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Monday, June 10, 2024

Grice d Gatti

 


PASQUALE GATTI 


e 


. dilosofia del Linguaggio 


A 


SAGGIO 
SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA 


“ Je travaille à me rendre voyant ,, 





MILANO - GENOVA = ROMA - NAPOLI 
SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI 


(ALBRIGHI, SEGATI & C.) 
193I - IX. 














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DI x 
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7 STRIP IMRATI OA ss =% 
: STABILIMENTO TIPOGRAFICO « LA PERSEVERANZA » — POTENZA + £ 
: 








AI 
MIEI DUE FRATELLI 
CHE 
ANSIOSI E TREPIDI 
VISSERO LE STESSE MIE ANSIE E TREMORI 
NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE 


LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO 








#4 








ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA (*) 


La grandezza delle statue diminuisce allontanandosene, 
quella degli uomini avvicinandoci ad essi. 


Quale necessità di due diversi linguaggi, l'uno del sex- 
timento e l’altro dell’ir2/e//etto, per esprimere il comune con- 
tenuto della coscienza? « Altro — infatti — è il linguaggio 
come linguaggio, ossia come mero fatto estetico — afferma 
Benedetto Croce — e altro il linguaggio come espressione 
del pensiero logico, nel quale caso esso rimane bensì sempre 
linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è insieme 





(*) Il presente scritto — capitolo di un ampio lavoro, di prossima pubblica- 
zione, dal titolo: Za /ogica nella dottrina estetica di Benedetto Croce e una 
nuova concezione dell’ arte — viene, qui, ristampato del tutto compiuto, oltre che 
notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè il Direttore della Rivista 
nella quale apparve per prima, anni sono, non solo, all’ ultimo momento, credette 
di modificarlo a suo modo, e mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto, 
altresì, vigendo ancora e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume 
di condannare irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sen- 
tono in nessun modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della 
Scienza, non mi avrebbe, certo, consentita l’ odierna stesura dello scritto, pur 
rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua espres- 
sione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare magni- 
ficamente la tesì che noi opponiamo a quella del Croce con l’ autorità del pen- 
siero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare, altresì, come 
il Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel pensiero nell’ in- 
timo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo, — ed è ciò che 
a noi essenzialmente preme —, il nuovo abbagliante fascio di luce, che, spri- 
gionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana, riesce ad illuminarla, 
oltre che più intensamente, a pieno, col fugare tutte le ombre che qua e là, 
finora, si addensavano in essa, impenetrabili. i 








e ua ner! 


A 








più che linguaggio » (1). Ora, delle due, l'una: o esso, rima- 
nendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, 
non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed unicamente 
intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola 
« fantasia » e « poesia » ; ovvero è, anche, 7% che linguaggio, 
e cioè concetto, e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola 
fantasia e poesia, e non anche d' intelletto e filosofia ? Ma, in 
tal caso, il formidabile scoppio di un'assoluta contradizione, 
celata nelle fondamenta stesse dell’ edifizio estetico del Croce, 
non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio, basato, 
appunto, sul presupposto dell’ assoluta identità del linguaggio, 
od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la frase, 
più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che 
una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera del 
Croce, dirette — secondo la maligna insinuazione, o il perfido 
suggerimento di Mefistofele — a mascherare col suono della 
parola l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni 
la parola; il che, d'altronde, usava bene anche Platone, 
sostituendo il mito al concetto, ogni volta che non gli riusciva 
di cogliere col pensiero la soluzione di qualche arduo 
problema. 

Ma, in verità, ciò che non permette di dubitare in 
nessun modo di quell’ assoluta contradizione è la seguente 
affermazione del Croce: « per effetto dell’ ixcarnazione che 
il concetto e la logicità ha nell’ espressione e nel linguaggio, 
il linguaggio è tutto pieno di elementi logici » ; il che trae 
necessariamente a concludere, che: o non è affatto vero che 
il linguaggio obbedisce sempre alla sua legge, perchè, per 
effetto di tale incarnazione, riesce senz’ altro a violarla, 
impregnandosi, e quindi contaminandosi, di elementi logici, 





(1) Logica come scienza del concetto puro: p. 75; Laterza, Bari, 








ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo 
stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’ 
intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi 
può essere — come non vi è, di fatto — che un unico 
linguaggio esprimente, indifferentemente, il reale concreto od 
il reale astratto: e cioè immagini o concetti, ovvero arte e 
filosofia. 

Quale la vera di queste due conclusioni contradittorie ? 
Altrimenti dovremmo credere che in un medesimo vestito 
possano bene trovar posto, ad un tempo, due individui, oppure 
che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente bene 
ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero 
rispettivamente considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente 
alogica, e l’ immagine concettuale, così corpulentemente /ogrca. 


Salvo — unica via di scampo — che per l'utilità del 
momento — il che non disgrada punto, in simili casi, al 
pensiero del Croce — non si voglia scindere il linguaggio 


dall’ intuizione, per ridurlo « ad un fatto fisico-acustico, 
aderente al pensiero » (1), ovvero, ch'è lo stesso, ad una 
mera « guaina » di esso, sì che sia facile, vòlta a vòlta, 
alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto, conformandola, 
naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma se 
ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conse- 
guenza possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente, 
della funzionalità sintetica di tutte le attività fondamentali 
dello spirito? Infatti, ogni intelligenza sinceramente ersosa 
di scoprire la verità — e non già di far valere, comunque, 
un proprio modo di vedere — alla presenza di tanti elementi 
logici nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi 
del proprio iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in 


(1) Logica: p. 75. 


dt 














tal senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o 
ragionano — almeno presso di noi — i seguaci della dialettica 
hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema mentale, 
arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o risultare 
conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio quest’ 
ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: 
anche se debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso 
letto di Procuste. E perciò mentre noi — seguaci, in tal caso, 
della logica di Aristotele — conveniamo bene col Croce che 
l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato versato 
del vino (1), egli, a sua volta, non sa in nessun modo convenire 
con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più, neppure 
acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè — fuori di 
metafora — il linguaggio — come noi sosteniamo —. è pur 
vero che non è opera di sola logica, ma non è nè pure 
opera di sola fantasia, ma, sì, dell’ una e dell'altra; ed anzi, 
per verità, di quella, essenzialmente, più che di questa, come 
or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto liberata 
sì fatta quistione, concernente l'origine e la natura del 
linguaggio, da una grave pregiudiziale opposta dagli intui- 
zionisti in genere, e principalmente del gran maestro dello 
intuizionismo, il Bergson: e cioè che il linguaggio, in quanto 
prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire dello Spirito, 
è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo di 
Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme 
grammaticali, non meno che dell'uso o significato costante 
della parola, il cui carattere immobile immobilizzerebbe, 
naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto perpetuo 
del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il gelo 
arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma 
DALIA 
(1) Zogica; pag. 75. 








veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a nascondere 
e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del reale? 
Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua 
che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche « solida », 
la parola fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare 
il ricordo e darci l’immagine di un’ acqua che scorre; così, 
anche, il Corzidore dello statuario antico ha un bell’ essere 
fermo anch'esso: noi sentiamo e vediamo benissimo che i 
suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’ ali. Ancora: 
l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone, forse, 
Marte immobile? e l'equazione di un movimento — quello, 
ad esempio, della cometa di Halley — si può negare che 
corra, anch’ essa, perfettamente come la cometa, con velocità 
sbalorditiva attraverso l’ infinito? È ben chiaro, adunque, che 
nessuno pretende di fare scorrere il gran fiume del reale con 
fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben lungi dall’ essere, 
evidentemente, delle forme congelate di esistenza del reale, 
sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di 
quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della 
coscienza umana. 

E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o 
son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è 
proprio di ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato 
di coscienza in ciascuna racchiuso, o da ciascuna espresso, 
ci attestano la perenne mobilità del reale, o la vivente sua 
fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in alcun modo 
affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi consentito 
d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel passato 
come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua illimite 
distesa, il corso evolutivo del reale? 

E ciò, intanto, non implica, necessariamente, nella natura 
di quest'ultimo, la presenza di alcunchè di essenziale e 








permanente accanto a ciò ch'è puramente contingente e 
momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il reale 
si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre 
più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente, 
o ritenere, necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali 
forme successivamente assume? Se così non fosse, noi non 
potremmo parlare di evoluzione, o divenire del reale, ma 
solo di un perenne passare di torbidi « flutti di sensazioni », 
perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, 


...dans la nuit éternelle emportés sans retour... 


E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua essenza, 
non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i sempre 
nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano, strettamente 
conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo è 
parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo, 
e cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i 
suoi rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli 
sue démarches, fissando, di conseguenza, in espressioni o 
idee sempre nuove la sempre nucva fisonomia che essa viene 
ognora assumendo, come dire che il pensiero suppone immobili 
o « inerti » i termini tra cui vengono stabiliti quei rapporti? 
Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del reale 
(principio di causa) — e, quindi, la funzione conoscitiva che 
mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione) — 
pur traverso le più svariate sue manifestazioni, ma non i 
termini di queste, che non possono non essere necessariamente 
mobili, dato il perpetuo divenire della realtà : e cioè le sempre 
nuove sue relazioni con sempre nuovi soggetti d’ esperienza. 
Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini possano 
° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi riescano, 
| così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo — precisa- 
mente come notammo per l’acqua — non viene punto a perdere, 











anche a traverso le più stranamente mutevoli sue manifestazioni, 
l’intima sua essenza o la sua identità fondamentale. 

La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è vero, 
fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che 
essa si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si 
voglia riporre la realtà proprio nella innumere varietà di 
toni, o addirittura sfumature del sentimento, quindi proprio 
in ciò che essa ha di più accidentale e caduco, ovvero 
— ch’è lo stesso -— nel mero cambiamento o nella mera 
transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente 
obiettivo tra noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno 
che in intellectu, posto che l'essere e il pensiero sono parti 
solidalmente costitutive del reale. Onde la. conclusione che, 
se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo diun cangiamento, 
non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi coscienza: 
la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente, 
immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più 
svariate ripercussioni del sentimento, che le procurano, 
appunto, quei sempre nuovi suoi /ressaz/lements, ci vieta 
assolutamente di ritenere le singole espressioni od intuizioni 
così assolutamente « individuali » da rimanere per ogni altro 
soggetto conoscente, che non fosse il creatore di esse, del 
tutto « intraducibili », « inclassificabili », val quanto dire 
inesprimibili, almeno adeguatamente. 

E perchè affermare, allora, che ad ogni impressione 
corrisponde un’ espressione immancabilmente adeguata? Salvo 
che non debba dirsi adeguata solo alla particolare impressione 
che un medesimo obietto viene a destare in ogni singolo 
soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva, perchè 
variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai, 
allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere 
una conoscenza di carattere urzversale e necessario? 





ERE o IO 
Da 


I, TRO 
L. i si 








a VR 


Il pensiero, infatti, non può rimanere in nessun modo 
chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione assolutamente 
individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O seioneur, 
J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è unica- 
mente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi 
a quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del 
pensiero e del sentimento. 

E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere 
di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività 
conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza 
intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa, 
il sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal 
carattere. E, peraltro, dato, eziandio, pel Croce, la natura 
assolutamente ineffabile od incomunicabile del sentimento, 
come può egli pretendere, ancora più assurdamente, di 
contemplare e gustare le altrui opere d' arte, rivivendole con 
le singolari vibrazioni del proprio sentimento ? Ma non ci 
disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da 
parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’ 
artista che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra- 
ducibili, sì che ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente 
si risolve, in realtà, nella genuina creazione di una nuova 
opera d’arte accanto ad altra opera d'arte? E che, anzi, lo 
stesso artista è incapace esso stesso di rifare identica la 
propria opera, non potendo rivivere nè pur esso, puntualmente, 
quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido spontaneo 
riflesso nella primitiva sua intuizione ? 

In verità, io non riesco a comprendere qual gusto possa 
mai trovare il Croce nella coquetterie; — che fu anche di 
Ernesto Renan — di contradirsi per mille versi, ad ogni 


piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella 
medesima frase. 












Sai ce! 
Il maggiore rappresentante dell’ intuizionismo — Henri 
Bergson — è vero che attribuisce anch’ egli al sentimento 


la possibilità di penetrare l’anima altrui, non meno che delle 
cose, ma solo in quanto gli riconosce quel particolare carat- 
tere di comunichevolezza che ad esso deriva da « cette 
espèce de sympathie intellectuelle, par la quelle on se tran- 
sporte à l’ intérieure d’un obiet » (1): ma il Croce non nega 
recisamente sì fatta comunichevolezza al sentimento, che, per 
lui, è 470 di ogni elemento intellettualistico? E, allora, 
come può pretendere di rivivere con le singolari vibrazioni 
del proprio ineftabile sentimento l’ ineftabile palpito di vita 
onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e gu- 
starle ? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale del 
Bergson, riesce, forse, anch'essa — senza l’aiuto di tutte 
le debite operazioni intellettuali — a penetrare a fondo 
la vita del reale, fino, addirittura, a « coîncider avec ce que 
il a d’unique et d’ inesprimable ? » Ma l’unico e l’ inespri- 
mibile, in quanto tali, non sono, per ciò stesso, incomuni- 
cabili? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella coin- 
cidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o 
le cose stesse, addirittura ? e come, allora, queste sarebbero, 
più, uniche? Ma, a parte tali assurdità, come mai la sim- 
patia, senza tutte — ripeto — le operazioni della intelligenza, 
potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza dubbio, 
allorchè io seguo — ad esempio — con l'occhio un razzo 
che sale dritto verso il cielo, io sento in me un movimento 
che imita la brillante sua linea di ascesa, uno sforzo paral- 
lelo al suo sforzo: può dirsi bensì, allora, che io simpa- 
tizzo con esso; ma, tuttavia, cotal simpatizzare non mi rivela 
punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere 





(1) Revue de Metaphisygue (Janvier, 1903); il corsivo è dell’autore. 








RT nn 


(E i ES 


ardente. Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo 
i suoi raggi tremolar nell'ombra della sera placida e serena, 
io, pur sentendo l’anima vibrar simpaticamente con essi, fin 
quasi a sentirmi dissolvere di .tenera commozione, al pari 
della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi, 
si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo, 
pur nella maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così, 
la vita di quell’astro notturno. Del pari, la viva mia sim- 
patia per la primavera, che mi fa, invero, provar nell'anima 
tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le cose che 
alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona stessa 
come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può dirsi 
riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima di 
quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se, 
almeno nel mondo umano, la simpatia raggiunga piena e 
precisa la sua potenza penetrativa. Io vedo una donna in 
lagrime uscir dal cimitero : una tristezza analoga alla sua 
invade subito l’anima mia; io simpatizzo intellettualmente 
con essa, a mezzo del fersiero della causa che l’affligge : Ja 
morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue lagrime 
tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie ; io, 
dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna 
che non nelle precedenti forme inanimate di reale. Ma chi 
oserà dire che io ho vera e piena la intuizione del suo 
dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come egli stesso 
ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare per 
scoppio di riso l’ improvviso singhiozzo di una donna che 
tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba? 


« D’un cété le jardin, de l’autre un cimetier ; 

Un seul mur les sépare, et la mèéme lumière 

Fait resplendir la feuille inquiète du bois, 

nen Les blancs marbres des morts et les rigides croix. 





dea a 





Il poeta camminava senza meta, gli occhi perduti nel 
fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della primavera : 
nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna proce- 
deva innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i 
suoi piedi visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè. 
D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch' ella 
ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella na- 
scose la testa fra le dita: 

« Quand j’approchai, je vis, légères et limpides 

Des larmes qui coulaient entre ses doigts humides : 

Car c’était un sanglot que ce rire sans fin, 


Et cette femme, errant au fond du doux jardin, 
Sortait du cimetière. 


Sicchè 
Une larme qui tremble, 
Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble 
Au rire, et rien de plus-voilà donc la douleur! 
C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se brise un coeur. 
C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine, 
Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine. 
Les plaisirs les plus doux, les maux les plus amers 
S'expriment par le mèéme ébranlement des nerfs 
Que l’air indifferent propage dans l’espace : 
Cri de joie ou d’angoisse, il éclate, il s’efface 
Et, sans étre compris, glisse sur l’univers (1). 


È questa, dunque, la « corncidenza » colle cose che ci 
dì la stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza « infal- 
| libile e perfetta » promessaci dagli intuizionisti? Un mero 
«choc en retour di onda nervosa, od anche emotiva ? 

R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in quanto tale, pur 
essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con tutta 
D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata : 


n Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu, 
Toujours è ses cotés et toujours solitaire ! 


(1) VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris, Alcan. 








— Mi 


Ah! 


Que nous sommes loîn l’un de l'autre, 
Étant si près! 
E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui 
coscienze come la propria ? 


L’oeil était dans la tombe et regardait Cain 


ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare 
che dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può, 
di conseguenza, nè sentire nè volere ciò che sente e vuole 
Caino, e cioè possedere, appunto, l’anima di quest’ ultimo, 

Ciò prova chiaro che la. filosofia non è punto — come 
vorrebbero gli intuizionisti — il sentimento di un fiotto mon- 
tante di vita interiore, il rapido bagliore di una stella filante, 
ma una sintesi razionale e finale di tutta la nostra esperienza, 
fondata precisamente sulla determinazione, sempre più ampia 
€ più precisa, delle relazioni che intercedono tra il nostro 
stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero ; fra 
il nostro me e gli altri esseri ; fra gli esseri particolari ed 
il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dap- 
pertutto l’ infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e 
più vi scopriamo relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano 
la più perspicua loro espressione precisamente in quella insu- 
perata manifestazione del reale che è l’idea, la quale, adunque, 
così può rimanere distaccata dall’ intuizione come i fosfore- 
scenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato, 
dalle onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto. 
E poichè, intanto, cosa certa o innegabilmente vera è che 
il continuo divenire e perenne trasalir dell’ essere coincide 
col continuo divenire e perenne palpitar del pensiero, è 
naturale che, in conformità di questa stessa natura peren- 
nemente 22 fieri del reale, si debba procedere — per rag- 








Prada E 





giungere una visione sempre più piena e indefinitamente 
integrale della realtà infinita ed eterna —,ininterrottamente 
da un'idea all'altra, all'infinito ed in eterno. E come, allora, 
potrebb'essere mai lecito rinunziare ai precedenti /ermzini 
della nostra coscienza, e cioè alle precedenti nostre intui- 
zioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni assolu- 
tamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili, 
dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni 
singola forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini 
che attinsero, al fine, preciso, quel limite assolutamente insu- 
perabile che è segnato dal rapporto esattamente proporzionale 
degli elementi o determinazioni onde risulta l'essenza di 
ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla cono- 
scenza intuitiva il suo carattere o valore universale e neces- 
sario, come si può pretendere di andare oltre tali immagini— 
limite, senza che la realtà corrispondente non cessi, per ciò 
stesso, di essere quella che è ? Giacchè, si sa — l’accennammo 
innanzi — l’essenza d'una cosa può trovare la sua espres- 
sione o rappresentazione intuitiva veramente adeguata solo 
in quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua 
volta, derivare immediato e preciso quel concetto-limite che 
le variazioni della realtà corrispondente non possono ulte- 
riormente superare, senza che questa, naturalmente, non cessi 
di essere quella che è. È quanto tuttodì accade in ordine alle 
mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, in- 
genua, la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente 
smentita e corretta, ad un tempo, dall'esperienza, fino a 
quando essa non sia diventata capace di scegliere od assu- 
mere come elementi fondamentali od essenziali delle sue 
immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla doppia 
prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono 
indici insuperabili per la funzione di assimilazione e differen- 





Mento, 


marziana 


Pa 


E |. = 







ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le altre possibili 
forme della realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe e 
concentra essenzialmente l’attività conoscitiva. 

Infatti, le intuizioni o cognizioni umane — costruzioni 
superbamente armoniche del nostro pensiero — non vivono 
punto, già, per il colorito emotivo che le riveste, ma, sì, per 
l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo : quell’essenza, ap- 
punto — dicevamo testè — che nessuna variazione della 
realtà corrispondente deve in alcun modo riuscir a superare, 
E se, dunque, sì fatte intuizioni, in quanto universali e ne- 
cessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni, come 
non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e, 
quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni, 
in quanto adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di 
quell’intimo moto armonico del pensiero, che riesce a indi- 
viduarsi o concretarsi precisamente in quelle espressioni ? 
Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il rap- 
porto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione 
e non di z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno, 
assolutamente di pari passo, fino al punto che le imperfe- 
zioni della lingua sono imperfezioni del pensiero : il che trae, 
di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del pensiero, 
senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impos- 
sibile, in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla 
lingua, è possibile solo uno sviluppo rappresentativo di na- 
tura sensibile, come, ad esempio, le costruzioni geometriche 
e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo musicale, 
un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli sforzi, 
noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pen- 
sare, ad esempio, che bisogna dir sempre la verità. Posso 
bene, anche, rappresentarmi un albero determinato senza il 
È: nome corrispondente, ma pensare l’albero in generale, senza 





È 









TI 


la parola, è semplicemente impossibile : il che prova che solo 
dal concetto e col concetto comincia, per la mente, la mecessità 
della parola, e, quindi, Ja conoscenza che si pretende uni- 
versale e necessaria, come, appunto, quella intuitiva. E se, 
pertanto, può non essere vero che il concetto esista prima 
del segno, certo è, però, — come nota lo Hamilton — che 
« il concetto ricadrebbe, appena formato, nel caos dal quale 
lo spirito l’ha evocato, se il segno verbale non lo rendesse 
permanente nella coscienza ». Questo, perciò, è assolutamente 
« necessario per assicurare i nostri progressi intellettuali, 
per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza, e 
farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi. 
Un esercito si può spargere sur un paese, ma non lo con- 
quista se non vi costruisce delle fortezze. Le parole sono 
come le fortezze del pensiero; esse ci permettono di stabilire 
la nostra dominazione sul territorio che il pensiero ha già 
invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti intellettuali 
una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero, per 
adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il 
concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella 
sabbia e la muratura. Voi non potete procedere avanti nello 
scavare senza fare ad ogni passo una vòlta. Ebbene, il lin- 
guaggio è per lo spirito quello che la vòlta è per il tuzzel. 

Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito imme- 
diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo 
si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola, 
ma sono scintille che si spengono immediatamente; ci vo- 
gliono le parole per dar loro evidenza, per poterli riunire, 
per cavar, insomma, una gran luce da ciò che senza di esse 
sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento » (1). 





(1) Riportato dal Masci: Logica + p. 80; Pierro, Napoli. 











—118 — 


E, veramente, la moderna filologia, analizzando e dis- 
secando in mille guise il vivente organismo della lingua, è 
riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi inde- 
componibili, che segnano, con la significazione primitiva, la 
prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel 
rapporto di dipendenza reciproca — come ampiamente mo- 
streremo in prosieguo — in virtà del quale, mentre il pen- 
siero, nel suo progressivo sviluppo, e sempre più attivamente 
all’inizio della sua produzione, riesce a modificare progres- 
sivamente il linguaggio, questo, a sua volta, non manca di 
reagire sul pensiero, e dargli un’impronta individuale e col- 
lettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua che 
impone alla coscienza individuale la forma mentale della 
razza, e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abi- 
tudini secolari di analisi e di sintesi del pensiero di un 
popolo : onde giustamente è da ritenere, con lo Hamilton, 
che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto svi- 
luppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce 
ne fanno prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un sur- 
rogato del linguaggio, non arriverebbero, con la loro intel- 
ligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco, al di sopra 
della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea man- 
canza, per momentaneo oblìo, di una data parola, non è, 
forse, da noi avvertita — a parte la sorda immediata inquie- 
tudine che altresì ci procura — come un vero ostacolo che 
c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di isolarlo 
dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo, in- 
somma, necessariamente, onde il senso di vera liberazione 
che noi proviamo, trovatala, appena, la parola che cercavamo? 
Non solo: ma l’assoluta mancanza, nella nostra lingua, di 
date espressioni che valgano a renderci adeguatamente un 
dato concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre lingue 






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“ 





SAS 


per le corrispondenti espressioni, come, ad esempio, per la 
parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare dalla lingua 
latina, non possedendone la nostra una che adegui perfet- 
tamente il concetto da quella espresso? 

E trovato che abbian, dunque, le intuizioni la loro 
espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero, cono- 
scenza universale e necessaria, come possono, per ciò stesso, 
rimanere assolutamente « intraducibili », val quanto dire inat- 
tingibili nel loro intimo significato, o nella profonda loro 
verità obiettiva ? 

E se, pertanto, tali esse rimangono, non è giocoforza 
ammettere ch’esse, ben lungi dall'essere, per davvero, intui- 
zioni, e cioè precisamente conoscenza universale e necessaria, 
altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di sin- 
golari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello, 
per l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare ? 
Giacchè di assolutamente singolare o insuperabilmente indi- 
viduale in una forma di conoscenza veramente universale e 
necessaria non vi può essere, al più, — come più innanzi 


mostreremo — che quella frangia o alone, a dir così, che, 


come ombra il corpo, naturale ed immancabile accompagna 
la forma mentis di ogni singolo soggetto conoscente, quale 
spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di ognuno di 
essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma cotal 
frangia o alone — che serve solo a farci distinguere le crea- 
ture o immagini d'una medesima ispirazione creatrice, presso 
i più diversi artisti: la yarcesca di Dante da quella di 
Silvio Pellico e di Gabriele D'Annunzio, il Neroze del Racine 
da quello dell’ Alfieri, dell’Hamerling, del Costa, del Sinkie- 
wicz — non toglie affatto nulla alla intelligibilità obiettiva, 
e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte intuizioni, 
che, perciò, restano identicamente valide — come espressione 





e: 





o conoscenza di quella data forma di reale che ci vogliono 
apprendere — fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora | 
così non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i 
tempo, arte e scienza: e cioè immagine estetica e verità 
scientifica? La quale, infatti, non si sa, forse, che, allorchè 
tale, per davvero, rimane assolutamente identica per tutte le 
intelligenze, non ostante la innumere varietà di espressioni 
che essa trova presso ogni singolo uomo di scienza? E 
cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intui- 
tiva, dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse 
innanzi il Croce medesimo che « l’aere spirabile » del con- 
cetto non possono essere che « /e iwéuizioni » ? E, in realtà, 
qualora quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in 
nessun luogo: sarebbe in un altro mondo che non si può 
pensare, e perciò non è ». Ed esso « permane come qual- 
cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito » : vale 
a dire come « l'essenza delle cose ». 

