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Friday, June 7, 2024

Grice e Noce

 Non si può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di 

proporre ipotesi interpretative del pensiero contemporaneo 
anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e con 
gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante. 
Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del 
giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto 
ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale 
con i suoi interlocutori. 


Nel caso dell’interpretazione del fascismo Del Noce 
esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta 
(ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già 
la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente 
argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in 
questo caso, come in quello del marxismo, Del Noce 
procede da una considerazione attenta del fascismo che ne 
faccia emergere le specificità culturali, lo renda 
identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze 
più o meno evidenti. 

Quest'opera di studio e di approfondimento dei 
contenuti del fascismo è già un aspetto rilevante 
dell’interpretazione, dal momento che, ancora oggi — ma 
assai più negli anni Sessanta e Settanta — il fascismo è stato 


171 


rappresentato da una parte come una sorta di barbarie 
irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della coalizione di 
tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di interessi 
particolari. In questa prospettiva il fascismo viene 
identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, 
caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso 
di negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica. 
Da ultimo, trasformato in una sorta di essenza, il fascismo 
diviene la categoria alla quale ricondurre tutti gli aspetti 
legati alla tradizione, alla metafisica, al tema dell’autorità 
ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la 
tradizione senza essere nel contempo, almeno 
incoattivamente, fascisti e repressivi. 


AI contrario, per Del Noce il fascismo è un momento di 
quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli 
precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e 
che può essere designato più opportunamente come 
secolarizzazione, per intendere quel tentativo di creare una 
società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio. Il 
fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in 
quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha 
inizio con il marxismo. 


È questo il punto più incandescente dell’analisi di Del 
Noce: il fascismo si presenta come un tentativo 
rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo 
viene corretto per essere inverato, cioè per essere 
effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo e 
fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso 
del razionalismo che porta a una progressiva 
secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad 
assumere il ruolo sociale occupato precedentemente dalla 


L72 


religione. In questo quadro, secondo Del Noce, la 
rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si 
fonda, come si è visto, sul materialismo e sulla sua opera 
decostruttiva; oppure quella attualista, che è una 
interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di 
vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche 
di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il 
materialismo marxista.” 


La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò in 
Giovanni Gentile una figura centrale, attraverso la quale Del 
Noce mette in evidenza il nesso storico e teorico tra 
idealismo e fascismo. Per comprendere questo nesso, però, 
occorre che venga pienamente riconosciuta la complessità e 
profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato a 
personaggio di propaganda e di apparato. Del Noce non 
solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero 
italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale, 
quella del tentato inveramento del marxismo: perciò in esso 
egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso 
razionalistico del pensiero che così fortemente ha 
determinato le sorti dell’epoca contemporanea. 


Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e 
connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò 
dal quel presupposto naturalismo e materialismo che 
rappresentavano ai suoi occhi un limite nella comprensione 
del vero spirito idealistico. È in questa temperie culturale 
che avviene l’incontro con Mussolini. 

Del Noce è certo attento nel precisare che i fenomeni 
storici si verificano per una complessa serie di fattori che 
non possono essere ridotti a uno schema concettuale. 
Tuttavia quando nelle sue analisi parla di «incontro» 


175 


intende evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi 
biografici e storici, ma anche il congiungersi, si potrebbe 
dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e 
necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel 
caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime Del 
Noce parla, per esempio, di armonia prestabilita, quasi a 
evidenziare una sorta di attrazione fatale che ha 
compenetrato traiettorie di pensiero che avevano origini 
distinte. 


Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso una 
revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo 
riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più 
sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene 
perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello 
spirito rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la 
tradizione risorgimentale italiana. All’interno di questa 
struttura significativa, certamente gioca poi un ruolo 
determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro 
molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è 
tuttavia perfetta espressione  esistenziale-politica di 
quell’ansia rivoluzionaria che si traduce in attivismo come 
pura affermazione di potenza e in solipsismo, inteso come 
soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la realtà esterna 
in sé sussistente se non in funzione del proprio processo di 
autoaffermazione. 


Si comprende dunque perché Del Noce abbia parlato 
spesso di fascismo come errore della cultura e non errore 
contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante 
nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come 
fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della 
società italiana succube di forze oscurantiste, ma segna un 


174 


passo decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che 
contraddistingue l'evoluzione ultima del razionalismo 
moderno e che, secondo Del Noce, ha il suo inizio con 
l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più 
coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia 
secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra 
l’altro, si comprende perché sia senz’altro errato 
interpretare il fascismo come fenomeno reazionario e 
conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione 
dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il 
quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri 
strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che 
sarà perciò inevitabilmente violenta e inesorabile. 


Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi il 
fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del 
marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria 
capace di realizzare effettivamente una nuova società: è 
Antonio Gramsci. Anche in questo caso Del Noce dimostra 
un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel 
presentare le sue ipotesi. Egli infatti, proprio sul finire degli 
anni Settanta, mette a punto una serie di studi che 
confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della 
rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che, 
nel tentativo di riformare il marxismo, incontra in realtà 
l’attualismo e trasforma l'ideale rivoluzionario marxista in 
una filosofia della prassi perfettamente funzionale e coerente 
con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò, identificato 
in quegli anni come il vero punto di riferimento 
dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi 
del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da Del 
Noce come un autore gentiliano. Che cosa è infatti la 


175 


revisione gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo 
materialismo e del suo economicismo, per fondare una 
filosofia della prassi che porti a realizzare la rivoluzione 
prospettata dal marxismo a partire da una lotta per 
l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali 
militanti? Secondo Del Noce non è più marxismo, ma 
filosofia della prassi con tutti i caratteri dell’attualismo. 


In che senso allora Del Noce parla di suicidio della 
rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire 
il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della 
prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a 
ideologia strumentale per l’affermazione del potere, 
svincolandolo da qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero 
senza verità, pura affermazione di potenza, e perciò 
nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario 
che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il 
costituirsi del predominio sociale di una classe borghese 
cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il 
paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e 
del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto, 
nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era proposto. 


Il primo testo del capitolo è una conferenza del 1969 
confluita in L’epoca della secolarizzazione, che propone una 
definizione storica generale del fascismo e consente uno 
sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di Del Noce 
delle figure di Gentile e di Mussolini. 


Il secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della 
rivoluzione, che imposta l’assunto fondamentale del libro, 
soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica tra Gentile e 


176 


Gramsci. 


AM. 


3.1 Appunti per una definizione storica del fascismo 


Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di 
illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è 
un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su 
una zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra 
le due guerre. * Ora, l'attitudine contraddittoria a cui ha 
dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di 
millenarismo negativistico, porta al problema della sua 
revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di 
mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si 
tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state 
coinvolte nella sua catastrofe. 


