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Thursday, June 6, 2024

Grice e Paganini

 COLLEZIONE 

DI 


OPUSCOLI  DANTESCHI 


INEDITI  0  RARI 


DA   GT.   L.  PASSERINI 


VOLUME  QUINTO 


CITTA  DI  CASTELLO 

S.   LAPI   TIPOGRAFO-EDITORE 
1894 


CARLO  PAGANO  PAGANINI 


CmOSE  i  IUHI  flSOFICI 


DELIiA 


DIVINA  COMMEDIA 


RACCOLTE    E    RISTAMPATE 


DI  GIOVANNI  FRANCIOSI 


CITTÀ  DI  CASTELLO 

S.   LAPI  TIPOGRAFO-EDITOBE 
1894 


PROPRIETÀ  LETTERARIA 


CARLO  PAGANO  PAGANINI 

RICORDATO  DA  UN  SUO  DISCEPOLO 


...  .In  la  mente  m'è  fitta,  od  or  m'accora, 
La  cara  e  buona  imagine  paterna 
Di  Voi,  quando  nel  mondo  ad  ora  ad  ora 

M' insegnavate  come  l'uom  s'eterna. 

In/.,  XV,  82-85. 

Carlo  Pagano  Paganini,  nell'aspetto  e  nell'a- 
nimo, fu  come  uomo  venuto  da  secoli  lontani. 
Io  vedo  specchiata  nella  mia  mente,  che  spesso 
lo  ripensa  con  riverente  affezione  di  alunno,  la 
sua  testa  di  bellezza  antica.  Fronte  larga  e 
pensosa,  naso  aquilino,  barba  e  capelli  nerissimi, 
labbra  sottili  e  poco  pronte  al  sorriso,  quando 
socchiudeva  gli  occhi  e  chinava  il  capo  medi- 
tando, era  in  lui  somiglianza  più  che  fraterna 
col  San  Paolo  della  Cecilia  raffaellesca;  ma,  nel- 
l'atto di  alzare  lo  sguardo  e  la  mano  verso  gli 
alunni  suoi,  sillogizzando,  e'  rammentava  piutto- 
sto l'Aristotile  della  Bettola  di  Atene.  Rado  e 
lento  al  parlare  per  abito  di  raccoglimento  e 
per  difficoltà  di  respiro,  sopravvenutagli  nel  col- 
mo della  virilità,  persuadeva:  la  parola  viva, 
stillando  quasi   dalla  forte  compagine  della  sua 


6 

parola  pensata  o  deW  interna  stampa,  cadeva  ad- 
dentro negli  animi  anche  men  disposti  a  ricever- 
la, come  la  goccia,  stillante  giù  dalla  roccia, 
a  poco  a  poco  scolpisce  orma  profonda  nel  sasso 
sottostante.  Natura  di  pensatore  disdegnoso  e 
chiuso  in  sé,  pochi  lo  intesero  e  pochissimi  lo 
pregiarono  secondo  verità.  Cittadino  prode,  va- 
gheggiò, lontano  dal  volgo,  un'  idea  nobilissima 
di  paese  sincero,  di  popolo  giusto  e  sano.  Edu- 
catore potente,  ma  non  ricco  di  propria  virtù 
creativa,  commentò  dalla  cattedra,  come  forse 
niun  altro  seppe  a'  nostri  tempi,  l'alta  dottrina 
di  Antonio  Rosmini;  benché  non  possedesse  le 
attitudini  del  divulgatore:  recò  luce  nuova,  av- 
vivò la  forza  visiva,  ma  nella  mente  di  pochi. 
Asceta  del  pensiero,  un  po'  per  indole  e  un  po' 
per  fiera  volontà  d'espiazione,  esercitato  in  se- 
vere continenze  e  astinenze  di  fantasia  e  di 
spirito,  non  ebbe  le  geniali  divinazioni  dell'estro; 
né  quel  lampeggiare  improvviso  di  parola  ispi- 
rata, in  che  s'aprono  o  s'intravedono  lontananze 
ideali,  com'appunto  in  chiarore  di  lampo  lonta- 
nanze di  mare  e  di  cielo.  La  sua  prosa,  nell'an- 
tica e  salda  semplicità  dell'espressione,  rammen- 
terebbe la  linea  degli  edifici  romani,  se  il  pensie- 
ro non  vi  apparisse  talora  frastagliato  in  minute 
analisi,  in  distinzioni  sottili,  che  tengono  della 
scolastica  medievale. 

Tempra  di  filosofo,  mente  austera  e  teosofica. 


il  Paganini  nel  Poema  sacro  vide  il  tempio,  ove 
l'arte  umana,  ispirata  dalla  fede,  fa  sentire  l'I- 
neffabile. Questo  egli  principalmente  dimostra, 
pur  rendendo  onore  all'  ingegno  sovrano  del 
Poeta,  nel  discorso  "  La  teologia  di  Dante  „  ;  di- 
scorso, che  qui  non  si  dà,  perchè  fa  parte  di  vo- 
lume troppo  noto.  ^  Ma  de'  suoi  forti  studi 
danteschi  fanno,  credo,  miglior  fede  le  chiose, 
che  qui  si  danno  raccolte  e  ordinate  ;  ^  dove,  cer- 
cando, con  occhio  chiaro  e  con  affetto  puro,  dentro 
al  fantasma  poetico  l'occulto  e  il  divino,  il  Pa- 
ganini riuscì  ad  avvertire  per  la  prima  volta  o 
a  far  meglio  palesi  germi  preziosi  di  verità  filo- 
sofiche. ^  Cosi  nelle  permutazioni  della  Fortuna 
(Inf.,  VII,  61-69)  additò  i  ricorsi  vichiani;  e  nel 
sillogismo  delle  vecchie  e  delle  nuove  cuoja  (Pa- 


'  Dante  e  il  suo  secolo:    Firenze,  Cellini,  1865,  pag.  515. 

*  Ordinate  per  ragione  di  tempo.  Soggiungo  che  questa 
ristampa  fu  condotta  con  amoi'e  di  sincerità  anco  nelle  mi- 
nime cose. 

•''  Ho  caro  che  Tommaso  Casini,  già  mio  discepolo  nel 
Liceo  di  Modena,  abbia  rammentato  tre  volte  (Inf.,  IV,  144; 
VII,  73;  Purg.,  XVIII,  55),  sia  pure  inconsapevolmente,  il 
maestro  del  maestro  suo;  e  una  di  queste  tre  volte  (Purg., 
XVIII,  55)  offerto  a'  letttri  della  sua  diligente  esposizione 
del  Poema  la  stillata  sostanza  di  chiosa  paganiniana. 

Lo  Scartazzini,  commentando  la  terza  Cantica,  cita  il 
Paganini  due  volte  (XXIV,  91-94:  XXIX,  46-63),  ma  la  se- 
conda volta,  dopo  averlo  citato,  se  ne  discosta  senza  dir 
perchè;  e  noi  Commento  all'Inferno  (VII,  73;  edizione  mi- 
nore) attribuisce  a  me,  certo  per  errore  di  trascrizione,  ciò, 
che  il  Paganini  argomenta  suU'apodosi  della  comparazione 
dantesca  tra  gli  splendori  del  mondo  e  quelli  de'  cieli. 


8 

rad,,  XXIV,  91-94)  il  sillogismo  della  stona,  che 
sì  bene  armonizza  col  sillogismo  del  cosmo  e  col 
sillogismo  della  trinità  divina;  ^  cioè  le  tre  grandi 
età  della  Preparazione  a  Cristo,  àBÌV Avvento  di 
Cristo  e  della  Santificazione  in  Cristo.  Cosi  net- 
tamente distinse,  restringendolo  alla  creatura 
uomo,  l'amore  naturale  da  quello  à^ animo  ;^  di- 
chiarò da  maestro  il  verso  :  "  Averroè,  che  il  gran 
commento  feo  „  ;  segnò  il  giusto  valore  della 
frase  "  uomo  non  sape  „  là,  dove  si  tocca  dell'o- 
rigine dell'idee,  e  dimostrò  da  par  suo  che  cosa 
valga  nel  linguaggio  degli  Scolastici  subietto  de- 
gli elementi.^  Le  note  dichiarative  non  fanno 
una  grinza  :  quanto  alle  altre,  io  già  ne  apersi,  o 
diedi  a  divedere,  l'animo  mio  nel  Libro  delle  Ra- 
gioni. *     Ma,  pur  dissentendo  in  parte,  riconosco 

'  Paolo  Perez,  in  una  sua  lettera  al  Paganini,  scrive: 
"  Intendo  assai  bene  la  verità  e  la  bellezza  di  que'  tre  sil- 
"logismi  della  Storia,  della  Cosmologia,  della  Teologia;  ar- 
"  monia  del  creato  e  dell'  increato,  che  non  vidi  mai  annun- 
"  ziata  in  forma  somigliante  „.  Lettera  di  P.  Perez  al  prof.  P. 
Paganini  (Nozze  Perez-Fochessati),  Verona,  Franchini,  1884. 

■^  Nicolò  Tommaseo  si  dice  lieto  d'esser  corretto  dal 
Paganini,  ch'egli  giudica  uno  de'  più  idonei  a  scrutare  le 
intenzioni,  le  dottrine,  le  origini  del  verso  dantesco;  nobil- 
mente confessa  d'avere  errato,  restringendo  ai  corpi  Vamor 
naturale,  ma  insieme  consiglia  il  Paganini  di  non  restrin- 
gere quest'amore,  ch'è  Varco  fatale  nell'inno  dell'ordine 
(Parad.,  I,  119),  entro  i  confini  della  creatura  intelligente. 
—  Nuovi  studi  su  Dante,  Torino,  1865,  pag.  27. 

^  Il  Giuliani  in  una  postilla  marginale,  ohe  Giacomo 
Poletto  riferisce  (Dizionario  dantesco,  VI,  327),  volle  far 
suo,  credo,  il  pensiero  del  Paganini. 

*  Nuova  raccolta  di  scritti  danteschi,  Parma,  Ferrari  e 
Pellegrini,  1889,  pag.  83-89;  183-184. 


9 

volentieri  che  tutte  queste  chiose  dantesche,  co- 
me i  lavori  più  gravi  "  Saggio  cosmologico  su 
lo  spazio  „  '  e  "  Delle  più  riposte  armonie  tra  la 
filosofìa  naturale  e  la  soprannaturale  „  ^  sono  bel- 
lissimo documento  d'intelligenza  acuta  e  serena, 
d'abito  di  ragionare  diritto  e  spedito,  di  chiarezza 
viva  di  scienza  convertita,  per  lunga  meditazione, 
in  nutrimento  del  pensiero,  in  forza  operosa  dello 
spirito.  Se  non  che  la  maggiore  e  miglior  parte 
dell'uomo,  secondo  me,  non  si  palesò  negli  scritti 
e  nemmeno  nell'atto  dell'insegnare  dalla  catte- 
dra; si  nel  conversare  casalingo  e  nel  costume. 
Tra  le  ricordanze  della  mia  vita  di  scolaro 
sempre  mi  sarà  carissima  quella  de  le  veglie  pas- 
sate a  Pisa  in  casa  Paganini  :  dove,  spogliata  la 
toga  del  professore,  l'uomo  appariva  in  tutta  la 
sua  grande  bontà  d'intelletto  e  di  cuore,  e  il 
maestro  ci  si  mutava  in  consigliere,  in  amico, 
in  fratello.  Quante  dispute  gentili;  quanto  fer- 
vore e  quanta  allegrezza,  nella  serenità  del  con- 
fidente colloquio,  di  pensieri  e  di  affetti,  sempre 
accesi  nel  piacere  del  vero  !  Io  penso  che  la  sua 
natura  di  educatore  per  eccellenza  ben  si  pale- 
sasse allora.  Chi  lo  conobbe  solo  tra  le  pareti 
della  scuola  dovette  averlo  in  riverenza,  ma  forse 
non   lo   amò;   chi   lo   conobbe   in   casa,    dovette 


'  Pisa,  Nistri,  18G2  (Estr.  dagli  Annali  delle  Università 
toscane). 

*  Pisa,  Nistri,  186t. 


10 

amarlo  come  padre.  Semplicissimo  in  ogni  ma- 
nifestazione del  suo  spirito,  il  Paganini  pur  ser- 
bava costante  dignità  e  non  cercata  eleganza  di 
veste,  di  portamento,  di  gesto  e  di  parola.  Quan- 
do lavorava  nel  suo  caro  orticello,  spampinando 
la  pèrgola,  potando  qualche  pianta  o  zappettando 
con  fretta  allegra,  portava  zoccoli  alla  contadi- 
nesca, rimboccava  fino  al  gomito  le  maniche  della 
camicia  e,  se  la  stagione  lo  consentisse,  stava 
contento  a  sommo  il  petto,  come  quel  del  Nerli,  a 
la, pelle  scoverta:  chi  lo  avesse  veduto  di  lontano, 
poteva  scambiarlo  con  un  forte,  lindo  e  sollecito 
massaio  delle  campagne  toscane  ;  ma  da  vicino,  an- 
che nell'umile  esercizio  dell'ortolano,  ciascuno 
avrebbe  notato  quell'aura,  che  si  diffonde  nel  vol- 
to e  nella  persona  da  regale  nobiltà  di  pensiero. 
Uscendo  dall'orticello,  lasciava  gli  zoccoli,  indos- 
sava una  veste  giornaliera,  ma  (direbbe  un  anti- 
co) onesta,  ed  entrato  nel  suo  studinolo,  ripigliava 
con  alacrità  nuova  il  lavoro  intellettuale  per  qual- 
che ora  interrotto.  Amico  di  solitudine,  mesto  e 
pensoso  per  lo  piìi,  terribile  negl'impeti  dell'ira, 
ebbe  grande  gentilezza  di  cuore,  accorgimenti 
di  bontà  materna.  Innamoratissimo  de'  giovani 
e  de'  fanciulli,  in  mezzo  a  loro  si  trasmutava 
come  per  incanto  :  sorrideva  amabilmente  e  ama- 
bilmente parlava,  temprando  per  affetto  la  sua 
gagliardissima  voce  a  modulazioni  soavi;  e  l'oc- 
chio, spesso  pieno  d'ombra  sotto  le  folte  soprac- 


11 

ciglia  aggrottate,  si  aifissava,  tutto  schiarato,  in 
quei  visi  ridenti  e  lampeggiava  d'amore.  Edu- 
catore di  sé  in  gran  parte,  fidente  nella  virtù 
del  volere,  ^  seppe  insegnare  a'  giovani,  che  lo 
avvicinarono,  il  proposito  e  l'arte  di  migliorare  il 
proprio  spirito.  Io,  mi  gode  l'animo  d'aver  qui 
l'occasione  di  confessarlo,  riconosco  intero  da  lui 
il  principio  di  un'educazione  intellettuale,  che 
a  poco  a  poco  mi  rinnovò, 'distruggendo  o  morti- 
ficando i  mali  abiti  della  casa  e  della  scuola. 
Né  le  meditazioni  austere  spensero  o  scemarono 
nel  Paganini  il  senso  del  bello,  ma  lo  fecero  più 
delicato,  più  fine  e  profondo.  ^  Delle  arti  figu- 
rative, conoscitore  e  giudice  arguto  d'ogni  lor 
passo,  molto  si  dilettò  ;  e  fu  egli  stesso  disegna- 
tore corretto.    La  poesia  senti  come  pochissimi  ;  ^ 


'  Notabili  queste  sue  parole:  "Quello  che  è  difficile, 
sia  pur  difficile  quanto  si  vuole,  non  è  impossibile;  e  quello, 
che  non  è  impossibile,  o  prima  o  poi,  o  da  un  uomo  o  da 
un  altro  si  fa  „.  (Cf.  pag.  99  di  questo  volumetto). 

*  Pur  negli  scritti  qui  raccolti  è  qualche  vestigid,  ben- 
ché raro  e  fuggevole,  del  suo  sentire  gentile,  come  là  dove 
accenna  l'evidenza  pittrice  del  verbo  velare  per  ventilare 
(pag.  14)  e  dove  l'armonia  della  terzina:  "Ma  ella  s'è  beata 
e  ciò  non  ode  „  chiama  anticipazione  di  quel  nuovo  modo 
d%  poesia,  che  l'Alighieri  riserbava  al  Purgatorio  e  al  Pa- 
radiio  (pag.  47). 

'  Né  soltanto  la  poesia  pensata  ed  eletta,  ma  l'improv- 
visa e  campagnuola.  Villeggiando  sui  colli  di  Pistoia,  rac- 
colse con  amore  motti  e  canti  popolari,  e  della  Ninna  nanna 
"  Quando  a  letto  vo  la  sera  „  disse  cose  nuove  e  belle. 
(Lettera  ai  giovani  Alessandro  Morelli  e  Antonietta  Pieranto- 
ni  fatti  sposi,  Lucca,  Canovetti,  18G8.) 


12 

e  due  tra  tutti  i  poeti  predilesse,  perchè  meglio 
rispondenti  all'indole  e  all'educazione  del  suo 
spirito:  Dante,  di  cui  ho  già  detto,  e  Virgilio. 
Peccato  che  tante  sue  belle  considerazioni  su 
questi  due  poeti,  onde  nel  conversare  quotidiano 
non  fu  punto  avaro  a'  giovani,  sieno  fuggite  con 
la  sua  voce,  o  mutate  in  seme  di  troppo  diversa 
germinazione  nella  mente  di  chi  le  ascoltò  ! 
V  hanno  uomini,  che  la  scarsa  loro  ricchezza 
d'intelletto  e  di  cuore  spargono  subito  per  mille 
rivoletti  fuori  di  sé:  altri,  possessori  di  grande 
ricchezza  interiore,  somigliano  a  quelle  nascoste 
e  profonde  sorgenti  della  terra,  che  non  si  veg- 
gono, ne  si  odono,  ma  si  argomentano  da  la  più 
lieta  verzura  e  dal  fitto  fiorire  del  terreno  sovra- 
stante. Tra  questi  ultimi  è  da  porre  Carlo  Pa- 
gano Paganini,  che  molto  seppe,  molto  e  bene 
amò;  ma  parlò  poco  e  pochissimo  scrisse:  eppure 
molti  scritti  e  molti  fatti  buoni,  generati  o  cre- 
sciuti dalla  dottrina,  dal  consiglio,  dall'esempio 
di  lui,  attestano  della  sua  ricca  e  verace  bontà. 

Roma,  il  9  gennaio  del  1894. 

G.  Franciosi. 


Di  un  luogo  del  FargatoHo  di  Dante,  che  non 
sembra  essere  stato  ancora  dichiarato  pie- 
namente. ^ 


Eagionando   dell'amore,  Virgilio,   nel    canto 
XVIII  del  Purgatorio,  secondo  la  naturale  filo- 


sofia, dice: 


Ogni  forma  sujtanzlal,  che  setta  - 
È  da  materia,  ed  è  con  lei  unita, 
Specifica  virtude  ha  in  sé  colletta, 

La  qual,  senza  operar  non  è  sentita, 
Né  si  dimostra  ma  che  per  effetto 
Come  per  verdi  fronde  in  pianta  vita. 

Però  là  onde  vegna  lo  intelletto 
Delle  prime  notizie  uomo  non  sape, 
E  de'  primi  appetibili  l'affetto, 

Che  sono  in  voi  si  come  studio  in  ape 
Di  far  lo  mele;  e  questa  prima  voglia 
Merto  di  lode  o  di  biasmo  non  cape. 

Or  perchè  a  questa  ogni  altra  si  raccoglia. 
Innata  v'è  la  virtù  che  consiglia 
E  dell'assenso  de'  tener  la  soglia. 


'  Da.IV Araldo  cattolico:  Lucca,  1857,  an.  XIV,  n.  13  (G.  P.). 

'•^  II  Pagauini,  lo  avverto  una  volta  per  sempre,  nello  sue  oi- 
tazioni  della  Commedia  fu  solito  di  serbar  fede  al  testo  della  Vol- 
gata; ma,  venuto  in  luco  il  testo  di  Francesco  da  Buti,  qualche 
volta  amoreggiò  con  questo  ;  come  là,  dove  ai  plurali  verdi  /ronde 
e  primi  appetibili  sostituì  i  singolari  bellissimi  verde  fronda  e 
primo  appetibile.  Cfr.  pag.  75-76  (G.  F.). 


14 

Quest'è  il  principio,  là  onde  si  piglia 
Cagion  di  meritare  in  voi  secondo 
Che  buoni  e  rei  amori  accoglie  e  viglia.  ' 

E  queste  cose  son  dette  per  soddisfare  alla 
questione  proposta  da  Dante  colle  seguenti  parole: 

Ti  prego,  dolce  padre  caro, 

Che  mi  dimostri  amore,  a  cui  riduci 
Ogni  buono  operare  e  il  suo  contraro. 

Infatti  nel  canto  antecedente  Virgilio,  trat- 
tando il  medesimo  argomento,  aveva  pronunziato: 

Né  creator,  né  creatura  mai 

fu  senz'amore 

O  naturale,  o  d'animo 

Lo  naturai  fu  sempre  senza  errore; 
Ma  l'altro  puote  errar  per  malo  obietto, 
O  per  troppo,  o  per  poco  di  vigore. 

Mentre  ch'egli  è  ne'  primi  ben  diretto, 
E  ne'  secondi  sé  stesso  misura, 
Esser  non  può  cagion  di  mal  diletto; 

Ma,  quando  al  mal  si  torce,  o  con  più  cura 
O  con  men  che  non  dee,  corre  nel  bene, 
Centra  il  fattore  adovra  sua  fattura. 

Quinci  comprender  puoi  ch'esser  conviene 
Amor  sementa  in  voi  d'ogni  virtute 
E  d'ogni  operazion,  che  merta  pene. 

Ora  di  quella  terzina  del  primo  passo:  Or 
perchè  a  questa,  ecc.  trovansi  nei  commentatori 

^  Questo  verbo  vigliare,  che  dal  Biagioli  viene  erroneamente 
confuso  con  vagliare,  e  che  forse  ha  tratto  origine  dal  latino,  si- 
gnificando esso  pulire  il  mucchio  del  grano  con  una  granata  o 
con  un  mazzo  di  frasche  dalle  paglie,  stecchi  e  simili  cose  senza 
pregio  (lat.  viliaj,  ce  ne  fa  tornare  alla  mente  un  altro,  che  seb- 
bene ci  paia  bellissimo,  e  sia  vivente  in  bocca  dei  oampagnuoli, 
con  tutto  ciò,  a  quanto  sappiamo,  non  ha  ricevuto  l'onore  d'essere 
accolto  nei  vocabolari.  È  questo  il  verbo  velare,  ohe  significa 
nettare  il  grano  dalla  pula,  gettandolo  contro  vento  ;  e  se  pure 
non  è  una  sincope  di  ventilare,  conviene  credere  ohe  i  contadini 
lo  abbian  tratto  pittorescamente  dall' imagine  d'una  vela,  che  pre- 
senta la  pula  fuggendo  via  portata  dal  vento. 


15 

della  Divina  Commedia  tre  principali  spiegazioni. 
Una,  seguita  anche  dal  Venturi  e  dal  Biagioli,  è 
del  Daniello,  il  quale  scrive  :  l'ordine  è:  "la  virtù 
che  consiglia „,  cioè  la  ragione,  "  v'è  innata  „,  cioè 
nata  insieme  con  voi,  "  perchè  „,  affìn  che  ogni  al- 
tra voglia,  che  nasca  in  coi,  si  unisca,  accompagni 
e  raccolga  a  questa  virtù,  la  qual  dee  tener  la 
soglia,  ecc.  Un'altra  è  del  Lombardi,  il  quale 
cosi  interpreta:  Or  "  perchè  „,  affinchè  a  questa 
prima,  naturale  ed  innocente  voglia  si  "raccolga  „, 
si  accompagni  ogni  altra  morale  e  lodevole  virtù, 
"  innata  v'è  „,  data  vi  è  fin  dal  vostro  nascimento, 
"  la  virtù  che  consiglia  „,  la  ragione  che  vi  deve  con- 
sigliare e  regolare  i  vostri  appetiti.  La  terza,  infine, 
è  del  Tommaseo,  che,  a  pag.  406  del  Commento, 
n.  21  [F],  esprime  il  concetto  dell'Alighieri  in 
questo  modo  :  Acciocché  questo  primo  naturai  de- 
siderio e  intelligeìiza  sia  quasi  centro  ad  ogni  altro 
vostro  volere  e  sapere  acquisito,  avete  innata  la 
ragione,  da  cui  viene  il  libero  arbitrio  ;  sicché  tutti 
sieno  non  men  del  primo  conformi  a  natura.  Qual 
è  il  valore  di  queste  spiegazioni?  Esaminiamole 
brevemente. 

