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Monday, April 8, 2024

GRICE E CARBONARA

 

 

Grice e Carbonara – l’esperienza e la prassi – Cicerone e il pratico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Potenza). Filosofo Italiano. Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input (esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla Husserl.  Conseguito il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.  Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno atto del pensare»..  Il problema secondo Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante.  La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso  non potendo rinunciare a se stesso ma neppure al suo opposto -- nec tecum nec sine te  -- solus ipse. Si interessa anche della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua spiritualità religiosa:  In Ficino, il platonismo si congiunge al cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone, Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone figura nella catena dei platonici romani.  Riallacciandosi a quella tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello; Introduzione alla Filosofia (Napoli;  Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo (Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il platonismo nel Rinascimento.  Iu un momento diverso dalla storica ora presente of¬  frire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro paese  il Sistema di Dottrina morale secondo i principi della Dot¬  trina della scienza di Giovanni Amedeo Fichte (‘) sarebbe  stata opera già esaurientemente giustificata e dalla gran¬  dezza di quel genio speculativo, e dal vivo crescente inte¬  resse del nostro tempo per il suo originale sistema ideali-  stico-romantico, e dalla capitale importanza che nella strut¬  tura del sistema stesso ha la Dottrina morale, e dall’op¬  portunità, quindi, di agevolare la diretta conoscenza di  questa a quanti tra noi non fossero in grado di leggerla  e gustarla nè nella classica (nonostante i suoi difetti) edizione tedesca dovuta alla pietà filiale di Fichte — divenuta oggi assai rara, ma di recente  lori. Gotto. Fichte, Das System der Sittenlehre nach <leu Prin-  zipletl (lev Wìsseuschaftslehre, Jena und Leipzig, Gabler, 1798.   (*) V. il voi. IV delle Opere complete (Sitmmtliche 1 Verke) di Giov.  Am. Fichte, edite in otto volumi e con assai utili prefazioni da Eli. Ehm.  Fichte (Berlin, Veit e C., 1845-46), dopo altri tre volumi di Opere  postume (Nachgelasseiie Werlce) apparsi per cura dello stesso editore  a Bonn fin dal 1884-35, ma aggiunti come ultimi agli otto prece¬  denti, i quali diventano perciò undici. I difetti, che sono stati rim-  fedelmente riprodotta (con tatti i suoi difetti) da Fritz Me-    proverati all’ edizione del Fichte figlio, consistono, tra gli altri — a  parte le critiche riguardanti 1’ordinamento generale degli scritti pa¬  terni (sulle quali v. A. Ravà, Le opere di Fichte, in Rivista di Filo¬  sofia, sett.-die. 1914) — in errori di stampa, lacune casuali o soppressioni arbitrarie di una o più parole, aggiunte o trasposizioni di  vocaboli, deposizione dei capoversi e punteggiatura non sempre quali  si avrebbe ragione di aspettarsi, ecc. ; donde non poche nè lievi difficolta per intendere bene e rendere esattamente in altra lingua il pen¬  siero dell’autore. La qual cosa ci preme far rilevare, anche perchè  non sembri esagerazione, se diciamo che fu lavoro di non poca lena,  sostenuta soltanto dall’interesse per l’opera fiehtiana, quello da noi  compiuto attorno a una traduzione che ci proponemmo eseguire con  la più 'scrupolosa fedeltà al testo originale, ma, in pari tempo, curando il più possibile la chiarezza del contenuto e l’italianità della  forma. Al quale duplice fine ci parve opportuno di riportare tra pa¬  rentesi curve ( ) le espressioni genuine e più caratteristiche dell’au¬  tore, quando il nostro idioma non si prestava a riprodurle se non  inadeguatamente ovvero assumendo un certo aspetto di stranezza, e  di chiudere tra parentesi quadre [ J le espressioni aggiunte dal tra¬  duttore con intento interpretativo o dilucidativo. Il lettore, in tal  modo, è sempre messo sull’avviso circa i punti in cui il linguaggio  dell’autore è meno trasparente e può giudicare se talvolta al traduttore — secondo il noto bisticcio - non sia accaduto di essere involon¬  tariamente il traditore del pensiero tichtiano. TI quale pensiero riesce  tanto più difficile a restituire nella sua forma genuina, in quanto che  esso non solo fu iu continua evoluzione e trasformazione, ma ebbe  dal Fichte, più oratore elio scrittore , le mutevoli formulazioni occasionali adatte alla predicazione, all’insegnamento e alla polemica, anziché la stabile struttura definitiva di un’opera d’arte destinata a tra¬  mandare ai posteri il documento autentico di un sistema compiuto;  e la Dottrina inorale, di cui ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello  stile, del carattere proprio a quella gran parte delle opere del Fichte,  che sono o riproduzioni o preparazioni, ampiamente elaborate in  iscritto, di lezioni e corsi accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit-  tenlehre (1798), e nel contenuto e uella forma, è la continuazione c  l’applicazione di quella Wissetischaflslehre che il Medicus, in  una sua monografia dedicata al Fichte, uou esita a chiamare “ il libro,  torse, più difficile che esista in tutta la letteratura filosofica (sie ist  vielleicht das schiiieriijste Rudi in der yesmnten philósophischen Luc¬  ratile) „ (cfr. Grosse Denker, editi nel 1911 a Lipsia, Verlag Quelle   dicus ( 1 ) — , uè nella libera e, proprio nei punti ove H testo  è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroeger; (in francese o in altra lingua non ci risulta sia stata  mai tradotta, il che non ha certo contribuito ad accrescerle    et Meyer, senza «lata, <la E. vou Aster) — della Dottrina  della Scienza abbiamo iu italiano la traduzione fattane da A. Tilouer  (Bari, Laterza, 1910) — j si noti, inline, che il Fichte figlio sconsi¬  gliava il Bouillier dal tradurre in altra lingua quelle, tra le opere  del padre, che non avessero un contenuto popolare e fossero scritte  in una rigorosa forma scientifico-filosofica — ecco le sue parole: “ .Te  conseille de ne pas traduire les oeuvres scientifiques proprement dites,  «:t d’ uno forme philosophique rigoureuse. 11 est à peu près impossi-  ble de les traduire «lana votre luugne; il faudrait les transformer et  eu changer l’exposition. Uue traduction littérale mirait le doublé iu-  convénient de taire violence à votre 1 angue, et de ne pas reproduire  le veritable esprit du système. „ (cfr. MéUiode pour arrivar à la tir  bica heureuse par Udite, traditit par M. Bouillier, aver, uno Introdaction  par Fichte le File, Paris, Ladrango) — : e si sarà, speriamo, meglio disposti a giudicare con qualche indulgenza le manchevolezze anche da noi sentite, ma che non riuscimmo ad evitare, so  pur erano evitabili, iu questa nostra traduzione, in cui la lettera do¬  veva più che mai venir suggerita e giustificata dallo spirito della dot-  liiua tradotta, onde ci s imponeva di continuo la necessità di ripen-  norr e, per quanto ci fu possibile, di rivivere il pensiero del Fichte.   '' 11 Jmc Gotti*. Fichte, IVerke, Auswahl in sechs Btinden (mit  nielli ci en Bildnisxen Fichtes ), edizione e introduzione di FimtzMediCUS,  Leipzig, 1908-1912. Non intendiamo detrarre nulla alle lodi giustamente!  tributate d’ ogni parte a questa nuova edizione delle principali opere  del Fichte, condotta di recente a termine e salutata nel mondo fìloso-  tico come un importante e lieto avvenimento, soprattutto per il con¬  tributo che porterà alla diffusione e alla conoscenza della dottrina  lichtiana; dobbiamo soltanto osservare che, almeno per quanto concerne  .1 System der Sittenlehre, di cui diamo qui la traduzione, la collazione  del testo nelfediz. del Medicus non presenta assolutamenta nulla di  diverso e nulla di migliorato, rispetto a quella del 1845-46 curata da  Lm. Era. Fichte ; se mai, anzi, qualche errore di stampa in più ; onde  essa non ci è stata di nessun aiuto. Tanto per la verità.   () The Science of Etìlica as based on thè Science of knowledge  by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E. Kroeoeh. edita da W. T. Har¬  ris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et Co., Ltd., 1907). il numero dei lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cata¬  clisma bellico che sì inaspettatamente ha tutta Europa scon¬  volto e le nostre coscienze profondamente turbato, in questa  tragica ora chè tigne il mondo di sanguigno, perchè proprio  nella terra classica dell’idealismo filosofico, sfrenatasi l'eb¬  brezza mistica di una supposta superiorità di razza e di col¬  tura, prevalso un malinteso spirito di egemonia mondiale,  straripata la prepotenza del militarismo, scatenatisi gli  istinti e le cupidigie più basse, la civiltà sembra inabis¬  sata nel buio e la scienza si è trasformata, con scempio  di ogni leggo umana e divina, in strumento di barbarie, rin¬  negando quel carattere umano che della scienza è e deve  essere la vera, sovrana, immortale bellezza, in questa im¬  mensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni  di più — contrariamente a quanto potrebbe parere a prima  vista — c’inducono all’opera stessa: da un lato mostrare  con quale serenità, imparzialità e altezza di vedute noi ita¬  liani, che più volte nella storia fummo maestri di civiltà,  sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri siano  agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo  di pensiero e di moralità che gli spiriti geniali, a qualun¬  que nazione appartengano, hanno recato alla coltura ; dal-  1’ altro fornire, con la divulgazione delle dottrine morali  di un filosofo tedesco come il Fichte — da cui più spe¬  cialmente con grave errore si vorrebbe derivare il panger¬  manismo — una prova di più della radicale deviazione che  le fiualità della Germania odierna, rappresentata dai Nietz¬  sche, dai Treitschke, dai Bernhardi, dai Chamberlain, dai  Woltmaun, segnano rispetto alle idealità profondamente  umane e universali rifulgenti in tutta la letteratura e in  tutta la filosofia della Germania classica, rappresentata da un Leibniz, da un Lessing, da un Herder, da un Gboethé,  da uno Schiller, da un Kant e dallo stesso Fichte (*).   Perchè anche il Fichte, al pari del suo grande predecessoro Kant — il filosofo della pace a cui Con esat-   *   tozza soltanto relativa egli fu contrapposito come il filosofo  della guerra —, aspirava, pur con tutte le esagerazioni es¬  senzialmente teutoniche del suo pensiero, al regno della ra¬  gione, al Vemunftstaat, basato sul riconoscimento del va¬  lore dello spirito quale unico, vero e assoluto valore, e co¬  stituito da personalità autonome e responsabili che devono  svolgersi soltanto entro le linee di un ordinamento razio¬  nale del tutto. Che se la magnificazione e la glorificazione  della lingua e del popolo tedesco a cui il Fichte assurge,  a cominciare dai Caratteri fondamentali dell’età presente (*)    (*) V. in proposito nella Revue de Métaphysique et de Morale (nov,  1914, pubbl. nel nov. 1915) l’importante articolo di V. Basch, L’Al-  le magne classique et le pangermanisme. V. inoltre Sante Ferra ni,  Fra la guerra e V Università (Seatri Ponente, 1915); in questo di¬  scorso inaugurale dell'anno accademico 1915-16 all’università di Ge¬  nova, l'A., dopo avere stigmatizzato con indignata parola “ la nuova  sofìstica, più audace e più operativa dell'antica, die in Germania per  decenni lavorò a eccitare gli spiriti e a iriebbriarsi nel sogno del  dominio mondiale a qualunque patto,,, “ le iniquità senza pari, cor¬  ruttrici, vigliacche, brutali, e le violazioni dei patti più solenni che  quel popolo sostituisce .... al valore degli eroi pagani, alla cavalleria  del guerriero medievale „ e u la volontà sinistra che informò i me¬  todi alla subdola preparazione dell'immane delitto „ (p. 7), invita a  distinguere in'quella nazione lo opere dei grandi avi e quelle dei ue-  poti : “ Quali e quante pagine troveremmo nei primi, atto a rintuz-  i zare, a riprovare, a distruggere le smodate ambizioni dell’ oggi ! e   quanti successori vedremmo rinnegati!,, (p. 13) e, per antitesi, si  ferma a illuminare nella loro sublime purezza le figure del Kant e a»  del Fichte.   ( 2 ) Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!. Werke, VI).  Queste conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi altrettanti  aifreschi di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo. sino ai Discorsi alla, nazione tedesca (*), attraverso la serie  di opuscoli politici intermedi ( 2 ), hanno potuto giustamente  apparire come la radice del pangermanismo, non ne segue  perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come !  esclama il Basoh ( 3 ), pangermanista quel Fichte che parla  nel 1807-08 a Berlino, ancora occupata dai francesi, dinanzi  a spie francesi, dopo Auerstftdt e Iena, dopo Eylau e Fried  iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui sappiamo le stipu¬  lazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè il  suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere can¬  cellato dalla carta d Europa con un tratto di penna del-  l’onnipossente imperatore francese, e appunto perchè la  Germania era stata spezzettata, la Prussia smembrata, egli  ha, per legittima reazione e con sflflrzo ammirevole, esaltato,  idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo alla realtà  la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso appa¬  riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia  cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land ,  quella lingua madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha    dello, e in cui il Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di  cosmopolitismo umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei  genere umano dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti  destini futuri, passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o  ragiono istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato o  ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della giustizia o arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione.   (') Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII).   (-) Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al-  1 inizio della campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu  All funge des Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici  dell’anno 1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus  und sein Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III).   ( 3 1 V. art. cit., pp. 783-784.      det-.fo egli st.esso. Questa lingua, questo popolo egli li póneva  non come già esistenti, ma come qualcosa che bisognava  creare, se si voleva salvare la nazione tedesca dalla rovina  totale e impedire che fosse radiata dal numero dei popoli  \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una  Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del  lèsto non abbiamo avuto anche noi, nella nostra letteratura,  un (fenomeno analogo ai Discorsi alia nazione tedesca, in  <\\i<\Primato morale e virile degli italiani , in cui, inver¬  tendo, il puuto di vista fichtiano, il Gioberti costruiva una  filosofa della storia non meno utopistica, ma che pur tanti  petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del  nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬  zialmente. opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬  tera ma nel suo profondo significalo filosofico, spogliato  dei suoi particolari riferimenti spaziali e temporali e con¬  siderato sub specie aeternitatis , allora non solo oltrepassa  il valore di ubo scritto d’occasione, ma si eleva all’altezza  di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di nobili  pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi  a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a    (') Li il leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il  “ dover essere ossia 1' “ idealo „, come condizione creatrice e ragione  sufficiente e spiegazione finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se  il Kant potè dirsi il Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il  punto di vista del problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬  l'essere al conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della  filosofia, in quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere  al fare, dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto  sta per lui nell’ideale, nel dovere.   ( ! ) V., in Rivista di Filosofa (ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬  mato „ del Gioberti e i “ Discorsi alla nazione tedesca „ del Fichte.     qualsivoglia dogmatismo, specialmente se materialistico,  sostiene in sostanza che non c’è possibilità di filosofia  e di poesia, di religione e di educazione, di libertà e di  progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e in  nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e  direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/  egli chiama filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi  filosofia straniera, ossia morta. E che intende egli , per  tedesco ?  Non occorre ricordare che secondo il Fichte vi sono dué sistemi  filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal suo punto/di vista:  a) il dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della filosofia è spiegare l’espe¬  rienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni delle Còse. Ora si  può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose, come fa il dogma¬  tismo, b) o far derivare la cosa dalla rappresentazione, cóme fa l’idea¬  lismo. Lo scegliere l’una piuttosto che l’altra delle dué vie possibili  dipende dal carattere individuale. Un sistema filosofico — bastereb¬  bero queste parole a mostrare quanta fede pratica, quanta iniziativa per¬  sonale ed energia spirituale il Fichte mettesse nella sua filosofia e  quanta ne esigesse da chi questa filosofia voglia comprendere — non è  uno strumento inanimato che si possa a piacimento possedere o alie¬  nare : esso scaturisce dal più profondo dell’anima umana: “ Iras far  eine Philosophie man wàihle, hangt... davon ab, was man far ein Mensch  ist: demi ein philosophisclies System ist nicht ein todter Hausrath , dea  man ablegen oder abnehmen honnte, irte es mis beliebte, sonderà es  ist beseelt durch die Seele des Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein lei-  tung in die Wissensehaftsle'ire , Scimmtl. IVerke, I, p. 434). La scelta  sarà diversa secondo che prevarrà in noi il sentimento dell’indipen¬  denza e dell’attività o il sentimento della dipendenza e della passi¬  vità; un carattere flaccido per natura, ovvero rilassato e incurvato  dalla schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato o dalla vanità, non  s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar schiaffar oder durch  Geistesknechtschaft gelehrten Luxus and Eitelkeit erschla/fler und  gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum Idealismus erheben. „ (ibid.).  E ciò, indipendentemente dalle ragioni teoretiche che anch’esse dànno  un’incontestabile superiorità di filosofia esaurientemente persuasiva  all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e assurdo dogmatismo. Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con- '  cotto àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’autore stesso ha cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬  fetta „ ciò che in tutto il suo libro ha intesò per tedesco  (was uoir in unsrer bishcrigen Schilderung unter Deut-  schen verstanden haben). “ Il vero e proprio punto di di¬  visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che nel¬  l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario,  si crede nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬  terno progresso della nostra specie, oppure si nega tutto  ciò e si crede di vedere e comprendere chiaramente che è  vero tutto il contrario. Coloro che vivono creando e pro¬  ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa sorte,  almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore  (,das Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte  la corrente della vita originaria venga a rapirli con sè,  coloro che, non essendo neppure tanto avanti, almeno pre¬  sentono la verità, e non l’odiano o non la paventano, ma  l’amano: tutti costoro sono uomini originari e, considerati  come popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il  popolo per eccellenza, sono tedeschi. Coloro, invece, che si  rassegnano a essere un che di secondo e derivato e chia¬  ramente concepiscono e riconoscono sè stessi come tali,  tali sono in realtà, e sempre più tali divengono in forza  di questa loro credenza; essi sono un’appendice della vita  che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per  impulso proprio, essi sono l’eco che la roccia rimanda di    () S’intitola: Noch tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid  Deutscheit eines Volkes (Sammtl. Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad.  ita!. Burich, Palermo, Sandron).  una voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono  un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri  ed estranei (Fremete und Andando-) „ (»). Ecco, dunque,  che cosa significa: tedesco! non già il tedesco considerato  Ine et nune, ma il simbolo di un tipo ideale, onde il Fichte,  continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella spiritualità,  nella libertà e nel progresso di questa spiritualità mediante  la libertà, egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua parli  (wo es auch geboren seg und in welcher Sprache cs reile)  e dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chiunque, invece,  crede nella stasi generale, nella decadenza, nel ricorso circo¬  lare e pone a governo del mondo una natura morta, egli,  dovunque sia nato, qualunque^lingua parli, è non-tedesco  (undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile che  quanto prima si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬  scorsi alla nazione tedesca, dunque, soltanto occasional¬  mente si rivolgono al popolo germanico, mentre nella loro  profonda verità si rivolgono a tutti i popoli moderni, a  tutti gli uomini che hanno fede nella libera spiritualità,  di qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la via  sulla quale si può servire alla propria patria particolare  e insieme alla gran patria comune, si può essere a un  tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’ interessi su¬  premi ed essenziali dell’umanità sono sempre e dovunque  gli stessi.   Ma a dimostrare in modo* 1 definitivo quanto l’autore  dei Discorsi sia alieno dal cosidetto pangermanismo sta il   () Reden an die deutsche Nalioti (Stimmll. Werke, VII, p, 874),  (nella trad. ital.).   (’) Ibid. p. 375, (nella trad. ital., pp. 144-145); il nerette delle  parole " dovunque sia nato ecc. „ è nostro discorso decimoterzo, donde trae maggior luce il significato  di tutti gli altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai quali  piace farsi forti dell’auLorità del uostro filosofo, si siano di  proposito arrestati dinanzi a questa sua arringa, che pure è  il punto culminante verso cui tendono le rimanenti e che  può dirsi un vero catechismo antimperialistico. Tutto ciò  che all’imperialismo della Germania odierna sembra l’ideale  che essa sarebbe chiamata ad attuare: il possesso di colonie,  l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e l’industria mon¬  diali, le guerre di aggressione e ili conquista, la barbarie  scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi invasi,  la visione di una monarchia universale, l’egemonia assoluta,  vi ò rappresentato come odioso e insensato (‘).   Ammettiamo pure che il Fichte abbia combattuto questa  criminosa megalomania perchè essa nel 180G s’incarnava  sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men vero,  però, che l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo re¬  ciso a tutta una concezione politica che fa di lui il figlio e  il rappresentante più genuino della rivoluzione francese. La  sua vita, i suoi scritti di filosofia pratica e di filosofia della  storia nte sono prova ampia, piena, sicura, e se anche su¬  birono modificazioni, queste riguardano non il suo pen¬  siero e i suoi sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre  gli stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il mutato  aspetto della Francia, divenuta, da repubblicana e libera¬  trice, imperialistica e liberticida. Nato popolo — figlio di  un povero tessitore, infatti, comincia la vita avviandosi al  mestiere paterno e guardando le oche — , egli sempre po-    (*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke, VII, pp. 459-480), nella irad. ital.,I    polo è rimasto nel più profondo dell’anima, per quanto  ricca e forte sia divenuta poi la sua coltura, a qualunque  sommità della scienza, dell’eloquenza e della gloria siasi  inalzato il sùo genio. Già sin dagl’ inizi della sua fama si  rivela un democratico ardente, giacobino quasi, irrecouci-  1 iabile avversario di ogni pregiudizio religioso, politico e  nazionalistico. Subito dopo la sua Rivendicazione delia li-  berlà di pensiero dai principi d'Europa die /ino allora  l'acecano oppressa (1793) (‘), egli, nei suoi Contributi alla  rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione fran¬  cese (1793) (*), plaude ai principi dell’89 col fervido entu¬  siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta da quel grande  atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella rivo¬  luzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a sangue  il militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da  capricci dinastici, e lancia contro principi e monarchie as¬  solute i primi strali di quell’eloquenza appassionata che fa  di lui forse il più grande oratore della Germania. Zuruckfarderung der Denkfreihe.it von den Filrsten Europas,  die eie bisher unterdriikten (Sdmmtl. If erke, VI).   (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile des PubVcuins iiber  die franzòsische Revolution (Sananti. Werke, VI).   C) In queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo furono  messe all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la ri¬  voluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del pensiero,  che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo Stato, e che  l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è inaliena¬  bile il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di uscire da  un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che ap¬  punto si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò   la coltura di tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece  di lavorare al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di de¬  pravazione morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura  dei sudditi a loro affidati? Sotto forma di educazione alla guerra;  perchè, dicono essi, la guerra coltiva. « Qra, è vero che la guerra   Il Fondamento del Diritto naturale secondo i principi    inalza le nostre anime a sentimenti e azioni eroiche, al disprezzo del  pericolo e della morte, alla noncuranza dei beni continuamente esposti  ni saccheggio, a una simpatia per tutto ciò che ha aspetto umano,  perchè i pericoli e i dolori sopportati in comune stringono di più gli  altri a noi. Ma non crediate di vedere in queste mie parole un pa¬  negirico della vostra follia bellicosa, o fors’anco l’umile preghiera che  l’umanità dolente v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal decimarla  con guerre sanguinose. La guerra non inalza all’eroismo se non le  anime già per natura eroiche; incita, invece, le anime poco nobili alla  ruberia e all'oppressione della debolezza priva di difesa. La guerra  crea a un tempo eroi e vili rapinatori, ma aitimi ’ delle due specie  quale in numero maggiore ? „ (cfr. Sàmmtl. Werke, VII, pp. 90-91). Nel  fondare e governare i loro Stati i monarchi mirano a rafforzare la  loro onnipotenza all’interno, ad allargare le loro frontiere all’esterno:  due fini, questi, tutt’altro che favorevoli alla coltura dei loro sudditi.  