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Friday, June 7, 2024

GRICE E NOCE

 Non si può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di   proporre ipotesi interpretative del pensiero contemporaneo  anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e con  gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante.  Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del  giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto  ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale  con i suoi interlocutori.    Nel caso dell’interpretazione del fascismo Del Noce  esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta  (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già  la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente  argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in  questo caso, come in quello del marxismo, Del Noce  procede da una considerazione attenta del fascismo che ne  faccia emergere le specificità culturali, lo renda  identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze  più o meno evidenti.   Quest'opera di studio e di approfondimento dei  contenuti del fascismo è già un aspetto rilevante  dell’interpretazione, dal momento che, ancora oggi — ma  assai più negli anni Sessanta e Settanta — il fascismo è stato    171    rappresentato da una parte come una sorta di barbarie  irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della coalizione di  tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di interessi  particolari. In questa prospettiva il fascismo viene  identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo,  caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso  di negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica.  Da ultimo, trasformato in una sorta di essenza, il fascismo  diviene la categoria alla quale ricondurre tutti gli aspetti  legati alla tradizione, alla metafisica, al tema dell’autorità  ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la  tradizione senza essere nel contempo, almeno  incoattivamente, fascisti e repressivi.    AI contrario, per Del Noce il fascismo è un momento di  quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli  precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e  che può essere designato più opportunamente come  secolarizzazione, per intendere quel tentativo di creare una  società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio. Il  fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in  quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha  inizio con il marxismo.    È questo il punto più incandescente dell’analisi di Del  Noce: il fascismo si presenta come un tentativo  rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo  viene corretto per essere inverato, cioè per essere  effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo e  fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso  del razionalismo che porta a una progressiva  secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad  assumere il ruolo sociale occupato precedentemente dalla    L72    religione. In questo quadro, secondo Del Noce, la  rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si  fonda, come si è visto, sul materialismo e sulla sua opera  decostruttiva; oppure quella attualista, che è una  interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di  vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche  di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il  materialismo marxista.”    La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò in  Giovanni Gentile una figura centrale, attraverso la quale Del  Noce mette in evidenza il nesso storico e teorico tra  idealismo e fascismo. Per comprendere questo nesso, però,  occorre che venga pienamente riconosciuta la complessità e  profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato a  personaggio di propaganda e di apparato. Del Noce non  solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero  italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale,  quella del tentato inveramento del marxismo: perciò in esso  egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso  razionalistico del pensiero che così fortemente ha  determinato le sorti dell’epoca contemporanea.    Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e  connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò  dal quel presupposto naturalismo e materialismo che  rappresentavano ai suoi occhi un limite nella comprensione  del vero spirito idealistico. È in questa temperie culturale  che avviene l’incontro con Mussolini.   Del Noce è certo attento nel precisare che i fenomeni  storici si verificano per una complessa serie di fattori che  non possono essere ridotti a uno schema concettuale.  Tuttavia quando nelle sue analisi parla di «incontro»    175    intende evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi  biografici e storici, ma anche il congiungersi, si potrebbe  dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e  necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel  caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime Del  Noce parla, per esempio, di armonia prestabilita, quasi a  evidenziare una sorta di attrazione fatale che ha  compenetrato traiettorie di pensiero che avevano origini  distinte.    Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso una  revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo  riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più  sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene  perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello  spirito rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la  tradizione risorgimentale italiana. All’interno di questa  struttura significativa, certamente gioca poi un ruolo  determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro  molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è  tuttavia perfetta espressione  esistenziale-politica di  quell’ansia rivoluzionaria che si traduce in attivismo come  pura affermazione di potenza e in solipsismo, inteso come  soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la realtà esterna  in sé sussistente se non in funzione del proprio processo di  autoaffermazione.    Si comprende dunque perché Del Noce abbia parlato  spesso di fascismo come errore della cultura e non errore  contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante  nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come  fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della  società italiana succube di forze oscurantiste, ma segna un    174    passo decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che  contraddistingue l'evoluzione ultima del razionalismo  moderno e che, secondo Del Noce, ha il suo inizio con  l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più  coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia  secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra  l’altro, si comprende perché sia senz’altro errato  interpretare il fascismo come fenomeno reazionario e  conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione  dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il  quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri  strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che  sarà perciò inevitabilmente violenta e inesorabile.    Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi il  fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del  marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria  capace di realizzare effettivamente una nuova società: è  Antonio Gramsci. Anche in questo caso Del Noce dimostra  un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel  presentare le sue ipotesi. Egli infatti, proprio sul finire degli  anni Settanta, mette a punto una serie di studi che  confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della  rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che,  nel tentativo di riformare il marxismo, incontra in realtà  l’attualismo e trasforma l'ideale rivoluzionario marxista in  una filosofia della prassi perfettamente funzionale e coerente  con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò, identificato  in quegli anni come il vero punto di riferimento  dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi  del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da Del  Noce come un autore gentiliano. Che cosa è infatti la    175    revisione gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo  materialismo e del suo economicismo, per fondare una  filosofia della prassi che porti a realizzare la rivoluzione  prospettata dal marxismo a partire da una lotta per  l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali  militanti? Secondo Del Noce non è più marxismo, ma  filosofia della prassi con tutti i caratteri dell’attualismo.    In che senso allora Del Noce parla di suicidio della  rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire  il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della  prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a  ideologia strumentale per l’affermazione del potere,  svincolandolo da qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero  senza verità, pura affermazione di potenza, e perciò  nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario  che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il  costituirsi del predominio sociale di una classe borghese  cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il  paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e  del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto,  nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era proposto.    Il primo testo del capitolo è una conferenza del 1969  confluita in L’epoca della secolarizzazione, che propone una  definizione storica generale del fascismo e consente uno  sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di Del Noce  delle figure di Gentile e di Mussolini.    Il secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della  rivoluzione, che imposta l’assunto fondamentale del libro,  soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica tra Gentile e    176    Gramsci.    AM.    3.1 Appunti per una definizione storica del fascismo    Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di  illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è  un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su  una zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra  le due guerre. * Ora, l'attitudine contraddittoria a cui ha  dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di  millenarismo negativistico, porta al problema della sua  revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di  mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si  tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state  coinvolte nella sua catastrofe.    È del 1963 il primo libro che abbia tentato un’esaustiva  comprensione storico-filosofica del fascismo come  «fenomeno epocale», quello di Ernst’ Nolte?  Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione  rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella  secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti  sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo  aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il  fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza  contro la trascendenza», termine con cui intende non la  trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare  «trascendenza orizzontale»,  trascendimento storico,  insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue    177    forme, è il nemico, deve essere «individuato» nella «libertà  verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale  nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si  conosce e si ama». Sul piano più strettamente politico  questa «resistenza contro la trascendenza» si affermerà  come lotta sino alla morte contro i movimenti che la  rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là  dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si  dovrebbe perciò parlare di un’essenza comune che si  sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a  seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche,  culturali. Le principali di queste forme costituirebbero  altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea unitaria di  sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato  dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo  dal nazismo. Come è facile osservare, una tale  interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo  cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti  dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo  assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni  atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più  inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una  possibilità fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è  che questo giudizio non condiziona la ricerca, come  presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato  di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua  importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio  corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.    Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di  un’«epoca del fascismo»? Da questo: è esistito un periodo in  cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stesse    178    delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica;  isolazionismo americano, socialismo in un solo Paese per cui  la Russia «ridivenne una terra incognita ai limiti del  mondo») l'Europa, pur dopo quell’anno 1917, in cui la  prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto  di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se stessa  come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli  avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare  un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche,  sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli  avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo,  ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle  guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta  il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto, e di  non presentarsi al pari della parola tedesca  “nazionalsocialismo” con una pretesa contenutistica non  però giustificata».4    Col dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non  pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi,  di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da  rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di  brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata  affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del  massimo suo potere, 1930-1935. Ma, su questo punto,  avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto  accento valutativo. Così Thomas Mann nel 1938 aveva  definito il fascismo come «una malattia del nostro tempo,  che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può  dirsi immune». Così, nella nota opera La distruzione della  ragione Lukacs ha indicato «nello sviluppo spirituale e  politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente    179    di un processo internazionale che si svolge nell’ambito del  mondo capitalistico» È    Bastano già queste citazioni per vedere il posto che  l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.  Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso «liberale»,  della «malattia morale» e dopo quella marxista. Luk4cs  aveva parlato di una linea unitaria di processo verso  l’irrazionalismo «da Schelling a Hitler», includendovi tutti i  pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel.  Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità,  Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il  prefascismo di Max Weber, e naturalmente il dissenso su  questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che  riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho  verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito  come un rifacimento per l'Europa intera di quello che  Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato  però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di    Weber.    Ora, nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo  libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una  definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando  però a prospettive diverse. Nel 1964, infatti, nel mio libro I/  problema dell’ateismo, definii la peculiarità della storia  contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio  punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era  semplice: se si riconosce un carattere  genuinamente  filosofico all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la  sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una  filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella  realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica)    180    opposta a quella di un mondo che diventa filosofia  nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può  essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista,  essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia  precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi. Non  soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo;   una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è  per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione  efficace a trasformare la società e il mondo; e per  riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi  parve di doverla definire come l’età dell’espansione  dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa,  parlare di «epoca della secolarizzazione», servendomi di un  termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e    dr O    ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta;  ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa  età vuol essere — processo verso una situazione in cui si  possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e  siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest'epoca,  prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della  mia preferenza.    Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir  definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può  essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una  rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra  possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente  europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà  invece parlare del «momento fascista» dell’epoca della  secolarizzazione.    Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti  come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi    181    possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in  relazione al fenomeno delle religioni secolari, che  accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo  profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria  delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte  di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al  periodo «sacrale»; fenomeno nuovo che caratterizza in  maniera precipua il periodo «profano» è la società opulenta.    Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire  che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione  dell’Action francaise rispetto al radicalismo e quella del  nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare che la  simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è  infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo  la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che  nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi  sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando  deve trattare del termine medio tra Action francaise e  nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel  considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i  tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose  affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel  momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel  momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare nel  momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è  almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di  fascismo?   Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si  possano sussumere sotto il comune concetto di  controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la  trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e    182    nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti  all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come il  fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una  stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda  delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si  era realizzata, o se invece l’attenzione debba  prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette  in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità  interpretative: 1) Si devono distinguere qualitativamente i  movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo,  riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi  fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di  nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si  vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di  affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al  fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre  altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante  dei regimi autoritari.   La distinzione così di fascismo come di nazismo dal  nazionalismo propriamente detto può essere stabilita  facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un  tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità,  quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a  valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli  soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si  può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta  idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la  nazione non più come un'eredità di valori, ma come un  divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia  non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione  continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò    183    che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione  su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels, che  riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il  primo movimento che avesse combattuto marxismo e  comunismo da un punto di vista non reazionario; * sta in ciò  la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler  mantenne sempre per Mussolini.    Assai più che i tratti comuni importano però le differenze.  In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere  storicamente definito come la piena realizzazione e il  completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha  accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e  dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx  (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito  rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di  Mussolini è il miglior documento per lo studio dell’idea di  rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e  connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa  nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di  De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che  avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma.    Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi  sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata  l’attenzione: 1) che fu fondato da colui che giustamente può  essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra  mondiale, del comunismo europeo; 2) che l’ascesa di  Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della  cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso  con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è  una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e  dell’altra; 3) che questa cultura idealistica italiana prende    184    inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico,  1895-1900, che segnò l’europeizzarsi della cultura italiana.  Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della  «misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava  alla figura di Lenin», punto ben visto da Nolte, ma non  sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza  viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella  distinzione tra «il vivo e il morto in Marx» che la cultura  idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di  fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità  inscindibile tra materialismo radicale e azione  rivoluzionaria, rifiutato.    La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte:  «Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi  da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del  partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il  primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista  europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei  la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del  bolscevismo russo, formatosi, tanto nel 1902 quanto nel  1914, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni  caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del  comunismo italiano postbellico... egli fu anche il promotore  dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta  intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della  vittoria fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è  tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è  che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale  volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la  teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto  analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del    185    “decorso spontaneo”».2 Dove è giusto parlare di analogia,  non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di Mussolini  non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del materialismo  marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del  materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista.    Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa  l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più  rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella  liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato  dal momento materialistico e dall’utopistico?    L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è  stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi  della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo  punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai  chiara. Sotto un primo riguardo il momento materialistico  significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere;  sotto il secondo assai più importante — che implica la  conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero  utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla  finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta  all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica  nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto  il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva umana,  pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la  sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale  materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo.*  Separato dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si  converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si  suol dire con un termine diventato logoro perché sciupato  nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»; tensione  verso un’azione che è voluta per sé, come semplice    186    trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine,  con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di  dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come  strumenti che possono promuoverla. Ma non basta: la logica  che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della  personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il  conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti  cessano di essere fini in se stessi per diventare puri  strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra  cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del  disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di  eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece,  dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli  altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso  parlare di doveri morali nei loro riguardi.    Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di  solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che  l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di  solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica,  il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La  totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a  togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra  che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che  proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà  discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini  non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta  sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e  invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria,  perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini  abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di  comunista.    187    A me pare che partendo da una fenomenologia  dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti  contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha  giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini.!    Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di  personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se  medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore  di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un  significato morale, un valore che non fosse provvisorio,  strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal personalismo.  Bene Cantimori lo ha delineato, nel 1935: «Questo senso  della potenza, questa volontà di predominio che lo fa  identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo  fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della  lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà,  consapevolezza e affermazione della propria individualità...  e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente  presente, cosciente della propria volontà e della propria  individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea  con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale  consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in  dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza  ottenute». Per sé, l’identificazione con la causa del proprio  popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae  la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di  predominio, in un protagonismo politico che è  consapevolezza e affermazione della propria personalità; che  altro può significare questo se non un’identificazione che si  opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una  specie di assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di  qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della    188    vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui:  l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale  energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il  male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è  da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di  Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si  potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella  disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza  di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di  autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel  disconoscimento della personalità morale degli altri. Qui è  anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il  liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona.    Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva  insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza  della finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una  disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo,  ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore  che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra  contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che  come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva  esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa  azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà  dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c'era una  realtà storica nuova, il Regno d’Italia, fondato nel 1861, e fu  Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo  rapporto, veramente l’antiCavour.   Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui  Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non già  perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo  concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione    189    proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a  trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli  altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche la  continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui  si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze  con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di  contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si  davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto  che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si  accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo  margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica  delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo  soffocava progressivamente, e lo riduceva a un piccolo  Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i  muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di  spire che lentamente lo avrebbero soffocato».®    Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua  incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il  ricorso al pessimismo di Machiavelli per sentire questa  solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio al  Machiavelli, del 1924, è tra le pagine che meglio illuminano  la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come  potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di  parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e  l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e  di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della  Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che  determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella  tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi  interventi.”    Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e    190    di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi  uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro  volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo  essere le coscienze più diritte.    Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre  un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in  Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con  l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei  tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la  psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà  dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria,  pensata come contraddittoria col materialismo; dalla  irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione  rivoluzionaria.    È a questo punto che deve esser posto il problema del  rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però  guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della  cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e  ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in  quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice  demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non  comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare  dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento,  a seconda della possibilità di successo; di cui poi è  specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto  al socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non  poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò  contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche,  e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in  relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto  questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto    IS    incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e  quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero.    Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del  socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava;  del marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine  Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai  rivoluzionari. * Perciò «anch’egli fu detto e si disse  volentieri “idealista”» perché «aperto come giovane che era  alle correnti contemporanee, procurò a infondere al  socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della  violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il  misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni  era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo». È  il noto giudizio di Croce, * non inesatto, ma tuttavia  generico, e che per questa genericità rischia di sviare.  Maggior significato si deve dare alla rievocazione,  singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustrò  nell'ottobre 1939 a De Begnac il processo che l’aveva  portato più di vent'anni prima alla fondazione dei Fasci di  combattimento: «Le guide spirituali erano rimaste indietro  di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della  lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una  sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un  libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma  pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il  suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad  un qualche interesse alla vita. De Viti, De Marco, Einaudi,  Ricci e, soprattutto, Pantaleoni e Pareto. Sorel sembrava  appartenere ad altra età, ormai. Gentile preparava la strada  a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa».®    Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è    22    difficile pensare che nei primi mesi del 1919 Mussolini abbia  guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo  Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico.  Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come  indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di  Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini «fascista»  succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti  della disputa italiana sul marxismo teorico, Croce e Sorel,  non gli parlavano più; mentre invece la sua veduta sul  momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la  veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può  separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua  volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con  la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir  largamente accettata) deve venire storicamente vista come  l’epilogo più rigoroso di quella disputa.   Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso  dell'incontro di Gentile e Mussolini. Presenta certo degli  aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il  Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per  il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di  un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che  possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel,  Pareto, Le Bon.    Genericamente possiamo dire che fu un incontro per  negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era  travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per  l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a  modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel  riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le  stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo. Mentre il    193    fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno  di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò  al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata  dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e  la conclusione inesatta.    Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come  Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è  strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel  primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla  filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx, 1899) non  è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può  infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato  dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo  definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo.    