo stato, il fattore causalmente più efficace della vita storica, e al tempo
stesso cercando i valori che questo è in grado di produrre, essa deve sempre
guardare contemporaneamente alle profondità e alle vette della vita, e per
farlo è costretta a porsi pensosa nel centro della vita stessa. Essa è la più
prossima alla vita tra le scienze storiche. Si può discutere in base al concetto che si ha della vita
storica se la storia economica o la
storia sociale non siano ancora più vicine alla vita. Per vita storica noi
intendiamo però l’intreccio di natura e cultura; quanto più accanita è quindi
la loro lotta fecondatrice, tanto più è presente la vita storica. Noi vediamo
questo dualismo agire, nella sua forma più intensa, nello stato. Esso non lo
conduce ai supremi trionfi della cultura, ma allo spettacolo più memorabile e
più commovente della sua lotta con la natura. Spiritualizzare ed eticizzare lo
stato in cui si vive, anche se si sa che non ci si può riuscire del tutto,
costituisce insieme all’esigenza di
elevare spiritualmente ed eticamente la propria personalità la più alta delle pretese che si possano
porre all’agire etico; perché lo stato costituisce la comunità di vita più
influente e comprensiva e perché l’uomo che aspira alla perfezione può
respirare liberamente soltanto in uno stato che aspiri anch'esso alla perfezione.
E proprio l’elemento problematico, l'elemento di insicurezza e di precarietà
presente nei valori culturali dello stato è ciò che attira con forza magnetica
lo storico politico, per lo più in modo a lui stesso inconsapevole, verso i
grandi uomini di stato della storia universale, nei quali il conflitto tra
natura e cultura diventa grandioso. C'è poi ancora un campo intermedio tra la
storia politica, che rappresenta la lotta per i valori culturali nella vita
statale, e la storia dei valori culturali creati contemplativamente: il campo
delle idee politiche. Qui vita attiva e vita contemplativa si fondono. Dalle
necessità della vita politica attiva scaturiscono gli impulsi diretti a formare
immagini di questa vita nelle quali si mescolano tra loro realtà e ideale.
Secondo il desiderio di chi le forma, esse devono reagire sulla vita immediatamente e non soltanto mediatamente, come accade per
le immagini formate dall’arte e dalla scienza. Quando vi riescono, esse
diventano preludi di processi storici reali e sono già per questo motivo degne
di essere indagate, in quanto rappresentano relazioni causali importanti. Con
quanto zelo si è andati alla ricerca degli inizi dell'idea di sovranità
popolare e dell’ideale socialistal Ma esse derivano il loro valore culturale
peculiare dal fatto di rappresentare tentativi
rettilinei e ardui come quelli compiuti dagli uomini dediti alla vita
contemplativa di elevarsi al di sopra di
ciò che è meramente naturale e di spiritualizzare lo stato, almeno nel
desiderio. Esse devono perciò venir considerate, rivissute e rappresentate di
per sé, nel loro specifi co valore individuale, e non solamente nella loro
efficacia causale, con tanto sangue vitale quanto sarebbe necessario per
infonderlo di nuovo in loro. Altri possono essere presi in misura più forte da
altri tratti della vita storica concreta; io sono sempre stato profondamente
commosso dallo spettacolo delle idee individuali che nell’urto delle rozze forze terrene della
vita statale si destano e lottano per
sottrarsi alla loro pressione. Anche queste idee sono ancor più vincolate
all’elemento terreno, più fortemente intrecciate con le realtà effettive che
non le formazioni spirituali della pura vita contemplativa. Per questo motivo,
a contatto con esse si diventa più consapevoli dell’indispensabile terreno
della realtà naturale, senza il quale non è possibile nessuna formazione
culturale, neppure la più alta. Esse riuniscono l’odore della terra e il
profumo dello spirito. È quanto fanno anche gli stati concreti quando si
elevano come ci ha insegnato Ranke a esseri spirituali forniti di realtà. Dove
poi cresca il valore culturale più alto
se nello stato stesso oppure nell’idea del pensatore che lo percorre, se
nella città-stato greca o nell’ideale platonico dello stato che da quella è
sorto sarebbe pedantesco volerlo
decidere ogni volta. Talvolta è senza dubbio lo stato, altre volte è invece
l’idea politica che ne è scaturita, accettandolo o negandolo, a rappresentare
la realizzazione spirituale più alta; in molti altri casi, come nell’esempio
indicato, ci si asterrà dal giudizio di valore. La disposizione dei valori
culturali in un ordine progressivo può essere in genere effettuato soltanto in
modo sommario: lo esige il loro carattere individuale, che si fa gioco di un
criterio generale univoco. In quanto tutti i valori culturali vengono concepiti
come individualità, ci si accorge sommariamente che in essi è presente una
misura maggiore o minore di potenza spirituale o di vincolo naturale, senza
però poterlo valutare con precisione. Bastano già a impedirlo quelle
impenetrabili zone intermedie tra natura e cultura. Individuum est ineffabile.
