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Friday, June 7, 2024

Grice ed Orazio DIEQO RAPOLLA VITA DI CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA •-'; ' -r: ~ :* ^; ' POR TIOI Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano 1892 ■ - \' e;. \* \ 1*1 V *L '*^ ^S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» «^ •'1^ •e* *-.'» SU'' 'X» i I I i sJ- Sì- I^* •. VITA DI QVISTO OBAZIO FLACCO DI DIEGO RAPOLLA o VITA DI CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A DI DIEQO RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi, 173 1893 L'ijf.S'^ : \ j / Riproduzione e traduzione vietate. Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti che gli concedono le leggi vigenti. 'jfr^j^ **y^sP' ^^i^^'? '%S0^'-'''''*S^ '^S^ Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede ingreditìtr. 8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e di vita. Pisdnnont*, ad Orazio Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! D'un si vivace Splendido colorir, d'un si fecondo Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità secura, Altro mortai non arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio. Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia to. il mastro dei poeti, Orazio La cui lira per tutto manda il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al viceré di Napoli. Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume superbiam Quaesitam meritis VenoBino. AI LETTORI Dauti - /■/. Cult. XIV. // cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente orgoglioso per esser nato in così celebre terra, pili antica di Roma: splendida civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- dissima nei medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto Orazio Fiacco. Del grande Venosino smisurate innume- revoli sono state le produzioni letterarie che ne hanno decantato il nome, criticata F opera eterna, postillato e glossato ciascun verso o parola Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir altare del culto della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di reverente omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta italiano, e bio- grafie e ricerche storiche pregevolissime su tutto quello che riguarda la sua vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par- ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto. Duole non poco però che in Venosa, fra tanto lume d ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi sia stato scrittore che ab- bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^ fondita, e con opera particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere attraverso i se- coli venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un bronzo od una lapide parlava di lui sin oggi. '^ Ed invero il dottissimo cardinale Giovan Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta volumi in folio non trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve- nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema sult immortale loro concittadino ? Che anzi giustamente Francesco Fioren- tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce costui, perchè « discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un certo « risentimento che non è giusto, perché Ora- « zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un certo compiacimento nel ricordare la sua a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia perchè ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana, trova pure in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei tristi tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il Tansillo toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ? Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa- mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di Orazio, riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani e stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto » strenuamente compensato col fatto, che ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse emanano, o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- da con occhio impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della vita umana, da una sponda secura e tranquilla. Valete. Portici— Granatello 1892. DZE&O BAPOLLA PROLEGOMENI L mondo, questo pianeta, che pare sin oggi abbia il primato sul si- stema universale dei pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della creazione, avverti , circa duemila anni or sono, una di quelle trasformazioni , uno di quegli avvenimenti, che segnano date incan- 'cellabili, e che forse non più si verificheranno nei secoli futuri, tranne quando avverrà la fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini, la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio del bene in quello del male erano giunte all'estremo limite del possibile. Era prossima l'ora delle rivendicazioni, della re- denzione, della riscossa voluta dalla ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an- nunziato, già da secoli, come apportatore di pace ed amore. Roma, caput mundi, impe- rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi, ghermendo prede facili in difficili e remoti paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si disegnavano al massimo grado. I grandi ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori morituri. Roma già da sette secoli esisteva, quando l'umanità parve potersi paragonare al vapore chiuso in forte e potente recipiente che sem- bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta- vano maggiore e più antica coltura, eran pres- sochè cancellati da questi violenti conati di gente che era barbara e volea divenire inci- vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- poli al sommo grado belligeri pugnavano sanguinosamente per potersi dire cittadini romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da toghe e preziose porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- vano non use a piegarsi alle volubili e spesso avverse disposizioni del destino. Da Roma partiva quella voce imperiosa che comandava alle schiere invitte la conquista del mondo intero. Tutto pareva nascer gigante in quel tempo, e con l'impronta del misterioso e del sublime. Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu- gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate , Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le- vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone della foresta : nato da vilissima gente, sorbì sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità dell'animo, come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle turbe spensierate e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà arrestato da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate da montagne di ca- daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito dalla natura il genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto; era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto cuor generoso e forte. Non poche migliaia di Sanniti restarono sgozzati al semplice muovere del suo soprac- ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, che invano entrava nel cotidiano bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di paras- siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse infetto il sangue degli umani, tra i servi e gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate di rose, e briache e spossate dalla crapula e dal piacere. Era il preludio delle guerre servili. Dugentoventimila servi e Spartaco con centoventimila gladiatori produssero uno scoppio ed uno schianto formidabile, come potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei- mila. ►^( 6 )»►- A spaventoso movimento, repressioni più spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente ricco per le opime spoglie e per V oro rag- granellato con la confisca dei beni delle sue vittime e dei milioni di proscritti. Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz- zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, furono quelli che espiarono con lui V inau- dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- mida e di regio sangue , morì da eroe nella fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania, condottiero di stanche e poche agguerrite schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel povero oppresso e quel ricco oppressore, es- servi dovea odio mortale. Perversi però e scelesti ambidue ! Cicerone e Catilina, sommo oratore ma ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, e dalla fine del primo si videro strani risul- tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro- stri del foro romano, e la lingua foracchiata dall' aureo spillone della proterva Fulvia. Splendidi esempii agli ambiziosi I Mentre che alla magnifica Atene non re- stava che il primato nel mondo per le let- tere e per le scienze, e mentre V immensa Roma repubblicana si affraliva e s* incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- sacri e le guerre , nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima congiuratore con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- bizione smodata e livore. Fu uno dei più grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani gliene recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di leone ascondeva animo felino , vendicativo, dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di propria mano il corpo con la spada, piutto- ^( 8 )»^ sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger- mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo premeva come incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie umana sin da che vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra- tricida per invidia e per sete di dominio. E da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole umane. *) E da questi ai Torquemada, agli autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre ( 9 )»^ aizzava le orde a fare strage, e permise la tre- menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col sangue delle vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli, innu- merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a soqquadro l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e sudditi, tra volgo profano e menti elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- nistri delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato potrebbe raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala della nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica. . . . Tale era lo stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene scorreva sangue di schiavo. II. LA FAMIGLIA DEL POETA I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid), città situata tra la Puglia e la Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima dell' era cristiana, essendo consoli L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato , essendo Cesare compro- messo con la prima congiura di Catilina, per- chè sognava la caduta della repubblica e la dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira del secondo libro, così si cognominò. Ma tale soprannome non indicava che avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui, quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che quelli di sua famiglia fossero distinti con tal no- mignolo, tra le non poche famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in appresso. In un antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna, venosino, si asserisce che Orazio nacque nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della città, e presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi di fronte alla cattedrale, venendo ^( 13 M^ dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto /e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero. La quale condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li- berto ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone; come cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar non potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo stesso matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d* un patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il liberto sotto la tutela del passato padrone, e lui malaugurato se a questo si fosse ribel- lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- rifici, mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di -«( 14 ))^ Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel senso detto dapprima, volendo intendere che suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al- cuno. \ . Il padre di Orazio prestava il servizio di riscotitore di tasse del comune di Venosa e di banditore, era un servus pubKcus; il Che dimostra che il suo passato padrone essere dovea di alto grado sociale, assegnandogli tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi potea felice ed agiato, stantechè possedeva presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene Orazio dicesse esser suo padre macro pan- per ugello) un conveniente provento, e quindi potette unire al suo impiego anche un negozio di salsamentario, o salumiere; e come vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la- conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum ( 15 ) brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se emungere solebat. 5) Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, compreso lo stesso Svetonio, né il nome di suo padre, né il nome e la condizione di sua madre. Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri- zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che erroneamente fu detta esser la casa di Orazio, così concepita: HORATI C. L. Dio .... MlTULLEIAE UX. . . . e che sì è voluta decifrare così: HoRATio DioDORo Caji Liberto MiTULLEjAE Uxori 6) La quale interpretazione importerebbe che il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo -«( i6 ))^ un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due eruditi Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci , opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell' il- lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso, secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re-- gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia, colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii nascimento. Né si potea concepire che , fra tanta chia- rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non enunziasse neppure il nome di quelli che gli -«( 17 )f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi- lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto sprovvista di mezzi, il che per- metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi con iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- sophia vetus et nova ad usum scholae, opina che un avo del poeta Orazio, assoldato nel- r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma, e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla pen- na del letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando della parte princi- pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sem- pre rammarico per tale causa. 3 ( i8) Altri poi (come rilevasi da vecchissime edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stante- che si è voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban- ditori in quel tempo solcano annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^ tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre di Orazio e quello della sua genitrice: se ne conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa. Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino suole volgere l'aratro tra i ( 19 ) due confini di queste due regioni. E che Luigi Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però ch'il venosin villano Ara i confini d'ambidue paesi..,,. Ed una colonia romana fu spedita in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar- neli, e per impedir poi che tale infesta gente corresse sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e mostra ad evidenza V importanza della città di Venosa in quei tempi. Orazio volle con precisione dichiararsi ap- partenente alla colonia ronìana che discac- ciava da Venosa i Sanniti. Eppure i Sanniti furono di razza Sabina, ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata patria, la sua aspira- ^ 20 >»^ zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana commedia ! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica, ed il sistema democratico formava la base delle loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria davan persino le avvenenti compagne e le figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo li espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice che la colonia venosina, debellati i San- niti, divenne propugnacolo contro le ossi- dioni di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare che Orazio per quanto asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- lonia romana ivi residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli meritevolmente la taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare una sola volta in tutte le sue opere la patria •^ 21 )»- sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì il nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod-- cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite..... E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine selve in lucani boschi: Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ Ai flutti esperii^ di là ratto il muova A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7) E per giunta in tutte le sue opere Orazio non nominando mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi, TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate con le qualità individuali, superiori e rare, -«( 22 )»- vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio, sovrano poeta, onore della razza umana! Venosa, la patria tua, perdona tale non- curanza, e tale al certo involontaria irricono- scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare note che sorbisti le prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò bastar deve per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se pur può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o sdegno, come invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia benefico genio del luogo su quella ancor bellissima terra; oppure da qual- che stella lucente gitta raggio amico che mo- stra la via al viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via nera dell'antico mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si annega ! Orazio scrisse : Che qual figliuol di libertin trafitto Soft da tutti. 8) Invero Guerrazzi da savio sostiene: La -«( 23 )»- ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven- do la natura concesso all'uomo maggiori po- tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^^ L'assillo nonpertanto che tormentava Ora- zio era la sua nascita: perché non potendo schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea discendente da schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo fatto educare, istruii^e e porre a livello dei giovani di buone famiglie ed agiate. Che anzi con boria e sicumere che mal velava lo struggersi interno, asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella superba Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo- sa questa sua assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per accaparrarsi sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei grandi, che un solo fortuito caso gli permise avvicinare, e come molte volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone le grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di venire annoverato tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori ! Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso sia, in questa commedia umana nella quale regna sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva circa la sua condizione nella società nella quale viveva. Ma quel marchio che al solo presentarselo alla mente lo straziava a morte, il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce sublime quando esclama: Io disdegno e allontano Da me il vulgo profano Tacciasi ognun Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò grandemente il padre, perché -«(25 )»- questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove molto era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se- natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne. Orazio nacque, come si accennò, dodici anni prima della congiura di Catilina. Cele- bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo. E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla volgare, la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di Orazio, che pur non dice il nome del suo genitore, della genitrice, della patria. A questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera nobiltà -«( 26 ))^ venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione : Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM Splendidae Civitatis Venusinorum Consecravit ") resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun che di grande, e pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade- guato e conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al massimo, secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an- norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che -«( 27 )»- trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor- dando il padre ed i felici giorni della pueri- zia, e sentendosi nella folla della scolaresca deir immensa città susurrare airorecchio di esser creduto di alto lignaggio, dice : Ma d'alti sensi osò condurre a Roma Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti Che un cavaliere che un senatore insegna Ai propri figli, Allor se, come avviene In un popolo immenso^ avesse alcuno Gli abiti visto^ ed i seguaci servii Certo creduto avria spese sì fatte A me apprestarsi da retaggio avito 13) La quale ingenua confessione dimostra che il padre di Orazio, sebbene appartenente alla bassa condizione di liberto, non doveva essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^ non vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi vivono certo vita allegra, vestono panni di lusso, e possono farsi seguire da servi e staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma- nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio però per generoso e riconoscente sentimento riferisce al padre il potersi istruire con tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira repressa del figliuol del liberto 1 ni. ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE L padre d' Orazio condusse suo fi- " glìo in Roma nel 699 , cioè cin- quantacinque anni prima dell' era cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età. Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate strade della magnì- fica Roma. Ergevasi la città , che imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente nel mondo , perchè dominio di validissime potenze: la tiara, e la monarchia costituzio- nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti lunghi e meravigliosi, porte monumentali, mura che potean vantarsi più durature e in- concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con ingentissime spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la grandezza delle vittorie ro- mane dalle spoglie ricavate dai potenti e riottosi nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e potente alla vista, il che poteva lusingare i sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non proveniva da paese barbaro e povero , bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e stupenda, siccome attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la corro- sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere ( 31 ) nella sua ampiezza e magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più sopra si delineò la proterva jattanza), quel popolo, dapprima così forte e generoso, vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- derante, la libertà che offriva ai cittadini la repubblica di Catone, repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza ed il mal costume tor- cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò Orazio stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse che le cure del suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante grandezze e fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca- dere in brutture ed ignominie e dal venir tac- ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu- rarono la stima dei buoni e dei veramente grandi. Il padre soleva giornalmente condurlo dai maestri più celebri della città, ed ai banchi di quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto ( 32 )»- Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero superava per lusso e per criterio sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto quello che gli die natura, non trovando altro uomo più coscenzioso, più perspicace, più amore- vole di questo ! Desta ammirazione e mera- viglia questa confessione, se si rifletta che il padre di Orazio era illetterato, e che era stato soggetto alla schiavitù 1 Ed Orazio nel parlar di suo .padre include pure la madre sua, perchè dice: . ... io pago a' miei (genitori), di fasci E di sedie curuli avoli adorni Saprei spezzar . . . . »S) Le prime lettere gli furono apprese da Pu- pilio Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il con- solato di Cicerone. Visse centenario; morì povero , solita fine dei non pochi lavoratori coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora- zio, che se lo rammentava con satirica soddi- sfazione. L'uso delle sferzate nella palma delle mani degli scolari, antico più del tempo del quale si discorre , formava sin negli ultimi nostri giorni un genere di punizione che la civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome si è tolto il barbaro uso di bastonare e torturare i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- tuirsi a quelle corporali e costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me- nando a memoria e tratteggiando le scene drammatiche del poeta Livio Andronico ed altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni, cominciò ad attingere alle fonti delle lettere greche, che egli stesso poi definì le più pure e che dovevano occupare i dì e le notti degli scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra- lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che 5 gli fece acquistar gusto alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap- prese quell'arte divina , quella melodia am- maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago- narsi all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per similitudine del nome d* un monte della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti immortali 1 Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare l'aurea massima di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del tetto «npic.1, eha Bud«t ■ var»(EUr bnpuko . SctDW col cV»l. Io rad•- che, essendo gli scribi addetti al contenziose amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano un' autorità speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi formavano un collegio a parte e la carica era vitalizia ed inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, e presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del secolo decimonono, come da altre che vennero con esattezza riportate e com- mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della questura, ed appartenente al sur- referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- rono un monumento in riconoscenza dell'alta protezione accordata da lui a questa città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae. Datus, •^( 69 )»- VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. TlBURTIUM. Siccome quest'altra seguente iscrizione a Manio Valerio Basso antico tribuno di legio- ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854 nel Giornale di Roma dal comm. Visconti, rende noto che la carica di scriba della que- stura soleva assegnarsi alla miglior classe dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam- biare con la carica di tribuno delle milizie, acciocché se qualcuno fosse stato esonerato o per età o per volontà, trovar potesse un appannaggio adeguato al proprio valore, ed un meritato guiderdone: Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. Primo. Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. Fratri. Suo. Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum. Erroneamente quindi gli antichi interpreti della parola scriba e dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e biografi attribuirono solo il senso di copia- tori di pubblici atti, oppure notai o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi zio più facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti di queir età, come si \ drà in appresso. U importanza poi di tale impiego ott nuto dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso scrisse nella satira sesta del libi secondo : Quinto , Ti pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto affare Al collegio d* altissima importanza ... 32) Anche il Gargallo spiega la parola scribi con la voce notato; ma non credo aver voluta egli intendere quello che oggidì importa h carica di notaio, bensì componente il collegio degli scribi questorii suddetti. Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in Roma tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e lucrativa e tra i diletti della poesia. Non può asserirsi con piena conoscenza quanto Weichert, uno dei più indefessi il- lustratori del poeta, nella sua opera Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che Orazio avesse solo ventisette anni allorché venne presentato a Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un mito quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari. Volendo però se- guire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la presentazione di Orazio a Mece- nate successe quattro o cinque anni dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran protettore degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise nella propria corte se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo- nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico noverare la satira quarta del primo libro di Orazio come scritta poco prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con quelli che lamenta- •^( 72 )»- vansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ] egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo, i costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome disprezza calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando le mie composizioni nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel accademie. Scrivo per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura intenzione di ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh costarono sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver calunniato chi merita lode, d'aver scemato il merito, anzi non aver abbastanz; lodato i cittadini eminenti ed onesti? Un uomo che parla così di se stesso me- ritava venire annoverato tra quelli la cui ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e Virgilio lo presentarono a Me- cenate. IO VI. MECENATE iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio Mecenate nacque in Arezzo l'anno di Roma 686, e 68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile, -■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di- ì scendente dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi venuti a soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ot- taviano, e fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene. Egli pure, seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli la repubblica e difendere Roma dai nemi interni ed esterni. Non fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto divenne padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl di rappresentarlo quando si allontanava e Roma. Preferiva il sistema governativo a regim monarchico assoluto, piuttosto che quell retto a repubblica, e riuscì a far determinar col suo savio consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano che per suoi fini particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell propria influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito per rendere Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza ed a far più manifesto il fastigio della monarchia. Amante del lusso, egli stes ( 71 >- so spronava Augusto severo, economico e restio al grandeggiare, al rendersi sovrano per magnificenza e per sublimi intraprese edi- lizie e monumentali. Sposò Terenzia, donna di grandissima bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: ritornò ad essa sommesso: che non hawi grande uomo esente da mende , principal- mente dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^ la dipinge nel vero suo aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) una Storia naturale, la Vita di Augusto, e diverse tragedie e poesie. Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo: largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi letterati del suo tempo. Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul- lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son- tuosi conviti od a sterili raccomandazioni Bensì soleva rendersi splendido per largi zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono succeduti sulla scena del mondo pro- dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei dare ed innalzare chi realmente possedeva meriti personali così insigni da immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del lorc ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu- sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della splendida sua villa a Tivoli non sarebbero bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran- dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il vero monumento imperituro a Mecenate glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino. Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo insigne protettore: « O Mecenate, o decoro nostro e parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- do della sua persona; ma non attribuisce a lui, bensì al proprio ingegno la propria im- -«( 79 )^ mortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai meritati allori ) non comportava servilità comuni al volgo. Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una sola favilla di quel genio che il gran cittadino di Venosa stesso definì particella di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non equivalgono a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto eguale in nessun mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, Orazio venne presentato a Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie, che aveano già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette succedere neir an- no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor- passato il ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa presentazione: r ottimo Virgilio Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor preclaro Né me opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«) ( 8o )m^ E dice pure: Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s) Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà tanta bonomia e tanta confusione vedendos al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu un amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui, mentre pel contrario molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine cercavano fargli il maggior danno possibile? Aggiunger poi si deve che la magnificenza che circondava Mecenate, il suo palagio, la fila dei cortigiani che colle teste curve sino a toccare le lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti, dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. ^( 8i )]»- ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, colla divisa brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua mano largita un' alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e compiacimento? Se nulla hai provato, dir debbo che l'animo tuo è insensibile come pie- tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci- turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, quando la mano del gran re strinse la loro ! Discordanti ben vero appaiono le opinioni circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e da Vario presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra nelle me- morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737 il II •^( 82 )»- viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi e quindi pochi mesi dopo questa data la pub blicazione della satira quinta del libro primo che ne descrive facetamente il viaggio , l evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia del Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av venimenti e degli anni nei quali Orazio com pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- solati sotto i quali Orazio accenna scrivere, viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od in quel torno di tempo, cioè quando Ora- zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò più presumibile. Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo alla sua salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo ammettere nel novero dei suoi amici stretti. ( 83 ) Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis- simo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri della milizia: sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente: a- mante del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle col vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto; ed i malanni della precoce se- nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la cisposità degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di quelli che doveano essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed ospite nelle sue splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni -«( 84 ) detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup plice nessun onore, provando in petto senti menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i cor tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali espression di superbia che si notano nei suoi scritti, at testano lalto grado della sua alterigia , fie- rezza ed indipendenza. E non aveva poi h carica autorevole e redditizia di scriba que- storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante poco, a lui nemico del lusso e delle albagie boriose dei grandi, come potette addebitarsi tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es- sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia- mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro. -«( 85 ) È noto del resto che il gran Venosino nei più antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza altissima, come ora si tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere sem- pre il male nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene I L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo animo riconoscente e buono. Mecenate lo colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per aver ester- nata la sua riconoscenza procacciossi la tac- cia di pettegolo e vile adulatore. Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La malizia regna sovrana negli apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato espri- ma le proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi sublime, esponga le massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene dair ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario, allo scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. » -«( 86 ) Così giudicano gli uomini! Le massime così morali ed istruttive d Orazio, la sua circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua amicizia, che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono Orazio. Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg- giante di propria luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo, perché pregavano Orazio stesso a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche e petizioni a Mecenate per aversi quello che Orazio ottenne per suoi meriti straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi- pendenti e sommi non mercanteggiavano ( 87 ) sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò sempre una virile dignità, né fu mai pa- rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità, insieme ! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed amichevole che Mecenate ad Orazio diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me videas strigosiorem, (( Se io, o Orazio, non continuerò ad amarti più di me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^) Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di Mecenate, né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo- vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che la povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non m*ami Che di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9) -«( 88 )»- Si noti differenza di sentimenti ! Orazio così risponde al celebre giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a celebrare coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano : Trebazio di Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne otterrai ricca al lavor mercede, Orazio cedono ineguali A tanto desio le forze inferme. . . . . fuor che in propizio istante . . Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30) Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai quali brani si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo grado, tanto da temere che essendo le sue opere immor- tali, non curasse d'immortalarlo in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui so- leva scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incom- prensibili a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che chiarissima a lui stesso appariva. ( no ) Di bronzo più durevole Ho un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh* io seppi alzarmi Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,.. Superba or va^ Melpomene Dei meritati allori Tutto il terrestre spazio È angusto a me confine,... Non io Da r urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del figliuol di Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi posteri Farà ch'io, guai per fresca Aura, arbuscel piti vegeto Ognor m^ innovi e cresca..,. La pompa è a me soverchia Che r altrui tombe onora,.,. 34) Colui che si esprimeva in questi termin sentir doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire i favorito del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso Mecenate. E che la superbia di Orazio fosse stafc -^ III )»- sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili, patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi del poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo offerirgli più che un podere in Sa- bina, potean delegarlo proconsole in terre lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i voti del venosino. È notorio che Orazio non usò altri di- stintivi di onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che l'amico del potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere che comandato aveva una legione ro- mana! Un poderetto in luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran città, un tetto sicuro, la certezza di vivere ( 1J2 ) agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama, che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich- casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi viventi. Vollero onor sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re della terra ! IX. LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo — Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice del 1878 in Napoli si ammirava un cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia, dell'illustre pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del San- sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita- liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som- ( "4 ) mo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d' Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien compreso d' ammirazione p l'arte e per la precisione storica che vi nota. Non palagio cinto da portici, o i parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui modesta costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si arrampica un cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da un delle quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui compare il busto di On zio che maschera una vaga donzella, dell quale si distinguono solo le belle fattezz- rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si versan dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una capretta randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spetta- trice innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro per formarsi una idea della proprietà che Orazio si ebbe in dono da Mecenate, unico dono che la sua modestia aggradì, e che confaceva al suo ideale. Orazio cosi enunzia la topografìa del suo podere rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non che t interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato Ne copre il sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima Ne loderesti »7) Nella terza satira del secondo libro per la prima volta parla di tal dono che gli venne fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina il Dacier, nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit- ( ii6 )»^ ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità del tempo che ogni traccia di opera distrugge ed oscura, fece del tutto scomparire le vestigia della villa di Orazio in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la religione che accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- deri di tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso Orazio nelle descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu) e nella quiete. Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- siano, nelle sue Racemationes venusinae , stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole oraziane; e principalmente r opera che X illustre letterato abbate Cap- martin de Chaupy pubblicò in Roma nel 1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta della casa di Orazio, possono offrire pre- -«( 117 ) zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in- vestigazioni profonde e minuziose fatte per dar luce chiara a tale obbietto. Orazio disse che al suo piccolo fondo ba- stavano cinque lavoratori per menarlo a col- tura, i quali andavano a smerciarne le der- rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- centi a quelli che lui stesso abitava, e dove ciascuno soleva vivere con la propria fami- glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far della sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette azzurrognole che ne indicavano il ru- stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno tranquillo. Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii di terre nelle province meridionali di vivere nel proprio fondo circondati dai rispettivi coloni, e r occhio vigile del padrone non nuoce alla prosperità di esso. Si comincia pure oggi a comprendere dai ricchi possessori di latifondi che la pigra vita delle popolose città non ridonda a vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure ca- stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora -«( ii8 ) presso la sorgente, donde si ricavano quel ricchezze che rendono disuguali gli uomii fra loro. Si renderebbe così possibile e pei donabile tale disuguaglianza!.... Il principale castaido di Orazio dovev nominarsi Davo, marito forse a quella Fi dile alla quale dirige consigli savissimi salutari con una sua epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo son per h più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- ste saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena facoltà di esternare i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti dal pa- drone, ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si è conservato sin negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel suo sudicio e laido poema, che intitolò // yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà possa degenerare in licenza) svela il suo animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane usanze e prosperità derivanti dalle ( 119 )^ buone e fertili annate, e dall' amor del suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città per quanto spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del campagnuolo si nasconde un guattero tralignato, ed un operajo invido ed infingardo. Davo prima di entrare nel podere aveva servito dei signori romani nell* ufficio di mediastmus. Si figuri il bel tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce- dua (dove al poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio lo fé' restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che servivano ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di frutta delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite poi formava la parte più ricca del fondo, e dalla quale Orazio solea distillare quel cele- brato vinello che non disdegnava far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo ( I20 )»- di acqua freschissima, che ricascando in gt terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava poi una fonte limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre fon Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; la patria del poeta, e che ancora oggidì qu di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah di Venosa, presso il bosco di Banzi. La fontana D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> è appunto \ attuale fontana degli Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press Venosa nella strada che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai da Orazio in una gita a Venosa per cacci, o diporto. Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In che cosa si discosta dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla divinità che dall' alto dispone, assiste e pro- tegge ? O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale che tutto vede e dispone, e che premia o punisce. Non è la sommissione buddistica, bensì la virile sommissione ad una forza on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra celesti Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- dava: // est, il est, il est! ■**) A tali credenze religiose mescolandosi la -c(a più dolce salsa alle vivande Procaccia col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi familiari ed alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi mede- simi avevano manipolato dopo la gioconda vendemmia. La sua mensa era linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un vasello emble- matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio e quale usanza religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in tutti i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva per purificare e consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è 19 ( H6) mista al sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me- cenate, al quale scriveva: n nauseoso lusso ammirar cessa. Grato ben giunger suole Sovente ai grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là dove ammessa Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto fa sparir le impronte Che affanno incide in accigliata fronte. Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio Povertà senza fasto e senza sfregio. 53) Ed in tali circostanze straordinarie mo- strar si soleva galante a modo suo. Inco- minciava col prevenir gli amici che se con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero pure alla sua mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. ( H7 ) Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- tirono di vino sin dall' alba le dolci muse. Prometteva ai commensali che li avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso a per- sona che non gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi, presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La gentilez- za, poi, formava il principale suo pensiere. Così scriveva a Torquato: Già il focolare da un pezzo e le stoviglie Splendon rigovernate a farti onore A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,. Che sozza coltre Che sordido mantil non giunga il nc^so Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto Tal non sia che specchiarviti non possa 54) Né gli piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e buoni: Che caprino sentore ammorba i troppo Folti conviti. 55) -«(148 ) Riesce in vero gradito e dilettoso figi rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi vito, con quel suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto, coronato di rose, levigato terso colla cute, da sembrare un majaletl lustro e pinzo. Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit curare gì' innesti delle piante e degli albei da frutta; della qual cosa solcano ridere vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e e Mecenate e di altri potenti fosse familiare non poteano persuadersi di questo suo amor per così rustiche e basse faccende campe stri. Non riflettevano essi che nella ment del venosino eravi fisso, incardinato il « m admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di Democrito. Orazio era dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor lo lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie consiglio: ( H9 ) Alma al ben fare accorta Tu serbi • inflessibile A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57) E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di tratto in tratto recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno della sua carica di scriba della questura, sia per altre faccende, sia per coltivare le amicizie di Augusto, di Mecenate e di altri che egli stimava, principalmente versati nelle lettere e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani, dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette- rati non lo avevano risparmiato. villa, e quando io rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or fra i volumi Or tra il sonno e le pigre ore oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio ì Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come va conditi Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I -«( I50 )»- notti I cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar coi miei m' assido^ E mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai miei servii io stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente immerge nel bagno, e dopo ungere si solea di o profumato e finissimo. Nel vestire most vasi dimesso e noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o da potersi dir come vuole san- to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- nario ed inesplicabile quanto in appresso verrò esponendo circa le consuetudini do- mestiche di Orazio. Nelle molteplici edizioni delle opere del sommo poeta, le quali riportano la sua bio- grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho rilevato che si è tralasciata una notizia in- teressante che riguarda una sua pratica oc- culta, la quale può ben riferirsi al culto sur- riferito di misticismo caldaico. La vita di Orazio composta da Svetonio Tranquillo, che fu V unico che scrisse del gran venosino pochi anni dopo la morte di ( IS7 ) lui, e che fa accrescere certezza alle investiga- zioni fatte neir analizzarne le opere, si com- pone non più di una sessantina di versi di stampa. Tutto è laconico e scritto fugace- mente, come se si trattasse d* un cenno ne- crologico. Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare con certa diffusione Solo l'a- micizia intima che legava Orazio ad Augusto, ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani di lettere. La quale riproduzione di brani di lettere di Augusto ad Orazio dirette forma- vano forse il soggetto che per la maggior parte dei contemporanei destar doveva in- teresse maggiore, e far di Orazio un uomo agli altri superiore per tanto onore. Il brano della biografia che è stato cancellato ( forse per purgarla), V ho rilevato da un' edizione olandese delle opere di Orazio del 1663, pub- blicata dal filologo inglese Giovanni Bond, che la prima volta comparve in Londra nel 1614, e dopo se ne riprodussero diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente : (( Ad res venereas (Horatius) intemperan- tior traditur nani speculato cubiculo scorta dicitur , habuisse disposila , ut quocunque -«( 158 ))•- respextsset, tòt et imago e re f erre- tur....... )) Formava adunque per Fiacco un culto (( / ars Venerea » , ed egli addimostrava- sene tanto fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna , il quale era pure investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di Venosa, si leggono i seguenti versi che rin- forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il che tutto è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese del 1700, nel suo poema. « L Emulation » va all'eccesso contrario, proclamando Orazio (( modéle de bravoure et de chasteté. » Ciò che forma adunque l'addentellato al dispregio di molte produzioni oraziane, viene per tal riguardo distrutto ; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei tempi una qualifica essenziale dell' immora- ( 159 ) lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i costumi, qual altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d' ir- religione e lascivia. Egli volle vivere sempre celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto d' alta responsabilità che non volle allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto. La moglie di Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza, infedeltà e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo. E non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura di Mecenate, intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo, quando com- pose la biografia del marito dell' infedelis- sima Terenzia. (^^) Il suo celibato vien confermato dal non aver scritto mai carme o verso per donna che fosse stata sua moglie. ( i6o ) E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il rimirar sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^ di ?narzo a le calende E fior prepari. E solo ad un celibe sarebbe convenuto far pompa di tante conoscenze di cortigiane e donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso- no, essendo state amanti riamate di Orazio, che se egli non aveva moglie, godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e celibe. ìÀjiS^Ì se. "*-Sj XII. GLI ULTIMI ANNI DEL POETA GuOALio — Tml. di Orm , N moltissimi punti delle opere di Orazio appare che nella sua mente elevata si presentava l'immagine della morte, questo indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto in- cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so- steneva che : Con impavido ciglio Se delteteree spere in pezzi infrante ( l62 ) Valta compage piombi Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non poteva con tutto ciò esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di terrore in- generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. ...... Nato a morir ^ Tutti attende alfin quella profonda Che non conosce aurora unica notte . . Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . . Presto rapì t inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la sorte Necessità di morte Getta sovra ciascun Legge crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo Tutti spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66) Tutta la sua filosofia: le massime di De- mocrito e di Epicuro, che facean precetto essenziale di dispregiare e non curare gli orrori del sepolcro, non bastarono a toglier questo pensiero ftinestissimo dalla mente di lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano ( i63 ) il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di quel Dio rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so- levansi ammettere quei miti inverosimili ed incredibili, che acchetavano la bramosia di quei popoli privi di una fede consolatrice, che prometteva la beatitudine ventura come compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il piacere terreno formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe- rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella della materia andava a ricongiungersi alla materia: Noi cadendo Nella notte che non sgombra Più non siatn che polve ed ombra . Degli anni il breve termine Vieta ordir lunga speme: V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti preme, 67) Nella distruzione completa del suo essere Orazio ammetteva che soltanto una parte di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il (J60 frutto dei suoi sudori, il suo monumento: r anima sua. E tale credenza, che non era dubbio, gli scusava la fede nel!' immortalità dello spi- rito umano. L* (( omnis moriar », espressione tanto concisa per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui neir immortalità del- lanima. La paura della morte comune a tutti, sebbene con tanta jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata, più che Ora- zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e conta- giosa, Orazio non addimostravasi meno al- larmato di lui. E tal pensiero dominante trapela nelle sue opere, come quell'altro, che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura della morte era così possente in Mecenate da fargli dettar quei versi riportati da Seneca, che non fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest, bene est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^ -«( i65 )»- Tanto grave e scoraggiante riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve- nire inchiodato in croce come l'ultimo dei malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca- ronte nella palude Acherontea. Orazio venivalo consolando con teneris- sime espressioni, perchè Orazio non era co- dardo, né intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue espressioni non appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo compagno nel dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro di paura : , Non piace ai numi Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi Un dì medesimo fia d* ambi estremo Ne il voto è perfido, inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori Pur teco air ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri consentono 69) E tale profetica consolazione, per istrana fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito veder tutto con tinte soprannaturali. Buona parte di quello che molti direbbero spirito -«( i66 )»►- profetico attribuir si deve alla paura della morte che premeva così Mecenate come O- razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non è vigliaccheria, bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che questa paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata di falce, sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli appestati. Se non vi fosse terrore e spavento istin- tivo del morire, quale prodezza, qual valentia sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno delle armi nelle tenzoni cavalleresche ? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, il sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli altri. Nel suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura di Orazio Fiacco come prendereste cura e terreste memoria di me stesso I » E riesce veramente straordinario come, morto appena Mecenate, che era già soffe- rente e presentiva la propria fine , dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il ( i67 )»- sommo poeta, da non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima notte, siccome aveva promesso. Orazio morì neir anno di Roma 746, es- sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da qualche tempo varcati i dieci lu- stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof- ferenza ai nervi e malinconia che accom- pagnar sogliono per lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno a logorarsi la mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti per le occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade il cervello , principalmente quando gli anni incalzano. In una lettera che il poeta scriveva ad un compagno d'impiego nella questura, Cel- so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- duto e careggiato dal giovane Nerone, erede ( i68 dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo , per questo favorito di ven- tura) così diceva : Dritto né ameno è di mia vita il corso^ Perché men della mente sano Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi Medici fanno orror, gli amici restia Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor debil troppo e troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70 Col corpo affranto dal peso degli anni, dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle avventure e nei godimenti venerei, sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor- tale malattia del suo Mecenate e la fine dì questo. Il colpo fu troppo violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra debole non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la- coniche note di Svetonio, circa la vita di Orazio, dice che lo stato suo di salute era ( i69 ) deteriorato assai con gli anni, che non gli conveniva più restar l'inverno nelle monta- gne della Sabina, nella sua cara villa : che svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi enimi fere otium suwn conferebat , ibique carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava Orazio infermo e pensava morirvi là. Così egli scriveva al fido amico Settimio: Oh tregua al vecchio fianco Tivoli dia Quivi piagnente di pietosa stilla Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) Certuni erroneamente attribuirono la mor- te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate. Ma deve venire del tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni. Orazio dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so- leva dileggiarli; e la storia di Empedocle, che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente lo dimostra. Empedocle per desio di molta vanagloria e prodezza, invano precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la inutile bravura. 22 ( I70 ) Esaminando imparzialmente e con co- scienza la vita di Orazio, si nota che ogni sua cura si volgeva a conservarla, sia che militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa- bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che era già fiacco e malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che il dolore della per- dita del suo più caro amico e protettore Mecenate (egli così amante degli amici e riconoscente) doveva avergli prodotto tale un rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la morte con colpo apopletico. E son numerosi gli esempii di fratelli od amici ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re- pentina disparizione d* un fratello o d' un amico, li han seguiti immantinenti nella tomba sopraffatti da colpo di malore vio- lento. Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E che fu tale il suo genere di morte lo prova poi chiaramente il non avere avuto il tempo di tesser un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva assistito negli ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e -«( 171 )»-* con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere il proprio testamento. Svetònio dice: (c Quum urgente si va- letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- menti tabulas . )) 73) Dovette avvalersi di quello che, dice Giu- stiniano, prescrivevasi dal giure civile di quel tempo, cioè della prova testimoniale di sette cittadini, che dinanzi notaro provarono esser volontà del moribondo Orazio che l'im- peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio per decidersi a lasciare erede \ imperatore , che consentì ad accettare \ eredità, doveva esser fornito di non pochi beni di fortuna. Che di fondi, che di valsente doveva aversi senza manco veruno un buon dato, stante la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio quando accennando alle largizioni di Me- cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- tera liberalitate locupletavit. » Ma delle sue sostanze rimaste non ap- pare vestigio od accenno, meno della villa e del podere in Sabina, che han formato, come si disse, la paziente investigazione dei dotti archeologi e degli ammiratori ( 172 ) del grande poeta. L' aver lui posseduto po- deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che una supposizione dei comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi- razione han formato un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua diciottesima ode del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara- zione formò la base delle rimunerate inve- stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy, siccome si accennò parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti, principalmente dal Tommaso Nicolò d' A- quino, autore dell'opera Delle delizie Taran- tine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione topografica di Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato tarantino, nella sua versione dell' opera del D'Aquino, con note, non si è potuto affermare che Orazio avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe vi avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi ( 173 ) vestigio di casa o podere a lui od ai suoi appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della città di Venosa del 1500, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo a quella che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno della tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da tale ipotesi lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda- turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non riferire invece con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si è riferito nei capitoli precedenti circa la dimora di Orazio in Venosa, ove si trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per non averne fatto il menomo indizio in tutte le -«( 174 ))^ sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- sione dei campi asserita dal Cenna è un sogno. Che Orazio abbia fatto in Venosa qual- che rara apparizione , forse per diletto ed in compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es- sendosi recato Orazio a cacceggiare od a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. Orazio, come si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu- cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no- vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori delle sue opere , il numero LXXVII per LVII, assegnando ad Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra septuagesimum ( 175 ) annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio, ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati cinquanta- sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV anno di Augusto, il secondo asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi estremi non è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato , tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve- tonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa ripo- sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno nato di reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di liberto. -«( 176 ) Una possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare, divenire tra loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante della tromba della fama procacciatasi col proteg- gere generosamente quella schiera immor- tale di uomini che vissero nel secolo di Au- gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta sua la gloria che fa semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del sommo poeta non si conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da po- terne precisare la struttura corporale ed i lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico, per vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano , che ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure aveano resi argentei. -«- Questi hanno improntata una certa tinta di pazzia benigna, che in luogo di ammira- zione suol destare compatimento, antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro osseo che le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella veste esterna non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio od un cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli antichi della Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma- nierose, affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- trina Nummorum » e lo conferma Masson nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti- tolato « De Horatii effigie », essersi rin- venuti dei medaglioni di metallo, terminati nella loro circonferenza con un cerchio da tre a quattro millimetri di larghezza, e che ( i8o ) possono ben rassomigliarsi alle nostre me- daglie commemorative o di onore, nei quali si vede inciso in un lato un busto , ed intorno ad esso la scritta chiarissima (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è illegibile e consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a tenore di quanto più sopra si è esposto. Uno di essi si conserva nel museo del Louvre. E certo appaiono riproduzione di busti o medaglie d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno è r opinione del dottissimo barone Walke- naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, « o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran venosino. Deve però convenirsi che un uo- mo che ha da poco varcati i cinquant' anni, raro è che si renda deforme e barbogio. Anzi la razza umana generalmente suole giungere a questa età ancora atta a buona vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. Se r aureola che circonfuse Orazio non fu il (( nomen imitile » e neppure X opi- nione che i suoi contemporanei ebbero di lui ( opinione poco proporzionata ai suoi -«( i8i )>9^ meriti, secondo che dottamente asserisce Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo posto, perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio Satiro), maggiormente risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r eternità gli uomini risentiranno per lui Trascorsi appena nove anni dalla morte di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por- tentosa ! t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-! ^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^ XIII. L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode XXX. HE dire di Orazio poeta, creatore nella letteratura latina di due ge- neri di poesie del tutto nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è quasi il solo che merita di esser letto, poiché s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7) continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora- zio sono accuratemente felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- dero la strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il coraggio di batterla. » E que- st* opinione distrugge la miserabile assertiva di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi, appena poeta non isprezzabile [memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, . che tra certi letterati sono solite malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti- bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio , Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo , Dante, Voltaire e cento altri, a coro una- nime, gridarono le lodi del gran venosino. Moltissimi eruditi si sono occupati di stu- diare precisamente le opere di Orazio. I più celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber, ( i85 )>9- il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, e dell'altro che prendendo nome dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere con pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio scrisse le singole parti del suo eterno monu- mento. Cercherò notare le più interessanti investigazioni. Orazio dapprima scrisse le satire e ne compose il primo libro negli anni di Roma 713-718 , non avendo ancora raggiunto il trentesimo anno. Pare che la prima di tutte sia stata la settima fatta neir inverno del 713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe con impeto sarcastico contro un tal Rupilio che con lui aveva militato nell'armata di Bruto, Segue poi la seconda scritta nell' autunno del 714, nella quale parla in generale dei vizii di cui la società romana era infetta. La quarta 24 ^ i86 ) satira fu scritta nell'estate del 715, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi mostrato un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il parere di Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici Virgilio e Vario presentarono a Mecenate, avendo inculcato al poeta di scriverla per cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse la terza nel principio del 716, ed in essa fa vedere che mentre gli uomini sogliono cri- ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, e non vedi la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i commensali di Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con gran lepidezza e pre- cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi fa risaltare la figura di Mecenate come attore principale e come uomo politico, spe- dito dal governo per delicati maneggi a quel luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per- sonaggi influenti, e che compagni insepa- rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario, ( i87 ))^ Cocceio e Tucca. Compose poi la prima satira in omaggio al suo gran protettore, e pubblicando il libro nel 717-718, la pose come principale, perchè a lui dedicata e per testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona dopo circa un anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli la protezione di Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente velenoso della livida in- vidia, di non esserne a parte. La bellissima satira sesta, nella quale pone la virtù come il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i superstiziosi e le donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di Spohn, nel 719. Il libro degli Epodi era già stato com- posto da Orazio prima del cennato primo li- bro delle satire, ma fu pubblicato non prima del 729. Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- ventore dei giambi, al dir di Diomede gram- matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- preso il Gargallo nelle note, ammettano che epodi si dicesse il libro compilato da odi pò- ^ i88 )m^ stume di Orazio, fondandosi sul termine gre- co epodem, che significa sopraccantare. Benteley, Weichert e Jahn sostengono che il secondo libro delle satire sia stato com- posto negli anni 719 a 729. E la terza del secondo libro delle satire sostengono essere stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo- strando che già poco più che trentenne Orazio avea avuta donata quella proprietà. Riguardo alle odi, furono scritte, se- condo il parere di Butman, del Dacier e di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, cioè nella sua età di anni cinquantacinque, solo l'ultima ad Augusto, come omaggio al più grand' uomo del secolo e suo insi* gne benefattore. Orazio dalla sua villa aveva spedito ad Augusto diversi scritti e molte delle let- tere surriferite, e gliele indirizzò con un viglietto umoristico consegnato ad un Vinio Frontone Asella, che è proprio l'epistola decima del primo libro. Augusto dopo aver letto tali componimenti, gli rispose così: (( Sappi che io sono teco sdegnato , per- -^( 189 )»►- che in molti di cotali scritti (come sono le satire e le epistole) tu non parli principal- mente con me. E forse che temi non ti sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu mostri d'essere stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero Orazio rispose colla prima epistola del secondo libro, che è invero un capolavoro nel genere sotto ogni rispetto. Il primo libro delle epistole venne com- posto prima del quarto libro delle odi. Il carme secolare scritto per condiscen- dere al volere di Augusto fu composto nel 737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio. L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca- polavoro, e che può dirsi una lettera di- dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può benissimo classificarsi come terza nel secon- do libro delle epistole , e venne composta nel 741-742, mentre la prima epistola del secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta nel 744, avendo il poeta V età di anni cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta ^ 190 ))^ pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa che sa quasi dell' inverosimile. Basta però per convincersene notare il numero straordinario delle edizioni delle sue opere, dacché ci furono tramandate, siansi es- se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato il primo scopritore dei canti immortali di Orazio, né dove rinven- gasi la prima edizione di essi nei tempi re- motissimi composta. Vuoisi da taluni che in un museo inglese se ne conservi vestigio. Certissima cosa é che da molti secoli, sia in Italia che in Germania, in Francia ed in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e note illustratrici. È proprio l'arboscello pro- fetizzato da Orazio : Laude fra tardi posteri Farà ch'io guai per fresca Auray arbuscel più vegeto Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante opere insigni di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute e scom- parse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere eccelse degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che invano i Mechitaristi tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, o giacciono ignorate in fondo a qualche pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro- dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del monumento oraziano. Alle opere di Orazio avvenne un simile me- raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che fruttificando, e dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come si disse e lo con- fermò Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano) divennero poi giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si distesero nelle viscere della terra, per tutte le latitudini, con gagliardia non mai vista. -^( 192 )»- E per disperdersene le tracce, per abbat- tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe che la terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra Italia, avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, appaiono vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del monumento oraziano è una fronda fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più grandi italiani. Non era scorso un secolo dopo la morte di Orazio , siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui, dai suoi contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che tutte le scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in quei tempi remoti. Ma il primo editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe- lice grammatico, sui manoscritti e ne fece redigere non pochi esemplari riveduti e cor- retti. ^( 193 /»- Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti edizioni principali antiche e mo- derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali esemplari condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno, con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo. Altra che non porta data, né firma del ti- pografo che s' ignora. Si compone di un vo- lume in quarto di a 57 pagine, stampate in lettere rotonde, di forma poco graziosa. An- tichissima. Se ne conoscono solo due o tre esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza luogo, senza data e senza tipografo conosciuto. Forma un volu- me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri rotondi, ma molto belli, come quelli che si usavano verso la fine del 1400. 1474. — Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de Bruxelles, pagine 168. 1474. — Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli. 1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna. 1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda- min. 25 ( 194 ) 1481. — Venezia. Senza nome di tipo- grafo. 1482. — Milano. In folio. Per Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro Lantini. 1482-1491. — Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e degli antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. 1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin- ger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. 1501. — La prima edizione Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa. 1503. — Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Filippo Giunti. Rarissima. 1505. — La prima Ascenziana in 8.° 1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu- zio. Riproduzioni. 1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini. 1553- — Venetiis. In quarto grande, di 228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterda- mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara. 1555- — Venezia. Con postille di Gior- gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu- reto. 1561. — Lione. Due volumi in quarto di Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567, in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo- vamente nel 1577 e nel 1587. 1566. — Anversa. Teodoro Pulman con critiche rinomate. 1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano; anche con critiche. 1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru- chio. 1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano antichissimo, ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac- creditatissimo. 1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due volumi in ottavo. 1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu- penda, bellissima I -^( 196 )»- 1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In quarto con dottissimo comento. 161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana con note di Daniele Heinsius. Con disser- tazione dotta di tale letterato sopra le sa- tire. 1629. — Anversa. Nuova edizione del medesimo, riveduta con note. 1653. — Leida. Variorum, Editore Cor- nelius Schrevelius. 1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne- lius Schrevelius accurante. Riproduzione. 1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre- cedente di Schrevelius, corretta. 1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di Andrea Dacier. 1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte ricopiata. 1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu- penda. 1696. — Parigi. Jouvensy. 1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo Bentley. ^ 197 )»►- 171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent- ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra Orazio. In quarto. Monumento immortale dell'arte critica, lacerato dai contemporanei per livida invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia nel 1826. 1729. — Parigi. Due volumi in quarto. Stefano Sanadon, con traduzione delle opere di Orazio molto stimata. 1752, — Londra. Con note del Dacier. Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa. 1756. — La suddetta in Amsterdam, ri- ■ veduta e corretta. Otto volumi in ottavo. 1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e Both nel 1822. 1770. — Parigi. Edizione classica in ot- tavo di Giuseppe Valart. 1774. — Napoli. Michele Stasi, con note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. Molto stimata. 1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi, con note ed illustrazione di Ch. D. Jhan. -^( 198 ) 1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in Milano nel 1792. 1791. — La stupenda edizione del Bo- doni in Parma. 1794. — Londra. Due volumi in ottavo di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. 1799. — La più stupenda e magnifica si- nora edita di F. Didot. In folio. 1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi le satire e le epistole, ma sono eruditissimi pomenti e note sulle altre opere e partico- larmente sul carme secolare. 1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di Gessner e Zeunio. Composta sulla prima edizione dello stesso editore in Londra. 1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot- tavo del Doering. Riputatissima edizione per uso delle scuole. 181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. Edizione bellissima. 181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi e gli epodi. Ma è superba. ^ 199 )«►- 1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed. Heindorf, con conienti eruditi e note. Con- tiene solo le satire. 1820. — Maneim-Baden. Due volumi in ottavo di F. Both. 1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi- zione di Carlo Fea di Roma con molte ag- giunte. 1821. — Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di Grevio. Contiene le sole odi. 1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime note ed aggiunte. 1828. — E. F. Schmid. Due volumi in ottavo. Contiene solo le epistole. 1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo- lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. 1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con biografia di Orazio e note. Libro erudi- tissimo e molte volte riprodotto, e partico- larmente l'ultima edizione quarta, accura- tamente emendata e corretta, sicché con ra- gione può dirsi la migliore. 1838. — Venezia. Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con traduzione in versi e note del celebre mar- -^( 200 )>»- chese Tommaso Gargallo. Un volume in ottavo, preziosissimo. Della vita e delle opere di Orazio scris- sero pure con profondità di vedute e som- ma dottrina: Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 5 volumi in ottavo. Berlino 1817. Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber- lino. Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo- lume in ottavo. Leida 1703. Eichstedt , Critica ed osservazioni stille opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1. Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- rigi, 1823. Cristofaro Martino Wieland, Traduzione delle opere di Orazio^ con note. Quattro volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827. Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien notare: C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di Orazio in versi francesi con -«( 201 )l^ biografia ricavata da vecchissimo mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, 1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon, Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli- grafo barone Walckenaèr, che nel 1840 compilò una Storia della vita e delle poesie di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche e note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del secolo. Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta del 1799. E tra gr italiani il Metastasio, il Leo- pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo, il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal- 26 ( 202 ) vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi, il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco, ed altri molti scrittori di comenti e studii e saggi critici. Ma in Italia tra le molte traduzioni delle opere oraziane, la più perfetta e completa è quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa, facendo risaltare la bellezza della frase ora- ziana, tale ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto, abbellendola con versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del gran poeta venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap- punto della traduzione del Gargallo, prin- cipalmente in quei passi della storia, nei quali era necessario dar luce alla dicitura con le stesse parole di Orazio, le quali forma- no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne un tour plus heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens, avec brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei versi sublimi frutto del forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua italiana , per illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai miei concittadini, ai quali, per questo mio lavoro, chiedo venia e benevola approva- zione. M^ihr^^yr^'-i NOTE «li^^illl^^^l ?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; (i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria deità orientale anteriore r^( 212 y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na- poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta : MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag- giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa e meritoria. (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati, (5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. (6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip. (7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*" (8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.* (9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante. r^( 217 )»- (io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* (11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im- portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli, siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa. Bemusbi . MOMUMRNTUlf. POBLICX . rACTUM D. D. M. . MUTTIBMUS . L. F. C. Vibius . l. F. M. Bfsssius . F. OB F. M. Camillius . HONOREM. . l. F. 28 ( 2l8 >•- M. Mumnius « L*. F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J. D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas e. Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva- sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie, tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve- nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii illustri, scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe- derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- « sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de- E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im- peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce- neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la seguente : StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa -«( 220 )ì9^ Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap- presentava l'Olimpo. E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500 per quanto disadorno scrittore : e così si enumerano molti doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare fatti di valore e degni di stima e compenso. Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del 1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae — -«( 221 )•- Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el 1723, che rimontano sino al precedente secolo deci- mosesto: Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici. Deitardis. Gomiti. Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i re aragonesi. Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu- minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian- none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi- nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era nobile nolano. Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice. -«( 222 ))^ Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani, Caputi, Simone. Moncelli. Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico. De Bellis. De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa, autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio. Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve- nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior- dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia- copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo, siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa famiglia venosina derivato ? Fioriti. Tramaglia. Ttsct. Tommasini. Palogani. Pagani. Balbi. Sperindeo. Berlingieri. Violani. -«( 223 )»^ Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne membro della celebre accademia venosina, e poeta fa- moso. Abenanti, Grossi. Protonotabilissimi, Capibianchi, Campanili. Ferrari, Faccipecora, Leonetto Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa. Biscioni. De Vicariis. Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber- rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con- siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto (1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni (1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo. Vitamore. Moncardi. Lauridia. ( 224 ) De Jura o Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi. Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine di Malta. Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB Canonicatu Insignito, humanab salutis Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi DIGNI8SIM0 P • E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am- mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan- tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : Sull* altare : HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR. DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM. MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI. -«( 225 )»^ àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D. PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO. MDCLXVU. Sotto l'altare: SACELLUM . HOC. NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. . IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri- vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar- chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo, (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia Rapolla, la seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus. EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc. MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT. ANNO DOMINI MDCCXXII. La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi- tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma- gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan- 29 •^( 226 )»^ zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com- t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo- luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub- blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera « Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^ serve quelque chose de plus que son nom et sa position antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po- tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro- logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini 1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra- sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve- nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con- siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no- bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1 (12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera 9^ quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in una grotta messa sul ciglione di una collina verso oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la- terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo, coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata , che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va- sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di- versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin- ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi- tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde -«( 231 )»- la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- stinati a grandi imprese. L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura divina, che emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri- fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a poche città meridionali d'Italia. (15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*. (16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua ode quarta del libro terzo ed il « pios errare per lucos > han dato campo a non poche dispute tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- nosa. Gargallo traduce : Da pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia -«( 232 )»- De r Apula nutrici, amar faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie Tutu a nuazi arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli. Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa , usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re- gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture , della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra- scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della quale si discorre. I (J33j Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau- beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^.. ^. .. g .É|..^ ^ .y ^, .ly.., ».^ ..^ ^ ^. | ^^ >.. ^ .L.. ^IfcHiilnlfcjtUlt^ 3 ■^ : '^ '' 7 '3 P PERE DELLO STESSO AUTORE n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250, Tipi Di Angelis — Napoli, 1870. XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi Tarnese — Napou, 1877. Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo- lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico Vesuviano — Portici, I891. Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi Giannini — Napoli, 1886. ì