A  veder  l' improbabilità  della  spiegazione  del 
Daniello  basta  considerarla  rimpetto  alla  ragione 
grammaticale.  Nel  verso  :  Or  perchè  a  questa 
ogni  altra  si  raccoglia  dei  due  pronomi  questa  e 
ogn' altra,  che  essendo  ambedue  femminili  e  uniti 
in  un  sol  membro,  ognuno  riferirebbe  ad  un  me- 
desimo nome,  egli  al  contrario  riferisce  il  primo 
al  susseguente  virtù,  e  il  secondo  al  precedente 


16 

voglia;  attribuendo  cosi  all'Alighieri  un  co- 
strutto non  solamente  ardito,  ma  pur  anco  sì 
strano,  che  non  se  ne  trova  esempio  ne  pur  forse 
negli  scrittori  latini,  tuttoché  la  lingua  loro  con- 
cedesse tanta  libertà  d'allontanarsi  dall'ordine 
naturale  delle  parole. 

Lo  stesso  rimprovero  può  farsi  pure  al  Lom- 
bardi ;  il  quale  non  si  diparte  dal  Daniello  se  non 
in  questo,  che  il  primo  di  quei  pronomi  riferisce 
a  voglia  e  il  secondo  a  virtìi,  cioè  mette  innanzi 
quel  che  l'altro  avea  messo  dopo,  e  pospone  quel 
che  l'altro  avea  anteposto.  Ciò  non  ostante  ne 
risulta  quindi  un  senso  tanto  differente,  da  ren- 
dere la  spiegazione  del  Lombardi  meno  impro- 
babile di  quella  del  Daniello;  perchè  lascia  a 
soggetto  della  relazione,  accennata  da  Dante  in 
questo  verso,  la  prima  voglia,  o  V affetto  dei  primi 
appetibili,  come  rettamente  si  dice,  naturale  e 
innocente^  sebbene  per  termine  di  essa  relazione 
non  si  prendano  poi  le  altre  voglie  od  affetti,  ma 
piuttosto  le  morali  e  lodevoli  virtù.  È  vero  che 
le  morali  e  lodevoli  virtù  hanno  per  natura  di 
dirigere  e  ordinare  gli  affetti  tutti  dell'animo,  e 
che  perciò  nella  espressione  usata  dal  Lombardi 
sono  implicitamente  contenuti  anche  questi,  ma 
ciò  non  basta  a  giustificarlo;  essendo  che  qui 
trattavasi  appunto  di  mostrare  come  gli  affetti 
diventino  virtù  e  anco  vizi,  e  nella  chiosa  del 
Lombardi  questa  dimostrazione  rimane  un  desi- 
derio, avendo  egli  preso,  come  abbiam  detto,  per 
termine  della  relazione  le  virtù  bell'e  formate. 


17 

Con  mente  più  filosofica  ha  studiato,  come  gli 
altri,  così  questo  passo  della  Divina  Commedia  il 
Tommaseo;  ha  riferito  tutt'e  due  i  pronomi  al 
medesimo  nome  voglia,  che  li  antecede,  e  ha 
scorto  fors'anco  la  vera  relazione,  che  noi  cre- 
diamo essersi  inteso  dall'Alighieri  di  porre  tra 
l'aff'etto  dei  primi  appetibili  e  ogni  altro  affetto, 
che  di  poi  si  svolga  nell'animo  nostro,  senza  che 
però  l'intendimento  del  poeta  resti  a  pieno  il- 
lustrato. Imperocché,  ritenuto  per  indubitabile 
che  questa  valga  questa  prima  voglia,  che  è  in 
noi  naturalmente,  e  ogni  altra  valga  ogni  altra 
voglia,  che  in  noi  possa  accendersi  nel  corso  della 
vita,  v'è  da  risolvere  la  questione,  a  cui  fa  luogo 
il  verbo  raccogliersi  ;  che  è  quanto  dire  quale 
relazione  precisamente  abbia  voluto  il  poeta  espri- 
mere con  esso  verbo  fra  quelle  cose.  E  qual  è 
questa  relazione  secondo  il  Tommaseo?  È  una 
relazione  simile  a  quella,  che  i  punti  d'una  cir- 
conferenza, o  i  raggi  d'un  cerchio,  hanno  col  cen- 
tro, giacché  dice  :  acciocché  questo  primo  naturai 
desiderio  e  intelligenza  sia  quasi  centro  ad  ogni 
altro  vostro  volere  e  sapere  acquisito,  ecc.  E  per 
fermo,  raccogliersi  significa  anco  concentrarsi,  e 
più  d'un  esempio  ce  ne  offre  lo  stesso  Dante. 
Ma  siffatta  spiegazione,  ci  sia  permesso  di  dirlo 
francamente,  non  isnuda  il  concetto  filosofico 
voluto  esprimere  da  Dante,  lo  lascia  involto  nel 
velo  della  metafora,  e  però  non  può  essere  avuta 
per  sufiiciente. 

Il  poeta  nel    canto   XVII  avea  fatto  dire  a 


}i8 

Virgilio  che  amore  è  sementa  in  noi  d'ogni  virtù 
e  d'ogni  vizio:  nel  XVIII  vuol  fargli  provare 
la  verità  di  questo  dettato,  comune  alla  pagana 
e  alla  cristiana  sapienza.  A  tale  uopo  egli,  in 
persona  del  suo  duce  e  maestro,  risale  col  pen- 
siero alla  costituzione  primitiva  dell'essere  uma- 
no :  in  esso,  egli  dice,  oltre  la  materia,  v'è  una 
forma  immateriale,  fornita  di  una  virtù  o  potenza 
specifica,  la  quale  non  si  dimostra  che  ne'  suoi 
effetti,  cioè  nelle  sue  operazioni,  come  per  verdi 
fronde  in  pianta  vita.  Questa  potenza  specifica 
può  considerarsi  da  due  lati,  in  quanto  è  passiva 
e  in  quanto  è  attiva  :  in  quanto  è  passiva  è  Vin- 
telletto  delle  prime  notizie,  in  quanto  è  attiva  è 
V affetto  dei  primi  appetibili  (S,  Tommaso,  Cantra 
gent.,  II,  60  e  IV,  19).  ^  Quindi  non  è  maraviglia 
che  l'uomo  non  sappia  donde  gli  vengano  siffatte 
cose,  non  essendone  mai  stato  privo  e  apparte- 
nendo alla  sua  natura  in  quel  modo  medesimo, 
che  all'ape,  per  esempio,  appartiene  lo  studio, 
ossia  l'istinto,  di  far  lo  mèle.  Ora  quell'affetto 
dei  primi  appetibili  è  senz'alcun  merito,  perchè 
non  dipende  dal  libero  arbitrio  ;  il  quale  soltanto 
è  principio,  là  onde  si  piglia  Cagion  di  meritare. 
Non  per  tanto  esso,  non  avendo  per  oggetto  altro 
che  il  bene  conveniente  all'umana  natura,  è  un 
affetto  sotto  ogni  aspetto  irreprensibile.  Non  si 
può  concepire  non  solo  una  creatura,  ma  né 
meno  il  Creatore  senza  amore  alcuno;  sebbene 


»  In  Tece  di  IV,  19  era  da  pozze  :  III,  45  (G.  F.)« 


1 


19 

nella  creatura  ragionevole  ne  possano  essere  di 
due  sorte,  uno  naturale,  o  istintivo  ;  e  Taltro 
à^ animo,  o  deliberato  :  il  primo  dei  quali  è  sempre 
senza  errore,  perchè  è  l'opera  della  stessa  sa- 
pienza divina,  mentre  il  secondo  puote  errar  per 
malo  obietto,  O  per  poco  o  per  troppo  di  vigore, 
secondo  che  dalla  libera  volontà  o  è  vòlto  a  ciò 
che  è  intrinsecamente  male,  oppure  anco  a  ciò 
che  è  bene,  ma  senza  quella  misura  che  risponda 
al  suo  vero  pregio.  Come  accade  adunque  che 
sia  Amor  sementa  in  noi  d^ogni  virtude  E  d'ogni 
operazion  che  merta  pena?  Ciò  accade:  Imper- 
ché dal  primo  amore,  che  Dio  medesimo  ha  posto 
nell'uomo,  si  svolgono  altri  amori,  come  dalla 
forza  vegetativa  delle  piante  nascono  i  ramoscelli 
e  le  foglie,  che  le  adornano,  e  dall'istinto  del- 
l'ape i  vari  movimenti,  coi  quali  essa  sugge 
l'umor  de'  fiori,  lo  converte  in  miele  e  lo  de- 
posita nell'alveare;  2°  perchè  questi  secondi  amo- 
ri possono  esser  conformi  a  quel  primo  essenziale 
all'uomo  e  rettissimo,  ovvero  anche  difformi, 
siccome  avviene  ogni  volta  che  o  finiscano  in 
oggetto  per  sé  malo,  o  non  serbino  il  debito 
modo  ed  ordine  nei  beni  ;  3*^  perchè  la  ragion 
pratica,  o  assecondando  o  promovendo  colla  sua 
libera  efficacia  cotesti  amori,  fa  che  la  rettitudine 
loro  o  la  loro  malvagità  sia  imputabile  all'uomo, 
e,  divenuti  abituali,  diano  carattere  alla  sua  con- 
dotta, in  altre  parole,  originino  le  virtù  ed  i 
vizi.  E  da  tutto  questo  si  fa  manifesto,  che, 
quel  primo  amore,  si  rispetto  agli  amori  secondi, 


20 

come  rispetto  alla  ragion  pratica  (convenientis- 
simamente chiamata  da  Dante  la  virtù,  che  con- 
siglia, E  dell'assenso  de*  tener  la,  soglia,  dall'uf- 
ficio a  cui  è  stata  destinata),  è  come  una  cotal 
regola  od  esemplare  ;  cioè,  rispetto  agli  amori  se- 
condi, perchè  non  possono  esser  ragionevoli  e 
onesti  se  non  seguendolo  e  imitandolo,  e  rispetto 
alla  ragion  pratica  perchè  deve  procurare,  che 
essi  nel  fatto  lo  seguano  e  lo  imitino.  E  dicia- 
mo UE  a  cotal  regola  od  esemplare;  conciossiachè 
la  naturai  tendenza  a  quel  bene,  che  conviene 
all'esser  nostro,  per  sé  non  è  che  un  fatto,  e  un 
fatto,  in  quanto  tale,  non  ha  la  ragion  di  regola 
o  di  esemplare,  ma  solamente  può  parteciparne 
in  quanto  è  segno  d'un'idea  (San  Tommaso, 
^'ttmwa,  I*  IP*  94,  ^  "-della  legge  naturale^  e  al- 
trove). Se  si  vuol  dunque,  commentando  questo 
luogo  di  Dante,  andare  al  fondo,  non  bisogna 
contentarsi  di  rendere  il  raccogliersi  per  concen- 
trarsi, ma  bisogna  di  più  ridurre  lo  stesso  concen- 
trarsi al  suo  senso  filosofico,  il  quale  non  ci  sem- 
bra poter  esser  diverso  da  quello,  che  abbiamo 
indicato,  cavandolo  dal  valor  logico  dei  concetti, 
che  Dante  ha  espressi  nei  canti  XVII  e  XVIII 
del  Purgatorio.  Che  se  il  nostro  raccogliere  è 
dal  latino  colligere,  e  lex  è  detta,  come  pensò  Ci- 
cerone, da  eligere,  ognun  vede  la  profonda  con- 
venienza che  quel  si  raccoglia  ha  coll'ufficio,  che. 


*  Per  tutta  chiarezza  la  citazione  dovrebb'esser   così:  Prima 
secundae  S.  theol.,  quaest.  94  (G.  F.)- 


21 

giusta  la  mente  di  Dante,  noi  crediamo  di  do- 
vere attribuire  al  primitivo  e  immanente  atto 
della  parte  affettiva  dell'anima  umana.  La  in- 
terpretazione da  noi  proposta  non  oontradice 
adunque  quella  data  dal  Tommaseo,  ma,  se  non 
c'inganniamo,  la  compie,  recandola  fino  a  quel 
termine  dov'egli  avrebbe  ben  saputo  recarla,  e 
in  maniera  a  pezza  più  conveniente,  solo  che 
avesse  fatto  colla  riflessione  qualche  altro  passo 
nella  via  medesima  in  cui  si  era  posto.  ^ 

Ma  se  la  nostra  interpretazione  e  quella  di 
Tommaseo  si  possono  cosi  accordare,  è  però  vero 
che  in  ciò  che  la  nostra  piglia  a  suo  fondamento 
dal  canto  XVII  non  si  accorda  punto  colla  chio- 
sa quivi  fatta  dall'illustre  critico.  Perocché  dove 
il  poeta  dice,  che  creatura  non  vi  fu  mai  senza 
amore,  o  naturale  o  d'animo,  egli  spiega  l'uno 
per  amor  di  corpi,  l'altro  per  amor  di  spiriti  ;  noi 
al  contrario,  come  abbiamo  accennato  di  sopra, 


'  L'OzANAM,  che  alcuni  noa  sanno  stimare  senza  esagerarne 
i  meriti,  il  principale  dei  quali  per  noi  è  di  avere  coll'opera  sua 
additato  agi'  italiani  che  vi  è  un  lavoro  da  fare,  intende  ■p&s  prima 
voglia  il  primo  moto  o  dell'irascibile  o  del  concupiscibile,  che  i 
moralisti  insegaano  esser  privo  di  merito  e  di  demerito.  *  Dio  sa 
dunque  in  che  strano  modo  intendeva  a  collegare  colle  precedenti 
la  terzina  che  qvà  abbiamo  esposto. 

*  Dante  et  la  philos.  catholique  aa  XIII  siede  fParis,  1872;  pag.  207-210). 

L'Ozanam.  a  proposito  di  due  luoghi  del  Convito  (IV,  22  e  IV,  26)  commen- 
ta: «Il  y  a  trois  sortes  d'appetits.  Le  premier,  naturel,  qui  n'a  point  conscience 
de  soi,  et  qui  est  la  tendance  irrésistible  Je  tous  les  ètres  physiques  a  la  satl- 
sfactiou  de  leurs  l>esoins;  le  second,  sensitif,  qui  a  30n  mobile  externe  dans  les 
choses  sensibles,  et  qui  est  concupisaiife  ou  irciscible  tour  à  tour;  le  troisième, 
intellectuel,  dout  l'objecr.  a'est  appróciable  qu'à  la  pensée.  Ces  appótités  eux-mè- 
mes  peuvent  se  réduire  a  un  seul  principe  commun,  l'amour.  »  Ma  la  prima 
vogliu  di  questo  luogo  del  Purgatorio  è  a  lui  «  premier  acte,  instantané  et  irra- 
fléchi  »  della  virtù  speeipcu,  «dispositiou  «pécitìque,  natureUe,  qui  ne  se  révèle 
que  par  ses  eftets  »  (G.  K.) 


22 

intendiamo  pel  naturale  l'amore  istintivo,  e  per 
quello  d'animo  l'amore  deliberato.  E  ci  pare  che 
giustifichi  questo  nostro  modo  d'intendere  il 
contesto  del  canto  suddetto,  e  l' insegnamento 
comune  degli  scrittori,  da  cui  Dante  traeva,  fra 
i  quali  a  noi  basti  il  menzionare  san  Bonaven- 
tura, che  nel  Breviloquio  distingue,  appunto,  due 
guise  di  operare  delle  nostre  affezioni,  cioè  per 
un  moto  naturale  e  per  iscelta  deliberata.  Di- 
remo pertanto,  senza  timore  di  offendere  il  gran- 
d'uomo,  che  la  sua  chiosa  di  questo  sublime  luogo 
di  Dante,  il  quale  può  dirsi  in  germe  un  intero 
sistema  di  filosofia  morale,  pecca  nel  punto  di 
partenza,  non  afferrando  la  giusta  distinzione  tra 
l'amor  naturale  e  gli  amori  deliberati,  e  pecca 
nella  conclusione,  lasciando  qualche  cosa  d'in- 
determinato sulla  relazione  del  primo  verso  coi 
secondi.  Di  che  però  non  tanto  vogliam  fargli 
biasimo,  quanto  rendergli  giusta  lode  d'aver  sa- 
puto più  addentro  d'ogni  altro  vedere  nel  pen- 
siero di  Dante. 


Sopra  un  luogo  della  Cantica  del  Paradiso 


1.  Beatrice  nel  canto  XXIX  del  Paradiso^ 
narrando  filosoficamente  la  creazione  delle  cose, 
dice  degli  angeli: 

Né  giugneriesi,  numerando,  al  venti 
Si  tosto,  come  degli  angeli  parte 
Turbò  '1  subietto  de'  vostri  elementi. 

Tutti  gli  interpreti,  per  quanto  io  mi  sappia, 
per  subtetto  de^  vostri  elementi  hanno  inteso  la 
terra.  Peraltro  alcuni  hanno  inteso  la  terra  co- 
me elemento j  altri  la  terra  come  corpo.  È  de' 
primi,  per  cagion  d'esempio,  Francesco  da  Buti, 
che  spiega  la  sentenza  di  questa  terzina  colle 
seguenti  parole  :  Da  chi  numerasse  da  uno  in 
vinti  non  si  giungerebbe  sì  tosto  al  vinti,  come 
tosto  parte  delli  angeli^  poi  che  furono  creati,  in- 
contanente cadder  di  deìo  in  terra,  e  mutò  o 
vero  turbò,  secondo  altro  testo,  lo  subietto  de^ 
vostri  elementi,  cioè  di  voi   omini,  cioè   la   terra 


'  Dall'  Istitutore  :  foglio  ebdomadario  d' istruzione  e  degli  atti 
ujjicifdi  di  essa.  Torino,  tip.  scolastica  di  S.  Franco  o  figli,  1861, 
an.  IX,  n.  32  (G.  F.). 


24 

che  è  subietto  dell'acqua,  delVaere  e  del  fuoco, 
poiché  a  tutti  è  sottoposta  /  e  bene  lo  mutò  e  tur- 
bò, imperò  che  prima  era  pura,  e  poi  fu  infetta. 
(Così  il  codice  Magli abechiano).  De'  secondi  poi 
è  il  Tommaseo,  perchè  dopo  aver  dato  terra  per 
equivalente  di  subietto  de'  vostri  elementi^  ag- 
giunge questa  ragione:  La  terra  è  soggetto  dei 
quattro  elementi^  aria,  fuoco,  acqua  e  terra.  Do- 
ve è  chiaro  che  terra  la  prima  volta  significa 
il  corpo  o  globo  da  noi  abitato ,  e  la  seconda 
volta  r  infimo  de'  quattro  elementi  distinti  da- 
gli antichi.  Mi  sia  permesso  di  dire,  che  né  i 
primi  né  i  secondi  mi  paiono  aver  colpito  nel 
segno. 

2.  Il  nome  subietto  o  soggetto,  come  sostan- 
tivo, appartiene  alla  lingua  filosofica,  ed  ha  un 
senso  dialettico  ed  un  senso  metafisico.  Nel 
senso  dialettico  indica  uno  de'  termini  del  giu- 
dizio o  della  proposizione,  quello  cioè  del  quale 
l'altro,  che  chiamasi  predicato,  isi  afferma  o  si 
nega.  E  di  qui,  per  estensione,  nasce  un  altro 
senso,  esso  pure  dialettico,  quando  di  questa  voce 
si  usa  a  dinotare  ciò  su  cui  verte,  non  una  sem- 
plice proposizione,  ma  molti  ragionamenti  ordi- 
nati e  connessi,  siccome  sono  nella  scienza.  In 
metafisica  poi  subietto  ora  significa  la  causa  ef- 
ficiente di  qualche  cosa,  come  in  quel  luogo  del 
Purgatorio,  canto  XVII  : 

Or,  perchè  mai  non  può  dalla  salute 
Amor  del  suo  subietto  volger  yiso, 
Dall'odio  proprio  son  le  cose  tute; 


26 

ora  invece  significa  la  causa  materiale^  come  in 
questi  versi  del  Paradiso,  canto  II: 

Or,  come  ai  colpi  degli  caldi  rai 
Della  neve  riman  nudo  il  suggetto 
E  dal  colore  e  dal  freddo  primai,  ecc. 

E  quest'ultimo  è  il  significato,  che  io  credo 
debba  attribuirsi  alla  parola  subtetto  nella  ter- 
zina, di  cui  è  questione;  cosicché  altro  non  s'in- 
tenda aver  voluto  Dante  esprimere  in  essa,  se 
non  che  alcuni  degli  angeli,  partitisi  dal  divino 
volere,  colla  naturale  loro  potenza  indussero  di- 
sordine nella  materia  degli  elementi,  de'  quali 
è  composta  questa  parte  a  noi  destinata  del- 
l'universo. 

3.  Ciò  si  parrà  chiaro  considerando  che  il 
nostro  poeta  parla  qui  da  teologo  e  da  filosofo, 
uffici  ai  suoi  tempi  inseparati,  e  che  ne'  tempi 
posteriori,  per  grande  sventura  delle  due  scienze 
sovrane,  non  fu  stimato  assai  di  distinguere. 
Ora  che  insegna  la  teologia  a  proposito  degli 
angeli  ribelli  a  Dio?  Ella  insegna  che  ministri, 
anche  dopo  la  loro  caduta,  della  Provvidenza 
divina,  si  aggirano  in  questo  nostro  mondo,  tri- 
bolandoci non  solo  colle  malvagie  istigazioni, 
ma  eziandio  colle  tempeste,  colle  pestilenze  ed 
altri  mali  di  tal  genere.  Sono  notissimi  i  passi 
dell'epistola  di  s.  Paolo  agli  Efesini  (II,  2;  VI,  12); 
dove  cotesti  spiriti  sono  chiamati  principi  aventi 
potestà  su  quest'aria.  Ma  i  padri,  appoggiati  ad 
altre  autorità  della  scrittura  ed  ai  fatti  in  essa 


26 

raccontati,  ritennero  che  la  potestà  loro  si  esten- 
desse su  tutta,  in  generale,  la  materia  ed  i  corpi 
terrestri.  Valga,  per  ogni  altra,  la  testimonianza 
di  sant'Agostino,  lib.  II,  cap.  23,  "  De  doctnna 
Christiana  „:  Hinc  enìm  fit,  ut  occulto  quodam  iudi- 
cio  divino  cupidi  malarum  rerum  homines  tradan- 
tur  illudendi  et  decipiendi,  prò  meritis  voluntatum 
suarum,  illudentìhus  eos  atque  decipientibus preva- 
ricatoribus  angelis,  quibus  ista  mundi  pars  infima 
secundum  pulcherrimum  ordinem  rerum,  divinae 
providentiae  lege,  subiecta  est.  Ora  gli  scolastici, 
come  ognun  sa,  non  fecero  che  ripetere  le  dot- 
trine teologiche  dei  Padri,  dando  loro  una  forma 
scientifica,  secondo  i  principii  e  il  linguaggio 
della  filosofìa  aristotelica;  la  quale  per  essi,  al- 
meno per  nove  delle  dieci  parti,  era  pura  e  pret- 
ta verità.  Quindi  il  miscuglio,  che  trovasi  nei 
trattati  di  teologia  degli  scolastici,  degl'incon- 
cussi dommi  della  fede  colle  fallaci  opinioni  del- 
lo Stagirita.  Del  qual  miscuglio  n'abbiamo  un 
esempio  in  questo  stesso  argomento,  che  qui  toc- 
chiamo. 

Gl-eneralmente  gli  scolastici  dietro  ad  Aristo- 
tile pensarono  che  altra  fosse  la  materia  dei 
cieli,  altra  la  materia,  onde  è  fatto  il  mondo  sul- 
lunare;  quella  fosse  immutabile  e  incorruttibile, 
questa  soggetta  a  mutamento  e  corruzione;  pe- 
rocché, dicevano,  quella  è  in  potenza  alla  sola 
forma  che  ha,  questa,  al  contrario,  è  in  potenza 
a  molte  forme  e  diverse.  Dal  che  san  Tommaso 
di  Aquino  conchiude  che  fra  la  materia  de'  corpi 


27 

celesti  e  la  materia  degli  elementi  del  nostro 
mondo  non  vi  ha  una  comunanza  ohe  di  con- 
certo: Non  est  eadem  materia  corporis  coelestis 
et  elementorum,  nisi  secundum  analogiam,  secun- 
dum  quod  conveniunt  ratione  potentiae  (Summa, 
p.  I,  qusBst.  LXVI,  art.  2).  E  per  questo  ap- 
punto Dante,  nel  citato  canto  II  del  Paradiso, 
appella  preziosi  i  corpi  celesti. 