Non risulta, quindi, in ogni modo evidente che il valore 
universale e necessario della conoscenza non può ritrovarsi . 
o appuntarsi che nell’ essenza dell’obietto di essa conoscenza 
— il solo elemento, a dir così, per davvero immutabile e 
permanente nel divenire perenne della realtà — che non A 
può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente al 
e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la 
intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e 
medesimo concetto, donde, appunto, il carattere di universalità 
e necessità della conoscenza? E alla stregua di cotal principio 
logico e gnoseologico — pienamente riconosciuto dalla stessa | 
Logica del Croce — come può esser mai possibile la conce- 
zione o figurazione di intuizioni assolutamente individuali, — 
nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto intraducibili 
ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione # 








adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può, 
nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei 
singoli soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto, 
da un istante all'altro — come, appunto, l'intuizione del 
Croce — a noi preme soltanto di chiedere se non è sempli- 
cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile, quanto 
impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme della 
realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati 
più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno 
indicati come assolutamente indispensabili e, ad un tempo, 
insuperabili, per la intelligibilità della realtà: come, appunto, 
le categorie della somiglianza e della differenza. Infatti, al 
di là di tali predicati, o categorie, non rimane — come 
sappiamo — che una sola possibile espressione, quella formulata 
dalla mistica: ergo faceamus, ovvero — peggio ancora — 
seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche: « Penche-toi 
sur ton propre puits, pour apercevoir tout au fond les étoiles 
du gran ciel ». Ma chi non sa che egli, appunto per essere 
rimasto tutta la vita sospeso a guardare nel fondo di sè 
medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del gran cielo 
si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in realtà, 
l'intuizione — nel senso inteso dal Croce — non è che una 
oscura buca, in cui non si può discernere nulla, nemmeno 
se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole, e 
tanto meno perderci — come il Nietzsche -— nelle tenebre 
della follia, non occorre, di necessità, far capo, per la intelli- 
gibilità della realtà, a quelle tanto deprecate categorie del 
pensiero, che, in quanto predicamenti od espressioni degli 
aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a noi 
si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, — come, 
più oltre, proveremo a sufficienza — non contrassegnare, in 
maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’ essere? 











Lg — 


E se, adunque, la realtà non può essere da noi concepita 
se non sotto la specie di sì fatte categorie — onde, ripeto, 
il carattere universale e necessario della intelligibilità che di 3 
essa abbiamo — come mai, poi, le intuizioni possono dirsi 
od essere 2r/raducibili? Ma la traducibilità di esse non importa . 
l’uso di quelle medesime categorie che a noi occorsero per 
la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere la 
intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la 
espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore 
o intelligibile del nostro pensiero — I’ intuizione appunto — 
fosse tutt'altra cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni, 
linee, colori ecc.), in cui tal moto si estrinseca, e cioè /a 
espressione. Ma il Croce non avverte reciso ed insistente che _ 
l'intuizione e l’ espressione sono #4 e non già due, in quanto, 
< in realtà, noi non conosciamo altro che intuizioni espresse » ? | 
« Un pensiere — infatti — non è per noi pensiero se non È 
quando sia formolabile in parola, una fantasia musicale se | 
non quando si concreti in suoni, un’ immagine pittorica se | 
non quando sia colorita » ; credere, quindi, che « il pensiero, 
la fantasia musicale, l’ immagine pittorica..... esistano senza 
espressioni..... è un'ingenuità. » E, se, adunque, così è, e, 
d'altra parte, a noi è data a pieno la possibilità d'intendere R 
e gustare, anche, in tutta la sua profondità e bellezza, qualsiasi | 
opera d’arte, solo che si prenda a rivivere, nel fondo del | 
nostro spirito, quei medesimi stati di coscienza che l’ autore 
visse nei momenti della sua intuizione, non è semplicemente | 
incoerente, poi, negare la possibilità di tradurre cotali opere. 
d’arte, dopo essere state a pieno intuite? Ma, dunque, la. 
intelligibilità (o stati d'animo da noi rivissuti, e, quindi, — 
l'intuizione da noi avuta, a nostra volta, di un’ opera d’ arte È 
da altri concepita) non è, ad wx tempo, espressione, e cioè 
traduzione? 









o GIO 


Per negare la traducibilità, occorrerebbe negare senz’ altro 
la intelligibilità, ma ammessa questa, occorre, per ciò stesso, 
ammettere l’altra, e riconoscerle, per giunta, quegli stessi 
limiti di fedeltà, chiarezza e precisione di cui è capace la 
nostra intelligibilità. 

Come, quindi, si possono, ragionevolmente, dichiarare 
intraducibili le intuizioni ? 

E, del pari, è, forse, meno irragionevole di questa anche 
l’altra pretesa dell’ intuizionismo, di dover noi — ogni volta 
che si parli, o si voglia, comunque, esprimere il nostro 
pensiero — fare un baratto completo delle espressioni già 
in uso, per la speciosa ragione che esse non possono avere 
pel nostro pensiero l’identico significato che esse ebbero, 
già, per coloro che per prima le crearono, e che, anzi, non 
hanno più nemmeno per essi stessi, a causa dell’ assoluta 
impossibilità, da parte di ognuno, di rivivere, identico, uno 
stato di coscienza di già vissuto, onde il nessun valore del 
dizionario ? 

Eppure, nessuno di noi osa negare col Salmista che, 
come il fiore, come il fiotto, come la nuvola, come il vento, 
l'uomo anch'esso passa con le sue impressioni; ma è non 
meno vero, però, che qualche cosa di esso rimane, ed è la 
essenza di tutte le cose: il pensiero, appunto; che, simile 
alla scìa luminosa che un naviglio sull'onda lascia dietro di 
sè, la Realtà lascia anch'essa lungo il suo passaggio, nel 
perenne suo divenire. Se così non fosse, come questa 
— chiedemmo già — potrebbe mai diverize e non già passare 
semplicemente? Persistere e divenire sono inseparabili: il 
divenire, infatti, non può, di qzecessità, non implicare, in 
quanto tale, una distinzione di presente, di passato e di 
avvenire, altrimenti, come si potrebbe avere coscienza di esso ? 
Coscienza ch’è possibile solo e precisamente a patto di 


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innalzarci sullo stato presente, ricordarci del passato e, 
sopratutto, fexdere al futuro: una coscienza veramente momen- 
tanea è la sola forma secondo cui noi possiamo, in una 
concezione positiva, concepire l’ incosciente. Ma, già, non lo 
disse anche il Leibniz? Riducete lo spirito ad uno stato 



















momentaneo e cangiante, e voi avrete la materia. Perciò 
sino a quando dal fondo della nostra coscienza spontanea e 
indistinta qualcosa si staccherà di determinato, ciò avverrà — 
sempre per opera della riflessione, che avrà reso possibile | 
l’appercezione di una differenza nella somiglianza, di un 
cangiamento nella persistenza, di una novità qualsiasi in 
contrasto con l'identità anteriore. Infatti, allorchè io ho la . 
intuizione immediatd di ciò che io provo in uno stato di 
paura, io ho preso già o son riuscito già a distaccare dalla 
corrente interiore della mia coscienza un particolare fiotto, | 
onde quella particolare e parziale visione; e proprio qui è 
il primo battito sistolico del pensiero: nel porre /'esse di | 
fronte al cogitare, ritrovando, così, in quell’ informe sentimento 
della corrente immediata della coscienza — per nulla distinto, | 
alle origini, dalla vita — la distinzione nell'unità. E ciò © 
proprio prova che noi non possiamo in nessun modo distaccarci 
dal fondo di noi medesimi, e cioè obiettivare il nostro mondo 
interiore senza l° aiuto del pensiero ; e, di conseguenza, proprio 
in questa possibilità di uscir fuori di noi medesimi è, ad 
un tempo, l’atto ed il privilegio del pensiero, quel privilegio. 
che è appunto la coscienza : la quale, adunque, poichè consiste, 
evidentemente, nella presenza dell’ essere al pensiero, non 
può non essere, naturalmente, che distinzione e, perciò, 
consapevolezza. Quale profonda verità, non si asconde, quindi, 
in quel motto tanto comune: #u/fo è relativo, quantunque da | 
molti completamente male inteso ? e cioè preso nel senso 
che tutto sia ugualmente giusto o ingiusto, mentre non vuol 





LI 
* 








significare che ciò proprio ed unicamente: che tutto quanto 
poi conosciamo si trova e deve trovarsi in relazioni determinate, 
e che tanto meglio noi conosciamo le cose quanto più esse 
sono determinate esattamente? Infatti al di qua e al di là 
di ogni relazione determinata non v'è che l’irrelazivo e 
l'assoluto : val quanto dire due pure astrazioni o mere ipostasi : 
insomma delle astrazioni sostantivate. E non vien di conse- 
guenza, allora; che fuori di ogni relazione non solo non è 
possibile sia rievocare, sia intuire, sia rappresentare, sia 
giudicare, ma nè pur semplicemente sentire? Aveva, quindi, 
ben ragione Cratilo di non poter affatto parlare dinanzi al 
fiume eracliteo, sia pur per ripetere la vuota espressione di 
Parmenide: l'essere è; ma egli avrebbe potuto e dovufo 
aggiungere che non è possibile nè pur fare un gesto, nè 
men quello d'indicare il fiume col dito; anzi più ancora: 
dinanzi alla corrente universale non rimane al pensiero che 
cessar di palpitare. Ed Ofelia, infatti, trascinata senza più 
palpito di pensiero dalla corrente, e cioè divenuta una sola 
e medesima cosa con questa: un fluire inconsapevole, come 
poteva accorgersi, più, della mobilità delle onde, della immo- 
bilità delle rive, compiacersi dei fiori sparsi nella sua bionda 
capigliatura, .e, più ancora, avere coscienza di sè? Giacchè 
è naturale che una corrente tutta e solo fluente non può non 
escludere, col pensiero, sì la parola che il gesto. E se è pur 
vero che la corrente della coscienza — secondo l’ odierno 
intuizionismo — non esclude un sordo sentimento della durata 
che passa, è non meno vero, però, che la coscienza, perduta 


nel momento che fugge, non può rassomigliarsi, al più, che 


‘a quella del « pélre assoupi », che « regard l'eau couler ». 


Onde la necessità di ammettere che se qualche cosa rende 
possibile l’unità e la continuità del divenire, impedendo, così, 
a quest'ultimo di essere o rimanere una disparata  vicissi- 





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-può negarlo? — nacque direttamente sotto la pressione o 


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» 


— 96 — 


tudine di creazione e distruzione senza legame di sorta, ma, 
sì, un'evoluzione, davvero, è precisamente quella scìa luminosa 
di pensiero — sempre vigile e attiva sotto forma di attenzione 
o ricordo —, che la Realtà lascia dietro di sè, nella forma 
tangibile e perenne delle nostre idee: veri soli, queste, o 
altrettante stelle fisse, di cui in eterno e senza fine il nostro 
firmamento spirituale si va arricchendo ed illuminando. E, 
per ciò, qual meraviglia che noi, mentre crediamo di costruire 
con le nostre idee un mondo puramente intelligibile, riusciamo, 
invece, a costruire o creare senza posa un mondo assolu- 
tamente reale? Infatti, quale attività più dell'idea può dirsi 
profondamente ed essenzialmente cooperatrice del divenire 
della Realtà : intima essenza, essa stessa, della Realtà? E 
d'altronde, chi può negare che il potere illuminante e 
propulsivo, ad un tempo, delle idee, non sia precisamente 
in quella coerente, armonica loro unità, che trova la più 
perfetta sua espressione per l’ appunto in quelle forme 
logico-grammaticali che gl intuizionisti ritengono un mero 
gioco di artifizio del pensiero? Ma sì che la lingua — chi 


influsso di bisogni puramente pratici, sì che ai primi albori 
della sua esistenza non potè servire che alla manifestazione — 
pura e semplice delle più impellenti necessità della vita: È 
quindi, oltre che poverissima di voci, non potè non essere, 
anche, quasi del tutto priva di forme grammaticali, appunto 
perchè immediatamente e sostanzialmente diretta alla mera 
indicazione delle cose, 






Ma l'indicazione pura e semplice delle cose può dirsi, 
forse, manifestazione vera e propria dell’ attività conoscitiva? | 
Questa — lo accennammo innanzi — non poteva e non 
doveva nascere che col pensiero, il quale, sedendo di sua 
natura, alla espressione del xagforto, non poteva, necessa= 






È 





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riamente, colla persistente spinta delle infinite modalità sué, 
non forzare il materiale della lingua alla creazione delle più 
svariate forme di espressione: ora, precisamente in corri- 
spondenza di queste, presero a nascere, progressivamente, 
le così dette forme grammaticali, che tanto, poscia, dovevano 
influire — come ci mostra l' Humboldt — sullo sviluppo 
stesso del pensiero. 

Infatti, come questo avrebbe potuto mai svilupparsi con 
l’aiuto di una lingua — e furono cosi tutte le lingue allo 
stato originario — la cui funzione si assorbiva completa- 
mente nella indicazione pura e semplice delle cose, senza 
nessun segno diretto ad esprimere quell’ insieme di rapporti 
logici, in cui, appunto, consiste, pel pensiero, o si riassume, 
essenzialmente, la conoscenza del reale? Ed anche quando, 
in un periodo successivo, la lingua, priva ancora di vere 
forme grammaticali, prese ad esprimere tali rapporti con la 
semplice disposizione delle parole, o con parole speciali che 
conservavano, però, accanto al significato di relazione, anche 
quello sostanziale o indicativo della cosa, poteva, forse, in 
sì fatto modo, rimanere favorito lo sviluppo del pensiero? 
Punto punto, anche: giacchè, sia nel primo che nel secondo 
caso, l’idea del rapporto, più che suggerita direttamente 
dalla lingua — come, oggidì, a mezzo della sua forma — 
veniva introdotta da un particolare atto del pensiero, ed 
anzi, nel secondo caso, appunto perchè associata — in virtù 
del duplice significato della parola, — ad un'altra rappre- 
sentazione, era raggiungibile, naturalmente, solo mediante 
un duplice atto del pensiero. E, perciò, quale aiuto poteva, 
così, fornire la lingua, oltre che allo sviluppo, alla rapidità, 
anche, e precisione o chiarezza del pensiero, costretto ad 
affidarsi, in tal guisa, unicamente a se stesso? Naturale, 
quindi, la tendenza o bisogno, da parte di quest’ ultimo, di 








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liberarsi sempre più dalla necessità di moltiplicare i suoi 
atti o sforzi per supplire, oltre che all’ assenza, all’ incertezza 
stessa o ambiguità dell’ espressione del rapporto, col ricercare 
anche per questo — come già per gli oggetti — un’ espres- 
sione o forma linguistica, non solo del pari adeguata, ma, 
altresì, del tutto determinata ed inequivocabile. E tale forma 
non poteva essere che o una modificazione delle stesse espres- 
sioni indicanti oggetti, oppure le medesime espressioni 
dispogliate del significato sostanziale e vòlte a mantenere 
unicamente quello di relazione. E proprio questi due nuovi 
modi di esprimere con maggiore adeguatezza e facilità così 
le cose come i loro rapporti, divennero, gradatamente, il 
tipo delle odierne forme grammaticali, che finirono, poscia, 
col sostituire definitivamente e completamente — almeno 
nelle lingue letterarie — i due precedenti tipi, che von 
Humboldt designò, rispettivamente, con l'appellativo di 
surrogati di forme ed analoghi di forme. Senza tali sostituzioni, 
è facile supporre che il pensiero non avrebbe mai raggiunto 
l’attuale sua forza di penetrazione, oltre che estrema rapidità, 
perchè sarebbe stato ognora costretto, specie nel caso di 
una stessa disposizione di parole destinata ad esprimere 
rapporti varî, a rimanere esitante sempre, e produrre o creare, 
caso per caso, il nesso logico, e, del pari, nel caso contrario 
di disposizioni varie, ma analoghe, di parole, dirette ad 
esprimere rapporti pensati analoghi, esso sarebbe stato 
costretto ugualmente ad esitare tra forme analoghe, ed 
avrebbe dovuto produrre anche qui, caso fer caso, il nesso 
logico. Così — ad esempio — la parola #82, in brasiliano, 
significa suo padre, egli è padre, egli ha un padre, ed anche 
solo padre: ha, quindi, due significazioni sostantive e due 
significazioni verbali, ma in sé non è che un composto di 
due parole significanti egdi è padre. 








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Ora è evidente che il pensiero, pur naturalmente tratto 
dall’ émpito del suo sviluppo a vedere le cose in tutta la 
pienezza dei loro rapporti o delle loro relazioni, non sarebbe 
mai pervenuto a tanto, qualora non si fosse sforzato e non 
fosse riuscito a liberarsi di tutte le difficoltà ed ostacoli 
opposti dalla struttura così grammaticalmente imperfetta di 
simili lingue, con l’individuare, — come oggidì vediamo 
nelle lingue letterarie o a forma grammaticale perfetta — 
una vòlta per sempre il rapporto richiesto con un proprio 
e adeguato suo segno. E che, davvero, l’ imperfezione della 
forma grammaticale procuri al pensiero una certa difficoltà 
o indeterminatezza nella concezione dei rapporti logici è pro- 
vato, sebbene molto pallidamente, dall’ imbarazzo che, non 
di rado, a noi procura lo stile telegrafico, col costringerci, 
appunto, a sostituire, con automatica prontezza, le soppresse 
indicazioni di tali rapporti : senza dire che, talvolta, sì fatta 
sostituzione, ben lungi dal compiersi automaticamente e con 
prontezza, si avvera, invece, — e non sempre, anche, — 
dietro lunghe e penose riflessioni. E manco male! chè per 
coloro che sono in possesso di una lingua formalmente im- 
perfetta — onde l’ impossibilità di tale sostituzione — si 
spengono davvero tutti i lumi, come avrebbe qui detto il 
Leopardi. 

Ora, qual meraviglia che sì fatto bisogno di luce, da 
parte del pensiero, bisogno altrettanto vivo ed urgente quanto 
naturale ed invincibile, abbia man mano condotto quest’ ul- 
timo, traverso sforzi millenarî, consapevoli, a-vòlta, ed incon- 
sapevoli — come, già, tutti gli sforzi che dànno luogo a 
prodotti, sia materiali che spirituali, che sono il frutto del 
diuturno esercizio di una funzione, appunto pel reciproco 
influsso del prodotto, ovvero della forma di esso, sull'at- 
tività produttrice, e viceversa — al ritrovamento delle forme 





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5: — 30 — 


- grammaticali, quali segni di uso incomparabilmente più facile 
ed agevole, per la massima rapidità del pensiero, oltre che 
insuperabilmente più adeguati della parola, ad esprimere le 
più svariate forme di rapporti logici? Giacchè questi, se 
incorporati dalla parola, e cioè materializzati dall’ immagine, 
al pari delle cose, non potrebbero, per ciò stesso, non ri- 
manere — come sappiamo — più o meno falsificati. 

È E, d'altronde, quale più flagrante smentita e prova, ad 
È un tempo, inoppugnabile, che le forme grammaticali non sono 
È affatto — come vorrebbero gli intuizionisti — un mero gioco 
di artifizio del pensiero, di quella stessa, che a noi, tangi- 
bilmente, dirò, fornisce precisamente il rapporto di dipendenza 
reciproca che indissolubilmente lega lo sviluppo del pensiero 
a quello della lingua, e viceversa? Infatti è un'esperienza 
di tutti i dì che il carattere impeccabilmente formale della 
lingua favorisce non poco lo sviluppo del pensiero col ren- 
3 derlo ognora più agile e più penetrante, e, per ciò stesso, 
È ognora più acuita la sua tendenza a dare alla lingua un 
Pi carattere sempre più espressivo formalmente; e questa, a 
- sua volta, ne lo ricambia col fissare in forme grammaticali 
sempre più perspicue e definitive il segno immateriale dei 
rapporti logici, fino a stabilirsi, così, tra lingua e pensiero, 
ta quello stesso rapporto che vi ha tra uno stimolo adeguato 
e il proprio organo di senso, il quale, infatti, non riesce, è 
G sua favella, a rispondere al primo che con una sensazione 
immancabilmente adeguata non solo alla natura dello stimolo, 
ma eziandìo —.ciò che è più -— alla natura particolarmente 





sensibile sia dell'organo che del soggetto stimolati. E, in 
verità, chi ascolta un discorso e lo intende, può dirsi, forse, 
che subisca un trasporto di pensieri e non già un’eccitazione 
congeniale della facoltà di ripensare il pensiero altrui? E 
ciò è tanto vero, che colui che ascolta riesce ad intendere 












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di un discorso proprio ed unicamente quella parte 0 quei 
concetti che egli è capace di ripensare, pur non ignorando 
affatto il significato di tutti i vocaboli usati nel discorso : 
perciò accade, in generale, che noi, ascoltando un oratore, 
o rimaniamo al di qua del segno che il discorso attinge per 
colui che parla, o lo raggiungiamo perfettamente al pari di 
lui, od anche lo superiamo, secondo la minore, uguale o 
maggiore capacità, rispettivamente, da parte di chi ascolta, 
di integrare quei segni o stimoli — che sono le parole pel 
pensiero — con le proprie idee. E per ciò accade, anche, 
che non è tanto il significato della parola — come si ac- 
cennava testè — che ci dà il senso del discorso, quanto 
viceversa : a chi, invero, non è accaduto, specie usando una 
lingua straniera, di intuire o dedurre proprio dal senso ge- 
nerale di un discorso il particolare significato di una frase 
o vocabolo da noi in quel momento obliato, o anche del 


tutto ignorato? E — per maggiore evidenza, ancora, — 
quante volte, traducendo dal latino, — seduti sui banchi del 
Liceo — non riuscimmo a cogliere o derivare dal senso 


generale di un periodo il significato preciso di un’espressione 
singolarmente polisensa, quando non pure dal significato ge- 
nerale di tutto un brano, il particolar senso di intere pro- 
posizioni ed anche periodi, che, presi per se stessi, od in 
se stessi, avevano, per noi, significati i più strani ed anche 
assurdi ? i 

E ciò, andando dalla concezione perfettamente logica, 
o logicamente perfetta, del pensiero verso la facile intelli - 
gibilità del segno, che quel pensiero deve apprenderci o sug- 
gerirci: ora vediamo quanto accade in senso inverso, proce- 
dendo, cioè, dalla precisa significazione del rapporto indicato 
dal segno della forma grammaticale alla facile intelligibilità 
del pensiero : anche in tal caso basta — come sappiamo — 


Vi PESO 


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che venga appena espressa la parte iniziale di uno schema, 
che subito e infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce 
l’altra, che completa lo schema (così — come; per quanto — 
pure ; tanto — quanto ecc.). 

Sicchè la precisione del segno linguistico, e cioè una 
forma grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e 
preciso, il rapporto pensato, senza aggiungere che, anche 
quando l’attenzione non si rivolge ad essa, produce ugual- 
mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo sviluppo del 
pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto perchè 
l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale : 
il che trae a concludere che, come il concetto — espressione 
di una vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a 
sostantivo una mera qualità o predicato di essa — riuscì a 
fissarsi nella parola, trovando nella concretezza ed evidenza 
di questa la sua rappresentazione adeguata, così il rapporto, 
nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare nella #m- 
materialità della forma la sua espressione adeguata. 