È una posizione che deve venir vista come unica, perché  non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di  ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che  aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra  storica), e meno che mai, si intende, a quella  dell’intransigentismo diciannovista. Fu egli l’unico a vedere  in Mussolini non già una forza atta a servire o per il  consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito  a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di  compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che  pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini del novembre  1943, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, «O  l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli»,  debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma  ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto  indicava che il fascismo stava per concludersi in una  catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza    194    intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar fedele  nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento  della fortuna.    Per intendere la natura del suo consenso converrà  prender le mosse dallo scritto dell’agosto 1927 su Origini e  dottrina del fascismo. La data è molto importante. Esso  appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con  il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si  era messo all'opposizione, ma dopo che aveva ragionato i  motivi di questa nella Storsa d’Italia dal 1871 al 1915, dello  stesso anno.    Il primo paragrafo si intitola «Le due anime del popolo  italiano prima della guerra» e contiene un’interpretazione  estremamente significativa dell’interventismo e della  partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla  vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde  perché «c'erano nell’anima italiana due correnti affatto  diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da  quasi due decenni e si contrastavano il campo  accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che  richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale  col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare  del vinto, quel che è conservabile». La partecipazione  italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente  come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte  risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale:  «...entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione,  dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la  Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e  militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero  potuto arrecare... In guerra bisognava entrare per    195    cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi  più per fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la  Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i  cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa  passione, una comune speranza... Cementarla, questa  Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di  muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed  entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con  una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua  originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e  al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla  dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile  che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il  sacrifizio». Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione  democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la  libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme  del saggio è estremamente interessante per far cogliere la  rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo  fascista; insomma, tra il fascismo e quello che  successivamente prenderà nuova forma come Partito  d’azione.    Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti  stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione  morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla  bilancia». La prima parte era per Gentile quella dell’Italia  giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto  nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il  suo incontro con Mussolini: «Mazziniano (quest’ultimo) di  quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua  Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per  riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa,    196    ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più  recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista».    Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla  separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per  il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la  volontà e la personalità dell'individuo, perché concepita  come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla  coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino  a farla esistere, a crearla. [...] L'individuo nel nazionalismo  diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo  antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o  condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve  vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e  l'individuo si immedesimano, o meglio sono termini  inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che  caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal  nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da  cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori.    Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce  nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori,  nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene  da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo  essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo  di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per  Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato  ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista,  che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo  gli autori».   Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un  puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del  Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta    24    con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi  scritti, espressa già nella prefazione a Rosmini e Gioberti  (1898); e Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx sono due  libri inseparabili. *   Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo  in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma  della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato,  ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non già  rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma  attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è  più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di  riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente  inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica,  continuazione in certo senso di quella riforma cattolica  giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del  modernismo; né ha senso per lui come puro sistema  speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è  l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea  che va da Bruno a Gioberti, né del resto egli presentò la sua  filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir  detto l’ultimo dei risorgimentali.    Gentile aveva curiosamente ritrovato la figura del filosofo  politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e  Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può  essere espresso nella formula che segue: il marxismo  separato dal materialismo e il giobertismo separato dal  platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da ciò  era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si  ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione  e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però,  per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva    198    affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si  stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si  può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese  come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al  Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal  mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità  di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni  che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo  stesso nazionalismo.    Procedendo per accenni, è importante osservare quale  scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra  mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare  il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in  cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe  allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando  la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione,  onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la  marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e  Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi  di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di una  politica religiosa.    Possiamo così renderci conto della necessità  dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come  egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato  il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per  Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del  marxismo.”   Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non  moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle  illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba esser  posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso    199    di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se  portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il  maggior filosofo italiano del tempo.    D'altra parte non può non essere senza significato il fatto  che le stesse critiche fondamentali mosse contro  l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come  criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo.    Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che  Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini  si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato  ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può  pensare che egli non abbia troppo gradito di venir  considerato come lo strumento di una riforma religioso-  politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i  termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie.  Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da  parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del  Fascismo; così mi è sembrato molto significativo  quell’accenno nella conversazione con De Begnac, avvenuta  in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge.  Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.    Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il  fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione  rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare  dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo  teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento  e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione  filosofica. Naturalmente, questa definizione non concerne  che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la  sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si    200    sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra  mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la  trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito  della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso,  ecc.    Come si inserisce in quella che prima si è chiamata  l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve  essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si  badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il  richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar  confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine  alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi:  quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in  una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura  superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se  Mussolini poté pensare, intorno al 1930, a una prossima  fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo  secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la  differenza tra fascismo e nazismo. Intorno al 1920, due  uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la  vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve  riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente  sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua  giustificazione storica, nel senso di condizione della sua  possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto  realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto  arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare però  che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a  dire che debba esser considerato come fenomeno  reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini  avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi,    201    servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria.  Ma la considerazione dell’esito non può servire come  criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice  che il comunismo è fallito perché ha portato a una « nuova  classe», più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente  dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione  reazionaria.    Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il  giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali  tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio,  il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel  che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo  propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori  religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme  antiprotestante e in posizione eretica rispetto al  cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile,  al tentativo di inveramento idealistico del marxismo.    AI solito, si risponderà che nessuno pretende realmente  affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo  degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che  nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione  di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non  che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello,  non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la sua  caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del  nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è  sempre considerato come un fascista più o meno  consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo» è fatto  sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a  simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono  ben certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto    202    che la formula di «resistenza contro la trascendenza»  facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di  repressività». Per il significato di quanto ho detto, valga un  esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia  trovato un sostegno valido in quella parte del mondo  cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si  può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei suoi  componenti; obbedienti a quella visione cattolica  dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna  globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò  la critica del modernismo, e che effettivamente era  prevalente tra il 1920 e il 1930 (come dimenticare che diede  anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo  combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il  socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,  lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se  questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per  costoro, di un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo  caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché  una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la  loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile:  quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che  abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega  come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del  nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su  di lu (anche Salvemini e Gramsci, al tempo  dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece  l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può  essere considerato come il più coerente dei modernisti (in  polemica con altri modernisti per questa sua coerenza)? sia  stata intellettualmente obbligata.    203    È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come  interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di  qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da  illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E  proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come  abitudine mentale, che il presente discorso è diretto.    Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia  sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è  intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa  conferisce un significato magico, di parola-forza, al termine  rivoluzione; oggi quasi sempre, come perfettamente osserva  Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne part;  quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca».®    3.2 Gentile e Gramsci    Alcune premesse sono necessarie.    In che senso dico — prego intendere quanto scrivo alla  lettera — che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di  capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la  più importante del Novecento, e lo dico senza essere per  nulla gentiliano?    In quello che ha portato all'estremo non soltanto, come  normalmente si dice, l’idealismo o la sua forma  soggettivistica, © ma /a filosofia del primato del divenire,  chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si  trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del  pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, :/ rapporto  di necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della  filosofia del divenire, e la più radicale negazione della  metafisica. Parlare perciò di una «svolta gentiliana della    204    storia della filosofia» significa questo: la sua considerazione  ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero  antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni  per cui non possono venire affermate dopo l’attualismo.  Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente entro la  filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa  concluda in uno scacco, permette anche di definire,  facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea in  cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in  altre parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che  condiziona, sia che si parli di successo come di scacco. Che  la mia persuasione sia la seconda, non ha ora importanza.    La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un lungo  periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero  appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime  opere che, per la loro data (1898 e 1899), possono essere  considerate come i due ultimi grandi libri di filosofia apparsi  nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero successivo si  trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e Gioberti e  La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la  sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista  nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica  giobertiana resa coerente attraverso lo hegelismo»,  rappresenti il punto ultimo, soltanto ora raggiunto da coloro  che si definiscono nuovi teologi, del modernismo religioso.*  Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma  devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era  ancora, al tempo in cui ne scrissi (1964), sufficientemente  chiaro — alla sua definizione come punto ultimo a cui deve  giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della  filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo    205    rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di  rispondere.    Si dirà che, dal 1930 a oggi, la sua fortuna anche qui in  Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva  avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente  declinando rispetto a quella di Heidegger, e che  l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo,  di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È  vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della  storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche,  coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma  con segno rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il  nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la  filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile,  quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia  di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di  Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua  eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che  possiamo renderci conto della profondità della crisi del  pensiero teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra  parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci) nello hegelo-  marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.  Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di  Heidegger come versione del suo pensiero in forma di  filosofia speculativa; per sottrarsi deve tornare, come fa  nell’introduzione alla nuova edizione della sua opera  principale Storia e coscienza di classe, al materialismo  dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero  nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei  convergenti punti di partenza dell’ attualismo.@    206    liga    Tratterò in questa occasione della questione seguente: se  la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo  dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia  della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo  per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione  dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello  Spirito», Antonio Gramsci. Uso il termine «filosofia dello  Spirito», invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo,  eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle  negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che  genericamente viene detta idealistica, e che è la prima  filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo  inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir  caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»:  contro la metafisica per la negazione dell’intuizione  intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione  alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come  naturalismo. In questo senso generale la «filosofia dello  Spirito» abbraccia così l’opera di Croce come quella di  Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo del  Marx filosofo, Croce e Gentile rifiutano così Platone come  Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo  naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo  assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo  del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello Spirito»  non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è  la riapertura di un problema interno al suo processo di  costituzione.    Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere la    207    riaffermazione di Marx dopo la «filosofia dello Spirito»,  correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si  rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di  vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello  hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo al massimo rigore  critico, liberandolo da tutte le incrostazioni positivistico-  naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o  neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico,  dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova  della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno  per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei  termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché  totale, è possibile?   È noto come su questo neomarxismo circolino due  giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa  che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che  possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al  successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo  sarebbe una sorta di marxismo diminuito, accompagnante il  processo di dissoluzione della rivoluzione come sua  involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della  nuova classe borghese quale che possa essere il successo del  suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze estreme  da un comunista non secondo a nessuno per integrità  morale, Amadeo Bordiga. Entrambe le vedute sono vere; ma  quel che può sembrare paradossale e curioso (ma si  dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non  marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e  comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il  mio punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il  marxismo contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la    208    sola forma in cui esso può riaffermarsi dopo la «filosofia  dello Spirito»; questa posizione non può però venire  assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica a  cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel  «principio speranza»; ma, d’altra parte, è inutile cercare  dopo Gramsci un «miglior» marxismo, a cui corrisponda  una più adeguata politica.   Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo  antigramsciano. Esse hanno a punto di partenza i giudizi di  chi prende posto nella storia contemporanea come il più  intransigente moralista in nome del marxismo letterale e del  comunismo nella sua versione ideale, Amadeo Bordiga, e  hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno  dei migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti,  quello del marxista tedesco eterodosso Christian Riechers.*  Riechers, che pure non mostra di avere una conoscenza  approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di  accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del  marxismo a quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano  teorico critica Gramsci per aver sostituito al materialismo  marxiano un idealismo soggettivo di stampo kantiano-  fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe  sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di  sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra [...] la  maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio  fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da  sostituire l'attributo fascista con quello di democratico,  socialista o comunista, per scoprire negli scritti di Gramsci  una posizione analoga alla loro». Tolto il tono polemico, la  frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di  Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo,    209    di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si  avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo  stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli  antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un  errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno  studio approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del  Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge la  critica anche dell’eterodossia marxista.    