Il fascino infinito del mondo storico consiste appunto nel fatto che esso
produce, in modo insieme misterioso e manifesto, sempre muove entità
spirituali, senza tuttavia ordinarle in una serie progressiva con una successione
ascendente. Infatti ogni epoca, come insegnava Ranke, è in rapporto immediato
con Dio. Vogliamo chiudere con le parole che egli fa seguire in questa frase,
poiché esattamente intese esse dicono la stessa cosa che abbiamo
cercato di illustrare in polemica con un’opinione ampiamente diffusa nella
corporazione degli storici: # loro valore non sta affatto in ciò che da esse
scaturisce, ma nella loro stessa esistenza, nel loro proprio io *. a. Ùber die
Epochen der neueren Geschichte (a cura di A. Dove), Leipzig. Storia e presente
costituiscono un’unità, che viene concepita dallo storico come fornita di una
duplice polarità. Un polo definisce la rigorosa concentrazione ascetica sulla
conoscenza del passato umano, con tutti gli strumenti di comprensione storica e
di ricerca critica, la quale può condurre fino all’ascesi entusiastica che
Ranke ha espresso con la frase, molto spesso richiamata, che egli voleva
dissolvere il proprio io per poter vedere le cose nella loro purezza. L’altro
polo cioè la sfera in cui lo storico
vive definisce al contrario la rinnovata
consapevolezza di questo io, non però del proprio piccolo io egoistico, ma
dell'io nutrito dal passato, riempito e allargato dai grandi compiti del
presente. La scienza storica è perciò sempre, al tempo stesso, scienza e più
che scienza. Abbiamo imparato più volte
e ciò rientra nei caratteri fondamentali della moderna impostazione
delle scienze dello spirito a guardare
al di là delle ristrette delimitazioni concettuali con cui dobbiamo sempre
orientarci in via preliminare. In ogni formazione storica si chiami essa scienza o stato, arte o
religione, Germania o Occidente c’è una
forza motrice che spinge oltre i confini che sembrano esserle imposti nella
realtà. Si potrebbe quasi dire che ogni essere storico desidera essere qualcosa
di diverso da ciò che realmente è. Questa è la dinami* Geschichte, Staat und
Gegenwart, in Logos, poi raccolto in
forma mutata e col titolo Geschichte ind Gegenwart nel volume Vom geschichtlichen
Sinn und vom Sinn der Geschichte, Leipzig, Kochler und Ameland, 1939, pp. 7-22,
c infine in Werke, vol. IV: Zur Thcorie und Philosophie der Geschichte,
Stuttgart, K.F. Kochler Verlag, 1959, pp. 90-91 (traduzione di Sandro Barbera e
R.). ca della vita storica, per cui avviene che le cose della storia trapassano
tutte le une nelle altre, cosicché noi vediamo sussistere tra di esse zone più
o meno larghe di confine anziché linee nette di separazione, e il singolo
fenomeno storico può spesso apparire tanto contradditorio in sé, e tuttavia
quanto mai pieno di vita. È ciò che chiamiamo coincidentia oppositorum, e su
cui fondiamo, a partire da Ranke e da Hegel, la moderna immagine della storia.