Ora,  che  cosa  è,  conforme  queste  dottrine  co- 
smologiche degli  scolastici,  il  subietto  degli  ele- 
menti? Il  subietto  degli  elementi  è  la  materia 
prima  del  mondo  sullunare,  subiettata  ad  una 
certa  forma,  prima  nei  corpi  semplici,  aria,  acqua, 
ecc.,  e  di  poi  nei  corpi  misti,  minerali,  piante, 
ecc.  Imperocché  gli  scolastici  per  materia  e  su- 
bietto intendevano  la  medesima  cosa  colla  sola 
differenza,  la  quale  trascuravano  ogni  volta  che 
loro  non  bisognasse  di  procedere  con  tutto  il 
rigore  dialettico,  che  il  subietto  ha  relazione 
con  una  forma  attuale,  mentre  la  materia  ha  re- 
lazione con  una  forma  potenziale.  Ista  videtur 
esse  differentia  inter  materiam  et  subiectum  (dice 
Alessandro  d'Ales,  In  Metaph.  Aristotelis,  Vili, 
13),  quia  materia  dicit  rem  suam  in  potentia  ad 
formam,  ut  transmutabilis  est  ad  ipsam  per  viam 
motus  et  fieri,'  et  ideo  quae  sine  fieri  introducun- 
tur,  non  proprie  habent  materiam  ex  qua:  subie- 
ctum autem  dicit  rem  suam  ex  hoc,  quod  substentat 
formam;  et  ideo  omne  quod  substentat  formam 
potest  vocari  subiectum,  licet  aliquo  modo  possit 
vocari  materia. 


28 

4.  Pertanto  ciò  che  Dante,  ne'  versi  rife- 
riti, chiama  il  sìibietto  de^  vostri  elementi,  corri- 
sponde a  capello,  a  ciò  che  Aristotile,  nel  libro 
II,  cap.  1,  Della  generazione  e  della  corruzione, 
chiama,  con  parole  affatto  equivalenti,  uTioxsifisvYjv 
\ìh]v.  Nel  qual  luogo,  se  il  filosofo  rigetta  l'opi- 
nione di  quelli,  che  ponevano  un  unico  subietto 
di  tutti  gli  elementi,  è  però  manifestissimo  che 
la  rigetta  solamente  in  quanto  quel  subietto  pre- 
tendevano essere  un  cotal  corpo  separabile  e 
stante  da  sé,  awjAa  xe  òv  xat  Xopiaióv.  Ed  invero, 
più  sotto,  divisando  l'ordine  delle  entità,  che  con- 
corrono a  costituire  i  corpi  primi,  ossia  gli  ele- 
menti, pone  in  primo  luogo  la  materia,  in  se- 
condo luogo  la  contrarietà  ed  in  terzo  luogo  gli 
elementi:  Ma  poiché  i  corpi  primi  son  fatti  in 
questo  modo  di  materia,  di  essi  pure  conviene  de- 
terminare qualche  cosa,  supponendo  che  una  ma- 
teria inseparabile,  ma  soggetta  a  qualità  contra- 
ria, sia  il  loro  primo  principio;  perocché  non  è  il 
calore  materia  del  freddo,  ne  il  freddo  del  ca- 
lore, ma  ciò  che  sottostà  ad  entrambi.  Laonde 
primieramente  che  il  corpo  sensibile  esista  in  po- 
tenza, è  il  principio:  di  poi  vengono  le  stesse 
qualità  contrarie,  come  il  calore  e  il  freddo:  da 
ultimo  il  fuoco  e  l'acqua  e  le  altre  cose  di  tal 
sorta.  E  questa  ò  la  costante  dottrina  degli  sco- 
lastici, e  a  tenore  di  questa  vuoisi  intendere  quel- 
lo che  Dante  accenna  del  termine  dell'azione 
perturbatrice  degli  spiriti  perversi.  Imperocché 
da  una  parte  troppo  è  inverosimile  che  egli  non 


29 

abbia  parlato  a  tenore  di  tal  dottrina,  solendo 
egli  esprimere  nei  suoi  mirabili  versi  le  dottrine 
filosofiche  della  scuola  e  colle  stesse  formole  da 
lei  celebrate:  dall'altra,  ritenuto  che  la  cosa  sia 
così,  dal  passo  controverso  esce  un  senso,  che  a 
pieno  si  accorda  coli'  insegnamento  teologico  cir- 
ca la  presente  potenza  degli  angeli  rei.  All'op- 
posto nelle  altre  due  interpretazioni  codesta  loro 
potenza  si  limita  a  capriccio  a  farsi  strumento 
dell'odio  loro  contro  Dio  e  gli  uomini  la  sola 
terra,  o  vuoi  come  elemento,  o  vuoi  come  corpo  ; 
né  si  tien  conto  del  linguaggio  filosofico  dell'au- 
tore, quanto  è  giusto  che  si  faccia,  poiché  la  pa- 
rola subietto,  mi  si  conceda  di  ripeterlo,  appar- 
tiene al  linguaggio  filosofico,  e  qui  precisamente 
al  linguaggio  metafisico,  nel  qual  linguaggio  su- 
bietto non  significò  mai,  se  la  memoria  non  mi 
fallisce,  un  ordine  di  più  cose  per  la  loro  collo- 
cazione nello  spazio,  siccome  sembra  che  vogliano 
coloro  che  hanno  subietto  de^  vostri  elementi  per 
una  perifrasi  di  terra. 

Finalmente  osserverò  che  coll'assegnare  per 
termine  all'azione  degli  spiriti  angelici  ciò  che 
di  primo  si  concepisce  ne'  corpi  come  corpi,  non 
si  attribuisce  all'Alighieri  un  pensiero  frivolo  da 
sbertarsi,  ma  degno  delle  più  serie  considera- 
zioni del  filosofo.  Il  dominio  degli  spiriti  puri 
sulle  cose  materiali,  e  l'origine  di  certe  forze, 
che  su  esse  si  manifestano,  sono  due  grandi  mi- 
steri; i  quali  forse  si  compenetrano  in  uno,  e 
quest'uno  è  riserbato   di  vedere  svelato,    quan- 


30 

to  all'intelligenza  nostra  è  possibile,  allorcliè  i 
metafìsici  s' intenderanno  un  po'  più  di  fisica  e 
i  fisici  di  metafisica  e  tutt'e  due   di  teologia. 

Pisa,  14  luglio  1861. 


L*Averroè  della  DiTina  Commedia' 


È  notissimo  che  Dante  fra  i  saggi  sospesi  nel 
primo  girone  deW  Inferno,  o  per  non  avere  ri- 
cevuto il  battesimo,  o  per  non  avere  adorato  Id- 
dio debitamente,  colloca  ancora 

Averrois,  che  il  gran  commento  feo. 

(Inf.,  o.  IV,  V.  U4). 

Ora  l'editore  pisano  delle  Lezioni  di  France- 
sco da  Buti  sulla  Divina  Commedia  a  questo  verso 
fa  la  nota  seguente:  Averrois,  sebbene  commen- 
tasse Aristotile,  professò  dottrine  opposite  al  greco 
filosofo;  onde  i  commenti  di  lui  non  furono  in 
molto  credito  appo  degV  Italiani.  Qui  dunque  "  il 
gran  commento  „  potrebb' esser  anche  detto  con  iro- 
nia (T.  I,  pag.  141).  Noi  non  possiamo  pregiare 
la  novità  di  questa  osservazione,  perchè  ci  sem- 
bra mancare  affatto  di  verità.  E  non  intendiamo 
come  il  benemerito  editore  non  si  sia  accorto  di 
un  difetto  sì  grave,  quando  lo  stesso  contesto 
assai  chiaramente  esclude  il  disprezzo  e  lo  scherno 
dell'ironico  parlare.     Invero,  dopo  aver  detto  il 


'  DaUe  Letture  di  famiglia,  tomo  III,  decade  seconda  (G.  F.). 


32 

nostro  poet<a  com'egli,  guidato  da  Virgilio,  avesse 
trovato  in  quel  suo  limbo  Omero,  Orazio,  Ovi- 
dio e  Lucano,  e  come  tutt' insieme  si  fosser  mossi 
alla  volta  di  un  nobile  castello, 

Sette  volte  cerchiato  d'alte  mura, 
Difeso  intorno  d'un  bel  fiumicello, 

prosegue  il  racconto  cosi: 

Questo  passammo  come  terra  dura: 
Per  sette  porte  entrai  con  questi  savi: 
Giugnemmo  in  prato  di  fresca  'verdura. 

Quali  genti  abitavano  un  luogo  così  distinto* 
Di  cbe  condizione  erano  e  di  che  stima  degne? 
Quali  sentimenti  suscitò  la  lor  vista  nel  petto 
dell'Alighieri?  Ecco  com'egli  esprime  tutto  ciò: 

Genti  v'eran  con  occhi   tardi  e  gravi, 
Di  grand'autorità  ne'  lor  sembianti, 
Parlavan  rado  con  voci  soavi. 

Traemmoci  cosi  dall'un  de'  canti 
In  loco  aperto,  luminoso  ed  alto. 
Si  che  veder  si  potean  tutti  quanti. 

Colà,  diritto  sopra  il  verde  smalto, 
Mi  fur  mostrati  li  spiriti  magni, 
Che  di  vederli  in  me  stesso  n'esalto. 

E  qui  incomincia  a  enumerare  questi  spiriti  ma- 
gni, e,  fatta  menzione  di  molti,  non  potendo  ri- 
trarre a  pieno  di  tutti,  chiude  la  sua  enumera- 
zione con 

Averrois,  che  il  gran  commento  feo. 

Chi  non  vede  che  tutta  l'orditura  della  narra- 
zione vieta  di  pensare  che  in  tali  parole  si  con- 
tenga un'ironia?  Poteva  senza  dubbio  il  poeta 
notar  di  biasimo  qualunque  di  quei  personaggi, 


33 

che  gli  fosse  parato  meritarlo  :  e  un  biasimo  ge- 
nerale per  tutti  è  contenuto  nella  stessa  finzione 
che  sieno  dannati  a  vivere  eternamente  senza 
speme  in  desio:  ma  volendo  egli  a  questo  ag- 
giungerne uno  particolare  per  qualcheduno  di 
loro,  la  ragione  dell'arte  richiedeva  che  ciò  fa- 
cesse o  senza  veli  di  parlar  figurato,  o  con  veli 
così  trasparenti,  che  lasciassero  tosto  intendere 
a  che  mirassero  le  sue  parole.  Imperocché  al- 
trimenti la  mente  del  lettore,  quasi  rapita  oltre 
dalla  corrente  del  contesto,  non  avrebbe  potuto 
soffermarsi  a  considerare  nulla  di  specialmente 
riprovevole  in  quei  personaggi;  anzi  non  ne 
avrebbe  potuto  concepire  nemmeno  il  più  leg- 
gero sospetto.  Ora  questo  sarebbe  stato  un  pec- 
cato contro  una  delle  regole  supreme  dell'arte, 
la  chiarezza;  la  quale  è  di  tanta  importanza,  che 
dove  manchi  al  parlare,  questo  non  vai  nulla 
più  del  tacere,  e  sotto  un  aspetto  può  dirsi  che 
valga  anco  meno.  Adunque,  incontrandosi  in 
questo  passo  dell'  Inferno  delle  parole  di  lode  per 
alcuno  dei  grandi  uomini  quivi  nominati,  non 
devono  intendersi  dette  se  non  seriamente  e  col 
proposito  di  rilevare  un  suo  merito  :  e  però  come 
si  prende  a  questo  modo  il  titolo  di  maestro  di 
color  che  sanno,  che  vi  è  dato  ad  Aristotile;  cosi 
conviene  che  si  prenda  al  modo  stesso  il  gran 
commento,  che  vi  è  ricordato,  dell'arabo  filosofo, 
cioè  per  cagione  di  onore  e  non  di  vituperio. 

E  che  la  cosa  sia  cosi,  si  conferma  ancora  dal 
gran  conto,  in  cui  altrove   l'Alighieri   dimostra 


34 

di  tenere  questo  filosofo.  Egli  ne  riporta  le  sen- 
tenze a  conforto  delle  proprie  nel  lib.  I  De  Mo- 
narchia, e  nel  Tratt.  IV  del  Convito  :  e  là  pure, 
dove  per  amore  del  vero,  norma  sovrana  d'ogni 
suo  detto,  gli  è  forza  di  contraddirgli,  lo  fa  con 
bella  libertà  di  filosofo,  ma  lo  fa  insieme  con 
tali  parole,  che  danno  a  vedere  com'egli,  appunto 
perchè  filosofo,  sa  accoppiare  nell'animo  suo  la 
riprovazione  dell'errore,  di  cui  quell'arabo  si  era 
fatto  maestro,  alla  venerazione  ed  alla  gratitu- 
dine che,  si  era  meritata,  illustrando  con  faticoso 
commento,  meglio  che  per  lui  si  fosse  potuto,  le 
opere  dello  Stagirita.  Infatti  si  osservi  in  qual 
maniera  Dante  ne  parli  nel  e.  XXV  del  Pur- 
gatorio. Stazio  aveva  preso  a  spiegare  al  nostro 
poeta  il  mistero  della  umana  generazione,  ed 
esposto,  come,  secondo  lui,  si  formi  la  parte  ani- 
male del  feto,  a  un  tratto  si  arresta;  e  per  rav- 
vivare l'attenzione  dell'Alighieri  e  fargli  acco- 
gliere ciò  che  gli  rimane  a  dire  della  formazione 
della  parte  razionale,  con  quell'apprezzamento, 
che  rispondesse  alla  difficoltà  e  all'importanza 
della  cosa,  esce  in  queste  parole: 

Ma  come  d'animai  divenga  fante 

Non  vedi  tu  ancor:  quest'è  tal  punto, 
Che  più  savio  di  te  fé'  già  errante.  ' 


•  Francesco  da  Buti  commenta  cosi  questo  verso:  "Che,  cioè 
lo  quale  punto,  più  savio  di  te,  cioè  lo  filosofo  Averrois,  o  vero 
alcuno  altro  filosofo  più  savio  di  te  Dante,/*'  già  errante,  cioè  fece 
errare  „.  L'editore  pisano  invece  di  Averrois  pone  aiictoris.  Dato 
anche  ohe  cosi  stia  scritto  nei  due  codici  Magliabecliiano  e  Riccar- 
diano,  dond'è  tratta  la  copia,  che  ha  servito  alla  pubblicazione  delle 


35 

Si  che  per  sua  dottrina  fé  disgiunta 
Dall'anima  il  possibile  intelletto, 
Perchè  da  lui  non  viddo  organo  assunto. 

Apri  alla  verità  che  viene,  il  petto,  ecc. 

Si  badi  alla  forza  di  quel  più  savio  di  te 
messo  in  bocca  di  Stazio,  il  quale  già  doveva 
aver  posto  il  suo  affetto  nell'Alighieri  e  conce- 
pito di  lui  un'alta  opinione,  avendogli  detto  Vir- 
gilio che  anch'egli  professava  poesia  (e.  XXI),  e 
avendo  visto  in  che  onore  era  avuto  per  le  sue 
nìwve  rime  da'  poeti  contemporanei  (e.  XXIV), 
e  si  parrà  chiarissimo  quello  che  noi  abbiamo 
affermato  de'  sentimenti  di  Dante  a  riguardo  di 
Averroè.  E  chi  un  poco  conosce  la  storia  della 
Filosofia,  sa  che  questi  sentimenti  a  riguardo  di 
Averroè,  come  commentatore  delle  dottrine  ari- 
stoteliche, non  furono  di  Dante  solo,  o  di  po- 
chi; ma  universali  posson  dirsi  nella  Europa 
uscente  dalla  barbarie  dell'età  di  mezzo.  Gli 
scrittori  dei  secoli  XIII  e  XIV,  come  solevano, 
citando  Aristotile,  dire  il  filosofo,  cosi  solevano 
dire  il  commentatore,  citando  Averroè.  Queste 
sole  antonomasie  comuni  basterebbero  a  provare 
la  rinomanza  e  l'autorità,  di  cui  allora  godettero 
ambedue  questi  scrittori.  Lo  stesso  S.  Tom- 
maso di  Aquino,  che  torse  le  armi  della  sua  po- 


lozioni  del  buon  Batese,  ci  pare  ohe  si  sarebbe  dovuto  correggere 
il  manifestissimo  errore  degli  antichi  amanuensi:  e  questo  vo- 
gliamo aver  detto  ancora  per  molti  altri  luoghi,  dove  la  diligenza 
dell'editore,  essendo  scompagnata  dalla  critica,  ci  pare  che  dege- 
neri in  una  cotale  idolatria  di  ciò  che  non  ha  altro  pregio,  che  di 
esser  stato  messo  sulla  carta  un  400  d'anni  fa. 


36 

tente  dialettica  contro  il  domma  averroistico  della 
unicità  dell'intelletto  negli  uomini,  come  contro 
il  massimo  e  più  pernicioso  errore  del  suo  tempo, 
in  altre  questioni  allega  i  detti  di  Averroè,  non 
escluse  le  questioni  della  più  elevata  Teologia. 
Anzi  Tolomeo  da  Lucca  afferma  che  da  Averroè 
aveva  appreso  il  S.  Dottore  quel  nuovo  e  sin- 
goiar modo  di  spiegare  Aristotile,  che  lo  loda 
di  avere  adoperato  a  Roma  sotto  il  pontificato 
di  Urbano  lY,  che  là  l'aveva  chiamato  a  que- 
st'uopo (MuBATORi,  Ber.  Ital.  Script.,  voi.  XI, 
col.  1153).  Ben  presto  poi  la  stima  e  la  rive- 
renza verso  il  grande  commentatore  in  molti  si 
mutò  in  una  specie  di  superstizione  :  e  questa 
superstizione  durò  si  lungamente,  che  ancora  nel 
secolo  XVI  troviamo  che  Giovan  Lodovico  Vi- 
ves  lamenta  che  egli  sia  pareggiato  ad  Aristo- 
tile ed  anteposto  al  Dottore  di  Aquino  (De  causis 
corrupt.  artium,  lib.  V):  e  Melchior  Cano  attesta 
di  più  di  aver  conosciuto  egli  stesso  una  molti- 
tudine di  teologi  così  impazzati,  qui  Philoso- 
phiam  Evangeliis  praeferunt,  quibus  Averrois 
Paulus  est,  Alexander  Aphrodisaeus  Petrus,  Ari- 
stoteles  Christus,  Plato  non  divinus  sed  Deus  (De 
loc.  theol.,  lib.  IX,  cap.  IX).  Né  di  tali  deliranti 
fu  scarso  il  numero  neppure  nell'Italia  nostra; 
che  anzi,  dice  quell'illustre  prelato,  che  i  più 
erano  Italiani,  in  Italia  praesertim  (loc.  cit.). 
E  il  male  era  di  origine  tutt'altro  che  recente. 
Imperocché,  vivente  il  Petrarca,  com'esso  ci  fa 
sapere  nelle  lettere  intorno  alle  cose  senili,  gli 


37 

averroisti  già  si  erano  moltiplicati  tanto  fra  noi, 
che  li  paragona  ad  un  formicaio  :  Surgiint  his 
diebus  dialectici,  non  ignari  tantum,  sed  insani  ; 
et  quasi  formicarum  nigra  acies  nescio  cuius 
cariosae  quercus  e  lateribus  erumpunt,  omnia  doc- 
trinae  melioris  arva  vastantes  (Ep.  Rer.  Seuil., 
lib.  V,  ep.  III).  E  nelle  lettere  senza  titolo  ve 
n'ha  una  ad  un  giovane  di  belle  speranze,  cui 
egli  ama  singolarmente,  nella  quale,  dopo  averlo 
esortato  con  calde  parole  a  coltivare  la  mente 
e  l'animo:  Extremum  quaeso,  gli  dice,  ut  cum 
primum  perceneris  quo  suspiras,  quod  cito  fore 
confido,  contra  canem  illum  rahidum  Averroim, 
qui  furore  actus  infando  contra  dominum  suum 
Christum,  contra  cathoUcam  fidem  latrat,  collectis 
undique  hlasphemiis  ejus,  quod  ut  scis  jam  coe- 
peramus,  sed  me  ingens  semper,  et  nunc  solito 
major  occupatio,  nec  minor  temporis  quam  scien- 
tiae  retraxit  inopia,  totis  ingenii  viribus  ac  ner- 
vis  incujnbens,  rem  a  multis  magnis  viris  impie 
neglectanij  opusculum  unum  scribas,  et  m,ihi  illud 
inscribas,  seu  tunc  vivus  ero,  seu  interim  obiero 
(Ep.  sine  titulo,  ep.  XVIII).  Dai  quali  passi  del 
Petrarca  e  da  altri,  che  tralasciamo  per  brevità, 
si  comprende  che  sin  d'allora  non  solo  si  era 
incominciato  ad  apprezzar  più  del  giusto  i  la- 
vori dell'arabo  filosofo,  che  aveano  per  iscopo 
di  facilitare  l'intelligenza  delle  dottrine  di  Ari- 
stotile, ma  di  più  s'era  incominciato  a  far  buon 
viso  agli  stessi  errori  di  lui  in  materia  di  fede, 
o  meglio  già  numerosi  i  seguaci  di  questi  errori 


38 

andavano  attorno  per  pervertire  le  menti,  sber. 
tando  la  cristiana  religione  come  una  goffaggine 
da  gente  grossolana.  Questo  accadeva  in  Italia 
quando  era  forse  più  di  un  secolo  da  che  vi 
correvano  per  le  mani  degli  studiosi  alcuni  scritti 
di  Averroè  ;  giacché  ci  sembra  probabile  la  con- 
gettura del  signor  Renan,  '  che  alcuni  scritti  di 
Averroè  insieme  con  altri  di  i^ristotile,  voltati 
gli  uni  e  gli  altri  in  latino  da  Michele  Scoto,  si 
contenessero  in  quel  pacco  filosofico,  che  Pier 
delle  Vigne  mandò  alle  Università  Italiane,  d'or- 
dine di  Federigo  II,  nella  prima  metà  del  XIII 
secolo  (Vedasi,  nel  lib.  Ili  delle  Epistole  di  Pier 
delle  Vigne,  i'epist.  LXTX).  Il  dono  di  questo 
strano  principe  di  casa  Svevia  fu  accolto  con 
grato  animo  ;  l'aristotelismo  e  dietro  a  lui  l'aver- 
roismo presto  s'  insignorirono  delle  nostre  scuole: 
a  Napoli,  a  Bologna,  a  Ferrara,  e  massimamente 
a  Padova,  i  commenti  d'Averroè  sul  testo  di 
Aristotile  presto  divennero  come  il  testo  di  al- 
tri commenti,  che  talora  mettevano  a  pericoloso 
contrasto  la  ragione  e  la  fede  degli  affollati  udi- 
tori. Che  maraviglia  che  coll'andar  del  tempo 
in  molti  la  fede  soccombesse,  e  la  ragione  si 
mettesse  poi  a  cercare  fuor  di  loro  delle  nuove 
vittorie?  E  che  maraviglia  che  i  guasti,  che  me- 
nava l'averroismo,  si  accrescessero  tanto,  che  la 


'  Averroes etl'Averro'isme:  essai  Mstorique,  pag.  161,  165.  Nello 
scrivere  questa  pagina  di  storia  noi  ci  siamo  giovati  principal- 
mente di  questa  ricca  raccolta  di  notizie  sn  Avorroè  e  l'aver- 
roismo. 


39 

Chiesa  ne  fosse  commossa,  e  a  cessarli  soleime- 
merxte  da  ultimo  li  condannasse  in  un  concilio 
ecumenico,  come  fece  sul  principio  del  pontifi- 
cato di  Leone  X?  Mal  si  appone  dunque  l'edi- 
tore pisano  anche  allora  che  assevera  i  com- 
menti di  Averroè  non  essere  stati  in  molto  cre- 
dito appo  degl'Italiani. 