1 monarchi pretendono di essere i custodi del necessario equilibrio  delle forze europee; ma questo fine, se è il loro, è perciò anche quello  dei loro popoli? “ Credete proprio — egli domanda ai principi tede¬  schi — che l'artista o il contadino lorenese o alsaziano abbia molto  a cuore di veder menzionata la propria città o il proprio villaggio, nei  manuali di geografia, sotto la rubrica dell’impero germanico, e che  por ottenere ciò butti via lo scalpello o l’aratro ? Il pericolo della  guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a morte la coltura, ultimo fine  dell’evoluzione umana, deriva unicamente dalla monarchia assoluta,  la (piale tende per necessità alla monarchia universale. Sopprimete  questa causa, e tutti i mali che ne derivano scompariranno anch’essi,  e le guerre terribili e i preparativi della guerra, ancor più terribili,  non saranno più necessari (ibid. p. 95). — Più oltre, poi, troviamo il  Fichte antisemita e antimilitarista: antisemita contro quegli ebrei  “ che sono refrattari ad assimilarsi alle nazioni in mezzo a cui plu¬  vi vono „; antimilitarista contro l’esercito del suo tempo “ che met¬  teva il proprio onore nella propria umiliazione e trovava nell’impu¬  nità per le sue angherie contro i borghesi e i contadini un compenso  ai pesi del proprio stato „. E continua: “ Il più brutale semibarbaro  crede acquistare con la divisa militare una superiorità sul contadino  timido e spaventato, che sopporta le sue prepotenze e i suoi insulti  per non essere, per soprammercato, anche bastonato. Il giovincello  che può vantare più antenati, ma non certo più coltura, considera  la propria spada come un titolo sufficiente per guardare dall’alto e  con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e l’uomo di Stato. \Vilt —    della Dottrina della scienza (1796) (') e Lo Stato commer¬  ciale chiuso (1800) contengono auch’essi una filosofia poli¬  tica che, scaturita interamente, oltreché dal pensiero kan¬  tiano, dai principi della rivoluzione francese, supera quel  pensiero e questi principi per le conseguenze economiche che  egli fu il primo a trarne, e approda aH’atfermazione di un  diritto dei popoli e di un diritto dei cittadini del mondo  (Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla necessità di un’a¬  nione di popoli ( Vdlkerbund) — ben diversa da uno Stato di  popoli (Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti  gradatamele alla Pace perpetua (zUm ewigen Friede) Grundlage des Natnrrechte nach Prinzipien dee ìVissenscliafls  Pin e (Siimmil. Werhe, IH).   (*) Ber geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe, III). Vediue-  auclie la traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo ordinamento di uno Stato  ec<\, Lugano, 1851, e l’altra (anonima) Lo Stato secondo ragione e lo  Stato commerciale chiuso, Torino, Bocca, 190».   ( 3 ) Ecco, sommariamente, la dottrina politico-economica del Fichte:  La radice più profonda dell’Io è l’Io pratico o la libera volontà; e  poiché alla libera volontà di eiasenu individuo si contrappone quella  degli altri, nasce una libera azione reciproca tra lo diverse volontà  individuali, per regolare la quale gli uomini'hanno concluso il con¬  tratto sociale da cui è uscito lo Stato. Nello Stato il potere legisla¬  tivo appartiene alla comunità dei cittadini; l’esecutivo può essere af¬  fidato sia all’elezione (democrazia), sia alla cooptazione (aristocrazia),  sia all’elezioue e alla cooptazione insieme (aristodemocrazia). Tutte  queste forme di governo sono egualmente legittime, purché vi sia  accanto a esse uu altro potere ìndipendente, VSforato, il quale decida  dei casi in cui il potere esecutivo, essendo caduto in errori o colpe, deve  risponderne dinanzi alla comunità. Oltre a questo contratto sociale-  politico, il Fichte, oltrepassando la prudenza borghese del Kant, il  quale ammetteva come legittima l’ineguaglianza economica accanto  all’eguaglianza politica, istituisce uu contratto sociale-ecouomico  (Eitjenthumverlrag) / egli proclama originari in ciascun uomo il diritto  alla vita e il diritto al lavoro, e di fronte alla proprietà privata (pro¬  dotti del suolo coltivato, bestiame, case, mobili, ecc.) dichiara pro¬  prietà dello Stato ciò che la natura produce da sola e ciòcia' la col- sino all’alt,imo anno della sua vita, nelle lezioni sulla Z>n/- '    letti vitti produce meglio del singolo individuo (miniere, foreste, grandi  industrie, seryizì pubblici, ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti na¬  turali richiede corporazioni di competenza tecnica, e sulla qualità o  quantità dei prodotti industriali il diritto di sorveglianza Ha parte  dello Stato. Donde segue la necessità che da uu lato i cittadini ri-  uuuzino alla libertà industriale, e dall’altro si stabilisca uno scambio  armonico tra i prodotti naturali e i prodotti industriali, essendo reci¬  procamente gli uni indispensabili alla produzione degli altri. Per questo  scambio si è formata la classe speciale dei commercianti. Per impe¬  dire ai produttori di elevare ad arbitrio i prezzi dei prodotti, lo Stato  accumula iu magazzini generali, mediaute prestazioni in natura degli  agricoltori e prestazioni d’opera degli artigiani, i frutti della terra e  gli strumenti del lavoro, si che i prezzi veugouo livellati. Per obbli¬  gare i produttori a vendere, lo Stato mette iu circolazione la moneta,  la quale rappresenta la somma di ricchezza che può essere venduta,  e rende possibile a uu produttore di cedere i suoi prodotti anche in  un momento iu cui non gli occorra ancora di prendere in cambio altri  prodotti. E atiinehè sia garantita la proprietà e regolata la circola¬  zione dei prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori, industriali  e commercianti — equilibrio che sarebbe turbato dall’importazione  di prodotti stranieri, dei quali i cittadini debbono assolutamente poter  fare a meno - è necessario che lo Stato vieti tutti gli accessi ai  commercianti di fuori e ai contrabbandieri di dentro, che sia cioè  uno Stato commerciale rigorosamente chiuso. Il Fichte si ripromette  le conseguenze più vantaggiose per la moralità del “ popolo fortu¬  nato „ elio adotti la perfetta chiusura commerciale e viva soltanto  di ciò che ò prodotto e fabbricato dal paese, venduto e consumato  nel paese (cfr. Der geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke, III,  pp. 501-509), e conclude che di li innanzi sarà la scienza il miglior legame intemazionale tra tutte le nazioni divenute Stati chiusi : perché  “ nessuno Stato della terra, dopoché il sistema politico-economico  dianzi descritto sia diventato universale, e siasi fonduta pace perpe¬  tua tra i popoli, avrà il menomo interesse a celare ad altri le proprie  scoperte, giacché ogni Stato potrà servirsene soltanto all’interno per il  proprio sviluppo e non già per opprimere gli altri Stati o acqui¬  stare una qualsivoglia preponderauza su di essi. Nulla, quindi, impedirà  la libera comunicazione tra i dotti e gli artisti di tutte le nazioni:  di 11 innanzi i giornali, invece di guerre e battaglie, trattati di pace  e di alleanza, conterranno soltanto notizie dei progressi della scienza,  delle nuove invenzioni, del perfezionamento della legislazione e degli     trina dello Sialo ('), tenute a Berlino nel 1813, proprio  quando la Prussia si preparava a quella guerra d’indi¬  pendenza che egli tanto si era adoperato a suscitare, si  domanda ancora una volta quale sia la guerra legittima  (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta  soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di  un popolo siano attaccati; gli uomini, per compiere il loro  destino, devono formare società libere, e uno Stato non  ha valore se non in quanto può contribuire all’avvento  del regno universale della libertà e della ragione. A questa  guerra veramente popolare vuole il Fichte nelle sue le- ordinamenti di governo; e. ogni Stato si affretterà ad arricchirsi delle  scoperte degli altri popoli.  Nè si ha a temere, del  resto, dalla chiusura commerciate dei singoli Stati il loro isolamento,  perchè i rispettivi sudditi, iu quanto cittadini del mondo (Weltbiirger),  circolano liberamente da uno Stato all’altro, portando seco i diritti  inerenti alla persona e alla proprietà; occorre anzi, per questo, una  legislazione comune che garantisca tali diritti e punisca l’ingiu¬  stizia commessa dal cittadino di uno Stato a danno del cittadino di  un altro Stato. I diversi Stati, inoltre, fanno contratti, concludono  trattati e sono rappresentati gli uni presso gli altri da ambasciatori.  Nel caso che uno degli Stati contraenti violi il contratto, la guerra  è 1’ unico mezzo per punirlo di questa violazione. Ma ogni guerra è  aleatoria, e se proprio lo Stato che violò il contratto rimanesse vit¬  torioso, in quanto più forte?! A evitare tale ingiustizia bisogna che  un’Unione distati, meglio ancora, un’Unione di popoli (VSlkerbund)  s'impegni a punire, viribus uniti», lo Stato che, appartenente o no  all’Unione, si rifiuti di riconoscere l’indipendenza degli Stati uniti  o violi un contratto concluso con uno di essi (Orundlage des Na¬  ta rrechts nach Prinsipien der Wissenscliaftslelire, Sa minti- Werke ,  III, p. 379). Quanto più questa Unione si allargherà, estendendosi a  poco a poco su tutta la terra, tanto meglio sarà assicurata la Pace  perpetua (der ewige Friede), che è il solo rapporto legale tra gli Stati:  la guerra dev’essere soltanto mezzo al fine supremo, che è la conser¬  vazione della pace; mai fine a sé stessa. Die Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum  Vernunftreiche (Siimintl. Werke, IV). zioni preparare gli uditori, perchè è questa “ la guerra  legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di famiglie  regnanti, ma in cui il popolo si leva a difendere la pro¬  pria vita, la propria individualità, le proprie prerogative,  la guerra a eui soltanto i vili vorrebbero sottrarsi, e  per cui invece i cittadini con esultanza daranno i loro  beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta di pace sino  a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulterio-  re „ ('). L’oratore, è vero, contrappone ancora una volta  qui il carattere germanico al carattere neolatino e spe¬  cialmente al francese, per concluderne che non bisognava  aspettarsi certo da un Napoleone, strangolatore della na¬  scente libertà della Francia rivoluzionaria, l’attuazione del  regno di giustizia che l’architetto del mondo affidava invece  al popolo tedesco; ma ciò attesta anche come il filosofo pa¬  triota del 1813 fosse sempre sotto la medesima ispirazione  che lo animava veut’anni prima nel suo entusiasmo per la  rivoluzione francese; e, malgrado tutte le apparenze in con¬  trario, è sempre la medesima ispirazione quella che tra¬  spare nel Disegno ili uno scritto politico della prima cera  Ì813 ( 2 ), destinato a illustrare il proclama del re di Prussia  “ Al mio popolo „ : quivi il Fichte, se, dinanzi al pericolo  mortale che minacciava la nazione tedesca, riconosce la  necessità di porle a capo come despota sovrano (, Zwingherr)  il re di Prussia, uou perciò rimane meno fedele al suo ideale  democratico; per lui — ha dovuto riconoscerlo lo stesso    (*) Veber den Begriff des wahrhaften Krieges (Summit. IVerke,   (*) 4 «a dem Entwurfe zu etnei- politischen Schrift ini FruhUnge  1813 (Stimma. Werke, VII). Treifcscbke (') — la "Repubblica, senza re, senza principe,  senza signori, è sempre il vero Stato di ragione. Passato  il pericolo, il sovrano stesso dovrà adoperarsi con tutte le  sue forze a disabituare i suoi sudditi dalla soggezione, a    (>) Fichte nini die nationale Idee, in Historische und politiseli*  Aufsalse, 4. ediz. Leipzig, Hirzel, 1*71, voi. I, p. ISo. « Nodi inumo-  sehwebt ihm als hòchtes Zini vor Augeu eine “ Republik dei- Deutschen  oline FUrsten und Erbadel „, dodi er begreift, dosa diesea Zini in  weiter Ferne liege. Fui- jetzt gilt ee da* “ die Deutscbeu sioh selbst  mit Bewus 9 tsein maoheu „ ». Si, è vero, il Fichte colloca in un  tempo ancora assai lontano la vagheggiala attuazione del suo ideale  repubblicano, al punto che uno ilei frammenti di una sua opera po¬  litica, scritta a Kònigsberg nell’inverno 18011-07 e rimasta incom¬  piuta s’intitola: La repubblica tedesca al principio del sec. XXII,  sotto il suo V." protettore (Die Republik der Deutschen su Anfani / des  sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter ihrem fiinften Reichsvogtei,  ina intanto quale coraggioso e severo linguaggio rivoluzionario egli  tiene contro i principi alemanni, cosi in questo frammento come al¬  trove! Cou la spietata crudeltà del chirurgo che, per guarire radical¬  mente una piaga purulenta, affonda il bisturi nel pili vivo delle carni,  egli mette a nudo tutti i difetti e le turpitudini del suo tempo e del  suo paese e propone come rimedio una nuova costituzione, la quale  dovrebbe stabilire l’eguaglianza di tutti' i popoli teutonici e non am¬  mettere altra disuguaglianza tra gl’individui elio non sia quella del-  p ingegno; una costituzione adatta a una nazione come la germanica,  la quale, die’egli, pressoché incurante del giudizio dello altre na¬  zioni, ha la caratteristica di raccogliersi in se stessa e di min chie¬  dere nulla più che di vivere pacificamente secondo il proprio genio.  “ Una nazione, la quale, còme la tedesca, non mira che ad affermare  e conservare per sé la propria torma disesistenza (ibr eigentìiiimliches  St'jti) e in nessun modo a imporla ad altri (keinesweges anderen es  aufzudringen), non senza intenzione é stata collocata in mezzo a po¬  poli , i quali, tosto che abbiano acquistato una mediocre quantità di  coltura, sentono il bisogno di diffonderla al di fuori; nell’eterno di¬  segno della storia umana essa è destinata a servire di diga a questa  intempestiva invadenza e a fornire non solo a sé stessa , ma a tutti  gli altri popoli d’Europa la garanzia di poter progredire, ciascuno a  suo modo, verso il fine comune (.... sie seg [die deutsche Natimi ], im  eteigen Entwurfe eines Menschengeschlechles jm Qanzen, bestimint, als  ein Damm dazustehen gegen jene unzeitige Zudringlichheit, und uni  renderli, in altri termini, capaci di fare a meno di lui.. u Se  cosi non dovesse avvenire nel futuro della Germania —  esclama egli con forza — importerebbe poco che una parte  di essa fosse governata da un maresciallo francese come  Bernadotte, nel cui spirito almeno sono passate le visioni  entusiasmanti della libeità, piuttosto che da un signorotto  tedesco, tronfio d’orgoglio, immorale e di una brutalità e  di un’arroganza sfrontate „ ('). Quando si leggano queste  parole contenute in quel medesimo Scritto politico della pri¬  mavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto con¬  siderare come il luogo letterario in cui l’autore si è più  inoltrato sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il  noto particolare della vita del Fichte, ili avere cioè, nel  febbraio 1813, dopo la disastrosa campagna di Russia, impe¬  dito come un orrendo delitto il macello a tradimento della  guarnigione lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà ancora  vedere nel nostro filosofo un pangermanista a cui si possa  far risalire la responsabilità non solo delle teorie insensate  degli odierni teutomani, ma persino del cinismo satanico  con cui e per terra e per aria e per mare pretendono ap-    nichf tuie sich, sonderà nudi alien anderen europaischen Vblkern die  Garantie zu leisten, ilass sie auf dire eigene Weise laufen konnten  zìi detti gemeinsamen Siete) „ (Sdmmtl. Werke, VII, p. 633). Quale  stridente contrasto tra l'ufficio storico-politico che il Pielite asse¬  gnava alla nazione tedesca o quello che la Germania odierna pre¬  tende arrogarsi !   (*) Aus dem Enluourfe eie. {Siimitili. ÌVerke, VII, p. 669). « Weun  wir dahor nieht im Auge behielten, vvas Deutschland zu werden hat,  so 18ge an sich nicht so viel durun, ob ein franzusischer Marscliall,  wie Bernadotte, an dem weuigstens friiher begeisternde Bilder der  Freiheit voriibergegangen sind, oder ein deutscher aufgehaseuer Edel-  maun, ohne Sitten uud mit Rohlieit und frechem Ueberrauthe, iiber  eineu Theil von Deutschland gebiete. »   plicarle i novelli barbari odierni, i rossi devastatori joiù veri  e maggiori dello stesso Attila flagellum Dei?   Tanto più tempestivo, e tanto più salutare e conforte¬  vole ci sembra, dunque, dinanzi alla mostruosa degenera-  zioue del senso morale di cui dà spettacolo l’odierna nazione  tedesca, ostentando di non riconoscere altro diritto all’in¬  fuori del despotismo e della forza bruta, rievocare dalla  letteratura classica di questa stessa nazione la dottrina mo¬  rale di uno dei più grandi assertori e della forza del diritto  e del diritto che individui e pispoli hanno alla giustizia,  all’indipendenza, alla libertà.  Chi abbia seguito nella storia della filosofia le vicende  toccate alla dottrina di G. A. Fichte ('), avrà notato come  al grande entusiasmo e ai vivaci dibattiti suscitati dal suo  primo apparire succedesse per vari decenni un immeritato  oblio, dovuto al predominio delle 1 dottrine uscite dal suo  seno e specialmente dello hegelismo, i cui rappresentanti,  imponendo alla storia della filosofia un loro preconcetto di  scuola, quello cioè di non tener conto nella speculazione  prehegeliana se non di quanto avesse contribuito a prepa¬  rare il sistema del loro maestro, avevano abituato a vedere  nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era derivato  un deciso indirizzo idealist ico alla speculazione post kan¬  tiana (’). Vani furono gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema-    (') Ofr. in proposito A. Ravà, Introduzione allo studi» tirila filo-  sofia (li Fichte, Modena, Formiggiui, 1909, pp. 13-22.   ( s ) V., per es., Karl Ludw. Michelet, Geschichte der lefzten Sy-  steme der Philosophie in Deutschland voli Kant bis Hegel (Berlin,  1837-38), in cui alla prima filosofia del Fichte seno dedicate le  miele Ermanno, per mostrare il valore che la filosofia, pa¬  terna aveva per sè stessa ('). Soltanto verso la metà del  sec. XIX, col risvegliarsi dello spirito nazionale germanico,  risorse la fortuna del grande rigeneratore della coscienza   tedesca, del filosofo popolare, dell’oratore eloquente, del fer-   *   vido nazionalista, ilei supposto pangermanista; ma, appunto  per questa circostanza, l’attenzione fu rivolta di preferenza  alla sua filosofia politica, arbitrariamente o artificiosamente  interpretata (*), e il centenario della nascita del Fichte,  nel 1862, fu solennemente celebrato da tutta la Germania    pp. 481-587 ilei voi. I, e alla seconda filosofia le pp, 129-204 del voi. II;  A. Oli', avendo avuto il torto di prendere quest’opera come guida  principale per una conoscenza della filosofia tedesca postkantiana, fu  trattò a un’eccessiva reazione contro il Kant e contro lo hegelismo  nel suo libro: Hegel ri la philosophie allemande (Paris, 1844).   (') Di Em. Ehm. Fichte, oltre le Prefazioni (dianzi ricordate) a  vari degli undici voli, delle Opere complete di G. A. Pielite, vedi ancora:  i Beitràge sur Charuk'teristik dar ncueren Philosophie (Sulzbach, 1829)  di cui la 2.“ ediz. (18-11) può considerarsi come un’opera nuova; il  voi. .7. G. Fichte ' s Lehen and litterarlscher Briefwechsel (Sulzbach,  ISSO), con cui, prima ancora che con la pubblicazione delle opere, cercò  richiamare l’attenzione sulla personalità e sull’attività pratica del  padre, affinchè nascesse cosi gradatamente anche l’interesse per il  suo pensiero; e infine V Introduci ion (in frane.) alla Méthodc pour  arriver à la vie blenheureuse par Fichte (traduz. Bouillier) (Paris, 1845).   ( s ) V., per es.: t due voli, del Busse, Fidile und sei ne Bezìehung  zar Gegenwart des deutsehen Volkes (Halle, 1848-49), la conferenza  dello Zeli.eh, l'idi lo aìs Politiker (1859, ristampata in Zelleh, Vor-  Irdgr und Abliandlinigen, voi. 1, Leipzig, 1865) e l’opuscolo del Las¬  sa lle, Melile's poìilisches Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart  (Hamburg, 1860, ristampato in Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin,  1891-93, voi. I). Bisogna, invece, uscire dalla Germania per trovare,  negli anni immediatamente anteriori alla metà del sec. XIX, un’espo¬  sizione prettamente storica e serenamente obiettiva di tutta la filo¬  sofia del Fichte quale si ha nella solida opera del Willm, Histoire de  la Philosophie allemande drpttis Kant jusqu’k Hegel (voi. 11, Paris  1847), opera premiata, su relazione del de iléinusat, dall'istituto di con significato più politico che filosofico; — mia singolare  fatalità, poi, (che sembra un’ironia della storia a chi in¬  tenda il vero senso delle teorie politiche del Fichte) ha vo¬  luto che il cèntenario della sua morte, nel 1914, coincidesse  con l’irrompere improvviso della premeditata aggressione  pangermanistica! — (').    Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua vetustà; la si  può leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti monografie  posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre, Heidelberg,  18691900 3 ") e del Leon (La philosophie de Fichte et ses rapportò  uvee la conscience coti tempo faine, Paris, 1902), il quale ultimo ha de¬  dicato al suo soggetto per molti anni un lungo studio e un grande  amore.   ( l ) Questo carattere politico-nazionalistico degli scritti usciti in  occasione del centenario del Fichte fu ben rilevato da von Rkichi.IN-  Memusco nel suo articolo l)er hundertòte Geburistng ./. O. Fichtes  (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos. Kritih, Nuova serie, voi. 42,  Halle, 1863). Vedine la lunga lista nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss  der Geschiclite dcr Philosophie, IV, Berlin, 1906, p. 8; qui basti ricor¬  dare per tutti il discorso già citato del Treitbchke, Fichte i ind die  nutionale Idee. L’uso e l’abuso del Fichte a scopi patriottici e impe¬  rialistici non cessò io Germania col conseguimento dell'unità tedesca ;  più di una volta le conferenze tenute nelle università tedesche in occa¬  sione del natalizio dell’Imperatore hanno avuto per argomento pre  ferito la personalità o qualche dottrina particolare del Fichte: per es.,  nel 1890 all’università di Strasburgo, terra di conquista, il Windel-  band faceva un’alta affermazione di germaniSmo parlando del Videa dello  Stato tedesco secondo il Fichte (Windelband, Fiehte's Idee des dent-  schen Stante, Freiburg i. Breisgau, 189oT; nel 1909, all’università di  Kiel, Golz Martius inneggiava al cinquantesimo anno di Guglielmo II,  ricordando la vita e l’opera “ di un uomo, il quale ha grandemente  cooperato all’elevazione e all’emancipazione delle forze morali della  Germania, e della cui azione efficacissima, insieme e accanto alla con¬  cezione politica dello Stein, ricorre oggi il centenario; di un uomo, a  cui appunto ora la nazione tedosca si appresta a dimostrare la pro¬  pria gratitudine inalzandogli un monumento nella capitale [e il mo¬  numento è poi sorto a Berlino], insomma, di Giovanni Amedeo Fichte „.  (Redc zur Feier des Geburtstages seiner Majeshit des Deutschen Kai-  sers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11 von Golz Martius, Kiel, 1909). Se nella seconda metà del sec. XIX tra molti scritta'  rolli di occasione cominciò ad apparire qualche studio serio  di tutta l’opera fichtiaua ('), il suo aspetto, per lo sposta¬  mento dell’attenzione dal lato politico ai fondamenti teo¬  retici del sistema, fu non meno unilaterale di quello che  continuarono a presentare, in tempi più recenti, le disser¬  tazioni te le monografie sulla dottrina giuridioo-sociale del    (•) Ricordiamo, per es. : il Lòwio, Die Philosophie Fichte’s iiach  (lini Gesaimntergehnisse ihrer EntuHchelung und in ihrem Verhiilt-  nitise zìi Kant unii Spinosa (Stuttgart, 1862) [l’Autore, seguace del  dualismo de[ Giintlior e perciò d’indirizzo radicalmente opposto a  tinello del Fichte, mira specialmente a mostrare la logica coerenza in  cui le due diverse forme assunte dal sistema fichtiauo stanno al prin¬  cipio fondamentale del sistema stesso anche là dove, secondo lui, si con¬  traddicono, pei concluderne l’insufficienza del principio stesso]; il L.\s-  soN, ./. G. Fichte Un Verhaltniss zu Kirche und Slaat (Berlin, 1863)  [l’Autore, dominato, com’è, dall’ idea religiosa quale può rientrare nella  concezione hegelismi, considera fondamentale la seconda forma della  lilosolia lichtiana, quella in cui prevale il pensiero religioso, pur giu¬  dicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ; e sopra tutti il già ricor¬  dato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre (voi. V della 1." ediz.  Heidelberg, 1869, e voi. VI della 3.“ ediz.. 1900 della Geschichtc der  neueren Fhilosophic) [opera veramente classica per la larghissima e  accuratissima esposizione di quasi tutte le opere del grande idealista;  in essa si sostiene la tesi che le due forme della filosofia lichtiana,  quella anteriore al 1800 e quella posteriore, non sarebbero che duo  opposte direzioni assuute rispetto allo stesso principio fondamentale  del sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo dalla lilosolia teore¬  tica, si sarebbe elevato alla filosofia del diritto, alla lilosolia morale,  alla filosofia religiosa, all'Assoluto; quivi, infatti, il postulato di  quell'ordiuamento morale del mondo, che per lui la tutt uno con 1 In  assoluto e con Dio (die lebendige unii loirkende moralische Ordnung  itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi secondo periodo, invertito il  cammino e trasformato quel postulato da punto di arrivo in putito di  partenza, il Fidilo avrebbe preceduto dall’Assoluto alla religione, alla  morale, al diritto e alla scienza. — Più denigratore che profoudo è  stato giustamente giudicato, infine, il libro del NoàCK, J. G. Fichte  nach sei non Leben, Leliren und Wirken (Leipzig, 1862). filosofo tedesco, inopportunamente staccata da tutto il resto  deli’edifizio speculativo.   Anche nella maggior parte degli odierni studi storici  sul Lichte divenuti più che mai frequenti dopoché al  moto neo-kantiano iniziatosi al grido: ritorniamo al Kant!  (zurìick zu Kant!) (') si associò, come orientamento filo¬  sofico, un moto neo-fichtiano: ritorniamo al Fichte!j(zuriick  zu Fichte!) che è andato sempre più accentuandosi dagli  ultimi decenni del secolo scorso ai giorni nostrf (*) è   - \ j   (') 11 ritorno al Kant si suole farlo risalire alla celebre lezione  dello Zellar: Ueber die Bedeutung und Aufgabe der Er/iJnntnistheorie  (Heidelberg, 1862); ma già nel 1847 il Weisse pronunziava a Lipsia  un discorso: In welchem Sitine sich die deutsche Philisopkie wieder  a " Kanl zu orientieren hai (Leipzig, 1847),. dal quale si rileva la sua  avversione alla dialettica hegeliana e il suo sforzo por contrapporre  al panteismo idealistico un teismo etico.   n? V ' m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss der Geschichle  (ter p/iilosop/tie seit Beginn des neunzehnten Jahrhundcrts (Berlin, 1906,  10» ediz.), § 26, Elnwìrkung Fichtes auf neuere Lahren, pp. 264-269*  e .coltre le pp. 317, 347, 361, 514, .547-548. Se ne ricava il largo é  potente influsso che la filosofia fichtiana, intesa sia come idealismo  soggettivo, sia come idealismo etico, sia come panpsichismo, ha eser¬  citato e sopra le varie nuove dottrine sorte in Germania e sopra menti  speculative di altri paesi (Inghilterra, Nord-America, ecc.). Per la re¬  cente e assai ricca letteratura intorno al nostro filosofo vedi lo stesso  voi. dell’Uebervveg-Heinze, pp. 8-9, il Baldwin, Dictionary of philoso-  phy and psychology (New York-London, 1905) voi. IH, parte I,  pp. 204-208, e per quella recentissima, ancor yù abbondante, cfr. i quat-’  tro voli, editi da Arnold Rude, Die P/iilosop/tie der Gegemoarl (Hei¬  delberg, 1910-1914) e contenenti pressoché tutta la bibliografia filosofica  internazionale degli anni 1908-1912. Nel 1914 (centenario della morte  del Fichte e scoppio della guerra europea) la Bibliotheh fUr Philosop/tie,  edita da Ludwig Stein, pubblicava l’opuscolo di P. Stàhler, ./. G.  Fichte, ein deutscher Den/ter (conferenza tenuta il 23 aprile nel cir¬  colo tedesco di Charcow in Russia), in cui FA., movendo dal* bisogno  spirituale oggi sempre più intensamente sentito di una nuova orien¬  tazione circa la concezione del mondo, affermava essere appunto il  Fichte il più atto a fornire una chiara risposta alla questione, una forse da rilevare una certa esclusività d’interesse, corri¬  spondente all’ interesse prevalentemente critico e gnoseolo¬  gico che ha animato siuo a ieri il pensiero contemporaneo;  di guisa che in questa rifioritura di studi fichtiani, mentre   alla teoria della conoscenza ò assegnato per lo più il posto   *   d’onore, le altre parti del sistema, in ispecie le più pra¬  tiche, vengono relativamente lasciate nell’ombra. Il che  nuoce alla dottrina e anche alla figura del nostro filosofo,  le quali così risultano monche e diminuite, e spesso oscu¬  rale e falsate; quando invece il Fichte reclamava sempre e  vivamente che i futuri critici non giudicassero la sua con¬  cezione se non nella sua totalità, se non ponendosi cioè in  quel punto di vista centrale, da cui si dominano e s'illu¬  minano tutti gli aspetti; tanto più, poi, che nessuu’altra con¬  cezione come la sua aspirava a essere una rigorosa unità, or¬  ganica, inscindibile, completa, a rispecchiare, quasi, quei¬  raltra rigorosa unità, altrettanto massiccia quanto severa  e semplice, che era la personalità stessa del Fichte, il quale  appartiene all’eletta schiera di spiriti eminenti che nella  storia deH’uinauità seppero unire in intima connessione la  speculazione filosofica con la vita vissuta, fondendo armo¬  nicamente pensiero e azione, investendo del medesimo pro¬    risposta che 11 non ha nè corna nè denti „ (die u tceder Horner nodi  Zàhne hai „), ed essere sempre il Fichte “ la stella polare (der Leit-  sternj verso la quale possiamo di nuovo orientare la nostra vita e il  nostro sapere „ (cfr. la prefazione, p. 3). Peccato che l’opuscolo dello  Srahler uscisse accompagnato nello stesso anno da altri due volu¬  metti della stessa Biblioteca, riguardanti, sebbene con intento pura¬  mente storico, figure filosofiche ben diverse dall’ideale figura del Fichte,  e di significato più sintomatico in quel nefasto anno, e cioè: il Pro-  tagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches Metaphysik-  limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S. Flemming.   fondo interesse le più fredde concezioni astratte della ricerca  teoretica e le più ardenti questioni concrete dell’attività  pratica, intensificando la luce diffusa dalla loro opera in-  stauratricè nel campo del sapere col calore irradiantesi dalla  loro missione riformatrice nel campo del dovere (').   *   # *   E invero non si può negare al sistema del nostro filo¬  sofo la sua principale caratteristica : quella di essere cioè    (') È veramente ammirevole nel Fichte — che lo Zeller giustamente  definiva anche per il carattere morale un idealista nato — il rapporto  stretto che uni sempre la sua vita alla sua dottrina. “ Jamais la manière  d’agir et di sentir — cosi scrive Cristiano Bauthoi.mf.ss nella sua Ili-  gioire critique des doefriu^s religieuses de la philosophie moderne (Pa¬  ris, 1855, voi. I, pp. 384-885) — jamais la conduite et l’àrae ne fu-  rent séparées chez lui de la manière de penser et de voir. Ce qu : il  croyait était eu méme temps le nerf de sa volonté, le soufflé et. l’in-  spiration de son existence entière. Prenant au sérieux tous les mou-  vements de son intelligence, il vonlait vivre de ce qu' il coucevait,  et taire vivre ce qu’ il savait, cornine il ne vonlait savoir que ce qu’ il  pouvait aimer, admirer et pratiquer. Ce n’ótait pas lii l’héroique  effet d’uu parti pris, c’était le propre de sa naturo méme, où lo seu-  timent de la valeur morale, de la diguité personnelle, se confondait  avec une telle hauteur de pensée, avec une hardiesso de speculatimi  si intrèpide, qu’ elle pouvait, semidei- la rósolution d’nn caractère l'u-  domptable. La ilestiuée, il est vrai, avait surtout coutribué à Pac-  croissemeut de nette énergie, de cette trempe primitive. Fiofite avait  eu longtemps à combattre, non seulement des adversaires et des enne-  mie, mais les soucis et la misère, le froid ot la faim. Avant, do lutter  pour la libertà de penser et pour P indépendance de sa patrie, il avaiti  pour s'assurer le pain dn jour, endnré tout.es les rigueurs matórielles  ot sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigou-  reux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la no-  b lesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à.la foia tou-  chó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'i-  vemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’ a  publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. „     con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,  la sua oscurità — un vero sistema. In esso trovi subito  un’idea che l’ha generato tutto quanto, che ne è il centro,  l’anima e ne fa l’unità : idea ovunque presente e ovunque  feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli svolgi¬  menti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni dire¬  zione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teore¬  tici e pratici. Esso è non solo uno nel suo insieme e omo¬  geneo nelle sue parti, ma universale: tutte le grandi que¬  stioni intorno a Dio, all’uomo, alla natura, e ai loro rap¬  porti, rientrano nel suo quadro e vi si coordinano; vi si  potranno notare lacune, rifacimenti, mutevolezza di atteg¬  giamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno e incom¬  piutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle contingenze  esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che non  alla sua idea ispiratrice, la quale, posta l’universalità della  dottrina a cui dà vita, non poteva non esercitare un in¬  flusso auch’esso universale sulla coltura del tempo e delle  età posteriori sino a noi, assicurando così al nome dell’au¬  tore una fama imperitura nella storia dello spirito umano. Intorno itilo svolgimento del pensiero lichtiano et'r. \V. Kaiutz,  .S ludi<’u z. EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen Wissemchaftslehre  (Berlin, 1902) e nnolie E. Focus, Vom Werden rlreier Denker : Fichte,  Schelling, Schleiermachcr (Tiibingen, 1904).   (*) V. la nota nella pree. p. XXVIU e cfr. anello IC. VoitLÀNDlSK,  Oeschichte der Philosophie (Leipzig, 1902, 8* edili. 1911, voi. II, pp. 28(5-  287). — Federigo Schlegel considerava la Wissenschaftslehre del Fichte  una delle “ tre maggiori tendenze del secolo (circi griissten Tetidenzen  iteti Jahrshunderts) „ accanto al Wilhelm Meister del Goethe e alla  Rivoluzione francese. E innegabile che il filosofo di Jena fu il filo¬  sofo per eccellenza della scuola romantica, le cui idee, a giudizio  concorde degli storici e in particolare dello I-Iaym, che su ciò insiste  ctm forza (cfr. Die romantische Schuie, p. 214 e segg.), sono derivate in Quale questa idea ispiratrice? È l’idea più alta e, pei  la coscienza comune, la più paradossale che sia sorta nella  storia della filosofìa : la sintesi, cioè, di due termini in ap¬  parenza così inconciliabili come l’io e il non-io, il cono¬  scere e l’essere, la libertà e la necessità, lo spirito e la na¬  tura, nel monismo superiore, nella “ superiore filosofia  (Jiohere Phihsophie) „ . direbbe lo Schelling, della libertà.  11 sistema del Fichte consiste, intatti, in una * filosofia  della libertà „ /e poiché il suo principio metafisico s’iden¬  tifica con l’ideale morale, giustamente fu chiamato un Idea¬  lismo elico ('). La vecchia metafisica s’intitolava scienza  dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva l’assoluto, il  reale, e dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale. Se¬  condò il Fichte, invece^l’assoluto, il principio ultimo e su¬  premo da cui veniamo e a cui tendiamo non ù 1 essei e, ma    grandissima parte dalla Dottrina tirila scienza. E si spiega la predi-  lezione dei romantici per un sistema come il ttchtiano, il «piale tra¬  sforma il kantismo ancora esitante in un idealismo assoluto, e a  tutto uscire, sotto il rispetto metafisico, da «piella stessa genialità  dell’ lo, da cui i romantici tutto derivavano sotto il rispetto estetico.   (•) Fu detto anche Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei-  ronea, perchè V Io che il Fichte pone al principio di tutto il suo si¬  stema non è l’io individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che  sta a fondamento di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria in¬  cognita X, dalla cui unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente,  dovrà uscire, in virtù di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus  er m china di tutta la metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del  soggettivo e dell’oggettivo. “ Il mio lo assoluto - dice il Fichte -  non è l’individuo; soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro  di me hanno cosi male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi  l’infame dottrina dell’egoismo pratico (.... mein absolutes Teh tst mcht  das Individuili» ; so haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo-  sophm mich erklàrt, uni mir die sehandliche Lehre des prahtischen  Egoismus anzudichten). „ (Cfr. G. Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue-  reti Philosophie (Hamburg, 1864, 2* ediz. 1864, p. 74). il dovere, è un ideale che non è, ma dev'essere. L’essere  in quanto essere, in quanto quid stabile e compiuto, in  quanto cosa o materia inerte, a rigore non esiste ; la fis¬  sità, l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza, soStrato,   materia, non è che apparenza. Agire, tendere, volere, ecco   *   in che consiste la realtà vera. L’universo è il fenomeno  della Volontà pura, il simbolo dell’ Idea morale, che è la  vera cosa in se, il vero Assoluto. Filosofare significa com  vincersi che l'essere non è nulla, che il dovere è tutto ;  significa riflettere sul proprio io empirico, individuale,  unica ultivilà libera che tende incessantemente ad attuare  ciò che dev' essere, ossia il Dovere, il Bene, /.’ Io asso¬  luto, universale; significa acquistare la coscienza di por-  lare con sè la libertà che crea e soggioga il mondo, ap¬  punto per attuare il Dovere, il Bene, l'Ideale morale,  l' “ Io „ o la Libertà assoluta.   Il Kant aveva bene ammesso che il soggetto, ossia la  ragione e la libertà, impone una forma e una legge agli  oggetti della conoscenza: dell’ Io egli aveva fatto, si, il  legislatore del mondo, ma non era giunto a farne addirit¬  tura il creatore; poiché aveva lasciato sussistere ancora,  ili fronte al soggetto, uu oggetto, una cosa in sè, capace  d’imporre un limite al soggetto. Per il Fichte, invece, il  quale dà all’ io empirico un significato universale, questa  pretesa cosa in sè, ultimo residuo del dogmatismo, è una  chimera che bisogna esorcizzare, perchè è semplicemente  la parte dell’ Io ancora incosciente che il progresso della  conoscenza trae a poco a poco alla luce della coscienza ;  sarebbe assurda, infatti, di fronte alla Libertà assoluta, al-  V Io assoluto e universale, una materia non creata da lui  e a lui imposta dal di fuori. E poi, questa misteriosa cosa in sè. supposta al ili là di ogni conoscenza, questo essere  senza intelligenza, a che si riduce, se non a un contenuto  mentale ( Oeilankending ) e quasi a un fantasma, creato da  noi stessi a spiegarci le sensazioni e le rappresentazioni  che in noi sorgono, non per libera creazione nostra, ma  prodotte dal di fuori. Se un limite esiste all'attività del-  ]> jo , gli è perchè l ’lo stesso lo pone liberamente alla pro¬  pria attività illimitata, con lo scopo di avere il modo di sop¬  primerlo e di esentare cosi quella stessa attività propria e  di rivelare a si stesso la propria essenza, che è la libertà.  La moralità e la virtù, del resto, non suppongono lo sforzo  e la lotta? bisogna, dunque, per attuarle, crearsi perenue-  mente ostacoli e superarli; onde V Io nel primo momento  della propria evoluzione “ pone sè stesso „ (tesi), nel se¬  condo momento u contrappone a sè il non-lo „ (antitesi),  e nel terzo momento “ si riconosce nel non-Io „ (sintesi);  tre aiti, questi, a cui corrispondono i tre modi di esistenza,  i tre oggetti del sapere, che sono l’uomo, il mondo, Dio.  Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio della  propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere;  di qui il carattere “ titanico „ che il Fischer ammira nel-  p Jo fichtiano, destinato per natura sua a continuamente  agire, produrre, volere ('). f    (•) Per approssimarsi in qualche modo al concetto dell lo iich-  tiauo nel quale va ricercato il fondamento di ogni esperienza, giova  fare completamente astrazione da qualsiasi contenuto rappresentalo  della nostra coscienza empirica. Dopo questa immensa sottrazione, si  consideri la rappresentazione più vuota che possa pensarsi, 1 unica  affermazione che non abbisogni di nessuna dimostrazione, il principio  logico d’identità: A è A, col quale uon si afferma nemmeno che zi  esiste, ma soltanto che: se A esiste, A dev’essere A. Orbene, quan¬  tunque con tale affermazione si formuli soltanto una vuota venta e   Un cosi intenso idealismo non era mai sorto prima.del  Pielite. Esso insegna che il variopinto e multisono mondo  sensibile, che si estende nello spazio e si svolge nel tempo,  non ha esistenza propria e indipendente : 1’ unico ch'e ve¬  ramente esista è l’ lo. E lo stesso Io esiste solo in quanto  agisce. Dal suo operare, dal suo rifrangersi in In e non-lo,  sorge per lui il mondo visibile, percepibile e connesso da    non  i ponga nessuna esistenza, si compie, tuttavia, un atto del pen¬  siero, un giudizio, e un giudizio d’incrollabile certezza, il quale porta  direttamente a porre e a riconoscere 1'esistenza reale dell’/o. Infatti,  donde proviene il verbo “ è „, con cui il primo A è messo in rela¬  zione col secondo A, il soggetto col predicato? Il nesso tra i due ter¬  mini del giudizio è beu soltanto nell’/o e per opera dell’/o. Dunque,  nellu precedente proposizioue: A è A, ebe è la più evidente, per  quanto la più vuota di contenuto, che si possa formulare, si nasconde  già l’ lo, si trova già l’attività certa di aè stessa; perché, meutre per  A non si ha il diritto di fare, oltre il giudizio ipotetico: se A esiste,  A è A, nnehe il giudizio categorico: A esiste, in quantiche anatale  affermazione richiederebbe un’ulteriore dimostrazione, per V Io, invece,  anello se non sappiamo assolutamente nulla più di questo: che è A,  possiamo dire non solo: se V Io esiste, l’ Io è l’/o, ma altresì: l’ Io  esiste (ciò elio ricorda l’agostiniano e il cartesiano: Cogito ergo sum).  Ma V Io è, per natura sua, essenzialmente attività, e, prima ancora  di acquistare coscienza dei propri prodotti, dei propri atti, e di sè  stesso, crea, con la sua immagiuazione produttrice, perenne e inesau¬  ribile, le innumerevoli rappresentazioni, che poi lu riHeasioue farà  apparire alla sua intelligenza come oggetti, come non-lo; perchè —  va sempre ricordato questo punto originale della dottrina del Fichte  - il non-lo, ossia il mondo esterno, è posto ilall’/o inconscio, non  già dall' Io cosciente; è un prodotto, quindi, anteriore a quella rela¬  zione di antitesi e sintesi tra soggettivo e oggettivo che è la co¬  scienza, e quando la coscienza nasce, s’impone a essa come già dato.  Così, grazie a questa produzione inconscia dell’ immaginazione dell' lo  — di quell’immaginazione che già per il Descartes era il trait d’u-  nion tra l’anima e il corpo, e per il Kant l’intermediaria tra le in¬  tuizioni pure della sensibilità e le categorie dell’intelletto —, il non-lo  apparisce all’ intelligenza come un limite dal di fuori senza essere  perciò estraneo all’/o, essendo sempre un prodotto dell’/o inconscio.  leggi, il quale perciò non è che il sistema delle nostre rap¬  presentazioni, il rispecchiarsi dell’ lo nell’/o. Ma anche que¬  sto rispecchiamento non ci rivela in modo puro e immediato  ]’ intima essenza del nostro spirito, perchè non uel rappre¬  sentarsi è il nostro più alto operare, non nel rappresentarsi  è tutto il nostro Io. Noi operiamo veramente soltanto nel  libero volere morale; noi attuiamo completamente il nostro  Io soltanto «piando, con attività rinnovata al lume della  coscienza, ci sforziamo di soggiogare il mondo delle rappre¬  sentazioni scaturite dall’inesauribile fonte dell’ lo inconscio   _ il quale mondo non è che “ il materiale sensibilizzato   del nostro dovere (unsre Welt ist das versinnlichte Mute-  rial unsrer Pjlicht) „ — e ci sforziamo di trasformarlo nel  mondo della libertà, nel mondo soprasensibile ed eterna¬  mente in fieri del Bene; poiché, esclama il Fichte, “ es¬  sere liberi è nulla, divenir liberi è il cielo (frei se‘in ist  nichts, frei wenlen ist dei' Ilimmel) ! „   La costruzione filosofica del Fichte può dirsi monolitica,  ed è tale da superare in semplicità persino quella eretta,  da un punto di vista e con centro «li gravita affatto opposti,  dallo Spinoza: — al Jacobi il sistema del filosofo tedesco  appariva il rovescio del sistema del filosofo olaudese —. E  qui sta il vantaggio della concezione fichtiana anche sulla  kantiana ; il Kant non aveva tanto fornito un sistema,  quanto, piuttosto, i germi e i materiali per più sistemi ;  nella lotta contro il dogmatismo e contro lo scetticismo  egli aveva voluto inalzare alla scienza propriamente detta,  più che un tempio, una fortezza; e, per rendere questa  fortezza iuespuguabile da tutti i lati, ne aveva costruito  -i bastioni quasi in tempi diversi, quasi in stile diverso :  onde nella sua filosofia non solo rimane il dualismo inconciliabile tra l’essere e il conoscere, tra il conoscere'e il  lai e, ma nell ambito stesso del conoscere manca una rigo¬  rosa unità tra i diversi poteri conoscitivi, tra la sensibilità  con lo sue intuizioni pure, l’intelletto con le sue categorie,  la ragione con le sue idee metafisiche. Il filosofa di Ko-  nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo spirito umano  tutto nel giro del proprio mondo interno, nel fenomeno,  dall altra gli lasciava intravedere, al di là di questo mondo  interno, un altro mondo, il noumeno, avvolto sempre da  densa nebbia e sempre refrattario alla conoscenza. Donde  la domanda : questo mondo esistente in sè è quello stesso  che ci si i ivela nella voce della coscienza, ed è possibile  tiadui lo in atto con la pura e buona volontà? La risposta  del Kant, almeno nell’espressione datale dall’autore, se non  nello spirito dell’autore stesso, era stata cosi cauta, che  ognuno poteva trarne le conseguenze a suo proprio rischio.  Iusomma, non si poteva non riportare l’impressione che  nella, dotti ina kantiana la verità fosse svelata soltanto a  mezzo, e che a essa mancasse, dal punto di vista scienti¬  fico, cosi il fondamento come il coronamento. Il Fichte,  invece, da quel pensatore ben più ardito e deciso ch’egli  eia e che si era formato sullo stampo dello Spinoza, s’im¬  possessò dei materiali kantiani, e fece della Critico un si¬  stema unitario: Tutto ciò che è, è per noi; tutto ciò che  è per noi, può essere soltanto per opera nostra; nell’atti¬  vità dell’ lo è racchiuso il conoscere e l’essere, il sensibile  e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ; nell’autocoscienza  (Se/bstbeiousstsein) — lo stesso Kant aveva già insinuato  che la misteriosa incognita nascosta sotto i fenomeni sensibili  poteva benissimo essere quella stessa che portiamo con noi —  è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità delle forme cosi del fenomeno come della cosa in sè che sta a fonda¬  mento del fenomeno, l’unità del sistema delle nostre rap¬  presentazioni e del sistema dei nostri doveri, l’unità della  nostra essenza teoretica e della nostra essenza pratica :  1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il coronamento di  tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un principio  superiore, come principio unico indispensabile a dare forma  sistematica di scienza alla dottrina della conoscenza, se il  Beck aveva interpretato lo spirito della filosofia kantiana  nel senso idealistico, se il Jacobi aveva reclamato l’elimi¬  nazione della “ cosa in sè „, ecco nella filosofia del Fichte  soddisfatti tutti insieme questi desideri, e in pari tempo  fornita ai risultati della Critica della ragione 1’ evidenza  richiesta dallo Schulze (').    (!) La filosofia del Kant, raccoglie, a dir cosi, in un'unità vivente  tutti i germi e principi motori del pensiero moderno, e il sistema del  Fichte non è che una delle direzioni che poteva prendere il kan¬  tismo. La direzione fichtiana, quindi, scaturisce naturalmente dalle  premesso kantiane, ma non deve considerarsi perciò., come vorrebbe  il Leon, quusi l’unico e necessario completamento del kantismo: altre  direzioni, assai divergenti dalla fichtiana, l'anno capo legittimamente  aneli’ esse al Kaut., dei cui discepoli può ripetersi ciò che Cicerone  dicova dei diversi discepoli di Socrate: alii aliuiì suinpsenuit • il  Fichte è un kantiano all’ incirca nel medesimo senso che Platone fu  un socratico, e sta allo Spinoza come Platone a Parmenide ; col  Kaut afferma l’ideale morale, con lo Spinoza l’unità dei “ due moudi  onde la Bua filosofia, dicemmo già, è un’originale sintesi, forse Unica  nel suo genere ai tempi moderni, di ciò che sembra assolutamente  inconciliabile: il monismo e la libertà, il mondo delle cause o il  inondo dei fini. Anziché ritornare sui singoli problemi della Critica  della ragione, egli s’impadronisce del centro animatore di quella  Critica, e trae fuori dal pensiero fondamentale dell’ auto-attività  dello spirito, in quanto forza reale e fine a sé stesso, un uuovo quadro  del mondo di grandiosa arditezza, entro il quale l’idealismo, che  nella filosofia kautiana era latente sotto 1’ involucro di prudenti re-  La filosofia del Fichte, abbiamo detto, è una filosofia  della Libertà, poiché ha per principio una realtà assoluta,  intesa come Io pratico, come Attività pura, come Auto-deter¬  minazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da questo  principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le  funzioni della ragione teorica, celebrando in tal modo quel  primato della ragione pratica che il Kant aveva già pro¬  clamato , e facendo perciò della ragione pura un organo  della moralità. L’attività dell’ Io assoluto alterna i suoi  atti di produzione inconscia con i suoi atti di riflessione  cosciente, la sua direzione centrifuga ed espansiva che si  protende verso l’infinito, con la direzione centripeta e cou-    strizioni, viene chiamato a potente vita, e ciò che di sublime il  grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva insegnato intorno  alla libertà morale di fronte alla necessità naturale, viene tradotto  dal linguaggio di un moderato contegno in quello di un energico en¬  tusiasmo. li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito e  lo spirito soltanto in base alla volontà. La dottrina del Fichte è tutta  nel vivere e nel fare, tanto vero che comincia non con la definizione  di un concetto, ma con la richiesta di un atto (Thathandlung): “ poni  te stesso, fai con coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente ogni  qual volta ti sei chiamato io, analizza questo atto di autocoscienza  e riconosci nei suoi elementi le energie da cui scaturisce ogni realtà  Questa intima vitalità del principio lichtiaiio, che ricorda l'atto puro  aristotelico e il perpetuo divenire eracliteo, e in conseguenza della  quale Dio, anziché una sostanza assoluta già compiuta, sarebbo un  ordino cosmico sempre attenutesi, mai attuato, si ridette anche uel-  l’opera filosòfica dell’autore, il cui spirito, fiero e irrequieto, si svolse  iu continua lotta non solo nella pratica, ma anche nel pensiero. Nelle  sue lezioni, come nei suoi scritti, spesso egli riprende daccapo la  serie delle sue deduzioni e sempre iu modo diverso e quasi conver¬  sando coi suoi uditori e coi suoi lettori, mai trascurando le possibili  obiezioni da parte di questi ; sicché il suo filosofare sembra compiersi  trattile che arresta la prima e respinge V Io in sè stesso;  pone a sè stessa V urto (Anstoss) della sensazione, il limite  della rappresentazione, l’intoppo del non-Io ; è insomma  teoretica : soltanto al fine di diventare pratica. Tutto  1’ apparato della conoscenza non serve che a darci la pos¬  sibilità di compiere il nostro dovere: quel dovere che è  1’ unica realtà vera, 1’ unico in-sè (An-sich) del mondo fe¬  nomenico, perchè le cose sono in sè ciò che noi dobbiamo  farne ; 1’ io teoretico pone oggetti, affinchè 1’ io pratico  trovi resistenze (il tedesco Gegenstand = oggetto è qui  preso come sinonimo di Widerstund = resistenza) ; 1’ og¬  gettività esiste soltanto per essere la materia indispensa¬  bile all’azione, per ricevere da questa la forma che deve  elaborarla e inalzarla sì da rendere sempre più visibile    alla presenza d’interlocutori, è come un filosofare in comune e per  più rispetti richiama alla mente il dialogo platonico. Del resto al  Fichte sarebbe parsa vana una filosofia avulsa dal suo ambiente na¬  turale, l’umanità, ond'egli si faceva un dovere di agire e influire  energicamente sui suoi contemporanei e su quanti fossero in rela¬  zione con lui , e visse in continuo coutatto col mondo e con la so¬  cietà; al contrario del Kant, tra la vita e la speculazione del quale  non appare certo Io stretto connubio che è nel nostro filosofo ; in¬  fatti, i rapporti sociali e tutto il contegno esteriore del grande soli¬  tario di Konigsberg furono, rispetto alla sua vita interiore e al suo  pensiero, cosi indifferenti come il guscio al gheriglio ma turo ; mentre  il Kant per molti e molti auui aveva portato entro di so,i suoi gravi  pensieri senza che alcuno sospettasse nemmeno che cosa accadesse  nell’ intimo di questo professore che senza differenza dagli altri teneva  i suoi corsi universitari, il Fichte, invece, impaziente di ogni ritardo  nella missione rigeneratrice, a cui con orgogliosa coscienza di sè si  sentiva chiamato, lasciava prorompere la manifestazione delle sue  idee, anche se non definitivamente elaborate, man mano che scaturi¬  vano dal profondo della sua anima agile e trasmutabile e disposta  agli atteggiamenti più diversi secondo i campi a cui si applicava, se¬  condo i problemi ché affrontava, secondo i momenti in cui agiva.  1’ attività dell lo. In conclusione , noi siamo Intelligenza  Per poter essere Volontà. La Dotti-ina della Scienza ,  quindi , nel sistema del Fichte, è tutta in servigio della  filosofia pratica , la quale , attraverso la Dottrina del Di¬  ritto, va a culminare nella Dottrina morale, e'mira ad  attuare quel regno dei fini che il Kant contrapponeva al  regno delle cause, e che jier il nostro filosofo consiste nel-  1’adempimento completo del Dovere, nel dominio assoluto  dell’ lo, nel trionfo supremo della Libertà.   E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza  ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano  non è l’intelligenza ma 1’ attività, non il pensare ma il  volere — nella forma , almeno, in cui attività e volere  sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur  essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e  di cui e condizione — resta subordinata all’ attività come  la forma al proprio contenuto, come la riflessione al proprio  oggetto, d’altra parte la Dottrina morale ci mostra il pro¬  cedimento con cui lo spirito umano si sforza — il che è  preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante l’in¬  telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di  quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua  essenza assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso  che avvince la Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ;  quella si deduce direttamente dai principi di questa, in  quanto la moralità, secondo il Fichte, non è che uno dei  momenti pii\ importanti, anzi il più essenziale, dell’ attua¬  zione di quell’ Io puro , di quella Libertà assoluta che la  Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di ogni  coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬  pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito, per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico, relativo  e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il problema  a cui pili specialmente si applica la Dottrina della Scienza ;  il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di  superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è  il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina  morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la so¬  luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia  tra la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante  (che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza  dell’ Io-libertà , attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬  solutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il Fichte  risolve tale antinomia con quell’attività a un tempo finita  e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita, perchè  lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che  impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬  nità; attività infinita, perchè questa determinazioue non  ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa  indietreggiare incessantemente per conseguire l’infinità — ,  ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua filosofia, il  cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno che  dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della  Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della  Dottrina morale. Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬  volta la nostra attenzione, lo sforzo esprime la tendenza  dell’Io a identificare la sua attività oggettivante con la sua  attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto nel rapporto  tra queste due attività : l’infinita Libertà non può attuarsi  se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non  c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita  Attività pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può definirsi un’attività in cui l’infinito è posto non come  stato attuale, ma come meta da raggiungere, un’attività  in cui 1’ adeguazione del finito e dell’ infinito non è , ma  dev'essere , un’attività, insomma, che ha per contenuto  il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.   Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. La Dottrina morale si apre I) con un’ Introduzione ,  in cui sono sinteticamente presentati i presupposti filosofici  dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali II) il primo  trae da quei presupposti il principio della moralità, III) il  secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo  principio, IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬  cipio stesso, ed espone quindi la morale propriamente detta. I presupposti filosofici dell' etica, contenuti nell’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina della  Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬  tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui  il soggettivo e l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬  zione di esso non siano divisi, ma facciano tutt’uno, e che  un tal punto si trova nell’Egoità o Io puro, nell’Intel¬  ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità del sog¬  getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si lascia  cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬  tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento,  la filosofia non approda a nessun risultato. Bisogna, dunque,  ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la quale,  tosto che nasce una coscienza attuale — o anche soltanto  l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in soggetto e oggetto, poiché “ solamente in quanto io, essere cosciente,  mi distinguo da me, oggetto della coscienza, divengo co¬  sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre, che  l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il  soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e  in generale possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e  il suo dominio sulla natura. E appunto perchè il legame  causale tra soggetto e oggetto è duplice — ognuna delle  due parti è causa ed effetto dell’altra: il soggettivo è ef¬  fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto del  soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in teore¬  tica e pratica.   