Essa è molto più complicata, molto più difficile da intendere che non
l’immagine che del passato si erano fatte tutte le generazioni precedenti e che
ancora oggi sta dinanzi al pensiero inesperto quando questo tratta di uomini,
tendenze, situazioni e idee come di entità circoscritte e facilmente
calcolabili. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che esiste un pensiero storico,
una forma di trattazione delle realizzazioni della cultura umana che devia
dall’abitudine ingenua e quotidiana di considerare le cose nella loro cosalità
e come qualcosa di immutabile anziché di fluido, cioè fuse tra loro e determinate
da innumerevoli relazioni enigmatiche. Si può qui ricordare il rivolgimento
avvenuto nel moderno pensiero naturalistico: quanto più la materia diventava
oggetto di un’indagine affinata, tanto più si risolveva in funzioni e in
relazioni enigmatiche. Il rivolgimento avvenuto nel pensiero storico, che ci ha
condotto da una visione meccanica a una visione dinamica delle cose, ha avuto
luogo molto prima dell’analogo rivolgimento nel pensiero naturalistico cioè oltre un secolo e mezzo fa, all’epoca
dello Sturm und Drang, dello scoppio della Rivoluzione francese. Di quell’epoca
Goethe ha così riferito, più tardi, in Dichtung und Wahrheit: Un sentimento che
prevaleva violentemente in me, e che non poteva esprimersi in modo abbastanza
meraviglioso, era la sensazione dell’unità di passato e presente! Qui abbiamo
l’inizio del processo di fusione nel pensiero, la coincidentia oppositorum,
l'influenza dinamica dell'elemento storico sul presente e viceversa. All’inizio
si trattava soltanto del sentimento, della sensazione dell’uomo geniale, non
ancora di un principio che trasformasse tutta l’immagine del mondo. Del resto
questa trasformazione è avvenuta soltanto gradualmente, allargandosi da cerchie
ristrette a cerchie più 1. GoerHt, Dichtung und Wakrheit. ampie, ed è ancora
ben lontana dal termine dei suoi effetti. Ma di fronte a tutte le altre
trasformazioni della vita di tipo
politico, sociale, economico e tecnico
che abbiamo vissuto dall'epoca della Rivoluzione francese, questo nuovo
modo di pensare dello storicismo dinamico ricorda il raffinato motivo melodico
di una sinfonia gigantesca, che spesso può scomparire nel tumulto degli ottoni
e dei tamburi ma che, riproposto da un nobile violino, penetra nell'intimità
del cuore. Non c’è più nulla di saldo e di concluso in sé, tutto è
divenire. Chi sa dove si va? si ricorda
appena da dove si è venuti per
riferirci ancora a Dichtung und Wahrheit e alle sue parole conclusive?: tale è
la parola d’ordine che da allora risuona nel mondo. Si rimane sempre scossi da
capo quando si riflette profondamente su questo mutamento e sulle sue
conseguenze. Qui voglio parlare soltanto delle conseguenze che toccano il
rapporto tra storia e presente. Mi riferisco ancora una volta alla frase di
Goethe, secondo cui nella sua sensazione passato e presente confluivano in
un'unità. Goethe aggiungeva che questa intuizione aveva introdotto nel presente
qualcosa di spettrale. Essa è stata benefica per la sua poesia. In altre
parole, egli ne presagiva la meravigliosa forza vivificatrice. Ma agli altri aggiungeva
sarebbe apparsa, nel momento in cui si esprimeva immediatamente zella
vita, strana, inspiegabile, fors’anche sgradevole. Qui Goethe ha di nuovo
avvertito, con geniale presentimento
anche se coglieva soltanto un aspetto del nuovo potente problema il carattere a doppio taglio degli effetti
del nuovo sentimento della vita e della storia. Questo nuovo storicismo
dinamico, che superava i limiti interni frapposti tra passato e presente e
rovesciava entrambi, con tutti i loro contenuti, nell’eterno crogiolo di un
divenire, di un’influenza e di una conversione reciproca, ci ha dischiuso i
mondi incantati di una nuova comprensione storica per tutto ciò che reca
sembiante umano; ma ha anche scosso in lungo e in largo, non tutto di un tratto
ma gradualmente, il saldo terreno di determinati ideali assoluti su cui
l'umanità aveva creduto fin allora di poggiare. Basterà ricordare per accennare soltanto all’elemento più
importante 2. GoetHE, Dichtung und
Wahrheit, libro XX. quanto difficile è diventata la posizione del Cristianesimo