È del 1963 il primo libro che abbia tentato un’esaustiva 
comprensione storico-filosofica del fascismo come 
«fenomeno epocale», quello di Ernst’ Nolte? 
Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione 
rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella 
secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti 
sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo 
aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il 
fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza 
contro la trascendenza», termine con cui intende non la 
trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare 
«trascendenza orizzontale»,  trascendimento storico, 
insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue 


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forme, è il nemico, deve essere «individuato» nella «libertà 
verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale 
nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si 
conosce e si ama». Sul piano più strettamente politico 
questa «resistenza contro la trascendenza» si affermerà 
come lotta sino alla morte contro i movimenti che la 
rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là 
dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si 
dovrebbe perciò parlare di un’essenza comune che si 
sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a 
seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche, 
culturali. Le principali di queste forme costituirebbero 
altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea unitaria di 
sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato 
dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo 
dal nazismo. Come è facile osservare, una tale 
interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo 
cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti 
dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo 
assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni 
atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più 
inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una 
possibilità fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è 
che questo giudizio non condiziona la ricerca, come 
presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato 
di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua 
importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio 
corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili. 


Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di 
un’«epoca del fascismo»? Da questo: è esistito un periodo in 
cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stesse 


178 


delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica; 
isolazionismo americano, socialismo in un solo Paese per cui 
la Russia «ridivenne una terra incognita ai limiti del 
mondo») l'Europa, pur dopo quell’anno 1917, in cui la 
prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto 
di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se stessa 
come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli 
avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare 
un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche, 
sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli 
avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, 
ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle 
guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta 
il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto, e di 
non presentarsi al pari della parola tedesca 
“nazionalsocialismo” con una pretesa contenutistica non 
però giustificata».4 


Col dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non 
pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi, 
di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da 
rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di 
brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata 
affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del 
massimo suo potere, 1930-1935. Ma, su questo punto, 
avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto 
accento valutativo. Così Thomas Mann nel 1938 aveva 
definito il fascismo come «una malattia del nostro tempo, 
che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può 
dirsi immune». Così, nella nota opera La distruzione della 
ragione Lukacs ha indicato «nello sviluppo spirituale e 
politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente 


179 


di un processo internazionale che si svolge nell’ambito del 
mondo capitalistico» È 


Bastano già queste citazioni per vedere il posto che 
l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo. 
Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso «liberale», 
della «malattia morale» e dopo quella marxista. Luk4cs 
aveva parlato di una linea unitaria di processo verso 
l’irrazionalismo «da Schelling a Hitler», includendovi tutti i 
pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel. 
Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità, 
Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il 
prefascismo di Max Weber, e naturalmente il dissenso su 
questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che 
riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho 
verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito 
come un rifacimento per l'Europa intera di quello che 
Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato 
però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di 


Weber. 


Ora, nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo 
libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una 
definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando 
però a prospettive diverse. Nel 1964, infatti, nel mio libro I/ 
problema dell’ateismo, definii la peculiarità della storia 
contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio 
punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era 
semplice: se si riconosce un carattere  genuinamente 
filosofico all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la 
sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una 
filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella 
realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica) 


180 


opposta a quella di un mondo che diventa filosofia 
nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può 
essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, 
essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia 
precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi. Non 
soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo; 

una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è 
per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione 
efficace a trasformare la società e il mondo; e per 
riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi 
parve di doverla definire come l’età dell’espansione 
dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa, 
parlare di «epoca della secolarizzazione», servendomi di un 
termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e 


dr O 


ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta; 
ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa 
età vuol essere — processo verso una situazione in cui si 
possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e 
siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest'epoca, 
prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della 
mia preferenza. 


Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir 
definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può 
essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una 
rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra 
possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente 
europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà 
invece parlare del «momento fascista» dell’epoca della 
secolarizzazione. 


Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti 
come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi 


181 


possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in 
relazione al fenomeno delle religioni secolari, che 
accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo 
profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria 
delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte 
di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al 
periodo «sacrale»; fenomeno nuovo che caratterizza in 
maniera precipua il periodo «profano» è la società opulenta. 


Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire 
che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione 
dell’Action francaise rispetto al radicalismo e quella del 
nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare che la 
simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è 
infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo 
la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che 
nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi 
sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando 
deve trattare del termine medio tra Action francaise e 
nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel 
considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i 
tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose 
affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel 
momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel 
momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare nel 
momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è 
almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di 
fascismo? 

Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si 
possano sussumere sotto il comune concetto di 
controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la 
trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e 


182 


nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti 
all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come il 
fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una 
stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda 
delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si 
era realizzata, o se invece l’attenzione debba 
prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette 
in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità 
interpretative: 1) Si devono distinguere qualitativamente i 
movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo, 
riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi 
fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di 
nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si 
vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di 
affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al 
fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre 
altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante 
dei regimi autoritari. 

La distinzione così di fascismo come di nazismo dal 
nazionalismo propriamente detto può essere stabilita 
facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un 
tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità, 
quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a 
valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli 
soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si 
può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta 
idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la 
nazione non più come un'eredità di valori, ma come un 
divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia 
non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione 
continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò 


183 


che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione 
su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels, che 
riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il 
primo movimento che avesse combattuto marxismo e 
comunismo da un punto di vista non reazionario; * sta in ciò 
la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler 
mantenne sempre per Mussolini. 


Assai più che i tratti comuni importano però le differenze. 
In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere 
storicamente definito come la piena realizzazione e il 
completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha 
accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e 
dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx 
(o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito 
rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di 
Mussolini è il miglior documento per lo studio dell’idea di 
rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e 
connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa 
nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di 
De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che 
avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma. 


Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi 
sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata 
l’attenzione: 1) che fu fondato da colui che giustamente può 
essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra 
mondiale, del comunismo europeo; 2) che l’ascesa di 
Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della 
cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso 
con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è 
una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e 
dell’altra; 3) che questa cultura idealistica italiana prende 


184 


inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, 
1895-1900, che segnò l’europeizzarsi della cultura italiana. 
Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della 
«misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava 
alla figura di Lenin», punto ben visto da Nolte, ma non 
sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza 
viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella 
distinzione tra «il vivo e il morto in Marx» che la cultura 
idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di 
fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità 
inscindibile tra materialismo radicale e azione 
rivoluzionaria, rifiutato. 


La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte: 
«Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi 
da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del 
partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il 
primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista 
europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei 
la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del 
bolscevismo russo, formatosi, tanto nel 1902 quanto nel 
1914, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni 
caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del 
comunismo italiano postbellico... egli fu anche il promotore 
dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta 
intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della 
vittoria fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è 
tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è 
che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale 
volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la 
teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto 
analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del 


185 


“decorso spontaneo”».2 Dove è giusto parlare di analogia, 
non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di Mussolini 
non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del materialismo 
marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del 
materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista. 


Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa 
l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più 
rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella 
liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato 
dal momento materialistico e dall’utopistico? 