 DIEQO RAPOLLA 




VITA 




DI 




CON RAGGUAGLI NOVISSIMI 




E CON NOTE DIFFUSE 




SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA 




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POR TIOI 


Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano 


1892 




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DIEGO RAPOLLA 







VITA 




DI 







CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE 

SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A 


DI 


DIEQO RAPOLLA 


MOBILB VKN08IMO 


CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA 


CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI 


PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB 





PORTICI 


pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO 


Corso Garibaldi, 173 

1893 




L'ijf.S'^ 




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Riproduzione e traduzione vietate. 


Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti 


che gli concedono le leggi vigenti. 





'jfr^j^ **y^sP' ^^i^^'? '%S0^'-'''''*S^ '^S^ 




Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem 

nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo 

CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico 

tumet, nunc semipede ingreditìtr. 


8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio 




Sommo di poesìa mastro e di vita. 

Pisdnnont*, ad Orazio 




Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! 


D'un si vivace 


Splendido colorir, d'un si fecondo 

Sublime imagjnar, d'una si ardita 

Felicità secura, 

Altro mortai non arricchì natura 




Xetattailo, Canto ad Orazio. 




Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, 

DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. 


Ovidio, Trist. 4. Elegia to. 




il mastro dei poeti, Orazio 


La cui lira per tutto manda il suono, 

E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. 


Tansillo, Canto al viceré di Napoli. 




Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose 

D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose, 


Voltaire, EpItre à Horace. 




Sume superbiam 


Quaesitam meritis 




VenoBino. 






AI LETTORI 




Dauti - /■/. Cult. XIV. 




// cittadino di Venosa sentir devesi som- 

mamente orgoglioso per esser nato in così 

celebre terra, pili antica di Roma: splendida 

civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- 

dissima nei medio-evo, e patria, il che più 

monta, di Quinto Orazio Fiacco. 


Del grande Venosino smisurate innume- 

revoli sono state le produzioni letterarie che 

ne hanno decantato il nome, criticata F opera 




eterna, postillato e glossato ciascun verso o 

parola 


Non havvi paese al mondo che non abbia 

offerto suir altare del culto della poesia per- 

fetta di Orazio il suo attestato di reverente 

omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- 

eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi 

sulle opere del gran poeta italiano, e bio- 

grafie e ricerche storiche pregevolissime su 

tutto quello che riguarda la sua vita, ed i 

luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par- 




ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose 

di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto. 

Duole non poco però che in Venosa, fra 

tanto lume d ingegni preclari che ha dato 

quel paese, non vi sia stato scrittore che ab- 

bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^ 

fondita, e con opera particolarmente a lui 

dedicata; ed era un dovere attraverso i se- 

coli venir lodato Orazio da gente venosina. 

Neppure un bronzo od una lapide parlava 

di lui sin oggi. '^ 




Ed invero il dottissimo cardinale Giovan 

Battista De Luca venosino perchè nei suoi 

quaranta volumi in folio non trovò il posto 

per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? 

Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato 

de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni 

Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- 

lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve- 

nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan- 

gelo Lupoli), perchè non composero poema 

sult immortale loro concittadino ? 




Che anzi giustamente Francesco Fioren- 

tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, 

redarguisce costui, perchè « discorre di quello 

ix^che chiamava suo concittadino con un certo 

« risentimento che non è giusto, perché Ora- 

« zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve- 

« nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi 

(( un certo compiacimento nel ricordare la sua 

a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per 

fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, 

sia perchè ogni genio sublitne sorvolando 




per forza arcana, trova pure in tutto il ter- 

restre spazio angusto confine! 


In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una 

componente r aristocrazia di quei tristi tempi 

di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non 

poteva il Tansillo toccare la sua lira can- 

tando di Orazio, stella che illumina il mondo 

e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ? 


Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa- 

mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma 

non è lecito negligere i sommi. 




Io, benché non degno di venir noverato fra 

cotanto senno, ho composto questo lavoro con 

gran fatica, con gran sudore, con gran reli- 

gione, essendomi prefisso con esso diradare 

molte idee oscure circa la vita e le opere di 

Orazio, riferire coti la maggiore esattezza 

quanto ad esse si associa, mettere in luce 

tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che 

formava pel passato delle lacune negli scritti 

dei biografi anche più esatti italiani e stra- 

nieri. 




Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla 

celebre Venosa, che si commettono con la vita 

del suo immortale concittadino. 


Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto 


» 


strenuamente compensato col fatto, che ho 

aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che 

immarcescibile cinge la fronte sublime del 

grande italiano. 


Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di- 

sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri- 

temprare gli animi alla fonte delle opere lei* 




terarie immortali come quelle di Orazio, ed 

il seguirne le norme che da esse emanano, 

o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. 

Si respira così aura piti pura ; si resta an- 

negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- 

da con occhio impassibile la vertiginosa corsa 

del torbido torrente della vita umana, da una 

sponda secura e tranquilla. 

Valete. 


Portici— Granatello 1892. 


DZE&O BAPOLLA 





PROLEGOMENI 




L mondo, questo pianeta, che pare 

sin oggi abbia il primato sul si- 

stema universale dei pianeti, perchè in 

esso vive l'uomo, il re della creazione, 

avverti , circa duemila anni or sono, 

una di quelle trasformazioni , uno di 

quegli avvenimenti, che segnano date incan- 

'cellabili, e che forse non più si verificheranno 

nei secoli futuri, tranne quando avverrà la 

fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi 




vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava 

il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian- 

chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini, 

la mollezza, la superbia, la degenerazione del 

genio del bene in quello del male erano 

giunte all'estremo limite del possibile. Era 

prossima l'ora delle rivendicazioni, della re- 

denzione, della riscossa voluta dalla ragione. 

Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an- 

nunziato, già da secoli, come apportatore di 

pace ed amore. Roma, caput mundi, impe- 

rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi, 

ghermendo prede facili in difficili e remoti 

paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si 

disegnavano al massimo grado. I grandi ed 

i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- 

bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori 

morituri. 


Roma già da sette secoli esisteva, quando 

l'umanità parve potersi paragonare al vapore 

chiuso in forte e potente recipiente che sem- 

bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, 

le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come 

i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta- 

vano maggiore e più antica coltura, eran pres- 




sochè cancellati da questi violenti conati di 

gente che era barbara e volea divenire inci- 

vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- 

poli al sommo grado belligeri pugnavano 

sanguinosamente per potersi dire cittadini 

romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed 

appena ornati da toghe e preziose porpore, 

che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti 

e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- 

vano non use a piegarsi alle volubili e spesso 

avverse disposizioni del destino. Da Roma 

partiva quella voce imperiosa che comandava 

alle schiere invitte la conquista del mondo 

intero. 


Tutto pareva nascer gigante in quel tempo, 

e con l'impronta del misterioso e del sublime. 

Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu- 

gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- 

patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- 

bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, 

Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate , 

Augusto I 


Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in- 

vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- 

no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le- 




vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone 

della foresta : nato da vilissima gente, sorbì 

sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i 

potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo, 

nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel 

colore della pelle dovesse indicarne la mal- 

vagità dell'animo, come dopo molti secoli in 

Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe 

solea far aspro maneggio. 


Gridava fremente alle turbe spensierate e 

lussuriose : O voi altri, che vantate imagini 

lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; 

verrà Y ora della rivendicazione sociale. II 

vostro cammino trionfale sarà arrestato da 

un fiume di sangue. Le vostre pompe su- 

perbe saranno oscurate da montagne di ca- 

daveri deformi 1 


Eppure Mario avea sortito dalla natura il 

genio uguale a quello di Cesare, suo grande 

nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, 

aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila 

stesso si misurò a suo forte discapito. Corse 

vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi 

iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito 

da visioni tremende 1 




A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di 

patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto; 

era vendicativo oltre ogni credere, ma celava 

in petto cuor generoso e forte. 


Non poche migliaia di Sanniti restarono 

sgozzati al semplice muovere del suo soprac- 

ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, 

che invano entrava nel cotidiano bagno di es- 

senze per torsi di dosso la miriade di paras- 

siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen- 

sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse 

infetto il sangue degli umani, tra i servi e 

gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, 

nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- 

vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- 

chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate 

di rose, e briache e spossate dalla crapula 

e dal piacere. Era il preludio delle guerre 

servili. Dugentoventimila servi e Spartaco 

con centoventimila gladiatori produssero uno 

scoppio ed uno schianto formidabile, come 

potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. 

Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- 

pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei- 

mila. 




►^( 6 )»►- 


A spaventoso movimento, repressioni più 

spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente 

ricco per le opime spoglie e per V oro rag- 

granellato con la confisca dei beni delle sue 

vittime e dei milioni di proscritti. 


Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli 

fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli 

stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz- 

zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, 

furono quelli che espiarono con lui V inau- 

dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- 

mida e di regio sangue , morì da eroe nella 

fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania, 

condottiero di stanche e poche agguerrite 

schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e 

Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel 

povero oppresso e quel ricco oppressore, es- 

servi dovea odio mortale. Perversi però e 

scelesti ambidue ! 


Cicerone e Catilina, sommo oratore ma 

ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- 

luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che 

mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, 

e dalla fine del primo si videro strani risul- 

tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le 




sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone 

ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro- 

stri del foro romano, e la lingua foracchiata 

dall' aureo spillone della proterva Fulvia. 

Splendidi esempii agli ambiziosi I 


Mentre che alla magnifica Atene non re- 

stava che il primato nel mondo per le let- 

tere e per le scienze, e mentre V immensa 

Roma repubblicana si affraliva e s* incrude- 

liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- 

sacri e le guerre , nasceva Cesare. 


Cesare lo si disse dapprima congiuratore 

con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il 

sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- 

bizione smodata e livore. Fu uno dei più 

grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò 

da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- 

stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e 

Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani 

gliene recarono la testa mozza, e volle punita 

la barbara adulazione. Era letterato di gran 

talento. Era generoso, ma sotto il mantello di 

leone ascondeva animo felino , vendicativo, 

dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di 

propria mano il corpo con la spada, piutto- 




^( 8 )»^ 


sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am- 

biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger- 

mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. 


Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di 

Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si 

macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo 

premeva come incubo, anelava alla libertà, 


E tale fu la progenie umana sin da che 

vide la luce. 


Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla 

missione di pace tra gli uomini. Fatalmente 

però gli uomini si mantennero sempre gli 

' stessi. 


Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra- 

tricida per invidia e per sete di dominio. E 

da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a 

Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi 

a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli 

spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole 

umane. *) 


E da questi ai Torquemada, agli autori 

degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono 

Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da 

questi a Luigi XI, il compare di Tristano, 

ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre 




( 9 )»^ 




aizzava le orde a fare strage, e permise la tre- 

menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre 

che allagò il bel suolo di Francia col sangue 

delle vittime del Terrore ; al prigioniero di 

S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti 

buona parte del mondo ; sino a quelli, innu- 

merevoli, che in questo nostro secolo avven- 

turoso han messo a soqquadro l'universo con 

lotte ferocissime. 


Una è perciò la linea che appare precisa: 

l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro 

qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres- 

sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla 

porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- 

l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so- 

vrani e sudditi, tra volgo profano e menti 

elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- 

nistri delle diverse religioni; il quale odio 

malvagio personificato potrebbe raffigurarsi 

quale Encelado premuto dall' Etna. 


La scala della nequizia in tutti i tempi ha 

toccato i cieli, come quella biblica. . . . 


Tale era lo stato del mondo allorché nac- 

que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene 

scorreva sangue di schiavo. 





II. 




LA FAMIGLIA DEL POETA 





I ELLA vetustissima Venosa [Venu- 

sid), città situata tra la Puglia e la 

Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno 

689 dalla fondazione di Roma, sessan- 

tacinque anni prima dell' era cristiana, 

essendo consoli L. Aurelio Cotta e L. 

Manlio Torquato , essendo Cesare compro- 

messo con la prima congiura di Catilina, per- 

chè sognava la caduta della repubblica e la 

dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il 




nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel 

libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo 

chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò 

nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco 

nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli 

stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira 

del secondo libro, così si cognominò. 


Ma tale soprannome non indicava che 

avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi 

a lui, quello che egli stesso dice di essere 

di facilissima audizione, oppure che quelli 

di sua famiglia fossero distinti con tal no- 

mignolo, tra le non poche famiglie della 

tribù oraziana, della quale si discorrerà in 

appresso. 


In un antico manoscritto che si conserva 

nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che 

vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna, 

venosino, si asserisce che Orazio nacque 

nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna 

scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della 

città, e presso certi molini, che in appresso 

(come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap- 

partennero ai Pironti venosini, e che oggi 

son quasi di fronte alla cattedrale, venendo 




^( 13 M^ 


dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto 

/e Sa/me. 


Suo padre era uno schiavo fatto libero. La 

quale condizione se non era tanto miserevole 

quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av- 

vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li- 

berto ripeter doveva quella larva di libertà 

dal suo antico padrone; come cittadino ve- 

deasi privato del diritto al suffragio; aspirar 

non potea agli alti uffizii civili, e neppure a 

coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro 

perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo 

stesso matrimonio era per lui limitato nella 

cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo- 

sar non poteva sia la figliuola d' un senatore 

o d* un patrizio, sia altro essere nato libero 

od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il 

liberto sotto la tutela del passato padrone, e 

lui malaugurato se a questo si fosse ribel- 

lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- 

sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- 

rifici, mediante lieve mercede. Malamente 

taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio 

fosse libertino nel senso voluto da Svetonio 

in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di 




-«( 14 ))^ 


Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di 

schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo 

padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel 

senso detto dapprima, volendo intendere che 

suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto 

poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al- 

cuno. \ 


. Il padre di Orazio prestava il servizio di 

riscotitore di tasse del comune di Venosa e 

di banditore, era un servus pubKcus; il Che 

dimostra che il suo passato padrone essere 

dovea di alto grado sociale, assegnandogli 

tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- 

vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi 

potea felice ed agiato, stantechè possedeva 

presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- 

nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene 

Orazio dicesse esser suo padre macro pan- 

per ugello) un conveniente provento, e 

quindi potette unire al suo impiego anche un 

negozio di salsamentario, o salumiere; e come 

vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la- 

conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- 

nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni 

di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum 




( 15 ) 




brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in 

quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- 

rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- 

aito se emungere solebat. 5) 


Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto 

ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni- 

tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, 

compreso lo stesso Svetonio, né il nome di 

suo padre, né il nome e la condizione di sua 

madre. 


Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri- 

zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri- 

zione che dice leggersi sopra una casetta in 

Venosa, che erroneamente fu detta esser la 

casa di Orazio, così concepita: 


HORATI C. L. Dio .... 


MlTULLEIAE UX. . . . 


e che sì è voluta decifrare così: 


HoRATio DioDORo Caji Liberto 

MiTULLEjAE Uxori 6) 


La quale interpretazione importerebbe che 

il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro 

o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo 




-«( i6 ))^ 


un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi 

non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno 

di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. 


I due eruditi Grotefend, il Franke nei 

suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua 

splendida opera The works of Q. Horatius 

Flaccus illustrateci , opinarono il padre di 

Orazio poter esser un discendente dell' il- 

lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri- 

divenuto libero, avesse ripreso, secondo il 

costume del tempo, il proprio nome. Ma il 

Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re-- 

gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin- 

venute in Venosa indicanti l'esistenza di una 

tribù Hofatia, colonia romana, nella quale 

erano allistati gli abitanti della città di Ve- 

nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- 

sta colonia, non discendeva però dalla fami- 

glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op- 

posizione le continue lamentazioni del figlio 

di vii nascimento. 


Né si potea concepire che , fra tanta chia- 

rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di 

un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non 

enunziasse neppure il nome di quelli che gli 




-«( 17 )f^ 


aveano data la vita. Ed è poi noto, come si 

vedrà in appresso, che tutto venne confiscato 

alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi- 

lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, 

e del tutto sprovvista di mezzi, il che per- 

metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi 

con iscrizioni commemorative. 


G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- 

sophia vetus et nova ad usum scholae, opina 

che un avo del poeta Orazio, assoldato nel- 

r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del 

Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma, 

e comprato da un questore venosino, dal 

quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta- 

stica, come moltissime venute fuori dalla pen- 

na del letterato e filosofo del Calvados, non 

ha fondamento, mancando della parte princi- 

pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo 

fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di 

Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che 

per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, 

non liberto, come era infatti; Orazio chia- 

mando sempre suo padre liòertinus, non nel 

senso voluto da Svetonio, e mostrando sem- 

pre rammarico per tale causa. 





( i8) 




Altri poi (come rilevasi da vecchissime 

edizioni del gran poeta ) credettero assegnare 

al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma 

pure questo va chiaramente emendato, stante- 

che si è voluto confondere il nomignolo del- 

l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in 

Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban- 

ditori in quel tempo solcano annunziarsi a 

suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^ 

tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- 

rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre 

di Orazio e quello della sua genitrice: se ne 

conoscono solo del tutto la condizione e lo 

stato del primo. Orazio disse essere stato suo 

padre uno schiavo, al quale venne concessa 

la libertà. Tale origine del suo casato lo mo- 

lestava acremente. E qui cade in acconcio 

notare che mentre Orazio non ha mai indi- 

cato il nome di suo padre e di sua madre, 

non ha mai nominata la città di Venosa. Con 

molta lucidità indica il luogo della sua na- 

scita e ne fa un piccolo cenno storico topo- 

grafico così concepito: Io non so con preci- 

sione se son Lucano o Pugliese, perché il 

colono venosino suole volgere l'aratro tra i 




( 19 ) 




due confini di queste due regioni. E che Luigi 

Tansillo venosino cosi traducendo imita nel 

suo canto al viceré di Napoli: 


Io non so se Lucani o se Pugliesi 

Siam noiy però ch'il venosin villano 

Ara i confini d'ambidue paesi..,,. 


Ed una colonia romana fu spedita in tal 

luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar- 

neli, e per impedir poi che tale infesta gente 

corresse sopra Roma a molestarla come pel 

passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non 

poco ai Romani come le storie luculentemen- 

te asseriscono. E tale colonia romana spedita 

in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar 

dovea guarentigia a tutta la regione pugliese 

e lucana, e mostra ad evidenza V importanza 

della città di Venosa in quei tempi. 


Orazio volle con precisione dichiararsi ap- 

partenente alla colonia ronìana che discac- 

ciava da Venosa i Sanniti. 


Eppure i Sanniti furono di razza Sabina, 

ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè 

la patria prima dei Sanniti, formar dovea la 

sua seconda desiderata patria, la sua aspira- 




^ 20 >»^ 


zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana 

commedia ! 


Eppure i costumi dei Sanniti furono qual 

si conviene a popolo belligero, sobrio e buo- 

no. Governavansi in austera repubblica, ed il 

sistema democratico formava la base delle 

loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria 

davan persino le avvenenti compagne e le 

figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ 

Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i 

Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora 

definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra 

tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 

290 anni prima di Cristo li espugnarono del 

tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché 

dice che la colonia venosina, debellati i San- 

niti, divenne propugnacolo contro le ossi- 

dioni di tal forte e belligera gente. Convien 

quindi notare che Orazio per quanto asserì 

esser nato sul suolo venosino, per tanto sem- 

bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- 

lonia romana ivi residente: che anzi bisogne- 

rebbe assegnargli meritevolmente la taccia 

d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare 

una sola volta in tutte le sue opere la patria 




•^ 21 )»- 


sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe 

immortalati) né di suo padre, né di sua ma- 

dre, bensì il nome del suo primo maestro 

Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^ 

cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod-- 

cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis, 

venusinae plectantur silvae, te sospite..... 


E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa 

traduce, cangiando le venosine selve in lucani 

boschi: 


Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ 

Ai flutti esperii^ di là ratto il muova 

A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7) 


E per giunta in tutte le sue opere Orazio 

non nominando mai, come dissi, Venosa, 

spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi, 

TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- 

tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa 

Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- 

sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- 

perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e 

dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno 

tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate 

con le qualità individuali, superiori e rare, 




-«( 22 )»- 


vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio, 

sovrano poeta, onore della razza umana! 

Venosa, la patria tua, perdona tale non- 

curanza, e tale al certo involontaria irricono- 

scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura, 

indicando a chiare note che sorbisti le prime 

aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò 

bastar deve per fare scomparire ogni traccia 

di livore o sdegno verso di te, se pur può 

albergare nell'animo di alcun tuo concitta- 

dino livore o sdegno, come invece alberga 

venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. 

tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- 

mortale aleggia benefico genio del luogo su 

quella ancor bellissima terra; oppure da qual- 

che stella lucente gitta raggio amico che mo- 

stra la via al viandante in quelle selve lucane, 

od al nocchiero la via nera dell'antico mare 

Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- 

cora oggi si annega ! 

Orazio scrisse : 


Che qual figliuol di libertin trafitto 

Soft da tutti. 8) 


Invero Guerrazzi da savio sostiene: La 




-«( 23 )»- 


ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio 

riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven- 

do la natura concesso all'uomo maggiori po- 

tenze per acquistare, che non per mante- 

nere. ^^ 


L'assillo nonpertanto che tormentava Ora- 

zio era la sua nascita: perché non potendo 

schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi 

della plebe che lo dicea discendente da schia- 

vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più 

su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che 

il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma- 

gnanimità del suo genitore per averlo fatto 

educare, istruii^e e porre a livello dei giovani 

di buone famiglie ed agiate. Che anzi con 

boria e sicumere che mal velava lo struggersi 

interno, asseriva potersi porre a pari, egli 

figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei 

cavalieri di quel tempo anche nella superba 

Romal 


Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo- 

sa questa sua assertiva, allorché si noterà co- 

me egli stentar doveva per accaparrarsi sia 

l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei 

grandi, che un solo fortuito caso gli permise 




avvicinare, e come molte volte ingiustamente 

ne restava mortificato, mendicandone le 

grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per 

meritarsi l'onore di venire annoverato tra i 

commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi 

maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- 

vani amici ed ammiratori ! 


Non è lecito credersi di più di quello che 

si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me- 

rito, per quanto incontrastabile esso sia, in 

questa commedia umana nella quale regna 

sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come 

poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva 

circa la sua condizione nella società nella 

quale viveva. Ma quel marchio che al solo 

presentarselo alla mente lo straziava a morte, 

il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, 

gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce 

sublime quando esclama: 


Io disdegno e allontano 

Da me il vulgo profano 


Tacciasi ognun 


Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) 


Egli lodò grandemente il padre, perché 




-«(25 )»- 


questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove 

molto era conosciuta la sua origine, e di af- 

francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se- 

natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- 

struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- 

tenne. 


Orazio nacque, come si accennò, dodici 

anni prima della congiura di Catilina. Cele- 

bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio 

Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i 

filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo. 

E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e 

Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi 

eravi pure una classe sociale che si distin- 

gueva dalla volgare, la quale frequentava la 

scuola di un maestro Flavio, del povero 

Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- 

si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi 

consacrato nel libro di Orazio, che pur non 

dice il nome del suo genitore, della genitrice, 

della patria. A questa scuola attinse i primi 

rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni 

lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza 

col farsi in seguito beffe di essi e dei loro 

parenti nobili venosini I La povera nobiltà 




-«( 26 ))^ 


venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa 

in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione : 


Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA 


Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus 


CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM 


Splendidae Civitatis Venusinorum 

Consecravit ") 


resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo 

satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed 

agiate della città di Venosa dovean tenere a 

vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante 

che ne conoscevano Torigine. Fu questa una 

delle ragioni per cui il padre decise condurlo 

in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto 

un ingegno precoce e svegliato che promet- 

teva alcun che di grande, e pensò abbiso- 

gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade- 

guato e conveniente. Orazio aveva circa otto 

anni o dieci al massimo, secondo il computo 

di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an- 

norum Horatii, allorché giunse col padre 

in Roma, e cominciò a frequentare quelle 

scuole romane. Ed è caro quel vanto che 




-«( 27 )»- 


trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor- 

dando il padre ed i felici giorni della pueri- 

zia, e sentendosi nella folla della scolaresca 

deir immensa città susurrare airorecchio di 

esser creduto di alto lignaggio, dice : 


Ma d'alti sensi osò condurre a Roma 

Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti 

Che un cavaliere che un senatore insegna 

Ai propri figli, Allor se, come avviene 

In un popolo immenso^ avesse alcuno 

Gli abiti visto^ ed i seguaci servii 

Certo creduto avria spese sì fatte 

A me apprestarsi da retaggio avito 13) 


La quale ingenua confessione dimostra 


che il padre di Orazio, sebbene appartenente 

alla bassa condizione di liberto, non doveva 

essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- 

te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli 

di coloni agiati e signori delle provincie^ non 

vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad 

apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi 

vivono certo vita allegra, vestono panni di 

lusso, e possono farsi seguire da servi e 

staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma- 

nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio 




però per generoso e riconoscente sentimento 

riferisce al padre il potersi istruire con tanta 

comodità, né può tacciarsi di parabolano o 

falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che 

abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva 

con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i 

centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una 

morale istintiva covava Tira repressa del 

figliuol del liberto 1 






ni. 


ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE 




L padre d' Orazio condusse suo fi- 

" glìo in Roma nel 699 , cioè cin- 

quantacinque anni prima dell' era cri- 

stiana, non raggiungendo questi ancora 

i dieci anni di età. Forte baleno dì or- 

goglio e di stupore dovette abbagliare 

il piccolo venosino, ma pur cittadino romano, 

nel calpestare le aboliate strade della magnì- 

fica Roma. 


Ergevasi la città , che imperava allora su 




buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici 

celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, 

e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi 

suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente 

nel mondo , perchè dominio di validissime 

potenze: la tiara, e la monarchia costituzio- 

nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti 

lunghi e meravigliosi, porte monumentali, 

mura che potean vantarsi più durature e in- 

concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle 

cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- 

nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- 

lischi fatti trasportare con ingentissime spese 

dalle più remote regioni del mondo onde si 

fosse palesata la grandezza delle vittorie ro- 

mane dalle spoglie ricavate dai potenti e 

riottosi nemici. 


Se però Roma mostravasi tanto superba e 

potente alla vista, il che poteva lusingare i 

sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non 

proveniva da paese barbaro e povero , bensì 

da Venosa, caput Apuliae, città monumen- 

tale e stupenda, siccome attestano le antiche 

carte e le lapidi che hanno sfidata la corro- 

sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere 




( 31 ) 




nella sua ampiezza e magnificenza gente av- 

vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di 

Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui 

più sopra si delineò la proterva jattanza), 

quel popolo, dapprima così forte e generoso, 

vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- 

derante, la libertà che offriva ai cittadini la 

repubblica di Catone, repubblica ormai mo- 

ribonda. La mollezza ed il mal costume tor- 

cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo 

romano. E perciò Orazio stesso, allorché co- 

minciò a balenargli in mente il vero, scrisse 

che le cure del suo buon genitore, che gli fu 

guida permanente, fra tante grandezze e fra 

tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca- 

dere in brutture ed ignominie e dal venir tac- 

ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu- 

rarono la stima dei buoni e dei veramente 

grandi. 


Il padre soleva giornalmente condurlo dai 

maestri più celebri della città, ed ai banchi di 

quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli 

di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- 

locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre 

che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto 




( 32 )»- 




Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè 

s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio 

immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i 

popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo 

fatto libero superava per lusso e per criterio 

sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. 


Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che 

se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto 

scegliersi un padre, avrebbe scelto quello 

che gli die natura, non trovando altro uomo 

più coscenzioso, più perspicace, più amore- 

vole di questo ! Desta ammirazione e mera- 

viglia questa confessione, se si rifletta che il 

padre di Orazio era illetterato, e che era stato 

soggetto alla schiavitù 1 


Ed Orazio nel parlar di suo .padre include 

pure la madre sua, perchè dice: 


. ... io pago a' miei (genitori), di fasci 

E di sedie curuli avoli adorni 

Saprei spezzar . . . . »S) 


Le prime lettere gli furono apprese da Pu- 

pilio Orbilio da Benevento, che, come narra 

Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel 

tempo e tra i migliori maestri sotto il con- 




solato di Cicerone. Visse centenario; morì 

povero , solita fine dei non pochi lavoratori 

coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e 

non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora- 

zio, che se lo rammentava con satirica soddi- 

sfazione. 


L'uso delle sferzate nella palma delle mani 

degli scolari, antico più del tempo del quale 

si discorre , formava sin negli ultimi nostri 

giorni un genere di punizione che la civiltà 

invadente va oggi disperdendo, siccome si è 

tolto il barbaro uso di bastonare e torturare 

i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- 

tuirsi a quelle corporali e costrittive. 


Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò 

Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me- 

nando a memoria e tratteggiando le scene 

drammatiche del poeta Livio Andronico ed 

altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni, 

cominciò ad attingere alle fonti delle lettere 

greche, che egli stesso poi definì le più pure 

e che dovevano occupare i dì e le notti degli 

scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi- 

loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra- 

lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che 





gli fece acquistar gusto alla satira, furono i 

suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap- 

prese quell'arte divina , quella melodia am- 

maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio 

tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago- 

narsi all'ape industre del monte Matino (ser- 

vendosi per similitudine del nome d* un monte 

della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso 

del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee 

svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da 

ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- 

mar xumti immortali 1 


Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- 

rogare l'aurea massima di Ovidio del prin- 

cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del tetto 

«npic.1, eha Bud«t 


■ var»(EUr bnpuko 


. SctDW col cV»l. 



Io rad•- 




che, essendo gli scribi addetti al contenziose 

amministrativo, od alla pubblica contabilità, 

formavano un' autorità speciale, siccome la 

Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi 

formavano un collegio a parte e la carica era 

vitalizia ed inamovibile. 


Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, 

e presso la via Nomentana in Roma nei pri- 

mi anni del secolo decimonono, come da altre 

che vennero con esattezza riportate e com- 

mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, 

da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma 

inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da 

Visconti, si rileva appunto l'importanza del- 

Tuffizio di scriba. 


Hawene una di un Tito Sabidio Massimo, 

scriba della questura, ed appartenente al sur- 

referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- 

rono un monumento in riconoscenza dell'alta 

protezione accordata da lui a questa città: 


T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. 


Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. 


Salio. Curatori Fani Herculis. 


Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. 


Locus Sepulturae. Datus, 




•^( 69 )»- 


VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. 


TlBURTIUM. 


Siccome quest'altra seguente iscrizione a 

Manio Valerio Basso antico tribuno di legio- 

ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854 

nel Giornale di Roma dal comm. Visconti, 

rende noto che la carica di scriba della que- 

stura soleva assegnarsi alla miglior classe 

dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam- 

biare con la carica di tribuno delle milizie, 

acciocché se qualcuno fosse stato esonerato 

o per età o per volontà, trovar potesse un 

appannaggio adeguato al proprio valore, ed 

un meritato guiderdone: 


Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. 


Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. 


Primo. Harispic. Maximo. 


Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. 


Fratri. Suo. 

Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum. 


Erroneamente quindi gli antichi interpreti 

della parola scriba e dell' impiego ottenuto 

da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e 

biografi attribuirono solo il senso di copia- 




tori di pubblici atti, oppure notai o redatt 

di atti privati, all'ufficio di scriba. 


Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii 

pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi 

zio più facile V accesso ed il conversare e 

grandi ed i potenti di queir età, come si \ 

drà in appresso. 


U importanza poi di tale impiego ott 

nuto dal poeta si rileva anche da quello ci 

egli stesso scrisse nella satira sesta del libi 

secondo : 


Quinto , 


Ti pregano i notai che non ti scordi 


Di tornar oggi pel noto affare 


Al collegio d* altissima importanza ... 32) 


Anche il Gargallo spiega la parola scribi 

con la voce notato; ma non credo aver voluta 

egli intendere quello che oggidì importa h 

carica di notaio, bensì componente il collegio 

degli scribi questorii suddetti. 


Il sommo poeta trascorse dunque i primi 

anni della sua dimora in Roma tra Toccupa- 

zione che gli offriva tale dignità onorifica e 

lucrativa e tra i diletti della poesia. 


Non può asserirsi con piena conoscenza 

quanto Weichert, uno dei più indefessi il- 




lustratori del poeta, nella sua opera Poe- 

tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che 

Orazio avesse solo ventisette anni allorché 

venne presentato a Mecenate, cioè nel 715 

di Roma. La cronologia diventa un mito 

quando si ravvolge in date così lontane e 

senza testimoni oculari. Volendo però se- 

guire tale opinione, adottata pure da Andrea 

Dacier, la presentazione di Orazio a Mece- 

nate successe quattro o cinque anni dopo 

la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran 

protettore degrillustri letterati di quel tempo, 

non lo ammise nella propria corte se non dopo 

averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo 

e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato 

se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda- 

rono, avessero imberciato nel segno propo- 

nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando 

era a sua conoscenza che Orazio aveva so- 

stenuto la carica di tribuno nelle legioni di 

Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. 

Riesce quindi logico noverare la satira quarta 

del primo libro di Orazio come scritta poco 

prima che fosse a Mecenate presentato, stante 

che in essa si scusa con quelli che lamenta- 




•^( 72 )»- 


vansi delle sue punture, e gliele rimprove 

vano come poco coerenti per uno che int( 

deva guadagnarsi la stima dei grandi. ] 

egli vuol farsi credere semplice moralista 

filosofo che castiga, ridendo, i costumi, 

perciò egli si esprime presso a poco coi 

Il leggere satire, il veder frizzata la catti 

gente non riesce certo piacevol cosa a colo 

che hanno la coscienza poco monda. Ma e 

è puro ed integro ed onesto, non teme 

scudisciate del poeta, siccome disprezza 

calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai 

dar divulgando le mie composizioni nel 

piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel 

accademie. Scrivo per semplice diletto, spini 

da forza arcana e per pura intenzione di ù 

del bene e purgare la società inondata d; 

vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv 

diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh 

costarono sudori a generazioni di lavorator 

Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci: 

può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia 

d'aver calunniato chi merita lode, d'aver 

scemato il merito, anzi non aver abbastanz; 

lodato i cittadini eminenti ed onesti? 




Un uomo che parla così di se stesso me- 

ritava venire annoverato tra quelli la cui ami 

cizia è un guadagno, un pregio, un onore. 


Vario e Virgilio lo presentarono a Me- 

cenate. 





IO 








VI. 


MECENATE 




iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa. 


cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu 

k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. 


Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa 




AIO Cilnio Mecenate nacque in 

Arezzo l'anno di Roma 686, e 

68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile, 

-■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di- 

ì scendente dai re dell'Etruria, che erano 

quei guerrieri etruschi venuti a soc- 

correre Romolo nella guerra contro i Sabini. 

Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i 

primi anni legato di amicìzia col giovane Ot- 





taviano, e fecero insieme gli studii delle h 

tere e delle scienze in Atene. 


Egli pure, seguendo le orme degli avi, 

intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt 

rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli 

la repubblica e difendere Roma dai nemi 

interni ed esterni. 


Non fu affetto dal morbo dell' ambizion 


Allorché Augusto divenne padrone del v 

stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei 

i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg 

rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl 

di rappresentarlo quando si allontanava e 

Roma. 


Preferiva il sistema governativo a regim 

monarchico assoluto, piuttosto che quell 

retto a repubblica, e riuscì a far determinar 

col suo savio consiglio Augusto a conservar 

quel potere sovrano che per suoi fini particc 

lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell 

propria influenza, dei suoi disinteressati am 

monimenti e del suo credito per rendere Au 

gusto, imperatore e pontefice, proclive ali 

clemenza ed a far più manifesto il fastigio 

della monarchia. Amante del lusso, egli stes 




( 71 >- 




so spronava Augusto severo, economico e 

restio al grandeggiare, al rendersi sovrano 

per magnificenza e per sublimi intraprese edi- 

lizie e monumentali. 


Sposò Terenzia, donna di grandissima 

bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: 

ritornò ad essa sommesso: che non hawi 

grande uomo esente da mende , principal- 

mente dipendenti da procacia donnesca. So- 

stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne 

ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^ 

la dipinge nel vero suo aspetto. 


Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. 

Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) 

una Storia naturale, la Vita di Augusto, e 

diverse tragedie e poesie. 


Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi 

competere con Lucullo: largheggiava con ma- 

gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- 

verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- 

neficato i sommi letterati del suo tempo. 


Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul- 

lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono 

i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- 

tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son- 




tuosi conviti od a sterili raccomandazioni 

Bensì soleva rendersi splendido per largi 

zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze 

per tutta la vita del protetto. Pochi sovran 

si sono succeduti sulla scena del mondo pro- 

dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei 

dare ed innalzare chi realmente possedeva 

meriti personali così insigni da immortalare 

il protettore, considerandolo nei frutti del lorc 

ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- 

vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu- 

sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della 

splendida sua villa a Tivoli non sarebbero 

bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran- 

dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha 

fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. 

Il vero monumento imperituro a Mecenate 

glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino. 

Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo 

insigne protettore: « O Mecenate, o decoro 

nostro e parte massima della nostra fama. » 

Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me- 

cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- 

do della sua persona; ma non attribuisce a 

lui, bensì al proprio ingegno la propria im- 




-«( 79 )^ 


mortalità. La superbia Oraziana (superbia 

derivante dai meritati allori ) non comportava 

servilità comuni al volgo. 


Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- 

gli una sola favilla di quel genio che il gran 

cittadino di Venosa stesso definì particella di 

aura divina? 


Tutti i tesori di Golconda non equivalgono 

a quegli slanci di lirica sublime che non han- 

no avuto eguale in nessun mortale quaggiù ! 


Come si accennò innanzi, Orazio venne 

presentato a Mecenate mentre vivea occu- 

pato neir ufficio di scriba questorio, e nel 

comporre satire ed altre poesie, che aveano 

già richiamato l'attenzione degli altri eruditi 

del giorno. E ciò dovette succedere neir an- 

no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor- 

passato il ventisettesimo anno. Egli stesso 

così descrive questa presentazione: 


r ottimo Virgilio 


Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, 


' Né me figliuol di genitor preclaro 

Né me opulento possessor che scorra 

Suoi vasti campi su destrier pugliese^ 

Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ 

Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«) 




( 8o )m^ 




E dice pure: 


Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando 

Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua 

Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s) 


Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà 

tanta bonomia e tanta confusione vedendos 

al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò 

tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu 

un amico sincero che cordialmente e senzc 

vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc 

nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava 

l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams 

di lui, mentre pel contrario molti altri lo di- 

sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine 

cercavano fargli il maggior danno possibile? 

Aggiunger poi si deve che la magnificenza 

che circondava Mecenate, il suo palagio, la 

fila dei cortigiani che colle teste curve sino 

a toccare le lastre marmoree del pavimento, 

il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che, 

per quanto impavido fosse, dovette risentirne 

certamente imbarazzo e confusione. 


Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti, 

dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle 

anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. 




^( 8i )]»- 


ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- 

torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu- 

sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, 

colla divisa brillante di generale italiano, con 

quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano 

come saette sin nelle intime latebre dell'ani- 

mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e 

sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- 

ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti 

avesse di sua mano largita un' alta onorifi- 

cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito 

sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e 

compiacimento? Se nulla hai provato, dir 

debbo che l'animo tuo è insensibile come pie- 

tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, 

Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci- 

turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, 

quando la mano del gran re strinse la loro ! 


Discordanti ben vero appaiono le opinioni 

circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da 

Virgilio e da Vario presentato a Mecenate. 


Molti sostengono (e si riscontra nelle me- 

morie dei suoi moderni biografi) che siffatto 

avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di 

Roma, così che fanno succedere nel 737 il 




II 




•^( 82 )»- 


viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi 

e quindi pochi mesi dopo questa data la pub 

blicazione della satira quinta del libro primo 

che ne descrive facetamente il viaggio , l 

evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat 

terelli piccanti. 


Ma nella Cronologia del Dacier, che devt 

stimarsi la più esatta disposizione degli av 

venimenti e degli anni nei quali Orazio com 

pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- 

solati sotto i quali Orazio accenna scrivere, 

viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716, 

od in quel torno di tempo, cioè quando Ora- 

zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò 

più presumibile. Poiché nelle opinioni con- 

trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por- 

tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- 

guardo alla sua salute un po' malandata ed 

alla circospezione a conservarsi, ed alla sua 

vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e 

rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non 

appare verosimile. Sia però come si voglia, 

certa cosa é che Mecenate riserbossi nove 

mesi per poterlo ammettere nel novero dei 

suoi amici stretti. 




( 83 ) 




Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis- 

simo, baldo, perchè adusato agli esercizii 

aspri della milizia: sperto del mondo, perchè 

provato dalle sventure e chiaroveggente: a- 

mante del vivere allegro, buontempone, re- 

sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni, 

uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- 

scarle col vischio della poesia, dovea venir 

ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti 

e dei viveurs di quel tempo. 


Era bel giovane, se non bellissimo, e ne 

menava vanto; ed i malanni della precoce se- 

nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la 

cisposità degli occhi ed i reumatismi, non 

aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso- 

gnevole delle stufe calde di Cuma o delle 

fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò 

fé' propendere la bilancia a suo favore. 


Mecenate, gran conoscitore degli uomini, 

ed indagatore minuzioso, specialmente trat- 

tandosi di quelli che doveano essergli sempre 

vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con 

sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com- 

mensale ed ospite nelle sue splendide reggie. 


Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni 




-«( 84 ) 




detrattori del sommo poeta, che nel temp 

in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve 

nisse pubblicata in Roma una lettera sua i 

prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co 

quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n 

implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms 

calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv 

più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat 

tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup 

plice nessun onore, provando in petto senti 

menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé 

tanto che in luogo di adulare sferzava i cor 

tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl 

dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de 

fatti di sua vita e le proverbiali espression 

di superbia che si notano nei suoi scritti, at 

testano lalto grado della sua alterigia , fie- 

rezza ed indipendenza. E non aveva poi h 

carica autorevole e redditizia di scriba que- 

storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante 

poco, a lui nemico del lusso e delle albagie 

boriose dei grandi, come potette addebitarsi 

tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es- 

sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia- 

mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro. 




-«( 85 ) 


È noto del resto che il gran Venosino nei 

più antichi tempi non fu tenuto in quella no- 

minanza altissima, come ora si tiene. *^) 


Oh che gli uomini sogliono vedere sem- 

pre il male nel prossimo, e fingono non ve- 

derne il bene I 


L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a 

Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo 

animo riconoscente e buono. Mecenate lo 

colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a 

gran fortuna ed insperata, e per aver ester- 

nata la sua riconoscenza procacciossi la tac- 

cia di pettegolo e vile adulatore. 


Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La 

malizia regna sovrana negli apprezzamenti, 

come nelle altre cose. Che un letterato espri- 

ma le proprie idee sulla divinità in maniera 

da rendersi sublime, esponga le massime più 

belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene 

dair ammirare il cuore da cui partono siffatti 

sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia 

di stravagante. Se poi, al contrario, allo 

scrittore sfugge il benché minimo biasime- 

vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore 

cattivo, da un animo perverso. » 




-«( 86 ) 




Così giudicano gli uomini! 


Le massime così morali ed istruttive d 

Orazio, la sua circospezione, la sua religio 

ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza 

il suo animo generoso ed affettuoso insieme 

la sua amicizia, che si svelava sempre sin 

cera e disinteressata, non furono bastevoli e 

liberarlo dal dente della calunnia e dai vita 

perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori 


Quando altro i suoi nemici non potetterc 

fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- 

do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti 

ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc 

qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- 

darono Orazio. 


Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg- 

giante di propria luce! 


Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- 

dirono certo, perché pregavano Orazio stesso 

a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche 

e petizioni a Mecenate per aversi quello 

che Orazio ottenne per suoi meriti straor- 

dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne 

aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi- 

pendenti e sommi non mercanteggiavano 




( 87 ) 




sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò 

sempre una virile dignità, né fu mai pa- 

rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo 

amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte 

che li colpì, per istrana fatalità, insieme ! 


Svetonio riporta l'epigramma faceto ed 

amichevole che Mecenate ad Orazio diresse, 

che molto spiega e rischiara : 


Ni te visceribiis meis, Morati^ 

Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm 

ninno me videas strigosiorem, 


(( Se io, o Orazio, non continuerò ad 

amarti più di me stesso, possa tu vedermi 

ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^) 

Al cardinale Ippolito d'Este, che non era 

certo al livello di Mecenate, né per inge- 

gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- 

volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- 

ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo- 

vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : 


Fa che la povertà meno m*incresca^ 


E fa che la ricchezza sì non m*ami 


Che di mia libertà per suo amor esca. 


Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii 


Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9) 




-«( 88 )»- 


Si noti differenza di sentimenti ! 


Orazio così risponde al celebre giurecon 

sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi 

gliava a celebrare coi carmi suoi immorta] 

le gesta di Ottaviano : 


Trebazio di Cesare tinvitto 


Osa le gesta celebrar^ sicuro 


Che ne otterrai ricca al lavor mercede, 

Orazio cedono ineguali 


A tanto desio le forze inferme. 


. . . . fuor che in propizio istante . . 


Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30) 


Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed 

c( si tibi natura deest, corpuscolum non 

« deest. )) 


Dai quali brani si rileva che Augusto non 

solo stimava Orazio al massimo grado, tanto 

da temere che essendo le sue opere immor- 

tali, non curasse d'immortalarlo in esse, 

quanto eragli amico intrinseco e con lui so- 

leva scherzare come con un suo pari. Ed 

Augusto non addivenne l'erede testamentario 

del poeta? Sono fatti che riescono incom- 

prensibili a quelli che non vogliono riflet- 

tere quanto grande sia la potenza del genio, 

dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate 

venosino è un fenomeno che merita uno stu- 

dio speciale, e non altrimenti possono spie- 

garsi quelle poesie nelle quali la superbia 

e lo sprezzo del volgo profano fanno ma- 

nifesta quella grandezza sua, che chiarissima 

a lui stesso appariva. 




( no ) 




Di bronzo più durevole 

Ho un monumento alzato.,.^ 

Non Jta che basti a chiudere 


Me breve tomba intero 


Dair imo suolo alt etere 

Diran eh* io seppi alzarmi 

Primier su cetra italica 

Cigno d* Eolii carmi,,,.. 

Superba or va^ Melpomene 


Dei meritati allori 


Tutto il terrestre spazio 

È angusto a me confine,... 


Non io 


Da r urna e da la stigia 

Onda sarò ristretto^ 

Già del figliuol di Dedalo 

Io spiego ala piti ardita.... 

Laude fra tardi posteri 

Farà ch'io, guai per fresca 

Aura, arbuscel piti vegeto 

Ognor m^ innovi e cresca..,. 

La pompa è a me soverchia 

Che r altrui tombe onora,.,. 34) 


Colui che si esprimeva in questi termin 

sentir doveva di essere di gran lunga supe 

riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso 

incomprensibile che abbia potuto divenire i 

favorito del potentissimo Augusto, siccom( 

lo era del generoso Mecenate. 


E che la superbia di Orazio fosse stafc 




-^ III )»- 


sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- 

ta supremazia sui suoi simili, patentemente 

vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle 

sue massime radicate di sobrietà e morigera- 

tezza, dal suo contentarsi del poco e godere 

della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- 

teaii certo offerirgli più che un podere in Sa- 

bina, potean delegarlo proconsole in terre lon- 

tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- 

cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un 

ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, 

un attendersi un reciso rifiuto, perchè non 

eran questi i voti del venosino. 


È notorio che Orazio non usò altri di- 

stintivi di onorificenze se non lanello e gli 

ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol- 

tanto per accompagnare Mecenate nei pub- 

blici ritrovi, perchè non amava certo che si 

fosse detto che l'amico del potente signore 

fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- 

liere che comandato aveva una legione ro- 

mana! 


Un poderetto in luogo ameno, salubre, 

tranquillo e lontano dai rumori della gran 

città, un tetto sicuro, la certezza di vivere 




( 1J2 ) 




agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici 


protettori, ai quali dimostrava ad ogni p 


sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne 


solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii 


graziava le divinità! 


Ah che daddovero era una grand' anim 


quella di Orazio venosino ! O divino Verd 


o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi 


venti di uomini immortali aborrenti dalla st 


perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e 


all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs 


cile notare nel passato, fatte le dovute ecce 


zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual 


riuscì appena in certa guisa a far risonar 


pel mondo la tromba della fama, che non pii 


si appagarono di piccoli poderi o rustich- 


casette, ma bramarono s'innalzassero monu 


menti a loro stessi viventi. Vollero onor 


sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra 


stuono di accademie e di teatri, e scialo à 

superare i re della terra ! 










IX. 


LA VILLA SABINA 




SvsTomo — Vitt ili Orma 


L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa, 


Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^... 

Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL 


Gaioallo — Tra4. ili Orati 




I ell' esposizione della Promotrice 

del 1878 in Napoli si ammirava un 

cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia, 

dell'illustre pittore Camillo Miola, mio 

amico, autore della Sibilla, del San- 

sone al torchio, delle Danaidi, del 

Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar- 

danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita- 

liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som- 





( "4 ) 




mo, dichiarandolo uno dei migliori artii 

moderni d' Italia. 


Ed invero chi esamina quel quadro st 

pendo yien compreso d' ammirazione p 

l'arte e per la precisione storica che vi 

nota. Non palagio cinto da portici, o i 

parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca 

celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui 

modesta costruzione nascosta da un altissin 

albero, sul quale si arrampica un cespo g 

gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno 

me roseto; con semplicità di colore, con pi 

cola corte, con finestrette modeste, da un 

delle quali pende una gabbiolina con un 

capinera, e da cui compare il busto di On 

zio che maschera una vaga donzella, dell 

quale si distinguono solo le belle fattezz- 




rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che 

saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si 

versan dalle anfore colme vini prelibati rac- 

colti nel podere. Una capretta randagia presso 

il rustico cancello di legno, apparisce spetta- 

trice innocua di quelle piacevolezze campestri. 

Basta veder quel quadro per formarsi una 

idea della proprietà che Orazio si ebbe in 

dono da Mecenate, unico dono che la sua 

modestia aggradì, e che confaceva al suo 

ideale. 


Orazio cosi enunzia la topografìa del suo 

podere rustico: 


Tutto di monti una catena il forma^ 

Se non che t interrompe opaca valle 

Ma così^ che sorgendo^ il destro lato 

Ne copre il sole^ e con fuggente carro 

Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima 

Ne loderesti »7) 


Nella terza satira del secondo libro per 

la prima volta parla di tal dono che gli venne 

fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando 

cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina 

il Dacier, nella sua Cronologia delle opere 

oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit- 




( ii6 )»^ 




ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece- 

nate per tal dono che gli giungeva nel suo 

trentesimosecondo anno di età. 


La voracità del tempo che ogni traccia 

di opera distrugge ed oscura, fece del tutto 

scomparire le vestigia della villa di Orazio 

in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi 

ammiratori, e la religione che accompagnò 

i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- 

deri di tal fabbricato e podere, guidati dal 

lume nello stesso Orazio nelle descrizioni 

che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- 

timi anni stabilire il luogo preciso, la con- 

formazione e r area dove quella villa sor- 

geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- 

tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu) 

e nella quiete. 


Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- 

siano, nelle sue Racemationes venusinae , 

stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no- 

te sulle epistole oraziane; e principalmente 

r opera che X illustre letterato abbate Cap- 

martin de Chaupy pubblicò in Roma nel 

1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta 

della casa di Orazio, possono offrire pre- 




-«( 117 ) 




zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in- 

vestigazioni profonde e minuziose fatte per 

dar luce chiara a tale obbietto. 


Orazio disse che al suo piccolo fondo ba- 

stavano cinque lavoratori per menarlo a col- 

tura, i quali andavano a smerciarne le der- 

rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, 

ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- 

centi a quelli che lui stesso abitava, e dove 

ciascuno soleva vivere con la propria fami- 

glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul 

far della sera, sprigionavansi cinque nuvo- 

lette azzurrognole che ne indicavano il ru- 

stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno 

tranquillo. 


Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii 

di terre nelle province meridionali di vivere 

nel proprio fondo circondati dai rispettivi 

coloni, e r occhio vigile del padrone non 

nuoce alla prosperità di esso. 


Si comincia pure oggi a comprendere dai 

ricchi possessori di latifondi che la pigra vita 

delle popolose città non ridonda a vantag- 

gio della loro fortuna. Si creino pure ca- 

stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora 




-«( ii8 ) 




presso la sorgente, donde si ricavano quel 

ricchezze che rendono disuguali gli uomii 

fra loro. Si renderebbe così possibile e pei 

donabile tale disuguaglianza!.... 


Il principale castaido di Orazio dovev 

nominarsi Davo, marito forse a quella Fi 

dile alla quale dirige consigli savissimi 

salutari con una sua epistola. Davo esser do 

veva un cattivo castaido, come lo son per h 

più quei villici che abituati da tempo a fa 

da padroni nel fondo, mal vedono un nuo 

vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( 

dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta 

acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- 

ste saturnali, solendosi concedere ai subal- 

terni piena facoltà di esternare i proprii sen- 

timenti senza poter venire redaguiti dal pa- 

drone, ancorché gliele cantassero amare, 

(e tal costume si è conservato sin negli ul- 

timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel 

suo sudicio e laido poema, che intitolò // 

yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà 

possa degenerare in licenza) svela il suo 

animo protervo, indocile e poco amante delle 

rusticane usanze e prosperità derivanti dalle 




( 119 )^ 




buone e fertili annate, e dall' amor del suolo 

opimo; che anzi si svela amante dei piaceri 

della città per quanto spregiatore delle gioje 

campestri, e sotto la veste del campagnuolo 

si nasconde un guattero tralignato, ed un 

operajo invido ed infingardo. 


Davo prima di entrare nel podere aveva 

servito dei signori romani nell* ufficio di 

mediastmus. Si figuri il bel tomol 


Il fondo si componeva di una selvetta ce- 

dua (dove al poeta successe quel fiero in- 

contro col lupo, ed un dio propizio lo fé' 

restare incolume) ricca di elei ed altri alberi 

ghiandiferi che servivano ad alimentare le 

piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- 

scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed 

un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab- 

bondavano, con diverse altre specie di frutta 

delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben 

potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite 

poi formava la parte più ricca del fondo, e 

dalla quale Orazio solea distillare quel cele- 

brato vinello che non disdegnava far gusta- 

re al palato di Mecenate. 


Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo 




( I20 )»- 




di acqua freschissima, che ricascando in gt 

terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi 

je, formava poi una fonte limpida e crisfc 

lina da potersi paragonare al celebre fon 

Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; 

la patria del poeta, e che ancora oggidì qu 

di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah 

di Venosa, presso il bosco di Banzi. La 


fontana 


D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> 


è appunto \ attuale fontana degli Oratir 

presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press 

Venosa nella strada che mena a Palazzo £ 

Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai 

da Orazio in una gita a Venosa per cacci, 

o diporto. 


Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio 

corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- 

viverà I In che cosa si discosta dalle credenze 

del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla 

divinità che dall' alto dispone, assiste e pro- 

tegge ? 


O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- 

cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale 

che tutto vede e dispone, e che premia o 

punisce. Non è la sommissione buddistica, 

bensì la virile sommissione ad una forza on- 

nipotente. Orazio diceva: 


Che Giove fra celesti 


Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ 


E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben- 

ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- 

dava: // est, il est, il est! ■**) 


A tali credenze religiose mescolandosi la 




-c(a più dolce salsa alle vivande 

Procaccia col sudor. 5^) 


Soleva in compagnia dei suoi familiari ed 

alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere 

a queste semplici vivande un buon bicchiere 

di vino schietto e leggiero, che essi mede- 

simi avevano manipolato dopo la gioconda 

vendemmia. 


La sua mensa era linda, lucente, bianca, 

sulla quale campeggiava un vasello emble- 

matico ripieno di sale: e V aveva per caro 

auspicio e quale usanza religiosa. 


Il sale ha avuto grande importanza in tutti 

i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- 

liti serviva per purificare e consacrar la vit- 

tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è 


19 




( H6) 




mista al sale. Questa sua grande mondezza, 

non lo dissuadeva dall' invitare a convito 

amichevole, oltre ai suoi amici di condizione 

eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio, 

LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle 

di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, 

Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me- 

cenate, al quale scriveva: 


n nauseoso lusso 


ammirar cessa. 


Grato ben giunger suole 

Sovente ai grandi il variar di scena. 

Cerca mensa frugai^ là dove ammessa 

Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora 

In pover tetto fa sparir le impronte 

Che affanno incide in accigliata fronte. 

Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio 

Povertà senza fasto e senza sfregio. 53) 


Ed in tali circostanze straordinarie mo- 

strar si soleva galante a modo suo. Inco- 

minciava col prevenir gli amici che se con- 

servavano vino miglior del suo, Io portas- 

sero pure alla sua mensa che non se ne 

sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un 

bicchierino di soverchio alla salute del do- 

natore. 




( H7 ) 




Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse 

l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero 

al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- 

tirono di vino sin dall' alba le dolci muse. 


Prometteva ai commensali che li avrebbe 

collocati nel triclinio ciascuno presso a per- 

sona che non gli riuscisse antipatica o me- 

ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava 

riservare il posto ai più gai, ai più giovani 

e baldi, presso quelle generose donzelle ro- 

mane di bellezza e brio regine. La gentilez- 

za, poi, formava il principale suo pensiere. 

Così scriveva a Torquato: 


Già il focolare da un pezzo e le stoviglie 


Splendon rigovernate a farti onore 


A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,. 


Che sozza coltre 


Che sordido mantil non giunga il nc^so 

Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto 

Tal non sia che specchiarviti non possa 54) 


Né gli piacevano numerosi convitati, ma 

pochi, cari e buoni: 


Che caprino sentore ammorba i troppo 

Folti conviti. 55) 




-«(148 ) 




Riesce in vero gradito e dilettoso figi 

rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi 

vito, con quel suo faccione pieno e rose^ 

ilare, faceto, coronato di rose, levigato 

terso colla cute, da sembrare un majaletl 

lustro e pinzo. 


Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi 

zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover 

glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit 

curare gì' innesti delle piante e degli albei 

da frutta; della qual cosa solcano ridere 

vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi 

frequentasse la corte, e che di Augusto e e 

Mecenate e di altri potenti fosse familiare 

non poteano persuadersi di questo suo amor 

per così rustiche e basse faccende campe 

stri. Non riflettevano essi che nella ment 

del venosino eravi fisso, incardinato il « m 

admirari y> secondo l'opinione di Laerzic 

e di Democrito. Orazio era dotato di « aia 

raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor 

lo lusingavano punto, anzi ne era al somme 

disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle 

sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie 

consiglio: 




( H9 ) 




Alma al ben fare accorta 


Tu serbi • 


inflessibile 


A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57) 


E dopo le escursioni nel podere ponea 

mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg- 

gendo, meditando. 


Solca poi di tratto in tratto recarsi nella 

gran città, in Roma, sia pel disimpegno della 

sua carica di scriba della questura, sia per 

altre faccende, sia per coltivare le amicizie 

di Augusto, di Mecenate e di altri che egli 

stimava, principalmente versati nelle lettere 

e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè 

la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei 

finti amici invidi e malvagi, degli zingani, 

dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- 

dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette- 

rati non lo avevano risparmiato. 


villa, e quando io rivedrotti^ e quando 

Potrò dei prischi saggi or fra i volumi 

Or tra il sonno e le pigre ore oziose 

Trarre de V egra vita un dolce oblio ì 

Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte 

E i buoni erbaggi come va conditi 

Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I 




-«( I50 )»- 


notti I cene degli dei^ dov* io 

Presso il mio focolar coi miei m' assido^ 

E mangio^ ed alla vispa famiglinola 

Dei servii nati dai miei servii io stesso 

I già libati pria cibi dispenso! S^) 


Della sjpa persona soleva avere som 

cura, perchè quasi giornalmente immerge 

nel bagno, e dopo ungere si solea di o 

profumato e finissimo. Nel vestire most 

vasi dimesso e noncurante, ma non pe 

privo di gran pulitezza o da potersi dir  come vuole san- 

to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del 

Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- 

nario ed inesplicabile quanto in appresso 

verrò esponendo circa le consuetudini do- 

mestiche di Orazio. 


Nelle molteplici edizioni delle opere del 

sommo poeta, le quali riportano la sua bio- 

grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho 

rilevato che si è tralasciata una notizia in- 

teressante che riguarda una sua pratica oc- 

culta, la quale può ben riferirsi al culto sur- 

riferito di misticismo caldaico. 


La vita di Orazio composta da Svetonio 

Tranquillo, che fu V unico che scrisse del 

gran venosino pochi anni dopo la morte di 




( IS7 ) 




lui, e che fa accrescere certezza alle investiga- 

zioni fatte neir analizzarne le opere, si com- 

pone non più di una sessantina di versi di 

stampa. Tutto è laconico e scritto fugace- 

mente, come se si trattasse d* un cenno ne- 

crologico. Sembra che Svetonio abbia vo- 

luto far notare con certa diffusione Solo l'a- 

micizia intima che legava Orazio ad Augusto, 

ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani 

di lettere. La quale riproduzione di brani di 

lettere di Augusto ad Orazio dirette forma- 

vano forse il soggetto che per la maggior 

parte dei contemporanei destar doveva in- 

teresse maggiore, e far di Orazio un uomo 

agli altri superiore per tanto onore. Il brano 

della biografia che è stato cancellato ( forse 

per purgarla), V ho rilevato da un' edizione 

olandese delle opere di Orazio del 1663, pub- 

blicata dal filologo inglese Giovanni Bond, 

che la prima volta comparve in Londra nel 

1614, e dopo se ne riprodussero diverse al- 

tre edizioni intere, ed è il seguente : 


(( Ad res venereas (Horatius) intemperan- 

tior traditur nani speculato cubiculo scorta 

dicitur , habuisse disposila , ut quocunque 




-«( 158 ))•- 


respextsset, tòt et imago e re f erre- 

tur....... )) 


Formava adunque per Fiacco un culto 

(( / ars Venerea » , ed egli addimostrava- 

sene tanto fervente, perchè nato nel luogo 

ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella 

cennata antica cronaca venosina del Cenna , 

il quale era pure investito della prima di- 

gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di 

Venosa, si leggono i seguenti versi che rin- 

forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe- 

tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, 

vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato 

in sua vita di costumi osceni, il che tutto 

è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico 

Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi 

Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese 

del 1700, nel suo poema. « L Emulation » 

va all'eccesso contrario, proclamando Orazio 

(( modéle de bravoure et de chasteté. » 


Ciò che forma adunque l'addentellato al 

dispregio di molte produzioni oraziane, viene 

per tal riguardo distrutto ; considerando che 

la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei 

tempi una qualifica essenziale dell' immora- 




( 159 ) 




lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta- 

mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- 

sce gli adulteri, i violatori delle vergini, 

gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo- 

rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- 

reggere i costumi, qual altro fondamento di 

morale, mancando la cristiana, poteva offrir- 

gliene sostegno ? 


Egli rampogna acremente i Romani d' ir- 

religione e lascivia. Egli volle vivere sempre 

celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto 

d' alta responsabilità che non volle allacciar- 

sene, né restarne tenacemente avvinto. La 

moglie di Mecenate gli forniva un esempio 

troppo splendido d* incostanza, infedeltà e 

disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia 

abbandonando lo sposo. E non parea conve- 

niente al sagace venosino far la triste figura 

di Mecenate, intendendo professare V opi- 

nione di Seneca a tal riguardo, quando com- 

pose la biografia del marito dell' infedelis- 

sima Terenzia. (^^) 


Il suo celibato vien confermato dal non 

aver scritto mai carme o verso per donna 

che fosse stata sua moglie. 




( i6o ) 




E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del 

libro 3^: 


Te Mecenate il rimirar sorprende 

Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ 

Io cèlibe^ di ?narzo a le calende 


E fior prepari.  


E solo ad un celibe sarebbe convenuto far 

pompa di tante conoscenze di cortigiane e 

donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, 

Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, 

Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso- 

no, essendo state amanti riamate di Orazio, 

che se egli non aveva moglie, godeva non 

poco del benefizio inapprezzabile di essere li- 

bero e celibe. 





ìÀjiS^Ì 





se. "*-Sj 




XII. 




GLI ULTIMI ANNI DEL POETA 




GuOALio — Tml. di Orm 




, N moltissimi punti delle opere di 

Orazio appare che nella sua mente 

elevata si presentava l'immagine della 

morte, questo indecifrabile, nebuloso, 

oscurissimo problema, questo fatto in- 

cognito, pauroso e spaventevole. E dir 

ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so- 

steneva che : 


Con impavido ciglio 


Se delteteree spere in pezzi infrante 




( l62 ) 




Valta compage piombi 


Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s) 


Non poteva con tutto ciò esimersi da quella 

paura istintiva, da quel senso di terrore in- 

generato dal dover mancare alla vita, dal do- 

ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. 


...... Nato a morir ^ 


Tutti attende alfin quella profonda 


Che non conosce aurora unica notte . . 


Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . . 


Presto rapì t inclito Achille morte 


E a me ciò farse offrir vorrà la sorte 


Necessità di morte 


Getta sovra ciascun 


Legge crudeli Ma pazienza mitiga 


Ciò che non ha riparo 


Tutti spigne tal forza ad ugual meta 


Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66) 


Tutta la sua filosofia: le massime di De- 

mocrito e di Epicuro, che facean precetto 

essenziale di dispregiare e non curare gli 

orrori del sepolcro, non bastarono a toglier 

questo pensiero ftinestissimo dalla mente di 

lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com- 

mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- 

ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli 

rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano 




( i63 ) 




il dolore, promettendogli una patria lassù, 

sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni 

godimento ed allietata dalla vista di quel Dio 

rimuneratore e buono ed onnipotente. 


Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so- 

levansi ammettere quei miti inverosimili ed 

incredibili, che acchetavano la bramosia di 

quei popoli privi di una fede consolatrice, 

che prometteva la beatitudine ventura come 

compenso alla vita onesta e laboriosa. 


Dato che il piacere terreno formar do- 

vesse la meta della felicità, che poteva spe- 

rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru- 

zione completa, la particella della materia 

andava a ricongiungersi alla materia: 




Noi cadendo 

Nella notte che non sgombra 

Più non siatn che polve ed ombra . 

Degli anni il breve termine 

Vieta ordir lunga speme: 

V ombre favoleggiate e la perpetua 

Notte già già ti preme, 67) 




Nella distruzione completa del suo essere 

Orazio ammetteva che soltanto una parte di 

se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il 




(J60 


frutto dei suoi sudori, il suo monumento: 

r anima sua. 


E tale credenza, che non era dubbio, gli 

scusava la fede nel!' immortalità dello spi- 

rito umano. 


L* (( omnis moriar », espressione tanto 

concisa per quanto chiara, spiega che non 

eravi dubbio in lui neir immortalità del- 

lanima. La paura della morte comune a tutti, 

sebbene con tanta jattanza, dalla maggior 

parte apparentemente sfidata, più che Ora- 

zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E 

siccome la paura è attaccaticcia e conta- 

giosa, Orazio non addimostravasi meno al- 

larmato di lui. E tal pensiero dominante 

trapela nelle sue opere, come quell'altro, 

che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né 

bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- 

tezza e valentia. La paura della morte era 

così possente in Mecenate da fargli dettar 

quei versi riportati da Seneca, che non 

fanno grande onore al valoroso romano: 


Vita dum superest, bene est 

Hunc mihi vel acuta 

Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^ 




-«( i65 )»- 


Tanto grave e scoraggiante riusciva per 

lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve- 

nire inchiodato in croce come l'ultimo dei 

malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca- 

ronte nella palude Acherontea. 


Orazio venivalo consolando con teneris- 

sime espressioni, perchè Orazio non era co- 

dardo, né intendea scoraggiarlo maggior- 

mente. Ma le sue espressioni non appro- 

davano gran che. Tentò alfine porre in ope- 

ra il savio consiglio, che la pena gli sa- 

rebbe venuta scemata sapendolo compagno 

nel dolore, ed è perciò che gli dice senza 

essere scevro di paura : 


, Non piace ai numi 


Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi 

Un dì medesimo fia d* ambi estremo 

Ne il voto è perfido, inseparabili 

Andremo^ andremo. Che pria se muori 

Pur teco air ultimo comun mi trovi 

I nostri unanimi fuor S ogni esempio 

Astri consentono 69) 


E tale profetica consolazione, per istrana 

fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito 

veder tutto con tinte soprannaturali. Buona 

parte di quello che molti direbbero spirito 




-«( i66 )»►- 


profetico attribuir si deve alla paura della 

morte che premeva così Mecenate come O- 

razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non 

è vigliaccheria, bensì è innata nella natura 

umana. Anzi prode è colui che questa paura 

affronta, e guarda imperterrito quella figura 

armata di falce, sfidandola sui campi delle 

battaglie, al letto degli appestati. 


Se non vi fosse terrore e spavento istin- 

tivo del morire, quale prodezza, qual valentia 

sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le 

pesti, il mare irato ed il baleno delle armi 

nelle tenzoni cavalleresche ? 


L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, 

il sentirsi quel grande consolato da lui così 

coraggiosamente lo fecero memore del poeta 

che l'assisteva nelFora estrema a preferenza 

degli altri. Nel suo testamento scriveva ad 

Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura 

di Orazio Fiacco come prendereste cura e 

terreste memoria di me stesso I » 


E riesce veramente straordinario come, 

morto appena Mecenate, che era già soffe- 

rente e presentiva la propria fine , dopo 

pochi giorni, un subitaneo malore colpì il 




( i67 )»- 




sommo poeta, da non lasciargli neppure il 

tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo- 

lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- 

gere r amico neir ima notte, siccome aveva 

promesso. 


Orazio morì neir anno di Roma 746, es- 

sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio 

Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, 

due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 

novembre. 


Già da qualche tempo varcati i dieci lu- 

stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof- 

ferenza ai nervi e malinconia che accom- 

pagnar sogliono per lo più quelli che tra- 

scorrono molte ore del giorno a logorarsi 

la mente coi severi studii. Perchè i visceri si 

rendono sofferenti per le occupazioni men- 

tali, e defatigata la mente, la tetraggine 

invade il cervello , principalmente quando 

gli anni incalzano. 


In una lettera che il poeta scriveva ad 

un compagno d'impiego nella questura, Cel- 

so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- 

l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- 

duto e careggiato dal giovane Nerone, erede 




( i68 




dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo 

(sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- 

ché infermo , per questo favorito di ven- 

tura) così diceva : 


Dritto né ameno è di mia vita il corso^ 


Perché men della mente sano 


Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, 

Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi 

Medici fanno orror, gli amici restia 

Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) 


Ed a Mecenate . scriveva : 


Ma di cor debil troppo e troppo infermo 

Me conoscendo^ chiederai tu quale 

Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70 


Col corpo affranto dal peso degli anni, 

dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e 

nelle avventure e nei godimenti venerei, 

sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor- 

tale malattia del suo Mecenate e la fine dì 

questo. Il colpo fu troppo violento e dovea 

riuscirgli fatale. La sua fibra debole non 

poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con 

lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la- 

coniche note di Svetonio, circa la vita di 

Orazio, dice che lo stato suo di salute era 




( i69 ) 




deteriorato assai con gli anni, che non gli 

conveniva più restar l'inverno nelle monta- 

gne della Sabina, nella sua cara villa : che 

svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo 

scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi 

enimi fere otium suwn conferebat , ibique 

carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava 

Orazio infermo e pensava morirvi là. Così 

egli scriveva al fido amico Settimio: 


Oh tregua al vecchio fianco 


Tivoli dia 


Quivi piagnente di pietosa stilla 


Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) 


Certuni erroneamente attribuirono la mor- 

te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana 

la coincidenza della sua con la morte di Me- 

cenate. Ma deve venire del tutto bandita 

tale idea per le seguenti ragioni. Orazio 

dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so- 

leva dileggiarli; e la storia di Empedocle, 

che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente 

lo dimostra. Empedocle per desio di molta 

vanagloria e prodezza, invano precipitossi 

neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la 

inutile bravura. 




22 




( I70 ) 




Esaminando imparzialmente e con co- 

scienza la vita di Orazio, si nota che ogni 

sua cura si volgeva a conservarla, sia che 

militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa- 

bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi 

facilmente proclive all' apoplessia. Che era 

già fiacco e malandato in salute nel suo 

undecimo lustro. Che il dolore della per- 

dita del suo più caro amico e protettore 

Mecenate (egli così amante degli amici e 

riconoscente) doveva avergli prodotto tale 

un rincrudimento dei suoi malanni da dar- 

gli la morte con colpo apopletico. E son 

numerosi gli esempii di fratelli od amici 

ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re- 

pentina disparizione d* un fratello o d' un 

amico, li han seguiti immantinenti nella 

tomba sopraffatti da colpo di malore vio- 

lento. 


Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E 

che fu tale il suo genere di morte lo prova 

poi chiaramente il non avere avuto il tempo 

di tesser un elogio funebre al suo sommo 

protettore Mecenate, che aveva assistito negli 

ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e 




-«( 171 )»-* 


con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere 

il proprio testamento. 


Svetònio dice: (c Quum urgente si va- 

letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- 

menti tabulas . )) 73) 


Dovette avvalersi di quello che, dice Giu- 

stiniano, prescrivevasi dal giure civile di 

quel tempo, cioè della prova testimoniale di 

sette cittadini, che dinanzi notaro provarono 

esser volontà del moribondo Orazio che l'im- 

peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio 

per decidersi a lasciare erede \ imperatore , 

che consentì ad accettare \ eredità, doveva 

esser fornito di non pochi beni di fortuna. 

Che di fondi, che di valsente doveva aversi 

senza manco veruno un buon dato, stante 

la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio 

quando accennando alle largizioni di Me- 

cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- 

tera liberalitate locupletavit. » 


Ma delle sue sostanze rimaste non ap- 

pare vestigio od accenno, meno della villa 

e del podere in Sabina, che han formato, 

come si disse, la paziente investigazione 

dei dotti archeologi e degli ammiratori 




( 172 ) 




del grande poeta. L' aver lui posseduto po- 

deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non 

è che una supposizione dei comentatori 

delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi- 

razione han formato un dominio. Mentre 

chiaramente Orazio, nella sua diciottesima 

ode del secondo libro dice: (c Satis beatus 

unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara- 

zione formò la base delle rimunerate inve- 

stigazioni archeologiche del Capmartin de 

Chaupy, siccome si accennò parlandosi della 

villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune 

r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- 

dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ». 

Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti, 

principalmente dal Tommaso Nicolò d' A- 

quino, autore dell'opera Delle delizie Taran- 

tine, da Giambattista Gagliardo nella sua 

Descrizione topografica di Taranto, e da Ate- 

nisio Carducci, illustre letterato tarantino, 

nella sua versione dell' opera del D'Aquino, 

con note, non si è potuto affermare che Orazio 

avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe 

vi avesse fatto delle brevi escursioni per 

isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi 




( 173 ) 




vestigio di casa o podere a lui od ai suoi 

appartenuta, dovendosi credere erronea V as- 

sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua 

cronaca manoscritta, più volte mentovata, 

della città di Venosa del 1500, nella quale si 

dice aver posseduto Orazio una casa presso 

le antiche mura della città, a levante, forse 

alludendo a quella che si accennò nei capi- 

toli precedenti, appartenente ad uno della 

tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- 

zione. E da tale ipotesi lascia derivare che 

dalle finestre di quella sua abitazione in Ve- 

nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra 

vastissime campagne, e da quella veduta 

venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda- 

turque domus longas quae prospicit agros. » 

Perché non riferire invece con maggiore pro- 

babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra 

chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto 

ciò che si è riferito nei capitoli precedenti 

circa la dimora di Orazio in Venosa, ove 

si trattenne solo adolescente : circa la con- 

fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè 

seguace di Bruto, e particolarmente per non 

averne fatto il menomo indizio in tutte le 




-«( 174 ))^ 


sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era 

cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- 

sione dei campi asserita dal Cenna è un 

sogno. 


Che Orazio abbia fatto in Venosa qual- 

che rara apparizione , forse per diletto ed 

in compagnia d'amici, lo lascia desumere 

soltanto r ode al fonte di Bandusia, che 

rumoreggiava con polla cristallina ed ar- 

gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es- 

sendosi recato Orazio a cacceggiare od a 

merendare, dovette improvvisare quei versi. 

Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu- 

stratori delle sue opere. 


Orazio, come si disse, nacque a dì 8 

dicembre del 689 dall' edificazione di Roma, 

essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu- 

cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no- 

vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario 

Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età 

di anni cinquantasette. Acrone scambia però, 

per errore dei copiatori delle sue opere , il 

numero LXXVII per LVII, assegnando ad 

Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri- 

nito asserisce: « Alti supra septuagesimum 




( 175 ) 




annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- 

sum existimo. » 


Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome 

Svetonio, ritengono con precisione gli anni 

della vita di Orazio essere stati cinquanta- 

sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV 

anno di Augusto, il secondo asserendolo 

morto nelle date surriferite, e riportando i 

consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; 

dai quali limiti precisi estremi non è lecito 

discostarsi. 


Il suo cadavere venne trasportato , tra 

il compianto universale, in Roma, (non è 

indicato da alcuno antico scritto il luogo 

preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba 

della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle 

sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve- 

tonio, che Mecenate possedeva un superbo 

palazzo suir Esquilino, e presso ad esso 

una tomba monumentale. In questa ripo- 

sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed 

Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera- 

mente uniti di pensieri e di amore ; benché 

l'uno nato di reale famiglia e di sangue 

purissimo, e X altro figliuol di liberto. 




-«( 176 ) 




Una possanza inesplicabile ed onnipotente 

li fece incontrare, divenire tra loro stretta- 

mente simpatici, e quindi insieme dormire 

nello stesso Ietto V ultimo sonno I 


Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno 

le gesta e la gloria pel suono reboante della 

tromba della fama procacciatasi col proteg- 

gere generosamente quella schiera immor- 

tale di uomini che vissero nel secolo di Au- 

gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo 

nionumento. È tutta sua la gloria che fa 

semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire 

l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di 

vita sarawi sul globo. 


Del sommo poeta non si conservano sta- 

tue antiche o figure nei monumenti da po- 

terne precisare la struttura corporale ed i 

lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare 

tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare 

le parole che si riferiscono al suo fisico, per 

vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- 

scrive con certa vanagloria la lussuria dei 

suoi capelli d' un bel color d' ebano , che 

ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma 

che gli anni e le cure aveano resi argentei. 




-«- 


Questi hanno improntata una certa tinta di 

pazzia benigna, che in luogo di ammira- 

zione suol destare compatimento, antipatia e 

ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro 

osseo che le ricopre, il corpo umano, non 

han bisogno di quella veste esterna non 

naturale, oppur naturale, sian cenci o por- 

pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema, 

capelli o calvizie per foggiare un genio od 

un cretino I Si può essere profondo filo- 

sofo, saggio come gli antichi della Grecia, 

e conservar forme aristocratiche, linde, ma- 

nierose, affabili, con un corpo formato al 

pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu- 

culento, e Foscolo e Byron e Leopardi 

negli ultimi scorsi anni così difformi tra 

loro. 


Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre 

antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- 

trina Nummorum » e lo conferma Masson 

nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti- 

tolato « De Horatii effigie », essersi rin- 

venuti dei medaglioni di metallo, terminati 

nella loro circonferenza con un cerchio da 

tre a quattro millimetri di larghezza, e che 




( i8o ) 




possono ben rassomigliarsi alle nostre me- 

daglie commemorative o di onore, nei 

quali si vede inciso in un lato un busto , 

ed intorno ad esso la scritta chiarissima 

(( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta 

n' è illegibile e consumata. Il busto anzi- 

detto è modellato esattamente a tenore di 

quanto più sopra si è esposto. Uno di essi 

si conserva nel museo del Louvre. E certo 

appaiono riproduzione di busti o medaglie 

d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel 

quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno 

è r opinione del dottissimo barone Walke- 

naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, 


« 


o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran 

venosino. Deve però convenirsi che un uo- 

mo che ha da poco varcati i cinquant' anni, 

raro è che si renda deforme e barbogio. 

Anzi la razza umana generalmente suole 

giungere a questa età ancora atta a buona 

vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. 

Se r aureola che circonfuse Orazio non 

fu il (( nomen imitile » e neppure X opi- 

nione che i suoi contemporanei ebbero di 

lui ( opinione poco proporzionata ai suoi 




-«( i8i )>9^ 


meriti, secondo che dottamente asserisce 

Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe 

tra i dotti il primo posto, perchè Dante 

stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio 

Satiro), maggiormente risulta la sua vera 

gloria dal sempre fecondo entusiasmo che 

per r eternità gli uomini risentiranno per 


lui 


Trascorsi appena nove anni dalla morte 

di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- 

sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por- 

tentosa ! 





t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-! 







^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^ 




XIII. 

L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO 




Ouao - za. I/I. - Ode XXX. 





HE dire di Orazio poeta, creatore 

nella letteratura latina di due ge- 

neri di poesie del tutto nuove, e che 

seppe far giungere ed elevare persino 

I la lettera all' eccelsitudine dì un ge- 

nere poetico? 

Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è 

quasi il solo che merita di esser letto, poiché 

s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è 

pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà 




-«( i84 )»-* 


delle figure, delle espressioni, d' una felicis- 

sima audacia. » E Petronio ^7) continua as- 

serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora- 

zio sono accuratemente felici, come Omero 

ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- 

dero la strada che conduce al lirico stile, o 

non ebbero il coraggio di batterla. » E que- 

st* opinione distrugge la miserabile assertiva 

di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che 

chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi, 

appena poeta non isprezzabile [memorabilts 

poeta). Tanto potevano in questo possessore 

degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, . 

che tra certi letterati sono solite malattie I 


Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti- 

bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare, 

S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio , 

Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo , 

Dante, Voltaire e cento altri, a coro una- 

nime, gridarono le lodi del gran venosino. 


Moltissimi eruditi si sono occupati di stu- 

diare precisamente le opere di Orazio. I più 

celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- 

lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il 

Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber, 




( i85 )>9- 




il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, 

il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- 

ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, 

il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- 

relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle 

opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio 

Porfirio, e dell'altro che prendendo nome 

dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, 

non meno che di Emilio e Terenzio Scauro. 


Ciascuno di essi ha cercato desumere con 

pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio 

scrisse le singole parti del suo eterno monu- 

mento. Cercherò notare le più interessanti 

investigazioni. 


Orazio dapprima scrisse le satire e ne 


compose il primo libro negli anni di Roma 


713-718 , non avendo ancora raggiunto il 


trentesimo anno. Pare che la prima di tutte 


sia stata la settima fatta neir inverno del 


713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe 


con impeto sarcastico contro un tal Rupilio 


che con lui aveva militato nell'armata di Bruto, 


Segue poi la seconda scritta nell' autunno del 


714, nella quale parla in generale dei vizii di 


cui la società romana era infetta. La quarta 


24 




^ i86 ) 




satira fu scritta nell'estate del 715, ed in 

essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi 

mostrato un po' virulento nello sferzare la 

cattiva gente, e secondo il parere di Wei- 

chert fu questa la satira che i suoi amici 

Virgilio e Vario presentarono a Mecenate, 

avendo inculcato al poeta di scriverla per 

cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse 

la terza nel principio del 716, ed in essa fa 

vedere che mentre gli uomini sogliono cri- 

ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i 

proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve- 

dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, 

e non vedi la trave che è lì lì per acce- 

carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira 

venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i 

commensali di Mecenate; infatti la satira 

quinta che descrive con gran lepidezza e pre- 

cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, 

vi fa risaltare la figura di Mecenate come 

attore principale e come uomo politico, spe- 

dito dal governo per delicati maneggi a quel 

luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per- 

sonaggi influenti, e che compagni insepa- 

rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario, 




( i87 ))^ 




Cocceio e Tucca. Compose poi la prima 

satira in omaggio al suo gran protettore, e 

pubblicando il libro nel 717-718, la pose 

come principale, perchè a lui dedicata e per 

testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. 

Scrisse la nona dopo circa un anno per cor- 

reggere quei miserabili che invidiandogli la 

protezione di Mecenate, mostravano, .mor- 

dendolo col dente velenoso della livida in- 

vidia, di non esserne a parte. La bellissima 

satira sesta, nella quale pone la virtù come 

il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava 

con la quale schernisce i superstiziosi e le 

donnacce, furono scritte, secondo l'opinione 

di Spohn, nel 719. 


Il libro degli Epodi era già stato com- 

posto da Orazio prima del cennato primo li- 

bro delle satire, ma fu pubblicato non prima 

del 729. 


Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi 

dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- 

ventore dei giambi, al dir di Diomede gram- 

matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- 

preso il Gargallo nelle note, ammettano che 

epodi si dicesse il libro compilato da odi pò- 




^ i88 )m^ 


stume di Orazio, fondandosi sul termine gre- 

co epodem, che significa sopraccantare. 


Benteley, Weichert e Jahn sostengono che 

il secondo libro delle satire sia stato com- 

posto negli anni 719 a 729. E la terza del 

secondo libro delle satire sostengono essere 

stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo- 

strando che già poco più che trentenne Orazio 

avea avuta donata quella proprietà. 


Riguardo alle odi, furono scritte, se- 

condo il parere di Butman, del Dacier e 

di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, 

E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, 

cioè nella sua età di anni cinquantacinque, 

solo l'ultima ad Augusto, come omaggio 

al più grand' uomo del secolo e suo insi* 

gne benefattore. 


Orazio dalla sua villa aveva spedito ad 

Augusto diversi scritti e molte delle let- 

tere surriferite, e gliele indirizzò con un 

viglietto umoristico consegnato ad un Vinio 

Frontone Asella, che è proprio l'epistola 

decima del primo libro. Augusto dopo aver 

letto tali componimenti, gli rispose così: 

(( Sappi che io sono teco sdegnato , per- 




-^( 189 )»►- 


che in molti di cotali scritti (come sono le 

satire e le epistole) tu non parli principal- 

mente con me. E forse che temi non ti sia 

per tornare ad infamia nella posterità, se tu 

mostri d'essere stato mio amico ?» A questo 

onorevole ed amorevole rimprovero Orazio 

rispose colla prima epistola del secondo libro, 

che è invero un capolavoro nel genere sotto 

ogni rispetto. 