Egli  poi  dà  per  ragione  di  questo  fatto  im- 
maginario l'avere  Averroè  professato  dottrine  op- 
posite  a  quelle  di  Aristotile,  sebbene  desse  vista 
di  non  far  altro  che  l'espositore  di  esse.  Il  fatto 
vero,  giusta  quello  che  abbiamo  esposto  di  so- 
pra, è  che  fra  gl'Italiani  ci  furono  pure  gli 
assennati,  che  non  trasmodarono  nel  pregiare 
Averroè,  e  che  si  studiarono  di  vantaggiare  il 
loro  sapere  coi  lavori  di  lui,  prendendone  quel 
che  credevano  buono  e  rifiutandone  quel  che 
credevano  cattivo.  Ora  con  che  criterio  face- 
vano essi  questa  cerna?  Era  la  relazione  di 
conformità  o  di  difformità  dei  detti  di  Averroè 
rispetto  a  quelli  di  Aristotile,  che  acquietava  la 
loro  ragione  in  questi  giudizj?  Certo  eglino  ve- 
neravano grandemente  Aristotile  e  per  poco  lo 
tenevano  per  la  voce  della  stessa  Filosofia.  Quindi, 
nel  combattere  le  dottrine  averroistiche,  s'inge- 
gnavano di  mostrare  che  erano  sovversive  delle 
dottrine  aristoteliche,  si  ccomepuò  vedersi  nel- 
l'opuscolo XVI  (XXV)  di  San  Tommaso  di  Aqui- 
no, De  unitate  intellectus  cantra  Averrhoistas,  dove 
per  primo  il  Santo  dottore  si  fa  a  provare  posi- 
tionem  praedictam  (de   unitate    intellectusj  emft 


40 

( Arisfcotelis)  verbis  et  sententiae  repugnare  omnino. 
Ma:  1",  Aristotile  poteva  essere  interpetrato  di- 
versamente, e  infatti  diversamente  lo  interpe- 
travano  gli  avversarli,  i  quali  avevano  pure  la 
pretensione  di  esser  dalla  sua;  2°,  l'autorità  di 
Aristotile  ad  ogni  modo  non  era  un  principio 
atto  a  finire  il  piato,  perchè  egli  poteva  essersi 
ingannato  sul  punto  in  questione,  come  si  rico- 
nosceva e  confessava  che  si  fosse  ingannato  su 
certi  altri.  Il  piato  non  poteva  esser  finito  che 
o  per  rationes,  o  per  documenta  /idei,  secondo 
che  la  cosa  era  discussa  o  sul  terreno  della  Fi- 
losofia 0  su  quello  della  Teologia.  E  cosi  in- 
fatti adopera  l'Aquinate  nell'opuscolo  ricordato  ; 
che,  dopo  avere  opposto  agli  Averroisti  varie 
sentenze  dello  Stagirita  e  dei  suoi  seguaci  si 
greci  come  arabi,  avverte  di  aver  tenuto  questa 
via,  7ion  quasi  volentes  ex  philosophorum  aucto- 
ritatibus  reprobare  supra  positum  errorem,  sed  ut 
ostendamus  quod  non  solum  latini,  quorum  verba 
quibusdam  non  sapiunt  (ecco  i  fanatici  delle  dot- 
trine aristoteliche  manipolate  dagli  Arabi),  sed 
et  graeci  et  arabes  hoc  senserunt,  quod  intellectus 
sit  pars,  vel  potentia,  sive  virtus  animae,  quae 
est  corporis  forma.  Ma,  pervenuto  a  questo  pun- 
to del  suo  esame,  tutt'altro  egli  pensa  che  di 
averlo  compito  :  egli  scrive  presso  a  poco  altret- 
tante pagine  ancora,  investigando  per  rationes 
quid  circa  hoc  sentire  sit  necesse,  e  con  questa 
investigazione,  nella  quale  spiega  tutta  la  po- 
tenza della  sua  mente,  pon  termine  all'opuscolo. 


41 

La  ragione  principale  adunque  di  resistere  al- 
l'autorità di  Averroè,  in  coloro  che  non  lo  se- 
guitavano alla  cieca,  ma  prima  di  seguitarlo  vo- 
lean  sapere,  e  con  ragione,  dove  li  conducesse, 
non  era  l'opposizione  dei  suoi  insegnamenti  agli 
insegnamenti  di  Aristotile,  sì  la  loro  opposizione 
0  ai  principj  razionali  o  ai  dommi  rivelati. 

Finalmente  l'editore  pisano  pronunzia,  ci  pare, 
troppo  recisamente  sulla  relazione  fra  la  filosofia 
aristotelica  e  l'averroistica.  Aristotile,  come  si 
sa,  nel  oap.  V  del  lib.  Ili  DelVanima,  distin- 
crue  due  intelletti  :  l' uno  che  si  fa  tutte  le 
cose,  l'altro  che  fa  tutte  le  cose.  Questa  dot- 
trina è  stata  interpe irata  in  differenti  manie- 
re. Alessandro  di  Afrodisia  ha  detto  che  l'in- 
telletto che  fa  tutte  le  cose,  o  agente,  è  Dio; 
e  cosi  nelle  sue  mani  la  dottrina  di  Aristotile 
sulla  umana  cognizione  s'identifica  in  sostanza 
con  quella  del  nostro  Vico.  È  chiaro  che,  se- 
condo questa  dottrina,  l' intelletto  agente  è  uno 
solo  per  tutti  gli  uomini,  anzi  per  tutti  gl'in- 
telligenti. Averroè  invece  sostiene  l'unità  del- 
l'intelletto, che  si  fa  tutte  le  cose,  o  possibile,  o 
anche  passivo.  Ma  queste  due  espressioni,  che 
i  commentatori  prendono  come  sinonime,  po- 
trebbero esser  prese  anche  per  eteronime.  Im- 
perocché veramente  in  questo  famoso  capitolo 
da  prima  s'incontra  l'intelletto  possibile,  prima 
generalmente  indicato  colle  parole  :  touto  5è  ó 
;ràvTa  O'jvocjas'.  èxetva,  e  di  poi  specialmente  colle 
parole  :  voO?  xw  xàvia  ytveaS-a'.,  e  l' intelletto  agente 


42 

del  pari  prima  colle  parole  étepov  oè  xò  al'T'.ov 
xaì  7io:Y]Ttxòv,  xò)  Ttcerv  Tcàvxa,  ecc.,  e  di  poi  colle 
parole  :  ó  Ss  xw  Travxa  7ro',£tv,  o)?  e  ^i?  xt,?,  ecc.  E 
dopo  avere  toccate  le  nobili  proprietà  di  que- 
st'ultimo, fra  le  quali,  che  è  libero  d'ogni  pas- 
sione, nomina  sulla  fine  del  capitolo  un  intelletto 
paziente,  clie,  a  differenza  àoiVagente,  dice  che 
perisce  e  non  intende  che  per  esso  :  ó  5é  uatì-yjx'.xòc 
voùS  cpQ-apxo?,  xat  (2v£'j  xoOxou  o\ì%'h  voti.  Ora,  pren- 
dendo l'intelletto  paziente  per  una  cosa  distinta 
dall'intelletto  possibile,  siccome  fa  il  Rosmini 
(Y.  Aristotile  esposto  ed  esaminato^  pag.  616  e 
segg.),  di  guisa  che  per  il  primo  s'intenda  un 
oggetto  indeterminato  del  pensiero,  in  quanto  è 
determinabile  in  tutti  i  possibili  modi;  e  perii 
secondo  il  soggetto  stesso  pensante  questi  vari 
modi  della  sua  determinazione  (in  quanto  lo 
pensa  senza  tali  modi  e  nella  sua  semplicità,  se- 
condo questa  interpetrazione,  sarebbe  esso  stesso 
l'intelletto  agente,  almeno  in  senso  soggettivo); 
l'affermare  uno  l'intelletto  paziente  sarebbe  con- 
tro la  mente  d'Aristotile  e  contro  la  verità,  ma 
non  punto  l'affermare  uno  l' intelletto  possibile. 
Noi  non  pretendiamo  sostenere,  che  l'arabo  com- 
mentatore abbia  analizzato  ed  inteso  precisa- 
mente in  questo  modo  il  testo  aristotelico;  ma, 
sapendo  che  l'errore  suol  nascere  da  una  imper- 
fetta veduta  della  verità,  che  lascia  luogo  ad 
una  esagerazione  o  nell'affermare  o  nel  negare, 
opiniamo  ohe  ad  Averroè,  meditando  sulle  pa- 
role di  Aristotile,  qualche  raggio  risplendesse  di 


43 

quella  verità,  cou  cui  tende  ad  accordare  le  pa- 
role di  Aristotile  l'accennata  interpetrazione  del 
Rosmini  :  quindi  la  famosa  tesi  della  unità  del- 
l' intelletto  e  l'ostinazione  in  mantenerla.  E  ci 
sia  permesso  di  aggiungere  ancora  che,  se  le  di- 
sputazioni  de'  buoni  scolastici  poco  profittarono 
agli  Averroisti,  crediamo  di  non  andare  errati 
riputandolo  pure  all'  imperfetta  analisi,  che  quelli 
facevano  del  fatto  dell'umana  conoscenza.  Con- 
cedevano agli  averroisti  che  est  unum  quod  in- 
telligitur  a  me  et  a  te,  l'essenza  o  quiddità  delle 
cose;  ma  s'affrettavano  ad  aggiungere  sed  alio 
intelligitur  a  me,  et  alio  a  te,  idest  alia  specie 
intelligibili  (San  Tommaso  di  Aquino,  opusc.  cit.). 
Or  questa  specie  intelligibile  che  era?  Nient'al- 
tro  che  una  finzione  della  mente  non  pervenuta 
ancora  a  sciogliere  il  fatto  della  cognizione  uma- 
na nei  suoi  veri  elementi,  una  bastarda  entità 
in  parte  subiettiva  e  in  parte  obiettiva  ;  '  peroc- 
ché specie  intelligibile  non  vuol  dire  per  loro  ne 
l'essenza  intesa  puramente,  né  puramente  Vatto 
d'intenderla,  ma  un  che  di  mezzo,  che  parteci- 
passe d'ambedue,  cioè  l'essenza  intesa  unita  al- 
l'atto d'intenderla,  o  questo  unito  a  quella.  In 
tal  modo,  tenendo    unito    quello  che  dall'analisi 


'  Per  esempio  in  quanto  era  obiettiva  predicavano  di  lei  l'ìini- 
versalltà,  e  in  quanto  era  subiettiva  l'essere  dell'accidente  ;  e  cosi 
si  trovavano  costretti  a  dire  che  i'universale  non  è  che  un  acci- 
dente dell'anima,  od  altro  simili  cose,  che  dimostrano  quanto  sia 
facile  anche  a'  migliori  pensatori  lo  scambiare  l'elovarsi  sopra 
il  senso  comune,  studio  del  filnsofù,  coli' opporsi  al  senso  comune, 
arte  del  sofista. 


44 

doveva  esser  diviso,  impedivano  a  sé  stessi  la 
piena  e  chiara  vista  del  vero,  e  agli  avversari 
lasciavano  sempre  in  mano  qualche  arma  per 
tornare  all'assalto.  Ma  di  questo  ora  a  bastanza, 
E  tornando  al  primo  proposito  concludiamo  og- 
gimai,  poiché  ci  sembra  di  poterlo  fare,  l'Aver- 
roè  della  Divina  Commedia  essere  un  personag- 
gio onorando  per  i  grandi  servigi  da  lui  renduti 
alla  Filosofia,  commentando  le  opere  del  maestro 
di  color  che  sanno,  sebbene  anch'egli  abbia  er- 
rato in  qualche  passo  più  difficile  della  scienza. 
E  poi  concludiamo  ancora,  senza  disprezzare  le 
fatiche  di  nessuno,  neppur  quelle  che  altro  per 
avventura  non  mostrassero  che  buon  volere,  l'uf- 
ficio d'illustrare  la  Divina  Commedia  essere  uno 
dei  più  difficili  dell'uomo  di  lettere,  perchè  non 
v'ha  forse  altro  libro,  che  per  essere  debitamente 
illustrato  richieda  maggior  suppellettile  di  sva- 
riate cognizioni  ed  uso  di  critica  insieme  sa- 
gace e  temperante. 

Pisa,  18  agosto  1861. 


Alcune  osservazioni 
sulla  Fortuna  di   Dante' 


1.  La  personificazione,  che  Dante  fa  della  For- 
tuna nel  canto  VII  àoiìVInferno,  è  uno  dei  be' 
passi  di  questa  Cantica,  nei  quali  più  debba  es- 
sere ammirato  il  nostro  grande  poeta.  Gli  ele- 
menti di  questa  personificazione  son  tratti  da 
lui  in  parte  dalla  religione,  in  parte  dalla  sto- 
ria e  in  parte  dalla  cosmologia  ;  ma  gli  elementi 
religiosi  principalmente,  non  difettosi  come  gli 
storici,  né  falsi  come  i  cosmologici,  di  cui  si  servi, 
danno  pregio  all'opera  della  sua  immaginativa. 
Quanta  differenza  tra  la  Fortuna  della  mitologia 
greca  e  romana,  e  la  Fortuna  della  Divina  Com- 
media !  Quella,  come  dice  Pacuvio  presso  l'Au- 
tore de'  Retorici  ad  Erennio,  lib.  II, 

.  .  .  tnsanam  esse  et  caecam  et  hrutam  perJiibent  philosophi, 
Saxoque  illam  instare  globoso  praedicant  volubilem; 
Ideo  quo  sajMin  hnpulerit  sors,  cadere  eo  fortunam  autamant. 
Caecam  ob  eam  rem  esse  iterant,  quia  nihil  cernat  quo  sese  ap- 

plicet  : 

'  Dall'Araldo  cattolico,  Lucca,  1862,  anno  XIX,  nuova  serie, 
n."ll  (G.  P.). 


46 

Insanam  autem  ajunt,  quia  alrox,  incerta,  instabilisque  sit: 
Brutam,  quia  dignum  atquc  indigntim  neqneat   internoscere. 

La  Fortuna  dell'Alighieri  all'opposto  è  una 
di  quelle  nobilissime  sussistenze,  in  cui  Dio  per 
sua  bontà  adunò  il  suo  raggiare  quasi  come  in 
i specchio  (Farad.,  e.  XIII)  ;  è  uno  di  quegli  elet- 
ti amori ,  in  cui  piacque  all'  eterno  Amore  di 
aprirsi,  e  ne  fece  la  cima  del  mondo,  non  avendo 
prodotto  in  essi  che  puro  atto  (Ih.,  e.  XXIX); 
insomma  è  un  angelo,  che,  secondo  una  legge 
datagli  dalla  sapienza  divina,  presiede  ai  beni 
caduchi  della  terra,  e  li  concede,  li  ritoglie,  li 
permuta  di  uomo  in  uomo,  di  famiglia  in  fami- 
glia, di  popolo  in  popolo.  Ma  udiamo  dalla  boc- 
ca stessa  dell'Alighieri  chi  sia  e  a  qual  ufficio 
destinata  la  Fortuna: 

Colui,  Io  cui  sajDer  tutto  trascende, 
Fece  li  cieli  e  die  lor  chi  conduce, 
Si  ch'ogni  parte  ad  ogni  parte  splende, 

Distribuendo  igualmente  la  luce: 
Similemente  al  li  spender  mondani 
Ordinò  general  ministra  e  duce, 

Che  permutasse  a  tempo  li  ben  vani 
Di  gente  in  gente,  e  d'uno  in  altro  sangue, 
Oltre  la  difension  de'  senni  umani. 

Perchè  una  gente  impera  e  l'altra  langue 
Seguendo  lo  judicio  di  costei. 
Che  v'è  occulto,  come  in  erba  l'angue. 

Vostro  saver  non  ha  contrasto  a  lei: 
Questa  provvede,  giudica  e  persegue 
Suo  regno,  come  il  loro  li  altri  dei. 

Le  sue  permutazion  non  hanno  triegue: 
Necessità  la  fa  esser  veloce. 
Si  spesso  vien  che  vicenda  consegue. 

Questa  è  colei  che  tanto  è  posta  in  croce 


47 

Pur  da  color,  che  le  dovrian  dar  lode, 
Dandole  biasiuo  a  torto  e  inaia  voce. 
Ma  olla  s'è  beata  e  ciò  non  ode  : 
Con  l'altre  prime  creature  lieta 
Volge  sua  spera  e  beata  si  gode. 

Questo  contrapposto  fra  l'arrabattarsi  e  lo 
schiamazzare  degli  uomini  contro  la  Fortuna,  per 
solito  tanto  più  scontenti  quanto  più  favoriti,  e 
l' impertubabil  quiete,  onde  ella  lascia  che  sfo- 
ghino le  insane  loro  ire,  e 

Con  l'altre  prime  creature  lieta 
Volge  sua  spera  e  beata  si  gode; 

è  come  una  cotal  moralità  della  favola,  che  la 
compie  in  modo  inaspettato  :  e  i  be'  versi,  che 
l'esprimono,  sono  con  altri  pochi  di  questa  Can- 
tica un'anticipazione,  per  dir  cosi,  di  quel  nuovo 
modo  di  poesia  tutta  gentile  e  soave,  che  l'Ali- 
ghieri riserbava  all'altre  due  Cantiche:  ingegno 
ammirabile  anche  per  questo  magistero  di  va- 
riare lingua  e  armonia  secondo  la  varietà  da' 
subietti.  Se  non  che  non  è  nostro  intendimento 
di  fare  una  disamina  estetica  di  questo  luogo 
àeìV Inferno;  ma  solo  di  provarci  a  renderne  i 
sensi  più  chiari  ed  aperti,  e  a  farne  precipua- 
mente rilevare  il  pregio,  considerandolo  in  or- 
dine alla  Filosofia  della  Storia.  Ripigliamo  adun- 
que da  capo  la  riferita  descrizione,  e  a  parte  a 
parte  illustriamola,  come  per  noi  meglio  si  possa. 

2,  Colui,  lo  cui  saper  tutto  trascende. 

È  manifesto    che    qui  si  vuole   indicare   per 
perifrasi   Iddio.     Ma   perchè   si   dice   che  il  suo 


48 

saper  tutto  trascende?  Quando  si  è  detto  che 
Dio  sa  tutto,  che  altro  resta  da  aggiungere  per 
esprimer  l'ampiezza  della  scienza  divina?  Se  fuor 
di  tutto  non  c'è  nulla,  e  solo  il  qualche  cosa 
può  esser  oggetto  del  sapere,  il  dire  che  il  sa- 
per di  Dio  trascende  tutto,  non  equivale  a  dire 
che  la  scienza  divina  abbraccia  quel  che  è  pos- 
sibile e  quel  che  è  impossibile  sapere?  Questa 
scempiaggine  non  si  può  attribuire  a  Dante: 
dunque  bisogna  dare  al  tutto  un  altro  significato 
non  assoluto,  ma  relativo,  sicché  non  importi 
se  non  il  complesso  di  tutte  quelle  cose,  che 
hanno  una  reale  esistenza  nell'universo.  Allora 
la  sentenza  di  questo  verso  non  è  una  scem- 
piaggine, ma  una  verità  teologica  e  filosofica  : 
ed  è  il  medesimo  che  dire,  che  Dio  conosce,  non 
solamente  tutte  quelle  cose,  che  hanno  una  esi- 
stenza reale,  ma  eziandio  tutte  quelle  che  hanno 
semplicemente  un'esistenza  ideale  o  possibile. 
E  la  sentenza  stessa,  che  esprime  la  Bibbia  con 
potente  immagine  quando  dice  di  Dio,  ch'ei  chia- 
ma del  pari  le  cose  che  sono  e  le  cose  che  non 
sono.  Ne  la  parola  tutto  nell'accennato  senso  è 
punto  una  novità.  Anche  nel  Timeo  di  Platone 
Toù  Traviò?  cpùa'-?  è  la  natura  del  mondo,  mostrata 
dal  Demiurgo  alle  anime  seminali  messe  negli 
astri  (Timeo,  p.  41,  E.).  E  Lucrezio  attribuisce 
ad  Epicuro  la  gloria  di  a\er  perlustrato  colla 
mente  e  coll'animo  om,ne  immensum,  intendendo 
cosi  significar  l'università  delle  cose  (De  Rerum 
Natura,  lib.  I). 


49 

3.  Fece  li  cieli  e  die  lor  chi  conduce. 

Si  allude  qui  alla  simultanea  creazione  dei  cieli 
e  degli  angeli,  insegnata  dalla  scuola  tomistica, 
a  cui  il  poeta  nostro  suole  aderire,  sul  fonda- 
mento e  della  Scrittura,  clie  dice  Dio  aver  creato 
tutte  cose  insieme,  e  della  ragione,  la  quale  con- 
siderando che  Nulla  pars  perfecta  est  a  suo  toto 
separata,  e  che  Angeli  sunt  qiiaedam  pars  uni- 
versi,  ne  conohiude,  che  Non  est  probabile  ut 
Deus,  cujus  per  feda  sunt  opera,  ut  dicitur  Deu- 
teron.  XXXII,  creaturam  angelicam  seorsiim  ante 
alias  creaturas  creaverit  (S.  P.  I.  quaest.  LXI, 
art.  III).  La  quale  argomentazione  è  sott'al- 
tra  forma  riprodotta  da  Dante  nel  e.  XXIX  del 
Paradiso,  considerando  cioè  i  cieli  come  capaci 
di  moto  passivo  e  gli  angeli  come  capaci  di  moto 
attivo.  Perocché  questi  cieli  capaci  di  moto 
passivo,  e  questi  angeli,  capaci  di  moto  attivo, 
sono  pur  parti  di  un  tutto  ;  di  quel  tutto,  cioè, 
in  cui  il  moto  esiste  in  atto,  e  dove  perciò  tro- 
vano gli  uni  e  gli  altri  la  loro  rispettiva  per- 
fezione. Né  è  inopportuno  forse  por  mente  an- 
cora a  questo,  che  la  frase  chi  conduce  è  atta 
per  sé  a  significare,  tanto  una  singolare  intelli- 
genza motrice  solamente,  quanto  tutte  le  intel- 
ligenze motrici  in  generale  ;  che  il  contesto,  se- 
condo che  a  noi  pare,  non  contiene  nulla,  che 
tolga  la  libertà  di  prenderla  o  nella  prima  o 
nella  seconda  significazione,  e  forse  nemmeno  il 
complesso  delle  dottrine    teologiche   sparse  dal- 


50 

FA-lighieri  nelle  diverse  sue  opere.  Prendendola 
poi  nella  prima  significazione,  chi  conduce  li  cieli 
sarebbe  una  intelligenza  creata,  siccome  tutte  le 
altre  intelligenze  motrici  dei  cieli,  ma  suprema 
nella  loro  gerarciiia  ;  la  quale  colla  sua  virtù  im- 
mediatamente moverebbe  il  primo  cielo,  e  me- 
diatamente, cioè  per  mezzo  delle  intelligenze  mo- 
trici ad  essa  subordinate,  gli  altri  cieli  inferiori. 

4.  Si,  ch'ogni  parte  ad  ogni  parte  splende 

Distribuendo  igualmente  la  luce. 

Noi  abbiamo  per  certissimo  che  questi  due 
versi  non  siano  altro  che  una  maniera  artificiosa 
di  rappresentare  il  movimento  circolare  de'  cieli, 
com'è  una  maniera  artificiosa  di  rappresentare 
il  movimento  di  un  uomo,  che  va  per  un  piano 
ascendente,  quel  famoso  verso  del  canto  I  del- 
V Inferno  :  Sì,  che  il  pie  fermo  sempre  era  il  più 
basso. 

Che  i  cieli  si  muovano  circolarmente  nel  si- 
stema astronomico,  seguitato  da  Dante,  è  fuor  di 
questione.  Quello  che  può  essere  in  questione 
si  è,  se  un  tal  moto  in  questi  versi  si  esprima  o 
no.  Per  risolverla  dunque  due  cose  sono  da  con- 
siderare: 1°,  il  valore  delle  particella  sì  che,  e 
2",  il  valor  delle  parole  ohe  vengono  dopo:  ogìii 
parte  ad  ogni  parte  splende,  Distribuendo  igual- 
m,ente  la  luce. 