La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi  la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi  stupefacente:   1) Soltanto la discussione del tema Gentile-Gramsci ci  mette in grado di formulare adeguatamente le categorie  interpretative della storia contemporanea.    2) Con la sua discussione giungiamo al momento  conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione  transpolitica della storia contemporanea, cioè quella che  privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il momento  filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e  politica come tratto nuovo che la specifica.    3) Possiamo parlare in questo senso di un «paradigma  italiano», decisivo per una lettura veramente adeguata di  detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono trovare  spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano).    Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il  carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di  essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso  della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il più    210    rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe  le filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di  riaffermare il marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione  rigorosa della questione.    Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative  della storia contemporanea, e della possibilità di graduare,  nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento di  verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale  problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia  contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di  queste due filosofie della prassi. La rivoluzione  marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro, l’idea  di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione  russa,© in quanto adeguata a Paesi superiori per civiltà e  cultura, o per essere più esatti, per grado di  modernizzazione. Non a caso questa idea maturò  soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di riforma  dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la  guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la  filosofia di Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino  alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza pure le  forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo).  Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi  propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è più  marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo  che la politica che esso promuove prende posto in una  rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che  Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente  lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché il  modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi  occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che    211    sorge è se, nonostante l'opposizione mortale, non si debba  vedere una continuità tra il periodo fascista e il postfascista,  come continuità di un processo di dissoluzione. In termini  filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo aver  elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo  punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di  processo verso il nichilismo.”    Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale. Se  l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della  filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia,  nel senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha  trasformato il marxismo in ideologia). Perciò la rivoluzione  che esso ha promosso ha dato luogo alla forma estrema  dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico, con  cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo  sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la  forma filosoficamente più rigorosa, non realizza la  rivoluzione, ma il suo opposto.    Questo aspetto della storia contemporanea non deve però  produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si  osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della  prassi, come termine ultimo della filosofia del primato del  divenire, non può esplicarsi che storicamente e  praticamente. È    In dipendenza delle considerazioni sinora svolte, la  trattazione presente deve articolarsi in tre punti:   1) Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx,  perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di  ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa.  Ossia, egli pensa di aver compreso «il segreto di Croce».    212    Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva,  ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante,  o anzi, come il «genere» filosofia senz'altro (con la proposta  della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora come  l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il  marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di  vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo  emergerebbe nella sua forma più rigorosa.    In questa asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia  di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia  speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la  filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si  può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque,  nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra  Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx.    2) Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le  novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a  Lenin — novità che nessuno può negare — non possono  trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o del  marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma  gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il  cedimento rispetto a essa).   3) Come può dunque Gramsci essersi illuso di aver  ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal  marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche  dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre  distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana,  dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne aveva dato e  dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente anche  un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta  quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più    213    precisamente nella veduta attualista della storia della  filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il  risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al  rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione è: «contestazione». Non è un  caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo marxista la cui  fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme  anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata.®    Lal    Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la  filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò  non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è  tutta la trascendenza e la teologia», ha poi storicamente  torto nell’identificare col marxismo la filosofia della prassi  che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea  dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario  sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione  quasi sempre sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario-  marxista era stata accesa in Croce da Labriola, e poi criticata  senza troppa difficoltà in questa forma labrioliana, e i motivi  della critica rivoluzionaria si erano rovesciati nella critica  della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto, con  Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo  Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al  moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un  purismo etico, giovevole come «un’armatura, onde egli mi  rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato  dall’associazionismo, dallo psicologismo e    214    dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che stava sempre nel  fondo di questi tentativi», ma al filosofo che aveva sentito  l’importanza della distinzione; e affermato una linea che  porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del  momento economico alla hegeliana riconciliazione con la  realtà. Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata,  ma che la corrispondenza rende chiara — del Gentile de La  filosofia di Marx è di portarlo al suo pensiero attraverso una  considerazione del marxismo più profonda di quella di  Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella di  Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di  quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si  atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle  esigenze spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da  spiegare perché questo tentativo doveva andare fallito;  separando Croce le accettate critica dell’intuito metafisico e  affermazione del formalismo — che rendono possibile  anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un tempo  dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della  prassi. In quegli anni tra il 1895 e il 1900, Labriola e Gentile  si contendono Croce, senza riuscire completamente né l’uno  né l’altro nel loro intento; e senza intendere appieno, né  l’uno né l’altro, le ragioni della resistenza.    Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se  rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce  e di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua  ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare  in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di  Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa,  non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile. Avrebbe  dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto    215    non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo.    Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto un  parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando  la superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere  questa ricerca con la dimostrazione che il ripensamento  italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere con  la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero  essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della  seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non  è tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama  marxismo è il risultato coerente della ritraduzione di Croce,  così coerente da ricostruire dopo il crocianesimo  l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo  originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La  prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana  dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la  formulazione nuova che in Gramsci trova il concetto  marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra cui  quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo  marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, #  inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire  che l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece  recepito da Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il  blocco storico. La quinta è il giudizio sulla funzione capitale  accordata alla filosofia italiana nel processo di  modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza da  Lenin rispetto alla nozione di egemonia.   Per gli ultimi cinque di questi punti, se ne trova la miglior  conferma in uno scritto che Norberto Bobbio ha dedicato a  Gramsci e la concezione della società civile e che è il più  penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista,    216    che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma  del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo,  dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la  scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti la  domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda  innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione  marxista» possa essere considerata uno sviluppo del  pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della  critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato  l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero  speculativo di Croce. È piccante osservare come le  precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più  avverso a Gentile rappresentino le tappe per la  dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della  filosofia della prassi marxiana rispetto alla gentiliana.    