L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è 
stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi 
della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo 
punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai 
chiara. Sotto un primo riguardo il momento materialistico 
significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere; 
sotto il secondo assai più importante — che implica la 
conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero 
utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla 
finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta 
all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica 
nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto 
il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva umana, 
pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la 
sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale 
materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo.* 
Separato dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si 
converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si 
suol dire con un termine diventato logoro perché sciupato 
nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»; tensione 
verso un’azione che è voluta per sé, come semplice 


186 


trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine, 
con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di 
dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come 
strumenti che possono promuoverla. Ma non basta: la logica 
che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della 
personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il 
conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti 
cessano di essere fini in se stessi per diventare puri 
strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra 
cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del 
disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di 
eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece, 
dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli 
altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso 
parlare di doveri morali nei loro riguardi. 


Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di 
solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che 
l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di 
solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica, 
il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La 
totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a 
togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra 
che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che 
proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà 
discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini 
non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta 
sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e 
invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria, 
perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini 
abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di 
comunista. 


187 


A me pare che partendo da una fenomenologia 
dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti 
contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha 
giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini.! 


Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di 
personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se 
medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore 
di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un 
significato morale, un valore che non fosse provvisorio, 
strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal personalismo. 
Bene Cantimori lo ha delineato, nel 1935: «Questo senso 
della potenza, questa volontà di predominio che lo fa 
identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo 
fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della 
lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà, 
consapevolezza e affermazione della propria individualità... 
e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente 
presente, cosciente della propria volontà e della propria 
individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea 
con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale 
consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in 
dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza 
ottenute». Per sé, l’identificazione con la causa del proprio 
popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae 
la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di 
predominio, in un protagonismo politico che è 
consapevolezza e affermazione della propria personalità; che 
altro può significare questo se non un’identificazione che si 
opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una 
specie di assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di 
qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della 


188 


vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui: 
l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale 
energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il 
male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è 
da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di 
Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si 
potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella 
disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza 
di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di 
autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel 
disconoscimento della personalità morale degli altri. Qui è 
anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il 
liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona. 


Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva 
insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza 
della finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una 
disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo, 
ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore 
che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra 
contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che 
come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva 
esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa 
azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà 
dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c'era una 
realtà storica nuova, il Regno d’Italia, fondato nel 1861, e fu 
Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo 
rapporto, veramente l’antiCavour. 

Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui 
Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non già 
perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo 
concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione 


189 


proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a 
trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli 
altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche la 
continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui 
si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze 
con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di 
contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si 
davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto 
che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si 
accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo 
margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica 
delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo 
soffocava progressivamente, e lo riduceva a un piccolo 
Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i 
muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di 
spire che lentamente lo avrebbero soffocato».® 


Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua 
incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il 
ricorso al pessimismo di Machiavelli per sentire questa 
solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio al 
Machiavelli, del 1924, è tra le pagine che meglio illuminano 
la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come 
potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di 
parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e 
l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e 
di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della 
Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che 
determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella 
tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi 
interventi.” 


Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e 


190 


di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi 
uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro 
volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo 
essere le coscienze più diritte. 


Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre 
un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in 
Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con 
l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei 
tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la 
psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà 
dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria, 
pensata come contraddittoria col materialismo; dalla 
irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione 
rivoluzionaria. 


È a questo punto che deve esser posto il problema del 
rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però 
guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della 
cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e 
ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in 
quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice 
demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non 
comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare 
dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento, 
a seconda della possibilità di successo; di cui poi è 
specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto 
al socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non 
poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò 
contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche, 
e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in 
relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto 
questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto 


IS 


incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e 
quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. 


Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del 
socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava; 
del marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine 
Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai 
rivoluzionari. * Perciò «anch’egli fu detto e si disse 
volentieri “idealista”» perché «aperto come giovane che era 
alle correnti contemporanee, procurò a infondere al 
socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della 
violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il 
misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni 
era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo». È 
il noto giudizio di Croce, * non inesatto, ma tuttavia 
generico, e che per questa genericità rischia di sviare. 
Maggior significato si deve dare alla rievocazione, 
singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustrò 
nell'ottobre 1939 a De Begnac il processo che l’aveva 
portato più di vent'anni prima alla fondazione dei Fasci di 
combattimento: «Le guide spirituali erano rimaste indietro 
di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della 
lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una 
sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un 
libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma 
pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il 
suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad 
un qualche interesse alla vita. De Viti, De Marco, Einaudi, 
Ricci e, soprattutto, Pantaleoni e Pareto. Sorel sembrava 
appartenere ad altra età, ormai. Gentile preparava la strada 
a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa».® 


Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è 


22 


difficile pensare che nei primi mesi del 1919 Mussolini abbia 
guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo 
Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. 
Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come 
indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di 
Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini «fascista» 
succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti 
della disputa italiana sul marxismo teorico, Croce e Sorel, 
non gli parlavano più; mentre invece la sua veduta sul 
momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la 
veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può 
separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua 
volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con 
la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir 
largamente accettata) deve venire storicamente vista come 
l’epilogo più rigoroso di quella disputa. 

Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso 
dell'incontro di Gentile e Mussolini. Presenta certo degli 
aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il 
Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per 
il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di 
un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che 
possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel, 
Pareto, Le Bon. 


Genericamente possiamo dire che fu un incontro per 
negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era 
travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per 
l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a 
modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel 
riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le 
stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo. Mentre il 


193 


fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno 
di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò 
al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata 
dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e 
la conclusione inesatta. 


Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come 
Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è 
strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel 
primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla 
filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx, 1899) non 
è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può 
infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato 
dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo 
definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo. 


È una posizione che deve venir vista come unica, perché 
non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di 
ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che 
aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra 
storica), e meno che mai, si intende, a quella 
dell’intransigentismo diciannovista. Fu egli l’unico a vedere 
in Mussolini non già una forza atta a servire o per il 
consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito 
a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di 
compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che 
pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini del novembre 
1943, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, «O 
l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli», 
debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma 
ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto 
indicava che il fascismo stava per concludersi in una 
catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza 


194 


intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar fedele 
nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento 
della fortuna. 


Per intendere la natura del suo consenso converrà 
prender le mosse dallo scritto dell’agosto 1927 su Origini e 
dottrina del fascismo. La data è molto importante. Esso 
appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con 
il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si 
era messo all'opposizione, ma dopo che aveva ragionato i 
motivi di questa nella Storsa d’Italia dal 1871 al 1915, dello 
stesso anno. 