Ora, dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la 
lingua ed il pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una 
condizione size gua non per lo sviluppo dell’una e dell'altro, 
come si può, seriamente, ritenere mero gioco di artifizio 
del pensiero ciò che è, invece, mezzo assolutamente impre- 
scindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma son, 
dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili 
tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo 
essere, e cioè pienamente adeguare la propria esistenza alla 
propria essenza? Ma non s'è pensato che, se la tendenza 
del pensiero all'espressione del rapporto vuoi dirsi o rite- 
nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere, allora, che 
le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e più 


‘ dei concetti stessi — in quanto senza paragone, notammo, 





pnt SII 






più ricche e complicate di articolazioni o rapporti logici, in 
confronto di questi — sarebbero precisamente le nostre in- 
tuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni 
od espressioni del pensiero umano, dalle prime sue rifles- 
sioni, o moti intuitivi, fino alle odierne concezioni dell’ intui- 
zionismo e del pragmatismo, — assertori, appunto, di tal 
gioco — sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un perenne, 
vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di artifizio, 
sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e strane 
e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita 
universa ? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o 
priva di ogni rapporto logico, espresso o sottinteso, mon 
è concepibile nessuna forma od espressione di pensiero, 
sia pure la più semplice, come innanzi vedemmo, altrimenti 
dovremmo negare che conoscere — come affermò il Fichte 
— significa vedere in relazione: il che sarebbe precisamente 
come negare che il sole illumina o riscalda. E provato, 
adunque, che la tendenza o funzione essenziale e neces- 
saria del nostro pensiero è quella di gorre in relazione, 
come può esser lecito, poi, negare che le forme grammaticali, 
che corrispondono a questa funzione e la esprimono il più 
analiticamente possibile, non siano precisamente la più ge- 
«_—nuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova o 
testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della 
necessità e adeguatezza di tali forme non rimane - vedemmo — 
la stessa crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità, 
che lo sviluppo del pensiero trova, per l’ appunto, nell'aiuto 
di sì fatte forme? Ma seguiamo pure con tutta rapidità, 
alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero nei suoi 
rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata 
da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente, 









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oi £ + ES 


cose, si rivelò, tuttavia, in una fase successiva, — col progressivo 
affermarsi della intima tendenza del pensiero all’ espressione 
del rapporto — un esperimento di pensare, che doveva dar luogo 
alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo 
di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare 
parole indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una 
fase ulteriore le combinazioni di parole diventano costanti, 
e le parole adoprate ad esprimere nessi cominciano a perdere 
il loro significato indipendente. Segue una terza fase, nella 
quale le combinazioni delle parole guadagnano di unità: le | 
parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole | 
denotanti oggetti ; però il legame non è ancora saldo abbastanza, _ 
chè i punti di attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un 
aggregato, non ancora una unità: dai surrogati di forme si 
passa agli analoghi di forme; la lingua è nel periodo di 
agglutinazione. Finalmente il carattere formale della lingua 
si afferma decisamente, l’ organismo grammaticale si completa ; 
la parola diviene un’ unità modificabile — in conformità delle | 
sue relazioni grammaticali — solo per un cangiamento di 
suono, che costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una 
parte del discorso determinata, ed ha, insieme, una individua- 
lità lessicologica e grammaticale; di più, le parole indicanti 
relazioni, perduta ogni traccia dell'originario significato 
radicale, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la 
intelligibilità, rimangono puri segni di rapporti, come i segni | 
algebrici, esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero 
importa che significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue 
che hanno vere forme grammaticali procurano al pensiero, | 
con una singolare chiarezza e precisione, una singolare 
agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la forma- 
zione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due 
stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e _ 








= BR 





compattezza delle sue forme logiche, e quello della lingua, 
nell'unità, non meno rigida e compatta, delle sue forme 
sintattico-grammaticali. E, pertanto, quest'ultima, nella connes- 
sione delle parole nella proposizione, nei rapporti sintattici 
fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi 
rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’ attività 
logica del pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero, 
nel suo moto verso le cose, o verso la conoscenza di esse, 
e tale anche la lingua e la parola, mediante l’ articolazione, 
Ja flessione, le forme grammaticali, la sintassi. 

Ed è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai 
suoi primi moti vitali, insieme con la lingua, non poteva, 
nella sua naturale, invincibile tendenza all'espressione del 
rapporto, non piegarla od imprimerle tutti gli atteggiamenti 
e tutte le movenze del suo procedere essenzialmente discor- 
sivo, come innegabilmente ci provano molte parti del discorso, 
che non sono infatti — come notammo per altro verso — 
che indici di direzione del pensiero, schemi verbali di dire- 
zioni logiche (così — come; sebbene — pure ecc.). 

E si noti, intanto, che codesto intimo rapporto di dipen- 
denza reciproca, che — abbiamo visto — lega indissolubil- 
mente lo sviluppo del pensiero a quello della lingua, non è 
punto punto smentito o minimamente infirmato dalla dif. 
ferenza — talvolta anche sensibile — delle forme gram- 
maticali- sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche 
presso lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzi- 
tutto perchè quel rapporto non è di natura, ma semplice- 
mente di aftribuzione, e, poscia, perchè la differenza delle 
forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse relazioni 
logiche non muta il significato o la natura di tali relazioni. 
Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari riflessi di 
natura psicologica, dipendenti dai più varî atteggiamenti del 








, 
















a ì: 


pensiero, oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili, 
in connessione, per giunta, con particolari condizioni di vita 
e di ambiente le più svariate da popolo a popolo — il tutto. 
punto punto determinabile, come non è determinabile la col- 
locazione delle forze che impongono alla foglia turbinata | 
dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle | 
più diverse forme grammaticali per l’espressione di un me» | 
desimo rapporto. Fatto questo eloquentemente confermato, 
oltre che dalla relativa libertà che presiede alla formazione 
e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali di- È 
versi in lingue derivate da un medesimo ceppo : infatti cotale | 
persistenza della funzione formatrice, anche dopo la separa- | 
zione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che 
con l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl 
come la diversa ed anche diversissima sorte che accompagna | 
pel mondo, e quasi istrania, i figli mati da un medesimo 
padre non può in alcun modo farci negare la comune loro 
origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la pro-. 
fonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, | 
peraltro, chi può negare che l'apprendimento e sempre più 
facile intendimento di una lingua straniera è largamente. 
mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa nella. 
nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue, 
pur nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a 
plasmarsi, non dovessero la loro origine ad una tendenza o 
manifestazione psicologicamente idezzica della coscienza. Iden-. 
tità di tendenza che, frattanto, per le ragioni testè ricordate, 
non può, naturalmente, non mostrarci del tutto vano quanto 
infondato il tentativo della filologia comparata di rintracciare 
il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue sareb- 
bero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, im-. 
potente, dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. 






riduzione, e spinge, quindi, ad ammettere senz’ altro una 
molteplicità primitiva, dominata, nelle sue forme somiglianti, i 
semplicemente da identità di fattori, senza nessuna causa cla”: 
storica di derivazione. 

Ma — d'altronde — non manca un modo veramente e, 
semplice per convincerci della validità mecessazia di tutti i 
sistemi di segni, che l'umanità è riuscita sin qui ad organiz- dh" 


PA 


zare e far valere come espressione universalmente intelligibile 


ht, 


di tutti i più intimi moti del nostro pensiero, ed è questo: 
spogliate la parola di tutti i rapporti grammaticali-sintattici, 


Ned 


î annullate tutte le norme inerenti alla prospettiva col solo 
capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro o disegno; 
alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed avrete, 
precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio, meno 
intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un È 

disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella lingua, 

ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella 
dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. 

E se, adunque, tutti codesti sistemi di segni espressivi 
sono wiversalmente intelligibili, e, per di più, universalmente 
identici anche nel loro aspetto formale — salvo, in parte, 
l’espressione linguistica — ciò stesso non prova ch'essi re- Dez: 
cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3 
molto, ma molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr 
viduale ? Infatti perchè tutti i tentativi di creare una lingua ® 
universale unica — come, ad esempio, il Volapwk, l’ Esperanto, 
l'Interlingua — sono falliti miseramente, ognora? Non, forse, 


pa pil S 


perchè la lingua, come vero mezzo o strumento di espres- 
sione del pensiero, è ben lungi dall'essere così una creazione 
arbitraria dell'individuo, consapevolmente compiuta secondo 
una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto di P 
una spontanea formazione naturale di ogni individuo, così 


dui 














































come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in realtà, 
essa, come riflesso obiettivo — nell’ unità organica delle sue. 
espressioni vocali — di quel coerente moto interiore che 
anima il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto 
del singolo che della collettività. Infatti l'individuo non. 
riesce a creare, per suo conto, che le singole parti, e cioè | 
le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso dianzi 
inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa richiede. 
ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del 
linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della. 
lingua rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla | 
lingua come tutto. E poichè, pertanto, la lingua, come mezzo 
o strumento di conoscenza, è precisamente e solo nel risul. 
tato, o nel suo tutto, e questo tutto è, in sostanza, od 
essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze mutue | 
delle coscienze individuali — più che solo dell’ azione reciproc 
dei singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera . 
comune, come taluni vorrebbero — ma eziandio, e sopratutto, 
il frutto di una critica sociale che adotta ed elimina — onde. 
quella forma d'identità di pensare e di esprimersi tutta propria 
di ogni popolo — è naturale ammettere che il contributo 
dell’ individuo nella formazione della lingua scema a misura. 
che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve senz’ 
altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che 
noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur 
vero che, come realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione, 
e non può, perciò, al pari dell’ individuo, creare affatto un 
mito, un canto, un poema, una religione, è non meno vero, 
però, che, al pari, e più dell’ individuo, è dessa che — nella 
maniera testè indicata — riesce ad acquistare a quel mirabile 
strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma 
espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias 





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canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia di 
conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient' 
altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè 
affermare che se l’uomo deve alla natura la sua esistenza, 
deve, però, all’ uomo di essere uomo, e cioè soggetto spiri- 
tuale, in virtù, appunto, della sua libera partecipazione al 
possesso di quella infinita ricchezza spirituale, frutto di sforzi 
millenari, che proprio la lingua, traverso la infinitudine dello 
spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente di 
far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di 
appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità 
del progresso nella storia umana, in confronto di quel pro- 
cedere sì lento della natura, che, davvero, sembra star. Sì 
che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed esclamare, ad 
un tempo: 

D’où vient qu'en chaque mot je cherche une harmonie ? 

Je ne sais quelle voix a chanté dans mon coeur! 

C'est comme une caresse, et mon oreille épie 

Et s’emplit de douceur! 

E la ricercata armonia nei nostri accenti, l'eco e la 
dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è precisamente 
perchè la lingua, — quale iisaltante d' infiniti sforzi indivi- 
duali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo 
nell'intimo del reale —, può dirsi governata, nella efficacia 
espressiva delle singole sue voci armonicamente connesse 
nell’ inviolabile struttura delle sue forme logico-grammaticali, 
da norme che ricordano bene quelle stesse che regolano e 
determinano l’efficacia espressiva dell'armonia musicale. Nella 
quale, infatti, ciascuna nota — come sappiamo — echeggia 
nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano nell’ac- 
cordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni 
nota; di guisa che ciò che noi prendiamo per un suono 








= 


























isolato è, per ontrario, un concerto. E sì fatta legge del. 
l'armonia — è noto anche — regola non solo i suoni simul- 
tanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che 
seguono vengo ad essere legati in maniera che il primo 
si prolunga nell'ultimo. Aveva, quindi, ben ragione il D'An- 


nunzio — rivolto agli uomini della sua terra — di affermar 


loro: « La mia parola non è solitaria: è l'eco di un coro 
che voi non udite e che pure si compone di vostre intime 
voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi 
credete che io trasformi tutto in poesia, mentre non altro 
io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete sog- 
getti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come 
un fratello purificato. » d 

Qual mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque, 
nella sua struttira e consistenza — secondo un'altra im na- 


gine del Guyau — Ì 


LI 


à ces votes d’église 
Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix, 


«<il 


giunga perfettamente intelligibile, colle sue voci, a tutti i 
soggetti conoscenti cui essa perviene ? 

È ben chio, adunque, che il rispetto alle leggi d 
grammatica, 0 della lingua, in genere, non è che un 7a 
nabile obseguiumm — e, per ciò stesso, assolutamente 
sario — alle leggi del pensiero: di conseguenza i nosi 
progenitori non furono affatto liberi — come affatto, og 
noi non siamo — di pensare e parlare a proprio talen 
secondo la propria « comodità ». E se è pur vero che 
avrebbero potuto creare una grammatica del tutto dive 
non è men vero, però, che una qualsivoglia gramma 
avrebbero pur dovuto crearla, qual’ espressione, appun 
delle leggi del pensiero: e cioè delle sue funzioni essenzi 





LS ga 


Infatti è possibile, forse, concepire una qualsiasi lingua senza 
voci più o meno fisse, destinate a pronunziarsi costantemente 
in rapporto a dati obietti od azioni? Sostituite, invero, ai 
sostantivi gli aggettivi, e questi, più o meno fissi come i 
primi, joueront le ròle di questi ultimi; non usate che dei 
verbi, ed il risultato sarà il medesimo; limitatevi anche a 
delle interiezioni od esclamazioni, ed il grido di gioia ed il 
grido di dolore si distingueranno sempre l'uno dall'altro, 
con tratti caratteristici più o meno fissi o permanenti, e 
finiranno col sostituire essi i sostantivi gli aggettivi ed i 
verbi. — Ma si sarebbe mai avuto, così, lo sviluppo del 
pensiero ? Anche l’animale, accanto a dei movimenti espres- 
sivi non vocali, ha dei movimenti espressivi vocali, spesso 
varî e determinatissimi, per manifestare i proprì sentimenti 
ed i proprî bisogni, per allettare o per avvertire i compagni, 
per manifestare le sue emozioni sessuali ecc. ecc. Infatti il 
cane possiede una bella varietà di espressioni vocali: l’ab- 
baiare, il guaire, il ringhiare, l’ululare, ed anche tutt’ intera 
una scala di suoni e di combinazioni di essi con cui mani- 
festa, specialmente in rapporto all'uomo, i suoi stati interni. 
Ora non si può dubitare che tutti questi segni vocali di 
avvertimento, minaccia, seduzione, allettamento, appello, parte 
dei quali, e fors' anche i più, nacquero non come puri ri- 
| flessi, ma volontariamente, come mezzi di comunicazione, 
diretta al fine pratico d' incitare altri ad un'azione, sono 
qualche cosa di più che semplici interiezioni, in quanto si 
| possono riconoscere in essi i rudimenti degli elementi vo- 
cativi imperativi e dimostrativi della lingua. Ma, intanto, 
tutte codeste espressioni possono dirsi, forse, forme di cono- 
scenza intuitiva, e cioè intuizioni ? — No — potrebbe dichiarare 
il Croce — sol perchè esse sono forme espressive di un 
| sentimento pratico, immediato, e non già di quel sentimento 





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cosmico che ci dà il tutto nella vita del singolo, e il sine 
nella vita del tutto. — Benissimo : ma, allora, il senti ; | 
così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione 
grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p 
noi non riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4 
una, le ragioni complesse e profonde che si presenta nol 
massa al nostro sguardo interiore, allorchè ci decidiamo 
agire, è, per ciò stesso, lecito arguire che noi agiamo, 
tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha g 
dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non. 
zionale? Ma il sentimento non ha, per caso, la sing 
prerogativa — che gli viene, appunto, dalle innume 
sue connessioni con le direzioni ancora inconsapevoli de 
tenuto della coscienza morale in formazione — di a7 
in confronto della ragione, le sue vedute, e di av 
quindi, qual termometro sensibilissimo della vita spi 
tutti gli abbassamenti o deviazioni della condotta dalla 
segnata dall'ideale morale o dal dovere — non anco 
tutto chiara alla coscienza riflessa — e, perciò, spin; 
consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del 
Esso, quindi, non è, in sostanza, che luce sotto for 
calore, e solo così inteso può avere ed ha un signil 
motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni 


ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è, vera 


pante da tutta la precedente nostra analisi al rigua 
non ha nessun contenuto suo proprio, 


PES pr 























| Quindi le ragioni del cuore, se veramente ragioni o 
sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o 
7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta, 
venga presa o intesa in senso astratto, e cioè come 
sre meramente raziocinante, e, quindi, affatto « pensosa » 
‘tutti i 422 concreti offerti alla riflessione dall'esperienza 
4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra espe- 
A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe- 
‘enza non è che ragione concreta vivente ed agente, e la 
gione non è che l’esperienza stessa, astratta e quasi con- 
emplativa delle sue forme essenziali. 

È chiaro, adunque, che, per l'umanità, allo stato nor 
ale, non può esservi che un solo modo di pensare e di 
are: pensare e parlare, non solo in armonia e col con- 
degli altri spiriti : 


Wie spricht ein Gcist zu anderm Geist, 


eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè 
conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra- 
nalmente collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni 
nostro pensiero, ben lungi dall'essere — come, cogli 
ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti — « un apparec- 
di forme in certo modo falsificatrici » della realtà, sono, 
vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in 
delle funzioni o processi del reale, come ci attesta, evi- 
te, la innegabile cooperazione e solidarietà tra la nostra 
enza e la realtà delle cose. Si sarebbe, sì, potuto cre- 
a tutti i Nietzsche e i William James che le forme e 
orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes 
iali, che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos- 
stati al di fuori o al di sopra della realtà, come un 
do di forme vuote, senza contenuto, e cioè fuori di quella 








LO 
sj 
















à 


catena causale universale — causa ed effetto e reciprocità | 
di tutte le azioni causali — che è l’idea stessa della con-_ 
tinuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo L 
gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal 
catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» | 
damentali del nostro pensiero non si siano formate e non si | 
esplichino i funzione, ad un tempo, della nostra propria 
natura e della natura delle cose, da cui non siamo separati, — 
ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni volta 
che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le i 
funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione — 
delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di 
prendere coscienza delle più diverse azioni reciproche, a co- 
minciare dalla nostra: esse, quindi, non sono solamente la 
coscienza della nostra causalità, ma della stessa causalità È 
universale ; e poichè la causalità è essenza dell’ essere e la | 
sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza stessa 
dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere: | 
ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè 
nel cuore stesso della realtà, e non già circum praecordia 
rerum. 

Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure 
esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra ma- 
niera di esistere, da tutti affirmabile : togliete, invero, —. 
dicemmo anche innanzi — l’intelligibilità e l’ insieme dei. 
rapporti intelligibili, che formano la realità stessa del reale, 
e non resterà di essa che quella inconcepibile astratta poten- 
zialità, quella mera 3ivqus del tutto impensabile, che è l'ormai. 
famoso atto puro del Gentile. Il che prova inconfutabilmente - 
che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion fatta. 
di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 





2 Age 





con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti 
logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. 

Ora è precisamente questa impossibilità di concepire il 
reale senza le forme del nostro pensiero che ci costringe, 
inevitabile, a ritenere tali forme come atti intimi della vita 
mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente alle 
cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere 
un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della 
realtà; il che, pertanto, viene ad essere confermato, fra 
altro, anche da sì fatta inconcepibilità (1). Per ciò, più che 
delle forme astratte, o dei modelli vuoti, ovvero dei « punti 
di vista » fotografici isolati — come si vorrebbe anche - le 
categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili in 
cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come 
delle vere démarches delle cose, precisamente come la fun- 
zione vitale della locomozione è conforme alle leggi obiettive 
del movimento, come la funzione dell’ assimilazione nutritiva 
è conforme alle leggi fisico-chimiche delle sostanze alimen- 
tari e dello sviluppo vitale. E se è pur vero, intanto, che 
le forme della nostra esperienza — come Kant affermò — 
dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non 
per ciò è lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiun- 
gere, a mo’ di conclusione, che « la struttura dello spirito 
umano è l’effetto della libera iniziativa di un certo numero 
di spiriti individuali » (2). Giacchè, in realtà, pur potendosi 
ammettere che taluni individui, per iniziativa davvero intel- 
ligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta alla 
natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano introdotto 
delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia del 





(1) V. a tal riguardo, P. GATTI: Una visione teleologica del manda, Pet. 
rella, Napoli, 1926. ‘ i 
(2) BERGSON : Preface de Verité et Réalité di W. James. 








Tosh i 
































loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino nel cer- 
vello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo 
della nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la 
rappresentazione del tempo e dello spazio, il principio di 
identità e di causalità. Infatti tali principî non vorranno 
dirsi, certo, fortunate ipotesi create da uomini intelligenti o 
di genio, dato che essi vengono applicati 6 origine da ogni 
intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento spiri. 
tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la 
prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza 
od esistenza di essi anche negli animali, che non, certo, 
parlano. E, veramente, non pochi di essi — ad un certo 
grado di altezza nella scala zoologica — hanno, con tutta 
evidenza, più o meno confusa e concreta la rappresentazione 
dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie di 

credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in quanto 
tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni simili, 
e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se in 
qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e 
sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la. 
testimonianza di questa loro credenza vissuta e vivente: che 
ogni cosa ha la sua ragion d' essere, onde la loro tendenza 
a cercare le ragioni delle cose nella misura in cui tali ragioni 
li interessano, e, talvolta, anche per semplice curiosità. Tutti, 
ancora, credono ad una realtà indipendente dalle sensazio vo 
ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro sen 
sazioni ed azioni e questa realtà : il gatto — ad esempio —. 
che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv 
il padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N 
il sentimento della pluralità — costituita da sè medesimo, da 
padrone e dal formaggio — ;ha, inoltre, il sentimento de 
realtà della pressa del suo padrone, della possibilità dell Si 





CATO 





battiture e, in fine, della relazione costante tra la scoperta 
del furto e la minaccia delle percosse, oltre che, di conse- 
guenza, la somiglianza tra l’ avvenire ed il passato. Il gatto, 
adunque, è già schiavo anch’ esso delle « categorie » tanto 
descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si 
permette di distinguere il possibile ed il reale, il passeggero 
ed il permanente, il fatto e la causa, l'uno e i più, come se 
avesse avuto falsato lo spirito dalla lettura dei Dialoghi di 
Platone. 3 

Il vero è, dunque, che le forme del nostro pensiero sono 
innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed il pen- 
siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il pensiero, 
delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si raccol- 
gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è 
la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è, 
in fondo, che divenire del pensiero. Il che prova che la 
realtà è ciò che è, alla volta, obiettivo e subiettivo: l’ unità 
delle cose con lo spirito clie le conosce e con l’universo di 
cui quelle e questo sono parti costitutive e solidali. È naturale, 
quindi, che la filosofia non possa restringersi nè al semplice 
sforzo — come pretendeva Augusto Comte — di raggiun- 
gere la piena conoscenza del mondo, nè, del pari, all’ altro 
— secondo lo Hegel — di raggiungere la piena « coscienza 
di sè », perchè i due punti di vista sono veri solo se inse- 
parabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto 
più larga e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del 
mondo che agisce in noi e sopra di noi, tanto più piena è 
la conoscenza che noi veniamo ad avere di noi stessi; e, 
per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel tipo 
di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi 
stessi — onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni 
altra esistenza ed ogni altro pensiero — tanto più perspicua 











e più sicura è la nostra conoscenza del mondo nella sua 
realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere una 
filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà, riduca 
quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio ancora, 
alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo ? 

E questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli 
spiriti fra loro è provata, in maniera inconfutabile, proprio 
da quel comune sentimento che ci fa credere alla verità - la 
quale, infatti, si afferma wniversalmente, come tale, precisa- 
mente ed unicamente allorchè si manifesta come unità fra il 
nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle nostre sensazioni, 


e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero altrui, che ci | 


rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le nostre 
espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni, 
a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le 
leggi, ad un tempo, del pensiero e della natura: e perciò 
non sono da buttarsi via dopo l’ istante della loro creazione; 
esse, in altri termini, sono delle verità immobili che noi 
cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la fluidità delle 


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nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia — ad 


esempio — ed una bacca di belladonna, oltre a non essere 
puramente nominale, non è nè pure meramente o individual- 
mente soggettiva, com'è provato dal fatto che, mentre la 
prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non riescisse a 


rt 


distinguerla dalla prima. Perciò — ripeto — come pretendere 


che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e parlare 
a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che, 
per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, | 


non si sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 


divenendo, così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della 


lingua, e tanto più quanto più dimentichi o dispregiatori di _ 


ogni eredità sociale o spirituale, e cioè futuristi ad oltranza. 








CRE 





Mentre il vero è che, non solo la coscienza comune — e 
cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i popoli 
nella loro immensa maggioranza di individui — non sogna 
neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o crea- 
trice — onde la impossibilità, per esso, di yemettre en question 
alcunchè di quanto spiritualmente ha ereditato dai suoi ante- 
nati, ovvero anche solo di agire alla luce del gran lume 
della dea Ragione — quanto, eziandio, gli stessi filosofi, 
avendo appreso da Platone e da Kant della naturale origi- 
naria limitatezza del nostro sapere, non si attendono mini- 
mamente di porre in dubbio simile verità, e, per ciò — con- 
trariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche altro odierno 
pensatore fra noi — si guardano bene dal ritenere la propria 
opinione personale al di sopra delle condizioni universali in 
cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono, 
certo, di essere dei supermomini. 

È, dunque, evidente, che le leggi della grammatica, ben 
lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero, sono, 
invece, espressioni il più possibile adeguate e indispensabil- 
mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali espres- 
sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione del 
nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui 
siamo parte. E, si noti bene, tale collaborazione — onde la 
fissità ed universalità del linguaggio, nella immutabilità e 
universalità delle sue espressioni e delle sue forme logico- 
grammaticali — non riesce punto — come piace di opporre 
agl'intuizionisti — a ricoprire i nostri stati d’ animo più 
personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla 
società. 

In verità, questa preoccupazione — avvertita prima e 
più di ogni altro dal Bergson — è priva di ogni fondamento, 
in quanto i rigidi comuni schemi delle forme logico-gramma- 











SB) = 



































ticali in cui il pensiero, come contenuto rappresentativo, deve 
poter essere constretto, qualora voglia essere, davvero, stru- 


mento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad acqui. 


stargli — in quanto tale — valore universale e necessario — 
che altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe 
in niun altro modo avere — non riescono, peraltro, ad impe- 


dire affatto, anzi nè pure minimamente ostacolare, in quel È 
suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose, la naturale 
incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in realtà, | 
vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle 
particolarità che la distinguano nettamente da quella dello 
stesso pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur 
dire che la stessa particolare corrente di pensiero, che è È 
propria di ognuno di noi, può, con tutta facilità, variare da 
un tempo all’altro. E tali particolarità, che costituiscono 
— ‘accennavamo -— come una frangia od alone del pensiero, 
possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p 
al tono, per cui strumenti diversi possono riprodurre diver- 3 
samente lo stesso tono: ed il motto comune /o stile è l' uomo 
vuol esprimere, per l’ appunto, questa qualità individuale, 0, A 
dirò così, particolare colorito espressivo, che il pensiero, pur È 
nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0 significato — 
rappresentativo, tende ad assumere presso le singole menti, — 
onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o rico- 
noscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _ 
famigliari, oltre che le creature di Dante e di Shakespeare, 
e le figure di Leonardo e del Rembrandt, e i motivi di | 
Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da 
una medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, | 
quindi, una medesima impronta dele, come l’immagine 
dell'amore cantato da Dante nella Vita Nuova, e quel 
offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil nuovo, non meno 





de Tue 





che dal Petrarca nel suo Carzorziere e dallo Shelley nel suo 
Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata è 
la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e 
inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni 
intuitive. E poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più 
singolare sua tonalità individuale e la più sicura sua espres- 
sione caratteristica proprio nell’ àmbito della coltura — dove, 
appunto, vige assoluto l’imperio delle forme Jogico-gramma- 
ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza comune, in 
cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme, ragione 
per cui il parlare di due persone volgari od incolte presenta 
una uniformità o identità formale di espressione che invano 
noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più invano 
ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come 
un valente letterato ed un grande scienziato — non è gioco- 
forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben lungi 
dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza 
del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece, 
che, mediante, appunto, la infinita loro varietà d'’ intreccio, 
ed intreccio infinitamente variabile, offrono al pensiero di 
ogni singolo soggetto conoscente la più larga possibilità di 
rivelare ed affermare quella sua tendenza, nel tempo stesso 
che prendono ad acquistare alle sue intuizioni un valore 
universale e necessario ? 