rivelato dopo che la critica storica ha scoperto il divenire delle religioni,
le loro influenze reciproche e le molteplici forme di transizione delle
religioni orientali della redenzione. Se poi ci si rende conto del modo in cui
tutto questo prolunga i suoi effetti fino ai problemi religiosi del presente e
quanto oscuro sia il futuro religioso che ci sta dinanzi, allora può ben
riassalirci quella sensazione di spettrale che Goethe aveva provato al
primissimo balenare della nuova visione della storia. Lo storicismo ha
suscitato un relativismo che viene a considerare ogni singola formazione
storica, ogni istituzione, ogni idea e ogni ideologia soltanto come un momento
transitorio nell’infinito corso del divenire. Tutte le cose hanno perciò
solamente valore relativo. Come può prosperare la fede salda e la fiducia in
colui che crea di tendere a qualcosa di fornito di valore in sé? La parola
d’ordine dovrebbe essere simile a quella degli uomini di affari in epoca di
inflazione: rimanerne fuori! . Ciò può condurre a effetti che dissolvono e
minano in modo pericoloso: infatti può un giorno scaturirne uno scetticismo
sfiduciato e stanco, un dubitare del senso di questo eterno divenire e passare,
dal momento che il senso di ogni formazione storica particolare viene
immediatamente posto in questione dal senso
che appare altrettanto giustificato
delle formazioni in lotta con essa; tanto più se, come abbiamo già
detto, queste diverse formazioni che si succedono l’una all’altra non si distinguono
tra loro in modo preciso e determinato, ma trapassano l’una nell’altra. Può
inoltre scaturirne un opportunismo svelto e privo di princìpi, che non conosce
nessun saldo vincolo superiore, e acchiappa perciò veloce la preda dell’attimo
soddisfacendo l’interesse momentaneo. Non già che intenda ricondurre tutti i
fenomeni sgradevoli della nostra vita alla causa ideologica dello snervante
modo di pensare relativistico. Questo modo di pensare è anzi connesso
causalmente, a sua volta, con tutte le altre trasformazioni, in gran parte
assai elementari e materiali, della nostra esistenza. Esso rientra però nel
motivo melodico di quel potente processo che minaccia di sradicare gli uomini e
di farne mere funzioni nella dinamica complessiva della vita storica. Ma l’uomo
non vuole lasciarsi sradicare, non vuole diventare una mera funzione, vuol
rimanere un individuo di per sé, anche se sa che la sua individualità è sempre
intrecciata con tutto ciò che è sovra-individuale. Egli non è soddisfatto
neppure del punto di vista secondo cui ogni cosa agisce sull’altra e trapassa
in essa, ma vuole « distinguere, scegliere e giudicare . Alla conoscenza
eraclitea che « tutto scorre deve
immediatamente subentrare l’esigenza di Archimede: « dammi un punto di appoggio
». Ma in tal caso anche i compiti per i quali lavora, anche le idee per cui
combatte devono acquistare di nuovo qualcosa di stabile. Possiede lo
storicismo questa è la grande questione e il particolare tipo di relativismo da esso
prodotto la forza di guarire da solo le ferite che ha inferto? Soltanto chi
abbia avuto realmente una volta nella sua piena profondità originaria come in passato Goethe quella sensazione meravigliosa dell'unità di
passato e presente, risponderà senza esitare di sì prima ancora di aver
disposto tutti gli argomenti in un ordine logico. Ciò che ci rende
interiormente più ricchi, che ci porta a un contatto vitale immediato con gli
uomini e i tesori del passato, che ci insegna a comprendere o per lo meno a scorgere attraverso il ritmo dell’eterno divenire e
trasformarsi le profondità dei destini degli uomini e dei popoli, non può
recare in sé soltanto una forza distruttiva, ma deve anche possedere una forza
costruttiva. Ma come si dovrà definire questa forza costruttiva? com'è
possibile per dirla in modo semplice e
rozzo mostrare l'utilità della storia e
del pensiero storico per il presente? Non voglio importunare il lettore con le
consuete triviali verità o mezze verità con le quali si cerca di solito di
dimostrare l’utilità della storia per la vita produttiva. Nella situazione
spirituale odierna si deve cercare di assumere un punto di vista più elevato.