Quanto  al  Sì  che  dico,  che  queste  particelle 
connettono  talmente  le  parole  seguenti  colle  an- 
tecedenti, che  queste,  esprimendo  una  causa  di 


61 

moto  (chi  conduce),  quelle  devono  esprimere  l'ef- 
fetto di  essa  causa,  cioè  il  moto  con  certa  qua- 
lità che  lo  specifichi.     Quanto  poi  bìV ogni  parte 
ad  ogni  parte  splende,  Distribuendo    igualmente 
la  luce,  dico,  che  specifica  appunto  il  moto  pro- 
dotto ne'  cieli  dalle  intelligenze  separate;  e  che 
importa  che  questo  moto  sia  circolare  e  non  al- 
tro.    Hanno    visto    ciò   quegl'interpreti,   i  quali 
hanno  inteso  che  ogni  parte  del  cielo  splenda  ad 
ogni  parte  della  terra,    per   la   rivoluzione    che 
tutti  i  cieli  compiono  continuamente  intorno  alla 
terra,  come  a  lor  centro;  ma  hanno  sbagliato,  in 
quanto  che  non  v'è  sistema  astronomico,  in  cui 
ogni   parte  del  cielo  splenda,  o  sia  visibile,   ad 
ogni  parte  della  terra.     Bisogna  dunque  riferire 
tutte  e  due  le  volte  la  parola  parte  ai  cieli,  ed 
intendere    che   gli   angeli   li   muovano  si  fatta- 
mente, che  ogni  lor  parte  risplenda  ad  ogni  lor 
parte.  Distribuendo  igualmente  la  luce.     Ora,  af- 
finchè questo  si  avveri,  è  necessario  che  i  cieli  si 
muovano  circolarmente.     Imperocché  fa  d'uopo 
rammentare  che,  secondo  i  concetti  astronomici 
del  nostro  Poeta,  il  solo  cielo    empireo  è   tutto 
luce  (Farad.,  e.  XXVIII)  :  gli  altri  ad  esso  infe- 
riori non  cosi,  ma  più  o  meno  rifulgono,  secondo 
che  sono  più  o  meno  vicini  all'empireo  (Farad., 
eie  XXVIII).     E  in  che  consiste  il  loro  splen- 
dore?    In  quello  dell'astro  o  degli  astri,  che  loro 
appartengono,  e  donde  prendono  il  nome.     Af- 
finchè dunque  ogni  parte  di  ogni  cielo  splenda, 
bisogna  che  il  corpo,  o  i  corpi  lucenti  di  ciascun 


52 

cielo  si  muovano,  occupando  successivamente  tut- 
te le  parti  di  esso  ;  ed  affinchè  ogni  parte  di  ogni 
cielo  splenda  ad  ogni  parte  di  ogni  cielo,  bisogna 
che  i  detti  corpi  si  muovano  circolarmente,  per- 
chè, soltanto  data  in  loro  questa  specie  di  mo- 
vimento, è  possibile  si  continuino  a  illuminare 
vicendevolmente  tutte  le  parti  di  tutti  i  cieli. 
La  quale  spiegazione  è  confermata  dall'  ultimo 
verso  di  questo  passo  :  Volge  sua  spera  e  beata 
si  gode  y,;  quasi  dica:  la  Fortuna,  non  ostante 
tutti  i  clamori  e  i  corrucci  dei  mortali,  prosegue 
a  rotare  la  sua  sfera^  come  fanno  rotare  la  loro 
le  altre  prime  creature.  E  cosi  di  fatto  intende 
Francesco  da  Buti  questo  passo,  come  vedremo 
più  sotto. 

5.  Similemente  alli  splendor  mondani 

Ordinò  general  ministra  e  duce, 
Che  permutasse  a  tempo  li  ben  vani 
Di  gente  in  gente,  e  d'uno  in  altro  sangue, 
Oltre  la  difension  de'  senni  umani,  ecc. 

Ci  pare  indubitabile,  che  quello  che  il  poeta 
dice  della  Fortuna  nell'apodosi  della  compara- 
zione, cioè  del  permutare  cKella  fa  a  tempo  li 
ben  vani  di  gente  in  gente,  e  d^uno  in  altro  san- 
gue, si  debba  intendere  giusta  la  protasi  della 
comparazione  stessa.  Quindi,  siccome  nella  pro- 
tasi è  detto  che  Dio  ha  preposto  un'intelligenza 
motrice,  o  delle  intelligenze  motrici,  a  tutti  i 
cieli,  colla  legge  di  muoverli  perpetuamente  in 
circolo;  cosi  nell'apodosi  deve  intendersi  che  si- 
milmente   egli   abbia   dato  in  potere  di  una  in- 


53 

telligenza  i  vani  beni  di  quaggiù  siffattamente, 
che  distribuendoli  fra  le  genti  debba  far  loro 
percorrere  un  circolo  perpetuo;  cioè,  da  prima 
farle  più  e  più  progredire  nell'acquisto  di  quei 
beni,  finche  arrivino  al  culmine  della  terrena 
prosperità^  e  poi  dar  volta,  e  di  infortunio  in 
infortunio  ritornare  alla  primitiva  miseria  e 
squallore,  e  così  sempre.  Se  il  poeta  avesse  vo- 
luto esprimer  soltanto,  che  il  possesso  e  il  go- 
dimento dei  beni  mondani  non  fu  lasciato  da 
Dio  in  balia  del  caso,  ma  che  lo  regola  un  eterno 
consiglio  della  sua  sapienza,  non  vi  era  ragione 
nessuna  di  mettere  nella  prò  tasi  quel 

Si,  ch'ogni  parte  ad  ogni  parte  splende, 
Distribuendo  igualmente  la  luce; 

cioè  di  esprimervi  la  qualità  del  moto  cagionato 
nelle  sfere  celesti  dai  celesti  motori;  ma  sarebbe 
bastato  il  dirvi,  che  il  moto  di  quelle  dipendeva 
dalla  virtù  di  questi.  Ora,  essendovi  espressa  la 
qualità  del  moto,  ed  espressa  con  una  forma  non 
comune  di  parlare,  che  non  può  non  suscitare 
grande  attenzione,  o  bisogna  dire  che  ciò  non 
ostante  è  questa  una  parte  nel  discorso  di  Dante 
priva  d'importanza,  lo  che  varrebbe  quanto  dire 
che  qui  l'arte  gli  fece  difetto,  o  bisogna  dire  che 
qualche  cosa  vi  deve  corrispondere  nell'apodosi, 
o  espressa  o  sottintesa,  e  questa  non  può  esse- 
re altra  dall'accennato  periodico  fiorire  e  deca- 
dere delle  genti.  Francesco  da  Buti,  commen- 
tando l'ultimo  verso  di  questa  personificazione, 


54 

consente  a  pieno  con  noi.  Ecco  le  sue  parole: 
"  Alla  Fortuna  figurativamente  li  poeti  diedero 
la  rivoluzione  della  ruota,  a  dimostrare  come  si 
mutano  circularmente  (li  mondani  beni),  come 
si  può  vedere  in  un  uomo  alcuna  volta  e  tal- 
volta più.  Ma  nelle  città  e  nelle  provincie  ma- 
nifestamente si  vede  questa  rivoluzione;  impe- 
rocché quando  le  provincie  sono  venute,  per  le 
mutazioni  della  fortuna,  in  povertà,  diventano 
umili,  l'umiltà  dona  pazienza,  la  pazienza  dona 
pace,  la  pace  ricchezza,  la  ricchezza  superbia,  la 
superbia  impazienzia,  la  inipazienzia  guerra,  la 
guerra  povertà,  e  la  povertà  poi  umiltà,  e  così 
si  va  in  circulo  „  (T.  I,  pag.  214).  Se  non  che 
quello  che  noi  teniamo  essersi  voluto  significare 
da  Dante,  non  ci  sembra  essersi  voluto  altresì 
significare  dagli  antichi  poeti,  come  pensa  Fran- 
cesco da  Buti,  colla  finzione  della  ruota  data 
da  essi  a  rivolgere  alla  loro  Fortuna.  Perocché, 
se  ben  si  guarda  a  ciò  che  dicono  di  questa  Dea 
Virgilio  (Eneid.,  lib.  XI),  '  Orazio  (Odi,  lib.  I, 
od.  34  e  35,  e  lib.  Ili,  od.  29.),  Ovidio  (Trist, 
lib.  V,  eleg.  9),  *  Seneca  (Tieste,  v.  694^  e  segg.), 
e  gli  altri,  non  vi  troviamo  l'intenzione  d'espri- 
mere altra  idea  fuor  di  quella  della  instabilità 
de'  suoi  amori  e  de'    suoi  odi.  ^     Onde  noi,  non 


»  Aggiungi  :  V.  43  e  v.  108  (Q.  F.). 

2  Correggi:  elegia  Vili,  e  aggiungi:  vv.  15-18  (G.  F.). 

3  Correggi:  596  (G.  F.). 

♦  Il  Tommaseo  noi  suo  bel  Commonto  riporta  questo  passo 
di  S.  Agostino:  "Quelle  cause  che  dioonsi  fortuite,  non  lo  diciamo 
nulle,  ma  latenti,    o  le   recliiam.o  alla  volontà  o   del  vero  Dio  o 


55 

de'  costoro  versi,  ma  solo  di  quelli  di  Dante  di- 
remo (ed  è,  se  non  c'inganniamo,  una  nuova  e 
non  piccola  lode  da  aggiungersi  alle  tante  altre 
del  nostro  Poeta),  che  contengono  il  germe  della 
dottrina  dei  ricorsi  delle  cose  umane,  che  cam- 
peggia in  tutta  la  Scienza  Nuova  del  Vico,  e  ne 
forma  il  carattere  più  luminoso. 

6.  Si  mise  il  grande  nostro  pensatore  a  me- 
ditare sulle  storie,  che  potè  avere  alla  mano: 
confrontandole,  trovò  e  raccolse  molti  elementi 
somiglianti,  e  di  essi  tentò  costruire  una  storia 
ideale  eterna  dell'umanità.  Ora,  secondo  tale  sto- 
ria, egli  credette  che  l'umanità  si  muova  mai 
sempre  in  circolo,  sicché  mai  sempre  ritornino 
sulla  scena  del  mondo  i  medesimi  casi,  sebbene 
in  sembianze  diverse.  Ma  rapito  in  ammirazio- 
ne alla  vista  di  tanta  similitudine  di  leggi,  d'i- 
sfcituti,  di  fatti,  distanti  per  secoli  gli  uni  dagli 
altri,  non  fece  materia  di  studio  le  differenze,  che 
corron  tra  loro;  e  cosi  gli  sfuggi  di  mano  una 
parte  del  vero,  che  cercava  con  si  lungo  studio 
ed  amore  sì  grande.  Rammentata  la  fondazione 
de'  regni  cristiani,  e  le  guerre  guerreggiate  da 
essi  per  causa  di  religione,  col  riscontro  di  fatti 
simili  delle  storie  antiche  dei  Gentili,    "  È  ma- 


d'altro  spirito  „  De  Civ.  Dei,  lib.  V.  Le  quali  ultime  parole  di- 
inoatrano,  cosi  il  Tommaseo,  come  l'idea  del  commettere  ad  uno 
spirito  il  ministero  de'  beni  mondani,  non  sia  capriccio  del  Poeta, 
ma  abVjia  fondamento  in  religiose  tradizioni  ;  o  come  la  sfera,  che 
volge  la  fortuna  ilantesca,  non  sia  già  la  volubile  ruota  della  dea 
favolosa,  ma  voramonto  una  sfora  di  lume  celestiale."  A  pag.  109, 
ed.  di  Milano  del  1856. 


56 

raviglioso  „  ,  esclama  egli  nel  V  libro  della  Se- 
conda S.  N.,  "è  meraviglioso  il  ricorso  di  tali 
cose  umane  civili  de'  tempi  barbari  ritornati  „. 
Quindi,  proseguendo  a  svolgere  il  suo  pensiero, 
dice  :  "  Ohe  come  gli  antichi  araldi  nell'intimare 
le  guerre,  essi  evocabant  Deos  dalle  città ....  onde 
credevano  che  le  genti  vinte  rimanessero  senza 
Dei,  cosi  i  barbari  ultimi  nel  prendere  delle  città 
non  ad  altro  principalmente  attendevano,  ch'a 
spiare,  trovare  e  portar  via  dalle  città  prese,  fa- 
mosi depositi  o  reliquie  di  santi;  ond'è  che  i  po- 
poli in  que'  tempi  erano  diligentissimi  in  sot- 
terrarle e  nasconderle Di  più,  perchè  fin  dal 

400  cominciando  ad  allagare  l'Europa,  ed  anco 
l'Africa  e  l'Asia,  tante  barbare  nazioni,  e  i  po- 
poli vincitori  non  sint'endendo  co'  vinti;  dalla 
barbarie  de'  nemici  della  cattolica  religione  av- 
venne, che  di  quei  tempi  ferrei  non  si  trova 
scrittura  in  lingua  volgare  propria  di  quelli  tem- 
pi, o    italiana,  o  francese,  o  spagnuola,    o    anco 

tedesca, e  tra  tutte  le  nazioni  anzidette  non 

si  trovano  scritture  che  'n  latino  barbaro,  della 
qual  lingua  s'intendevano  pochissimi  nobili,  che 
erano  ecclesiastici;  onde  resta  da  immaginare 
che  in  tutti  que'  secoli  infelici  le  nazioni  fos- 
rero  ritornate  a  parlare  una  lingua  muta  tra  loro. 
Per  la  quale  scarsezza  di  volgari  lettere  dovette 
ritornar  dappertutto  la  scrittura  geroglifica  del- 
l'imprese gentilizie,  le  quali  per  accertare  i  do- 
mini, come  sopra  si  è  ragionato,  significassero  di- 
ritti  signorili   sopra,    per   lo  più,  case,  sepolcri, 


57 

campi  ed  armenti.  Ritornarono  certe  spezie  di 
giudizi  divini,  che  furono  detti  purgazioni  cano- 
niche, de'  quali  giudizi  una  specie  abbiamo  so- 
pra dimostrato  ai  tempi  barbari  primi  essere 
stati  i  duelli,  i  quali  però  non  furono  conosciuti 
dai  sacri  Canoni.  Ritornarono  i  ladronecci  eroi- 
ci, de'  quali  vedemmo  sopra  che,  come  gli  eroi 
s'avevano  recato  ad  onore  d'essere  chiamati  la- 
droni, cosi  titolo  di  signoria  fu  quello  pur  di 
corsali.  Ritornarono  le  ripresaglie  eroiche,  le 
quali  sopra  osservammo  aver  durato  fino  a'  tempi 
di  Bartolo.  E  perchè  le  guerre  dei  tempi  bar- 
bari ultimi  furono,  come  quelle  de'  primi,  tutte 
di  religione,  quali  teste  abbiam  veduto,  ritorna- 
rono le  schiavitù  eroiche,  che  durarono  molto 
tempo  tra  esse  nazioni  cristiane  medesime;  per- 
chè, costumandosi  in  que'  tempi  i  duelli,  i  vin- 
citori credevano  che  i  vinti  non  avessero  Dio, 
come  sopra,  ove  ragionammo  de'  duelli,  s'è  detto, 
e  si  li  tenevano  niente  meno  che  bestie . . .  Ma 
sopratutto  maraviglioso  è  '1  ricorso  cbe  'n  que- 
sta parte  fecero  le  cose  umane,  che  in  tali  tempi 
ferini  ricominciarono  ì  primi  asili  del  mondo  an- 
tico, dentro  i  quali  udimmo  da  Livio  essersi  fon- 
date tutte  le  prime  città.  Perchè  scorrendo  dap- 
pertutto le  violenze,  le  rapine,  l'uccisioni,  per 
la  somma  ferocia  e  fierezza  di  que'  secoli  barba- 
rissimi,  né,  come  si  è  detto  nelle  Degnità,  es- 
sendovi altro  mezzo  efficace  di  ritener  in  freno 
gli  uomini  prosciolti  da  tutte  le  leggi  umane 
che  le    divine   dettate   dalla   religione,  naturai- 


mente  per  timore  d'esser  oppressi  e  spenti,  gli 
uomini  come  in  tanta  barbarie  più  mansueti,  essi 
si  portavano  da'  vescovi  e  dagli  abati  di  quei 
secoli  violenti,  e  ponevano  se,  le  loro  famiglie 
e  i  loro  patrimoni  sotto  la  protezione  di  quelli, 
e  da  quelli  vi  erano  ricevuti;  le  quali  sugge- 
zione  e  protezione  sono  i  principali  costitutivi 
dei  feudi  „.  Quindi  appresso  passa  il  Vico  ad 
altri  confronti,  e  colla  fiducia  nell'animo  di  aver 
posto  nelle  mani  del  lettore  la  chiave  per  in- 
tendere tutta  la  storia,  conchiude  l'opera  con  al- 
cune belle  considerazioni  sulla  Provvidenza,  co- 
me suprema  e  sapientissima  moderatrice  del 
mondo  umano. 

7.  Noi  invece  dicemmo  che  una  parte  del 
vero  che  cercava  gli  sfuggì  di  mano,  e  che  que- 
sto gli  avvenne  per  aver  trascurato  l'esame  delle 
differenze,  che  accompagnano  i  ricorsi  delle  umane 
cose.  Si  noti  bene  però,  che  altro  è  trascurare 
d'osservare  e  investigare  le  ragioni  di  una  cosa, 
altro  è  negarla.  Il  Vico  non  negò  nulla  :  il  Vico 
vide  quelle  differenze  con  uno  sguardo  sintetico 
e  confuso,  come  tra  gli  altri  luoghi  lo  dimostra 
la  fine  del  lib.  V,  e  se  ne  contentò.  Avrebbe 
dovuto  analizzarle,  riconoscerle  distintamente, 
indagare  le  ragioni  del  loro  continuo  soprav- 
venire alle  cose  umane  che  ritornano,  stabilire 
almeno  una  formola,  che  esprimesse  quel  che  c'è 
di  costante  e  caratteristico  nel  continuo  variare 
della  relazione  tra  gli  elementi  simili  e  gli  ele- 
menti diversi  nelle  umane  cose:  il  non   averlo 


59 

fatto  è  il  solo  suo  peccato,  peccato  ben  perdo- 
nabile, chi  ripensi  quanto,  per  la  naturale  limita- 
zione della  nostra  intelligenza,  sia  facile  arre- 
stare l'attenzione  a  un  lato  delle  cose,  quasi  che 
esse  non  ne  avessero  altri,  e  consumare,  in  deli- 
ziandosi di  quello,  il  tempo  e  la  forza,  che  avreb- 
be dovuto  usarsi  a  considerare  anche  gli  altri,  per- 
chè tutta  la  verità  loro  si  manifestasse.  È  per 
questo  che  la  storia  di  tutte  le  discipline  ci  pre- 
senta press'a  poco  un  medesimo  andamento:  pri- 
ma si  scopre  una  parte  di  vero,  e  poi  un'altra 
ed  un'altra  finche  qualche  ingegno  più  fortunato 
compia  la  scoperta  delle  parti  e  ne  faccia  quel- 
la sintesi,  che  sola  può  soddisfare  all'esigenze 
della  ragione.  Il  peggio  si  è  quando  la  parte  di 
vero,  che  si  conosce,  si  pretende  che  sia  tutto  il 
vero,  come  pur  troppo  spesso  interviene,  sicché 
le  altre  parti  del  vero  stesso  rimangano  non  solo 
ignorate,  ma  pur  anco  negate:  che  allora  all'al- 
tre cause,  che  posson  ritardare  il  progresso  della 
scienza,  s'aggiunge  l'errore,  potentissima  di  tutte, 
e  la  scienza,  nel  travaglio  di  superar  questo  osta- 
colo corre  il  pericolo  di  perder  non  solo  anni, 
ma  secoli.  Questo  non  fece  il  Vico  nel  costruire 
la  Scienza  JSuova  :  egli,  come  abbiam  detto,  non 
negò  cosa  alcuna  :  ond'è  che  la  dottrina  de'  ri- 
corsi è  più  presto  da  dirsi  difettosa  che  falsa. 
Le  quali  parole,  se  contengono  una  censura,  con- 
tengono anche  una  lode  di  chi  l'ebbe  il  primo 
esposta  e  raccomandata  allo  studio  dei  sapienti. 
8.  Non  può  dirsi  lo  stesso  della  dottrina  con- 


trarla  del  Condorcet  e  degli  altri,  i  quali  han- 
no sognato  che  il  genere  umano  progredisca  di 
continuo  di  bene  in  meglio,  di  guisa  tale  che 
il  suo  movimento  possa  simboleggiarsi  colla  li- 
nea retta.  In  questo  sistema  non  manca  sem- 
plicemente quella  parte  di  vero,  che  risplendette 
alla  mente  di  Dante  e  del  Vico  ;  ma  questa  parte 
di  vero  vi  è  negata,  essendovi  negato  che  nel 
movimento  del  genere  umano  ai  progressi  si  av- 
vicendino i  regressi,  lo  che  importa  essenzial- 
mente la  dottrina  dei  ricorsi.  E  bisogna  essere 
acciecati  davvero  dall'amor  di  sistema  per  non 
riconoscere  per  esempio,  che  la  ignoranza  e  la 
ruvidezza  dei  secoli  di  mezzo  segna  un  deplora- 
bil  regresso  nella  storia.  Siano  stati  pure  quei 
secoli  nel  tempo  stesso  una  lenta  e  segreta  pre- 
parazione di  uno  stato  dell'umanità  ben  diverso, 
qual'è  quello  che  noi  vediamo  oggi  fiorire  e  frut- 
tificare in  modo  maraviglioso  ;  ma  i  fatti  ante- 
cedenti non  vanno  confusi  coi  susseguenti,  qua- 
lunque sia  la  loro  relazione,  e  la  ignoranza  e  la 
rozzezza  non  saranno  mai  e  poi  mai  gentilezza 
e  sapere.  Dal  che  si  raccoglie  che  la  scienza 
della  storia,  se  non  vuol  fallire  al  suo  ufficio, 
non  può  negare  ne  il  progresso  né  il  regresso: 
ella  deve  ammetterli  tutti  e  due  nel  movimento 
del  genere  umano  ;  né  basta  che  ve  li  ammetta 
come  fa  il  Vico,  secondo  il  quale  sembra  che 
questo  movimento  s'assomigli  a  quello  de'  pia- 
neti intorno  al  sole,  che  corsero  e  correranno 
sempre  per  la  stessa  ellissi,  finché  durerà  la  pre- 


61 

sente  figura  del  mondo.  Imperocché  è  un  fatto 
dallo  stesso  Vico  confessato,  comeccliè  non  se  ne 
giovi,  che,  ragguagliando  due  epoche  di  civiltà, 
la  civiltà  anteriore,  per  es.,  e  la  civiltà  posteriore 
al  medio  evo,  la  posteriore  si  trova  men  lontana 
dell'anteriore  dall'ideale  della  civiltà.  Onde  più 
appropriato  simbolo  e  più  vero  del  movimento 
del  genere  umano  è  quello  proposto  dal  Fichte, 
il  quale  stima  che  il  genere  umano  si  muova 
come  per  una  spirale  ;  sicché  ad  un  tempo  si 
avveri,  e  che  nulla  avvenga  mai  di  nuovo  sotto 
il  sole,  e  che  le  cose  non  si  riproducano  mai  le 
medesime  in  tutto,  come  va  persuaso  il  senso 
comune  degli  uomini.  (V.  Destino  del i^ uomo ^  Ca- 
ratteri del  secolo  presente,  e  Lezioni  sulla  Poli- 
tica di  questo  scrittore). 

"  Tuttavia  il  principio  del  Filosofo  Tedesco 
(osserva,  a  noi  pare,  molto  giustamente  il  Ro- 
smini) rimane  ancor  troppo  poco  determinato; 
convien  diffinire  di  che  spirale  si  parli,  e  per 
qual  direzione  la  società  umana  in  essa  si  muo- 
va „.  E  soggiunge:  "La  mia  opinione  adunque 
si  é,  che  l'umana  società,  sostenuta  dal  cristia- 
nesimo, si  muova,  quanto  agli  sviluppi  intellet- 
tuali e  agli  ordini  sociali,  per  una  spirale,  le  cui 
rivoluzioni  sempre  più  si  allarghino,  di  maniera 
che  il  suo  movimento  cominci  vicino  al  centro 
e  si  continui  in  ispire  del  continuo  maggiori, 
senza  potersi  assegnare  al  loro  ampliamento  al- 
cun limite  necessario.  Con  qual  legge  poi  le 
spire  vengano  così  amplificandosi,  ecco  una  gran- 


62 

de  questione  per   la   storia   dell'umanità  „    (FU. 
della  Polii.,  pag.  437), 

Ci  si  perdonino  queste  molte  parole;  ci  si 
perdonino  in  grazia  dei  nomi  cari  e  venerati  ad 
ogni  Italiano,  che  esse  rammentano,  e  dello  scopo 
principale,  che  esse  hanno,  di  richiamare  l'atten- 
zione de'  dotti  sopra  un  nuovo  titolo  di  gloria, 
che  ci  pare  di  avere  scoperto  nell'Autore  della 
Divina  Commedia;  che  e  di  avere,  cristianeg- 
giando  la  Fortuna  della  Mitologia,  preluso  alla 
Scienza  l\'uova  del  Vico. 