Altrimenti come spiegare che cotale tendenza, se non 
manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto rimarchevole 
— come notavamo — nelle espressioni delle persone incolte, 
e manca, altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, igno- 
rano ancora l’uso delle forme logico-grammaticali? In ogni 
modo, non si può negare che pensare significa, in un certo 
senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così nel ragiona- 
mento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da un 





pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando — mo- 
strammo innanzi — gli elementi necessarî maggiormente 
rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti. E proprio in 
sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del sog- 
getto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza, 
la particolare tendenza espressiva di esso ; giacchè tale ten- 
denza si rivela precisamente nel configurare (e cioè coordi- 
nare e subordinare ch’esso fa) quegli elementi alla stregua, 
dirò, di un comune denominatore (e cioè dell’ essenza del 
reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di quel 
particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e 
colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im- 
posto dal carattere sentimentale proprio del soggetto cono- 
scente). Ed ecco, in tal modo, — per dirla con parole del 
Croce stesso — la ballatella di Guido Cavalcanti ed il sonetto | 
di Cecco Angiolieri, che sembrano il sospiro o il riso di un È 
istante; la Commedia di Dante, che pare riassumere in sè 
un millennio dello spirito umano; le Maccheronee di Merlin 
Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante ; la 


elegante traduzione cinquecentesca dell’ Ewesde di Annibal 
Caro; l’asciutta prosa del Sarpi e quella gesuitica frondosa | 
di Daniello Bartoli (1). 

Nessuna meraviglia, quindi, che cotal forma di pene. 
sare, propria di ognuno di noi, si rifletta persino nei singoli È 
frammenti delle nostre serie di pensieri, come non di rado 


ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno, nei 
quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di. 
pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos 


(1) Breviario «+ pag. 75. 











che noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od 
espressione di lingua straniera nella nostra, non devesi, forse, 
alla interrotta uniformità di stile o colorito espressivo ? E non 
è questa, altresi, la causa della gradevole sorpresa o disgusto, 
che, lungo il procedere discorsivo proprio di una scienza, ci 
procura così l’ incontro di frasi tutte proprie del dizionario 
di un’altra scienza, inserite o non a proposito, come l’uso 
di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica logica, 
dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mesco- 
lanza del parlare volgare col letterario non ci procura an- 
ch’essa disgusto per la medesima ragione ? 

Ora, se cotal naturale e, veramente, insopprimibile 
tendenza del pensiero a forme espressive individualmente 
caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur nella loro 
universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e raggiungere 
le più tipiche o singolari sue forme espressive precisamente 
nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme della 
grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione 
sine qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti, 
non si deve, per ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte 
norme sono, per lo meno, ben lontane dall’oscurare od assor- 
bire, nella loro universale uniformità, il particolare colorito 
espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E ciò stesso 
non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse 
possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche 
forme puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte 
al pensiero ? Giacchè, senza dubbio, in tal caso -— come 
giustamente opinano gl’ intuizionisti — esse sarebbero riu- 
scite o bene riuscirebbero — come ne fan prova le forme 
artificiose del Volapik dell Esperanto e dell’ Interlingua — 
ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza del pen- 
siero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrin- 








i de è; 


BYE 
























secarsi — è tutto dire — anche nei casi di natura patologica, 
I quali, invero, — a dissoluzione compiuta della personalità 
normale — ci fanno assistere, con tutta evidenza, alla for- o 
mazione di nuove personalità, che, indeterminate dapprima, 
si vanno, poscia, progressivamente affermando, fino ad assu- 
mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei soggetti 
ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos: 
sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto. 
ciò non deve necessariamente convincerci della naturale ragion 
d'essere delle forme logico-grammaticali, onde l'estrema assur- 
dità della pretesa di Benedetto Croce di volerle soppresse; 
il che egli credette di poter fare vietando, con un tratto 
penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole ? 
Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua 
mente, se questa avesse avuto il potere di accorgersi che sì 
fatte forme, oltre che esigenze fondamentali imprescindibili 
per la funzione d' intelligibilità del pensiero, sono, altresì, il 
fondamento stesso della esistenza di quest'ultimo, in quanto, 
appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del nostro fersare ? 
Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le forme 
logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere, 
in sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0! 
rapporti che intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi 
di esse, così come le singole voci o parole non sono che i 
termini puramente drdicazivi di esse cose, o dei singoli loro 
elementi? E come potrebbe, adunque, darsi conoscenza i 
intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle 
relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono 
i suoi stessi elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé 
intuizione, tutt'altra cosa che una sintesi, appunto, ri 
mente coerente di rapporti logici? E se, adunque, cote 
rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del nos 





TORRE 






pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella loro 
netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico, 
la più netta e precisa intelligibilità della realtà ? Nessuno, 
infatti, ignora la confusione od oscurità che, immancabile, 
procura al pensiero la insufficiente distinzione formale del 
valore logico-grammaticale di qualche termine del nostro 
pensare, come, ad esempio, quella che ricorre nel famoso 
responso dell'oracolo a Pirro, che gli aveva chiesto se sa- 
rebbe riuscito vincitore nella guerra contro i Romani : 


Aio te, Aeacide, Romanos vincere posse. 


E ciò — per di più — accade non solo in rapporto 
al valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che 
diciamo di anfibologia, ma in rapporto, altresì, allo stesso 
significato intuitivo della parola, e cioè anche nei casi in cui 
questa possiede un doppio significato, onde la famosa quanto 
ironica lode al debito del Berni: « Debito è fare altrui le 
cose oneste ...... dunque fare il debito è far bene ». Non 
solo: ma lo stesso ordine delle parole nel discorso non 
asconde anch'esso il suo valore logico ? Quante volte, infatti, 
il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per richia- 
mare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il 
valore in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le 
seguenti espressioni : « Mobile e grande, veramente, la per. 
sona del Re ! » ; « e/ix qui potuit rerum cognoscere causas » | 
Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto grammati- 
cale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! » ; 
« Tutti gli invitati sono arrivati », per dire appunto che 
« gli invitati che sono arrivati sono ## quelli che erano 
attesi ». Invece nella frase : « il danaro è dentro lo scrittoio », 
quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di maggior 
rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo 

























(danaro), come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio): 
tutto sta nel cogliere od indovinare il pensiero o l' inten: 
zione di colui che parla; ma dicendo io: « è dentro ll 
scrittoio il danaro », chi non comprende che l'elemento essen- 
ziale è, qui, serzitoio ? Ma potrebb’essere anche dezzro. 
non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e cioè in manca È. 
di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto occu 
pato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentua. 
zione 0 zoro, col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare 
la parola in questione, e cioè, nell'esempio addotto, accen- 
tuando la voce su dezaro, dentro, o scrittoto ? E se, adunque 
l’ intelligenza ha dovuto ricorrere fino a simili sottigliezze pe 
rendere la lingua più che mai duttile e perfettamente obbe 
diente ai più lievi moti del pensiero, non è semplicementi 
assurdo e ridevole, insieme, chiedere — come fanno gli 
intuizionisti — l'abolizione addirittura delle forme sin 
tico-grammaticali per l’espressione del nostro pensiero? E 
tuttavia, il tentativo di cotal soppressione non è stato, fors 
già, magnificamente compiuto dai rappresentanti del futurismo? 
E con quale risultato, per la funzione intelligibile del pen 





siero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di ammi 
rare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova 
letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei 
imintelligibilità delle loro espressioni. È 
Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso, co 
espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri 
gano, per davvero, assolutamente intraducibili ed inclas 
cabili? Ma è, dunque, sol perchè zrsntelligibili, come noi. 
affrettammo a dichiarare innanzi: onde la conseguenza = 
tangibile, ora, — che l'elemento veramente intraducibile 
in una forma di conoscenza dichiarata universale e neces 
saria, non può essere, e non è, che unicamente e precisi 


BOS 






mente il particolare colorito espressivo di ogni singolo soggetto 
conoscente, val quanto dire unicamente la sua forma mentis, 
e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue espressioni 


» 


o intuizioni, come sostiene il Croce. Altrimenti saremmo 
costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto dell’assoluta 
impossibilità di renderci, comunque, anche il significato ideale 
delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o colorito 
espressivo, potè, nondimeno, decidersi al tentativo di darci 
la traduzione — sia qualsivoglia il valore di questa — di 
talune liriche del Goethe: ed in tal caso a lui non rimar- 
rebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo 
tentativo — appunto perchè senza scopo di sorta —; oppure 
| confessare il proposito, da parte sua, di darci, a fianco o di È 
fronte all'opera d’arte dell’Apollo Musagete della Germania, DI 
un’altra opera d’arte non meno grande e perfetta di quella, E 
E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far passare s0//0 
il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue tradu- 
zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i 
mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi. 
muta, altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se, 
pertanto, il Croce credette di attribuire al Goethe e non a 
sè i fantasmi ideali o l’ ideale fantastico espresso da ognuna i 
di quelle liriche da lui tradotte, non, forse, ciò stesso vuol È 
| significare, anzi testimoniare, che l’ intraducibilità è solo della È 
forma espressiva e non già pure del suo contenuto rappre- 
sentativo, se questo vien senz'altro riconosciuto e dichiarato 
 dell’azzore e non già del traduttore? Se così, di fatti, non 


vaemtetizizo 


fosse, con qual miracolo di pensiero, egli proprio, accanito 


bi 


| assertore e propugnatore di cotal peregrina teoria dell’asso- 
luta intraducibilità del pensiero altrui, sarebbe mai giunto, 
poi, sino a distinguere addirittura dei « cicli progressivi » «i 


SENO 


di « prodotti estetici » inerenti ad una « wedesima materia », R 








=* 


sf 
Da 
= 





LL 
































come — ad esempio — la « materia cavalleresca durante 
la Rinascenza italiana dal Pulci all’ Ariosto »? Mentre, a 
rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi, 
non solo non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/% 
di nulla in un'opera d’arte, ma neppure la szessa maderia di 
un'opera da quella di un’altra; fino al punto che, qualsi 
distinzione — come, ad esempio, quella di attribuire il con- 
tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello dei 
Fioretti a Giovanni Boccaccio — sarebbe la più naturale e 
bene informata di questo mondo, precisamente come la su 
contraria ? È questo, infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile, 
cui direttamente mena <« l’ intraducibilità », nel senso inte 0 
dal Croce : esclusa, invero, assolutamente, la possibilità di una 
qualsiasi zota di contatto, dirò così, tra il contenuto dell’ o- 
pera originale e quello che noi da essa si ricava mediante 
la traduzione, è naturale che le due intuizioni debbano risul 
tare così fofo caelo diverse, come, anche, opposte, e nu È 
quindi, potrà logicamente vietarci, o, meglio, toglierci la 
convinzione di ricavar noi, per l'appunto, novelle del Boccacci 
dai Fioretti del Poverello di Assisi (o di chi altri si voglia 
cui questi appartengano), e viceversa. E si sa: di notte 
come affermava giustamente lo Hegel — dute le vae 
sono nere, 

In verità, però, bisogna riconoscere che il Croce, critico, 
in perfetta contradizione col Croce, teorico dell’arte, con u 
sforzo durato anche oltre venti anni, val quanto dirè 
tutto il meglio delle sue forze fisiche ed intellettuali, si. 
bene preoccupato e industriato, con tutta quella sua lur 
serie di saggi sulle più note o celebrate opere poetiche 
liane e straniere, di volerci non solo apprendere il particolare 
contenuto rappresentativo di ognuna di quelle, ma con la pre 
per di più, — e questa, per giunta, anche troppo evidente 


È: 


si 





22:97 es 





mente squarquoia, come risulta dai suoi scritti polemici, 
specialmente quello su l’arte del Pascoli, oltre che di Dante, 
Leopardi, Carducci ecc. — di dover noi unicamente & luz 
il concetto di quella che è la vera forma d'arte e sigr- 
ficato ideale, insieme, di tutte quelle opere, su cui egli prese 
a rivolgere l'arco iridato del suo pensiero. 

Ma, dunque, è bene possibile cogliere e fissare, colle 
forme (categorie) e nelle forme (espressioni) del proprio pen- 
siero, le forme di pensiero ed il pensiero altrui. Ma non è 
ciò precisamente tradurre? E se, pertanto, la traduzione di 
un’opera d’arte riesce — allorchè riesce, giacchè non sempre 
ed assolutamente, come arbitrariamente, anche, ritiene il 
Croce — un’altra opera d’arte accanto alla prima — come, 
ad esempio, la traduzione dell’ //zagde nei magnifici endeca- 
sillabi del Monti, o quella delle tragedie greche nei versi 
non meno stupendi del Romagnoli — non è appunto e solo 
allorquando il contenuto rappresentativo dell’opera d’ arte, 
che si vuol tradurre, trova, nella logica della forma dell'altra 
lingua, in cui quel contenuto si vuol tradurre, il più fedele 
rispecchiamento ideale? Giacchè, in tal caso, mentre il valore 
logico delle più diverse determinazioni del reale (val quanto 
dire dei più diversi rapporti logici) non muta da soggetto a 
soggetto, non meno che da lingua a lingua, non ostante la 
più sensibile varietà di espressioni, che — specie nel secondo 
caso -— tali rapporti possono venir assumendo nella lor forma 
ed atteggiamento esteriori, muta bene, però — in conformità 
delle mutate norme sintattico-grammaticali, a cui le mutate 
espressioni son costrette ad obbedire, nella propria lor lingua 
— l'unità sintetica di quelle determinazioni, onde una nuova 
immagine intuitiva, che, mentre nella sua estrinseca forma 
espressiva è del tutto diversa dall'altra, nel suo intrinseco 
contenuto ideale vale o coincide perfettamente con quello del- 







































l’altra. Ed, anzi, quanto più il contenuto rappresentativo della 
traduzione rispecchia fedelmente, nei suoi proprî atteggia- 
menti logico-grammaticali, il contenuto dell’ opera originaria, $ 
tanto più il valore conoscitivo dell’opera d'arte ceo 
dalla prima si identifica con quello di quest'ultima, non senza. 
la possibilità di giungere fino a superarlo, anche, come non di H 
rado, e principalmente, accade — a parte ogni altra ragione | 
.— proprio nei casi di maggiore compiutezza o adeguatezza 
logico-formale posseduta dalla lingua della traduzione in con- 4 
fronto di quella da cui si traduce, onde una maggiore pre» 
cisione o più limpida trasparenza di concetti. Perciò la pretesa | 
di mantenere nella traduzione la stessa forma espressiva 
logico-grammaticale dell'opera che si vuol tradurre è sem. 
plicemente assurda, non solo per codeste differenze formali. 
— bene spesso profonde, come sappiamo — che distinguono 
l'organismo sintattico-grammaticale di una lingua in confronto 
di quello di un’altra, quanto, e più, pel fatto che non in tutte. 
le lingue — come si accennava testà — gli atteggiamenti : 
del pensiero sono espressi ugualmente bene, ma con par 
colare perfezione od imperfezione, perchè nessuna lingua 
può dirsi — è sempre ed in tutto un'espressione perfett 
una, infatti, lascia più indovinare, un'altra, invece, è più chiara 
ed esplicita; questa dà maggiore importanza a certe form 
quella ad altre; taluna predilige forme complesse, tal’altr. 
la semplificazione e lascia cadere gli elementi che non son: 
strettamente necessarî. È, quindi, naturale che solo punto 
convegno, a dir così, o d’ zreesa tra le più diverse lingue n | 
rimanga che il contenuto oggettivo della coscienza : € cioè 
pensiero o concetto, che, in quanto adeguatamente espr 
dalla particolare forma logico-grammaticale propria di o, 
lingua, non può, per ciò stesso, non rimanere necessariali 
valido per #wtte Je intelligenze. E, in verità, il Croce stes 





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non finisce col riconoscere che « pittura e poesia non valgono 
pei suoni che battono l’aria e pei colori che si rifrangono 
dalla luce, ma per ciò che essi sazzo dire allo spirito » (1): 
e cioè appunto pel significato o concetto espresso dalla figu- 
razione intuitiva, più che per la particolare /ovrzure formale 
ond’esso emerge, a dir così? 

Risulta, dunque, del tutto evidente, che, come la sta- 
bilità di significato delle singole parole od espressioni verbali 
non esclude punto il concetto dello stato #2 fierî o del di- 
venire della realtà, così Ja fissità delle forme logico-gram- 
maticali non impedisce affatto al linguaggio di assumere 
liberamente, e a pieno, presso ogni singolo soggetto cono- 
scente, il più individuale o caratteristico colorito espressivo. 
E, per ciò, ogni lingua, pur essendo, a dir così, un quadro 
mentale prestabilito, secondo cui il pensiero di ogni soggetto 
conoscente è inevitabilmente destinato a formarsi — appunto 
perchè frutto, tal quadro, della sistemazione, notammo, e 
quasi consolidamento del lavoro di assimilazione e differen- 
ziazione che la razza vien compiendo, nei secoli, del proprio 
pensiero — essa, tuttavia, non esclude affatto che ogni cor- 
rente di pensiero rechi e rifletta, chiara e distinta, nella 
sua forma e nel suo zoro, e cioè nella particolare maniera 
ond'essa s’intesse, si svolge, si snoda e si colora — in virtù 
della particolare forza intellettiva onde scaturisce, non meno 
che dei particolari toni emotivi ed impulsi volitivi che l’ac- 
compagnano e sospingono — quell’ impronta personale o 
particolare Sti2wung propria di ogni soggetto conoscente. 
E poichè, intanto, ciò che dà valore alla lingua, o ha va- 
lore nel linguaggio è precisamente od essenzialmente — 








(1) Breviario è pag. y1. 














































Cate — 

come abbiamo potuto convincerci a pieno sin qui — il suo 

carattere logico, che — notammo — si rivela tangibile nella | 
* 


connessione delle parole nelle proposizioni, nei rapporti sin- 
tattici tra esse e nel pensiero che quelle connessioni e questi 
rapporti esprimono, come si può mai credere al Croce che _ 
l’arte, e cioè le forme più adeguatamente o tipicamente — 
espressive della conoscenza intuitiva debbano andar fr2ve di 
« elementi logici », nè più nè meno che quelle espressioni — 
puramente pratiche che furono le prime manifestazioni di 
ogni lingua, e che il Croce pel primo ritiene 207 arte 0 won 
conoscenza ? Abbiamo visto, infatti, rintracciando l'origine, 
l'essenza e lo sviluppo del linguaggio, che questo, nato sotto È 
la pressione di un bisogno puramente pratico, fu ben lungi 
dal divenire mezzo o strumento di conoscenza fino a quando, 
privo di forme grammaticali vere e proprie, rimase la ma- 
nifestazione pura e semplice delle più impellenti necessità 
della vita — in quanto immediatamente e sostanzialmente. 
diretto alla mera indicazione delle cose a questa necessarie. 
— più che una sintesi di relazioni logiche, in conformità. 
della naturale tendenza del pensiero — come attività cono- 
scitiva, veramente, — alla espressione del rapporto, e cioè, 
appunto, alla conoscenza vera e propria delle cose. Ora, s 
la conoscenza intuitiva, nella sua sizesî di determinazioni. 
della realtà, è, con tutta evidenza, non altro che un 07, 
nismo di elementi logici, e, per giunta, quanto maggio 
necessariamente, è il numero e la coerenza di tali element 
tanto maggiore è l'adeguatezza dell'espressione all’ esse 
intima del reale, e cioè il valore conoscitivo della immagine 
intuitiva, la quale, infatti, ci mostra, così, il reale più 
piamente aperto sulla vita dell' universale, come si può, 
senza voler semplicemente capovolgere o stravolgere il vi 
alla verità — asseverare il contrario : cioè vedere nell’asse 








o E 


addirittura di elementi logici — in una immagine intuitiva 
— il valore perfettamente conoscitivo di questa? Ma tale 
affermazione non si riduce, fra altro, ad una mera contra- 
dizione 22 ferminis? Posto, infatti, che l’ intuizione — per 
costante affermazione del Croce stesso — è unicamente nella 
più piena adeguatezza dell’ espressione all’ impressione, e 
l’espressione, a sua volta, — anche per affermazione di lui 
— non è che sirzesi di rapporti logici, come può darsi mai 
piena o perfetta conoscenza intuitiva fuor: o senza tali rap- 
porti? Aveva, dunque, ben ragione il Guyau di affermare 
che il nostro parlare, per l’ intervento, appunto, sempre più 
pieno e più diretto del pezsiero e del fattore sociale, diviene 
ognora « più poetico », e cioè più intensamente intuitivo, 
precisamente pel singolare « effetto significativo e soprat- 
tutto suggestivo » prodotto dal pieno adattamento o rispon- 
denza della forma al contenuto, del ritmo e delle immagini 
alla commozione del pensiero (1): il che devesi, di conse- 
guenza, alla maggiore semplicità logica raggiunta dal lin- 
guaggio. Non, infatti, è vero che il senso più profondo in 
poesia appartiene proprio alla parola od espressione più sem- 
plice? Ma è una semplicità — bene inteso — questa del 
linguaggio, che, più che escludere, include, per contrario, la più 
larga ricchezza e infinita complessità di pensiero : è, infatti, 
il semplice della tenue goccia d’acqua che cade dalla nuvola, 
e che, intanto, ha avuto bisogno, per formarsi, di tutte le 
profondità del cielo e del mare; è la semplicità del timbro 
di una voce, che è il risultato o il concerto di innumerevoli 
suoni: è questa la semplicità della lingua o del pensiero: 
la stessa semplicità sovrana della natura. 





(1) L’art au point de vue sociologigue; Alcan, Paris. 








E poichè, pertanto, noi -— come soggetti conoscitivi 00 






















diveniamo sempre più, coll’esperienza, strumenti, a dir così, 
di sempre più ampia e più limpida sonorità spirituale, sì da 
non poter esser tocchi senza rendere ognuno — secondo il 
proprio #725ro intellettivo — dei suoni di valore conoscitivo, 
è facile supporre, o conseguente ammettere, che, progressi. 
vamente, ogni nostro detto o fatto verrà acquistando sempre 
più il carattere sacro della bellezza, e, quindi, della verità. 
Ed è naturale: giacchè, aumentando sempre più, nella vita 
di ciascuno di noi, la parte od il possesso dell’ idea — in | 
quanto espressione, questa, di una coscienza universale, in 
cui sono più o meno riconciliate le coscienze individuali — 
aumenterà, di conseguenza, il dominio di quell’universale, 
che tende, invincibile, a predominare nell’ individuo, onde il. ] 


— e del Bello e del Vero, nel tempo stesso che del Bene, 
come, in loro esperienza, ci attestano gli stessi spiriti beati, 4 
del Paradiso dantesco : 


ego quanto più si dice..... « nostro » 
Tanto possiede più di ben ciascuno (1). 





E non l’avvertì, fors'anche, il Croce stesso ? Indirizzata 





com'è la vita « verso una più sana e profonda moralità 





essa sarà madre di un'arte più nobile ». E non può essere, Li 
in verità, altrimenti: posto, infatti, che la realtà — per dirla 


(1) V. a tal riguardo, quanto con tutta ampiezza scrivemmo nel nostro. 
saggio d’ interpetrazione filosofica della storia : La guerra e gli ideali della Vita; — 
Fratelli Treves, Milano, 1918. 