Cominciamo con l’osservare come la critica gramsciana  dello storicismo crociano coincida puntualmente con quella  svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al  divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che  questa sostituzione coincide con quella del divenire reale  con un divenire dipinto; che la «non definitività» della  filosofia ricopre di fatto la «definitività» della società  liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in realtà  chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per  usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente  sostituito all’apologetica «diretta» dell'ordine esistente  un’apologetica «indiretta». Che lo storicismo di Croce,  come storicismo separato dalla filosofia della prassi e  dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo chiuso al  futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui Gentile  nel 1942 conclude definitivamente i suoi conti con Croce,    217    Storicismo e Storicismo,* riscontriamo una corrispondenza  perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano come  appoggiato a «fondamenta semplicemente dipinte», perché  all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti;  così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il  futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque  possibile futuro, è logicamente un passato rispetto al  pensiero che lo raffigura nel sistema necessario della logica».    Passiamo ora all’«innovazione profonda» che Gramsci  introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in  questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società  civile vista come appartenente non al momento della  struttura, ma a quello della sovrastruttura; cioè per Marx la  società civile, intesa come «il vero focolare, il teatro di ogni  storia», comprende secondo la definizione dell’Ideologia  tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica, «tutto  il complesso delle relazioni materiali fra gli individui  all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze  produttive».& Affermazioni che sono la premessa della  celebre definizione della Critica dell'economia politica:  «L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la  struttura economica della società, ossia la base reale sulla  quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale  corrispondono forze determinanti della coscienza sociale».  Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca  tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della  struttura, con la teoria materialistica del «riflesso» (le idee  come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per  «società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico-  culturali della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla  testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto    218    Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia  economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia  della filosofia. È quel che attesta il passo gramsciano così  frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della prassi  è il coronamento di tutto questo movimento di riforma  intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura  popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma  protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è  anche una politica e una politica che è anche filosofia».&  Detto questo, le altre novità gramsciane che Bobbio mette in  luce con tanta precisione non possono servire ad altro che a  illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci  da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua,  certamente non voluta né consapevole, subordinazione  all’attualismo.    Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di  Gentile da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana  del 1907 sul concetto di storia della filosofia, in cui la storia,  in obbedienza, per così dire, al mondo rimesso sulla testa  nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella storia della  filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il concetto  «borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione  rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base  della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente  gramsciano tra la borghesia progressiva e il comunismo,  quell’incontro così severamente giudicato da Bordiga, ma  non da Bordiga soltanto.   La novità rispetto all’idea della società civile è correlativa  all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure  Bobbio acutamente avverte, senza però osservare che  avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava. Per    219    Labriola la tesi che «le idee non nascono dal cielo» era  equivalente alla loro spiegazione a partire dalla struttura  economica, secondo la notissima sua frase per cui «la  struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i  modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli  uomini (il diritto, la morale, lo Stato), 1 secondo luogo e per  indiretto gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella  produzione della religione e della scienza». Le idee non  nascono dal cielo neanche per Gentile e per Gramsci; ma le  concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni una  funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un  potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era  appunto il senso del congedo del materialismo marxiano —  dell’ antDibring in nome dell’elemento più positivo e  rigorosamente critico delle Tesi — proposto dal Gentile anti-  Labriola. La concezione gramsciana della società civile porta  alla critica dell’economismo a cui consegue quella del  materialismo.* Marxismo dissociato da materialismo e da  economismo; ma non è una definizione che vale esattamente  per l’attualismo? Con un paradosso soltanto apparente si  potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a Croce  da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato    Gentile...    Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di «blocco  storico», in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti  gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il «nucleo  fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi  pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali  sono il contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui  Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che «la  distinzione di forma e di contenuto è meramente    220    didascalica, perché le forze materiali non sarebbero  concepibili storicamente senza forma e le ideologie  sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali»;  così che l’unità-distinzione tra la struttura e la sovrastruttura  viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.® Frasi di  cui è inutile sottolineare l'accento attualistico.    Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul  primato italiano nella promozione della rivoluzione  comunista a rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del  popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo romano  e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non  in quella nazionalistica rivolta al passato.® Quanto a dire è  nella continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia  dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più alto  sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla  sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere  mondiale della rivoluzione.    Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi  al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di  società civile ha tra l’altro la funzione di permettere,  attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione in  linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la  nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come  strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva  parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in  ciò oltre al marxismo nella direzione volontaristica e  partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa direzione  politica alla «direzione culturale». Si potrebbe dire che il  progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente  per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può  trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima alla    221    seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto  che meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione.  Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo si  possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la  riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma  italiana del pensiero classico tedesco rende anche possibile  la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti — non  sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si  va fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella  di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che in  entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto  problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della  subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza  della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere  che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo.    Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il  processo rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione  sino a che non si fosse elaborata una filosofia rivoluzionaria  con significato veramente mondiale.    La priorità della direzione politica poteva cioè portare alla  formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà  universale, solo a condizione che fosse subordinata a una  concezione del mondo, non più usata strumentalmente, ma  valida perché vera, tale da imporsi agli intellettuali. Ciò  aveva portato alla delusione degli stessi intellettuali marxisti  occidentali rispetto al comunismo russo, e alla loro  solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici  nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse  fenomeno russo e non inizio della rivoluzione mondiale.*  Come reazione di Gramsci a questa impressione deve essere  inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione del popolo    222    italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere  dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente  critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr  ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta  politica e a cui lavora negli anni del carcere.    Lal    Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,  alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso  sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può  confessare, e che non può confessare perché è insuperabile.  Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto a  Gentile ci permette di definire questa insuperabilità.  Davanti alla «filosofia dello Spirito» italiana non ci sono per  il marxismo filosofico che due vie: o respingere  assolutamente tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o  trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si porti  l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci  può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere  sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere  sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di  soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la  forma più liberale che il marxismo sia suscettibile di  assumere. Le cose cambiano completamente, come si è  visto, quando si ponga il problema del rapporto con  l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile  perché sia marxismo che attualismo si presentano come  l’esito della filosofia classica tedesca. Bisognerebbe  dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove  ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del    225    modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero  marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso  sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,  nell’«ideologia italiana», eccetera; tutti i discorsi del  «cattaneismo» oggi corrente.    A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche  definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano.  Ha ragione quando afferma che il neomarxismo di Gramsci  non è effettivamente più marxismo; non però perché  contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche  modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il  modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si  deve invece dire che rappresenta esattamente quel che il  marxismo deve diventare quando vuol prendere posizione  rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio ancora:  come già si è visto, l’originalità incontestabile del pensiero  gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti  filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a  Labriola, ha posto il problema dell’autosufficienza del  marxismo, necessaria perché la rivoluzione non venga  riassorbita nel «vecchio mondo»; da ciò l’eccezionale  importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica  di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del  nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di  fatto abbisogna di una diversa giustificazione teorica.  Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat come  ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,  le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che  riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo.  Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che  possa venir sostituita alla posizione di Gramsci; ed è    224    dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel  senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare  tutte le forme in cui sinora si è realizzata o si propone.  Quanto si è detto porta al non piccolo risultato del  riconoscimento di un’impotenza non superabile.    