Non si deve mai perdere di vista il fatto che nello storicismo, il quale
relativizza ogni cosa, è certamente presente un veleno corrosivo, il cui
effetto può essere eliminato solo mediante altri forti ingredienti. E non si
deve neppure dimenticare che nei centocinquant’anni durante i quali il pensiero
storico è fiorito nella cultura tedesca gli effetti di quel veleno non sono
stati riscontrati, e sono stati tenuti indietro dagli effetti positivi e
creativi del pensiero storico-genetico. Esso diventò un’arma anzitutto per i
creatori dello stato nazionale tedesco. Da Dahlmann® e da Droysen fino a
Treitschke, furono gli storici politici a preparargli il cammino, e Bismarck
era pieno di intuizioni storiche che ricordano la saggezza di Ranke. Per Ranke
come per Hegel e per Droysen la storia rappresentava il corso del divenire che
tutto muove, trasforma e forma in modo nuovo. Come sono essi riusciti dobbiamo chiederci a far fronte, nonostante tutto, ad esso e a
non naufragarvi dentro, ma piuttosto a trarne forze positive e costruttive?
Dobbiamo perciò formulare la questione in termini ancor più generali: dove si
può cercare, in generale, l'antidoto al veleno del relativismo? Vi sono stati
tre diversi modi di coprire la prospettiva relativistica del puro divenire e
fluire delle cose mediante principi che tendano all’assoluto, cioè mediante
valori che possano resistere alla transitorietà temporale e fecondare così più
profondamente la vita produttiva. Prendiamoli sommariamente in esame e
chiediamoci quindi se, e in quale misura, possiamo ancor oggi adottarli. Il
primo modo è quello romantico, la fuga nel passato. Si trasfigura e si
idealizza un determinato momento di esso, lo si trasforma per quanto è
possibile in un’età dell’oro, lo si pone in contrasto con l’oscuro presente; e
nel caso che non ci distolga da questo trasognati o mal contenti, si può
agevolmente acquisire da un grande passato anche impulsi creativi per il
proprio tempo. Allorché il barone von Stein‘ diede quell’ordinamento cittadino
che fece epoca e concepì la grande idea, rivolta verso il futuro, dello stato
nazionale tedesco, a tale impresa cooperarono i ricordi romantici della libertà
municipale Dahlmann, storico e uomo politico tedesco, autore della Quellenkunde
der dentschen Geschichte (1830), delia Politik, auf den Grund und das Mass der
gegebenen Zustinde zuriickgefiihrt, della Geschichte von Dinemark, della
Geschichte der englischen Revolution, della Geschichte der franzòsischen
Revolution e di altri scritti, appartiene alla storiografia liberale del primo
Ottocento. Fece parte dell'assemblea nazionale di Francoforte, cd ebbe gran
parte nell'elaborazione del progetto di costituzione tedesca. Karl barone von
Stein, uomo politico tedesco, diede un contributo decisivo alla riforma dello
stato prussiano prima nel 1807-1808 e poi nel 1813-14, dopo la sconfitta di
Napolcone; sostenne la necessità dell'unione nazionale tedesca su base prussiana.
Meineckc sì riferisce qui alla riforma municipale del novembre 1808, che
concedeva l'autonomia locale alle città della Prussia. delle antiche città
tedesche della potenza imperiale del Medioevo. L'intero mondo conservatore vive
spiritualmente, in misura non piccola, di valori del passato idealizzati. In
generale, a un popolo pervenuto alla coscienza di se stesso è indispensabile un
frammento di culto del passato e degli antenati. Comprendere la storia del
proprio popolo non soltanto con visione storica, ma anche con l’animo, è un
processo salutare e profondamente giustificato. La mancanza di pietà verso il
proprio passato è innaturale e dannosa. Ma pietà senza critica non dovrebbe
esistere, allo stesso modo in cui non dovrebbe esistere critica senza pietà.