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fetta; e ciò « non propter fastidium formae quam habet, sed 
quia sub quacumque forma sit, adhuc remanet in potentia 
ad aliam formam ». Nessuna meraviglia, quindi, che quella 
« melodia continua », ch'è la nostra vita interiore, possa 
divenire sempre più limpidamente sonora ed armoniosa, a 
misura che la nostra esistenza cosciente riesca ad appuntarsi 
o raccogliere in forme od espressioni sempre più altamente 


compiute — e, quindi, ognora più universalmente valide, — 
della nostra personalità. 
E, pertanto, chi prima del Vico — quantunque vaga- 


mente, o senza vederne tutta la immensa portata filosofica 
e profondo valore gnoseologico — riuscì ad intuire tale verità, 
che, strettamente ricollegandosi — sì da formarne addirittura 
il segreto — a quella ch'egli giustamente ritenne e disse la 
« chiave maestra » dell’opera sua — quale, appunto, il prin- 
cipio inteso a mostrarci l'origine e la natura essenzialmente 
poetica, o per immagini, della conoscenza intuitiva — solo ci 
consente di penetrare a fondo e cogliere a pieno l’ intimo 
significato e preciso valore della sua « filosofia e storia delle 
lingue », non meno che di tutta la Sciezza Nuova, di cui, 
in realtà, la prima forma « quasi tutto il corpo » ? E se, 
pertanto, non è da meravigliare che nessuno di tutti gli 
studiosi del Vico, nostrani e stranieri, sia riuscito, sin qui, 
anche solo a supporre un segreto in quella chiave, dato che 
esso sfuggì alla piena consapevolezza del Vico stesso — 
precisamente come al Comte sfuggì il segreto, ritrovato 
solo più tardi da un suo discepolo, il Littré, onde trasse 
consistenza e valore la sua classificazione delle scienze — come 
non meravigliarsi, però, e a pieno, della estrema leggerezza 
e inconsapevolezza con cui il Croce ha preso a respingere, 
come un qualsiasi ferramento vecchio del tutto inservibile, 
la chiave per sè stessa, non ostante la precisa e insistente 








Di 
D- 





2h 




























affermazione del Nostro, ch’essa è il « principio primo >» della. 
sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io 
mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin- 
cipio ha tratto il Croce — il preteso interprete autorizzato | 
della dottrina vichiana : autorizzato a giudizio suo proprio, 
o di chiunque si voglia — a non comprendere aftatto nulla 
di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non solo a falsarla 
nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla, altresì, — 
di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò — 
rapidissimamente, con l’opera del Vico in una mano, e quella 3 
del Croce nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin- 
cersi, ancora una volta, come, in realtà, sia proprio nell’ 
abito mentale di quest'ultimo interpetrare @ suo 2040, e cioè | 
nella maniera più capricciosa ed arbitraria — per le ragioni | 
più volte dette innanzi — il pensiero degli scrittori di cui | 
si occupa, e specie allorquando l’opera di questi rientra più 
direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o delle 
dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’ altro 
l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in particolar 
modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere ji 
la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio — proprio come 
il Vico — col ricordare loro la necessità o bisogno da questi 
avvertito — prima di entrare nella diretta trattazione dell’ | 
opera sua — di far notare al lettore come il « sistema Na: 
turale del diritto delle nazioni » di tutti e tre i più celebri | 
uomini del suo tempo — Grozio, Seldeno e Pufendorfio — 
debba — a parere di lui — il suo più grave « difetto » al fatto. 
che nessuno dei tre « pensò stabilirlo sopra la Provvedenza 
divina » (1). Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente | 
« le vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe 


(1) Principi di Scienza Nuova © I, p. 17; a cura di G. Ferrari, Milano, "A 
1843. +4 


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67 — 





e concerne « religione, lingue, costumanze, legge, società, g0- 
verno, domicilio, commerci, ordini, imperj, giudici, pene, guerra, 
pace, rese, schiaviti, allianse » (1), insomma duéte le cose divine 
e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente, ricercare 
ed ammettere / idea di un ordine universale ed eterno (2). 
Altrimenti, come spiegare quel « senso comune del genere 
umano », o — che è lo stesso — quella « certa mente 
umana delle nazioni » (3), che, « usando... per me227 quegli 
particolari fini » perseguiti dai singoli individui e « per i 
quali... essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini, « fuori 
e bene spesso contro ogni... proposito » degli individui 
stessi, « a un fine wziversale » (4)? Non è, quindi, da me- 
ravigliare che cotale /dea, sotto l'aspetto, appunto, di Pyrov- 
vedenza ordinatrice di tutto il diritto natural delle nazioni (5), 
debba necessariamente rimanere « /a fri2a — o principal 
fondamento — di ogni qualunque lavoro » del genere (6), e, 
per ciò, essa non manca, e tale « si dimostra per tutta 
l’opera » sua (7). 

Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu- 
ralmente, non possedere due « propietà primarie », che sono: 
« una /’immutabilità (o necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs- 
versalità » (8); giacchè solo in forza di codeste proprietà potè 
venir concesso ad essa « Provvedenza », o « Divina archi- 
tetta » di « mandar fuori il mondo delle nazioni colla regola 
della sapienza volgare » : e cioè di quel « senso comune — 


(1) Ibid. p. 19. 
(2) Ibid. p. 20. 
(3) Ibid. p. 36. 
(4) Ibid. pp. 44 e 45. 
(5) Ibid. p. 45. 
(6) Ibid, p. 43. 
(7) Inid. p. 45. 
(8) Ibid. p. 48. 






























come dicemmo — di ciascun popolo o nazione, che rego. 
la nostra vita socievole in tutte le nostre umane azioni, così 
che facciano acconcezza in ciò che ne sentono comunemente 
tutti di quel popolo o nazione. La convenienza, — poscia — 
di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è 
la sapienza del genere umano » (1). La quale, per ciò, 
mane, evidentemente, come il principio informatore « delle 
utilità o necessità umane uniformemente comuni a tutte le. 
particolari nature degli uomini » (2): il frutto — avrebbe. 
qui detto lo Hegel — dell'astuzia della ragione. Giacchè, n 
sostanza, cotal « principio universale », o Divina Provvi- 
denza, non è, pel Nostro, che, per l'appunto, « / agwadità 
dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera ed eterna natu 
umana » (3): val quanto dire, più semplicemente, « 2° 
dello spirito », il quale soltanto, in verità, è il princi 
reale ed assoluto che « informa e dà vita a questo mondo 
di Nazioni » (4). 

E, poichè, intanto, la lingua è l’espressione più univer. 
salmente intelligibile e sicura dell'attività spirituale, è 
turale e conseguente ammettere, che, qualora essa voglia 
rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente e e- 
cessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir 
caratteri, o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi 
tuale. Onde la necessità — intesa bene dal Vico — di 
collegare — com'egli fa — i due motti che per lui voglio 
rispettivamente esprimere il carattere di universalità e ne 


di 
(1) Ibid. p. 46. Cfr. anche Degnità XIII : « Il senso comune è un giudi; 
senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine, da tutto | 
popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano ». 
(2) Ibid. p. 46. 
(3) Ibid. p. 178. 
(4) Principi di Scienza Nuova Il, p. 226, vol. 2°, Ed. Gaspare Truffi 
Milano, 1830. 


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cessità del linguaggio: «a /ove principium Musae » — col 

quale, addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as 

gentium, © sia la favella immutabile delle nazioni », a quel- 
l’altro motto, espressivo dell'universal principio ch'è lo spirito : 

« Jovis omnia plena ». 

Ed ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa » in questi tre 
motti — i*primi due dei quali, già, possono dirsi bene sot- 
tintesi, o sinteticamente ricompresi dall’ ultimo — quella 
chiave maestra, — l’espressione per immagini allegoriche —, 
col suo mirabile segreto, — il carattere di unzversalità —, 
che ci consente, senza dubbio, la più coerente e stupenda 
visione sistematica di tutto quel complesso di verità e prove 

ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della lingua, 

che ci rivelò e dette, davvero, una scienza z%ova. 

E, in realtà, non si può negare che il carattere o va- 
lore intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva, 
. ch’è lo stesso, è strettamente dipendente e correlativo alle 
« modificazioni della nostra medesima Mente umana » (1). 
E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso 
tre fasi — che preannunziano i #re stati del Comte —, non 
sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi 
di conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima età, 
detta « divina », in quanto « comincia dagli Dei », « con 
gli auspici di Giove », e, fatta, per ciò, tutta di « parlari 
divini... ritruovati dai Poeti Teologhi », che ben « s' inten- 
devano del parlare dei Dei » (2). E quest'età « continuan- 
dosi — in un secondo momento — per g/i ZEro:, » dette 
luogo alla « sapienza eroica », per ricongiungersi, infine, 
« col tempo storico certo delle nazioni » ; tempo in cui si 





(1) II p. 178 Vol. I°. 
(2) I pp, 193 e 226; II p. 221, Vol. I°. 








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ebbero, appunto, quei « parlari per rapporti naturali, che 
dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono espri- 
mere : della qual lingua si ritruovarono già forniti i Dopo 
greci a’ tempi di Omero » (1). i 

Ora il Croce non ha del tutto schernevolmente quanto 
inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta | 
distinzione del Vico, distinzione che pure involgé od esprime, | 
in realtà, la norma e forma, insieme, veramente fondamen- 
tale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della cono- 
scenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della. 
nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico, 
tenendo bene presenti le premesse da noi dianzi a bella. 
posta richiamate della sua dottrina ? Semplicemente questo. 
— com’ egli, poscia, in lungo e in largo si affretta a chife 
rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua —: che i primi 
uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti, non 
potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo 
— precisamente come «i Mutoli » — a « cose ed atti che 
avevano naturali rapporti all’idee che essi volevano signi 
ficare », come, per l’ appunto, ci provano le « cinque parole 
reali » con cui Idantura, Re degli Sciti, rispose a Dario 
Maggiore, che gli aveva intimato guerra (2) Man man 


(1) II, pp. 193 e 226 vol. 1°. E qui, molto acutamente, il Vico nota: e 
« avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia ognun pretese essere Omero s 
cittadino », fu appunto perchè, avendo questi /essuzo i suoi poemi con i mig 
parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo avvertì in questi poemi « i suoi nai 
parlari », onde ritenne Omero della propria terra : il che val quanto dire: 
carattere più universalmente espressivo acquistato, appunto, dalla lingua 
quest’ultimo in confronto di quella di ogni altro del suo tempo. 

(2) Le cinque parole reali furono: una ranocchia, un topo, un uccello, 
dente d’aratro ed un arco da saettare. « La ranocchia significava ch’ esso 
nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo 1’ està, 
ranocchie e di esser figliuolo di quella Terra ; il 4050 significava, esso € 
topo dov'era nato, aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece 





SME 





però, il genere umano, venendo in possesso della favella, 
cominciò a sostituire alle immagini yea/ delle cose le im- 
magini 272424ve di esse (1). E però — s'intende di leggieri — 
queste non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente in- 
telligibili fer #/#, qualora non avessero avuto a fondamento 
un'idea universale, 0 un « pensiero (a tutti) comune », come, 
per l'appunto, « una qualche cognizione di Dio o della Divina 
Provvedenza », di cui, certo, essuzo andava privo. E quale 
idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune, 
di quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci 
d’universali » (2)? Ed ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto 
il suo valore gnoseologico, il segreto della « chiave maestra >» 
dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in funzione di cate- 
goria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di universalità. 
E così « Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere Divino 


significava, avere in esso gli auspici, cioè.., che non era ad altri soggetto che 
a Dio; /’aratro significava aver esso ridutto quelle terre a coltura, e di averle 
dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco da saeffare significava 
ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi da doverla e poterla 
difendere ». In conclusione, egli, Dario, « contro la ragione delle genti », gli 
avrebbe portata la guerra (II, vol. I° p. 265 e I, pp. 230-31). 

(1) Veggasi Degnîtà LVII, in fine: « Alla qual FaveZla Naturale (per atti 
o scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) do- 
vette succedere la Zocuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni, 
e naturali propietà ». Questa Degnità è anche il « Principio dei geroglifici, 
coi quali si trovano aver parlato tutte le Nazioni, nella loro prima barbarie ».. 

(2) II, vol. I p. 185. E cfr. anche Degnità XIII: Zdee uniformi nate appo 
întieri popoli tra essi loro #0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di 
vero. Ed altrove: « Col carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î 
pensieri umani della Gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua arti- 
colata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente 
i fanciullini: ed esso Giove fu da’ Latini dal Yragor del tuono detto dapprima 
Iovis; dal fischio del fw/mine, da’ Greci fu detto Zi03; dal suono che dà il 
fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde venne Urim, 
la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’ Greci venir detto 
Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare ». E così via ancora, per 
lunghe pagine (II, vol. I°: p. 280 e seg. € Ibid. p. 317). 


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ovvero Universale Fantastico a cui riducevano tutte le cose degli 
auspici tutte le antiche Nazioni Gentili ; che tutte per ciò dovet- 
tero essere fer nature poetiche ; ed incominciarono così la 
Sapienza Poetica da questa Poetica Metafisica di contemplare. 
Dio per l'attributo della sua Provvedenza » (1). E come 
sarebbe stato possibile altrimenti, se i primi uomini, fanciulli 
quali erano del genere umano, non potevano, per ciò stesso, | 
esser « capaci di formare è generi intellegibili delle cose » ? | 
Onde la « naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che 
— come dicevamo testè — sono generi o zz/versali fantastici. 
da ridurvi come a Modello, o pure 77/ra/# ideali, tutte le spezie 
particolari a ciascuno suo genere simiglianti » (2). E nel tempo 
stesso che fantastici, cotali predicamenti generali od univer- 
sali delle cose, non erano, anche, metaforici, appunto perchè 
per trasporto di qualità divine ; come nel periodo successivo. 
furono per érasporto di attributi eroici, sulla « falsa opi- 
nione gli Eroi provenir da divina origine » (3)? Necessaria» 
mente, per ciò, la « Poesia », o « Locuzione poetica », delle. 
due prime età — la divina e la eroica — non potè non essere. 
« fantastica », e, quindi, « un'allegoria perpetua », ovvero 
quella « immensa metafora... la più sublime di quante 
ne formarono appresso : che il mondo e tutta la natura pos. 
un gran corpo intelligente che parlasse con parole reali » (4). 


(1) II, p. 221 vol. I°. La quale — continua altrove — « fu appellata 
vinità da divinare indovinare, ovvero intendere o ’l1 nascosto degli uon 
ch’ è l'avvenire o ’1 nascosto degli uomini ch’ è la coscienza » (Ibid. pp. 
e 189). 

(2) II, p. 143 vol. I°. 

(3) II, p. 140 vol. T°. ° 

(4) I, pp. 192-193. E proprio « qui — osserva altrove — si scuopre i 
primo grave principio delle favole poetiche, in quanto elleno sono caratteri 
sostanze corporee immaginate intelligenti, spiegantine i loro effetti corpo ei 
per mezzo delle modificazioni dei nostri animi umani », come dinanzi si ac- 
cennava. (I, 185-186). i 





RIS 





E, per ciò, « il primo parlare... non fu un parlare secondo 
la natura delle cose... ma un parlare fantastico per sostanze 
animate, la maggior parte immaginate divine » (1). Di con- 
seguenza non si può non convenire che codesto « più sublime 
lavoro », o mo’ di pensare degli uomini delle due prime età, 
appunto perchè « fto contrario — per non aver essi potuto 
« far uso dell’ intendimento » — a quello di coloro (della 
terza età), che 2rcominciarono a umanamente pensare », fu 
semplicemente un e persare da bestie » (2). Perchè « come 
la Metafisica ragionata insegna che Homo intelligendo fit 
omnia (precisamente come Dio, che nel suo purissimo inten- 
dimento conosce, e comoscendole crea le cose, dicemmo innanzi); 
così questa AZetafisica Fantastica dimostra che 4omo non in- 
telligendo fit omnia » (3). Tuttavia bisogna pur riconoscere 
che senza il pensiero comune della Divinità, i successivi 
« parlari convenuti », o forme espressive universalmente 
intelligibili, « non sarebbono nate » (4). 

E, però, via via, collo sviluppo della intelligenza, è 
naturale che, sia cotesto « forte inganno di fantasia », cui 
furon tratti gli uomini della prima età (col dare a’ corpi 
l'essere di sostanze animate di Dei) dalla stessa lor natura, 
in quanto dotata appunto di « robustissima fantasia e debo- 


(1) II, p. 237, vol. I°. 

(2) II, pp. 185-186 e 288 del vol. I°. E si noti che il corsivo — come 
sempre — è dell’autore. 

(3) Ibid. p. 241. ì 

(41 I, p. 220. Per ciò Varrone « per li Zafiri..... ebbe la diligenza di rac- 
cogliere trentamila Dei; che dovettero bastare per un copioso Vocabolario 
Divino da spiegare le genti del Lazio tutte le loro disogre ware, che in que’ 
tempi semplici e parchi dovetter essere pochissime, perch’erano le sole neces- 
sarie alla vita: anco i Greci ne numerarono trentamila, come nelle Degnità 
pur si è detto, i quali d’ogni sasso, di ogni fonte o ruscello, d’ogni pianta, 
d'ogni scoglio fecero Deitadi » (II, pp. 268-69 vol. I°) E si continua a lungo 


così. 
ind 








= 7a 




























*o 


lissimo raziocinio », oltre che, « tutta fiera ed immane » ed. 
agitata da « violentissime passioni »; sia l'errore « della. 
seconda età, in cui gli uomini si tennero figli di quei me-. 
desimi Dei, ch’'essi stessi si avevano /i24 », non potettero 
non venir discoperti e considerati tali dalla « terza natura » 
di uomini. Natura tutta « mara intelligente... ragionevole », 
che, per ciò, oltre a guardarsi dal « ripetere » il precedente 
« pensiero », e cioè ricadere nel medesimo #rgarzo, od 
errore, cominciò, altresì, a porre « modo e misura » alle 
sue « passioni bestiali », onde si ebbe il « corazo, il quale 
è propio dell'umana volontà di tenere in freno i moti im È 
pressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetarli, ch’ è 
dell'Uomo Sapiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi. 
migliori, ch'è dell'Uomo Civile » (1). È 

Cominciarono così gli uomini « a passare dall’ error 
ferino all'umanità » (2), e, per ciò, non più Dei, non più 
Eroi, « #2 luogo di principii, » delle cose (3), ma « la. 
coscienza, la ragione, il dovere » (4); e, di conseguenza, non 
più « tropi poetici », o traslati, ma « parlari fer radpo 
naturali »; val quanto dire, diretta dipintura delle medesi 
cose che si volevano esprimere. Ma come non dire, allor: 
fatte ad arte, o « con arte », cotali immagini « in un ce 
modo reali » delle cose, — e non più del tutto irreali 
fantastiche, come le precedenti —, in quanto frutto, eviden 
ora, non solo di « riposta sapienza », ma eziandio, e sopri 
tutto, di profonda « meditazione », o riflessione, da pa 
della mente umana, vélta, per l'appunto, alla ricerca de 
« cagioni naturali delle cose », onde l’ immagine 707%, 


(1) II. p. 228, vol. II°; e p. 186, vol. I°, 
(2) I, p. 214. 

(3) Ibid. p. 79. 

(4) II, p. 228, vol. I°, 





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a I 





non più metaforica, di queste? Il ricercare, infatti, e ritrovare 
« in ciascheduna cosa..... tutto quanto in quella è », non è 
« arte » o frutto d’ arte (1) ? Fu proprio, invero « la topica », 
che, « insegnando i /zogki che si devono scorrere zi, per 
conoscere tutto quanto vi è nella cosa, che si vuol dere, 
ovvero uffa conoscere », « primieramente cominciò a diroz- 
zare... e ben regolare la prima operazione della nostra 
mente » (2). La quale, facendosi, così, « imitatrice della 
natura », e cioè ricercando, appunto, l’ intimo segreto potere 
creatore di quest’ ultima, non potè, naturalmente, non divenire 
potenza creatrice al par d’essa; val quanto dire, riuscir a 
creare anch’ essa precisamente ex amalogia universi, e non 
già più Aominis. 

E si può negare, infatti, che la conoscenza è soltanto 
« per causas scire » ? 

E conoscere la causa delle cose, non è saperla mandare 
ad effetto? È, dunque, evidente, che l’uomo, o la mente, 
che venga, in realtà, a raggiungere il vero delle cose, riesce, 
in sostanza, a farle o crearle: « ita apud homines sit compa- 
ratum, vera quae cognoscimus, effecisse ». E si può, intanto, 
pretender, mai, sì fatta conoscenza, dalla mente umana 
allorchè « rovesciata nell’ignoranza di tutte le cose », come, 
in particolar modo, dovè essere quella dei primi uomini, 
fanciulli del genere umano? Si dovrebbe, allora, prendere a 
negar senz'altro « questa Metafisica verità »: che « gli 
uomini ignoranti delle cose ove ne vogliono fare idea, sono 
naturalmente portati a concepirle per simiglianza di cose 


(1) L’Autobiografia ec. (a cura di B. Croce) p. 14; Laterza, Bari. 

(2) II, p. 314, vol. I°. E continua: « La Provvedenza ben consigliò alle 
cose umane col promuovere nelle umane menti prima la Topica, che la Critica, 
siccome prima è conoscere poi giudicare delle cose; perchè ‘la Topica è la 
facultà di far le menti ingegnose, siccome la critica è di farle esatfe ». 





































OR 


conosciute ; ed ove non ne hanno essi copia, l’ estimano dalla | 
loro propria natura; e perchè la natura a noi più conosciuta 
sono le nostre propietà, quindi alle cose znsensate e brute 
danno w2080, senso e ragione ». Così — ad esempio — gli 
uomini della seconda età, « zz0x sappiendo la cagione del ful- 
mine », « immaginarono il cielo un vasto corpo animato, che | 
urlando, brontolando, fremendo, volesse dir qualcosa », come, ì. 
tuttodi, il volgo « dice... la calamita essere innammorata del 
ferro ». « Ed ove — ancora — queste propietà non soccor- 
rano, le concepiscono per sostanze intelligenti » : sicchè, tutto 


sommato, l’uomo ignorante « fa sè regola dello universo » add 
E negare tale verità non sarebbe, semplicemente, come negare — 
che « l’abicì è il principio della grammatica », come « le | 
forme geometriche... della geometria (2), dato che per « questa 
scienza », ch'è la « filosofia e storia del linguaggio », cotal 
Metafisica verità è precisamente « il primo principio » ol 
« l’abicì » di essa? Per ciò la si disse, anche, « chiave. 
maestra » dell’opera. i 

Ora, avendo il Croce preso a respingere, sic et simepliciter, i 
cotale chiave, o principio, non avendone affatto compreso 6 
l'intimo significato filosofico e particolare valore conoscitive 3 
qual meraviglia che non sia riuscito a comprendere più nu 
della dottrina estetica del Vico, come ampiamente proveremo 
in altro nostro lavoro ad #oc? | 

E sì che tale verità costò ben « venti anni di una. 
continova ed aspra meditazione » al Nostro, sia pure p 
averla egli cercata a traverso una via lunghissima: que 
dell’ esame e studio — com'egli ci disse — di 4uéte le ce 
divine e umane. Mentre essa balzò, agli occhi nostri, i 


mediata e tangibile, nel cercar, che facevamo, di dete 





(1) I, p. gr e 185-186; II, p. 136, vol. I. 
(2) I, p. 189. 





St, IA 





nare il valore logico-conoscitivo delle immagini intuitive del 
nostro pensiero, per provare al Croce che queste ultime, ben 
lungi, veramente, dall’ essere quelle forme alogiche ch' egli 
assevera, e cioè fatte di puro sentimento e fantasia, senza 
alcuna riflessione, o moto di fersiero, sono, per contrario, 
essenzialmente, il prodotto di due rigide e complesse forme 
di ragionamento : l° analogico e linduttivo; onde, rispettiva- 
mente, intuizioni, o immagini metaforiche, o traslati, e intui- 
zioni, o immagini proprie. E poichè il fersiero è costretto 
a ricorrere al ragionamento analogico, o per simiglianza di 
cose conosciute, — per dirla stupendamente col Nostro — proprio 
allorchè esso ignora completamente, o non ha cognizione o 
elemento cognitivo di sorta del fenomeno od obietto che 
vuol conoscere, è naturale che l’immagine intuitiva, che, in 
tal caso, noi si riesce ad avere di esso, non possa, essere, 
di necessità, che metaforica, ovvero per trasporto di attributi 
o qualità delle cose ad esso simili. Ed, in verità, che altro 
sono tutte le intuizioni del pensiero scientifico, che vanno 
sotto l’ appellativo — troppo significativo per sè stesso — di 
ipotesi di lavoro, se non precisamente immagini mor proprie, 
‘ ancora, delle forme di realtà di cui si cerca, appunto, la 
conoscenza piena e diretta? Non solo, ma non riuscii a 
provare, anche, innanzi, che la storia della scienza ci mostra 
evidente che il pensiero umano si serve, ad ogni passo, di 
uno dei dominî dell’ esperienza per chiarirne un altro, e, 
per ciò, le più grandi verità scientifiche, da noi possedute, 
son tutte nate, e non altrimenti ognora nasceranno, che 
sotto la specie di immagini 2fofetiche,— o intuizioni metaforiche, 
che è lo stesso, qui — delle cose che noi vogliamo conoscere, 
val quanto dire, adunque, sempre per 4rasporto o simiglianza 
di cose conosciute, onde una delle due fondamentali categorie, 
secondo Kant: quella di somiglianza, appunto ? 


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a 





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Innegabilmente vero, adunque, che la « prima operazione 
della mente umana », quale attività conoscitiva, è precisa- 
mente l’azalogia, o procedimento analogico del pensiero. E 
potrebb' essere, forse, altrimenti, se - come innanzi dicemmo 
col Fichte - conoscere è vedere in relazione? E la prima 
forma di relazione che noi si cerca, e che sola può essere 
ricercata nel fr7m20 momento, non è, per l'appunto, il gezere 
prossimo cui la cosa da conoscere appartiene, e che noi rag- 
giungiamo precisamente in forza della maggiore somzglianza 
che essa ha con qualcuna di quelle da noi conosciute, e solo i 
nel secondo momento noi si cerca e ritrova la differenza spe- 
cifica, che la distingue da tutte le altre cose del medesimo 
genere, onde l’altra fondamentale categoria, secondo Kant, 
quella di differenza, appunto? Per ciò la definizione delle 
cose — come ci insegna, a sua volta, la logichetta formalistica 
tanto sprezzata dal Croce — è data dalla indicazione del R 
genere prossimo e della differenza specifica di ognuna di esse. 
Ora, non si può non convenire che tutto ciò conferma ad 
pieno, per via diretta, la « Metafisica verità » ritrovata dal | 
Nostro per via indiretta: e cioè l'assoluto valore gnoseolo- 
gico, logico e psicologico, insieme, di quel « primo principio » 
che rimane, per lui, l’ abzcì della filosofia e storia del linguaggio, — 

E, difatti, il passaggio dall’ una all’ altra forma d' espres- | 
sione, e cioè dal parlare metaforico a quello strettamente 
proprio, non avvenne, forse, precisamente col graduale pas- 
saggio o trasformarsi del carattere sensibile della lingua in 
quello logico o concettuale? Nessuno, invero, ignora, oggidì, 
che il linguaggio, prodotto essenzialmente, in origine, da 
immaginazione astraente, è venuto diventando un’ espressioni 
sempre più fedele del pensiero, a misura che è venuto facendo . 





dimenticare a quest’ ultimo le sue origini sensitive ed emotive, 
e cioè cancellando la forma sensibile delle sue significazioni. 