Sopra  un  luogo 
del  canto  XXIY  del  Paradiso^ 


I  due  grandi  uomini,  com'è  noto,  che  nei 
tempi  moderni  principiarono  a  filosofare  sulla 
storia,  sono  il  Vico  e  il  Bossuet.  E  sebbene  il 
secondo  sia  meno  erudito  del  primo,  ciò  non 
ostante  lo  vince  per  la  elevatezza  del  punto  di 
vista,  donde  ha  preso  a  ricercare  la  connessione 
de'  fatti,  e  può  dirsi  che  sia  stato  il  primo  a 
dimostrare  nella  loro  congerie,  simile  in  appa- 
renza al  caos  della  greca  e  romana  mitologia, 
un'altissima  unità,  che  ne  fa  un  tutto  di  stu- 
penda armonia  e  magnificenza.  E  diciamo  a 
dimostrare  e  non  a  scorgere;  perocché  questa 
unità  era  additata  nelle  sante  Scritture,  e  mi- 
gliaia e  migliaia  di  menti  vi  avevano  fissato 
sopra  i  loro  sguardi,  migliaia  e  migliaia  di  boc- 
che l'avevano  ripetuta  nel  mondo  cristiano.  Se 
non  che  pochi  avevano  veduto,  distintamente 
almeno,  l'uso  che  se  ne  potea  fare  per  dar  forma 


1  TfeiW Araldo  cattolico,  1862,  an.  XIX,  n\  43  e  46  (G.  F.). 


64 

di  sistema  alla  storia  del  genere  umano  e  nes- 
suno poi,  non  eccettuato  il  sommo  Agostino, 
quantunque  avesse  considerato  nella  Città  di  Dio 
i  fatti  umani  in  un  modo  sostanzialmente  iden- 
tico a  quello  del  Bossuet,  si  era  applicato  a  fare 
un  sì  importante  lavoro.  Ora  fra  quei  pochi, 
certo  da  onorarsi  assai  come  precursori  dell'im- 
mortale autore  del  Discorso  sulla  storia  univer- 
sale, sembra  a  noi  che  debbasi  annoverare  Dante 
Alighieri,  e  a  mettere  in  chiaro  questo  diritto 
destiniamo  le  seguenti  brevi  osservazioni  sul 
canto  XXIV  del  Paradiso. 

Dopo  avere  il  nostro  divino  poeta  descritto 
nel  canto  XXIII  della  terza  cantica  com'ei  vide 
il  trionfo  di  Cristo,  racconta  nel  XXIV  che  cosa 
rispose  al  principe  degli  apostoli,  mosso  a  esa- 
minarlo dalle  preghiere  di  Beatrice 

intorno  de  la  fede, 

per  la  <iual  ei  su  per  lo  mare  andava. 

E  in  prima,  avendogli  san  Pietro  domandato  che 
cosa  sia  la  Fede,  Dante  gli  rispose  colle  parole 
di  san  Paolo,  essa  essere 

sustanzia  di  cose  sperate, 

ed  argomento  de  le  non  parventi. 

San  Pietro  approva  a  condizione  che  Dante  in- 
tenda bene,  perchè  l'apostolo  delle  genti  abbia 
riposta  la  fede 

tra  le  sustanzie  e  poi  tra  g^li  ai'gomonti. 

Onde  il  nostro  poeta  è  obbligato  a  dar  ragione 


65 

dell'una    e    dell'altra   cosa.     Lo    che    fatto,  cosi 
prosegue  la  sua  narrazione: 

Appresso  usci  de  la  luce  profonda, 

Che  li  splendeva:  Questa  cara  gioia, 

Sopra  la  quale  ogni  virtù  si  fonda, 
Onde  ti  venne?  Ed  io:  La  larga  ploia 

De  lo  Spirito  Santo,  ch'è  diffusa 

In  su  le  vecchie  e  'n  su  le  nuove  cuoia, 
E  sillogismo,  che  la  m'ha  conchiusa 

Acutamente  si,  che  'n  verso  d'ella 

Ogni  dimostrazion  mi  pare  ottusa. 
Io  udi'  poi:  L'antica  e  la  novella 

Proposizione,  che  si  ti  conchiude, 

Perchè  l'hai  tu  per  divina  favella? 
Ed  io:  La  prova  che  '1  ver  mi  dischiude, 

Son  l'opere  seguite,  a  che  natura 

Non  scalda  ferro  mai,  né  batte  ancude.  ' 
Risposto  fummi:  Di',  chi  t'assecura 

Che  quell'opere  fusser?  Quel  medesmo 

Che  vuol  provarsi,  non  altri,  il  ti  giura. 
Se  il  mondo  si  rivolse  al  cristianesmo, 

Diss'io,  senza  miracoli,  quest'uno 

E  tal,  che  li  altri  non  sono  il  centesmo: 
Che  tu  entrasti  povero  e  digiuno 

In  campo  a  seminar  la  buona  pianta, 

Ohe  fu  già  vite  ed  ora  è  fatta  pruno. 
Finito  questo,  l'alta  corte  santa 

Risonò  per  le  spere  un  Dio  lodiamo 

Ne  la  melode,  che  lassù  si  canta. 

In  questo  bel  passo,  se  si  considera  a  fondo, 
trovasi  sottintesa  una  dottrina  storica,  secondo 
la  quale  la  gran  tela  degli  umani  avvenimenti 
dividasi  in  tre  parti.  Nella  j)rima  di  esse  al- 
l'umana famiglia  scaduta  della  primitiva  sua  no- 
biltà e  grandezza  è  prenunziato  un  divino  E.ipa- 


»  Scalda  e  batte  tolso  il  Paganini  dal  suo  da  Buti,  ma  ritenne 
il  né  della  Volgata  (G.  F.). 


66 

ratore;  nella  seconda  questo  comparisce  sulla 
terra  e  compie  in  se  tutte  le  cose  predette  da' 
profeti;  nella  terza  l'umanità  camminando  nella 
fede  di  lui  si  santifica  e  raggiunge  il  suo  alto 
destino.  La  prima  è  contenuta,  per  ciò  che  ha 
di  più  sostanziale,  ne'  libri  storici  del  vecchio 
Testamento;  la  seconda  nei  quattro  Evangeli  e 
negli  Atti  degli  apostoli;  la  terza  nell'Apocalisse 
di  san  Giovanni,  che  lentamente  viene  commen- 
tata e  spiegata  dal  corso  degli  eventi,  e  singo- 
larmente da  quelli  che  rivelano  lo  stato  morale 
e  religioso  dei  popoli  e  che  costituiscono  la  ma- 
teria propria  della  storia  della  chiesa.  Ora  queste 
tre  grandi  epoche  della  storia  universale,  giusta 
il  concetto  dell'Alighieri,  non  si  aggiungono  già 
l'una  all'altra,  come  una  parte  si  aggiunge  al- 
l'altra in  quegli  ammassi  inorganici  di  materia, 
ne'  quali  non  vi  ha  altra  unità  fuor  di  quella, 
che  impresta  loro  la  intelligenza  nel  percepirli; 
ma  compongono  un  tutto,  dove  la  moltiplicità  è 
ridotta  ad  unità  mediante  un  organismo  sì  per- 
fetto, che  rende  immagine  di  quello  del  sillogi- 
smo. Invero  come  nel  sillogismo  la  terza  propo- 
sizione discende  dalle  prime  due,  cosi  l'epoca 
della  nostra  santificazione  nella  fede  di  Cristo 
di  già  venuto  discende  dalle  due  epoche  prece- 
denti, dall'epoca  di  Cristo  annunziato  come  ven- 
turo da'  veggenti  d'Isdraello  e  da  quella  stessa 
eterna  Giustizia,  che  cacciò  i  primi  nostri  geni- 
tori dal  paradiso  terrestre,  e  dall'epoca  di  Cristo 
predicante  la  sua  sublime  dottrina  ed  offerente 


67 

se  stesso  in  sacrifizio  di  espiazione  e  di  propi- 
ziazione per  il  genere  umano.  E  come  la  ra- 
gione di  ciò,  che  la  conclusione  afferma,  giace 
nelle  premesse,  sicché  privata  di  queste,  quella 
resterebbe  senza  verità;  così  la  condizione,  a  cui 
è  stata  innalzata  l'umana  natura  per  virtù  del 
Redentore,  quei  nuovi  miracoli  di  virtù,  che  essa 
presenta  nella  storia  dei  tempi  cristiani,  quella 
sete  dell'infinito,  che  caccia  si  rapide  le  menti 
sulle  vie  del  sapere  e  le  fa  sì  infaticabili  nelle 
ricerche  e  sì  felici  nelle  scoperte,  quella  ten- 
denza a  far  prevalere  sempre  più  la  giustizia  ai 
pregiudizi  e  alle  abitudini  invecchiate  negli  or- 
dini civili  delle  nazioni,  quell'amor  vicendevole, 
che  si  va  o  riscaldando  o  accendendo  in  esse  e 
le  porta  a  rispettarsi,  a  soccorrersi,  a  conside- 
rarsi praticamente  come  tante  membra  di  una 
sola  gran  famiglia,  tutto  ciò  non  trova  la  sua 
spiegazione  che  nei  tempi  precorsi,  e  ne'  fatti 
che  in  tali  tempi  si  sono  consumati,  e  se  da 
questi  SI  distaccasse  per  ipotesi,  rovinerebbe  ne- 
cessariamente fra  gl'impossibili.  Ben  dunque  a 
ragione  l'Alighieri,  qual  rappresentante  dell'uma- 
nità costituita  nell'ultima  delle  tre  dette  epoche, 
rappresentanza  che  gli  antichi  commentatori,  più 
solleciti  dei  moderni  di  trarre  dalla  Divina  Com- 
media de'  morali  documenti,  in  essolui  riconob- 
bero comunemente,  pronunzia: 

la  larga  ploia 

De  lo  Spirito  Santo,  ch'è  diiFusa 

In  su  le  vecchie  e  'n  su  le  nuove  cuoia, 

È  sillogismo. 


68 

Si  è  ammirato  ai  dì  nostri  Giorgio  Hegel  per  la 
novità  e  la  profondità  de'  suoi  filosofemi,  fra' 
quali  è  parso  novissimo  e  profondissimo  quello 
che  dice  tutto  essere  sillogismo.  Senza  dubbio 
non  altri  che  un  pensatore  straordinario  poteva 
veder  questo.  Ma  il  sillogismo  hegeliano  è  di- 
struttivo della  verità,  perchè  riduce  tutte  le 
categorie  dell'essere  ad  una,  e  quest'una  poi  lascia 
al  tutto  senza  ragion  sufficiente,  né  più  né  meno 
di  quello  che  avevan  fatto  il  Fichte  e  lo  Schel- 
ling del  punto  di  partenza  dei  loro  sistemi. 
Quindi  per  l'Hegel  il  sillogismo  di  Dio  e  il  sil- 
logismo della  natura  non  son  due  sillogismi,  ma 
un  solo  e  medesimo ,  non  essendo  Iddio  e  la 
natura  nuU'altro  che  momenti  diversi  della  evo- 
luzione necessaria  di  un'idea  indeterminata,  che 
non  é  niente  e  si  fa  tutto.  Da  ciò  s'intende 
che  unità  debba  esser  quella,  che  il  filosofo  di 
Stuttgarda  colloca  nella  storia.  La  storia  è  il 
racconto  delle  vicende,  attraverso  alle  quali  lo 
spirito,  cioè  in  sostanza  quell'idea  indeterminata, 
impara  a  conoscere  sé  stesso,  e  acquista  la  co- 
scienza della  sua  libertà,  che  è  quanto  dire,  giusta 
la  dottrina  dell'Hegel,  della  sua  essenza.  Ora 
per  tre  gradi  lo  spirito  ascende  allo  stato  di  co- 
scienza della  sua  libertà,  cioè  pel  singolare,  pel 
particolare  e  pel  generale;  epperciò  tre  sono  le 
epoche  della  storia:  l'epoca  della  infanzia  del- 
l'umanità, in  cui  dagli  uomini  associati  si  attri- 
buisce la  libertà  ad  un  solo  di  loro,  mondo  orien- 
tale; l'epoca  della  gioventù  e  della    virilità,  in 


69 

cui  la  libertà  si  estende  a  molti,  ai  quali  altri 
pia  molti  son  destinati  a  servire,  mondo  greco  o 
romano;  e  l'epoca  dell'età  matura,  in  cui  la  li- 
bertà si  riconosce  in  tutti,  la  qual  epoca  ebbe 
principio  col  cristianesimo,  ma  il  suo  carattere 
non  si  è  a  pieno  avverato  che  nella  Riforma, 
mondo  delle  genti  germaniche.  A  che  deve  poi 
riuscire  un  travaglio  si  lungo  e  penoso  dello 
spirito,  come  spirito  dell'umanità?  A  ravvisare 
la  sua  identità  collo  spirito  assoluto,  con  Dio, 
coir  idea,  con  che  avrà  abolito  e  ridotto  al  nulla 
tutte  le  determinazioni  nelle  quali  si  era  impli- 
cato. Dopo  ciò  ciascun  vede  quanta  differenza 
separi  il  concetto  della  storia  di  Dante  dal  con- 
cetto della  storia  dell'Hegel.  L'unità  della  storia 
nella  mente  di  Dante  è  ugualmente  vera  che  la 
sua  raoltiplicità,  e  il  fine  di  lei,  rispondendo  alle 
più  nobili  aspirazioni  dell'umana  natura,  la  riem- 
pie d'ineffabil  conforto  :  l'unità  sola  della  storia 
nella  mente  dell'Hegel  è  vera,  la  moltiplicità 
non  è  che  una  serie  di  vane  apparenze,  dopo 
l'ultima  delle  quali  non  resta  che  la  spaventosa 
solitudine  del  nulla. 

Ci  sia  ora  permesso  di  fare  un  passo  più  là, 
aggiungendo  alla  dottrina  sottintesa,  che  sin  qui 
abbiamo  esposta,  un'altra  dottrina  pur  sottintesa 
che  con  quella  si  connette,  ma  la  sua  connes- 
sione nell'alta  mente  del  nostro  poeta  forse  ri- 
mase inavvertita  del  tatto. 

Le  cose  create,  in  quanto  poste  nel  tem'po  o 
in  quanto  successive,  hanno  un  ordine   fra  loro, 


70 

il  quale  fa  di  esse  un  tutto,  e  sul  quale,  come 
si  8  mostrato,  si  assomigliano  al  sillogismo.  E 
questo  è  un  sillogismo  ohe,  come  pure  si  è  visto, 
si  ritrova  collo  studio  profondo  della  storia;  e 
perciò  si  può  convenientemente  chiamare  il  sil- 
logismo della  storia.  Ma  le  cose  create  hanno  un 
ordine  fra  loro  eziandio  in  quanto  poste  nello 
spazio,  o  meglio  in  quanto  coesistenti,  ed  anche 
sotto  questo  aspetto  considerate  devono  rendere 
immagine  dell'organismo  sillogistico.  La  qual 
relazione  spetta  alla  cosmologia  io  svelare  ed  il- 
lustrare, dovendo  essa  trattare  del  mondo,  for- 
mato dal  concorso  di  tanti  e  tanto  diversi  enti, 
come  di  un  individuo.  Cosi,  oltre  il  sillogismo 
della  storia,  vi  ha  ancora  il  sillogismo  della  co- 
smologia; i  quali  insieme  fanno  vedere  la  perfe- 
zione dell'ordine  delle  medesime  cose,  ma  guar- 
date da  due  lati  differenti  della  loro  esistenza. 
Se  non  che  cotesta  perfezione,  si  luminosa  da 
colpire  le  intelligenze  stesse  dei  volgari,  deve 
avere  una  ragione  e  deve  averla  fuor  del  com- 
plesso delle  cose  create.  E  qual  è  questa  ragio- 
ne ?  La  perfezione  stessa  di  Dio  ;  il  quale,  essendo 
l'autore  del  mondo,  e  la  causa  necessariamente 
imprimendo  sull'effetto  una  similitudine  di  se, 
non  potè  trarre  il  mondo  all'esistenza  senza  or- 
narlo insieme  di  questa  similitudine.  Qua  appar- 
tiene quel  notissimo  e  bellissimo  passo  del  canto 
primo  del  Paradiso: 


Le  cose  tutte  quante 

Hann'ordine  tra  loro,  e  questo  è  forma, 


71 

Che  ruiiiverso  a  Dio  fa  simigliante. 
Qui  veggion  l'alte  creature  l'orma 

De  l'oterno  valore,  il  quale  è  line, 

Al  quale  è  fatta  la  toccata  norma. 
Ne  l'ordine  ch'io  dico  sono  accline 

Tutte  nature,  per  diverse  sorti 

Più  al  principio  loro  e  men  vicine; 
Onde  si  muovono  a  diversi  porti 

Per  lo  gran  mar  dell'essere,  e  ciascuna 

Con  istinto  a  lei  dato  che  la  porti. 

Ora  da  tutto  questo  esce,  quanto  spontanea 
altrettanto  irrecusabile  la  conclusione,  che  vi  è 
pure  un  sillogismo  della  Teologia^  un  sillogismo 
che  le  più  sublimi  investigazioni  della  mente 
umana,  confortata  e  diretta  da  un  celeste  lume, 
devono  rinvenire  nel  mistero  della  stessa  essenza 
di  Dio  ;  un  sillogismo,  nel  quale  giaccia  l'ultima 
spiegazione  del  sillogismo  della  cosmologia  ;  un 
sillogismo  in  fine,  il  quale,  comecché  congiunto 
agli  altri  due  ed  intimo  ad  essi,  sia  compitissi- 
mo in  sé  e  da  sé  stante,  in  una  parola,  assoluto. 
È  questo  quell'altissimo  sillogismo,  a  cui  alludono 
spesso  i  versi  dell'Alighieri,  singolarmente  nella 
terza  cantica;  della  quale  ci  piace  di  ricordar  qui 
due  passi,  come  quelli  che  esprimono  appunto  i 
due  accennati  modi  di  considerarlo.  L' uno  è 
quello  del  canto  XIV,  dove  Dio  è  detto: 

Quell'uno  e  due  e  tre,  che  sempre  vive, 
E  regna  sempre  in  tre  e  due  ed  uno, 
Non  circoscritto  e  tutto  circoscrive  ; 

le  quali  ultime  parole  rilevano  il  legame  del  sil- 
logismo teologico  coi  sillogismi  storico  e  cosmo- 
logico.    L'altro  dell'ultimo  canto  si  riferisce  al 


72 

sillogismo  teologico,  riguardato  nella  sua  assoluta 
e  indipendente  natura,  ed  è  il  seguente: 

Nella  profonda  e  chiara  sussistenza 

De  l'alto  lume  parvemi  tre  ^iri 

Di  tre  colori  e  d'una  continenza; 
E  l'un  dall'altro,  coma  iri  da  iri, 

Parea  riflesso,  e  '1  terzo  parea  fuoco. 

Ohe  quinci  e  quindi  igualmente  si  spiri. 

E  poco  dopo,  da  queste  più  artificiose  analogie, 
passando  il  divino  poeta  a  quelle  che  tengon  luo- 
go di  linguaggio  proprio  e  rigoroso,  soggiunge: 

O  luce  eterna,  che  sola  in  te  sidi. 
Sola  t'intendi  e  da  te  intelletta 
Ed  intendente  te  ami  ed  arridi. 

Qui  forse  alcuni  dei  nostri  lettori,  che  più  se- 
riamente ci  abbiano  seguito  in  queste  osserva- 
zioni, prenderà  vaghezza  di  domandarne  in  che 
facciamo  consistere  precisamente  ciò,  che  abbia- 
mo chiamato  il  sillogismo  della  cosmologia  e  il 
sillogismo  della  teologia.  Ma  noi,  chiedendo 
loro  perdono  del  non  soddisfarli  col  presente  scrit- 
to, perchè  bisognerebbe  che  esso  si  convertisse 
in  un  libro,  li  preghiamo  di  ripensare  fra  sé  e 
sé  le  cose  che  abbiam  dette,  e  di  vedere  che 
fonte  di  elevatissimi  e  nobilissimi  concetti  siano 
le  sante  scritture  ai  forti  ingegni,  che  ci  vadano 
sopra  meditando,  senza  spogliare,  come  si  è  fatto 
in  Germania,  le  parole  di  esse  del  loro  sopran- 
naturale e  divino  significato. 


Dì  un  luogo  filosofico  della  Divina  Commedia' 


L'argomento  di  questo  discorso  è  un  luogo 
filosofico  della  Divina  Commedia.  Io  m'inge- 
gnerò di  stabilirne  il  vero  senso,  mostrando  l'as- 
surdità di  quello  che  gli  viene  attribuito  in  un 
recente  libro  di  filosofia,  ^  che  io  per  altro  ap- 
prezzo, e  prima  di  tutto  per  non  essere  mac- 
chiato di  certo  nuovo  genere  d'ipocrisia,  che  si 
studia  a  ostentare  persuasione  di  tutto  ciò  che 
più  offende  il  comun  senso  degli  uomini.  Anzi 
appunto  perchè  io  lo  stimo  assai  e  lo  credo  de- 
gno della  sorte  che  ha  avuto  di  essere  accolto 
in  molte  delle  nostre  scuole,  mi  sono  risoluto 
di  togliere  in  esame  l'interpretazione  che  vi  si 
dà,  a  un  notabilissimo  passo  del  Purgatorio^  pa- 
rendomi non  pur  contraria  alla  mente  del  som- 
mo nostro  poeta,  ma  ancora  ingiuriosa,  certo  con- 
tro l'intenzione  di  chi  ha  scritto  il  libro  di  cui 
parlo,    all'onore  di  lui.     Questa   interpetrazione 


»  Dal  Propugnatore,  1871,  voi.  II,  pag.  176-197  (0-.  P.). 

»  Filosofia  elementare  a  uso  delle  Scuole  del  Regno  ordinata  o 
compilata  dai  professori  A.  Conti  e  V.  Sabtini.  Firenze,  G.  Bar- 
bòra,  1869. 


74 

si  trova  sulla  fine  di  un  capitolo,  ^  dove  me- 
diante una  esagerazione  d'uno  scrittore  di  tanta 
autorità,  quanto  Dante  ne  gode  presso  di  tutti 
e  deve  goderne  singolarmente  presso  i  giovi- 
netti, che  da  poco  tempo  hanno  incominciato  ad 
ammirarlo  studiandolo,  si  vuole  indurre  in  loro 
la  opinione,  che  la  ricerca  dei  primi  principii 
della  ragione  è  una  delle  più  difficili,  per  con- 
chiuderne poi,  che  essa  non  appartiene  alla  fi- 
losofia che  dicesi  elementare.  Si  afferma  dun- 
que che  Dante  tenne  per  opera  impossibile  il 
definire  come  si  abbia  la  cognizione  dei  detti 
principi  e,  a  provare  che  ei  la  sentisse  vera- 
mente cosi,  si  citano  i  due  seguenti  versi  del 
canto  XVIII  del  Purgatorio  : 

Però  là,  onde  vegna  lo  'ntelletto 
Delle  prime  notizie,  uomo  non  sape.  * 

Ecco  il  punto,  sul  quale  io  prego  il  lettore  di 
raccogliere  tutta  la  sua  attenzione:  a  chi  ha 
fatto  il  menzionato  libro  di  filosofia  par  chiaro 


'  Gap.  XV:  Della  Percezione  intellettiva. 

*  Il  senso,  ohe  neUa  nuova  interpretazione  di  questi  versi  si 
ascrive  aUa  frase  intelletto  delle  prime  notizie,  se  non  è  certo,  pare 
anche  a  me  almeno  il  più  probabile,  quantunque  fra  gli  antichi 
commentatori  della  Divina  Commedia  io  non  ne  abbia  visto  uno, 
ohe  lo  proponga  come  il  solo  vero.  Ma  gli  antichi  commentatori, 
com'è  noto,  furono  tutti  uom.ini  ijrivi  di  studii  proporzionati  al- 
l'ufficio di  dichiarare  le  parti  filosofiche  della  Divina  Commedia: 
e  se  sono  da  stimarsi,  e  alcuni  ne  sono  invero  degnissimi,  i  loro 
pregi  derivano  da  tutt'altro  fonte.  Fra  i  cinquecentisti  intende 
queste  parole  di  Dante,  corno  le  intendiamo  noi,  il  Varchi,  Lezio- 
ni sul  Dante  e  prose  varie,  la  maggior  parte  inedite,  ecc.  Firenze. 
Tip.  di  L.  Pezzati,  1841,  voi.  I,  pag.  HI;  e  fra  i  più  recenti  il  P. 
Lombardi  a  q.  1.  del  suo  Commento  e  il  P.  Cesari,  Bellezze  della 
Commedia,  T.  II,  paig.  320  della  ediz.  originale. 