Il primo libro delle epistole venne com- 

posto prima del quarto libro delle odi. 


Il carme secolare scritto per condiscen- 

dere al volere di Augusto fu composto nel 

737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio. 

L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca- 

polavoro, e che può dirsi una lettera di- 

dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può 

benissimo classificarsi come terza nel secon- 

do libro delle epistole , e venne composta 

nel 741-742, mentre la prima epistola del 

secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi 

essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- 

posta nel 744, avendo il poeta V età di anni 

cinquantacinque. 


Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta 




^ 190 ))^ 


pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua 

opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa 

che sa quasi dell' inverosimile. 


Basta però per convincersene notare il 

numero straordinario delle edizioni delle sue 

opere, dacché ci furono tramandate, siansi es- 

se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. 


Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi 

precisare chi sia stato il primo scopritore dei 

canti immortali di Orazio, né dove rinven- 

gasi la prima edizione di essi nei tempi re- 

motissimi composta. Vuoisi da taluni che 

in un museo inglese se ne conservi vestigio. 

Certissima cosa é che da molti secoli, sia 

in Italia che in Germania, in Francia ed in 

Inghilterra principalmente, le edizioni delle 

opere del gran poeta possono contarsi a cen- 

tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne 

sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e 

note illustratrici. È proprio l'arboscello pro- 

fetizzato da Orazio : 


Laude fra tardi posteri 

Farà ch'io guai per fresca 

Auray arbuscel più vegeto 

Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i 




Quante opere insigni di altri uomini nati 

in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia 

ed altrove sono state composte nei secoli 

scorsi I E sono ignorate o perdute e scom- 

parse per sempre. E dei monumenti sanscriti 

di Persia, delle opere eccelse degli arabi che 

scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, 

e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori 

armeni, che invano i Mechitaristi tentarono 

illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute 

neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, 

o giacciono ignorate in fondo a qualche pol- 

verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro- 

dotto un fenomeno superiore, se pure non 

uguale, a quello del monumento oraziano. 

Alle opere di Orazio avvenne un simile me- 

raviglioso fatto. 


Sembrarono piccoli granelli di seme, che 

fruttificando, e dapprima poco curati (che dai 

suoi contemporanei, come si disse e lo con- 

fermò Leopardi, non furono tenute in quella 

stima che meritavano) divennero poi giganti. 

Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si 

distesero nelle viscere della terra, per tutte 

le latitudini, con gagliardia non mai vista. 




-^( 192 )»- 


E per disperdersene le tracce, per abbat- 

tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- 

rebbe che la terra universa andasse in fran- 

tumi. 


Dalla nostra Italia, avventurosa patria del 

poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, 

appaiono vestigia del portentoso volume, 

in tutte le lingue tradotto e glossato. 


Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta 

del monumento oraziano è una fronda fre- 

sca e vegeta che ci ricorda uno dei più 

grandi italiani. 


Non era scorso un secolo dopo la morte 

di Orazio , siccome attesta Giovenale, che 

già le opere di lui, dai suoi contempora- 

nei poco apprezzate, servirono in presso 

che tutte le scuole di Roma come libri di 

testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve 

arguirsi che non poche edizioni dovettero 

farsene in quei tempi remoti. Ma il primo 

editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- 

silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe- 

lice grammatico, sui manoscritti e ne fece 

redigere non pochi esemplari riveduti e cor- 

retti. 




^( 193 /»- 


Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne 

le seguenti edizioni principali antiche e mo- 

derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali 

esemplari condotte: 


Edizione primaria, senza luogo ed anno, 

con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 

26, in folio piccolo. 


Altra che non porta data, né firma del ti- 

pografo che s' ignora. Si compone di un vo- 

lume in quarto di a 57 pagine, stampate in 

lettere rotonde, di forma poco graziosa. An- 

tichissima. Se ne conoscono solo due o tre 

esemplari in Inghilterra. 


Edizione pure senza luogo, senza data e 

senza tipografo conosciuto. Forma un volu- 

me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri 

rotondi, ma molto belli, come quelli che si 

usavano verso la fine del 1400. 


1474. — Edizione di Napoli. In quarto per 

Arnauld de Bruxelles, pagine 168. 


1474. — Edizione di Milano. In quarto. 

Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli. 


1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna. 


1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda- 

min. 


25 




( 194 ) 




1481. — Venezia. Senza nome di tipo- 

grafo. 


1482. — Milano. In folio. Per Antonio 

Miscomini, col comentario di Cristofaro 

Lantini. 


1482-1491. — Milano. In folio, con co- 

menti di Antonio Mancinello e degli antichi 

scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. 


1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin- 

ger. Opere di Orazio in latino, con testo 

stabilito sopra manoscritti preziosi antichi. 

Con molte incisioni. 


1501. — La prima edizione Aldina. Ver 

nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo 

Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa. 


1503. — Firenze. La prima dei Giunti in 

8.° Filippo Giunti. Rarissima. 


1505. — La prima Ascenziana in 8.° 


1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu- 

zio. Riproduzioni. 


1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini. 


1553- — Venetiis. In quarto grande, di 

228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio. 

Con note erudite di Erasmo de Roterda- 

mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara. 




1555- — Venezia. Con postille di Gior- 

gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu- 

reto. 


1561. — Lione. Due volumi in quarto di 

Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò 

magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci 

antichi codici. Edizione ripetuta con molte 

correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567, 

in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo- 

vamente nel 1577 e nel 1587. 


1566. — Anversa. Teodoro Pulman con 

critiche rinomate. 


1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano; 

anche con critiche. 


1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru- 

chio. 


1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un 

manoscritto Blandiniano antichissimo, ed 

altri della biblioteca dei benedettini di Gand 

andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac- 

creditatissimo. 


1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due 

volumi in ottavo. 


1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu- 

penda, bellissima I 




-^( 196 )»- 


1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In 

quarto con dottissimo comento. 


161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana 

con note di Daniele Heinsius. Con disser- 

tazione dotta di tale letterato sopra le sa- 

tire. 


1629. — Anversa. Nuova edizione del 

medesimo, riveduta con note. 


1653. — Leida. Variorum, Editore Cor- 

nelius Schrevelius. 


1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of- 

ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi 

di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne- 

lius Schrevelius accurante. Riproduzione. 


1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre- 

cedente di Schrevelius, corretta. 


1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di 

Andrea Dacier. 


1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, 

molte volte ricopiata. 


1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu- 

penda. 


1696. — Parigi. Jouvensy. 


1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo 

Bentley. 




^ 197 )»►- 


171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent- 

ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra 

Orazio. In quarto. Monumento immortale 

dell'arte critica, lacerato dai contemporanei 

per livida invidia. Ripetuta l'edizione in 

Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia 

nel 1826. 


1729. — Parigi. Due volumi in quarto. 

Stefano Sanadon, con traduzione delle opere 

di Orazio molto stimata. 


1752, — Londra. Con note del Dacier. 

Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa. 


1756. — La suddetta in Amsterdam, ri- 


■ 


veduta e corretta. Otto volumi in ottavo. 


1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- 

snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e 

Both nel 1822. 


1770. — Parigi. Edizione classica in ot- 

tavo di Giuseppe Valart. 


1774. — Napoli. Michele Stasi, con note 

di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. 

Molto stimata. 


1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot- 

tavo, contenente solo le odi, con note ed 

illustrazione di Ch. D. Jhan. 




-^( 198 ) 




1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in 

Milano nel 1792. 


1791. — La stupenda edizione del Bo- 

doni in Parma. 


1794. — Londra. Due volumi in ottavo 

di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. 


1799. — La più stupenda e magnifica si- 

nora edita di F. Didot. In folio. 


1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo 

di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi 

le satire e le epistole, ma sono eruditissimi 

pomenti e note sulle altre opere e partico- 

larmente sul carme secolare. 


1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con 

note di Gessner e Zeunio. Composta sulla 

prima edizione dello stesso editore in Londra. 


1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot- 

tavo del Doering. Riputatissima edizione per 

uso delle scuole. 


181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di 

Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. 

Edizione bellissima. 


181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di 

Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi 

e gli epodi. Ma è superba. 




^ 199 )«►- 


1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed. 

Heindorf, con conienti eruditi e note. Con- 

tiene solo le satire. 


1820. — Maneim-Baden. Due volumi in 

ottavo di F. Both. 


1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi- 

zione di Carlo Fea di Roma con molte ag- 

giunte. 


1821. — Heidelberga. Due volumi in ot- 

tavo di Grevio. Contiene le sole odi. 


1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel- 

tissime note ed aggiunte. 


1828. — E. F. Schmid. Due volumi in 

ottavo. Contiene solo le epistole. 


1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo- 

lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. 


1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con 

biografia di Orazio e note. Libro erudi- 

tissimo e molte volte riprodotto, e partico- 

larmente l'ultima edizione quarta, accura- 

tamente emendata e corretta, sicché con ra- 

gione può dirsi la migliore. 


1838. — Venezia. Premiato con meda- 

glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con 

traduzione in versi e note del celebre mar- 




-^( 200 )>»- 


chese Tommaso Gargallo. Un volume in 

ottavo, preziosissimo. 


Della vita e delle opere di Orazio scris- 

sero pure con profondità di vedute e som- 

ma dottrina: 


Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 

5 volumi in ottavo. Berlino 1817. 


Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber- 

lino. 


Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo- 

lume in ottavo. Leida 1703. 


Eichstedt , Critica ed osservazioni stille 

opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1. 


Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva- 

zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- 

rigi, 1823. 


Cristofaro Martino Wieland, Traduzione 

delle opere di Orazio^ con note. Quattro 

volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827. 


Morgesten, Le satire e le epistole ora- 

ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801. 


E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- 

cesi che convien notare: 


C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione 

delle odi di Orazio in versi francesi con 




-«( 201 )l^ 


biografia ricavata da vecchissimo mano- 

scritto. 


Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran- 

cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, 

1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può 

definirsi una delle più dotte e belle edizioni 

delle opere del poeta. 


Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon, 

Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- 

ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- 

nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, 

Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli- 

grafo barone Walckenaèr, che nel 1840 

compilò una Storia della vita e delle poesie 

di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, 

opera dottissima ed insuperabile. 


E redizione grandiosa del Didot del 1855 

in Parigi, con tavole topografiche e note e 

biografia, che può asserirsi la più perfetta 

edizione del secolo. Riproduzione con ag- 

giunte di quella suddetta del 1799. 


E tra gr italiani il Metastasio, il Leo- 

pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il 

Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo, 


il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal- 


26 




( 202 ) 




vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi, 

il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco, 

ed altri molti scrittori di comenti e studii 

e saggi critici. 


Ma in Italia tra le molte traduzioni delle 

opere oraziane, la più perfetta e completa 

è quella del marchese Tommaso Gargallo, 

e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa, 

facendo risaltare la bellezza della frase ora- 

ziana, tale ammirevole letterato ha cercato 

inciderne il concetto, abbellendola con versi 

armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla 

musa stessa del gran poeta venosi no. 


Mi sono avvalso in questa mia opera ap- 

punto della traduzione del Gargallo, prin- 

cipalmente in quei passi della storia, nei quali 

era necessario dar luce alla dicitura con le 

stesse parole di Orazio, le quali forma- 

no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi 

massimi del poeta : « Jamais homme n'a 

donne un tour plus heureux à la parole 

Pour lui /aire signifier un beau sens, avec 

brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- 

vendomi dei versi sublimi frutto del forte 

ingegno del Gargallo, e dettati in purissima 




lingua italiana , per illustrare uno dei più 

grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai 

miei concittadini, ai quali, per questo mio 

lavoro, chiedo venia e benevola approva- 

zione. 




M^ihr^^yr^'-i 





NOTE 










«li^^illl^^^l 




?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; 




(i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso 

il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria 


 deità orientale anteriore 




r^( 212 y»^ 


all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che 

nelle notizie sull' etimologia del nome della città di 

Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome 

riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe- 

tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na- 

poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- 

tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè 

scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento 

trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in 

una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, 

riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal 

Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori 

di sigle, che viene così tradotta : 


MbKCUKI tMVIC. 8ACR. 


pro salute 

Pbassbmtis mostri 


Agaris Acnc. 


Come pure trova riscontro in una pietra di corniola 

incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente 

alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- 

nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati, 

con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto 

la scritta  di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag- 

giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò 

aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon- 

deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore. 


Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda 

opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa 

e meritoria. 


(4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati, 


(5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. 


(6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip. 


(7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere 

di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*" 


(8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.* 


(9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante. 




r^( 217 )»- 


(io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* 


(11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente 

avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della 

nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al 

Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to- 

pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi 

annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per 

mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece 

inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città 

e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta 

di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- 

sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. 

Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci- 

tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in 

Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi 

opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata 

tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa, 

mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im- 

portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- 

cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e 

che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero 

di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai 

monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata 

per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica 

onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli, 

siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non 

però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- 

stenti in Venosa. 






Bemusbi 



. MOMUMRNTUlf. 









POBLICX 



. rACTUM D. D. 







M. 



. MUTTIBMUS . 



L. F. C. Vibius . 



l. 



F. 



M. 



Bfsssius . F. 


OB 



F. M. Camillius 


. HONOREM. 



. l. 



F. 




28 




( 2l8 >•- 




M. Mumnius « L*. F. 


C. Vmn» . L. F. 


n . Vis . J. D. 


Statuas . KZ 


D. D. 

Rbficivmdas 


e. 


Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte 

dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- 

che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono 

quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva- 

sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima 

terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà 

scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 

e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei 

prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- 

tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio. 


I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric- 

chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie, 

tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore 

Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve- 

nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del 

regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini 

politici dei sovrani che si successero, non venne man- 

tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar 

dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi 

patrizii illustri, scelti dal popolo. 


E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora 

in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe- 

derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse 

la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- 

« sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri 

e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de- 

 


E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im- 

peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- 

narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha 

memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi- 

nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse 

edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello 

splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce- 

neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e 

duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il 

che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu- 

Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì 


L'iscrizione è la seguente : 


StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM 

UftBIS AMICUS DUM FUKHIS 


Sbupbr Rxgmabis 


Jums POTKNTEB 


E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) 

del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono 

magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono 

un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed 

illustri del regno. 


In detta accademia presedeva lo stesso cardinal 

Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, 

o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa 




-«( 220 )ì9^ 




Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap- 

presentava l'Olimpo. 


E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita 

insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto 

riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500 

per quanto disadorno scrittore : 


 e così si enumerano molti 

doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare 

fatti di valore e degni di stima e compenso. 


Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine 

riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del 

1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani 

nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae — 




-«( 221 )•- 


Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el 

1723, che rimontano sino al precedente secolo deci- 

mosesto: 


Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di 

Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno 

di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale 

diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della 

sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici. 


Deitardis. 


Gomiti. 


Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado 

Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i 

re aragonesi. 


Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu- 

minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei 

quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian- 

none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa 

e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, 

agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero 

Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. 


Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi- 

nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L 

D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, 

che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale 

di Napoli. 


Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del 

celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era 

nobile nolano. 


Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di 

conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa 

Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di 

Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV. 


Fenice. 




-«( 222 ))^ 


Solimene. 


Casati, 


Consultnagni. 


Giustiniani, 


Caputi, 


Simone. 


Moncelli. 


Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene- 

ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui 

nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della 

nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio 

Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico. 


De Bellis. 


De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale 

Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa, 

autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio. 


Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve- 

nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile 

Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior- 

dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia- 

copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo, 

siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa 

famiglia venosina derivato ? 


Fioriti. 


Tramaglia. 


Ttsct. 


Tommasini. 


Palogani. 


Pagani. 


Balbi. 


Sperindeo. 


Berlingieri. 


Violani. 




-«( 223 )»^ 


Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne 

membro della celebre accademia venosina, e poeta fa- 

moso. 


Abenanti, 


Grossi. 


Protonotabilissimi, 


Capibianchi, 


Campanili. 


Ferrari, 


Faccipecora, 


Leonetto 


Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale 

palestra. 


Aloisiis, 


Rosa. 


Biscioni. 


De Vicariis. 


Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus 

D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^ 

U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae 

triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in 

legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi 

ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber- 

rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia 

Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con- 

siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio 

erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto 

(1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera 

di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni 

(1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo. 


Vitamore. 


Moncardi. 


Lauridia. 




( 224 ) 




De Jura o Thura. 


Sprioli, 


Leoparda, 


Sozzi. 


Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine 

di Malta. 


Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e 

dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti 

in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di 

essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente 

epigrafe, riportata dal Corsignani. 


JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino 


Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi 


Prognato 


MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS 

OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB 


Canonicatu Insignito, humanab salutis 

Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos 

Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi 


DIGNI8SIM0 P 


• 


E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con 

la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi 

Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta 

neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella 

vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- 

tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei 

più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima 

alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am- 

mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan- 

tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : 


Sull* altare : 


HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR. 


DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM. 


MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI. 




-«( 225 )»^ 




àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. 


FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D. 


PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. 


SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO. 


MDCLXVU. 




Sotto l'altare: 


SACELLUM . HOC. 

NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. . 

IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. 

RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. 


Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li 

Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che 

dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, 

D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed 

altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si 

volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri- 

vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, 

e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar- 

chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo, 

(e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia 

Rapolla, la seguente iscrizione: 


CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. 


U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus. 


EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. 


Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc. 


MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB. 


UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT. 


ANNO DOMINI MDCCXXII. 


La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- 

bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi- 

tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame 

il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma- 

gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri 


personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan- 


29 




•^( 226 )»^ 


zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com- 

t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo- 

luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub- 

blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra- 

zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro 

compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera 

« Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La 

Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^ 

serve quelque chose de plus que son nom et sa position 

antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai 

ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche 

degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po- 

tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del 

seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro- 

logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini 

1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra- 

sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, 

con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve- 

nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella 

capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con- 

siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far 

distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese 

a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per 

sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no- 

bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1 


(12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera 

9^ 


quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile 

Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- 

stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto 

parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di 

miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in 

una grotta messa sul ciglione di una collina verso 

oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata 

sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è 

rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la- 

terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo, 

coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni 

indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui 


soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo 


si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno 

ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un 

forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata , 

che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala, 

ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la 

loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- 

tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che 

si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte 

e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va- 

sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai 

tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue 

e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando 

andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai 

tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di- 

versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran- 

dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E 

venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un 

borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin- 

ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi- 

tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde 




-«( 231 )»- 


la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- 

no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. 


In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si 

disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti 

ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- 

stinati a grandi imprese. 


L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun 

abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante 

porta con sé una particella dell'aura divina, che emana 

da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle 

e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii 

antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete 

raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- 

glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi 

Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri- 

fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a 

poche città meridionali d'Italia. 


(15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di 

Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*. 


(16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua 

ode quarta del libro terzo  ed il « pios 

errare per lucos > han dato campo a non poche dispute 

tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- 

sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una 

balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del 

pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le 

ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- 

nosa. Gargallo traduce : 


Da pueril trastullo 

Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia 




-«( 232 )»- 




De r Apula nutrici, amar faruimllo 

Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie 

Tutu a nuazi arhuscelli 

Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli. 




Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar 

appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si 

chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa , 

usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. 

Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia 

Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re- 

gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella 

Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia 

Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu* 

cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro 

per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È 

certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture , 

della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè 

i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei 

tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona 

parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). 

Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- 

sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ 

a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che 

fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra- 

scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio 

avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come 

oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella, 

RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non 

esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro 

della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia 

o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove 

la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della 

quale si discorre. 







(J33j 


Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat- 

tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau- 

beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in 

Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^.. ^. .. g .É|..^ ^ .y ^, .ly.., ».^ ..^ ^ ^. | ^^ >.. ^ .L.. ^IfcHiilnlfcjtUlt^ 







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PERE DELLO STESSO AUTORE 




n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250, 

Tipi Di Angelis — Napoli, 1870. 


XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi 

Tarnese — Napou, 1877. 




Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo- 

lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico 

Vesuviano — Portici, I891. 




Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo 







Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi 


Giannini — Napoli, 1886. ì 

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