La vera formulazione della crisi insuperabile del  marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto  nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco-  fallimento, ma come scacco-occasione di una svolta nella  storia del pensiero. Ogni altra critica appare esterna rispetto  a questa: che mostra come, percorrendo lo svolgimento  dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non si  possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale  portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come  quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del  marxismo nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione,  nel senso marxiano del termine, in dissoluzione. Non è  senza significato che oggi si affacci l’idea che la  contestazione (definibile appunto come rovesciamento della  rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera  selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo  Gramsci come elaboratore dell’unica strategia capace di  render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi  occidentali.®    Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di  Gentile e di Gramsci? Analizzare così il particolare fascismo  di Gentile come il comunismo di Gramsci può portare a una  visione della storia contemporanea diversa dalle abituali.  Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una  certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si  trattasse di un tema su cui fosse preferibile non insistere.    225    Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella  funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,  nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque,  data la prossimità di posizioni filosofiche, il fascismo di  Gentile e l’antifascismo di Gramsci?    Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità  politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al  riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la  risorgimentale” e la rivoluzionaria. La prima si imparenta  alla sua interpretazione in termini di «filosofia cristiana». La  grande cesura nella storia sarebbe rappresentata dal  cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo al  soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,  in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da  questo e in relazione alla sua critica del materialismo  marxiano, da lui associato con l’idea rivoluzionaria, Gentile  può pensare a un Marx oltrepassato in Gioberti, e all’idea di  rivoluzione oltrepassata in quella di Risorgimento, elevata a  vera e propria categoria filosofica. Risorgimento che viene  conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle  posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti  al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e  amoralismo, spirito rivoluzionario, negazione della  tradizione. Da ciò lo sganciamento totale del Risorgimento  dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione francese e  la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di vera  restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non  come semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa  e affinamento di una tradizione, dopo che essa era stata  messa in crisi, così che potremmo complessivamente dire  che per Gentile spirito risorgimentale ha il significato di    226    riaffermata religione dello Spirito, come spiritualismo  purificato da ogni traccia di naturalismo e di  soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo  per lui, per così dire, una forma di naturalismo iperuranico.    Se separiamo però l’attualismo dal suo carattere  «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo autore  gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per  quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia  (particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione  pisana del 1914 L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia:  tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono  mosse nell'orizzonte di una realtà e di una verità  presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di un  processo di erosione della concezione oggettivistica e  trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»;  ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso  immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo  di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo  ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse  questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento  del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione  comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o  evoluzionistiche del marxismo.    Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da  Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la  domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo,  di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al  rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di  dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto per  indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo  non può non venire in mente la diagnosi di Nietzsche:    227    l'avventura della «rivoluzione a contatto con l’attualismo»  può servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a  sormontare il nichilismo. È qui che si manifesta  massimamente quell’enorme «potere di negatività», che è il  proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che  l’attualismo è oggi «attuale», o torna a esserlo, proprio per  questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette  in primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta  importanza la sua definizione abbia assunto per Gramsci.  Ora, si consideri: l'influenza gramsciana nell’ultimo quarto  del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a quella  della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di intellettuale  che oggi prevalgono sono quello del «dissacratore» o  «demistificatore» e quello dell’«esperto» o del «tecnico»;  quale rapporto hanno con la figura gramsciana  dell’intellettuale «organico»? Rispondo che sono il frutto  della sua decomposizione. All’intellettuale era assegnata da  Gramsci una funzione un po’ simile a quella che Marx  assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,  libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in  funzionario dell’industria culturale, dipendente da una  classe di potere che ha bisogno così dell’intellettuale  dissacratore (quale «custode del nichilismo») come  dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è  del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si  configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte  l’economismo, l'opposizione diventerà quella tra intellettuali  tradizionali e intellettuali progressivi. Come storicisti, questi  non potranno più parlare in nome di un socialismo  utopistico; neppure però di un socialismo scientifico, dato  l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico,    228    oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome della  storia come processo di autotrascendimento.   L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica  porterà a una sorta di «illuminismo dopo il marxismo»,  dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la  conseguenza che l’intellettuale progressivo prenderà la  figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore dei  valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione  per erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra  di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica  rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una  dissoluzione «entro l'ordine dato», che viene privato dei  valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la via a  una loro riaffermazione purificata.    Gramsci, naturalmente, non ha il minimo sospetto di  questo possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che  avrebbe detestato gli intellettuali profittatori dei connubi tra  marxismo, psicanalisi di sinistra e decadentismo sadico. Ci si  può render conto di questa assenza di previsione, se si pensa  alle circostanze politiche che furono l’occasione della sua  riflessione filosofica. Nel Gramsci ordinovista c’è la  persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la  rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto  attuarsi in Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto  imprevisto del fascismo che attrae a sé il consenso della  maggior parte di questa cultura; in diversi gradi, ma  praticamente è sufficiente il giudizio della sua minore  pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo. Per  il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare  all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso  l’unica via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo    229    coerente del suo motivo più originale deve portarla  all'incontro col marxismo autentico, o, per dir meglio, alla  sua scoperta. Ugo Spirito ha detto che Gentile è stato il  creatore del fascismo: si tratta di una frase forse un po’ a  punta, ma che è vera, quando venga bene intesa; senza la  cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender  forma. Ebbene, si deve dire che Gramsci fu il creatore  dell’antifascismo, quando lo si distingua dall’opposizione  mossa in nome del prefascismo (quella di Croce, per  esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del  fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi  naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo  non sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che  come fenomeno dissolutivo. Per esprimere tutto in una  rapida formula, direi che, visti nella loro radice filosofica,  fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui quella  filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel «farsi  mondo».    Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo necessario  che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della  rivoluzione totale. Il pensiero di Gramsci, in quanto vuole  assegnare al termine «materialismo» un significato soltanto  metaforico (al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la  completa riprova: la funzione primaria data agli intellettuali  come all'elemento attivo e unificante e al partito «moderno  Principe» come intellettuale collettivo porta in realtà alla  captazione borghese-illuministico-modernista.   Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli  intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle  verità eterne, svolgenti perciò una critica che include quella  dell'aspetto escatologico del marxismo. Il momento    230    negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal  positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente,  dei valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione  dissolutiva che non distrugge le classi, ma porta al dominio  di una nuova classe, che tratta ogni idea come strumento di  potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro, più  razionalmente organizzato, del dominio di classe.    Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta  attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte  negli ultimi anni, così su Gramsci come su Gentile. Così, è  stato giustamente osservato da Riechers come il socialismo si  riduca fondamentalmente per Gramsci a un modo di  produzione capitalistica separato dalla figura  dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è  controllato dagli «intellettuali organici» (la «nuova classe»);  e che per lui sembra esistere un’economia indifferente alle  classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova impedito  da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione è  «scissione completa col vecchio mondo», e tutto il suo  lavoro è svolto a definire l’idea, in questo significato  scissionistico; di fatto, questa purificata idea rivoluzionaria è  destinata a rovesciarsi nel senso che si è detto.    [sal    Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici  opposti di Gentile e di Gramsci si conclude la polemica tra  Mazzini e Marx. Si conclude però nel modo più singolare,  estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come  per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia  della prassi, rivoluzione totale e materialismo;    231    l’approfondimento gentiliano della filosofia della prassi  porta alla cancellazione del materialismo; Gramsci tenta  vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale  dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi.    Croce pensava che nelle discussioni italiane del 1895-  1900 il marxismo teorico avesse subito la sua critica  decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero  italiano di portarsi al livello più alto del pensiero mondiale.  È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere; a  parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano  potuto averne, il protagonista della grande e insolubile crisi  del marxismo teorico è Gentile. E la crisi avviene  effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile  tra l’opera rigorosamente teorica di Gramsci e quella di  Bordiga, che è costretta al marxismo letterale, e non può  raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché  non ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò  sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo di  Gramsci. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,  all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea  marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si esprime  nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di  Gramsci ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva  che ho enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo,  secondo cui il razionalismo, inteso come negazione senza  prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della  rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In  ciò il senso della «svolta decisiva» che la filosofia di Gentile  rappresenta. 

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