Il primo paragrafo si intitola «Le due anime del popolo 
italiano prima della guerra» e contiene un’interpretazione 
estremamente significativa dell’interventismo e della 
partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla 
vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde 
perché «c'erano nell’anima italiana due correnti affatto 
diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da 
quasi due decenni e si contrastavano il campo 
accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che 
richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale 
col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare 
del vinto, quel che è conservabile». La partecipazione 
italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente 
come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte 
risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale: 
«...entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione, 
dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la 
Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e 
militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero 
potuto arrecare... In guerra bisognava entrare per 


195 


cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi 
più per fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la 
Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i 
cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa 
passione, una comune speranza... Cementarla, questa 
Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di 
muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed 
entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con 
una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua 
originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e 
al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla 
dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile 
che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il 
sacrifizio». Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione 
democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la 
libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme 
del saggio è estremamente interessante per far cogliere la 
rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo 
fascista; insomma, tra il fascismo e quello che 
successivamente prenderà nuova forma come Partito 
d’azione. 


Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti 
stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione 
morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla 
bilancia». La prima parte era per Gentile quella dell’Italia 
giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto 
nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il 
suo incontro con Mussolini: «Mazziniano (quest’ultimo) di 
quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua 
Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per 
riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, 


196 


ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più 
recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista». 


Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla 
separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per 
il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la 
volontà e la personalità dell'individuo, perché concepita 
come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla 
coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino 
a farla esistere, a crearla. [...] L'individuo nel nazionalismo 
diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo 
antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o 
condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve 
vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e 
l'individuo si immedesimano, o meglio sono termini 
inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che 
caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal 
nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da 
cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. 


Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce 
nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori, 
nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene 
da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo 
essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo 
di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per 
Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato 
ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista, 
che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo 
gli autori». 

Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un 
puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del 
Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta 


24 


con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi 
scritti, espressa già nella prefazione a Rosmini e Gioberti 
(1898); e Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx sono due 
libri inseparabili. * 

Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo 
in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma 
della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato, 
ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non già 
rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma 
attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è 
più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di 
riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente 
inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica, 
continuazione in certo senso di quella riforma cattolica 
giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del 
modernismo; né ha senso per lui come puro sistema 
speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è 
l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea 
che va da Bruno a Gioberti, né del resto egli presentò la sua 
filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir 
detto l’ultimo dei risorgimentali. 


Gentile aveva curiosamente ritrovato la figura del filosofo 
politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e 
Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può 
essere espresso nella formula che segue: il marxismo 
separato dal materialismo e il giobertismo separato dal 
platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da ciò 
era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si 
ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione 
e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però, 
per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva 


198 


affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si 
stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si 
può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese 
come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al 
Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal 
mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità 
di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni 
che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo 
stesso nazionalismo. 


Procedendo per accenni, è importante osservare quale 
scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra 
mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare 
il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in 
cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe 
allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando 
la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione, 
onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la 
marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e 
Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi 
di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di una 
politica religiosa. 


Possiamo così renderci conto della necessità 
dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come 
egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato 
il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per 
Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del 
marxismo.” 

Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non 
moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle 
illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba esser 
posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso 


199 


di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se 
portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il 
maggior filosofo italiano del tempo. 


D'altra parte non può non essere senza significato il fatto 
che le stesse critiche fondamentali mosse contro 
l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come 
criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo. 


Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che 
Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini 
si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato 
ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può 
pensare che egli non abbia troppo gradito di venir 
considerato come lo strumento di una riforma religioso- 
politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i 
termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie. 
Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da 
parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del 
Fascismo; così mi è sembrato molto significativo 
quell’accenno nella conversazione con De Begnac, avvenuta 
in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge. 
Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così. 


Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il 
fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione 
rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare 
dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo 
teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento 
e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione 
filosofica. Naturalmente, questa definizione non concerne 
che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la 
sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si 


200 


sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra 
mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la 
trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito 
della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso, 
ecc. 


Come si inserisce in quella che prima si è chiamata 
l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve 
essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si 
badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il 
richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar 
confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine 
alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi: 
quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in 
una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura 
superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se 
Mussolini poté pensare, intorno al 1930, a una prossima 
fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo 
secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la 
differenza tra fascismo e nazismo. Intorno al 1920, due 
uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la 
vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve 
riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente 
sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua 
giustificazione storica, nel senso di condizione della sua 
possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto 
realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto 
arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare però 
che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a 
dire che debba esser considerato come fenomeno 
reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini 
avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi, 


201 


servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria. 
Ma la considerazione dell’esito non può servire come 
criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice 
che il comunismo è fallito perché ha portato a una « nuova 
classe», più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente 
dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione 
reazionaria. 


Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il 
giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali 
tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio, 
il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel 
che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo 
propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori 
religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme 
antiprotestante e in posizione eretica rispetto al 
cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile, 
al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. 


AI solito, si risponderà che nessuno pretende realmente 
affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo 
degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che 
nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione 
di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non 
che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello, 
non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la sua 
caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del 
nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è 
sempre considerato come un fascista più o meno 
consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo» è fatto 
sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a 
simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono 
ben certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto 


202 


che la formula di «resistenza contro la trascendenza» 
facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di 
repressività». Per il significato di quanto ho detto, valga un 
esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia 
trovato un sostegno valido in quella parte del mondo 
cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si 
può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei suoi 
componenti; obbedienti a quella visione cattolica 
dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna 
globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò 
la critica del modernismo, e che effettivamente era 
prevalente tra il 1920 e il 1930 (come dimenticare che diede 
anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo 
combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il 
socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta, 
lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se 
questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per 
costoro, di un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo 
caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché 
una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la 
loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile: 
quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che 
abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega 
come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del 
nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su 
di lu (anche Salvemini e Gramsci, al tempo 
dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece 
l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può 
essere considerato come il più coerente dei modernisti (in 
polemica con altri modernisti per questa sua coerenza)? sia 
stata intellettualmente obbligata. 


203 


È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come 
interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di 
qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da 
illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E 
proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come 
abitudine mentale, che il presente discorso è diretto. 


Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia 
sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è 
intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa 
conferisce un significato magico, di parola-forza, al termine 
rivoluzione; oggi quasi sempre, come perfettamente osserva 
Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne part; 
quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca».® 


3.2 Gentile e Gramsci 


Alcune premesse sono necessarie. 


In che senso dico — prego intendere quanto scrivo alla 
lettera — che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di 
capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la 
più importante del Novecento, e lo dico senza essere per 
nulla gentiliano? 


In quello che ha portato all'estremo non soltanto, come 
normalmente si dice, l’idealismo o la sua forma 
soggettivistica, © ma /a filosofia del primato del divenire, 
chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si 
trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del 
pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, :/ rapporto 
di necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della 
filosofia del divenire, e la più radicale negazione della 
metafisica. Parlare perciò di una «svolta gentiliana della 


204 


storia della filosofia» significa questo: la sua considerazione 
ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero 
antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni 
per cui non possono venire affermate dopo l’attualismo. 
Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente entro la 
filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa 
concluda in uno scacco, permette anche di definire, 
facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea in 
cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in 
altre parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che 
condiziona, sia che si parli di successo come di scacco. Che 
la mia persuasione sia la seconda, non ha ora importanza. 