Rispondo così alla questione se sia possibile sottrarsi agli effetti
sgretolanti del relativismo con la fuga romantica nel passato, dicendo che in
ogni caso la vita dell’uomo moderno è povera e triste senza qualcosa del senso
romantico della storia, in generale del Romanticismo. Ma non appena si sviluppa
in modo eccessivo, esso ostacola la vita anziché promuoverla. Passato e
presente non confluiscono più in unità: il passato uccide allora il presente. E
se ci interroghiamo soltanto sul valore conoscitivo del senso romantico della
storia, anche in questo caso dovremo dire che tale elemento ci dischiude
profondità del passato che non sarebbero accessibili alla mera conoscenza
causale. Ma non appena un qualsiasi momento del passato viene elevato a norma e
a criterio di valore dell’intero processo storico e del presente in
particolare, sorge un dogma arbitrario che crolla immediatamente sotto la
critica corrosiva del relativismo. Cerchiamo dunque ancora il punto saldo che
ci permetta di far fronte al relativismo. Si può anche procedere al contrario
del Romanticismo e cercare il valore non già nel passato bensì nel futuro,
cercarvi cioè il fine della storia, che deve dare un senso al corso altrimenti privo di significato del divenire. Emerge qui una quantità di
volti di filosofi della storia, tutti tesi a riconoscere nella storia un
progresso reale verso un ideale determinato e assoluto. Alcuni credono che
questo ideale sia raggiungibile e conduca a uno stato duraturo di perfezione
dell'umanità, mentre altri si accontentano di avvicinarsi a que- sto fine in
un’approssimazione infinita. Ma nell’uno come nel- l’altro caso è stato questo
ottimismo del progresso ad agire potentemente nei secoli xvi e xix, diventando
la bandiera dell’umanità in marcia. Molte sarebbero le cose da dire a que- sto
proposito; ma qui mi limito a quest’unica domanda: abbia- mo oggi ancora questa
fede nell’ascesa continua dell’umanità verso gradi superiori? Possiamo
possederla ancora? A molti di noi il coraggio qui viene meno di colpo, e all'orizzonte
si levano le ombre della moderna problematica culturale. In Ger- mania abbiamo
sentito parlare, nel periodo successivo alla guer- ra, del tramonto
dell’Occidente. Ritengo queste profezie di de- cadenza altrettanto precarie e
soggettive quanto le prognosi di ascesa. Una volta colto il loro sfondo
psicologicamente soggetti- vo e legato a uno stato d’animo, scompare anche il
loro fasci- no. E di nuovo siamo di fronte alla corrente infinita del diveni-
re e del trasmutare storico. «Chi sa dove si va? non ci si ricorda neppure da
dove sì è venuti ». Questa corrente del divenire, che tutto relativizza e tut-
to dissolve nel suo movimento, relativizza appunto anche i due tentativi
compiuti dall’aspirazione umana a padroneg- giarlo spiritualmente, cioè il
Romanticismo rivolto al passa- to e l’ottimismo del progresso. È loro
caratteristica ed è pure la loro
debolezza — di immergersi essi stessi nella corren- te, per nuotare sia contro
di essa sia insieme ad essa. Ciò è possibile, e non dev’essere respinto senza
appello; si può ben pro- cedere in avanti, praticamente, di un pezzetto. Ma la
corrente ha la meglio sul nuotatore. In altri termini, entrambe queste visioni
della storia procedono in direzione orizzontale e soccom- bono perciò alla
corrente del divenire, che si muove orizzontal- mente. Ma si può considerare la
questione anche in senso verti- cale e tentare di costruire un solido ponte al
di sopra della corrente? Non si può forse guardare la corrente dall’alto di
questo ponte e scorgere ciò che c'è di saldo e di sicuro nel mutamento? Non
vedo nessun’altra via. Ed essa è stata percorsa da pro- fondi pensatori.