Senonchè, come avemmo già occasione di notare (*),  l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬  visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand -  tutiff), la sua natura originaria è attività: è, dunque, pra¬  tica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante nel  mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale importanza per il nostro  conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la co¬  scienza della mia attività non è possibile nessuna autoco¬  scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di un  quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬  vità suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque  e in quanto tu percepisci attività, tu percepisci necessa¬  riamente anche resistenza ; altrimenti tu non percepisci  attività „ (Ora la resistenza è affatto indipendente dalla    (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV, ediz. cit.), pag. 1 (nostra  traduz. pag. 1).  Cfr. pvec. Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p. 3).   ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6).     XI.V    mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste  soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e  morto, die tende semplicemente a rimanere quel che è,  qualcosa che nel proprio campo contrasta all’azione*della  libertà, ma non può mai invadere il campo di questa. Un  qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e si  chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬  presentazione di una tale materia, niente resistenza alla  nostra attività, quindi niente attività, niente autocoscienza,  niente coscienza, niente essere. La rappresentazione del  puro oggettivo resta così dedotta necessariamente dalle  leggi stesse della coscienza ( l ).   Con la medesima necessità con cui viene dedotto il puro  oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il sogget¬  tivo, ossia 1’ attività propriamente detta, sotto la forma di  un’ agilità (Agililàt) o forza efficiente. Ma poiché nella  coscienza, quasi come in un prisma, ogni unità si rifrange  in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo sdoppia¬  mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il sog¬  gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬  tività propriamente detta, veduta come una forza reale,  come un oggettivo esistente in me, dall’altra il soggettivo,  fonie inesauribile di questa forza reale, fonte originaria  non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui profondità  oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e talora  impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬  presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia  attività — ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua  unità anteriore alla coscienza — , quando sia veduta attra-    (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p. 7).  verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo,  che da un lato scaturisce da un soggettivo perennemente  rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬  termina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia (‘). Così  si rivela alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la  cui essenza sta nel produrre rappresentazioni, nel creare  concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi libertà.  Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo  in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line,  e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e si  chiama uua volizione; e lo spirituale che in noi si consi¬  dera come principio immediato delle volizioni dicesi volontà.   Spetta, dunque , alla volontà agire sulla materia ed  esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le  sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso  stesso materia , ossia quel corpo articolato che è il nostro    (‘) Nel Leon (op. cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura  dell’attività spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo  e continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬  vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità;  chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬  stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che  essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute  alla natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta  nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé,  può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi  lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬  mina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde  si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza  però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione  di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬  stenza. E si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato  d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto  è possibile una causalità in forza di un concetto. organismo. E invero u io , consideralo come un principio  di attività nel mondo dei corpi, sono un corpo articolato,  e la rappresentazione del mio corpo non è altro che  la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo  materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito  aspetto della mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo  sono quindi una medesima cosa , riguardata però da due  lati diversi: una medesima cosa, perchè soltanto fin dove  si estende l'immediata causalità della volontà sul corpo,  si estende il corpo articolato , necessario strumento della  causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬  versi , perchè , in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬  scienza, la volontà appare come il soggettivo che esercita  la sua causalità sul corpo, e il corpo come 1 ’oggettivo i  cui mutamenti coincidono con quelli di tutta l’oggettività  o realtà corporea. Similmente una medesima cosa, riguar¬  data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura  che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e  T ordinamento della materia , e la natura non cangiabile ,  ossia la materia pura : la natura mutevole è 1 ’ oggettivo  considerato soggettivamente e in connessione con 1 ’ io, in¬  telligenza attiva ; la natura immutevolo è Soggettivo con¬  siderato oggettivamente e soltanto in sè.   Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬  menti che l’analisi ritrova nella percezione della nostra  causalità sensibile vengono dedotti dalle leggi della co¬  scienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto su cui si tonda  ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa at¬  tività, in virtù della legge fondamentale della coscienza,    (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11).  per cui 1 essere attivo non si comprende senza una resi¬  stenza su cui agisce, non si comprende cioè se non come un  Io-soggetto operante sopra un Non-Io-oggetto, appare sotto  forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli  elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal con¬  cetto-fine propostomi assolutamente da me stesso, sino  alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito la  mia causalità, non sono che anelli intermedi dell’apparenza  totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico reale 1   vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la mia  libertà.   IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre il  principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬  zione assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni  indipendentemente da ogni fine esteriore, la quale si ac¬  compagna immancabilmente con la natura umana e costi¬  tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine  questa obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la  leggo morale, ossia il' principio della moralità? Secondo  che esige la Dottrina della Scienza , tale origine non va  ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde il primo  problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso  come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto  ciò che non è io. „ (*).   La soluzione di questo problema si ottiene così : Io  non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non  come volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in  se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la coscienza    fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p. 20).  puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto  io non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non  si concepisce se non supponendo qualcosa di diverso dal-  1’ io, perchè ogni volontà reale è una determinata volizione  che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare un og¬  getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori di  noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me  stesso , bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno  della mia volontà: ciò che rimane allora sarà il mio es¬  sere puro, la volontà assoluta, il principio della nostra filo¬  sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e distin¬  tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa  e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬  nare sè stesso in modo incondizionato e autonomo , è, in  una parola, la libertà. Ora, appunto questa tendenza e  questa libertà costituisce l’io preso in sè, l’io considerato  all’ infuori di ogni relazione con checchessia di diverso  da sè.   Ma ogni essere non è se non in quanto viene riferito  a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri termini  suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in  quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che  ha di sè; onde esso deve avere la coscienza di quella ten¬  denza alla libera auto-determinazione che dicemmo costi¬  tuire la sua essenza. E invero l’io che, mediante l’intelli¬  genza, pone sè stesso come tendenza all’autonomia assoluta  o libertà, è un essere il cui principio si trova non in un  altro essere, ma in un quid di categoria diversa — l’unico  quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬  siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene  come attività pura, come movimento dell’intelligenza senza     restrizioni e senza fissità. Orbene, da questa intima fusione  dell’io in quanto tendenza all’attività assoluta o libertà e  dell’io in quanto intelligenza, dell’io in quanto essere e  dell’ io in quanto riflessione , è possibile dedurre il prin¬  cipio della moralità. Come?   L’Io assoluto, non ancora rifratto dal prisma della  coscienza, è determinato, come abbiamo detto, dalla sua  tendenza all’attività assoluta, e questa determinazione di¬  venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma , siccome  l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua semplicità  e identità originaria non può essere mai oggetto della co¬  scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬  meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere  oggettivo e della riflessione soggettiva, mediante quella  specie di espediente che consiste nel considerare il sog¬  gettivo e 1’oggettivo come determina»tisi reciprocamente  1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi come insepara¬  bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si con¬  cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel  qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama  sentimento), essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬  cosa di per sè stante, di fisso .e permanente, si troverà  che il contenuto del pensiero è immutabile e necessario  e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge di una  attività propria e assoluta. Se poi si concepisce l’oggettivo  come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce quel-  l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬  sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile,  di attivo e indipendente, si troverà che l’io si pone come  libero. Si arriverà cosi — combinando, i due risultati , la  legge necessaria da una parte e la libertà illimitata dal-        1’ altra — all’ idea di una legge che l’io liberamente -im¬  pone a sè stesso : la legge ha per contenuto la libertà , e  la libertà è sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal  modo , si determinano reciprocamente : esse fanno insieme  una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in-  condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione  spontanea di una legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬  lità; esse nascono entrambe da quello sdoppiamento che è  dovuto alla natura dell’ attività spirituale e che è a un  tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto e  soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel-  1’ unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra  essenza come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del-  1’autonomia, tra la libertà-concetto e la libertà-atto, e il  legame che unisce 1’ una all’ altra è di causalità non Inec-  canico-coercitiva ma psichico-imperativa, è di necessità  non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere. La  libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-  realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬  tuare l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza,  quel ohe siamo in fondo al nostro essere assoluto anteriore  alla coscienza, nel renderci cioè liberi ; e in ciò precisa¬  mente consiste il principio supremo di tutta la moralità,  il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci proponevamo,  dalla natura dell’ io.   Posto l’io, è in pari tempo posta anche la tendenza  all’assoluta auto-attività, alla libertà; ma la libertà non  acquista valore se non per un’ intelligenza che ne faccia  la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che  l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla  legge della propria natura, che è la legge della libertà,    senz’altro fine che la libertà, stessa. La moralità, appunto  perchè esprime direttamente l’essenza dell’io, la sua pra¬  ticità assoluta e la sua autonomia, è una perpetua legisla¬  zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice rispetto :  a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬  zione la quale non può essere che una libera sottomissione,  una spontanea adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬  zione della legge a ciascun caso particolare, applicazione  nella quale il giudizio morale è sempre un atto di auto¬  nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto al  contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che  ogni determinazione della volontà da parte di una causa  estranea a sè stessa, che vai (pianto dire alla ragione, co¬  stituirebbe un’eteronomia affatto contraria alla legge mo¬  rale. Per tal modo si può concludere che la vita morale  tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬  zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale;  e dove questa autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬  ralità (').   IH- - Alla deduzione del . principio della moralità  segue la deduzione della realtà e dell’ applicabilità del  principio stesso, senza di che quest’ ultimo rimarrebbe  un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un formalismo  vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la legge  morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ;  onde il principio della moralità è non solo vero , logica¬    ci Tbid. p. 5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione  della legge morale dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬  guenze della Dottrina della Scienza giova il seguente schema fornito        — un — mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì  reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve  attuarsi nel mondo sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo  sensibile è tale, per origine e natura, da prestarsi* come  strumento all’attuazione di quel principio.    dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi. VI, Fichte unti  seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale viene simboleggiato  lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il suo reintegrarsi nella  legge morale :    Io    Soggetto = Oggetto   Coscienza  (Divisione)    Soggetto .  Autoattività  Causalità del Concetto  Libertà    Oggetto  Materia  Causalità della Materia  Necessità    Libertà = Necessità  Legge della Libertà    Libertà sotto la Legge della Libertà  (Assoluta Autonomia)   Legge Morale   (‘) Come si vede, qui la realtà del principio morale non è la realtà  già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico dei fatti naturali  o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la realtà di ciò  che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime due specie  di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi naturali) o della  coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui ora si tratta, è  sotto la categoria della contingenza, della libertà (legge morale).   Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto è a  un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina  da sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi-  pendente e libero — il che costituisce la materia della  legge morale —, e un principio pratico, in quanto l’io im¬  pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della propria natura  — il che costituisce la forma (imperativa) della legge mo¬  rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬  rico ; Ovatterai ogni singolo io come un essere libero,  ecco il principio pratico derivante, sotto forma di comando ,  da quel principio teorico. In sostanza la legge pratica della  libertà potrebbe formularsi così : “ Opera secondo la cono¬  scenza che hai della natura e del fine originario degli es¬  seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le  cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo,  che le nostre idee ; di qui l’armonia tra la determina¬  zione teorica degli oggetti e gl’ imperativi morali che da  questa determinazione teorica scaturiscono rispetto agli og¬  getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni con  la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬  tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo  volere se non ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo  impulso non è la legge morale, ma^ legge morale non  può nulla comandare il cui oggetto non sia nella sfera di  questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve porre  sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può  far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo  mondo mediante la rappresentazione ; e la sua libertà, che  è un principio pratico, esige che questa determinazione teo¬  rica da parte del pensiero si mantenga e si completi me¬  diante l’azione da parte della volontà. L’azione della liberta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬  zione consiste nella modificazione di uno stato del mondo  stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente posto ;  è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data  come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’in¬  verso della rappresentazione, la quale è la determinazione  di un concetto secondo una realtà anteriormente posta. E  come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra  la cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬  ginaria dei due termini, essendo la cosa un prodotto in¬  conscio dell’ io, similmente qui il l’apporto tra il concetto  e la realtà ha il suo fondamento nel fatto che la produ¬  zione di questa realtà non è la produzione di una cosa in  sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo  esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza,  una determinazione dell’ io. E allora non è più questione  di sapere come sia possibile nel mondo una modificazione  da parte della libertà, poiché, essendo il mondo esso stesso  un prodotto della libertà , un limite che l’io pone a sè  stesso, è questione di sapere come sia possibile, mediante  la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi  limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬  cazione, è l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge  della libertà, sotto la quale si operano nell’ io empirico  queste modificazioni, esprime l’io puro, l’io assoluto, è  evidente che il problema circa la realtà del principio mo¬  rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in fondo ,  alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti  tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*).    (‘) Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche  prec. pp. XLI-XLII. Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬  bilità del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia  e la sfera d’ azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬  getto della nòstra attività in generale ('), poi la causalità  reale dell’essere ragionevole (Quanto al primo punto si  ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non può attri¬  buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo qualcosa  fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti, non  può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e  determinate come possibili per opera della libertà, e non può  pensare nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬  porre all’ esterno qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬  citata ( 3 ). Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal pensiero,  una materia a cui la nostra attività si riferisce e che può  essere modificata all’ infinito. Quanto al secondo punto  si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può  trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia  nessun volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso  una reale causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non  può attribuirsi una siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬  minarla in una certa maniera. Ora, l’attività pura non può  essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe più pura ;  essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si  oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono es¬  sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto  oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità  o varietà di materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at-    (*) Ibid. pp. 75-88 (ibid. pp. 75-87).   (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98).   ( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80). tivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ at¬  tività che preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo  rinserra la diversa materia che gli resiste, il nou-io che  gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque, esercita una  causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à con¬  siste non già nel creare o distruggere la materia su cui si  esercita — tale materia è condizione indispensabile per  l’attività dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬  teriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „ significa  sempre: u io allargo i miei confini „, che vai quanto dire:  “ io attuo progressivamente il concetto di libertà — se¬  condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non giun¬  gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬  stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge morale, nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui  le due esistenze si riuniscono è la libertà intesa come facoltà  assoluta di determinare 1’ azione mediante la legge (*).   Risulta da quanto precede che il principio della mo¬  ralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non opponendo  all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema di  limitazioni, e imponendo alla medesima attività un progres¬    si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una delle idee  fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi di  separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo, l’as¬  surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume-  nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo il Fichte  — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la condizione per  l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale determinandolo lo attua,  il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di potenza indeterminata e  vuota. Questa concezione segua la rovina del misticismo, che pretende  isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una sfera chimerica ; l'Io  iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili ad arbitrio ; esso forma  in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero organismo.   sivo ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬  tazioni. Il che si verifica anche quando si tratti non di un  fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di fini intermedi.  Il più spesso’ci accade di non poter attuare immediata¬  mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà, e  siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi  già determinati in* antecedenza senza il nostro intervento :  non perveniamo al nostro fine se non attraverso una serie  di gradi interposti ; che equivale a dire : tra il sentimento  da cui sono partito con la volontà e il sentimento a cui  mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti, di cui  ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬  miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬  dietreggiare ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva-  mente la mia attività reale. La mia causalità, dunque, ap¬  pare come un’azione continua e diversa, come una serie  ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ; poiché essa è  assolutamente una e identica in quanto attività, ma pre¬  senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della  multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti  oggetti esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬  mente da noi, per chi non adotti o ignori il punto di vista  della filosofia trascendentale e rimanga al punto di vista  della coscienza comune —.   Intesa nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬  gionevole contiene in sé la sintesi assoluta della cono¬  scenza e dell’ attività, determinantisi reciprocamente nella  concezione e nel perseguimento di un medesimo fine. L’es¬  sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se non in se¬  guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma d’altro  canto non ha attività se non in seguito a una conoscenza (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come identiche  nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa sintesi?  Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io oggettivamente  considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta attività e  nuli’altro che attività; e poiché l’attività, oggettivamente  presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui egli  non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬  pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo  impulso. Il sentimento o coscienza primitiva dell’impulso  è, dunque, l’anello sintetico in cui con l’attività è posta la  conoscenza e con la conoscenza l’attività.   Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di vista  pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬  scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬  scienza riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in  essa non c’ è neppure quella specie di libertà che caratte¬  rizza la rappresentazione e che ci permette di non rappre¬  sentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una  coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è  un sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni.  Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse  1’ io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬  tura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di dato,  di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà ,  ma su cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché  l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente o no  a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri  impulsi originari, non siamo più dominati da essi ; sono  essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi asse¬    di Ibid. pp.      condarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra  libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà  appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e la  facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto  alla riflessione e alla libertà (*).   