LI 





primitive, perdendo, quindi, ogni forma fantastica, coll’ oscurarsi 
sempre più come immagine, per sostenere, come mero simbolo 
od espressione fonetica, la rappresentazione del concetto, e, 
per ciò, diventando sempre più astratto. Quindi, pur espri- 
mendo, da principio, la parola, una qualità sensibile, la più 
appariscente nella percezione della cosa, essa suppone, tuttavia, 
fin d'allora, la funzione dell’astrazione sia pure immaginativa 
o fantastica: infatti il sole è nominato o dallo splendore o 
dalla sua azione fecondatrice ; l’uomo è o il mortale o il 
pensatore, o il parlatore; anima deriva dalla stessa radice 
da cui &vepo3 (vento): il tedesco Gezst (spirito) viene dalla stessa 
radice da cui Gas; essere deriva da as (soffio vitale): concetto 
da cum capere; dubbio e Zweifel da due e Zwei; rien è una 
corruzione di yem; comprendere è prendere con ecc. ecc. (1). 
Ma, intanto, subito la parola è sottoposta, nella sua signi- 
ficazione, ad un doppio processo: di generalizzazione e di 
specificazione. Il primo, imposta alla mente dal fatto che, 
portata essa, naturalmente, a notare le somiglianze delle 
cose, è spinta, necessariamente, ad estenderne il signifi- 
cato; ma sì fatta maniera di generalizzazione per somi- 
glianza di natura sensibile non può, naturalmente, appagare 
affatto un pensiero più progredito o più maturo. Essa, invero, 
è del medesimo genere di quella del fanciullo che chiama 
uccelli tutti i volatili, e perfino gl’ insetti, e dà il nome di 


(1) Il che conferma pienamente il Vico: Degwifà LXIII; « La mente umana 
è inclinata naturalmente co’ sensi a vedersi tuori nel corpo ; e con wmo/fa dif- 
ficolià per mezzo della ri/lessione ad intendere se medesima. 

Questa Degnità ne dà l Universal Principio d’ Etimologie di tutte le 
Lingue, nelle quali i vocaboli sono trasportati da’ cordì a significare le parole 
della menze e dell'animo ». 





= 






































padre e di madre a tutti gli uomini e donne che vede (1). 
Per ciò a sì fatta specie di generalizzazione segue l’altra, | 
di natura concettuale, che trova la sua espressione concreta 
proprio in quella mezafora verbale, in cui, naturalmente, è 
riposto tutto il poetico o immaginoso della lingua, fornito, 
appunto, dalla maggiore concretezza, o significazione del tutto 
concreta, delle primitive sue espressioni onomatopeiche, in è 
confronto del significato alquanto più astratto © del tutto 
astratto acquistato in prosieguo dalle stesse espressioni. Ma, 
intanto, il vero è che proprio lungo sì fatta via, o per cotal 
mutata sua direzione, la lingua riescì a trovare il mezzo più. _ 
agevole pel suo più sicuro ed illuminato sviluppo. E, per ciò, — 
mentre, da un lato, — continuando essa, ognora, il suo pro È 
cesso di generalizzazione — le venne dato di derivare da 
un medesimo radicale più altri, o non poche altre espres- 
sioni — come dalla radice che significa dr:/are prese al 
trarre non solo il nome del sole e del /woco, ma quelli, ; 
altresì, della gi05a, della primavera, del pensiero — dall'altro, È 
proseguendo, anche, di pari passo, il processo di specifica- 
zione e di astrazione, riuscì, effettivamente, a produrre una È 
tal rivoluzione — a dir così — nel fondo delle parole, in 
ordine al loro significato, per cui espressioni, che, in origine, 
indicarono cose sensibili, vennero, in prosieguo, acquistando 
un significato assolutamente astratto, che, in verità, è facil- 
mente deducibile, o balena chiaro, a traverso l’ inversione 
metaforica del significato primitivo: ferp/esso, infatti, voleva. 








(1) Cfr. Vico: Degnità XLVIII: « È natura de’ fanciulli, che con l’ idee 
e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciuto; da | 
esse e con esse dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini femmine e cos 
ch’ anno con le prime alcuna somiglianza o rapporto. » E questo fu «il nati 
rale gran Fonte de’ Caratteri Poetici, coi quali naturalmente pensarono e par-. 
larono i primi popoli ». 1 








MRO: DE 





significare 74recciato ; semplice: che ha una piega; doppio: 
che ne ha due; importante: che porta dentro; relazione : por- 
tare indietro; suggerire: portar sotto (onde la posizione sotto 
la ribalta del suggeritore). Ancora — per ricordare, proprio 
col Vico, il possente, invincibile moto interiore della lingua 
verso l’ astrazione o la forma astratta, per una sempre mag- 
giore sua duttilità e perspicuità — zn/e/ligere, richiama il 
legere, o raccogliere i frutti dei campi, (donde legumina); il 
disserere, lo spargere semenze; sapere ebbe significato di 
gustare, perchè proprio delle cose che danno sapore, onde 
sapienza, « che ha usî delle cose ». Senza dire che, talvolta, 
la trasformazione del significato arriva fino ad esprimere 
l’idea contraria : così da ingegno deriva inganno; minister e 
magister derivano da minus o minis e da magis; ma oggidì 
un ministro vale, certo, più di un maestro. 

Or come questo processo di estensione del significato 
radicale primitivo, che, nel tempo stesso che trae la lingua 
a purificarsi sempre più, le va acquistande una crescente 
ricchezza di espressioni, e, quindi, una crescente potenza ed 
efficacia espressiva, sarebbe stato mai possibile senza l’oblìo, 
almeno parziale, dell’antico significato sersi0/e? Ma vi ha 
di più: non sappiamo noi, forse, che le particelle destinate 
ad esprimere essenzialmente un concetto di diperdenza logica 
serbano tuttora, accanto a sì fatto significato, anche l’ antico, 
di natura schiettamente intuitivo (spaziale e temporale)? 
Infatti il nostro ferciò (fer, quasi a traverso) e la particella 
tedesca werz (wann), weil (da Weile), damit e simili, serbano, 
evidentemente, tracce del primitivo significato spaziale o tem- 
porale; le particelle donde, posciachè si usano nel doppio 
senso: logico e intuitivo. E ciò non prova chiaro che l’ atti- 
vità del pensiero fin dalla sua origine psicologica accenna; 
inflessibile, ad un assottigliamento della relazione sensibile, 


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sia, 


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v: 


L'A gpdia dipati na 





331 ORA 

































per quella logica, come, con singolare acume, vide prima, e 
meglio di ogni altro, il Vico appunto? Per ciò, per lui, a 
storia della lingua è storia d'idee, ovvero storia 7deale eterna, 
Infatti il processo di specificazione o la potenza discrimina- 
trice che sospinge, senza posa, il faze/e andare del pensiero, 
trae, progressivamente, quest’ultimo a convincersi sempre 
più, e sempre meglio, dello scarso, oltre che ambiguo valore 
conoscitivo delle espressioni analogiche, fatto esso accorto | 
dall’ esperienza che, bene spesso, la percezione, come ci pre- 
senta delle medesime proprietà, attività, relazioni in soggetti. 
diversi, così, anche, ci mostra il medesimo soggetto con 
proprietà mutevoli, onde la necessità di separare o distinguere. 
le proprietà dei diversi soggetti, o dello stesso soggetto, 
per tener presenti, mecessazianzente, accanto alle somiglianze, 
anche le differenze tra le possibili forme di reale rispecchiate | 
dalle immagini analogiche. E, pertanto, nella dissoluzione | 
analogica di codeste immagini, come di ogni altra rappre- 
sentazione complessa, accadeva questo singolare fenomeno: 
che, a separazione o distinzione compiuta degli elementi 
costitutivi di esse, la lingua prendeva a connettere l’ espres» 
sione con questi, anzichè con l'insieme. E poichè, intanto, — 
la nativa funzione comparativa e generalizzatrice del pensiero | 
veniva, già, — come per le rappresentazioni nel loro com- 
plesso, o nella loro totalità esteriore — ad esercitarsi anche — 
tra di essi e su di essi, sizgu/ariter, era naturale che lag 
lingua venisse, in conseguenza, creando delle espressioni non. 
più, certo, indicatrici di gruppi di cose sensibili, ma, sì, di 
sintesi di elementi, e, per ciò, indici di re/azzozi « voglio dire, _ 
più semplicemente, venne creando proprio quelle espressioni 
così intensamente luminose, pur nell’ estrema loro astrattezza 3 
o significazione astratta, che sono, appunto i concetti. i 





RI 





Ora chi non vede quale meravigliosa duttilità ed estrema 
aderenza al pensiero non viene man mano acquistando la 
lingua con tale crescente sua specificazione, che trova, con 
tutta evidenza, le sue più adeguate e definitive forme espres- 
sive proprio in quelle che sono le nostre parti del discorso 2 
E, invero, la necessità dianzi notata del pensiero di sepa- 
rare le proprietà dalle sostanze, per darsi conto anche delle 
differenze, oltre che delle somiglianze, tra le forme della 
realtà, non trae naturalmente quest’ultimo, da un lato, a rica- 
vare da un medesimo soggetto una moltitudine di simboli 
addiettivi e verbali, e, dall'altro, a creare quelle che sono 
le ultime parti del discorso ? Infatti, che cosa le forme av- 
verbiali vogliono esprimerci se non le modificazioni, sotto i 
più diversi aspetti, delle proprietà ed attività dei soggetti, 
e cioè in rapporto e al tempo e al luogo e alla grandezza 
e al numero e alla qualità ecc. ecc.? E che altro vogliono 
esprimere, anche, le preposizioni se non le relazioni tra essi 
soggetti, non meno che tra le stesse loro proprietà ? Infatti, 
la funzione analitica o discriminatrice dell'attività conoscitiva 
è giunta — termine ultimo e massimo della sua potenza 
astrattiva — sino a dare una certa sostanzialità alle stesse 
proprietà e relazioni, onde parliamo del rosso e della gravità, 
come se fossero forme per sè esistenti, mentre non abbiamo, 
in realtà, che dei corpi rossi e pesanti; parliamo, altresì, 
della 25744, del vizio, del male, mentre non esistono che le 
relative azioni passioni e intenzioni dei soggetti. Ma, intanto, 
è assolutamente innegabile — come si vede —. che solo 
così è stato dato alla lingua di divenire la più fedele e pre- 
cisa espressione concreta della intima attività e funzione in. 
telligibile del nostro pensiero sino a identificarsi, addirittura, 
o formare con questa una sola e medesima attività: infatti, 
solo così, e cioè con sì fatte specificazioni o cotale sua po- 

































ZERBI — 
tenza analitica, le è riuscito — dietro secolari esperienze | 
individuali e collettive — di rintracciare e fissare con tutta. 
sicurezza e precisione — come ci mostra la Scienza — | 


quell’idenzico nel diverso e diverso nell'identico, che la realtà. 
a noi presenta, immancabile, in tutta l’ infinita distesa e in- Lo 
numere varietà delle sue forme: e cioè sviluppare al mass 
simo grado quella funzione eminentemente assimilatrice e 
differenziatrice degli elementi del reale, nella quale, come. 
sappiamo, consiste, dr2superabilmente, l’attività conoscitiva. 

Or come credere al Croce che sia « immaginare stol- 
tamente che l’ uomo parli col vocabolario e con la gram- © 
matica » (1), quando, invece, sarebbe da  stolti proprio 
affermare il contrario, od anche solo supporre che sia pos: 
sibile altrimenti, senza riuscire a stravolgere senz’ altro il i 
viso alla verità ? Infatti, un linguaggio che « nella sua realtà », 
potesse essere non altro, davvero, che l’« afto stesso del 
parlare » (2), non ci darebbe, come ci dà, accanto a delle. 
possibili casuali espressioni intuitive, anche il balbettamento. 
dei bambini e l’ecolalia degli idioti, senza pur contare le_ 
espressioni futuristiche, che vantano, per l'appunto, il merito. 
— tanto apprezzato dal Croce — di non « falsificare » il 
linguaggio « nelle astrazioni delle grammatiche e dei voc ar) 
bolarii » (3)? E sono arte quel balbettamento e quel di 
ecolalia ? arte le espressioni futuristiche? E perchè, allora, 
il Croce si guarda, e come avvedutamente, di violar le leggi 
della grammatica e la proprietà della lingua e sprezza, i 
che, sì schernevolmente il /uéurzsmo ? 

Avevo, dunque, ben ragione di osservargli, che, se © 
pur vero che l’acqua mista col vino non può dirsi senz'altro 
vino, non è, del pari, men vero che essa non può dirsi, pi 


(1) Breviario, pag. 65. 
(2) Ibid. 
(3) Ibid. 








nè pure semplicemente acqua, avendo di questa perduto, per 
giunta, e totalmente, sia il colore che il sapore. E poichè, 
pertanto, essa è riuscita a prendere proprio il colore ed il 
sapore del vino, come non dirla più giustamente vino, sia 
pure ritenendolo annacquato ? E, in verità, — per uscire di 
metafora — non ha riconosciuto e ripetuto il Croce stesso 
che la lingua è tutta pregna di elementi dr/e//etualistici e 
logici? E perchè non concludere allora — come ragio- 
nevolmente ha concluso, dinanzi a simili risultati, quel gran 
maestro di filosofia che è il Bergson — che essa è princi- 
palmente ed essenzialmente frutto dell'attività logica od intel- 
lettiva, come, d'altronde, in maniera potremmo dir veramente 
tangibile, ci ha provato la precedente nostra indagine, col 
mostrarci come ogni lingua, a misura che procede o si svolge 
dalla mera indicazione delle cose sensibili a significazione 
vera e propria di pensiero — e cioè diviene, appunto, atti- 
vità veramente intuitiva, o strumento vero e proprio di co- 
noscenza — perde wecessariamente il suo nativo carattere 
« fantastico o metaforico » ? Altrimenti non avrebbe essa 
continuato a darci uricamente ed timmutabilmente, in eterno, 
quelle espressioni metaforiche, o traslati, che proprio il Croce, 
intanto, più di ogni altro, ritiene oz @rte, o addirittura 
antiartistiche, come spesso abbiamo notato ? E se, pertanto, 
oggi, la lingua mostrasi lo strumento più che mai docile del 
pensiero, fino a rendere i suoi più complicati e più singolari 
atteggiamenti, col seguirlo, fedele, e sospingerlo anche, 
bene spesso, essa proprio, fin nelle più riposte anfrattuosità 
dell'anima, non è unicamente perchè la parola, dietro il pro- 
gresso del pensiero, che determinò il distacco del concetto 
dall’ immagine concettuale, è riuscita a prendere il posto di 
quest’ ultima ? Cosa, questa, del tutto naturale e facilissima 
per quel noto processo d’ intima associazione, e quasi iden- 








pe > gie 




































tificazione, del segno con la cosa significata, per cui non 
da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo 
della radice — e noi avemmo testè occasione di convin- | 
cercene — sia riuscito a cancellarsi, per non esprimere, poscia, 
la parola, che il concetto. Non solo: ma giunto il pensiero. 
a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da qualsiasi, 
schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per ciò | 
stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è 
naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato 
radicale, venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren 
dere a significare unicamente ciò che al pensiero importa 
che significhi : diventa, cioè, quello stesso che è il segno 
algebrico, perchè il concetto rimane, così, definitivamente 
fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè essa) 
acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di tutti. 
nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel signi. 
ficato radicale, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impos= 
sibile, o non poco difficile. 
Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè, nell’ascoltari 
un discorso — come innanzi osservammo — noi, ben lungi 
dal tradurre le parole in immagini della fantasia — il che 
darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione 
nella mente! — riusciamo ad afferrare immediatamente, e 
con tutta precisione € determinatezza, il senso di esso. 
Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la 
scente sua perfezione e precisione come strumento d 
conoscenza, non devesi essenzialmente all’ intelligenza ? 
noti bene il Croce che non è per artifizio, o per la natura tut 
propria dell’Aomo faer — come assevera il Bergson — 
la lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc 
o attività veramente conoscitiva, col progressivo  svilu 
dell'attività razionale; così come non è per artifizio o 





STE 





priccio che il bambino pure, coll’affermarsi anche progressi- 
vamente del potere della ragione, viene via via dispogliandosi 
di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma unicamente e 
necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività razionale 
— e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario 
il Bergson — è consentito alla coscienza umana di elevarsi 
dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori, che 
è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la 
razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won 
della vita stessa dello spirito. 

Ora, poichè l’arte — per affermazione del Croce stesso — 
è il fondamento del mondo dello spirito, in quanto, difatti, 
non si può revocare in dubbio, che la espressione per 77224- 
gini, o « poesia», è, « per necessità di natura »,— e lo provammo 
bene innanzi —« la prima operazione della mente umana », 
e per ciò « la lingua materna del genere umano », si può, 
eo ipso, concludere col Croce che gli uomini tutti debbono 
ritenersi poeti ad un modo? 

Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in ma- 
niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti, 
oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha 
della vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere 
ad un modo la individualità vera e propria di esse o della vita 
intima del Reale — come innanzi ampiamente mostrammo —, 
non, fors’ anche, — giusto l’ altro grave impedimento posto 
in luce dal Bergson — « fra la natura e noi (che dico? fra 
noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo — velo spesso 
per gli uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per 
l'artista ed il poeta » (1)? 

Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere 
e comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece, 





(1) 7 Riso pp. 142-143; Laterza, Bari; 1916. 





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unicamente sotto « il rapporto che esse hanno coi nostri 
bisogni >, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza | 
che le trae a perseverare nel proprio essere. Di guisa che, 
di solito, noi non vediamo e sentiamo del mondo esterno | 
che solo ciò che i nostri sensi ne traggono per illuminare. 
la nostra condotta, e, quindi, essi non ci « danno della realtà | 
che una semplificazione pratica », così come noi non cono. | 
sciamo, ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla 
superficie e prende parte all’azione, e cioè non altro che È 
lo « spiegamento esterno » della nostra coscienza, e non già 
«i nostri stati d'animo che si nascondono a noi in quello che i 
hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto » (1 e. 
Di conseguenza noi saremmo stati realmente « Zulli artisti, » 
solo se la realtà avesse preso a « co/pire direttamente i 
nostri sensi e la nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto. 
«entrare in comunicazione immediata con le cose e noi stessi », 
giacchè, in tal caso, la nostra anima sarebbe riuscita a vibrare 
« all’ unisono con la natura » (2). 

E come, in realtà, negare che codesto velo abitualmente 
ed istintivamente — se non fatalmente e inevitabilmente, secondo 
il Bergson — si interpone davvero tra la natura e noi, e fra. 
noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini 
comuni, e leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti, 
per non ritenere tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe 
mazione crociana: che noi si sia #ut: poeti, e ad un modo 

E sì che è anche comunemente noto, in quanto cano 
fondamentale per l’arte e per la vita di essa, — e dal Cr 
per giunta, come da niun altro, forse, di continuo ricordai 
— che l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter 





(1) Ibid. p. 145. 
(2) Ibid. p. 142. 





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sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina 
espressione o rivelazione della vita intima del Reale, ragione 
per cui diciamo, a tal proposito: che l’arte uéto fa e nulla 
si scopre, se non appunto tale intimità di vita delle cose. 

E allora? i 

Allora risulta in ogni modo evidente, che se il Croce 
— che pure ha scritto un enorme trattato di Logica — avesse 
avuto una cognizione chiara ed esatta dei processi logici onde il 
nostro pensiero tende — come ampiamente vedemmo innanzi — 
ad affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, 
indubbiamente, prima stesso di negare ogni valore alle forme 
grammaticali del linguaggio, egli si sarebbe ben guardato 
di non riconoscere alcun valore alla distinzione delle tre fasi 
di sviluppo dell'attività conoscitiva. Fasi, che, in verità, noi 
possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto, produttrici 
entrambe, le due prime, di espressioni per #rasporto o meta- 
foriche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente, 
puramente empirica : e, per ciò, mentre l’una — sintesi delle due 
prime — rimane creatrice di « roi poetici »: frutto, appunto, 
d’intuizioni per serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi 
creatrice d'immagini proprie: frutto di diretta intuizione della 
realtà. 

Ora, con tal riconoscimento, è chiaro che il pensiero 
crociano avrebbe evitato senz’ altro di cadere in una posizione 
davvero sconciamente contradittoria. Giacchè, mentre, da 
un lato, egli ammette bene, col Vico, che alle origini il 
pensiero umano, « non saffiendo la causa delle cose, » non 
può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per 
immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo 
non può, originariamente, non essere foeta (e cioè facitore 
appunto o creatore d' 272722g7777,come udremo più in là proprio 
dal Nostro), dall’ altro, contrariamente al Vico, e, quindi, in 


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contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a con- 
cludere che l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della 
seconda fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo dir pure, 
del secondo momento dialettico del pensiero, in sintesi, già, 
col primo, giacchè solo allora, in verità, esso riesce a creare 
le immagini proprie delle cose o della realtà) è « il momento È 
della barbarie e ingenuità dello spirito »: come dire quel 
tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, — 
in cui, « per recessità di natura », — € necessità insupe- 
rabile — lo spirito non può creare che per simzglianza di 
cose conosciute, e, per ciò, non altro che #raslati. E cioè quei | 
tali « #ropi poetici», 0 immagini metaforiche, o figure retoriche, 
che nessuno, mai, più recisamente e convintamente del Croce 
ha dichiarato « zon arte », anzi addirittura « arzzartistiche » 1 

Ed è così che si ragiona? E valeva, allora, la pena, 
tanti anni sono, di mettere il mondo a rumore con quella | 
crociata, veramente, e così 7zzz0rosa, contro lo studio, nelle 
nostre scuole, della retorica, o anche solo contro la più sem-. 
plice considerazione generalmente accordata alle immagini 
retoriche, se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto 
necessarie forme successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, | 
e per ciò frutto proprio del primo momento, quello appunto 
di barbarie e ingenuità dello spirito, incapace, com’ esso è 
tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose », che — 
« appellar (queste) con voci propie » ? Onde un esprimersi, 
naturalmente, solo « con metafore attuose, simiglianze < 
denti, comparazioni acconce, espressione per gli effetti o 
le cagioni, per le parti o per gli interi, circonlocuzioni mi» 
nute, aggiunti individuanti e di propri episodi (val quanto 
dire, adunque, con #uéle le specie di figure retoriche): che son | 
tutte maniere nate per farsi intendere chi ignora appellar le è 





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con voci propie, o parla con altrui, con cui non ha voci cor- 
venute per farsi intendere » (1). 

Nè è a dire che si possa risalire più oltre di questo 
momento di barbarie e ingenuità dello spirito, perchè ci tro- 
veremmo, allora, nè più nè meno che dinanzi alla « gua muta 
dei bestioni di O6des, semplicioni di Grozio, solitari di Pufen- 
dorfio, incominciati a venire all’ umanità » (2): e cioè alla 
lingua di quegli uomini della « bestial solitudine », che non 
si vergognavano di « usar la Venere allo scoperto del cielo », 
Salvo che il Croce non voglia ritenere arte, e più espressiva 
di ogni altra, proprio le espressioni mimiche di codesti uomini, 
appunto perchè più darbar: ed ingenui di quelli che ad essi 
seguirono nelle successive età: div2za ed eroica. 

Ed, in verità, è proprio a questo assurdo che, inevita- 
bilmente, mena il ragionare di Benedetto Croce, per non 
avere egli compreso affatto che la poesia, pel Nostro, ben 
lungi dall’ essere arte, è, per contrario, proprio la wmegazione 
di questa: giacchè, mentre la prima — « per zgnoranza di 
cagioni, la qual fu madre di meraviglia di tutte le cose, » — 


(1) I, p. 256. E continua: si spiega quindi perchè « gli episodi sono propi 
delle donnicciuole e de’ contadini, che non sanno trascegliere il proprio delle 
cose che lor bisogna, e tralasciare ciò che non appartenga al lor proposito ». E sì 
che anche altrove, e in maniera anche più recisa e precisa, il Nostro afferma : 
« La Lingua Poetica... nacque tutta da povertà di lingua e necessità di spie- 
garsi: lo che si dimostra con essi primi lumi della poetica Locuzione; che 
sono l’ isotiposi, l immagini, le somiglianze, le comparazioni, le metafore, le 
circoscrizioni, le frasi spieganti le cose per le loro naturali propietà, le de- 
scrizioni raccolte dagli effetti o più minuti o più risentiti e finalmente per gli 
aggiunti enfatici, ed anche oziosi ». (II, p. 288 e seg. vol. I°; e veggasi anche 
II, p. 218, vol. I°). 

Non, dunque, orzgirarie, quanto imprescindibili forme e successivi gradi, 
insieme, di sviluppo della nostra attività conoscitiva le figure retoriche, invece 
che artificiali espressioni del nostro pensiero, come fino alla noia ci ha ripe- 
tuto fin quì il Croce, quasi che la natura possa procedere per salti? 

(2) I, p. 225. 





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timane, giustamente, per lui, espressione del tutto a//egorica 
o metaforica — come, in particolar modo, quella, appunto, d 
mondo fanciullo, o della prima età del genere umano, ragione — 
per cui il pensiero di quegli uomini rimase non altro, udimmo, — 
che « una immensa metafora », od « una allegoria perpetua +; 
l’altra — in virtù della coroscerza di quelle cagioni — divenne, — 
naturalmente, espressione per immagini proprze della realtà, — 
e per ciò conoscenza vera e propria delle cose. E poichè, | 
intanto, « la Metafora..... allora è vieppiù /odaze quando alle 
cose insensate e brute ella dà senso e passione », sì che il 
« sommo divino artifizio della poetica facoltà » è precisa- 
mente quello « col quale, a somiglianza di Dio o della nostra 
idea, diamo l'essere alle cose che non lo hanno », s' intende | 
perchè « i lavori più /uzzizosi della poesia », e, quindi, i | 
poeti veramente « sublimi divini », non poterono non essere, y: 
necessariamente, che quelli soltanto della prima età, giacchè — 
altri mai simili, che creassero immagini assolutamente senz: 
nessun « rapporto naturale » con la realtà che intendevano 


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raffigurare, non si ebbero, più, mai, nè, naturalmente, 
sarebbe potuto più averne in prosieguo. Ma, per ciò stesso, 
codeste loro creazioni assolutamente fantastiche erano « ca 
infinita differenza dal creare che fa Zddio; perocchè Id 
nel suo purissimo intendimento corosce, e conoscendole cr. 
le cose; essi invece — per la loro robusta ignoranza — 
facevano in forza di una corpolentissima /arzasia, e per 
era corpolentissima, il facevano con una meravigliosa sublimi 
tale e tanta, che erturbava all'eccesso essi medesimi 
fingendo si creavano, onde furon detti poeti, che lo stes 
in greco suona creatori » : sì che giustamente, poscia, Tacito 
« con nobile espressione », affermò: « gli uomini... 12% 
simul creduntgue » (1). E, poi, in un punto, riassumen 


(1) II, pp. 215-216, vol. I°. 