Proprio in Goethe si trovano le indicazioni più precise in tal senso, e Ranke
l’ha imboccata, dopo essersi immerso nella vita storica ancor più profondamente
di quel che era stato possibile a Goethe. L'ha poi di nuovo ritrovata, con i
più moderni strumenti filosofici, Ernst Troeltsch, e nella medesima direzione
si lavora oggi da parecchie parti. Per accen- nare la direzione in cui
dev'essere trovata la soluzione del no- stro problema voglio qui mettere a
confronto due espressioni, l’una di Goethe e l’altra di Ranke. Nella tarda
poesia di Goe- the che egli stesso chiama Vermdchtnis e che comincia con le
parole « Nulla può mai distruggersi, annullarsi », si dice: «Ed il passato è
allora duraturo, il futuro previve nel presente, l'attimo è eternità » 5. Anche
qui si esprime di nuovo il senso universale della storia proprio di Goethe, che
percepiva l’unità di passato e presente. Ma l’elemento di spettralità è
scomparso e nella pie- na coscienza della corrente infinita del divenire, che
unisce tra loro passato e futuro, un’idea di eternità prevale sull’infinito
meramente temporale; e non si tratta di un’idea di eternità soltanto
trascendente e speculativa, bensì di un’idea radicata nel cuore della realtà e
dell’esperienza vissuta. L'attimo è eternità. Veniamo ora alla famosa frase di
Ranke: «ogni epoca è in rapporto immediato con Dio ». Anche questa frase ci
sottrae alla mera corrente del diveni- re e ci spinge a cercare ciò che nella
storia è affine a Dio nell’attimo — nell’impulso all’eccelso di volta in volta
presente nel singolo uomo, nei singoli popoli e stati in ogni loro epoca e
momento. Verticalmente, non già orizzontalmente, la vita storica tende a quell’altezza
di cui è capace. In ogni epoca, in ogni formazione individuale della storia si
muovono forze spiri- tuali che aspirano a elevarsi al di sopra dell’ottusa
natura e del mero egoismo, verso un mondo superiore. Il loro volo si com- pie
più in alto o più in basso, ma ciò che esse realizzano è ogni volta qualcosa di
interamente individuale, distinto da tut- te le realizzazioni precedenti e
successive della storia; ed esse raggiungono tale scopo anche quando
esteriormente falliscono. Il loro valore consiste nella loro stessa esistenza e
azione, indi- pendentemente dal loro successo temporale — si tratti pure di S.
GorrHe, Verméchtnis (trad. it. di F. Amoroso). un andare a fondo con la
bandiera che sventola. In ultima analisi opera qui la convinzione che, almeno
per noi, l’elemen- to spirituale non è qualcosa di universalmente valido nel
sen- so delle verità matematiche, ma si concreta sempre e soltan- to in
individualità. Questa prospettiva ci spinge a cercare e a creare l’eterno
nell’attimo, nella costellazione individuale del- la vita. Possono certamente
sorgere dubbi se sia giusto fare dell’ele- mento più fuggevole, l’attimo, il
portatore dei valori dell’eterni- tà. Ma proprio questa paradossalità ci libera
dalla pressione paralizzante della transitorietà, dando a ogni momento e a ogni
formazione ricca di spirito della corrente del divenire stori- co la sua
particolare dignità e il suo valore peculiare e svilup-pando un impulso etico
più profondo della nostalgia di un passato più bello o della speranza di un
regno millenario. In qualsiasi modo pensiamo la divinità, sia che ce la
rappresentia- mo in forma personale o in forma impersonale, sia che osiamo
cancellarne la parola stessa e parlare soltanto di valori supremi — in ogni
attimo ognuno può sentirsi in rapporto immediato con tali valori, e quanto più
fortemente si sente in rapporto, tanto più sicuramente troverà la sua strada e
tanto più gioiosa- mente compirà il dovere che l’attimo gli impone. Egli può
infatti abbandonarsi a una stella che lo protegge infallibilmente dallo
sviamento di una visione della vita pura- mente relativizzante — vale a dire,
per usare le parole di Dilthey, alla « mirabile facoltà presente in noi che
chiamiamo coscienza »: e la coscienza è, per dirla con Fichte, «il raggio con