La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un lungo 
periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero 
appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime 
opere che, per la loro data (1898 e 1899), possono essere 
considerate come i due ultimi grandi libri di filosofia apparsi 
nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero successivo si 
trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e Gioberti e 
La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la 
sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista 
nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica 
giobertiana resa coerente attraverso lo hegelismo», 
rappresenti il punto ultimo, soltanto ora raggiunto da coloro 
che si definiscono nuovi teologi, del modernismo religioso.* 
Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma 
devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era 
ancora, al tempo in cui ne scrissi (1964), sufficientemente 
chiaro — alla sua definizione come punto ultimo a cui deve 
giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della 
filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo 


205 


rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di 
rispondere. 


Si dirà che, dal 1930 a oggi, la sua fortuna anche qui in 
Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva 
avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente 
declinando rispetto a quella di Heidegger, e che 
l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo, 
di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È 
vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della 
storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche, 
coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma 
con segno rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il 
nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la 
filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile, 
quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia 
di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di 
Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua 
eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che 
possiamo renderci conto della profondità della crisi del 
pensiero teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra 
parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci) nello hegelo- 
marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs. 
Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di 
Heidegger come versione del suo pensiero in forma di 
filosofia speculativa; per sottrarsi deve tornare, come fa 
nell’introduzione alla nuova edizione della sua opera 
principale Storia e coscienza di classe, al materialismo 
dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero 
nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei 
convergenti punti di partenza dell’ attualismo.@ 


206 


liga 


Tratterò in questa occasione della questione seguente: se 
la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo 
dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia 
della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo 
per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione 
dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello 
Spirito», Antonio Gramsci. Uso il termine «filosofia dello 
Spirito», invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo, 
eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle 
negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che 
genericamente viene detta idealistica, e che è la prima 
filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo 
inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir 
caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»: 
contro la metafisica per la negazione dell’intuizione 
intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione 
alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come 
naturalismo. In questo senso generale la «filosofia dello 
Spirito» abbraccia così l’opera di Croce come quella di 
Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo del 
Marx filosofo, Croce e Gentile rifiutano così Platone come 
Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo 
naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo 
assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo 
del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello Spirito» 
non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è 
la riapertura di un problema interno al suo processo di 
costituzione. 


Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere la 


207 


riaffermazione di Marx dopo la «filosofia dello Spirito», 
correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si 
rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di 
vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello 
hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo al massimo rigore 
critico, liberandolo da tutte le incrostazioni positivistico- 
naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o 
neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico, 
dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova 
della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno 
per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei 
termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché 
totale, è possibile? 

È noto come su questo neomarxismo circolino due 
giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa 
che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che 
possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al 
successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo 
sarebbe una sorta di marxismo diminuito, accompagnante il 
processo di dissoluzione della rivoluzione come sua 
involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della 
nuova classe borghese quale che possa essere il successo del 
suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze estreme 
da un comunista non secondo a nessuno per integrità 
morale, Amadeo Bordiga. Entrambe le vedute sono vere; ma 
quel che può sembrare paradossale e curioso (ma si 
dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non 
marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e 
comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il 
mio punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il 
marxismo contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la 


208 


sola forma in cui esso può riaffermarsi dopo la «filosofia 
dello Spirito»; questa posizione non può però venire 
assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica a 
cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel 
«principio speranza»; ma, d’altra parte, è inutile cercare 
dopo Gramsci un «miglior» marxismo, a cui corrisponda 
una più adeguata politica. 

Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo 
antigramsciano. Esse hanno a punto di partenza i giudizi di 
chi prende posto nella storia contemporanea come il più 
intransigente moralista in nome del marxismo letterale e del 
comunismo nella sua versione ideale, Amadeo Bordiga, e 
hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno 
dei migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, 
quello del marxista tedesco eterodosso Christian Riechers.* 
Riechers, che pure non mostra di avere una conoscenza 
approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di 
accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del 
marxismo a quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano 
teorico critica Gramsci per aver sostituito al materialismo 
marxiano un idealismo soggettivo di stampo kantiano- 
fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe 
sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di 
sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra [...] la 
maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio 
fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da 
sostituire l'attributo fascista con quello di democratico, 
socialista o comunista, per scoprire negli scritti di Gramsci 
una posizione analoga alla loro». Tolto il tono polemico, la 
frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di 
Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, 


209 


di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si 
avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo 
stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli 
antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un 
errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno 
studio approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del 
Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge la 
critica anche dell’eterodossia marxista. 


La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi 
la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi 
stupefacente: 

1) Soltanto la discussione del tema Gentile-Gramsci ci 
mette in grado di formulare adeguatamente le categorie 
interpretative della storia contemporanea. 


2) Con la sua discussione giungiamo al momento 
conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione 
transpolitica della storia contemporanea, cioè quella che 
privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il momento 
filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e 
politica come tratto nuovo che la specifica. 


3) Possiamo parlare in questo senso di un «paradigma 
italiano», decisivo per una lettura veramente adeguata di 
detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono trovare 
spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano). 


Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il 
carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di 
essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso 
della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il più 


210 


rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe 
le filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di 
riaffermare il marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione 
rigorosa della questione. 


Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative 
della storia contemporanea, e della possibilità di graduare, 
nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento di 
verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale 
problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia 
contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di 
queste due filosofie della prassi. La rivoluzione 
marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro, l’idea 
di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione 
russa,© in quanto adeguata a Paesi superiori per civiltà e 
cultura, o per essere più esatti, per grado di 
modernizzazione. Non a caso questa idea maturò 
soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di riforma 
dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la 
guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la 
filosofia di Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino 
alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza pure le 
forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo). 
Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi 
propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è più 
marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo 
che la politica che esso promuove prende posto in una 
rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che 
Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente 
lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché il 
modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi 
occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che 


211 


sorge è se, nonostante l'opposizione mortale, non si debba 
vedere una continuità tra il periodo fascista e il postfascista, 
come continuità di un processo di dissoluzione. In termini 
filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo aver 
elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo 
punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di 
processo verso il nichilismo.” 


Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale. Se 
l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della 
filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, 
nel senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha 
trasformato il marxismo in ideologia). Perciò la rivoluzione 
che esso ha promosso ha dato luogo alla forma estrema 
dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico, con 
cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo 
sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la 
forma filosoficamente più rigorosa, non realizza la 
rivoluzione, ma il suo opposto. 