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tutto codesto suo dire da noi combinato da brani sparsi nei 
più vari luoghi, non conclude preciso, quanto reciso e conciso 
e, con la stessa nostra argomentazione: « la Favella Eroica... 
fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata 
da inopia di generi e di spezie ch’abbisognano per diffiinire 
le cose con propietà, e in conseguenza nata per mecessità 
di natura, comune ad intieri popoli » (1)? 

E siamo sinceri, avrebbe potuto il Vico esprimersi più 
chiaramente di così, per far intendere la « infinita diffe 
renza » tra la foesia — quale originaria espressione per 
immagini di somiglianza: e perciò un parlare puramente 
metaforico — e l’arte — espressione per immagini frofrse, in 
quanto diretta intuizione delle forme del reale — perchè il 
Croce prendesse a identificare senz’ altro le due? Non sembra 
vero! Infatti, non arriva egli fino ad obiettare esplicitamente 
al Nostro: — Ma la poesia è, forse, un fatto storico e non già 
una categoria ideale, perchè essa debba ricercarsi, in tutta 
la sua sublimità e divinità, unicamente nella prima età del 
genere umano, e affatto, più, nelle età successive (2)? 

La quale obiezione prova, per se sola, e in maniera, 
potremmo dir anche tangibile, che il Croce non è, di fatto, 
riuscito a capir nulla di nulla del pensiero vichiano: il che, 
dissi, noi mostreremo in lungo e in largo altrove. 

Com' egli, invero, non sia riuscito a persuadersi 7//c0 
et immediate, che, in realtà, quando — come del tutto stupen- 
damente, anche, dice il Nostro — si è completamente « rove- 
sciati nella ignoranza di tutte le cose » non è possibile che 
la creazione di immagini fer somiglianza, senza proprio 
nessun « rapporto alle cose dei corpi », lo sa egli solo. 
Giacchè è ben facile intendere, anche, che codesto immaginare 


(1) II, p. 200, vol. 29, 


(2) La filosofia di G. B. Vico: p. 60; Laterza, Bari, A 





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essenzialmente allegorico, o parlar metaforico, non è possibile 
aftatto, più, veramente, col crescer della esperienza umana, — 
anche se questa riescisse a darci la sola conoscenza del genere, | 
cui le cose appartengono, e non anche, già, quella della 
essenza 0 connotazione specifica di essa, dalla cui sintesi dialettica 
soltanto — notammo — è possibile la conoscenza vera e propria 
delle cose. E sì, per giunta, che il Nostro, come prevedendo, P 
quasi, l’obiezione che gli avrebbe mossa un dì il Croce — | 
la cui capacità intellettiva, rimane, per ciò, in tal caso, posta. È 
a dura prova, veramente, — non manca, altresì, di far osser- | 
vare esplicitamente, che, oggidì, i nostri fanciulli, non meno — 
che le persone del volgo, i soli veramente che, nella onto» — 
genesi corrispondente alla filogenesi dello sviluppo dell’ atti- 
vità conoscitiva, possono dirsi foe#, o creatori d' immagini, | 
nel senso vichiano, sono, naturalmente, ben lungi dal potersi . 
paragonare agli uomini poeti della prima età del gene 
umano. Appunto perchè « ora per la ra/%ra delle nostre 
umane menti troppo ritirata da’ sensi nel medesimo vo/go, i 
con le tante astrazioni di quante son piene le lingue, con tan 
vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l'arte dello 
scrivere, e quasi spiri/ualizzata con la pratica det numeri, 
che volgarmente sanno di corto e ragione, ci è naturalmei 
negato » anche solo « di poter erz/rare nella vasta imma 
nativa di quei primi uomini: le menti dei quali di nulla era 
astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualizz 
perch’ erano tutte immerse nei sensi, tutte rintuzzate d 

passioni, tutte seppellite nei corpi onde, dicemmo sopra, c7'. 
appena intender si può, affatto immaginar non si può, c 
pensassero i primi Uomini che fondarono l’ Umanità 
lesca » (1). 


(1) II, p. 218 vol. I°, 





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E, infatti, oggi, « di sette anni al più», gli stessi fan- 
ciulli in quanto « nascono in Nazione che è gia fornita di favella, 
eglino... si ritruovano aver già apparato un gran Vocabolario 
che al destarsi di ogni idea volgare il corron precisamente 
tutto, e ritruovano la voce convenuta per comunicarla altrui; 
e ad ogni voce udita destano l’idea che a quella voce è 
attaccata: tal che in formare ogni azione essi usano una 
certa sinlesi geometrica, con la quale scorron tutti gli elementi 
della lor lingua; raccolgono quelli che lor bisognano, e ad 
un tratto gli uniscono: onde ognuna lingua è una gran scuola 
di far deste e spedite le menti umane » (1). 

Era, quindi, fondata, e per ciò necessaria, quella obiezione 
del Croce? Non comprendere che la poesia, in quanto espres- 
sione puramente metaforica, e cioè, — ripetiamolo ancora una 
volta, seguendo il consiglio di Faust, che certe cose bisogna 
ripeterle almeno tre volte: Du wmusst es dreimal sagen — 
senza nessun «rapporto naturale », o nota predicativa pro- 
pria delle cose che essa intende di raffigurare, non può non 


essere un fato storico, e, per ciò, destinato a finire, — come, 
infatti, finì, pel Nostro, « a’ tempi di Omero », o della terza 
epoca: quella « umana » —; ed in quanto espressione fer 


immagini, ed immagini froprie, e cioè arte, appunto, ri- 
mane una cazegoria ideale, e quindi eterna. 

Senza dire, per giunta, che il Nostro, e con espres- 
sione, anche, insuperabilmente felice, e più che mai adeguata 
e atta, insieme, a mostrarci / eternità —oltre che origizarietà, 
notammo — della conoscenza intuitiva, ha preso a dirla 
senz’ altro: « lingua materna del genere umano >». Quindi, più 
eterna di così, in quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer 
necessità di natura », la mente umana in entrambe le fasi o 


(1) I, p. 39. 





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momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non può | 
— abbiamo visto — riescire ad esprimersi altrimenti che dex 
immagini. Ma non per questo, però, le due specie d’ imma: 
gini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, — 
sono senz’ altro da identificare; giacchè le immagini assolu- b 
tamente allegoriche — e, per ciò, del tutto fantastiche della | a 
« Metafisica poetica » : espressione propria del fr7720 momento ; 
— rimangono sempre, pel Nostro, di fronte a quelle del tutto 
« ragionate della « Logica poetica » : espressione del secondo 
momento — frutto genuino di un « fersar da bestie », ch îa 
per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si può, affatto imma: 
guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con quanto 
arbitrio ed insensatezza il Croce ha preso a identificare le 
due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de 
cultura (dove, purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È: 
si reputa ed usa in genere di pezsare e sapere col giurare 
in verba magistri, anche se, talvolta, il maestro è tale, com 
non di rado oggidì, cui, a nostra volta, « saria vergogna ess 
maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia, pi 
cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t 
Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia 


di un saggio sull’ Arte) è giunto — con un’ ingenuità 
dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu 
veramente — sino ad affermare: « quella dell’uomo de 


caverne poeta è una figurazione graziosa ma alquanto can- | 
zonatoria » (I). 
Canzonatoria?!! E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes 
per caso, che quell'uomo, più che fer immagini, e come alt 
mai sublimi divine — nel senso vichiano, già: e cioè del tu 
metaforiche — si fosse espresso per concetti, e magari add 


(1) Saggio sull’Arte creatrice : pag. 238, Zanichelli, Bologna. 





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rittura nella maniera concettuale dello stesso maestro dell’ 27/0 
puro, od anche dei suoi « cuccioli metafisicanti », dato che 
a questi riesce in particolar modo impossibile concepire la 
realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si pro- 
vano, chi non sa — per confessione loro stessa — quali 
immagini « plebee » vengon fuori (1)? 

Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura, 
non prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione 


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puramente per immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia, 


(1) E, in verità, come mai il Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte 
creatrice, ha pur creduto di poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica 
ben diversa da quella del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla 
filosofia del Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter, 
qua e là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’ intendere anche 
lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ del Croce, e non già 
nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine allegorica o meta- 
forica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per giunta, che anche in 
questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del Cesareo — come, già, 
l’altra del Croce — non ha mancato nè pure di indicare esplicitamente le ra- 
gioni per cui la poesia nacque prima della prosa. « Da tutto ciò — e cioè dalla 
prova datane innanzi del carattere origizario e necessario delle figure retoriche, 
per cui |’ indistru/tibilità di queste — sembra essersi dimostrato La Locuzione 
poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica ; come per 
necessità di natura umana nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degli 
Universali Ragionati, 0 siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari 
prosaici ; perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica 
con la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato ; da essa 
vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna 
voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la favella poetica ; e di 
quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il singue nel cuore, ch'è parlare per 
propietà naturale e/erza, ed universale a tutto il Genere Umano ; del sangue del 
ribollimento e del cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto 
oouazoi, da’ Latini #ra » dagli Italiani co//era. Con ugual passo de’ geroglifici 
e delle /eflere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate 
diverse, per lo che vi abbisognò fior d’ ingegno : co’ quali gezeri volgari e di 
voci e di lettere, s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a for- 
marsi astrattive ; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali forma- 
rono i gereri intelligibili : lo che quì ragionato è una particella della. Storia 
dell’idee » (II, p. 288 e seg. vol. I°). 


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compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso 
ritenere — come si ritiene — poesia, unicamente le espressi 
per versi, strofe, rime ecc., che non solo — udimmo dal Vico — 
furono le x/#me espressioni della « Ragion Poetica », quan 
altresì, può darsi bene il caso che con tutto ciò, e cioè 
più sonori versi di questo mondo, non si riesca punto a f 
della poesia, e cioè creare un organismo di immagini ( 
goriche o proprie che possano essere), e solo, invece, 
organismo puro e semplice di concetti (1). 


(1) Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente tale, da 
l’opera capitale di Lucrezio, sol perchè espressa in versi, e punto tale i 
loghi di Platone, a' quali possiamo aggiungere quelli del Leopardi, non 
che l’opera capitale dello Schopenhauer, in quanto la vincono, e senza 
paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza espressiva delle immagini? 

E, tuttavia, andate a dire nel campo della cultura che queste ultime 0 
sono poesia ben più vera della prima, e — cosa più mirabolante ancora — 
esse sono, ad un tempo; opera d’arfe, appunto perchè le immagini ond?’e 
esprimono la vita del Reale, oltre che singolarmente proprie, nutrite, anci 
più che mai di fersiero, invece che di puro senzimento, come dal mondo 
turale, in genere, e dal Croce, in particolare, si pretende debbano esse; 
immagini dell’arte! Si vedrà alla fine di questa nostra indagine critica a 
profonda rivoluzione filosofica ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo 
cetto dell’arte, nel riesaminare — che a noi, di conseguenza, s’ impose — 
stregua di cotal nuovo suo fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble 
pensiero, che comunemente noi diciamo massimi : rivoluzione, peraltro, implii 
idealmente nello stesso pensiero del Vico, inteso, già, nel senso da no: 
quì indicato, con le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè, 
quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, 0 
conoscitiva del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera 
plificazione pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza | 
tiva? e cioè — per dirla con le stesse sue parole — una forma « co 
delle « parti » della favella poetica, in quanto « composizione delle 3 
ticolari » (0 note predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti 
ciascheduna voce, come in un genere » : il corcezfo, appunto ? Il che, d’al 
in maniera inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro 
Quindi forma vera e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0 
del nostro spirito, unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la. 
piena sua adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a 
ragione per cui, anche, il Nostro credè di darle lo stupendo quanto 








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Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo av- 
vertì — come ricorderemo più dltre — che il canto desti- 


appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo eziandio, così, 
che, in quanto tale, possa esservene un’altra. 

E, poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica del Croce — pur 
affermando egli il contrario a parole — non trae, furse, alla medesima con- 
seguenza ? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile, fuori 
dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e « in nessun altro luogo », 
il suo « aere spirabile », salvo ad ammetterlo «in un altro mondo che non si 
può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi anche altrove: « Che 
cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: « È conoscenza di relazioni 
di cose, e le cose sono intuizioni ». E continua: « Senza 2e intuizioni — 
quindi — 207 sono possibili î concetti, come senza la materia delle impressioni 
non è possibile l’ intuizione stessa » (Breviario p. 66): onde la conseguenza, 
‘perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo inevitabilmente da 
quella estetica, viene ad essere effettivamente quest’altra attività, serbando, 
quindi, in fondo, un’ esistenza puramente putativa o convenzionale. Conse- 
guenza — intendiamoci — che deriva direttamente da un principio, e del tutto 
bene fondato, affermato dal Croce stesso: « un'attività il cui principio dipenda 
da quello di un’altra attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene 
su sè un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale » (Brev. p. 78). 

Come, quindi, è mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza 
se non solo pulaliva o convenzionale — com'è di fatto la conoscenza per con- 
cetti — oltre quella intuitiva o per immagini, e riconoscerle, per giunta, un 
« grad » » o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima, col 
ritenerla il « secondo gradino » della conoscenza, nel tempo stesso che la 
« suprema istanza » del pensiero? Ma se le intuizioni, — s’è pienamente ri- 
conosciuto —, quali immagini $rogrie delle cose o della vita del Reale, ci 
dànno già una conoscenza perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto, 
e, per ciò stesso, di carattere universale e necessario ; e, intanto, codesto va- 
lore universale e necessario — val quanto dire essenzialmente /ogico — non 
devesi, naturalmente, che al concetto « implicito » in esse, qual’ espressione 
appunto dell’« essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi 
od esistere « 7 nessun altro luogo » fuori delle intuizioni; è lecito sapere 
come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza fuori 
ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo, « 72 x altro 
mondo che non si può pensare e perciò non é ». 

— Ma — potrebbe qui opporre il Croce — la conoscenza logica o per 
concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a differenza dell’ altra 
per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle cose ? 

— Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione — da parte della 
nostra mente — di sciogliere i fatti espressivi (od intuizioni) in rapporti logici 





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nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal « fe 
profondo », quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu 


— per raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass 
così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte 
filosofia — si concreta, a sua volta, — per affermazione sempre del Croc 
e ce lo mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali Wezta 
schauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte — 
in un’espressione » ? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già, ; 
sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza ? 

Ed affermare, intanto, che « il pensare scenzificamente prende di neces. 
una forma estetica », non è, semplicemente, una contradizione in fermi 
posto che l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere 
pensiero scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa — per dichiarazioni 
Croce sempre — « estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno > #9] 

Sono contradizioni, queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente, 
cui solo la mente del Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi 





sin qui. 
Rimane, così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de 
dottrina estetica di quest'ultimo — e ce ne assicurerà egli non meno de 
mente e inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi — non 
originariamente, e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono 
e suprema istanza, già, essa stessa, del pensiero : la conoscenza per imm 
poichè l’altra per concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona 
il Croce ha creduto di far ammettere anche al Vico un secondo gradino 
conoscenza, solo per aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo 
vichiana, il secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s 
— che, in sintesi col primo (la goesia), ci dà le immagini proprie dell’ar 
cioè la forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia 
di raggiungere al nostro pensiero — con un grado per se stesso wlferior 
formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i 
E sì fatte illusioni di ottica mentale — proprie del Croce, anche — si deb 
principalmente a quella gioconda quanto facile sua trovata — per interpreti 
suo dire, il pensiero degli scrittori antichi — di quel tale dialogo — di. 
parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di G. B. Vico — « dialogo tl 
antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico pensiero viene inte 
compreso », col piegarlo, — com’egli usa —, puramente e semplicemi 
fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e punto già nel p 
o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena assoluta sua convinzio 
aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente inteso e compreso il 
di quelli, non senza — peggio ancora — far appello, quando occorra, all’ 


illusioni, proprio come nel caso in quistione. 






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— 101 — 


di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito nella 
prosa ». 

Ed il Tommaseo, che gli aveva dato sempre ascolto, in 
quell'occasione non seppe tenersi > come, in altro modo, 
oggidì il Cesareo — dal ribattere : « Il metro, il metro ancora 
più che il ritmo, è un bisogno, non tanto del senso quanto 
dell'anima umana e della ragione stessa, che, come imma- 
gine di Dio, ama le cose in misura ed in numero ». 

— « Quale stranezza! — nota, a sua volta, il Borgese —. 
Che c’ entra l’infinità di Dio con le dieci o undici dita, coi 
numeri della prosodia scolastica e della tombola di famiglia ?... 
Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra 
prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a 
mille canne da cui la ragione parla e il cuore canta ». 

E con ciò — si noti — nonsi vuol concludere che « la 
poesia contata per numero di sillabe » debba necessariamente 
perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’ abaco, la 
danza delle sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardi= 
naggio ammette i fiori che si contano per numero di petali. 
Bene, quindi, può nascere la pagina del cielo di burrasca 
sopra il Lazzaretto nel capitolo xxiv dei Promessi Sposi; e 
accanto ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello. 

E non, forse, lo stesso « Canto » e perfino il « Verso», 
come, già, tutte le figure retoriche, formano, pel Nostro, 
parte di « tutta la suppellettile della favella poetica » ? Penul- 
tima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica » fu 
« il canto e per w/timo il verso » (1). Ed è ben noto, invero, 
che «i mutoli mandan fuori i suoni informi carzando ; e gli 
scilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronunziare »(2); 
e che, in generale, anche, « gli uomini sfogano le grandi passioni 


(1) Degnità LXII. 
(2) Degnità LVIII. 








— 102 — 






























dando nel caz/0, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati 
et allegri » (1), E però, mentre, in un primo momento, gli | 
« uomini mutoli dovettero.... come fanno i mutoli, mandar 
fuori le vocali cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3 
dovettero, pur caz/ando mandar fuori l’ articolate di consonanti. 
Di tal primo canto de’ popoli fanno gran prova i dittonghi È 
ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima 
essere assai più in numero; siccome i Greci e i Francesi, * 
che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce 
n'han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; | 
e la cagion si è, che le vocali sono facili a formarsi; ma le 
consonanti difficili; e perchè si è dimostrato che tai primi La 
uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano 
sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano — | 
con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî | 
la voce egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità 
si è accennato ; onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini. 
Greci nel tempo de’ loro Dei aver formato il fri0 verso 
eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due volte più di 
vocali, che consonanti ». E codesto « primo verso.... dovette 
nascere convenevole alla Lingua ed all'età degli Eroi, qual È 
fu il verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio 
dell’ Eroica Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1 
vento e di giubilo, come la Poesia Eroica non tratta che Ri # 
passioni perturbatissime ». E nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, 
« dappoi facendosi i% spedite e le menti e le lingue, v’ ammise 
il dattilo; appresso spedendosi entrambe vieppit, nacque il Bi 
giambico, il cui piede è detto presto da Orazio, come di tali 


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(1) Degnità LIX. E continua: « Queste due Degnità, supposto che gli Mai 
autori delle Nazioni gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; — 
e che per quest’ istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violen- 
tissime passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando ». 








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— 103 — 


Origini si son proposte due Degrità; finalmente, fattesi quelle 
speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto, 
parla quasi per generi intelligibili ; ed alla prosa il verso giambico 
s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Pro- 
| satori scrivendo. Così il canto s'andò ne’ versi affrettando 
coi medesimi passi, co' quali si spedirono nelle Nazioni e le 
lingue e l’idee, come anche nelle Degwità si è avvisato, Tal 
Filosofia ci è confermata dalla Storia » (1). 

Ed è perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto 
altra via del tutto diversa dalla sua, siamo pervenuti alle 
medesime conseguenze. 

Non, quindi, ha ben ragione anche il D'Annunzio di 
affermare, e del tutto sprezzantemente: « Io sono di continuo 
minacciato dal sistema metrico decimale dei pesi e delle misure. 
Sono di continuo sospinto verso la bilancia e verso la stadera, 
verso l’endecasillabo e verso l’ottonario, verso le clausole 
ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. 

Odo vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione, 
odo affermare la rivoluzione. 

Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le 
carrucole perpetue e le rotaie inflessibili » (2). 

Ma che farci, se, pur troppo, — come giustamente asse- 
vera il Borgese — non si dà, in generale, verità quanto si 
voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore; 
fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi 
e progredire della verità non raggiunge altro effetto che 
quello, soltanto, di rendere più secchi e noiosi gli errori! E 
non, forse, perchè codesti errori sono in particolar modo alimen- 
tati e mantenuti in vita proprio da coloro che prima e più degli 
altri dovrebbero ripudiarli e concorrere a farli ripudiare, in 


(1) II, pp. 290 e seg. vol. I°. 
(2) Per l’ Italia degli italiani: p. 40 - « Bottega di poesia» - Milano. 





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— 104 — 


quanto ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri — È 
del: pensiero, rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=. 
caci propagandatori fra i proprî discepoli o seguaci? Infatti, 
non, forse, proprio Giovanni Gentile — che prima e più calo- È 
rosamente di ogni altro, anche, prese a giurare 27 verba 
Crucis, coll’ affermare che « il maggiore studio che ci sia i; 
intorno al pensiero vichiano » è precisamente quello del 


Croce — ha continuato e continua imperterrito ad alimen- È 


tare il grave errore in quistione? E come egli, che ha pur 
letto e meditato tanto la filosofia del Vico, sia riuscito ad 
intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo del Croce 
_ come mostreremo altrove — lo sa lui. A_ noi qui, ora, 
preme soltanto far notare, che se egli fosse riuscito a cogliere 
il significato filosofico e valore conoscitivo della famosa « chia 
maestra », o « principio primo » di quella filosofiia, avrebbi 
subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se Gabriele 
D’ Annunzio — ad esempio — non avesse scritto pur un 
verso, ma solo i romanzi a noi noti, egli sarebbe rimast 
ugualmente il più prodigioso poeta che abbia mai visto la stes 
prima età del genere umano: e cioè il più sublime, divino 

quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em co 
gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo 
ma quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que 
sono di sua creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre 
da lui singolarmente immaginose; onde, non a torto, egli 
ferma di sè: « #ulto m'è visione, e tutto m'è simbolo ». Ma il 
D'Annunzio, però, è anche artista, oltre che poeta, e arti st 
non meno possente del poeta, per quella « divina proporzioi 
che le immagini da lui create recano insuperabilmente, 
insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de 
realtà, che esse ci vogliono raffigurare, dato che la « 

porzione » — a dire del Croce stesso, che ripete sempi 





— 105 — 





mente un concetto del Vico — è la caratteristica fondamen- 
tale delle immagini deil’ arte (1). Ciò posto, come o donde 
la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte 
può ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con- 
cetti, e questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte 
o scienza, a seconda che si prenda a cortemplarlo od esami- 
narlo nella verità che esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni 
opera di scienza è insieme opera d’ arte. Il lato estetico potrà 
restare poco avvertito, quando la nostra mente sia tutta presa 
dallo sforzo d'intendere il pensiero dello scienziato ed esa- 
minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando dall’ 
attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e 
vediamo il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben 
contornato, senza parole superflue, senza parole mancanti, 
con ritmo e intonazione appropriati, ovvero confuso, rotto, 
impacciato, saltellante » (2). 

Il che significa, dunque, nè più nè meno, che /’ immagine 
ed il concetto, e cioè un « fantasma lirico, e un « pensiero 


(1) Il Vico, infatti, nell’orazione in morte di Angela Cimini, richiaman- 
dosi — come di frequente — al concetto proprio della poesia, la quale — 
udimmo — raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a somi- 
glianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno, 
tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil cosa è esserci 
venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre proprietà) i quali, quanto 
s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi #2n/0 z0n san nulla affatto delle certe 
misure e proporzioni de’ corpi onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno 
l’ ideal bellezza in tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres- 
sione : «divina proporzione » ricavata dal Croce. Il che vuol dire, in termini 
nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione, più 
che coi sensi, a cogliere l’ espressione propria o caratteristica delle cose, la 
quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca dell’ordize e valore logico 
delle stesse loro zo/e costitutive — chè questo e non altro vuol significare, 
quì, la cera misura e proporzione dei corpi — noi si raggiunge l’immagine e 
conoscenza vera e propria di esse cose, 

(2) Estetica» p. 30 e Breviario è p. 28. 





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critico » sono la stessa cosa, formalmente e sostanzialmente; 
come dire: maschio e femmina la stessa persona. 

Infatti il Croce non inizia addirittura la sua Zstetica 
proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @ 
carattere espressivo assolutamente diverso, che distingue la 272. 
magine dal concetto, in quanto la prima è linguaggio del senti- 
mento, e per ciò conoscenza intuitiva o dell’ individuale, e l'altro 
linguaggio dell’ z72/e//etto, e per ciò conoscenza dell’uriversale 258 

Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior distin- 
zione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza 
e l’altro il secondo? È. 