Giova chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore,  prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che essa  costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna  distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui  regna il puro meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è  attività propriamente detta, c’ è soltanto una trasmissione  di urti attraverso tutta la serie di cause ed effetti, senza  che nessun anello produca o modifichi la forza trasmessa.  Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità,  la quale non è ancora la libera causalità del pensiero, del  concetto, perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬  stenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma sta  tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè consiste in  una determinazione proveniente da una serie di cause ed  effetti disposta non più secondo un ordine lineare di suc¬  cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di recipro-  canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo ef¬  fetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or-    (Per essere più chiari :  l’impulso e il sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la  volontà e la riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬  bertà; a parte, però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬  tanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro  contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬  getto a cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬  ramente accettato o ripudiato dalle seconde.    gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬  dere da un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della  propria determinazione, è dotata insomma di spontaneità,.  La reciprocanza di azione tra le parti di un tutto orga¬  nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le altre  non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬  scuna parte per la rimanente realtà che le manca non  ha che una tendenza (o impulso) risultante dallo stato de¬  terminato delle altre parti : ciascuna tende a formare il  tutto, a integrarsi con la realtà delle altre ; e cosi in  un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa  della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di  realtà; realtà e tendenzfP (o impulso) si completano a  vicenda ; ciascuna parte tende a soddisfare il bisogno di  tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare il bisogno  di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la pro¬  pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione  delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬  pilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel  senso passivo della parola, perchè è la facoltà a un tempo  così d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà  organizzatrice è universale, essenziale, inerente a tutte  le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama un  tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi  un prodotto organico della natura, a costituire il quale certi  elementi della natura, in virtù della causalità di cui questa  è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare in  un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo operare. Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto organico  della natura che è 1’ io individuale, empirico, a partire dai  più bassi impulsi sino alle più alte tendenze.   Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un  tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste  in una tendenza a conservare unite a sè altre determinate  parti, e siffatta tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬  pulso all' autoconservazione ; alla conservazione, s’intende,  non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione, ma di  un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione,  che è poi la tendenza a perseverare nel proprio essere,  porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti della  natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti,  appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi  come il primo grido inarticolato dell’orgauismo ancora in¬  fante, poi sempre più determinati e differenziati, come il  linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti  bene — non già la diversità degli oggetti determina lo  specificarsi dei vari appetiti e desideri ; al contrario, i di¬  versi modi del desiderio, mediante le proprie determina¬  zioni, si creano i propri oggetti. La coscienza o l’intelli¬  genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il riflesso  dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra vita  pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi  loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio  fine in sè stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬  seguiamo, attraverso gli oggetti, altro che i nostri desideri  esteriorizzati nelle cose (‘). Ma se è così, se ciò che ci sfor¬  ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce a    im simbolo —, sì bene la soddisfazione della nostra _ten- •  denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro godi¬  mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto  di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della  riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo della  nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio imme¬  diato dallo stato di pura natura allo stato di coscienza ri¬  flessa, la nostra azione cangia di forma — da necessaria e  istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento ne  modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto  rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare che l’uomo con la riflessione non si elevi al di  sopra della natura, se non per sottoporlesi meglio e perse¬  guire con pili luce e sicurezza il fine edonistico. Ora, finché è  spinto al piacere e dipende dagli oggetti dei suoi appetiti,   ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della facoltà appeti¬  ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con co- 1  scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a  rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa,  quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra  azione si differenzia da quella compiuta allo stato di pura  natura, oltreché per la forma, anche per il contenuto, es¬  sendo questo costituito non pili dal piacere — comunque  ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà ,  cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es  senza nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva  cosi all’esercizio della facoltà appetitiva superiore, di quella  che appartiene non a lui prodotto di natura, ma a lui spirito puro. Ciò non ostante, le due facoltà appetitive, l’inferiore e la  superiore, costituiscono un solo e medesimo impulso origi¬  nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella facoltà  appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi concepisco come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia  nell’impulso spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre  tutta la mia essenza si ritrova nell’ identità del soggetto  e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto. Dall’azione reciproca  dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ; ma en¬  trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde debbono essere conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo :  l’impulso superiore rinunzia alla purezza della propria at¬  tività — purezza che consiste nel non essere determinato  da un oggetto —, lasciandosi determinare da un oggetto,  e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine, al  piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro  unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo  è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬  tura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬  giungibile — raggiungerlo sarebbe porre termine in pari  tempo all’attività e alla natura che dell’attività è il limite  correlativo, la condizione indispensabile —; un fine , tut¬  tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più, facendo  uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore.Non si obietti qui — dice il Fichte  ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp. 145-146) — che un’approssima¬  zione all’infinito è contraddittoria, in quantoche un infinito a cui po¬  tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e diverrebbe in  certo qual modo suscettivo di misura. L’infinito non è una cosa, un  oggetto posto come dato e verso il quale si avanzerebbe come verso  un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto ciò  che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire ; Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io svelle  sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui,  entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬  lutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬  dente per sè stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬  tente, ed entrambi uniti in una sola inseparabile persona,  alla quale il riflettuto dà la forza reale e il riflettente la co¬  scienza. La persona così costituita non può più agire ormai  se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che  ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto  della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non  liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬  pulso di natura , perchè anche in tal caso egli non opera  meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più il  cieco impulso naturale , si bene la coscienza da lui acqui¬  stata di questo impulso naturale è il primo fondamento del  suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa no¬  tammo — se non nel contenuto, almeno nella forma (‘).   Ma che significa essere libero e agire liberamente?  Prima di giungere alla riflessione l’io è di natura sua    e questo ideale clie portiamo in noi stessi indietreggia dinanzi a noi  man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi possiamo bene allargare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la libertà, ma non pos¬  siamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare cioè la li¬  bertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà as¬  soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress o  infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura : la  natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se l’infi¬  nito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la li¬  bertà ; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento — im¬  possibile — di un fine fissato a un dato punto, ma nel valore sempre  più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit. p. 276).   (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132). libero, ma per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè  stesso ; per essere libero anche agli occhi propri egli deve  porsi come tale , e come tale non si pone se non allorché  diventa cosciente del suo passaggio dallo stato indetermi¬  nato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io  determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬  tesi del inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del-  1’ io-oggetto. Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬  venta immediatamente azione e l’azione diventa conoscenza  della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è soltanto  uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso librarsi  tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza ne¬  gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sa¬  rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬  tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa  scegliere tra più determinazioni possibili; perchè: o si  trova in presenza del solo impulso naturale, e allora non  ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione  per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più impulsi  — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora  si tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel-  l’una e nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬  determinatezza. Siccome però l’essere ragionevole non può  esistere senza quella tra le condizioni della sua ragione¬  volezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza  della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso origi¬  nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della  moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per  condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io  obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque,  che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal proprio      Lxvn    seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto  dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬  denza alla libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale  — quella per cui lo stesso risultato, che la natura avrebbe  prodotto se avesse potuto ancora agire, nasce invece da un  nuovo principio, da una nuova forza, ossia dalla coscienza  libera — si aggiunga la libertà materiale — quella per  cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì  una serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde  non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬  telligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe  operato la natura — (‘).   In virtù della libertà materiale io mi sento emancipato  dall’ impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬  stenza, considerata come essenziale all’ io, quindi come im¬  manente, è essa stessa un impulso, l ’impulso pwro*dell’ io.  L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione e, per  il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla alla  mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo  stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra  la natura e mi pone in grado di contrappormele con la  più semplice risoluzione, si manifesta come tale da ispi¬  rarmi stima e da investirmi di una dignità, la quale, es¬  sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto verso  me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬  sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬  zione della mia assoluta indipendenza e libertà (*).    (*) Ibid. pp. 136-139 (ibid. pp. 132-185).  (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp. 135-138). L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario  significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i-  deale tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e  il reale stato accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi,  il mio interesse — m’interessa, infatti, ossia tocca diretta-  mente il mio sentimento, tutto ciò che lia immediata rela¬  zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si accompagnano,  dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di capitale  importanza — si tratta qui di stati affettivi che non hanno  nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono  in una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura  non si confonde mai con quella del piacere o del dolore dei  sensi. Il piacere sensibile che nasce dall’ accordo tra l’im¬  pulso naturale e la realtà non dipende da me in quanto  sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale da  strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da  farmi dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario ,  e questa qualità lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬  trettanto vale del suo opposto, ossia del dolore sensibile.  Il piacere morale, al contrario, che nasce dall’accordo tra  l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo ma  di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬  tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬  tarmi, invece, il piacere involontario ; esso, quindi, non mi  trasporta fuori di me, anzi mi fa rientrare in me stesso e,  meno tumultuario, ma più intimo del piacere sensibile, m’in-    (‘) Intorno al concetto dell’ interesse il Fichte fa una specie di  digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra traduz. pp. 138-142) per¬  meglio illuminare la sua trattazione sul sentimento morale e sulla  coscienza morale.      fonde, in quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio'  e nuova forza. Similmente il suo opposto, ossia il dolore  morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un rimpro¬  vero interno, si associa a un sentimento di auto-disistima  e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di pro¬  varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬  vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬  stra assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas  Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’a¬  dempimento del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel  mondo della natura) e il fine ideale (la libertà) (‘). '   Ora, la coscienza morale si connette strettamente con  l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè parte¬  cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale.  Come ?   Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si  porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬  pirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬  diante una forza fisica, la quale non proviene che dal-  I’ impulso naturale, cosi ogni fine concepito dall’intelligenza  finisce per coincidere con 1^ soddisfazione di un impulso  naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la na-  /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere  non può avere materia diversa da quella che la natura  vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è li¬  bertà circa la materia delle azioni. E allora quale causalità  rimane all’impulso puro, che pur non può esserne destituito?  Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro, bisogna  che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno    *    (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142).  che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬  prende soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla  piena emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività  dell' io impone a sè stessa costringono l’operare entro i con¬  fini dell’ impulso naturale ; onde l’azione conforme a questo  secondo impulso diventa conforme anche al primo quando  al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura,  si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale  all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza  assoluta. Deve esservi una serie di tal genere, che muova  dal punto in cui la persona si trova posta per la propria  natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo e  ideale — si badi bene a questo appellativo che esclude  ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni attività,  altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’ impulso  puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale  dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere  in ogni momento quale è il nostro dovere. Il principio della  morale può, dunque, formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬  mento la tua destinazione. Quel che in ogni momento è con¬  forme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui si  dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso  naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso natu¬  rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto  perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬  turale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma;  per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un do¬  vere ; gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la  compassione, la benevolenza spontanea, in quanto tali non  hanno nulla di morale, perchè contraddice alla moralità il  lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale differisce    — 1.XX1    profondamente dal cieco impulso naturale, e molto ai av¬  vicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua  (può avere effetto e può anche non averne), perchè esso co¬  manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di a'stenerti  dal fare). E in questo comando appare per la prima volta  un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto  nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze capaci  di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non subor¬  dinato a nessun altro fine. L’impulso morale, infatti, non  ha per fine nessun godimento ; esso esige u la libertà per  la libertà „.   È poi evidente in questa formula imperativa il duplice  significato della parola “ libertà „, la quale sta a designare  nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬  ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo  che dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la  piena nostra indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi.  In altri termini : io debbo agire con libertà per divenire  libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non se¬  guendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere  agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla  natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬  bertà come attività e la libertà come risultalo , che è di  così grande importanza nel nostro sistema, se ne aggiunge  un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come at¬  tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la materia del-  1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della  dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬  matica del principio della moralità ; di che si tratta nel  terzo libro (').    (*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152).  Quest’ultimo libro si divide in tre parti: A) la  prima discorre delle condizioni formali della moralità  delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto materiate  della legge morale; C) la terza, infine, espone la dottrina  dei doveri propriamente delta.   A) Condizioni formali della moralità delle nostre  azioni. — Il principio formale di ogni moralità può enun¬  ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione che  hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge  — che presuppone naturalmente e logicamente una libera  volontà (') — si scinde in due precetti, di cui 1’ uno con¬  cerne la forma o la condizione : u procurati la convinzione  di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia o il condi¬  zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo dovere  9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione  nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con  t’ impulso morale, e il criterio della giustezza della nostra  convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non  si può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione  diretta della nostra essenza assoluta e della nostra finalità.  Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel senti¬  mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e  da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche  da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è essa  stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non  ammettono appello. Voler oltrepassare la propria coscienza  morale per timore che possa essere erronea, sarebbe come  voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È  condizione formale della moralità , quindi, non decidersi   (*) Della volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta al  juro meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre  (nostra traduz. pp. 155-160).  all’azione se non per soddisfare alla propria coscienza mo¬  rale, all’impulso originario dell’io puro, senza sottostare  ad altra autorità che non sia quella della propria convin-  zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬  sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato  j delle decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬   scienza, e perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬  putare la sua colpa ad altri che a sè stesso (*). Similmente  opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si lascia  guidare dall’autorità altrui, perchè la convinzione della co¬  scienza morale e la certezza della sua giustezza non na¬  scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬  sivamente dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬  zione far-e di qualche cosa che non sono io stesso un sen-  • timento di me stesso. In conclusione: in tutta la nostra  condotta (si tratti della ricerca scientifica, ovvero della  vita pratica) 1’ azione , per essere morale, deve uscire da  un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa esprime  veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione fatta  per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che  non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬  mento di un’ azione che accettiamo come un ordine) va  direttamente contro il verdetto della coscienza, è male, è  I colpa (*).    (') Giova ricordare che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬  renti; tutte debbono essere riferite alla legge morale, uon foss’altro  per assicurarsi che sono lecite; onde anche le azioni più indifferenti  iu apparenza, vanno sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista  della legge morale.   ,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). — Risulta  qui ancora una volta definitivamente stabilito il primato della ragione  pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi E facile argomentare da ciò quale sia la causa del  male o della colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che  in generale costituisce l’essere ragionevole trovasi neces¬  sariamente ih ciascun individuo ragionevole, altrimenti  questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge morale,  P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo, deve  tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬  ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla  condizione del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬  scienza di tutto ciò che primitivamente e originariamente  fa l’essenza dell’Io, se non mediante un lavoro successivo  e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più o  meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non  abbiano compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio  dallo stato d’ irriflessione al massimo sviluppo della co¬  scienza morale, c’ è sempre luogo nella nostra condotta al-  l’immoralità, alla colpa, al male. Conviene, dunque, seguire  questa storia dello sviluppo della coscienza emjnrica, per  vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme della  moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬  cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà,  e in nessun modo da una meccanica legge di natura (').   Anzitutto, e al suo grado pivi dàsso, l’io empirico si  riduce a un’attività istintiva ; l’istinto, senza dubbio, si ac¬  compagna con la coscienza, dista però ancor molto dalla    del Fichte è veramente la ragione, e nella quale si attua l’accordo  dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto, della produzione e  della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la coscienza immediata  dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del Fichte fluisca  per essere in sostanza una morale del sentimento.   (<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175).      riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente  M’ impulso naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬  genza fuori di lui, ma per sè stesso è puro animale.   I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e tale  riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è  nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto mo¬  ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬  stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro,  deve riflettere su questo suo stato, e mercè tale riflessione  si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla natura, se  ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ; ac¬  quista cosi il potere di differire ‘la propria autodetermi¬  nazione e di scegliere quindi tra più modi — la pluralità  dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal differimento  della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale. Tale  scelta si compie secondo una massima liberamente adottata  dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬  cipio supremo che scaturisce dalla legge morale e che non  è, come la massima, un libero prodotto della coscienza em¬  pirica ; per conseguenza, nel caso di una massima cattiva,  la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora, in questa se¬  conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della rifles¬  sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬  pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta  la massima della felicità. L’uomo rimane dunque ancora  un animale, ma diventa un animale intelligente, prudente:  è già formalmente libero; soltanto mette la sua libertà al  servigio dell’ impulso naturale. La massima della felicità,  per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬  sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬  bedisce necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-,  sario e non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/  se vi si arresta è soltanto sua colpa; nulla lo costringe L  progredire, è vero, ma egli deve e può progredire, facenti  uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a qn  piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile  non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la  propria libertà, onde a ragione il Kant riteneva il male  radicale innato nell’uomo e nondimeno prodotto dalla sua  libertà.   