Questo aspetto della storia contemporanea non deve però 
produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si 
osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della 
prassi, come termine ultimo della filosofia del primato del 
divenire, non può esplicarsi che storicamente e 
praticamente. È 


In dipendenza delle considerazioni sinora svolte, la 
trattazione presente deve articolarsi in tre punti: 

1) Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx, 
perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di 
ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa. 
Ossia, egli pensa di aver compreso «il segreto di Croce». 


212 


Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva, 
ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante, 
o anzi, come il «genere» filosofia senz'altro (con la proposta 
della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora come 
l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il 
marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di 
vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo 
emergerebbe nella sua forma più rigorosa. 


In questa asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia 
di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia 
speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la 
filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si 
può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque, 
nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra 
Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx. 


2) Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le 
novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a 
Lenin — novità che nessuno può negare — non possono 
trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o del 
marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma 
gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il 
cedimento rispetto a essa). 

3) Come può dunque Gramsci essersi illuso di aver 
ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal 
marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche 
dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre 
distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana, 
dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne aveva dato e 
dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente anche 
un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta 
quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più 


213 


precisamente nella veduta attualista della storia della 
filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il 
risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al 
rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione 
che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione 
che si rovescia in dissoluzione è: «contestazione». Non è un 
caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo marxista la cui 
fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme 
anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata.® 


Lal 


Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la 
filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò 
non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è 
tutta la trascendenza e la teologia», ha poi storicamente 
torto nell’identificare col marxismo la filosofia della prassi 
che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea 
dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario 
sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione 
quasi sempre sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario- 
marxista era stata accesa in Croce da Labriola, e poi criticata 
senza troppa difficoltà in questa forma labrioliana, e i motivi 
della critica rivoluzionaria si erano rovesciati nella critica 
della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto, con 
Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo 
Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al 
moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un 
purismo etico, giovevole come «un’armatura, onde egli mi 
rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato 
dall’associazionismo, dallo psicologismo e 


214 


dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che stava sempre nel 
fondo di questi tentativi», ma al filosofo che aveva sentito 
l’importanza della distinzione; e affermato una linea che 
porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del 
momento economico alla hegeliana riconciliazione con la 
realtà. Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata, 
ma che la corrispondenza rende chiara — del Gentile de La 
filosofia di Marx è di portarlo al suo pensiero attraverso una 
considerazione del marxismo più profonda di quella di 
Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella di 
Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di 
quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si 
atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle 
esigenze spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da 
spiegare perché questo tentativo doveva andare fallito; 
separando Croce le accettate critica dell’intuito metafisico e 
affermazione del formalismo — che rendono possibile 
anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un tempo 
dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della 
prassi. In quegli anni tra il 1895 e il 1900, Labriola e Gentile 
si contendono Croce, senza riuscire completamente né l’uno 
né l’altro nel loro intento; e senza intendere appieno, né 
l’uno né l’altro, le ragioni della resistenza. 


Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se 
rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce 
e di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua 
ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare 
in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di 
Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa, 
non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile. Avrebbe 
dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto 


215 


non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. 


Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto un 
parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando 
la superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere 
questa ricerca con la dimostrazione che il ripensamento 
italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere con 
la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero 
essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della 
seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non 
è tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama 
marxismo è il risultato coerente della ritraduzione di Croce, 
così coerente da ricostruire dopo il crocianesimo 
l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo 
originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La 
prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana 
dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la 
formulazione nuova che in Gramsci trova il concetto 
marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra cui 
quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo 
marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, # 
inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire 
che l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece 
recepito da Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il 
blocco storico. La quinta è il giudizio sulla funzione capitale 
accordata alla filosofia italiana nel processo di 
modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza da 
Lenin rispetto alla nozione di egemonia. 

Per gli ultimi cinque di questi punti, se ne trova la miglior 
conferma in uno scritto che Norberto Bobbio ha dedicato a 
Gramsci e la concezione della società civile e che è il più 
penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista, 


216 


che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma 
del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo, 
dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la 
scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti la 
domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda 
innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione 
marxista» possa essere considerata uno sviluppo del 
pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della 
critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato 
l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero 
speculativo di Croce. È piccante osservare come le 
precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più 
avverso a Gentile rappresentino le tappe per la 
dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della 
filosofia della prassi marxiana rispetto alla gentiliana. 


Cominciamo con l’osservare come la critica gramsciana 
dello storicismo crociano coincida puntualmente con quella 
svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al 
divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che 
questa sostituzione coincide con quella del divenire reale 
con un divenire dipinto; che la «non definitività» della 
filosofia ricopre di fatto la «definitività» della società 
liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in realtà 
chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per 
usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente 
sostituito all’apologetica «diretta» dell'ordine esistente 
un’apologetica «indiretta». Che lo storicismo di Croce, 
come storicismo separato dalla filosofia della prassi e 
dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo chiuso al 
futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui Gentile 
nel 1942 conclude definitivamente i suoi conti con Croce, 


217 


Storicismo e Storicismo,* riscontriamo una corrispondenza 
perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano come 
appoggiato a «fondamenta semplicemente dipinte», perché 
all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti; 
così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il 
futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque 
possibile futuro, è logicamente un passato rispetto al 
pensiero che lo raffigura nel sistema necessario della logica». 


Passiamo ora all’«innovazione profonda» che Gramsci 
introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in 
questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società 
civile vista come appartenente non al momento della 
struttura, ma a quello della sovrastruttura; cioè per Marx la 
società civile, intesa come «il vero focolare, il teatro di ogni 
storia», comprende secondo la definizione dell’Ideologia 
tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica, «tutto 
il complesso delle relazioni materiali fra gli individui 
all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze 
produttive».& Affermazioni che sono la premessa della 
celebre definizione della Critica dell'economia politica: 
«L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la 
struttura economica della società, ossia la base reale sulla 
quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale 
corrispondono forze determinanti della coscienza sociale». 
Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca 
tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della 
struttura, con la teoria materialistica del «riflesso» (le idee 
come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per 
«società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico- 
culturali della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla 
testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto 


218 


Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia 
economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia 
della filosofia. È quel che attesta il passo gramsciano così 
frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della prassi 
è il coronamento di tutto questo movimento di riforma 
intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura 
popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma 
protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è 
anche una politica e una politica che è anche filosofia».& 
Detto questo, le altre novità gramsciane che Bobbio mette in 
luce con tanta precisione non possono servire ad altro che a 
illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci 
da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua, 
certamente non voluta né consapevole, subordinazione 
all’attualismo. 


Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di 
Gentile da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana 
del 1907 sul concetto di storia della filosofia, in cui la storia, 
in obbedienza, per così dire, al mondo rimesso sulla testa 
nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella storia della 
filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il concetto 
«borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione 
rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base 
della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente 
gramsciano tra la borghesia progressiva e il comunismo, 
quell’incontro così severamente giudicato da Bordiga, ma 
non da Bordiga soltanto. 