E, come, allora, — anche sotto tale aspetto — l’ux 
può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente. 
mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber 
nondimeno, sparire solo nel caso che si volesse ammetteri 
una precisa distinzione tra forma e contenuto, sì da ritenere. 
l’arte non altro, invero, che « mero involucro delle forme. 
superiori e complesse » del pensiero. Cosa che il Croce, per 
primo, e più recisamente che mai, nega, affermando col De 
Sanctis che « il contenuto è la forma e la forma è il con-- 
tenuto », giacchè l’ intuizione e l’ espressione vengono « l'una 
fuori con l’altra, perchè non sono due, ma uno » (1). E poichi 
intanto, l'intuizione, od espressione, non può rappresentare. 
che stati d' animo, vale a dire nient'altro che « la fassiozali 
il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e 
determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e 
può darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe 
dell'artista e del filosofo, se la contradizion nol consente ? 
di fatti, l’attività intuitiva od espressiva, al pari dell’ incoe 
cibile potere posseduto dal re Mida di trasformare in oi 


(1) Estetica » pag. 12. 





— 107 — 


tutto quello ch’egli toccava con le mani, non può darci, 
inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e sempre 
immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. 

E non, forse, proprio ciò intende affermare il Croce 
stesso là ove dice che « l’espressione non si può neppure 
paragonare all’ epidermide degli organismi, salvo che non 
si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisio- 
logia), che 4utto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula 
di cellula è insieme epidermide » (1)? Onde la conseguenza 
inevitabile, e del tutto #2 forma, che noi, come Prometeo 
sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7 eferzo incate- 
nati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure 
levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo 
gradino. Onde l’ assurdità, per altro verso, da parte del 
Croce, di porre l'assoluta identità di arte e linguaggio, defi - 
mibili luna per l altro — come dire l’arte col parlare per sè 
stesso —; giacchè, mentre, da un lato, noi — in forza di 
tale premessa — non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il 
secondo gradino della conoscenza, e cioè diventare scienziati 
o filosofi (e, forse, per ciò il Croce non può dirsi filosofo), 
dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti ver7 e grandi artisti. 
Che ve ne pare? (2). 

Non senza fondamento, adunque, il Nostro affermò che 
la Poesia e la Metafisica « sono naturalmente opposte fra 
loro », e per ciò « non fu mai uno stesso valente uomo 
insiememente e gran metafisico e gran poeta della specie 


(1) Breviario ; pag. 58. 

(2) Si noti che questa stessa sorprendente conclusione negativa, cui, contro 
ogni previsione e intenzione del Croce, mena direttamente quanto inevitabil- 
mente la /ogica interna della sua dottrina estetica, viene indirettamente — 
accennai — a confermare anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseo= 
logico del fondamento teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui ac- 
cennammo innanzi, Si vedrà, si vedrà | 


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massima dei poeti nella quale fu frireipe e padre Omero 
E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso com'è 
metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle cose, 

come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli 
che è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè 
si è nella « fanciullezza », per cui la « mente », tutta piena | 
di « pregiudizi », vi si « immerge e rovescia dentro », mentre, 


nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi » e « ne fa 
accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono 4 
tutti astratti », invece che « corpulenti », come nel primo caso, | 
in quanto non altro che immagiri e metaforiche (1)? 

Ora, generalmente, — a cominciare da Giovanni Genti 
che, oltre vent'anni sono, l’ oppose proprio a noi, recensen 
la nostra opera sul Leopardi — facendosi eco alla interp 
tazione. crociana del Vico, tale opposizione tra il poeta e 
filosofo non viene intesa sérzcto sensu e illimitatamente? 
cioè ritenendosi il poeta non già nel senso vichiano — 
cui vera quell’ opposizione — di creatore d'immagini a/leg 
riche, e nutrite, già, essenzialmente di « senso », quindi per 
nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen 


o frutto di «rz/fessione », e per ciò « arte », come potre 
mai essere in opposizione con le « sentenze » o « conce 
di quella « mente dritta, ordinata e grave qual a filosofe 
conviene » (2), e cioè non valere conoscitivamente nè 
nè meno che i concetti stessi, se questi altro non sono c 
« l'essenza » astratta od estratta da quelle, onde solo 
renza tra essi quella puramente /ormza/e, per cui mentri 
prime sono espressioni « particolari, » o « individuate 


(1) I, pp. 227-28; II, pp. 197-98, vol. 2°, 
(2) II, pag. 200, vol. 2°. 


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e quindi concrete, le altre « generali + od « universali », e 
per ciò astratte (1)? 

Intanto è accaduto — e qui l'origine del disastroso 
errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura, in 
generale, e della conoscenza estetica, in particolare — che, 
compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della 
poesia con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le 
immagini allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia », 
(per la mancata conoscenza, ancora, delle « cagioni naturali 
delle cose »), e le immagini proprie, « frutto di riflessione », 
(e, quindi, conoscenza vera e propria di esse cose), s'è proce- 
duto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste ultime 
non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito essen- 
zialmente dai « sensi », o dal sentimento, quanto, peggio ancora, 
s'è preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè 
pur l'ombra dell’intelligenza o della riflessione, e, di conse- 
guenza, senza nessun «< rapporto naturale colle cose », o colla 
realtà, precisamente come le immagini poetiche od allegoriche. 
E così è venuto fuori quel w20rstru7m horrendum, o, quanto meno, 
quella « douche d’ ombre » — per servirci di un’ incisiva 
espressione del Rimbaud — ch’ è l’ intuizione pura del Croce, 
la quale, mentre vuol essere appunto, e insuperabilmente, 
anche, adeguata immagine propria della realtà, è, pertanto, 
non altro che immagine espressiva di mero ser4imento del 
soggetto conoscente, e atteggiato, per giunta, questo, comun- 
que si voglia, dalla fantasia esclusivamente. Come se, fra altro, 
potesse esser mai dato a noi di cogliere la conoscenza vera delle 
cose, o la vita del reale, non già, sopratutto, a mezzo della rifles- 
sione o ragione — e avvalorata o potenziata, questa, per giunta, 
dall’ esperienza — ; e come se, ancora, si potesse mai credere, 


(1) Ibid. pag. 198. 





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— meno ancora —, che la vita delle cose o della realtà: 
e cioè lo « spirito » — per affermazione del Croce stesso - 
fosse fatto, essenzialmente, non già di fersiero, ma di sen 
mento. Il quale, d'altra parte, — ed è pure troppo gene- 
ralmente noto, oggidì: e noi lo mostrammo, anche, in lungo 
e in largo innanzi — non è che la pura eco emotiva della 
vita o del moto del pensiero, dal quale soltanto, per ciò, 
tal eco di desta, ed a cui, apuialacare, essa si acri s 


propria attività: e cioè sia verso la ricerca del Bello 
del Vero e del Bene. Per ciò il sentimento non vive, 
realtà, che ix funzione dell’ idea dalla quale è destato od 
eccitato, sì da prendere anche — sappiamo e vedemmo pure i 
nome da essa. Come, quindi, esso potrebbe, fra altro, forma 
per se solo, e cioè senza rapporto ad alcuna idea di so 
« materia » od obietto della conoscenza intuitiva ? 

E, intanto, — paradosso ancora più strano e stupefacen 
insieme — mentre si viene, così, a ritenere generalmen 
in principio, dal mondo culturale, che l’arte è non altro 
una mera espressione del sentimento, non si prende, nel tempo 
stesso, ad affermare e riconoscere, — non so con quan 
coerenza —, che le maggiori, anzi sovrane ed insuperabil 
opere d’arte sono, per l'appunto, quelle più intensam 
nutrite di fersiero, e cioè di filosofia: come, ad esempi 


e quella shakespeariana? E — ciò che poi non si creder 
proprio — è precisamente il più accanito quanto reciso a 
tore e banditore teorico dell’arte quale intuizione lirica, 
espressione del sentimento, Benedetto Croce, quegli 
nell’analizzare praticamente le maggiori opere d' arte, coi 
quelle del Goethe e dello Shakespeare, non si perita di 





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fascino estetico che da queste promana e si effonde nel nostro 
spirito, devesi, per l’ appunto, alla immensa profondità filo- 
sofica, o singolari verità di pensiero, ond' esse sono intessute 
ed animate. Il che, in fondo, prova, ad un tempo, che bene 
si può essere, sì, poeta e filosofo insieme: poichè sola diffe- 
renza fra essi — ripetiamo — la /orma dell’ espressione : 
giacchè per immagini, quella dell’ uno, e er concetti, quella 
dell'altro. Il che devesi ad un'attitudine o disposizione pura- 
mente naturale, come già il Vico non mancò pure di notare 
nella Degrità LI: « In ogni facoltà, uomini, i quali non vi hanno 
la natura, vi riescono con ostinato studio dell'arte (val quanto 
dire con ogni sforzo e riflessione: il che viene a confermare 
anche indirettamente che, pel Nostro, l’arte è frutto di piena 
consapevolezza e sforzo da parte della nostra intelligenza): ma 
in poesia è affatto negato di riuscir con l’arte a chiunque 
non v’ha la natura ». E come altrimenti? Giacchè sarebbe 
nè più nè meno che pretendere, ad esempio, da Giovanni 
Gentile che si esprimesse con la potenza immaginifica di Ga- 
briele D'Annunzio, 0, viceversa, che quest’ultimo si esprimesse 
| per concetti, proprio a mo’ di Giovanni Gentile. Non vi pare? 

E che, invero, all'infuori di codesta differenza puramente 
formale, l’arte e la filosofia non abbiano, in realtà, che un 
contenuto comzze, e non siano, quindi, che espressioni delle 
medesime verità, nol riconosce, forse, di fatto, se non a parole, 
il Croce pure? Giacchè egli anche, al pari di noi, a traverso 
le più mirabili intuizioni estetiche od armonie dell’arte, sente 
distintamente e sonoramente echeggiare così « la malinconia 
e il soave fantasticare, nella trasparenza dei sonetti e delle 
canzoni del Petrarca è, come « la trascendenza medioevale », 
che « si fissa nel bronzo della terzina dantesca » ; così « la 
saggia esperienza della vita e la celia verso le fole del passato, 
nella limpida ottava dell’ Ariosto », come « l’eroismo e il 





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— 112— s 
Su 
pensiero della morte, nei perfetti endecasillabi sciolti del 
Foscolo » ; cosi « l’ infinita vanità del tutto nei sobri e austeri 
canti di Giacomo Leopardi », come «i raffinamenti voluttuo 
e la sensualità animalesca dell'odierno e internazionale deca- 
dentismo », che « hanno avuto, forse, la loro migliore espres- 
sione nelle prose e nei versi di un Italiano, del D'An- 
nunzio » (1). 

Non solo: ma non conclude, anche, espressamente, 
le immagini dell’arte, ben lungi dal vivere o nutrirsi di 
idealità, hanno mecessariamente « bisogno » di tutti « q 
presupposti di conoscenze storiche », come dire: « conce 
tipo, numero, misura, moralità, utile, piacere, dolore ecc. » 
che son frutto della più lunga e larga esperienza uman 
giacchè senza di essi — « che sono le legna che bruceranr 
nel fuoco della fantasia » — « l’arte mon sarebbe arte » ( 
Il che, adunque, induce senz’ altro ad ammettere che l’ op 
d’arte è fatta di fantasia non meno che d'intelligenza, e « 
sentimento non meno che di cultura; onde giustamente 
Fromentin — ricordato a tal proposito anche dal Croce — e 
richiede è Za fois un historien, un penseur et un artiste, perc 
possa essere giudicata con tutta adeguatezza e goduta. 
gustata a pieno, E come mai, allora, una forma di conosce 
che richiede tanti fresuffosti, uvvero presuppone anda . 
rienza, oltre che appartenere ad un momento di bardaz 
ingenuità dello spirito — come innanzi si disse — può d 
o ritenersi, anche, del tutto « elemzeniare >» od « aurori 
Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce 
medievale, nè la saggia esperienza della vita, non i 74, 
menti voluttuosi o la sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn 





(1) Breviario * pp. 41-42. 
(2) Zbid. p. 90. 





— 113 — 


e del fersiero della morte; così la commossa dolcezza di un 
amore tenero e soave, nello sfondo di una vita tranquilla e 
serena, come il grido terribilmente straziante e disperato per 
la infinita vanità del tutto: cioè, insomma, nessuno ignora 
anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più diverse, 
di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella vir- 
ginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz 
sapere, compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di 
un gusto, che, nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la 
maturità e perfin la corruzione, ed in tutto il suo essere vibra 
l’aridezza di una febbre insistente che la spinge smapniosa a 
spremere il succo di tutti gli ingannevoli frutti che maturano 
lungo il sentiero della vita, al calore della più travagliata 
esperienza umana, come si può non convenire assolutamente 
col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la séorza, 
— come ci disse innanzi — più che il momento di barbarie 
e ingenuità dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: 
quello della maggiore consapevolezza e più compiuta esperienza 
della vita del reale? Di fatti è solo in questo momento che è 
dato alla mente umana di cogliere l’immagine vera e propria 
delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e per- 
fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere 
della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste 
intuizioni che ci danno le immagini proprie delle cose sono 
— udimmo — le vere e sole intuizioni estetiche, non è, 
per ciò stesso, da convenire che, anche per lui, il momento 
dell’arte è proprio questo e non il primo, che in wesswur 
modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non 
solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia 
pure a mezzo di una tremenda contradizione — come 
empre allorchè gli vien fatto di scoprire il viso della verità 
— che abbiamo anche una grande arte: ed è precisamente 





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-— 114 — 























quella più che mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3 
che di sentimento (onde il più completo rovescio della tesi 
sostenuta « 27 principio » nella sua £Zstezica? Così — ad 
esempio — le « grandi tradedie del bene e del male y si 
dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, — 
per lui, — come ognuno ricorderà — senza paragone pi 
pregevoli, esteticamante, che non quelle di pura ispirazione 
storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare, Coriolano), le quali, | 
a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle « comedie 
d'amore », tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere, 
mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i 
Il Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per 
intrinseca bellezza, nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi 
a dire di lui stesso. E così del Goethe: il possente fantasma 
tragico di /azsf, quale espressione, appunto, di quella urgente 
e mai appagata ansia dolorosa (die Sehknsucht), o di qu 
profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange e marti 
la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà, quasi 
fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca deli 
dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se 
paragone superiore alla « bella favola di ZAermanz un 
Dorothea », che pure fu oggetto del più vivo ertusiasmo, 
non solo da parte « dei filosofi e dei letterati »,ma eziandio 
di tutta la « brava gente: degli onesti borghesi, delle madri 
di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di scuola 
i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava 
una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S 
l’amore che si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori | 


per la felicità dei loro figliuoli...... la virtà disavventurat: 
premiata e una ricca copia di osservazioni e massime 
quelle che si accolgono dicendo: — è vero — senza sfor. 


— 115 — 


rente paradosso. È la fortuna che una volta Hegel disse 
mancare ai filosofi e abondare ai predicatori, che subito soddi- 
sfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono cose dî 
cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno familiari » (1). 

Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è 
quella, proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece 
che di sentimento, onde non a torto il Manzoni credè nel- 
l Urania di cantare : 


pncroe sol quaggiù quel canto 
Vivrà che lingua dal pensier profondo 
Con la fortuna delle Grazie attinga ; 


e lo Schiller, a sua volta, quasi a concludere : quello che not 
oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani come 
Verità ; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate 
o poeta fosse indovino (2). 

Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri scritti 
sull'arte, affermammo non solo la necessità di rintracciare 





(1) V. Goethe - p. 82, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in Ariosto Shake- 
speare e Corneille) Laterza, Bari. 

(2) E se questa è la grande arte, come il Croce in lungo e in largo ha 
creduto di mostrarci con l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette- 
ratura inglese e tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del 
Leopardi, come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed 
espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, #44 per immagini, è, 
per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x poesia », 
contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti stranieri ? E così, 
anche, l’arte di Dante: perchè questa sale, e sale alto, molto alto, con le im- 
magini di senlimzento, e cade, poi, cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x 
poesia, con le immagini di fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere 
al di sotto o da meno di Shakespeare e del Goethe ? Lo sa egli solo, il Croce, 
pel quale, per ciò, del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta ; 


A veder tanto non surse il secondo? 


Ah! la fede nel « libro tedesco..... inculcata (al Croce) dallo Spaventa e 
rafforzata dal Labriola » ! (V. Contributo alla critica di sne stesso : p. 28; Laterza, 
Bari). È stata davvero accecante cotal fede per lui! E potremmo dir anche 
perchè, ma non occorre : può facilmente supporlo ognuno. 





RE: 


— 116 — 































un assoluto criferio di valulazione estetica, quanto, al 
tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d 
universalità razionale posseduto o epresso dal motivo is 
ratore dell’opera d’arte: e cioè — non si crederebbe 
proprio in quell’ elemento o fattore, l'intelligenza, che da tutti 
in generale, — per quanto senza piena convinzione da part 
di qualcuno — e dal Croce e sua « onrevol gente », in. 
particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione crea 
trice dell’ arte. E però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè, 
di fatto, colle risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet 
e lo Shakespeare, come abbiamo visto testè — oltre c 
colla logica interna della sua dottrina — riconosce pienament 
con noi che proprio la razionalità del motivo — comunque 
si voglia, questo, sommerso o identificato colla forma — rimane 
la variabile indipendente, — come allora dissi —, alla qu e 
si deve la variabile intensità d’irraggiamento o potenza di 
attraimento o rapimento che un fantasma d’arte, più che 
altro, a parità di perfezione, o dall’ espressione in ciascuno 
perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito umani 
che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene 
sentir — davvero — l'accordo con sè stesso e col mondo. 

E per ciò presi a concludere senz'altro: « le int 
zioni estetiche veramente sovrane son precisamente quel) 
che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q 
muto anelito di redenzione dal male e di liberazione da 
gioco degli impulsi inferiori, che fanno gravitare in giù 
coscienza umana, soffocata dal peso greve della materia: 
che, comunque, dèstino in noi anche la più debole eco di 
quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur 
namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza. 
dell’ infinito, mira al di là del finito, o del limite umano, e cio 
au dela de la vie et au dela de la mort. Nessuna meraviglia, 


— 117 — 


quindi, che le intuizioni estetiche che prendono a celebrare 
questa insuperabile antitesi cosmica, e cioè questa perenne 
lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel tempo 
stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser nostro, 
riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad esercitare 
un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano, che, 
nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia- 
ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più 
oscuri tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più 
segrete aspirazioni, le sue più dolorose sconfitte e i suoi più 
nobili trionfi: e cioè, in uno, l’immagine e il destino della 
propria esistenza; di quell’ esistenza, per giunta, di cui noi 
stessi, giorno per giorno, ed ora per ora, veniamo liberamente 
intessendo la trama e amorosamente disegnandone l’ immagine 
morale e spirituale, dato che l’arte — udimmo dal Croce stesso 
— altro non è, nè può essere, che espressione della vita del 


Reale, e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto. 


E, pertanto, noi amiamo in particolar modo — si sa — ciò 
che, appunto, è frutto dei nostri liberi sforzi, e poichè l’z07z0 
libero — per dirla collo Schiller -— ama è legami che lo 


guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro — 


con la stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei 
figli, che venne al mondo sofferente — precisamente ciò il 
cui possesso fè più dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare 
i nostri piedi. 

Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda 
tenerezza e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta 
di Barga ricorda alla sorella i tempi bui e sconsolati della 
lor triste e dolorosa giovinezza? 


Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror! 





— 118— 
























E si noti, per di più, che il sentimento che nasce dall: 
contemplazione del più arduo e più universale conflitto, al 
pari di quello che accompagna e si manifesta nelle forme — 
della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più — 
atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più. 
vere del sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo 
eccitamento, o il massimo suo eccitamento, precisamente nell 
rappresentazione fantastica della lotta impegnata dalla volontà | 
e dalla passione contro la necessità dell’ ordine oggettivo. 
della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata della lotta $ 
per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata | 
in lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel 
dominio dell’arte, crea quelle sovrane concezioni — verament 
insuperabili nel loro genere — quali sono la Commedi 
dantesca e la tragedia shakespeariana, la lirica filosofica di 
Giacomo Leopardi e quella della medesima natura di Wolfango br 
Goethe — quello stesso sentimento crea, nel dominio della — 
morale, l’azione, affermandosi come bisogno di operare, del 
sperare, di combattere e soccombere utilmente, onde quell: 
sottile voluttà dolorosa: dolendi voluptas, che sospinge, inelut À 
tabile, l’uomo a salir d2 collo in collo, e celebrare, pur nell: 
rovina e dea morte della sua esistenza Di il priag 


l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica 
E, difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage 
greca e shakespeariana, nella lirica filosofica di Giacom 
Leopardi, come in quella di Wolfango Goethe, nelle quali, $; 
appunto, — come Yale si accennava — Mii Sonde cosmico o° 


MAE EN carl. ra” 


Figi x « EI sa 
(23) ta Woo sin Lei =J i. ; Pali 71 


Pacs it 


:—119 — 


che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose 
della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, 
il suo trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze 
che sospingono anelante e senza tregua il genere umano lungo 
le vie che conducono al regno della Verità, della Bellezza 
e del Bene, e cioè, per dirla in uno, al regno di Dio » (1). 

Ora, cotal mondo dello spirito — dato pure che la 
lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione — non 
sarebbe rimasto — ammessa la tesi del Croce — nè più 
nè meno che un nome vano senza subbietto, ovvero, — per 
dirla più esattamente con parole sue stesse — « un'utopia 
della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio », appunto 
perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è riuscito 
a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di tal 
mondo, tutto — come in lungo e in largo abbiamo potuto 
constatare — ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo 
spirito? Il quale, pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche, 
ad ogni passo la prova, nell’aggirarci criticamente per tal 
regno — mai come nella sua assenza rivela la nececsità della 
sua fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto imperiosa 
| quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo, appunto , 
di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio del 
principio di zo contradizione (2). 





(1) P. Gatti: L'arte e la sua funzione creatrice: p. 174 e S€g.; Casa Edit, 
Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la stessa Casa: // fascino dell’ arte 
di Dante, nel quale lavoro i principî teorici sostenuti nel precedente volume 
hanno trovato la loro diretta applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche 
e moderne, 

(2) E poichè, intanto, la filosofia — pel Croce — è nient'altro che coe- 
senza mentale, la quale coerenza « si trova anche in uomini che vivono in una 
cerchia assai ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama 
ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, 7g70* 
ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò stesso, concludere 
che îl Croce è senz'altro « non filosofo » e « ignorante », insieme ? Chè, in 








PS 





























Verità, come « non filosofi sono coloro che non soffrono dell’ incoerenza e n 
si travagliano nel superarla », così non può non essere « filosofo.... anche colù 
che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome di questa disciplina, e non- 
dimeno abbia compiuto e compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k 
di formarsi, come si dice, idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai 
dubbi, che hanno sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di 
consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si 
ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di popolani — 
e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le verità : 
sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico della parola, ma d 
uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso che se ne fa col lar- 
girla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai recitatori di lezioni, deserti 
di spirito filosofico ». x 6 
« Quando poi l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten 

che investe tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso 
specificamente detto o addirittura il genio filosofico », da non confondersi, 
certo, punto punto, cogli « scrittori e professori di filosofia. (Pongo que. 
st’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in immaginazione certi 
volti e figure non interrompesse col riso quello che vado dicendo »). Quel 
genio filosofico, voglio dire, « che sembra così remoto e alto sugli al 
uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i loro sparsi cona = 
e converte in precise domande le loro angoscie, e dà loro risposte, che A 
se anche non intese dai più o alla prima, si vengono traducendo in comun 
convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco l’ ambiente sociale 
storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato dal bisogno della coé 
renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più vivaci lotte pratiche, e ne 
più acerbi dolori, non appena gli accada di avvertire in sè, per effetto di es 
un dubbio, una contradizione, una incoerenza, materia a un problema, si astr 
e si assorbe nella meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato 
o riaffermato il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ri- 
trova la serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere 
i dolori e praticamente operare ». (Cwifica del 20 marzo 1928). = li 

Or poichè in forza di codesti principi del tutto bene fondati, fissati dal Croce 

stesso, è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia filosofo, appunto 
per la singolare sua insensibilità — diremo — al dolore logico della contradizione, 
onde la invincibile sua « incoerenza mentale », — che proveremo, d’altronde, ìî 
altre sue opere—, senza pur tenere affatto conto della «superficiale considerazione» 
ch’ egli usa nel trattare i problemi che concernono la « vita dello spirito » (Ibid 
come spiegare che nel mondo culturale egli é ritenuto, intanto, addirittura della 
« classe più alta dei filosofi »; e cioè « filosofo di natura e vocazione », ragione 
per cui le sue opere, e l’ Estetica proprio più di ogni altra, hanno avuto il 
particolare onore di essere tradotte in tutte le lingue di tal mondo? Non s 
potrebbe, a parer nostro, spiegare altrimenti questo fenomeno paradossale che 


— 121 — 





riconoscendo, davvero del fondamento alla famosa domanda dello Champfort * 
« Combien faut-il de sots tour faire un public 2», e col convenire, d'altra 
parte, collo Stendhal, che le opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto 
pubblico sono precisamente « quelle più largamente dosate sul grado di creti- 
neria degli spettatori e dei lettori ». | 

In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano, — ammessa e rico- 
nosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso — per essersi immesso in una via senza 
uscita, bene può dirsi una disfatta in gloria, più superba di tanti trionfi, in 
quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare quelle orme sarebbe non 
altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di gente inconscia, ci fa ritenere 
esecrabile e sacra quella via. Tale, almeno, essa rimane per noi, che da essa 
appunto traemmo l’avviso ed ammaestramento, insieme, di percorrere con 
tanta più saggezza quanto maggiore consapevolezza la via che abbiam preso 
a seguire, coll’ intento di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante 
segreto connesso col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi 
della vita universa, secondo il du Bois Reymond: 1’ enigma concernente l’o- 
rigine del pensiero, 





3 


si 


Ma NA 








ni 

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