Quando però — con nuovo miracolo della sua sponta¬  neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la pro¬  pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al pari  della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬  gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce  una terza fase, nella quale l’io individuale prende coscienza  della sua opposizione rispetto alla natura e della sponta¬  neità del proprio operare, ed erige questa spontaneità  stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di con¬  dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue  azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io  la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè  stessa il proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso  la libertà assoluta, ma non ancora la vera libertà morale,  non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del do¬  vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬  canza di legge, ma non addirittura rovesciamento della  l e gg®> n ® ostilità contro questa, lt^ massima della volontà  egoistica e arbitraria, invece, può portare sino alla trasgres¬  sione intenzionale della legge. Il carattere della condotta  ispirata a tale massima è soltanto la soddisfazione dell’amor proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta a  qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto questa  idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la  storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro  del inondo con le sue lotte e le sue guerre, con, le sue  vittorie e le sue sconfitte. u II soggiogamento dei corpi e  delle anime dei popoli, le guerre di conquista e di reli¬  gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è disono¬  rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬  sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo  e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo si ac¬  crescerebbero le fonti dei suoi godimenti sensitivi? No  davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere, a quel che  io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo mo¬  veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬  mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché  giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva  dall' obbedienza al dovere e che solo ha significato morale,  ma a un disinteresse di carattere impulsivo, derivante dal  desiderio di suscitare ammirazione, di cattivarsi stima, e che  rimane tuttora una forma di amor proprio e di orgoglio.  E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci  vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo  sacrifizio è senza valore etico, perché è fatto soltanto al  proprio io individuale, è puro egoismo. «Certo, rispetto  alla fase precedente, la quale non mirava che alla felicità  sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e sta  come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ;  ma dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬    li Ibid. p. 190 (ibid. p. 186). luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a considerare  come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come  opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬  rosi, e a considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio  nostro si fa da Dio, dalla natura, dagli altri uomini, come  nulla più che doveri verso di noi. Con siffatte pretensioni  la massima della volontà egoistica e senza, freno, adottata  in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce ad¬  dirittura col corrompere le stesse radici della moralità :  “ >1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente  giusto, in quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬  lore ; ma il secondo è assai più difficile a convertire del  primo „ (*).   Per elevarsi al disopra di questa terza fase basta che  l’uomo — con un terzo atto di riflessione, al pari dei  precedenti spontaneo ma inesplicabile, non necessario ma  obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’ originario  impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato (analo¬  gamente a un eminente grado di capacità intellettuale)  come un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio  della virtù, ma che, allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce  un carattere assai immorale. Mercè la riflessione, quell’ im¬  pulso si trasforma in una legge assolutamente imperativa,  e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è ri¬  flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,  e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà  una legge di causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa  di dovere assolutamente qualche cosa ; e affinchè questo  sapere si tramuti in azione, bisogna che egli adotti la mas-    (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187).  sima : adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così  la coscienza morale, la quale impone appunto alla volontà  arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della fase pre¬  cedente, l’obbedienza al principio assoluto della ragione.   Una volta conseguita questa chiara coscienza del do¬  vere, la nostra condotta vi si conforma necessariamente,  essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito e  con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare  al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬  punto perchè è il nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre  che una contraddizione evidente, una condotta veramente  diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non fosse contrad¬  dittorio (*).   Soltanto può accadere che la chiara coscienza del do¬  vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione non si mantenga  sempre alle altezze della moralità, e la nostra condotta,  perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il do¬  vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la  coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua luce e  «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi  stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della rifles¬  sione; possiamo fare di questa riflessione un’abitudine,  •senza perciò renderla una necessità, senza pregiudizio cioè  della libertà, allo stesso modo diesi può fare un’abitudine  dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia, e  persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e  senza escludere quindi 1’ esercizio della libertà. Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica conir ap~  pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke ,   voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese dal Kroeger nel voi. Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da non  lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi    The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il Pielite  si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o luminosa,  una volta nata per opera della libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale  mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria tra la ne¬  cessità della natura e la libertà della ragione, e precisamente nel-  l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto futuro con  la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in altri ter¬  mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2) non voglio  agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti in  ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto in  questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬  vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che  sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni  determinate, soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬  cilmente possiamo peccare per omissione o violazione del dovere;  mentre invece per le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente  manca I intervento della riflessione e la conseguente chiarezza della  coscienza. Di qui due regole: 1) un esame di coscienza generale dei  casi in cui siamo più esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la  risoluzione ferma e sempre attiva di ridettero, in questi casi, sopra  noi stessi e di sorvegliarci, opponendo alla forza cieoa e alla resi¬  stenza passiva di certi stati di coscienza, divenuti abitudini quasi  invincibili, la causalità iutelligAte della coscienza morale: è noto  ohe spesso basta ridettero sulla propria passione e rendersi consape¬  voli delle associazioni che la costituiscono per liberarsene, dissociando  mentalmente i fattori da cui nasce e controbilanciando il piacere  che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento col disprezzo che accom¬  pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame della propria  coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca a una pura  aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice giuoco  estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma morale,  il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del resto, si  rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é tutta ri¬  volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma agli  artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i quali è  frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico delle coso,  di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la speculazione  in azione. ricadiamo in uno degli stati che precedono la moralità e  operiamo secondo la massima o della felicità o del dominio  arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri¬  mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere.  possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza  corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato  il dovere. L’indeterminatezza può concernere: a) la materia  del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un dato  caso : in ciascun singolo caso tra più azioni possibili non  ce n è che una conforme al dovere ; ma, per insufficiente  attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e quasi  a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo  il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬  vere : in ciascun singolo caso si deve adempiere subito  ciò che è dovere; ma, per l’affievolirsi della coscienza, ci  illudiamo che non occorra affrettarsi a ciò, procrastiniamo  il nostro perfezionamento e ci abituiamo a procrastinarlo  all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo mo¬  rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬  zionata ; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica,  consideriamo il dovere, anziché come un comando, come  un semplice consiglio che si può seguire quando piaccia e  non costi troppa abnegazione, e con cui si può anche  transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti  con la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬  dere la legge morale, altrettante cause di torpore per la  riflessione, e che pongono nel massimo pericolo la nostra  salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga  dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a  rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬  tendere il dovere, infatti, accusa la morale di rigorismo impraticabile, sotto lo specioso pretesto che l’ adempimento  del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse ap¬  punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar tutto al dovere,  la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente di¬  letta (*).   Quale che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si  può dire in generale che la causa di questo suo oscurarsi  e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa iu-  somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà.  Se la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una  creazione da parte della libertà e quasi in un colpo di  grazia che ci strappa all’oppressione della natura, il man-  tenimento della chiara coscienza del dovere non può es¬  sere che un perpetuo riprodursi di questo atto creativo,  una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬  flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬  volirsi della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e  il trionfo delle forze antagonistiche della natura, le quali  sono sempre e necessariamente in azione : tosto che cessa  lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente ha il  sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche  la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia  la sua vita in una specie d’innocenza — perchè sono ancora  ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza primitiva  assume aspetto di colpa —, perviene necessariamente alla  coscienza di sé stesso : a ciò gli basta riflettere sulla li¬  bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili per sod¬  disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase in  cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della    (') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193). felicità. In questo grado di sviluppo rimano volentieri, trat- '  tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto essere  sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero  che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬  parsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ;  ma proprio la sua libertà è impedita in questo stato, essendo  essa alleata con quella forza d'inerzia, da cui dovrebbe in¬  vece svincolarsi ; come farà egli a elevarsi alla libertà,  quando per questa elevazione stessa deve far uso della  libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬  peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬  tamente non nella sua natura empirica, la quale in nessun  modo fornisce alcunché di simile ; gli occorre, dunque, un  aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui non può nulla da sé:  vedremo presto da qual miracolo sarà salvato.   Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale  a forza di riprodursi indefinitamente diviene impotenza  morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato  originale: l'uomo è per natura pigro, dice assai giusta¬  mente il Kant. — Da pigrizia nasce immediatamente viltà,  il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà è la  pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza  nello scambio ili azione con gli altri : donde tutte le specie  di schiavitù fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha  abbastanza coraggio dinanzi a coloro di cui si conosce la  debolezza relativa, ma si è disposti a cedere, a umiliarsi,  dinanzi a una supposta e temuta superiorità qualsiasi ; si  preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo neces¬  sario a resistere; precisamente come quel marinaio che pre¬  feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di  correggersi in questa vita. — Il vile si consola di questa sottomissione forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà  nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale : falsità.  È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si compie  per ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza  che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente  come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla fatica  di difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬  lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un oppressore, e  ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile  è falso; il coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬  glio, se non per virtù.   Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬  cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza  con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬  mente? — Non già t la forza, che egli ben possiede, ma la  coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. — E donde  gli verrà questo impulso? — Non da altra foute che dalla  riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in sè l’im¬  magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria  bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà  formarsi la coscienza di quel che deve essere, soltanto di  là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che formano la  grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di ap¬  prendere la propria libertà da altri individui liberi, che  essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬  dine spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della  moralità e quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i  fondatori di religione. Si comprende come costoro, non  avendo attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della  propria indipendenza, e non trovando nella propria natura  empirica il principio dell’ emancipazione da questa natura empirica, si credano ispirati dall' alto da una grazia so¬  prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non han  fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬  soluto, di cui l’io finito e individuale deve divenire la  copia fedele ( J ).   B) Contenuto materiale della legge morale, ovvero  veduta sistematica dei nostri doveri. — Una volta eman¬  cipato dalla schiavitù della natura e divenuto cosciente  della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di questa  per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬  soluta libertà materiale. Quale la materia di queste azioni?  In qual modo 1’ io individuale si eleverà gradatamente sino  a quell’ indipendenza assoluta, a quello stato oggettivo di  libertà, che è il fine ultimo della sua libera attività sog¬  gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello stato di  libertà non si ottiene se non determinando il mondo in  funzione della libertà stessa, operando cioè come chi  considera e tratta le cose dal punto di vista non della  loro esistenza data, ma della loro finalità, non del loro es¬  sere, ma del loro dover-essere, e le modifica perciò e le  adatta progressivamente nella direzione di questa finalità,  di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo  1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria  e come praticamente necessaria, costituisce il sistema dei  nostri doveri, la materia della moralità. In altri termini, la  morale propriamente detta non è che l’insieme delle con¬  dizioni a cui il mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi  per essere strumento all’ attuazione della libertà.   Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè triplice è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo. Il  mondo si può considerare : a) in sè, come pura e semplice  materia, come natura corporea ; b) nel suo rapporto col  pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo rapporto  col volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’ at¬  tività, come il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬  bertà individuale, come il teatro della società. E per la  morale si tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬  tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella nostra  vita sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà, la  quale non può divenire reale se non operando sul mondo  oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e della  società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine  ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c) la  società ? ' «   a) Il nostro corpo, essendo da una parte prodotto  di natura, dall’ altra strumento della causalità del concetto,  funziona da intermediario tra la necessità e la libertà. La  volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso  modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri  concetti. Di qui risulta chiaro un triplice dovere rispetto  al corpo : 1) un dovere negativo : non far mai del proprio  corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; 2) un dovere po¬  sitivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse  della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare come illecito  ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine ultimo  della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio:  se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio  per voi ; non ce n’ è un’ altra „ L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso  cui può attuarsi la libertà, poiché soltanto la riflessione  dà alla libertà la sua legge; fuori dell’intelligenza ci sarà  1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ; l’intelligenza  è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per la  legge morale , mentre il corpo è condizione materiale pu¬  ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬  ligenza è condizione materiale veramente interna e di  tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere  anche verso l’intelligenza : 1) un dovere negativo : non  subordinare mai materialiter — ossia nelle sue ricerche  e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità, foss’anche  quella della legge morale ; la ricerca da parte della ragione  teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata ,  non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto  della conoscenza ; 2) un dovere positivo : formare l’intel¬  ligenza il più possibile ; il più possibile imparare, pensare,  indagare ; 8) un dovere limitativo : subordinare formaliier  l’intelligenza alla moralità, la quale rimane sempre il fine  supremo ; riferire al dovere tutte le nostre investigazioni ;  coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere, es¬  sendo essa strumento di moralità (').   c) La società, infine, può dirsi addirittura l’espres¬  sione vivente della libertà , in quanto questa non si con¬  cepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come  una recijjrocanza di rapporti tra più individui corporei,  intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi, si  attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti  gli uomini, in seno alla quale V individuo diviene persona.  e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento,  anzi nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo  individuo e società termini correlativi, coudizionantisi a  vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi altri¬  menti che come individuo, e se come tale non può pre¬  scindere dai suoi rapporti con la società , che vai quanto  dire dalla esistenza di altri individui e dalla loro libertà,  è evidente che egli non può voler sopprimere questa esi¬  stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza  e la libertà sua propina. La mia tendenza all’indipendenza  assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque subor¬  dinata alla libertà .degli altri. Le libere azioni degli altri  sono gli originari punti di confine della mia individualità,  e a esse io reagisco f non meno liberamente, autodetermi-  nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da cui  uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non  quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il  mio essere in altro che nel mio operare. Soltanto che  mentre il mio operare, rispetto a quegli originari punti di  confine della mia individualità, ossia rispetto ai liberi in¬  flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia assoluta  autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti  di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬  paiono come predeterminati p priori ; alla stessa guisa  che dal punto di vista altrui s’invertono le parti , e agli  altri appare liberamente autodeterminato il loro agire su  di me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro.  Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬  nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si  risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come  le altrui) sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori del tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in cui  ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono pre-  ^ determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà perfet¬  tamente conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere  fondamentale verso la società : non impedire , con 1’ eser¬  cizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou trat¬  tare gli altri uomini come cose, come semplici strumenti  della propria libertà. Ma anche nell’ interno di questo do¬  vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte devo  tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da  ogni limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui,  la quale è una vera limitazione alla mia libertà ; da una  parte devo agire sul moudo sensibile si da farne, come il  mio corpo, il mezzo per giungere al line supremo , all’ as¬  soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare i pro¬  dotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova  contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre  tra le molteplici libertà individuali , anziché contrasto,  vera comunanza di azione ; se dal punto di vista giuridico  occorre una forza coercitiva (l’autorità dello Stato), la  quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali an¬  tagonistiche , renda possibile il loro mutuo sviluppo , dal  punto di vista morale, invece, tutti gli individui sottostanno  alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine ,  tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta  conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬  vere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è  necessaria all’ emancipazione degli altri, perchè l’indipendenza di ciascuno va di pari passo con l’indipendenza di  tutti, perchè la libertà , intesa nel senso morale, non si  attua se uon uella collettività, degli esseri liberi. Dunque,  non già limitazione o interferenza tra le libertà indivi¬  duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera comune,  al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui è  qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬  pria, perchè questa e quella si accordano e si completano  reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo la  liberazione di tutti.   E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬  soluta non si riferisce a un determinato individuo ; ha per  oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in  generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della  ragione in quanto ragione, il che non si ottiene se non  nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli esseri  che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la libertà,  — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬  dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e uni¬ versale, e non si attua nel singolo uomo se uon in quanto  questi da u individuo „ si eleva a “ persona „ per confon¬  dersi in ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui  trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u Opera  in modo da poter pensare la massima della tua volontà  come principio d’ una legislazione universale „ , formula  più euristica che costitutiva della moralità, perchè non è  un principio — come sembrava al Kant, a cui il metodo  da lui adottato interdiceva di penetrare sino al fondo delle  cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬  cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza della ragione ('). Di qui deriva la necessità che tutti-siano  veramente liberi , che nessuno sia impedito nell* esercizio  dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno  si adoperi ad avvicinare sempre più quell’ ideale" — per  quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è  la moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà  contrario alla legge morale ho il dovere di annullare ; ma  siccome ciascuno deve operare secondo le proprie convin¬  zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare o modificare  soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione. E  poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini  se non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si  ribadisce la necessità morale della società e il dovere per  ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società significa  rinunziare ad attuare il fine della ragione ed essere indif¬  ferente al propagarsi della moralità, al trionfo della libertà,  al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura sola-    (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la suddetta  formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un quid  può essere principio di una legislazione universale, perciò dev’essere  massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè un  quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere anche  principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non la  forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto deter¬  mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione universale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi di-  siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria condotta  come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime circostanze ;  la proposizione kantiana, appunto con questa universalizzazione della  condotta individuale , non fornisce altro che un eccellente mezzo di  controprova per accertarci se, agli effetti della morale , la condotta  di un individuo sopporti o no universalità, possa o no erigersi a  legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non già costitu¬  tiva della moralità. mente di sè , dal lato morale, in verità non ha cura nep¬  pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi  cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù,  ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una  vita eremitica, dedita a pensieri sublimi e speculazioni  pure, non già col fantasticare , ma soltanto con 1’ operare  nella e per la società si soddisfa al dovere (*).   