La novità rispetto all’idea della società civile è correlativa 
all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure 
Bobbio acutamente avverte, senza però osservare che 
avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava. Per 


219 


Labriola la tesi che «le idee non nascono dal cielo» era 
equivalente alla loro spiegazione a partire dalla struttura 
economica, secondo la notissima sua frase per cui «la 
struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i 
modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli 
uomini (il diritto, la morale, lo Stato), 1 secondo luogo e per 
indiretto gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella 
produzione della religione e della scienza». Le idee non 
nascono dal cielo neanche per Gentile e per Gramsci; ma le 
concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni una 
funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un 
potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era 
appunto il senso del congedo del materialismo marxiano — 
dell’ antDibring in nome dell’elemento più positivo e 
rigorosamente critico delle Tesi — proposto dal Gentile anti- 
Labriola. La concezione gramsciana della società civile porta 
alla critica dell’economismo a cui consegue quella del 
materialismo.* Marxismo dissociato da materialismo e da 
economismo; ma non è una definizione che vale esattamente 
per l’attualismo? Con un paradosso soltanto apparente si 
potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a Croce 
da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato 


Gentile... 


Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di «blocco 
storico», in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti 
gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il «nucleo 
fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi 
pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali 
sono il contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui 
Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che «la 
distinzione di forma e di contenuto è meramente 


220 


didascalica, perché le forze materiali non sarebbero 
concepibili storicamente senza forma e le ideologie 
sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali»; 
così che l’unità-distinzione tra la struttura e la sovrastruttura 
viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.® Frasi di 
cui è inutile sottolineare l'accento attualistico. 


Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul 
primato italiano nella promozione della rivoluzione 
comunista a rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del 
popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo romano 
e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non 
in quella nazionalistica rivolta al passato.® Quanto a dire è 
nella continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia 
dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più alto 
sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla 
sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere 
mondiale della rivoluzione. 


Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi 
al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di 
società civile ha tra l’altro la funzione di permettere, 
attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione in 
linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la 
nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come 
strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva 
parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in 
ciò oltre al marxismo nella direzione volontaristica e 
partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa direzione 
politica alla «direzione culturale». Si potrebbe dire che il 
progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente 
per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può 
trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima alla 


221 


seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto 
che meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione. 
Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo si 
possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la 
riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma 
italiana del pensiero classico tedesco rende anche possibile 
la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti — non 
sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si 
va fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella 
di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che in 
entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto 
problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della 
subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza 
della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere 
che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo. 


Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il 
processo rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione 
sino a che non si fosse elaborata una filosofia rivoluzionaria 
con significato veramente mondiale. 


La priorità della direzione politica poteva cioè portare alla 
formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà 
universale, solo a condizione che fosse subordinata a una 
concezione del mondo, non più usata strumentalmente, ma 
valida perché vera, tale da imporsi agli intellettuali. Ciò 
aveva portato alla delusione degli stessi intellettuali marxisti 
occidentali rispetto al comunismo russo, e alla loro 
solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici 
nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse 
fenomeno russo e non inizio della rivoluzione mondiale.* 
Come reazione di Gramsci a questa impressione deve essere 
inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione del popolo 


222 


italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere 
dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente 
critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr 
ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta 
politica e a cui lavora negli anni del carcere. 


Lal 


Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole, 
alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso 
sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può 
confessare, e che non può confessare perché è insuperabile. 
Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto a 
Gentile ci permette di definire questa insuperabilità. 
Davanti alla «filosofia dello Spirito» italiana non ci sono per 
il marxismo filosofico che due vie: o respingere 
assolutamente tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o 
trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si porti 
l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci 
può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere 
sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere 
sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di 
soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la 
forma più liberale che il marxismo sia suscettibile di 
assumere. Le cose cambiano completamente, come si è 
visto, quando si ponga il problema del rapporto con 
l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile 
perché sia marxismo che attualismo si presentano come 
l’esito della filosofia classica tedesca. Bisognerebbe 
dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove 
ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del 


225 


modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero 
marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso 
sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo, 
nell’«ideologia italiana», eccetera; tutti i discorsi del 
«cattaneismo» oggi corrente. 


A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche 
definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano. 
Ha ragione quando afferma che il neomarxismo di Gramsci 
non è effettivamente più marxismo; non però perché 
contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche 
modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il 
modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si 
deve invece dire che rappresenta esattamente quel che il 
marxismo deve diventare quando vuol prendere posizione 
rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio ancora: 
come già si è visto, l’originalità incontestabile del pensiero 
gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti 
filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a 
Labriola, ha posto il problema dell’autosufficienza del 
marxismo, necessaria perché la rivoluzione non venga 
riassorbita nel «vecchio mondo»; da ciò l’eccezionale 
importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica 
di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del 
nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di 
fatto abbisogna di una diversa giustificazione teorica. 
Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat come 
ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio, 
le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che 
riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo. 
Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che 
possa venir sostituita alla posizione di Gramsci; ed è 


224 


dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel 
senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare 
tutte le forme in cui sinora si è realizzata o si propone. 
Quanto si è detto porta al non piccolo risultato del 
riconoscimento di un’impotenza non superabile. 


La vera formulazione della crisi insuperabile del 
marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto 
nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco- 
fallimento, ma come scacco-occasione di una svolta nella 
storia del pensiero. Ogni altra critica appare esterna rispetto 
a questa: che mostra come, percorrendo lo svolgimento 
dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non si 
possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale 
portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come 
quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del 
marxismo nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione, 
nel senso marxiano del termine, in dissoluzione. Non è 
senza significato che oggi si affacci l’idea che la 
contestazione (definibile appunto come rovesciamento della 
rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera 
selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo 
Gramsci come elaboratore dell’unica strategia capace di 
render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi 
occidentali.® 


Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di 
Gentile e di Gramsci? Analizzare così il particolare fascismo 
di Gentile come il comunismo di Gramsci può portare a una 
visione della storia contemporanea diversa dalle abituali. 
Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una 
certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si 
trattasse di un tema su cui fosse preferibile non insistere. 


225 


Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella 
funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini, 
nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque, 
data la prossimità di posizioni filosofiche, il fascismo di 
Gentile e l’antifascismo di Gramsci? 


Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità 
politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al 
riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la 
risorgimentale” e la rivoluzionaria. La prima si imparenta 
alla sua interpretazione in termini di «filosofia cristiana». La 
grande cesura nella storia sarebbe rappresentata dal 
cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo al 
soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete, 
in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da 
questo e in relazione alla sua critica del materialismo 
marxiano, da lui associato con l’idea rivoluzionaria, Gentile 
può pensare a un Marx oltrepassato in Gioberti, e all’idea di 
rivoluzione oltrepassata in quella di Risorgimento, elevata a 
vera e propria categoria filosofica. Risorgimento che viene 
conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle 
posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti 
al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e 
amoralismo, spirito rivoluzionario, negazione della 
tradizione. Da ciò lo sganciamento totale del Risorgimento 
dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione francese e 
la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di vera 
restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non 
come semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa 
e affinamento di una tradizione, dopo che essa era stata 
messa in crisi, così che potremmo complessivamente dire 
che per Gentile spirito risorgimentale ha il significato di 


226 


riaffermata religione dello Spirito, come spiritualismo 
purificato da ogni traccia di naturalismo e di 
soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo 
per lui, per così dire, una forma di naturalismo iperuranico. 