cui proveniamo dall’infinito ». Ma qui noi ne parliamo in una prospettiva di
teoria della storia, poiché una concezione storica priva di un saldo fondamento
etico diventa gioco di onde. Nella voce della coscienza tutto quanto è fluido e
relati- vo diventa, d’un sol tratto, saldo e assoluto nella sua forma. «
Soltanto la propria coscienza — è detto nell’Historik di Droy- sen — è per
ognuno l’assolutamente certo, è per lui la sua verità e il centro del suo mondo
». Il contenuto di ciò ch’essa dice al singolo uomo dovrà essere, sotto vari
punti di vista, 6. J.G. Droysen, Historik - Vorlesungen liber Enzyklopidie und
Methodologie der Geschichte (a cura di R. Hiibner), Miinchen und Berlin, 1937,
p. 178. individuale e temporalmente condizionato. Ma ogni esame con- dotto su
di sé mostra che la coscienza traccia ogni volta limiti esatti nei confronti
della mera soggettività, dell’arbitrio e di tentatori ancora peggiori. Per
bocca della coscienza parlano agli individui anche le potenze storiche
superiori — il popolo, la patria, lo stato, la religione e così via — e accanto
a ciò che esse dicono c'è di nuovo, nonostante l’essenza individuale di tali
potenze, quel mirabile carattere assoluto e vincolante che protegge anche la
vita comunitaria dal rischio di precipita- re nell’anarchia del volere
individuale. Se si arriva poi a conflit- ti di coscienza tra il volere
individuale e il volere delle forme superiori di comunità, la coscienza è
ancora l’unica istanza che decide interiormente in proposito e che deve quindi
porre fon- damentalmente il bene comune al di sopra del bene dell’individuo.
Così la coscienza è il potente mezzo connettivo della socie- tà umana, e al
tempo stesso l’autentica sorgente metafisica pre- sente nell'uomo. Nella
coscienza l’individualità si fonde con l'assoluto, e l'elemento storico con il
presente. E così mediante la coscienza è dato all’attimo quel contenuto di
eternità, di cui abbiamo parlato. Tutti i valori di eternità della storia
scaturisco- no, in ultima analisi, dalle decisioni della coscienza degli uomi-
ni che agiscono. Il senso della storia nella totalità dell'universo ci è
ignoto. La coscienza, in quanto costituisce l’elemento più affine a Dio
presente in noi, ci mostra per così dire soltanto un’orlatura dorata al cui
interno esso deve risiedere. Da questo senso assolu- to della storia
distinguiamo il senso che può avere per noi. Esso non si esaurirà nel
soddisfacimento del nostro bisogno causale, ma culminerà nell’accogliere e nel
rivivere in noi, com- prendendola, la rivelazione dell'elemento affine a Dio
che è presente nell’umanità. Qualcosa di questo vive — come abbia- mo chiarito
parlando del fatto della coscienza — in innumere- voli anime, in lotta continua
con tutto ciò che le trascina verso il basso e che spesso può sembrare preponderante.
Anche nelle formazioni individuali che cerchiamo di comprendere storica- mente
scegliendole dalla pienezza della vita complessiva, ciò che è affine a Dio —
cioè la cultura nel senso più alto — equivarrà in una prospettiva spaziale a
una sottile vena d’oro in mezzo a masse di minerale, mentre dal punto di vista
temporale rappresenterà spesso soltanto degli attimi fuggevolissimi della
storia universale. Ma nella misura in cui abbiamo guardato verticalmente verso
l’alto, abbiamo anche potuto dare all’attimo storico e alla sua individualità
un contenuto di eternità. Chi sa dove si va? - diciamo di nuovo pensando a
tutti gl’abissi della storia. E tuttavia non ci è consentito di spaventarci. Pietro
Rossi. Rossi. Keywords: lo storicismo, la critica della ragione storica, la
storia della filosofia – l’antichita – filosofia romana, filosofia antica,
gl’antichi, la filosofia romana, filosofia italica – indice al volume
‘L’antichita’ nella ‘Storia della filosofia” – “L’antichita” – storiografia
filosofica – l’origine della filosofia italica, l’origine della filosofia
romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Rossi” – The Swimming-Pool Library.
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