La necessità etica della società e il dovere che ne  deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi alla  moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e  formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di quella  repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬  zione indispensabile per la reciproca azione sociale diretta  a produrre credenze pratiche concordi e con esse il pro¬  gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta nel  suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo  primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile  una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬  sere, che un punto di partenza o un mezzo, nou già un  punto di arrivo o uu fine ; esso è indefinitamente perfet¬  tibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti gli  uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità ,  e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬  punto, l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬  pismo, lavorare pur contro la propria convinzione a man¬  tenere il simbolo in una fissità assoluta, a rendere la ra¬  gione stazionaria, a costringere gli altri in una fede già  superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione del  dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres-    (') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230).     xeni    sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a  permettere la discussione delle diverse opinioni in vista  dell’ ulteriore sviluppo morale della comunità, ma la for¬  mula definitiva di una verità assoluta e immutevole, il  che sta in recisa opposizione con lo spirito della moralità,  la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’ in¬  finito (*).   Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfeziona¬  mento morale per quanto riguarda le convinzioni interne,  così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda  le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che  sta fuori del mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è  patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi della  ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui  ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso inter¬  ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi , perciò,  di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare  non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta-  mente non mi è lecito. Quel che interessa tutti io non  posso fare senza il consenso di tutti, e senza seguire,  quindi, principi universalmente accettati, previo accordo,  tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria  e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso a  questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬  ritti e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto  del cosidetto contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo  Stato , grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti i  cittadini , rende possibile a ciascuno di essi di conciliare  l’esercizio della propria libertà col rispetto dovuto alla    (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp. 233-240). libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬  nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬  duali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy ua  non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo  valore etico (').   La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle  leggi nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni  dell’ individuo — le quali sono incoercibili — quanto alla  loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che non  si possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o  fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità morale e  civile ottenuta iu un dato momento del progresso umano.  E pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una con¬  vinzione indipendente da ogni autorità, ma anche ad affer¬  marla e parteciparla agli altri. Come conciliare questa con¬  traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole coscienze e  il rispetto alla fede comune ? come risolvere questo con¬  flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una limita¬  zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬  mettere la libertà assoluta delle convinzioni e della loro  comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e questa  comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è il pubblico dotto. E invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e della  loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto ambito  della Chiesa e dello Stato , perchè per essere morale do¬  vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione una¬  nime di tutti i membri della comunità chiesastica e politica, è, invece, praticabile nel ristretto pubblico dei dotti,  il quale sta come anello di congiunzione tra la convinzione  comune e la privata.   Il carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬  luti libertà e indipendenza di pensiero ; il principio della  sua costituzione è la massima di non sottoporsi a nes¬  suna autorità , di basarsi in tutto sulla propria riflessione  e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non sia  da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è  possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita,  nessun riserbo ; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto  ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe dichia¬  rarlo alla propria coscienza ; giudice della verità sarà il  tempo, ossia il progresso della coltura. E come assoluta¬  mente libera è l’investigazione scientifica, così pure libero  a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo  non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬  tinuare a credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬  blico dotto. Lo Stato e la Chiesa debbono tollerare i dotti,  altrimenti violerebbero» te coscienze, perchè nessuna po¬  tenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia di co¬  scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere la  repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro  progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono  elaborarsi i concetti che modificheranno , perfezionandoli,  e il simbolo e la costituzione dello Stato: sin anche come  pubblici ufficiali — per es. nelle università — i dotti pos¬  sono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione  scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti della  Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto,  insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza, all' indipendenza e alla massima libertà di ricerca e cri¬  tica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere  di sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel  campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte  nè diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili e  non universalmente accettate, tra i fedeli e i cittadini  che vivono fuori della repubblica dotta, nè , tanto meno ,  attuarle senz’ altro nel mondo sensibile , minando cosi, o  addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordi¬  namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬  ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza  proibire al predicatore di esporre in scritti scientifici le  sue convinzioni dissenzienti, ma rientra perfettamente nel-  1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli stesso,  se'è illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando  facesse così.   In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività sociale  è l’accordo universale tra gli uomini, accordo non possibile  se non sul puro ragionevole, perchè qui soltanto ritrovasi  ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un tale  accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬  blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬  videndo tutti le medesime convinzioni, a che servirebbe  più il potere legislativo e coercitivo dello Stato? Riunite  tutte le coscienze individuali nella visione diretta della  verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli provvisori  e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di ciascuno  confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge mo¬  rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia  di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬  nione dei santi, l’io empirico e individuale, completamente liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente in  seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella  realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della  moralità è tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi  del regno della ragione nel regno della natura, è tutto in  questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo verso  lo Spirito, vei’so la Libertà (').   C) Dottrina dei doveri propriamente detta. Da  quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la  persona è soltanto mezzo all’ attuazione del fine supremo  morale. La proposizione del Kant : L’uomo è /ine in se,  è giusta purché completata così : l'uomo è fine in .sr. ma  per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il  suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta  quanta , ne segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬  suno è fine a se stesso ; 1’ attività di ciascuno è semplice  strumento per attuare la ragione. Con che la dignità del-  1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun  individuo vien affidato il raggiungimento del fine univer¬  sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui di¬  pende l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre  egli , invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio  nella misura che gli è possibile , ossia con riguardo alla  libertà degli altri, e appunto perchè tutta la sua iudivi-  dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione della  legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano  di molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬  zioni, in un devoto covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬  tano l’annientarsi della propria individualità e il loro con-    (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248).  fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ;  essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù,  invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬  nità : è quindi oblio, abnegazione intera di sè nell’interesse  della totalità degli esseri ragionevoli.   Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve sola¬  mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬  vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso  l’io empirico sono mediati e condizionati di fronte a quelli  che, riferendosi direttamente al fine supremo , diconsi im¬  mediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè la pro¬  mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di  una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe  molto accadere in più modi, e molto non accadere affatto.  È necessario, dunque, attuare una tale divisione di lavoro,  mediante 1’ istituzione di divei'se professioni , da cui na¬  scono doveri diversi, che diremo particolari o trasferibili  (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella  data professione) di fronte ai doveri che sono generali o  intrasferibili (perchè s’impongono indistintamente a tutti  gli esseri umani). Combinando questa seconda classifica¬  zione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto  della moralità, con la precedente, fatta dal punto di vista  dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di  doveri :   1) generali condizionati   2) particolari condizionati   3) generali incondizionati   4) particolari incondizionati. I doveri generali condizionati — abbiamo dette — '   si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e strumento   indispensabile per 1 adempimento della legge morale: primo   tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione ,   cioè , di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione   *   già richiesta dal diritto naturale come condizione ne¬  cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la  soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere pre¬  sente , e perciò come qualcosa di relativo — diventa per  la moralità materia di un comando assoluto ; per 1’ uomo  morale si tratta non più di attendere un risultato più o  meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo, ma  di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine  supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè posto  all’ infinito.   Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : — a) un  divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza, può  mettere in pericolo la tua conservazione in quanto stru¬  mento della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in ri¬  guai do al corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo,  l’occupazione irregolare, il disordine della fantasia, la col¬  tura unilaterale, ecc. in riguardo all’ intelligenza) ; non  espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo, la tua vita,  quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la più  recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare  di esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la  condizione stessa dell’ adempimento del dovere, e il sui¬  cidio, distruggendo la vita, la sottrae appunto al dominio  della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non voler  più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto  quello che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon     mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai  fini che deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la  ricreazione estetica, eco.).   Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto-  conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬  plice strumento della moralità : quindi , dove il fine della  moralità non fosse compatibile col dovere «Iella conserva¬  zione , sarebbe moralmente necessario che la vita dell’ in¬  dividuo venisse sacrificata a quel fine, che il dovere coudi-  zionato fosse subordinato al dovere incondizionato : quando  la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia  vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la  mia viltà — per es., quello di risparmiarmi la vita per  operare ancora dell’ altro bene che altrimenti rimarrebbe  incompiuto — andrebbero contro il dovere, il quale co¬  manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo  adempimento (').   2. Tra i doveri particolari condizionati — attinenti ,  cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni individua¬  li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare una  professione nell’interesse della società, di contribuire in  qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ;  poi 1’ altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬  fessione, e non già secondo l’inclinazione, ma con la co¬  scienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra ,  considerate le proprie forze , la propria coltura , le condi¬  zioni esterne dipendenti da noi , poiché non il sodisfaci-  mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della nostra  vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere  giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a  questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo;  infine il dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio  o alla professione prescelta, formando sempre meglio all’uno  o all’ altra il corpo e lo spirito , secondo che più occorre  (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e la resistenza  fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei movimenti,  allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni, ecc.).  Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il  loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista  sociale soltanto nel senso che le molteplici occupazioni  umane sono subordinate le une alle altre come il condi¬  zionato e la condizione, come il mezzo e il fine ; ma dal  punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore ,  tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide  bene (*).   3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non  più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che  è il dominio della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬  lità degli individui per opera di ciascun individuo.   Primo tra essi il dovere verso quella libertà formale  di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’ origine ,  la radice stessa della moralità. La libertà formale di eia-  scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬  nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo  che ue è 1’ organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬  porto tra il corpo individuale e il mondo sensibile che ne  è la sfera d’ azione. Di qui due specie di doveri concerneuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della altrui  libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬  plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬  cizione fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù,  della tortura, dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver  cura della vita e della salute degli altri come della propria,  essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della moralità  (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’ altrui libertà  d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza dei  rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia  che il risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della  volontà ; di qui il dovere della veracità, il quale implica :   a) il divieto d’ingannare il prossimo (con l’inganno si dan-  neggia la libertà degli altri, trattandoli non come persone  ma come cose) e la conseguente condauna del venir meno  alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita,  neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬  cessaria, neppure col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio  ancora, con quello dell’ interesse della moralità, perchè la  menzogna stessa, per essenza sua, nasce da viltà ed è  sempre radicalmente immorale; b.) il comando d’illuminare  e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; — in  secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel  mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia  prima per attuare i disegni della propria volontà, altresì  la sicura coscienza di non disturbare, con l’esercizio della  propria libertà, la libertà degli altri, come esige la legge  morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e della conserva¬  zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto di  distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera;   b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne    una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere  proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile  rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere  una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non  abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di  oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬  nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste  non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo  di vivere del proprio lavoro) (*).   Un’ osservazione importante : in fatto di libertà non  può mai nascere conflitto tra esseri che operino secondo  ragione ; ma quando della libertà si faccia un uso con¬  trario al diritto, nasce collisione tra determinati atti di  più individui e viene posta in pericolo , quindi, la vita o  la proprietà , insomma la libertà del singolo. E poiché è  proprio dello Stato attuare l’idea della legalità, così spetta  allo Stato appianare gli eventuali conflitti tra individui ,  contenendo , mediante la forza della legge giuridica, cia¬  scuno entro i propri confini. Non sempre , però , lo Stato  può immediatamente intervenire a comporre contese : sot¬  tentra allora il dovere della persona privata. È dovere  universale, in tal caso, salvare dal pericolo la libertà del-  1’ essere ragionevole, senza far distinzione se si tratti di  noi o di altri, perchè tutti, indistintamente , siamo stru¬  menti della logge morale. Se sono io l’aggredito, il dovere  dell’ autoconservazione m’impone di difendermi con tutte  le forze ; se è in pericolo il mio simile a me vicino,  l’amore del prossimo m’impone di salvarlo anche a rischio  della mia vita ; se più di uno è assalito nello stesso tempo,    (*) Ibid. pp. 275-299 (ibid. pp. 269-292). si devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può salvare  più presto e del quale oi accorgiamo prima. In questo  adempimento del dovere non può essere mai mio fine uc¬  cidere 1’ aggressore , il nemico , ma soltanto disarmarlo ;  posso cercare d’indebolirlo , di ridurlo all’ impotenza . di  ferirlo , ma sempre in modo che la sua morte non sia il  mio fine. u Se, peraltro, rimanesse ucciso, ciò dipende dal  caso, contro la mia intenzione, e io non sono perciò re¬  sponsabile „. Si deve, insomma, trattare il nemico con  1’ amore dovuto a ogni altro prossimo, perchè è aneli’ egli  strumento della moralità e se dalle sue azioni per il mo¬  mento non si può concludere che 1’ opposto, non si deve,  tuttavia , mai disperare che egli sia capace di migliora¬  mento. L’ uomo animato da sentimento morale non ha. nè  riconosce, nessun nemico personale; chi sente piu viva¬  mente un’ ingiustizia soltanto perchè fatta a lui, è ancora  un egoista, è ancora lontano dalla vera moralità (‘).   La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono  i doveri ora descritti, è condizione necessaria ma non suf¬  ficiente per la moralità negli altri ; questa è resa possibile  da quella , ma, alfiuchè sia anche reale, bisogna che gli  altri prendano di fatto coscienza del loro dovere. Di qui  il comando, per chi si sia già elevato alla coscienza del  dovere, di allargare e promuovere la vita morale intorno  a sè, di elevare gli altri alla moralità. In qual modo ?  poiché sarebbe assurdo voler produrre la virtù con mezzi  coercitivi, con premi o gastighi : la moralità non si lascia  imporre dal di fuori, nè per forza , ma nasce soltanto da  una determinazione interiore ; come può, dunque, tale de-    (») Ibid. pp. 300-313 (ibid. pp. 293-304). terminazione nascere per opera di un altro in colui che.  ne è il soggetto e che deve possedere già dentro di sé le  condizioni atte a produrla? 14li è che, per chi guardi  bene, realmente esiste la possibilità, di un influsso ^morale  da coscienza a coscienza, ed esiste grazie a un sentimento  che serve di leva alla virtù, ma il cui sviluppo esige ap¬  punto un’ azione dal di fuori, l’azione dell’esempio altrui :  è questo il sentimento del rispetto o della stima, il quale,  sempre latente nel cuore dell’uomo, da cui è inestirpa¬  bile, si desta, dinanzi alla condotta virtuosa degli altri,  suscita, a sua volta, il bisogno di provare il medesimo  sentimento dinanzi alla condotta propria, il bisogno, cioè,  dell’autostima, e sprona, per tal via, alla moralità. Sorge,  così, per ognuno il dovere del buon esempio, essendo  l’esempio il vero strumento dell’educazione morale. E poi¬  ché l’esempio, per avere efficacia, per agire sulla coscienza  altrui, dev’ essere pubblico, ne segue che anche la pubbli¬  cità della condotta morale è per noi un dovere : essa nasce  dalla franchezza dell’ operare virtuoso e non ha nulla di  comune con 1’ ostentazione, la quale deriva dal desiderio  d’ essere ammirato (').   4. I doveri particolari condizionati si dicono così  perchè hanno sempre per oggetto il fine supremo della  moralità, il dominio della ragione, ina, anziché all’umanità  o alla società in genere, si riferiscono a ben determinate  relazioni umane, a ben definiti organismi sociali, quale  che sia la loro origine , vuoi da una stabile legge di na¬  tura — nel qual caso diconsi naturali — vuoi dalla mo¬  bile scelta delle singole volontà — nel qual caso diconsi artificiali. Dalle relazioni naturali nascono i doveri  di stato, dalle artificiali i doveri di vocazione (').   A) Due relazioni naturali sono possibili per l’uomo,  e insieme costituiscono l’organismo sociale della famiglia :  a) la relazione tra coniugi, b) la relazione tra genitori e  figli. Di qui due specie di doveri di stato : a) doveri tra  coniugi, b) doveri tra genitori e figli, a) La relazione co¬  niugale è già 1’ inizio della moralità nella natura, segna  già il passaggio da questa a quella , perchè è uno stato  che da una parte si fonda sopra un impulso naturale —  l’istinto sessuale — dall’ altra implica, in entrambi x sessi,  sentimenti — reciproca dedizione completa e perpetuo re¬  ciproco amore, reciproca fedeltà — che trasformano la sen¬  sualità brutale in una spiritualità umana. Il coniugio , as¬  sociazione naturale e morale a un tempo, è condizione  precipua per l’esistenza di quella società che vedemmo  essere a sua volta condizione cosi indispensabile per 1’ at¬  tuarsi della moralità, e, in quanto t,ale, costituisce un do¬  vere che implica : a) il comando di contrarre matrimonio,  quando si verifichi la sua base naturale , 1’ amore, (l’indi¬  viduo umano fisico non è un uomo o una donna, è, a un  tempo, 1’ uno e 1’ altra ; lo stesso dicasi dell’ individuo  umano morale : vi sono in lui aspetti dell’ umanità — e  proprio i più nobili e disinteressati — i quali solamente  nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi  senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner  celibi per propria colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto  di relazioni sessuali fuori del matrimonio (queste relazioni,  infatti, sono fondate o sull’ amore della donna , e allora    (*) Ibid. pp. 326-327 (ibid. pp. 316-318).        CVII    s’ impone moralmente il matrimonio , ovvero soltanto sul'  piacere o sull’interesse, ohe vai quanto dire sull’indegnità  della donna, e allora sono immorali non solo per la donna  ohe si avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce, che  vede in lei non più un essere umano e ragionevole , ma  un semplice strumento di voluttà ('). b) La relazione tra  genitori e figli dà luogo a due serie inverse di doveri :  u) da parte dei genitori il dovere di vigilare la vita e la  salute dei loro nati e in pari tempo di suscitare e favo¬  rire in essi lo sviluppo della libertà secondo la direzione  del fine umano : insomma il dovere dell’allevamento e del-  P educazione alla moralità. L’adempimento di questo do¬  vere — che del resto è una specificazione del dovere uni¬  versale che a tutti incombe di plasmare sè e gli altri in  conformità della legge morale — risponde nella famiglia  a un bisogno del cuore, perchè la prole, per i coniugi, non  è semplicemente prossimo , ma il prodotto del loro reci¬  proco amore ; (1) da parte dei figli, se minorenni il dovere  di obbedienza, se maggiorenni il dovere di rispetto, vene¬  razione, assistenza ai genitori ( ! ).   B) Due relazioni artificiali ,ma non meno indispen¬  sabili delle naturali alla vita comune, possono essere sta¬  bilite dalla libera scelta dei singoli individui e insieme  costituiscono l’organismo sociale dello Stato: a) agire di¬  rettamente sugli uomini , in quanto esseri ragionevoli ;  b ) agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento per le  nostre azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza  della suaccennata necessità di una armonica divisione del    (•) Ibid. pp. 327-398 (ibid. pp. 318-324).  (*) Ibid. pp. 333-343 (ibid. pp. 324-333) lavoro movale e di una organizzazione gerarchica dell’ at-  1’ attività degl’ individui per la promozione del fine su¬  premo, si distinguono due specie di classi sociali, con due  corrispondenti specie di doveri di vocazione : a) classi su¬  periori (scienziati, educatori, artisti, impiegati), che lavo-   t   vano al progresso spirituale della società, e sono, perciò,  quasi 1’ anima dello Stato ; b) classi inferiori (minatori,  agricoltori , artigiani, commercianti) che assicurano 1’ esi¬  stenza economica della società e sono, perciò, quasi il  corpo dello &tato.   a) Quali i doveri di vocazione delle classi superiori ?  — L’ uomo allora soltanto adempirà la sua vera destina¬  zione quando abbia una visione chiara del dovere ; è ne¬  cessario, dunque, formare anzitutto la sua conoscenza teo¬  rica. Tale ufficio è la missione del dotto (*). Chi consideri  tutti gli uomini come una sola famiglia , è tratto a fare  delle loro cognizioni un unico sistema, il quale si accresce  e si elabora attraverso i secoli, come si accresce e si ela¬  bora attraverso gli anni l’esperienza del singolo individuo.  Ciascuna generazione, quindi, eredita dal passato un tesoro  di formazione scientifica, che la classe dotta è chiamata a  conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e quasi  1’ archivio della coltura della loro età ; non però alla ma¬  niera dei non dotti, che si arrestano ai risultati, si bene  come chi possiede anche i principi ohe condussero lo spi-    (*) L’essenza e la missione del dotto furono più volte per il  Fichte argomento di conferenze e di lezioni. Vedi in proposito nel  voi. VI dei Sàmmtl. Werke Ueber die Bestimmung des Gelchrten (le¬  zioni tenute a Erlangen nel 1805) ; e nel voi. Ili dei Nachgel. Werhe,  Ueber die Bestimmung des Gelchrten (cinque lezioni tenute a Berlino  nel 1811).  A    rito umano a questi risultati. E primo dovere del dotto,  quindi, acquistare una veduta stori co-filosofica del cam¬  mino della scienza sino al suo tempo: altrimenti egli non  potrebbe nè intendere il significato della verità , uè epu¬  rarla dagli errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del  dotto amare rigorosamente la verità e lavorare al suo pro¬  gresso mediante una ricerca sincera e disinteressata. la  quale non si proponga altro che servire al fine ultimo  dell’umanità, all’avvento del regno della ragione nel mondo.  Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se stesso in  questo fine : fare sfoggio di abilità nel difendere errori  sfuggiti o brillanti paradossi è soltanto egoismo e vanità  che la morale disapprova e un’ elementare prudenza scon¬  siglia ; perchè soltanto il vero e il buono permane : il  falso, per quanto sfolgori a tutta prima , è destinato a  perire (').   La formazione della conoscenza teorica è solfante  mezzo al fine supremo di promuovere la moralità, ed è un  mezzo inefficace quando non vi si aggiunga l’operare pra¬  tico, quando, cioè, alla visione da parte dell’intelligenza  non si aggiunga 1’ azione da parte della volontà. Ora, è  ufficio d’ur.a speciale classe di dotti, dedicarsi in modo  particolare all’ educazione della volontà del pubblico non  dotto, alla moralizzazione del popolo : sono essi i ministri  della Chiesa, i quali, appunto perchè si sono messi al ser¬  vizio della comunità etico-religiosa, hanno il dovere di  adempiere il loro ufficio in nome della comunità stessa,  attenendosi scrupolosamente a ciò ohe è oggetto di fede  generale, al simbolo. Debbono, si, essere uomini di scienza e, ilei loro campo speciale, vedere al di là e meglio di  quanto vedano le anime affidate alla loro cura, ma nel-  1 educare queste anime, nell’ inalzarle a vedute superiori ,  devono procedere in modo che tutte a un tempo possano  seguirli, altrimenti si romperebbe quell’accordo spirituale  che fa 1 essenza della Chiesa. Gli educatori del popolo ,  in quanto tali , non devono svolgere o dimostrare cono¬  scenze teoretiche e principi, e tanto meno polemizzarvi  sopra, come si fa nella repubblica dotta; non è loro mis¬  sione porre articoli di fede o creare la fede — perchè ar¬  ticoli e fède esistono già come legame vivente della co¬  munità etico-religiosa — ma ravvivare e rafforzare la fede  che il credente ha già nel progresso morale , ed elevare  con essa lo spirito di lui all’eterno, al divino. Soprattutto  l’esempio che danno è importante a tal fine ; la fede della  comunità riposa in grandissima parte sulla fede loro, e il  più spesso non è che una fede nella loro fede. Ora, se in  essi la vita non risponde alla fede , la fiducia in questa  rimane profondamente scossa (‘).   Spetta al dotto formare 1’intelligenza, spetta all’edu¬  catore morale formare la volontà dell’ uomo : sta tra i due  l’artista, il quale ha il privilegio di educare il senso este¬  tico , interposto come tratto d’unione tra la conoscenza  teoretica e 1 attività pratica. L’ artista non agisce soltanto  sull’ intelletto, come fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto sul  cuore, come fa il moralista popolare, ma sullo spirito umano  tutto quanto : 1’ arte bella investo e pervade tutta l’anima  in quanto siuLesi di tutte le facoltà. La formula pili espres¬  siva di ciò che 1’ arte fa è la seguente : l' arie rende coninne il punto di vista trascendentale. Il filosofo si eleva  ed eleva con sé gli altri a questo punto di vista col la¬  voro del pensiero e seguendo una regola ; l’artista vi si  trova già senza rendersene conto : nou ne conosce altri.   Bai punto di vista trascendentale il mondo è fatto : dal   » *   punto di vista comune il mondo è dato ; dal punto di  vista estetico il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che  come tatto. Il mondo reale, voglio dire la natura, presenta  due aspetti : da un lato è il prodotto delle determinazioni  o limitazioni a noi poste, dall’altro è il prodotto della  nostra attività libera, ideale, trascendentale. Sotto il primo  rispetto la natura è essa stessa limitata da ogni parte,  sotto il secondo è da per tutto libera. La prima maniera  di vedere è volgare , la seconda è estetica. Per es., ogni  forma nello spazio può considerarsi come circoscritta dai  corpi vicini, ma anche come la manifestazione della forza  espansiva, della pienezza interna del corpo che ha questa  forma. Chi vede i corpi nelle prima maniera uon vede  che forme contorte, compresse , mostruose : vede la brut¬  tezza ; chi li vede nella seconda maniera, vede in essi la  vigoria, la vita , lo sforzo della uatura : vede la bellezza.  Vale altrettanto della legge morale : in quanto comanda  assolutamente essa comprime ogni tendenza della natura, e  veder la nostra uatura a questo modo è come vederla  schiava ; ma la legge morale fa tutt’ uno con l’Io , ne è  anzi l’espressione più intima, onde, obbedendo ad essa,  obbediamo a noi stessi : veder la nostra natura a que¬  st’altra mauiei’a è vederla esteticamente ^ ossia come bel¬  lezza. 1. artista vede tutto dal lato bello, vede in tutto  energia , vita , libertà ; il suo mondo è interiore, è nel-  1 umanità , e perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo di ne stesso, strappandolo al dominio della natura, liberandolo  dai vincoli della sensibilità e rendendogli l’indipendenza,  che e il supremo fine morale. Idi guisa che il senso este¬  tico non e.la virtù, ma prepara alla virtù, e la coltura  estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento del  fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in  questi due precetti : u ) un itimelo per tutti gli uomini :  non ti fare artista a dispetto della natura, non pretendere  di essere artista quando la natura uon t’ispira ; b) un co¬  mando per il vero artista: guardati dal favorire, o per  egoismo, o per desiderio di fama, il gusto corrotto del tuo  tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale che è in te;  ispiiati alla santità della tua missione, e sarai, a un tempo,  uomo migliore e migliore artista (*).   L opera del dotto dell’educatore e dell’artista, in ser¬  vigio del fine supremo morale, presuppone sempre quella  libera reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione  prima di ogni comunità e a garantir la quale — finché il  regno della ragione non sia una realtà — è necessario lo  Stato. Quali sono ora i doveri degli impiegati, ossia degli  ufficiali dello Stato ? L’ impiegato subalterno è rigorosa¬  mente legato alla lettera della legge, la quale, perciò ,  dev’ essere chiara e uon dar luogo a dubbi d’interpreta¬  zione. Quanto all impiegato superiore, al legislatore, al  giudice inappellabile, i quali non sono che i gerenti della  volontà comune affermatasi, espressamente o tacitamente,  nel contratto sociale, debbono aneli’ essi conformarsi alla  costituzione politica attuale , nata dalla volontà comune ,  con la riserva, però, di perfezionarla secondo le idee della ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla costituzione ideale.  Chi regge lo Stato deve avere una chiara veduta circa il  fine della costituzione — il quale non può essere che il  progresso umano — deve , perciò , elevarsi mediante con¬  cetti sopra 1’ esperienza comune, dev’essere un do'tto nella  sua materia, deve, come dice Platone, partecipare alle Idee,  e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo la coltura  delle classi superiori. Da queste classi il progresso si dif¬  fonderà poi nella comunità tutta quanta e trarrà seco, col  suffragio universale, la riforma della costituzione. Il reg¬  gitore di uno Stato, quindi, è sempre responsabile dinanzi  al suo popolo del modo ond’egli lo governa, e se può con¬  siderarsi come legittima ogni costituzione che non renda  impossibile il progresso in generale e quello dei singoli  individui, sarebbe assolutamente illegittimo e immorale un  governo che si proponesse di conservare tutto com’ è at¬  tualmente ( l ).   b) Quali i doveri di vocazione delle classi inferiori ?  — La nostra vita e il nostro operare sono condizionati  dalla materia, la quale va trattata conformemente al fine  supremo che è il dominio della ragione sulla natura. Quanto  piu questo dominio si estende, tanto più l’umanità progre¬  disce ; è necessario, dunque, elaborare la rozza natura e  renderla adatta ai fini spirituali ; è qui, appunto, 1’ ufficio  delle classi sociali inferiori, il cui lavoro, riferendosi come  ogni altro alla moralità di tutti, ha il medesimo valore  etico del lavoro delle classi superiori, alla pve/sibilità del  quale è condizione indispensabile. E poiché dal perfeziona¬  mento meccanico e tecnico del lavoro materiale è facilitata (*)      (*) Ibid. pp. 35G-3G1 (ibid. pp. 344-349). la conquista della natura, ed è quindi promosso il progresso  dell’ umanità, è nu dovere per le classi inferiori migliorare  e inalzare il loro mestiere. TI che riohiede 1’ adempimento  d un altro dovere concernente i rapporti tra la classe in¬  feriore e la superiore. J1 perfezionamento industriale di¬  pende da conoscenze , scoperte , invenzioni, che rientrano  nell ufficio professionale dei dotti ; è dovere, dunque, della  classe inferiore, onorare la classe piò colta appunto perchè,  tale e attenersi ai consigli e alle proposte che da essa le  provengono per quanto riguarda il miglioramento di questo  o quel ramo d’industria, di questo o quel genere di vite,  domestica, di questo o quel sistema di educazione, ecc. Dal  canto suo, poi, la classe superiore, ben lungi dal disprez¬  zai e, deve tenere nella piu alta stima la classe inferiore,  rispettarne la libertà, riconoscere il valore dell’ opera sua  in riguardo agli interessi superiori dell’ umanità. Soltanto  in una giusta reciprocanza di rapporti tra le varie classi  sociali sta la base del perfezionamento umano, inteso come  fine supremo di ogni dottrina morale (*).    Riassumendo : la Dottrina Morule, nelle tre parti in  cui si divide, si propone un triplice oggetto e ottiene un  triplice risultato.   u) Anzitutto nella deduzione del principio della mo¬  ralità il Fichte mostra come la Ragione e la Libertà, le  quali a tutta prima per la coscienza empirica non sono che  ideali, divengano poi in essa principi di azione, esercitino  una causalità. L’io empirico individuale non può porsi nè    d) Tbid. pp. 861-365 (Tbid. pp. 849-852). pensarsi se non in base all’ Io puro universale , se non in  quanto ha per principio e per fine l’Ideale ; e l’Io puro  universale non può attuarsi se non ha per strumento l’io  empirico individuale. L’ unità dell’ ideale non acquista cau¬  salità, non diviene efficace nel mondo se non pluralizzan¬  dosi, quasi in centri luminosi, in spiriti individuali, i quali  soltauto possono dirsi realmente esistenti e attivi. Ora, ap¬  punto questo reciproco rapporto tra i molteplici io empi¬  rici e 1’ unico Io puro fornisce il contenuto del dovere e  rende il dovere intelligibile. Il dovere, infatti, è la neces¬  sita imposta all’ Io puro, ossia alla Libertà, di attraversare  1’ intelligenza , ossia l’io empirico , di divenire quindi in¬  telligibile, per passare dallo stato ideale di potenza a quello  leale di atto, necessità che non significa eteronomia perchè  non impone alla Libertà se non la propria attuazione. L’in¬  telligibilità del dovere : ecco il primo risultato che il Fichte  ottiene, colmando l’abisso che il Kant aveva lasciato aperto  tra la conoscenza e la volontà, e facendo dell’ intelligenza  la condizione interna, il veicolo della libertà; poiché l’in¬  telligenza esprime quasi lo sforzo della libertà infinita per  assumere, con la coscienza di sè, la forma del reale.   b) In secondo luogo, a proposito dell’applicabilità del  principio morale, il Fichte mostra come il mondo si presti  all attuazione della ragione e della libertà ; il che significa  che la natura non è radicalmeute cattiva, non è assoluta-  mente refrattaria allo spirito ; c’ è anzi una stretta paren¬  tela tra lo spirito e la natura, non essendo questa che un  prodotto inconscio di quello. Soltanto che l’attuazione del-  1 ideale morale non si compie a un tratto nel mondo con  un semplice decreto della volontà, ma è la meta di un  progresso. L’idea di sviluppo, di progresso è una categoria della moralità ; ecco il secondo risultato che il Fichte ot¬  tiene eliminando l’assoluta irriducibilità riaffermata dal  Kant tra libertà e natura . spirito e materia, idealità e  realtà, e facendo la natura, la materia, la realtà suscettive  di un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi, idealizzarsi al-  l’infinito.   c) Infine, nel fare 1’ applicazione del principio mo¬  rale, il Fichte mostra come il progresso richieda, per com¬  piersi, una duplice condizione ; l’uua formale : occorre che  1’ individuo acquisti in sè la coscienza della libertà e della  legge morale ; 1’ altra materiale : occorre che 1’ individuo  apprenda come il contenuto del dovere sia nell’ attuare la  moralità non solo in lui, ma anche fuori di lui, negli altri  individui, nel genere umauo tutto quanto , la cui totalità  appunto rappresenta la ragione universale ; occorre, insom¬  ma , che 1’ individuo sappia di essere strumento indispen¬  sabile per 1’ attuarsi dell’ ideale nel mondo , per 1’ emanci¬  pazione cioè dell’ umanità intera dai vincoli della natura  e per la sua elevazione al regno dello spirito. La sosti¬  tuzione d’ un ideale sociale a un ideale individuale : ecco  il terzo risultato che il Fichte ottiene trasformando la for¬  mula kantiana : “ Ogni uomo è esso stesso fine „ in que¬  st’ altra : “ ogni uomo è esso stesso fine in quanto mezzo  ad attuale la ragione universale „ e subordinando così il  singolo al tutto, 1’ individuo all’ umanità.   È facile argomentare, in base a questo triplice risul¬  tato, le radicali innovazioni di cui, rispetto alla morale tra¬  dizionale, è feconda la dottrina fichtiana.   L’intelligibilità del dovere porta seco la razionalità  dell’azione e sostituisce alla fede, opera della grazia divina  o di uu impulso incosciente, la convinzione della propria coscienza, l’unione indissolubile dell’energia della volontà  con la luce del pensiero. Per ben operare, all’ intellettua¬  lismo socratico basta il retto giudizio, al volontarismo cri¬  stiano basta il cuore puro : il Fichte fonde i due 'punti di  vista ed esige per la moralità degli atti così la dirittura  del giudizio come la purezza del cuore, così l’intima per¬  suasione come la buona volontà. Un dovere irrazionale, im¬  penetrabile a ogni sforzo della riflessione è, secondo lui,  altrettanto immorale quanto un dovere adempiuto per se¬  condi fini. Inintelligibilità e insincerità sono per il Fichte  ugualmente incompatibili col concetto del dovere.   L’ idea di sviluppo e di progresso, intesa come cate¬  goria della moralità, porta seco la riabilitazione della na¬  tura rispetto allo spirito, alla cui attuazione, anziché osta¬  colo, è condizione e mezzo. Senza la natura — vedemmo —  mancherebbe allo spirito l’oggetto su cui esercitare la pi-o-  pria attività, la quale ha bisogno d’agire sulla natura per  liberarsi dalla natura; senza i corpi individuali, che della  natura fanno parte, mancherebbe alla libertà dello spirito  il modo di pluralizzarsi in tante sfere d’ azione, le quali,  sebbene distinte, sono in recipi'oco rapporto fra loro, sì da  applicarsi tutte al medesimo universo e da rappresentare,  unite insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e della  ragione universale. Ogni organismo corporeo, infatti, è stru¬  mento indispensabile affinchè la libera attività spirituale  abbia causalità nel mondo ; e da ciò deriva a esso e , per  estensione, a tutta quanta la natura, una consacrazione mo¬  rale, che non si accorda con la condanna della natura e  del corpo pronunziata dall’ ascetismo cristiano , ma nem¬  meno con l’apoteosi della natura e del corpo celebrata dal¬  l’edonismo pagauo ; una consacrazione morale che vieta a un tempo così la macerazione, come il blandimento della  carne, e che mentre, restituisce alla vita dei sensi il suo  ufficio subordinato e la sua vera finalità nella vita morale   — si ricordi la prescrizione fichtiana già citata : u Man¬  giate e bevete a gloria di Dio ; se questa morale vi sembra  troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ al¬  tra „ — non ritiene necessario nè una risurrezione dei  corpi, nè un’ immortalità personale. Perché il Fichte non  si contenta più di una moralità che miri a una vita futura,  o che si appaghi di un sogno di perfezione interiore, ma  vuole attuare sulla terra stessa il regno dei cieli, ripo¬  nendo la beatitudine, come già il Lessing aveva detto della  verità, non nel possesso, ma nella conquista della libertà :  “ essere liberi è nulla, divenire liberi è il cielo ! La sostituzione dell’ ideale sociale all’ ideale indivi¬  duale porta seco l’inversione del rapporto di dipendenza  tra morale e diritto , 1’ accentuazione massima del valore  del regime di giustizia e la radicale trasformazione del  concetto tradizionale di carità. È, infatti, un’ originale ca¬  ratteristica della dottrina fichtiana l’aver posto non più   — come si soleva in passato — la morale a condizione del  diritto, ma il diritto a condizione della morale. Per il Fichte  la libertà, materia del dovere, non si concepisce senza la  società, ma la società non si concepisce senza rapporti di  giustizia, dunque la giustizia, ossia il diritto (juslitiu da  jus = diritto) è il fondamento della morale ; affinchè la  moralità possa attuarsi, occorre prima assicurare a tutti  1’ eguaglianza nel possesso della libertà esteriore, e procu¬  rare a tutti indistintamente, con una legislazione regola¬  trice dell’attività economica, quella parte di agiatezza ma¬  teriale che è necessaria all’opera di emancipazione morale  o di elevazione verso la vita dello spirito. Questa emanci¬  pazione ed elevazione spirituale, poi, non deve uè può fi¬  nire nel singolo individuo, che nella dottrina fiohtiana nou  ha per sè nessun valore assoluto, ma dev’ essere promossa  da ciascun uomo in tutti gli altri uomini, perchè l’ideale  etico, ben lungi dal ridurci a una salvezza individuale, a  una perfezione interiore, a una santità eremitica incurante  della sorte delle altre anime, o una santità operosa sol¬  tanto per conquistarsi un posto nel cielo , consiste invece  nella moralizzazione e nella salvezza di tutto il genere  umano, nell’avvento del regno della ragione su questa terra  e in tutta 1’ umanità. Di qui deriva , secondo il Fichte, il  vero concetto della carità : sforzarsi d’inalzare i nostri si¬  mili alla moralità. Ciascuno deve proporsi non la propria  felicità, e nemmeno soltanto la propria libertà e indipen¬  denza particolare, ma la libertà universale, la salute spiri¬  tuale di tutti; il culmine della virtù per l’individuo è  darsi in olocausto per la salvezza del mondo, accettando  coraggiosamente l’imperativo ingrato, se si vuole, ma ca¬  tegorico, di lavorare senza riposo e senza ricompensa, a  un fine di cui non vedrà mai l’adempimento completo, al  trionfo infinitamente lontano della ragione , e di lavorarvi  in un ambiente spesso indifferente ed ostile, con penosi sa¬  crifizi , senz’ altro stimolo che il puro amore del dovere ,  senz’ altra gioia che quella di avere colla propria abnega¬  zione contribuito all’ordine universale ! Concezione sublime  questa, che ricorda l’altra affine dello Zend Avesta, la  quale fa dipendere aneli’ essa la salvezza di ciascuno dalla  salvezza di tutti e comanda a ognuno di combattere, se¬  condo i propri mezzi e secondo il posto assegnatogli, il  regno delle tenebre e del male e di lavorare al trionfo  della luce e del bene. E nonostante questa abnegazione di  sè nell’ interesse della ragione universale, l’io individuale  conserva tutta la propria realtà e personalità, nè potrebbe  avere una dignità ma'ggiore , poiché quale dignità può ri¬  tenersi più grande di quella di un essere dalla cui azione  dipende la salvezza di tutti e alla salvezza del quale con¬  corre 1’ universalità degli esseri ragionevoli (’) ? (*)    (*) Tale concezione trovasi eloquentemente illustrata dal Ficlite  anche nella terza delle conferenze da lui tenute a Jena nel 1794  sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo qui, liberamente tradotta, la  bella chiusa che è quasi una lirica: “ Se l’idea liuora svolta si con¬  sidera auche prescindendo da ogni rapporto con noi stessi, siamo por¬  tati a vedere fuori di uoi una collettività in cui nessuno può lavo¬  rare per sè senza lavorare per gli altri, nè lavorare per gli altri  senza lavorare in pari tempo per sè , essendo il progresso dell’ uno  progresso di tutti, la perdita dell’ uno perdita di tutti : spettacolo  questo che ci sodisfa intimamente e solleva alto il nostro spirito con  la visione dell’armonia nella varietà. L’interesse aumenta se, ripor¬  tando lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo membri di questa  grande e stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la coscienza della  nostra dignità e della nostra forza, quando diciamo a noi stessi ciò  che ognuno può dire : la mia esistenza non è inutile e senza scopo ;  io sono un anello necessario dell’ infinita catena che, dal momento  in cui 1’ uomo assurse per la prima volta alla piena consapevolezza  del proprio essere, si svolge verso l’eternità; quanti, tra gli uomini,  furono grandi, buoni e saggi, i benefattori dell' umanità i cui nomi  leggo registrati nella storia del inondo, e i tanti i cui meriti riman¬  gono, mentre i nomi sono dimenticati, tutti hanno lavorato per me;  io raccolgo i frutti delle loro fatiche; ricalco sulla via che essi per¬  corsero le loro orme benefiche. Io posso, tosto che lo voglia, ripren¬  dere 1’ ufficio altissimo che essi si erano proposto ; rendere , cioè,  sempre più saggi e più felici i nostri fratelli ; posso continuare a  costruire là dove essi dovettero smettere; posso portare più vicino  al compimento il tempio magnifico che essi dovettero lasciare incom¬  piuto. — u Ma anch’ io dovrò smettere il [mio lavoro come essi „ ,  dirà qualcuno — Oh ! questo è il pensiero più elevato di tutti. Se  assumo quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai portare a termine ;  quanto è certo che è mio dovere l’accettarlo, altrettanto è certo che  Amiamo sperare che la precedente esposizione della  Dol/t'ina morale del Fichte non riesca inutile per chi si  accinga a leggere il volume, se non nella lingua, nello  stile del suo autore. Certo non tutti accetteranno integral¬  mente l’ardita metafisica ivi presupposta — che volentieri  chiameremmo Etilica come quella dello Spinoza e che è  forse, per adoperare una felice espressione del Barzel¬  letti (') , la più eroica presa di possesso che mai mente  umana abbia potuto fare, a un tempo, e del mondo delle  idee e del mondo della realtà — ma tutti*, senza dubbio,  saranno colpiti dalla originalità, profondità e finezza delle  vedute psicologiche ivi proiettate e analizzate con arte  insuperabile, e in particolar modo dalla nobiltà dei senti-    non potrò mai cessare d’operare; quindi non potrò mai cessare d’es¬  sere. Ciò che si suoi chiamare morte non può interrompere 1’ opera  mia; perchè l’opera mia dev’essere compiuta, e non può essere com¬  piuta nel tempo ; perciò la mia esistenza non è limitata nel tempo  ed io sono eterno. Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho fatto  mia l’eternità. Sollevo fieramente il capo verso le rocce minaccioso,  verso le cascate spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in un  oceano di fuoco , e dico : io sono eterno e sfido il vostro potere. Ir¬  rompete tutti su di me, e tu, cielo, e tu, terra, precipitate in un sel¬  vaggio tumulto, e voi tutti, o elementi, spumeggiate e rumoreggiato  e stritolate nella lotta selvaggia pur 1’ ultimo atomo del corpo che  io dico mio ; la mia volontà sola, col suo fermo proposito, aleggerà  ardita e fredda sopra le rovine dell’ universo , perchè io ho assunto  la mia missione, e questa è più duratura di voi : è eterna, e, al pari  di essa, sono eterno io „.   (Einige Vorlesungen ilber din Bcstimmung dea Gelehrten, 1794,  Summit. Werke) — V. la traduz. frane, di M. Ni¬  colas , De la destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par J. G.  Fichte, Paris, De Ladrauge 1838; e la trad. ital. di E. Roncali, con  prefaz. di G. Vitali, G. A. Fichte, La missione del dotto, Lanciano,  Carabba, 1912.   (') La Storia della Eiloso/ia (estratto dalla Nuova Antologia, 1° gen¬  naio 1908) p. 2.  menti ivi espressi con forza sempre, e spesso con vivezza  di colorito. Del resto non c’è una sola opera del nostro  filosofo che non elevi e non fortifichi l’anima del lettore  perchè i suoi seritti, .emanazione diretta delle più intime  e salde convinzioni, e la sua vii* di pensiero, rientrano  nel ciclo di quella vita d’azione che fa del Fichte una  personalità tipica, un represen latice man, direbbe 1* Emer¬  son. E invero egli appartiene — come già affermammo (’)  — all’eletta schiera di quegli eroi, la cui apparizione  nella storia diventa un possesso eterno per l’umanità, e  la memoria dei quali durerà quanto il mondo lontana. Il  carattere adamantino della sua figura morale, la quale è  un’ unità altrettanto solida quanto ben fusa, grazie alla  più perfetta armonia tra idee pai-ole e opere, risulta scul¬  toreamente espresso in questa solenne dichiarazione, da  lui fatta all’ inizio della sua carriera universitaria : u Io  sono un sacerdote della verità ; la mia esistenza è votela  al suo servizio; sono impegnato a tutto fare, tutto osare,  tutto soffrire per essa. Se per causa sua fossi perseguitato  e odiato, se dovessi anche morire, che farei di straordi¬  nario? nulla più che il mio assoluto dovere „ ( ! ). Parole,  queste, che spiegano bene il poderoso influsso, spiritual-  mente rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi conna-  ziouali e contemporanei, influsso che , propagandosi nello  spazio e nel tempo, ha suscitato e susciterà sempre su¬  blimi emozioni e risoluzioni virili in mille e mille anime,    (') Cfr. prec. Einiye Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics Gelehrten 1794  (Sdmmtl. Werke, VI, pp. 333-334).  che pur non udirono mai la voce di lui (’). Costante mia- *  sione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini  il senso della divinità della propria natura, fissare i loro  pensieri sopra una vita spirituale come l’unica e*vera,  insegnar loro a guardare a qualcos’ altro che la pura ap¬  parenza e irrealtà e guidarli così allo sforzo tenace verso  i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia, solida¬  rietà e libertà.    (') Questa infinita risonanza di idee, sentimenti e propositi, at¬  traverso le generazioni, nel tempo e nello spazio, questa immensa  simpatia e solidarietà umana — che eccelle tra i principi fondamen¬  tali della dottrina liclitiana — era profondamente sentita dal Fichte  stesso, come può rilevarsi anche dalla seguente bella pagina con cui  si chiude la seconda conferenza sulla Missione del Dotto (1794) :  “ Ognuno può dire : chiunque tu sia, tu che hai sembianze umane ,  sei un membro di questa grande comunità; sia pure infinito il nu¬  mero di quelli che stauuo tra me e te, io so, nondimeno, che il mio  influsso giungerà sino a te , e il tuo sino a me ; chiunque porti sul  viso, per quanto rozzamente espressa, l’impronta della ragione, non  esiste invano per me. Ma io non ti conosco, nè tu conosci me. Oh!  quanto è corto che ambedue siamo chiamati a esser buoni e a dive¬  nire sempre migliori, tanto è certo che verrà il giorno, e sia pure  tra milioni e bilioni d’ anni (che è mai il tempo ?), verrà il giorno,  dico, in cui trascinerò anche te nella mia sfera d’azione, in cui potrò  beneficarti e ricevere benefizi da te, in cui anche il tuo cuore sarà  avvinto al mio coi viucoli, i più belli, di un libero scambio di reci¬  proche azioni! „ (Siimmtl. Werke, (VI, p. 311). Cleto Carbonara. Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza, dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri, la filosofia pratica, etica e diritto, la filosofia pratica di Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool Library.

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