Se separiamo però l’attualismo dal suo carattere 
«cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo autore 
gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per 
quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia 
(particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione 
pisana del 1914 L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia: 
tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono 
mosse nell'orizzonte di una realtà e di una verità 
presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di un 
processo di erosione della concezione oggettivistica e 
trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»; 
ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso 
immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo 
di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo 
ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse 
questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento 
del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione 
comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o 
evoluzionistiche del marxismo. 


Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da 
Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la 
domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo, 
di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al 
rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di 
dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto per 
indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo 
non può non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: 


227 


l'avventura della «rivoluzione a contatto con l’attualismo» 
può servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a 
sormontare il nichilismo. È qui che si manifesta 
massimamente quell’enorme «potere di negatività», che è il 
proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che 
l’attualismo è oggi «attuale», o torna a esserlo, proprio per 
questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette 
in primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta 
importanza la sua definizione abbia assunto per Gramsci. 
Ora, si consideri: l'influenza gramsciana nell’ultimo quarto 
del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a quella 
della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di intellettuale 
che oggi prevalgono sono quello del «dissacratore» o 
«demistificatore» e quello dell’«esperto» o del «tecnico»; 
quale rapporto hanno con la figura gramsciana 
dell’intellettuale «organico»? Rispondo che sono il frutto 
della sua decomposizione. All’intellettuale era assegnata da 
Gramsci una funzione un po’ simile a quella che Marx 
assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso, 
libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in 
funzionario dell’industria culturale, dipendente da una 
classe di potere che ha bisogno così dell’intellettuale 
dissacratore (quale «custode del nichilismo») come 
dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è 
del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si 
configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte 
l’economismo, l'opposizione diventerà quella tra intellettuali 
tradizionali e intellettuali progressivi. Come storicisti, questi 
non potranno più parlare in nome di un socialismo 
utopistico; neppure però di un socialismo scientifico, dato 
l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico, 


228 


oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome della 
storia come processo di autotrascendimento. 

L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica 
porterà a una sorta di «illuminismo dopo il marxismo», 
dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la 
conseguenza che l’intellettuale progressivo prenderà la 
figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore dei 
valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione 
per erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra 
di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica 
rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una 
dissoluzione «entro l'ordine dato», che viene privato dei 
valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la via a 
una loro riaffermazione purificata. 


Gramsci, naturalmente, non ha il minimo sospetto di 
questo possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che 
avrebbe detestato gli intellettuali profittatori dei connubi tra 
marxismo, psicanalisi di sinistra e decadentismo sadico. Ci si 
può render conto di questa assenza di previsione, se si pensa 
alle circostanze politiche che furono l’occasione della sua 
riflessione filosofica. Nel Gramsci ordinovista c’è la 
persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la 
rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto 
attuarsi in Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto 
imprevisto del fascismo che attrae a sé il consenso della 
maggior parte di questa cultura; in diversi gradi, ma 
praticamente è sufficiente il giudizio della sua minore 
pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo. Per 
il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare 
all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso 
l’unica via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo 


229 


coerente del suo motivo più originale deve portarla 
all'incontro col marxismo autentico, o, per dir meglio, alla 
sua scoperta. Ugo Spirito ha detto che Gentile è stato il 
creatore del fascismo: si tratta di una frase forse un po’ a 
punta, ma che è vera, quando venga bene intesa; senza la 
cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender 
forma. Ebbene, si deve dire che Gramsci fu il creatore 
dell’antifascismo, quando lo si distingua dall’opposizione 
mossa in nome del prefascismo (quella di Croce, per 
esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del 
fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi 
naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo 
non sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che 
come fenomeno dissolutivo. Per esprimere tutto in una 
rapida formula, direi che, visti nella loro radice filosofica, 
fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui quella 
filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel «farsi 
mondo». 


Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo necessario 
che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della 
rivoluzione totale. Il pensiero di Gramsci, in quanto vuole 
assegnare al termine «materialismo» un significato soltanto 
metaforico (al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la 
completa riprova: la funzione primaria data agli intellettuali 
come all'elemento attivo e unificante e al partito «moderno 
Principe» come intellettuale collettivo porta in realtà alla 
captazione borghese-illuministico-modernista. 

Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli 
intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle 
verità eterne, svolgenti perciò una critica che include quella 
dell'aspetto escatologico del marxismo. Il momento 


230 


negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal 
positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, 
dei valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione 
dissolutiva che non distrugge le classi, ma porta al dominio 
di una nuova classe, che tratta ogni idea come strumento di 
potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro, più 
razionalmente organizzato, del dominio di classe. 


Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta 
attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte 
negli ultimi anni, così su Gramsci come su Gentile. Così, è 
stato giustamente osservato da Riechers come il socialismo si 
riduca fondamentalmente per Gramsci a un modo di 
produzione capitalistica separato dalla figura 
dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è 
controllato dagli «intellettuali organici» (la «nuova classe»); 
e che per lui sembra esistere un’economia indifferente alle 
classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova impedito 
da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione è 
«scissione completa col vecchio mondo», e tutto il suo 
lavoro è svolto a definire l’idea, in questo significato 
scissionistico; di fatto, questa purificata idea rivoluzionaria è 
destinata a rovesciarsi nel senso che si è detto. 


[sal 


Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici 
opposti di Gentile e di Gramsci si conclude la polemica tra 
Mazzini e Marx. Si conclude però nel modo più singolare, 
estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come 
per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia 
della prassi, rivoluzione totale e materialismo; 


231 


l’approfondimento gentiliano della filosofia della prassi 
porta alla cancellazione del materialismo; Gramsci tenta 
vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale 
dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. 


Croce pensava che nelle discussioni italiane del 1895- 
1900 il marxismo teorico avesse subito la sua critica 
decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero 
italiano di portarsi al livello più alto del pensiero mondiale. 
È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere; a 
parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano 
potuto averne, il protagonista della grande e insolubile crisi 
del marxismo teorico è Gentile. E la crisi avviene 
effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile 
tra l’opera rigorosamente teorica di Gramsci e quella di 
Bordiga, che è costretta al marxismo letterale, e non può 
raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché 
non ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò 
sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo di 
Gramsci. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica, 
all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea 
marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si esprime 
nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di 
Gramsci ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva 
che ho enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo, 
secondo cui il razionalismo, inteso come negazione senza 
prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della 
rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In 
ciò il senso della «svolta decisiva» che la filosofia di Gentile 
rappresenta. 

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