75 

che  con  queste  parole  l'Alighieri  pronunzi  che 
all'umana  intelligenza  è  negato  di  scorgere  il 
fonte,  donde  le  derivano  i  principi  di  ogni  suo 
ragionare,  e  a  me  par  chiaro  al  contrario  che 
l'Alighieri  ciò  non  pronunzi  e  intenda  di  espri- 
mere tutt'altra  sentenza. 

E  innanzi  tutto  per  ben  vedere  il  senso  dei 
versi  in  questione,  è  da  richiamare  alla  mente 
il  luogo,  ove  giacciono,  e  il  proposito  al  quale 
sono  volti  insieme  con  quelli,  che  li  precedono 
e  li  seguono  prossimamente.  Avendo  dunque 
Virgilio  ridotto  a  una  cagione  unica  ogni  ope- 
rare dell'uomo,  per  cui  egli  è  lodato  o  biasimato, 
cioè  all'amore,  Dante  sul  principio  di  questo 
XVIII  canto  del  Purgatorio  chiede  al  suo  caro 
maestro,  che  gli  spieghi  che  cosa  è  amore.  E 
Virgilio  infatti  prontamente  gli  soddisfa  ;  ma  per- 
chè colle  sue  parole  gli  aveva  dato  materia  di 
maggior  dubbio,  per  isciogliergli  questo  e  fare 
che  potesse  acquietarsi  del  tutto  nella  dottrina 
espostagli  intorno  all'amore,  da  più  alto  prin- 
cipio movendo,  prende  a  dirgli  così: 

Ogni  forma  sustanzìal,  che  setta 
È  da  materia  ed  è  con  lei  unita, 
Specifica  virtude  ha  in  sé  colletta; 

La  qual  senza  operar  non  è  sentita, 
Né  si  dimostra  ma'  che  per  effetto, 
Come  per  verde  fronda  in  pianta  vita. 

Però,  là  onde  vegna  lo  'ntelletto 
Delle  primo  notizie,  uomo  non  sape, 
E  del  primo  appetibile  l'affetto; 

Che  sonij  in  voi,  si  come  studio  in  ape 
Di  far  lo  mele:  e  questa  prima  voglia 
Merto  di  lode  o  di  biasmo  non  cape. 


76 

Or  perchè  a  questa  ogni  altra  si  raccoglia, 

Innata  v'è  la  virtù  che  consiglia, 

E  dall'assenso  de'  tener  la  soglia. 
Quest'è  '1  principio,  là  onde  si  piglia 

Cagion  di  meritare  in  noi,  secondo 

Ohe  buoni  e  rei  amori  accoglie  e  viglia. 

Ora,  se  bene  si  osserva  tutto  questo  discorso  di 
Virgilio,  si  vede  che  quivi  non  s'intende  di  par- 
lare se  non  che  dell'uomo  considerato  nel  na- 
turale svolgimento  delle  sue  potenze  razionali 
e  ne'  limiti,  in  cui  rimane  ristretta  la  sua  co- 
gnizione, finché  la  libera  volontà  non  s'impa- 
dronisce di  esse  potenze  e  non  dà  loro  quella 
piega  che  più  le  piace.  In  conseguenza  di  tali 
limiti  l'uomo  non  sa,  donde  gli  venga  la  no- 
tizia che  pure  ha  ed  usa  continuatamente  di 
primi  principi,  e  l'amore,  dal  quale  del  pari  con- 
tinuamente è  mosso,  dei  primi  beni,  cioè  di  beni 
che  possano  renderlo  appieno  pago  e  contento. 
E  poiché  questi  beni  si  riducono  a  uno,  cioè 
al  bene  infinito,  parmi  assai  verosimile  la  lezione 
del  primo  appetibile  seguita  da  Francesco  da 
Buti,  in  luogo  di  quella  dei  primi  appetibili,  di- 
venuta comune  forse  per  la  materiale  simme- 
tria del  discorso.  Oltre  di  che  il  singolare,  me- 
glio che  il  plurale,  parmi  che  qui  si  riscontri  con 
altri  luoghi  paralleli  del  nostro  Poeta,  quali 
sono,  quello  del  canto  precedente  : 

Ciascun  confusamente  un  bene  apprende, 
Nel  quale  si  quieti  l'animo,  e  desira  ; 
Perchè  di  giunger  lui  ciascun  contendo; 

e  quello  del  canto  II  del  Paradiso: 


77 

La  concreata  e  perpetua  sete 
Del  deiforme  regno  cen'  portava 
Veloci,  quasi  come  '1  ciel  vedete. 

Ma  checché  sia  di  ciò,  se  l'uomo  considerato  nel 
modo  che  io  ora  diceva,  non  sa  donde  gli  venga 
la  notizia  dei  primi  principi  (ometto  l'amore  del 
primo  appetibile,  come  quello  che  non  appar- 
tiene alla  presente  ricerca),  neppur  sa  di  non 
saperlo  :  onde,  tranquillo  e  pieno  di  fiducia  in 
quei  principi,  si  lascia  da  essi  condurre  nelle  va- 
rie operazioni  razionali,  ohe  gli  accade  di  fare, 
e  più  non  cerca.  Solo  il  filosofo,  l'uomo  cioè, 
che  con  un  uso  della  riflessione  superiore  d'as- 
sai al  comune,  tende  al  conoscimento  delle  ra- 
gioni supreme  delle  cose,  è  quegli  che,  accor- 
gendosi che  ogni  operazione  razionale  è  diretta 
da  certi  principi  universali,  si  fa  ad  investi- 
garne l'origine  e  non  quieta  fintantoché  non  sia 
arrivato  a  formarsi  intorno  a  ciò  una  opinione, 
che  abbia  almeno  il  sembiante  della  verità. 
Ora  che  fa  la  nuova  interpretazione,  che  ho  preso 
ad  esaminare  ?  Estende  al  filosofo  ciò  che  da 
Dante  é  detto  dell'uomo,  o  meglio  estende,  ciò 
che  da  Dante  è  detto  di  una  condizione  intel- 
lettuale da  principio  comune  a  tutti  gli  uomini 
e  nella  quale  ancora  la  maggior  parte  rimangono 
per  tutta  la  vita,  ad  una  condizione  intellettuale 
molto  diversa,  alla  quale  solo  pochi  faticosa- 
mente si  sollevano  e  che  diviene  tutto  propria 
di  loro.  Ma  se  Dante  avesse  voluto  dire,  che 
rispetto  all'origine  de'    primi   principi  tanto  ne 


78 

pa  altri  quanto  altri,  essendo  una  insuperabile  ne- 
cessità di  natura  il  rimanerne  affatto  al  bujo, 
egli  che  dalla  logica  aveva  ben  imparato  a  di- 
si inguere  le  proposizioni,  che  insieme  con  un 
fatto  ne  affermano  la  necessità,  ^  egli  si  accu- 
rato sempre  nel  parlare,  anzi  si  ammirabile  per 
la  precisione  con  cui  esprime  fino  i  più  astrusi 
concepimenti  del  pensiero  filosofico,  non  avrebbe 
o  espressamente  nominato  i  filosofi,  perchè  dal 
più  si  argomentasse  il  meno,  o  formato  il  discorso 
in  maniera  che  non  lasciasse  pensare  possibile 
alcuna  eccezione  a  ciò  che  con  esso  affermava? 
Invece  egli  dice  soltanto  : 

Però,  là  onde  vegna  lo  'nfcelletto 

Delle  prime  notizie,  uomo  non  sape; 

e  cosi  fa  intendere,  che  il  soggetto  del  suo  di- 
scorso è  l'uomo  in  quello  stato  di  mente  e  di 
conoscenza,  in  cui  sogliono  essere  comunemente 
gli  uomini,  senza  escludere  che  alcuni  si  trovino 
come  in  uno  stato  privilegiato,  nel  quale  si  av- 
veri tutto  l'opposto  di  quello  che  qui  egli  pro- 
nunzia. 

Adagio,  si  dirà;  anzi  quel  nome  uomo,  di  cui 
Dante  si  serve  in  questi  versi,  contiene  la  giu- 
stificazione della  nuova  interpretazione,  che  tu 
impugni;  perocché  esso,  come  qualunque  dei  no- 
mi, che  i  grammatici  chiamano  comuni,  innanzi 
ad  ogni  altra  cosa  significa  un'essenza  o  natura 
determinata,  e  di  questa  si  afferma  dall'Alighieri 


1  Primi  Analitici,  I,  2;  e  Paradiso,  oaato  XIII. 


79 

che  non  sape  là  onde  vegna  lo  'ntelletto  delle  pri- 
me notizie.  Or  ciò  vuol  dire,  che  una  tale  igno- 
ranza, secondo  l'Alighieri,  è  una  delle  naturali 
od  essenziali  limitazioni  dell'uomo,  e  quindi 
una  di  quelle,  che  gli  è  impossibile  per  qua- 
lunque sforzo  ch'ei  faccia,  di  trapassare.  Per 
ciò,  solo  che  si  conceda  che  anche  il  filosofo  è 
uomo,  ne  viene  per  indeclinabile  conseguenza 
che  anch'egli,  come  ogni  altro  uomo,  non  sappia 
là  onde  vegna  lo  intelletto  delle  prime  notizie. 
Vero,  io  rispondo,  i  nomi  comuni  innanzi  ad 
ogni  altra  cosa  significano  un'essenza  o  natura 
determinata.  Ma  che  perciò  ?  Non  è  anco  vero, 
che  ciò  che  è  significato  da  siffatti  nomi,  quando 
sono  il  soggetto  del  discorso,  non  ha  sempre  la 
medesima  relazione  con  ciò  che  è  significato 
dai  verbi,  che  reggono,  e  dai  loro  compimenti,  e 
che  questi  verbi  e  questi  compimenti  talora  si- 
gnificano una  relazione  necessaria  e  invariabile 
e  talora  una  relazione  accidentale  e  invariabile? 
Ora  che  della  seconda  maniera  e  non  della  pri- 
ma sia  la  relazione  significata  nelle  parole  di 
Dante  col  non  sape  e  con  quello  che  ne  di- 
pende, non  solo  è,  come  mi  par  risultare  dalle 
cose  dette,  il  senso  che  prima  si  affaccia  alla 
mente  di  chi  le  legge  senza  preoccupazione  e  che 
secondo  i  canoni  dell'ermeneutica  deve  ritenersi, 
semprechè  non  vi  sia  qualche  ragione  per  ab- 
bandonarlo, ma  è  ancora  quell'unico  senso,  che 
per  ogni  altra  considerazione  sia  permesso  di 
lui  dare. 


80 

E  valga  il  vero.  Glie  il  nostro  Poeta  in  fi- 
losofia sia  un  Aristotelico,  è  ciò  che  ogni  let- 
tore della  Divina  Commedia,  ancorché  non  in- 
formato da  nessuna  storia  degli  studi  e  delle 
opinioni  dell'Autore,  può  congetturare  come  molto 
probabile  fin  dai  primi  canti,  quando  intende  che 
il  filosofo  di  Stagira  è  il  maestro  di  color  che 
sanno,  e  che  gli  altri  filosofi  Tutti  l'ammiran, 
tutti  onor  gli  fanno:  cosicché  gli  stessi  Socrate 
e  Platone  debbono  riputarsi  a  grande  ventura 
di  stargli  innanzi  agli  altri  più  presso.  ^  Pro- 
cedendo poi  nella  lettura  del  divino  Poema, 
quasi  ad  ogni  pie  sospinto  incontra  argomenti 
che  gli  convertono  il  probabile  in  certo,  se  egli 
un  poco  si  conosca  delle  dottrine  professate  da 
quell'antico  saggio  ;  e  nota,  forse  non  senza  una 
certa  meraviglia,  se  abbia  di  più  l'abitudine  di 
osservare  un  po'  sottilmente  le  cose,  come  tanto 
più  di  là  tragga  quanto  più  alto  si  leva.  Ora 
nell'aristotelismo  (e  chi  noi  sa  ?)  la  questione 
dell'origine  del  sapere  era  una  delle  principa- 
lissime,  e  la  soluzione,  che  le  si  dava,  formava 
una  delle  differenze  più  profonde  di  questa 
scuola  dalle  altre  ;  e  perciò  una  delle  differenze 
più  vigorosamente  sostenute  da  essa  e  dalle  al- 
tre combattute.     Come  può  credersi  che  Dante, 


'  Inferno,  canto  IV.  Il  medesimo  concetto  di  Aristotile  tro- 
vasi espresso  in  altra  forma  nel  Convito,  Tratt.  Ili,  cap.  5,  quando 
si  dice  che  a  lui  "  la  natura  più  aperse  i  suoi  segreti  „.* 

*  Dante  gli  dà  anche  maggior  segno  d'onore,  chiamandolo  ìiiaestro  e  duca 
della  ragione  umana.  —  Conv.,  IV,  2  e  6  (O.  F.). 


81 

in  un  punto  di  tanta  importanza,  mancasse  di 
fede  al  suo  maestro  in  filosofia,  e  non  solamente 
modificasse  quello,  che  da  lui  era  stato  inse- 
gnato, lo  che  poteva  essere  conciliato  coll'alta 
venerazione,  in  cui  ai  tempi  di  Dante  egli  era 
universalmente  avuto,  ma  risolutamente  gli  con- 
tradicesse abbracciando  la  opinioJie,  che  del  mo- 
do onde  in  noi  nasce  e  si  svolge  la  cognizione 
delle  cose  non  si  può  dir  nulla,  perchè  per  ne- 
cessità di  natura  tutti  aggrava  intorno  a  ciò  una 
eguale  ignoranza  ? 

Ma  questo  non  è  tutto.  Dopoché  nei  paesi 
più  colti  d'Europa  fu  conosciuta  la  esposizione, 
che  delle  dottrine  Aristoteliche,  riguardanti  le 
parti  pili  interne  e  quasi  direi  vitali  della  filo- 
sofia, aveva  fatta  l'Arabo  Ibn  Roschd,  noto  sotto 
il  nome  alterato  di  Averrois  o  Averroè,  e  dopo- 
ché a  cotesta  esposizione  che,  togliendo  via  la 
vera  relazione  tra  l'intelligenza  dell'uomo  e  l'in- 
telligenza di  Dio,  distruggeva  quasi  di  un  bel 
colpo  il  vero  essere  dell'uno  e  dell'altro,  fu  con- 
trapposto da  fra  Tommaso  d'Aquino  una  esposi- 
zione che  i  detti  dell'Arabo  mostrava  ripugnanti 
ad  un  tempo  alla  verità  dei  fatti  ed  alla  autorità 
di  Aristotile,  il  campo  della  filosofia  aristotelica 
restò  diviso  in  due  parti.  Da  una  parte  Aristote- 
lici, che  si  attenevano  all'esposizione  di  Averroè: 
dall'altra  parte  Aristotelici,  che  si  attenevano 
all'esposizione  di  fra  Tommaso  d'Aquino  :  quelli 
invero  assai  meno  numerosi  di  questi,  ma  con- 
cordi, tenaci,  infaticabili  per  prevalere,  se  fosse 


stato  possibile.  Ora  Dante  per  l'altezza  stessa  del 
suo  ingegno  poteva  bene  stimare  assai  Averroè, 
e  difatti  assai  lo  stimò,  come  cbiaramente  testi- 
moniano i  due  luoghi  della  Divina  Commedia, 
dove  ne  fa  menzione;^  ma  non  poteva  affatto  esser 
dei  suoi  seguaci.  Le  sue  meditazioni  sulla  na- 
tura dell'uomo  e  le  sue  persuasioni  in  materia 
di  religione  armonicamente  lo  spingevano  verso 
San  ToDimaso,  ed  egli  gli  si  aderiva  con  tutta  la 
potenza  dell'animo  suo.  Il  canto  X  del  Paradi- 
so, dove  rumile  fraticello  apparisce  nel  Sole  al 
nostro  Poeta  insieme  con  altri  grandi  sapienti 
dei  due  Testamenti,  e  i  canti  seguenti,  nei  quali 
lungamente  ragiona  con  lui  e,  libero  ufficio  dì 
dottore  assunto,  come  Dante  si  esprime  altrove  in 
simil  proposito,  ^  risponde  ai  dubbi  sorti  nella 
sua  mente  ;  bastano  anche  soli  a  mostrare,  quan- 
to egli  attribuisse  al  sapere  dell' Aquinate  e  si 
per  esso  come  per  la  sua  santità,  di  cui  erano  an- 
cora cosi  fresche  le  memorie,    gli  fosse  cordial- 


*  Inferno,  canto  IV,  e  Purg.,  cauto  XXV.  Nel  seo.  XVI  la 
mala  semenza  delle  dottrine  averroisticlie  non  era  ancora  venuta 
meno  nella  Università  degli  studii  di  Padova,  dove  principalmente 
era  stata  coltivata:  e  il  Fracastoro,  celebre  alunno  di  qael la  ce- 
lebre Università,  adoperava  l'ingegno  e  l'arte  in  adornarle  di 
nobili  versi,  come  ben  mostra  il  segnente  frammento,  cbe  leggesi 
nella  ediz.  cominiana  delle  poesie  di  lui  del  1739  voi.  IL  a  pag.  160  : 

....  Olita  divina  super  mens 
Aatat,  magna,  micans  :  cujìia  radiata  nitore, 
Quae  fuerant  ohacura  pius  simulacra,  repente 
Fiunt  coram  anima,  claraque  in  luce    refulgent. 
Non  aliter  quam  quae  caeca  sub  nocte  tenentur, 
Sì  feriat  rutilum  Solia  jubar,  omnia  late 
Splendescunt,  pulchraque  petunt  in  luce  videri. 

*  Paradiso,  oanto  XXXTT. 


83 

mente  ossequioso.  '  Alla  autorità  dunque  di  Ari- 
stotile si  aggiungeva  anche  tutto  il  peso  di 
quella  del  Dottor  di  Aquino  a  rendere  il  nostro 
Poeta,  come  sollecito  di  mantenere  alla  questio- 
ne dell'origine  della  cognizione  umana  quel  luo- 
go, che  godeva  nella  filosofia  Aristotelica,  cosi 
avverso  ad  una  soluzione  meramente  negativa 
di  essa  questione,  quale  è  quella  che  ora  si  vuol 
trovare  nei  versi:  Però  là  onde  vegna,  etc,  at- 
tesa massimamente  la  controversia,  che  allora 
ferveva  cogli  Averroisti.  Imperocché  una  solu- 
zione di  tal  forma,  se  riusciva  una  taccia  di  va- 
na presunzione  per  gli  Averroisti,  che  poneano 
distinto  nell'anima  l'intelletto  possibile,  cosicché 
a  loro  senso  un  solo  e  medesimo  intelletto  era 
che  intendeva  in  tutti  quanti  gli  uomini;  riu- 
sciva un  egual  laccio  anche  per  coloro,  che  li  im- 
pugnavano, e  interdicendo  a  quelli  di  professare 
una  qualunque  dottrina  positiva  sulla  origine  del- 
l'umano sapere,  li  riduceva  nell'impotenza  di  ri- 
portare una  piena  vittoria  delle  assurde  ed  em- 
pie esagerazioni  di  quelli.     E  per  fermo  la  vit- 


1  È  massimamente  da  ponderarsi  a  questo  proposito  l'imma- 
gine, che  Dante  al  principio  del  canto  XIV  del  Paradiso  dice 
essergli  venuta  in  mente,  quando  ebbe  udito  Tommaso  di  Aquino 
e  trovato  il  suo  parlare  cosi  somigliante  a  quello  di  Beatrice. 
Questa  immagine  fu  quella   dell'acqua,  ohe 

Dal  centro  al   cerchio  e  si  dal  cerchio   al  centro 

Muovesi in  un  ritondo  vaso. 

Secondo  oh'è  percosso  fuori  o  dentro. 

Questo  manifestamente  vuol  dire,  ohe  egli  trovava  la  medesima 
sapienza  nei  detti  dell'una  e  dell'altra,  o,  per  uscire  del  tutto  fuor 
di  figura,  clie  egli  riveriva  l'Aquinata  come  l'ottimo  degli  inter- 
petri  della  Sapienza. 


84 

toria  sopra  una  falsa  dottrina  non  può  mai  esser 
piena,  finche  nel  suo  luogo  non  sia  stata  posta 
una  dottrina  vera  e  bene  stabilita. 

E  qui  chiedo  mi  si  permetta  di  accennare  in 
poche  parole  la  via,  per  la  quale  il  dottor  di 
Aquino  e  i  filosofi  che  insisterono  nelle  sue  or- 
me nell'intelligenza  delle  dottrine  Aristoteliche, 
spiegavano  l'origine  delle  nostre  cognizioni.  Co- 
me Ippocrate  aveva  gettate  le  fondamenta  della 
vera  medicina  con  quel  detto  sapiente,  che  la 
natura  è  la  medicatrice  dei  malori  dell'uomo,  e 
il  medico  non  deve  essere  altro  che  un  inter- 
prete e  un  ministro  di  lei  ;  cosi  il  fondamento 
della  vera  filosofia  era  stato  gettato ,  allorché 
dapprima  si  pensò  a  trar  luce  per  le  specula- 
zioni filosofiche  da  quel  detto  della  stessa  sa- 
pienza fattasi  sensibile  agli  uomini:  Uno  è  il 
vostro  Maestro,  Cristo.  ^  Il  greco  Apologista  del 
Cristianesimo,  Giustino,  ha  questo  merito  singo- 
lare, ^  D'allora  in  poi  quel  pensiero  non  fu  più 
mai  abbandonato,  e  nella  Chiesa  Greca  e  nella 
Latina  forti  ingegni  mostrarono  coi  loro  scritti 
quanto  esso  fosse  fecondo  di  ottimi  risultamenti 
per  la  scienza  umana  in  ogni  sua  parte  di  mag- 
giore importanza.  Così  si  originò  e  perpetuò 
nella  Chiesa  una  specie  di  tradizione  scientifica, 
e  da  questa  ricevette  anche  Tommaso  d'Aquino 
l'indirizzo  nel  filosofare.     Per  lui  adunque,  come 


1  Mattbo,   Gap.  XXIII,  v.  10. 
*  Seconda  Apologia,  nn.  8,  10. 


85 

per  tutti  gli  altri  grandi  dottori  cristiani,  Iddio 
è  il  Maestro  universale  degli  uomini  anche  nel- 
l'ordine naturale,  e  coloro,  che  siamo  soliti  ono- 
rare di  questo  titolo,  non  insegnano  propriamente 
la  verità,  ma  altro  non  fanno  che  aiutarci  dalFe- 
sterno  col  suono  della  lor  voce  a  profittare  delle 
lezioni,  che  internamente  ci  porge  Dio  stesso 
mediante  quel  lume  che  ha  inserito  nella  nostra 
ragione.  Ma  questa  dottrina  voleva  essere  così 
esposta,  che  acquistasse  per  così  dire  il  diritto 
di  cittadinanza  nel  regno  della  scienza  umana  e 
non  potesse  oggimai  da  nessuno  essere  rigettata. 
A  tal  uopo  l'Aquinate,  secondo  che  portavano  i 
tempi  suoi,  ebbe  ricorso  alle  dottrine  d'Aristotile, 
e  fra  queste  ne  trovò  che  a  meraviglia  si  presta- 
vano a  dimostrare  quella  tradizionale  dottrina. 
Essa  era,  che  ogni  insegnamento  ed  ogni  appren- 
dimento, fatto  per  via  d'intelligenza,  ha  origine 
da  una  cognizione  precedente.  ^  Se  ciò  è  vero, 
e  l'osservazione  lo  chiarisce  verissimo,  risalendo 
di  cognizione  in  cognizione  o  bisogna  andare 
all'infinito,  lo  che  non  è  lecito  perchè  distrugge- 
rebbe ciò  che  si  ha  da  spiegare,  o  bisogna  arre- 
starsi finalmente  a  una  prima  cognizione,  che 
sia  come  il  fonte  comune  di  tutte  quelle,  di  cui 
l'uomo  può  arricchirsi.  Ora  questa  prima  cogni- 
zione è  la  cognizione  dei  primi  principi,  cioè  di 
quelle  cognizioni  universali,  che  entrano  in  ogni 


*  Haaa  cìiSaaxaUa  xaC  nàaa  fia&rjai^  Siavoijrixì)   sx   nqovn'xq 
Xovarj^  yCt'STat  yyujasio?,  —   Secondi  Analitici,  1, 1. 


86 

concezione    che  la  mente    può  formarsi  di  cose 
comunque    determinate   e   che   con    autorità  di 
leggi  assolute  ne  governano  i  giudizi  e  i  ragio- 
namenti.    Ma  se  queste  concezioni  sono  ciò  che 
la  mente  primieramente  conosce,    non  sono  per 
altro  ciò  che  forma  la  mente  stessa,  ossia  l'atti- 
vità stessa    dell'intendere.     Questo  è  il  lume  a 
tal  fine  dato  da  Dio  nell'anima  nostra.     Ecco  le 
parole  stesse  di  S.  Tommaso  :  "  Nel  lume  dell'in- 
telletto agente    ci  è   originalmente  innestata  in 
certo  modo  ogni  scienza  mediante   le  universali 
concezioni,  che    col    lume   dell'intelletto  agente 
tosto  si  conoscono,  per   le  quali  come    per  uni- 
versali principi  giudichiamo  delle  altre  cose  ed 
in  quelle  le  preconosciamo  „.  *     E  per  questa  ra- 
gione e  in  questo  senso  il  Dottore  d'Aquino  am- 
mette di  buona  voglia  il  dogma   platonico,  che 
ciò  che  impariamo,  ci  era  già  noto.     Ma  che  co- 
sa è  mai  per  l'Aquinate  questo  lume,  fonte  esso 
pure  dei  primi    principi,    come  i  primi  principi 
sono  essi  pure  di  tutte  le  cognizioni  susseguenti? 
E  una  certa  partecipazione  del  lume  divino,  una 
certa  similitudine  dell'eterna  Verità,  che  in  noi 
si  riverbera.     Al  che  serve  di  commento  quello 
che  egli   ragiona  intorno  alla  natura  del  nostro 
intelletto.   Imperocché  quanto  alla  natura  di  Dio 
dalla  considerazione  delle  creature,  che  non  esibi- 
scono in  se  altro  che  un  essere  finito  e  perciò  re- 
lativo, egli  veniva  ricondotto  a  quella  defìnizio- 


>  Qnaest.  Disput.  2>e  Mente,  quaest.  VI. 


87 

ne,  quanto  semplice  altrettanto  sublime,  di  Dio 
che  si  legge  neìV Esodo  :  ^  ^  Io  sono  l'Essere  „  cioè 
l'Essere,  che  essenzialmente  ed  assolutamente  è. 
Quanto  poi  alla  natura  dell'intelletto  umano  egli, 
confrontandone  le  operazioni  con  quelle  del  sen- 
so, che  solo  coglie  gli  esterni  accidenti  delle  cose, 
veniva  a  ravvisare  che  l'operazione  sua  propria 
è  circa  l'essenza  delle  cose;  e  poiché  quelle  es- 
senze ci  riducono  all'essere  in  comune  coll'ag- 
giunta  di  varie  determinazioni,  il  suo  proprio  og- 
getto consiste  appunto  nell'essere  in  comune. 
Ora  se  da  un  lato  l'essere,  in  quanto  è  essenzial- 
mente ed  assolutamente  essente,  è  Dio,  e  dall'al- 
tro, in  quanto  è  appreso  universalmente,  è  l'og- 
getto proprio  dell'intelletto  umano,  è  piano  come 
l'Aquinate  potesse  dire,  che  il  lume  dell'intel- 
letto umano  sia  una  certa  partecipazione  o  simi- 
litudine di  Dio  o  dell'increata  verità.  Io  non 
credo,  debbo  pur  dirlo  si  per  non  essere  frain- 
teso e  si  per  amor  di  schiettezza,  io  non  credo 
che  Tommaso  di  Aquino  giungesse  mai  a  ren- 
derai cosi  esplicitamente  ragione  di  ciò  che  in 
tanti  luoghi  delle  sue  opere  ripete  sulla  natura 
del  lume  dell'intelletto  e  sulla  sua  attinenza  con 
Dio.  Ma  qualunque  siano  state  le  cause,  che  ne 
lo  impedirono,  certo  è  che  questa  spiegazione 
giace  implicita  nel  complesso  delle  sue  dottrine 
e  si  fa  innanzi  quasi  spontanea  a  chiunque  pro- 
fondamente   le  mediti   e   senza  la   stolta  paura 


•  Etodo,  oap.  Ili,  V.  14. 


88 

che  alcuni  dei  suoi  studiosi  oggi  paiono  avere, 
di  dire  una  parola  di  più  oltre  quelle  dette  da 
lui,  come  se  la  scienza  potesse  star  tutta  rac- 
chiusa nelle  parole  di  un  sol  uomo.  Del  resto 
la  storia  dell'umano  intelletto,  giusta  il  modo  on- 
de Tommaso  d'Aquino  se  la  rappresenta,  è  in 
sostanza  la  seguente.  L'intelletto  umano  è  un'at- 
tività, che  ha  due  movimenti;  coU'uno  si  costi- 
tuisce come  potenza  di  conoscere,  coli 'altro  si 
svolge  e  perfeziona.  Col  primo,  onde  si  costitui- 
sce come  potenza  di  conoscere,  incontra  l'essere 
in  universale  e  l'apprende.  Da  tale  apprensione 
in  cui  sono  virtualmente  contenute  tutte  le  ap- 
prensioni e  tutti  gli  altri  atti,  che  in  queste  si 
fondano,  incomincia  il  secondo  movimento  del- 
l'intelletto e  in  esso  si  possono  distinguere  tre 
principali  momenti,  per  ciascuno  dei  quali  nel 
linguaggio  della  scuola  tomistica  vi' è  una  frase 
particolare,  che  ne  esprime  il  carattere  distinti- 
vo. Imperocché  innanzi  tutto  nell'apprensione 
dell'essere  in  universale  sono  virtualmente  con- 
tenuti i  sommi  principi  della  ragione,  che  si  ri- 
solvono nei  concetti  universali  dell'^wo,  dell'e- 
denticOj  dell'assoluto  e  cosi  via.  Ora  questi  con- 
cetti si  fanno  attuali  nell'intelletto,  quando  gli 
è  somministrata  una  materia  di  conoscere,  lo  che 
è  ufficio  proprio  del  senso.  Allora  l'intelletto 
mediante  quei  concetti  :  l**  illustra  i  fantasmi 
cioè  la  materia  somministratagli  dal  senso,  per- 
cezione intellettuale  dei  sensibili  ;  2"  astrae  dai 
fantasmi  le  specie  intelligibili,  concezione  per  via 


89 

di  riflessione  delle  idee  astratte  delle  cose,  ossia 
delle  specie  e  dei  generi  ;  3"  compone  e  divide  le 
t^pecie  astratte,  giudizi  e  raziocini,  coi  quali  la 
riflessione,  comparando  le  idee  astratte,  si  viene 
formando  una  scienza  più  o  meno  perfetta  delle 
cose,  secondochè  discopre  più  o  meno  delle  loro 
relazioni. 

Ma  in  qualunque  di  questi  momenti  della 
sua  evoluzione  si  trovi  l'intelletto  nostro,  è  pur 
sempre  vero,  che  tutto  quello  che  egli  conosce, 
conoscendolo  per  la  verità  dei  primi  principi,  e 
quelli  essendo  come  i  primi  raggi  di  quel  lume 
che  fa  di  lui  una  potenza  intellettiva;  e  questo 
venendo  da  Dio,  anzi  essendo  una  certa  parte- 
cipazione del  lume  stesso  di  Dio  a  noi  in  parte 
comunicato,  ne  segue  che  pur  nell'ordine  natu- 
rale "  Dio  solo  è  quegli,  che  internamente  e 
principalmente  ci  ammaestra  come  è  anche  la 
natura  quella  che  principalmente  risana  „.  Cosi 
l'Aquinate  nelle  Questioni  Disputate  de  Magi- 
stro,  '  dove  anche  stanno  quell'altre  belle  paro- 
le :  "  Che  alcuna  cosa  si  sappia  con  certezza,  av- 
viene per  il  lume  della  ragione  divinamente  in- 
fuso, col  quale  Iddio  in  noi  favella  „  ;  "^  parole,  colle 


*  Quaest.  I,  nel  corpo  dell'articolo  in  fine. 

*  Ivi,  nella  risposta  all'obiezione  13.  Si  considerino  bene 
quelle  frasi  dell' Aquinate  :  "  Utiiversales  conceptiones,  quaruni  co- 
gnitio  est  nobìs  naturaliter  insita  „  (Qiiest.  cit.  de  Magistro  nella, 
risposta  alla  obiez.  5)  —  "  Lumen  rationis  ....  per  quod  principi» 
cognoscimus „  (Tbid.,  nella  risposta  alla  obiez.  17) —  '^  Mediantibas 
tmiversalibus  conceptionibus,  quae  statim  lumine  intellectus  agcn- 
tis  cognoscuntur  „  (Quest.  cit.  de  Mente,  nel  corpo  dell'articolo  in 
fine):  e  poi  si  dica,  se  secondo  la  mente  di  S.  Tommaso  d'Aquino 


90 

quali  si  pone  espressamente  una  cotale  rivela- 
zione naturale,  come  rimota  preparazione  a  quella 
soprannaturale  rivelazione,  che  si  fa  nell'anima 
del  Cristiano. 

Io  m' immagino,  ohe  mentre  veniva  cosi  nar- 
rando in  compendio  i  pensieri  del  nostro  grande 
filosofo  sulla  questione  dell'origine  del  sapere, 
la  mente  del  lettore  mi  abbia  spesso  abbando- 
nato e  sia  volata  ora  a  questo  ora  a  quel  luogo 
della  Divina  Commedia,  dove  si  leggono  sotto 
forma  poetica  dei  pensieri  somiglianti.  E  se  ciò 
è  veramente  accaduto,  naturai  cosa  è  che  si  sia 
intanto  rafforzata  in  lui  la  persuasione,  che  il 
nostro  gran  Poeta  nei  versi,  che  danno  argomen- 
to al  mio  dire,  non  può  avere  avuto  l'intenzione 
di  esprimere  la  impossibilità,  da  cui  neppure  il 
filosofo  vada  essente,  di  scorgere  la  sorgente, 
donde  viene  l' intelletto  delle  prime  notizie. 
Certo  è  che  codesti  pensieri  somiglianti  nella 
Divina  Commedia  vi  sono  e,  ciò  che  ora  io  de- 
sidero che  si  avverta  e  che  importa  al  mio  pro- 
posito sommamente,  i  più  somiglianti  si  trovano 
appunto  nel  passo  del  Purgatorio,  che  altri  ha 
interpretato  cosi  diversamente. 

In  vero,  se  non  si  guarda  che  alla  sostanza 
della  soluzione  di  Tommaso  d'Aquino,  egli  in- 
segna che  la  cognizione  dei  primi  principi,  don- 
de proviene  ogni  altra  cognizione  dell'uomo,  è 


il  lume  dell'intelletto  o  della  ragione  possa  esser  altro  ohe  un 
massimo  universale,  come  appunto  dimostra  che  è  il  Eosmini  nel 
Nuovo  Saggio  sulla  origine  delle  idee  e  in  altro  sue  opere. 


91 

una  cognizione  in  lui  innata,  in  quanto  che  in 
lui  è  innato  il  lume  della  ragione,  per  il  quale 
tali  principi  conosce.  E  non  ripete  Dante  in 
sostanza  il  medesimo  nei  terzetti  del  canto  XVIII 
del  Purgatorio,  che  furono  riferiti  da  principio  ? 
Infatti  quivi  egli  dice:  1"  che  la  specifica  virtù 
dell'anima  umana,  forma  sostanziale  che  nel  tem- 
po stesso  è  scevra  di  materia  ed  unita  con  lei, 
è  la  virtù  del  conoscere  e  la  virtù  dell'amare  ; 
2"  che  ciascuna  di  queste  virtù  ha  i  suoi  propri 
oggetti,  cioè  la  virtù  del  conoscere  certe  prime 
notizie,  che  la  dirigono  nelle  sue  particolari  ope- 
razioni e  la  virtù  dell'amare  certi  primi  appeti- 
bili, che  similmente  la  muovono  e  la  guidano 
nelle  sue  particolari  operazioni,  e  che  1'  intelletto 
di  tali  notizie  e  l'affetto  di  tali  appetibili  pre- 
cedono perciò  di  loro  natura  tutte  le  particolari 
operazioni  di  esse  virtù  ;  3"  che  queste  due  virtù 
per  una  legge  generale,  a  cui  sottostanno  tutte 
le  forme  della  stessa  specie  dell'anima  nostra, 
sempre  si  rimarrebbero  occulte,  se  uscendo  nelle 
loro  particolari  operazioni  non  si  facessero  in 
queste  sentire  e  per  queste  non  si  dimostrassero, 
come  per  verde  fronda  in  pianta  vita;  4°  che 
conseguentemente,  quando  l'uomo  opera  o  col- 
l'una  o  coll'altra  di  queste  virtù,  gli  si  rende 
bensì  sensibile  e  gli  si  dimostra  quella,  con  cui 
opera,  ma  non  anche  quell'atteggiamento  prece- 
dente di  essa,  per  il  quale  è  causa  al  tutto  pro- 
porzionata e  pronta  al  suo  operare,  quindi  non 
anche  l'intelletto   delle   prime   notizie  nell'epe- 


92 

rare  della  seconda;  6"  finalmente  che  quest'in- 
telletto e  quest'affetto,  solo  discopribili  nel  se- 
greto dell'anima  all'acuto  sguardo  d'una  tarda 
riflessione  filosofica,  sono  tanto  connaturali  al- 
l'anima, quanto  le  sono  connaturali  le  specifiche 
virtù,  delle  quali  non  sono  che  proprietà,  e  da 
paragonarsi  perciò  agli  istinti,  che  differenziano 
le  varie  classi  di  animali,  allo  studio  per  es.  che 
è  nell'ape  di  far  lo  mèle.  Lascio  il  resto,  perchè 
non  legato  strettamente  col  tema  del  mio  discor- 
so, e  dall'esposto  raccogliendo  quel  che  ne  se- 
gue, dico  :  che  tanto  è  lungi  che  l'Alighieri  nel 
passo  riferito  del  Purgatorio  dichiari  insolubile 
la  questione  della  origine  delle  umane  cognizioni 
e  più  precisamente  dei  primi  principi,  che  al- 
l'opposto egli  proprio  in  quel  passo  stesso  ne  dà 
una  soluzione,  e  questa  sostanzialmente  è  quella 
che  già  ne  aveva  dato  il  Dottore  di  Aquino. 

Che  se  vi  ha  qualcuno  che  non  consenta  meco 
nel  modo  d'intendere  o  la  dottrina  filosofica  del- 
l'Aquinate  o  quella  corrispondente  di  Dante  o 
tutte  e  due,  io  ora  non  gli  contrasterò.  Intenda 
egli  pure  a  suo  talento  coteste  dottrine;  a  me 
basta  finalmente  che  riconosca  il  fatto ,  che  in 
questo  canto  del  Purgatorio  Dante  una  ne  pro- 
fessa, qualunque  ella  sia.  Imperocché,  ricono- 
sciuto questo  fatto,  bisogna  risolversi  ad  una  di 
queste  due  cose  :  o  bisogna  tener  Dante  per  uomo 
di  tale  grossezza  e  stupidità  di  mente  da  non 
accorgersi  della  contraddizione,  in  cui  cade,  sen- 
tenziando, come  pretende  la  nuova  interpretazio- 


93 

ne,  che  all'uomo  non  è  dato  di  sapere  là  onde 
vegna  lo  intelletto  delle  prime  notizie^  e  nell'atto 
stesso  esponendo,  sebbene  brevemente,  una  dot- 
trina intorno  a  questa  questione  :  oppure  bisogna 
rifiutare  la  nuova  interpretazione,  e  credere  la 
intenzione  di  Dante  lontana  le  mille  miglia  da 
quella  sentenza.  In  verità  io  non  so,  se  oggi 
neppur  un  Bettinelli  prenderebbe  il  primo  par- 
tito. 

A  questo  punto  mi  pare  eh'  io  potrei  tenere 
per  sodisfatto  il  mio  debito  e  quindi  far  fine. 
Pure  mi  piace  di  aggiungere  due  altre  conside- 
razioni che  mi  sembrano  attissime  a  far  sentire 
sempre  più  quanto  sia  iuammissibile  la  discussa 
interpretazione.  Si  consideri  dunque  in  primo 
luogo  che  Dante,  comecché  uomo  straordinario, 
tanto  che  possa  dirsi  di  lui  quello  che  egli  disse 
di  Omero,  cioè  che  sovra  gli  altri  com' aquila  vo- 
la, ciò  non  ostante  è  un  uomo  del  secolo  XIII, 
e  tutti  si  riscontrano  in  lui  i  caratteri  generali 
degli  uomini  dei  tempi  suoi.  Uno  di  essi  è  la 
fede,  presa  questa  parola  nel  senso  j)iù  ampio  ; 
cosicché,  oltre  la  fede  soprannaturale  propria  del 
Cristiauo,  abbracci  pur  quella  meramente  natu- 
rale dell'uomo,  per  la  quale  egli  fortemente  as- 
sente a  tutto  ciò,  che  la  ragione  gli  mostri  co- 
me vero  o  come  buono.  I  fatti  pubblici  e  pri- 
vati, le  lotte  delle  fazioni  politiche,  le  dispute 
delle  scuole,  i  monumenti  sacri  e  profani,  i  libri, 
che  si  leggevano  a  istruzione  o  a  trastullo,  tutto 
in  una  parola  ciò    che    appartiene  a  quei  tempi 


94 

concorre  a  farci  intendere,  che  un  uomo,  che  non 
credesse  con  fermezza,  sarebbe  stato  allora  quasi 
un  assurdo.  Per  questo  fra  i  diversi  modi  di 
pensare,  che  anche  nell'età  di  mezzo  regnavano 
nelle  scuole,  restò  ignoto  del  tutto  quello,  che 
torna  in  fine  in  distruzione  d'ogni  scienza  e  dello 
stesso  pensiero,  voglio  dire  lo  scetticismo.  Ora 
che  altro  è  che  puro  e  pretto  scetticismo  il  dire 
là  onde  vegna  lo  'ntelletto  delle  prime  notizie, 
uomo  non  sape,  se  questo  si  ha  da  togliere  nel 
senso  che  la  nuova  interpe trazione  propone? 
Imperocché  le  prime  notizie  son  pure  quelle,  sulle 
quali,  come  su  fondamento,  s'innalza  tutto  il 
sapere  dell'uomo;  onde  il  dubitare  del  suo  va- 
lore si  fa  inevitabile  a  chiunque  s'attenta  di  pas- 
sar i  confini  della  riflessione  volgare,  se  la  ori- 
gine delle  prime  notizie  è  impossibile  a  disco- 
prirsi. Imperocché  come  potrebbe  egli  abban- 
donatamente affidarsi  a  principi  d'origine  non 
pure  ignota,  ma  avuta  da  lui  per  inconoscibile  ? 
Non  potrebbero  essere  altrettante  misere  illusioni 
della  sua  mente?  E  per  qual  via  liberarsi  di 
questo  terribile  sospetto,  se  tutti  i  giudizi  della 
mente  si  fanno  a  norma  di  quei  principi?  S'im- 
magini pure  chi  vuole  maestro  di  dubbio  il  no- 
stro grande  Poeta:  io  per  me  non  potrò  mai 
farmi  un'  immagine  tale  di  nessun  uomo  dei  suoi 
tempi  e  dell'Alighieri  anche  molto  meno,  se  l'Ali- 
ghieri è  quello  che  lo  dicono  le  storie  e  che  lo 
manifestano  tutte  concordemente  e  le  sue  prose 
e  i  suoi  versi  immortali.     Appoggiato   invece  a 


95 

questi  documenti  certissimi,  dai  quali  tanta  fede 
traluce  nella  ragione  e  nella  scienza  umana,  io 
me  lo  immaginerò  pieno  di  sdegnoso  disprezzo 
per  cotesto  genere  di  mendace  filosofia,  quale 
egli  si  mostra  nella  prima  cantica  della  Divina 
Commedia,  quando,  entrato  appena  nella  città 
di  Dite  incontra 

l'anime  triste  di  coloro, 

Che  visser  senza  infamia  e  senza  lodo. 
Mischiate.  ...  a  quel  cattivo  coro 
Degli  Angeli,  che  non  furon  ribelli, 
Né  fur  fedeli  a  Dio,  ma  per  sé  foro.  ' 

Non  è  già,  ed  eccomi  all'altra  considerazio- 
ne, non  è  già  che  Dante  creda  illimitata  la  sua 
ragione  umana  o  che  ne  esageri  comecchesia  il 
potere:  no,  egli  riconosce  i  suoi  confini  e  al  di- 
sopra di  questa  naturale  sorgente  di  cognizione 
ne  pone  un'altra  soprannaturale,  la  fede,  desti- 
nata per  dono  grazioso  di  Provvidenza  ad  esten- 
dere e  compire,  quanto  quaggiù  è  possibile,  la 
cognizione  derivata  dalla  prima.  Però  egli  am- 
mette due  scienze  distintissime,  corrispondenti  a 
quelle  due  potenze  o  principi  subiettivi  del  nostro 
sapere,  la  filosofia  e  la  teologia;  e  come,  menato 
dall'istinto  d'un  animo  eminentemente  poetico, 
che  tutto  contempla  nella  forma  del  bello,  pren- 
de Virgilio  come  simbolo  della  filosofia,  così 
Beatrice  prende  per  simbolo  della  teologia.  Quin- 


•  Inf.,  canto  III. 


96 

di  quelle  parole,  che  servono  d'introduzione  ac- 
concissima ai  ragionamento,  con  cui  Virgilio  nel 
canto  XVIII  del  Purgatorio  si  fa  a  dissipare  diffi- 
coltà sorte  nella  mente  di  Dante  : 


quanto  ragion  qni  vede 

Dir  ti  poss'io:  da  indi  in  là  t'aspetta 
Pure  a  Beatrice,  ch'è  opra  di  fede. 

Ora  in  questa  introduzione  sta  appunto  una 
nuova  buona  ragione  per  riprovare  la  interpe- 
trazione,  che  fa  dire  a  Dante  indefinibile  per 
umano  ingegno  là  onde  regna  lo  intelletto  Delle 
prime  notizie.  In  vero  qual  era  precisamente  lo 
scopo,  a  cui  mirava  il  ragionamento  di  Virgilio? 
A  Dante,  non  avendo  inteso  bene  il  principio 
da  cui  era  partito  il  suo  Maestro  nel  ragiona- 
mento antecedente,  con  cui  questi  aveva  voluto 
spiegargli  la  natura  dell'amore,  era  venuto  a  tur- 
bargli la  mente  e  ad  impedirgli  di  comprendere 
come  l'amore  potesse  essere  la  radice  di  ogni 
merito  o  demerito  dell'uomo  che  opera,  questa 
obiezione  : 

Ohe  se  amore  è  di  fuori  a  noi  offerto, 
E  l'animo  non  va  con  altro  piede, 
Se  dritto  o  torto  va,  non  è  suo  merto. 

Ora  Virgilio,  perchè  la  mente  di  Dante  ve- 
desse chiaro  come  il  merito  e  il  demerito  del- 
l'operare dell'uomo  stesse  insieme  con  quello 
che  egli  aveva  detto  circa  il  principio  del  suo 
operare,  cioè  circa  l'amore,  non  doveva  aggiun- 


97 

ger  nulla  di  nuovo,  ma  solamente  ritornare  sulla 
natura  dell'amore  e  più  spiegatamente  dirgliene 
l'origine.  E  questo  infatti  è  quello  che  egli  fa, 
quando,  dopo  averlo  avvertito  che  da  lui  non 
si  aspetti  che  quanto  in  questa  materia  può  sa- 
pere la  naturale  ragione  dell'uomo,  prende  a 
dirgli:  Ogni  forma  sustanzial,  con  quel  che  se- 
gue. Ora  qui  è  da  riflettere,  che  conoscere  e 
amare  sono  cose  cosi  connesse,  che  un  subietto 
privo  di  conoscenza  è  impossibile  che  ami,  e  privo 
di  amore  è  impossibile  che  sussista  ;  perchè  col 
solo  conoscere  non  sarebbe  intero,  e  un  subiet- 
to non  intero  è  lo  stesso  che  un  frammento  di 
subietto.  Dante  la  sapeva  bene  questa  con- 
nessione strettissima  dell'amare  e  del  conoscere, 
che  era  uno  dei  più  comuni  insegnamenti  dei 
filosofi  dei  suoi  tempi  e  dei  più  incontroversi; 
onde,  se  la  opinione  sua  quanto  al  conoscere  fosse 
stata,  che  non  se  ne  può  sapere  l'origine,  si  sa- 
rebbe sentito  obbligato  a  professare  un'opinione 
simile  anche  quanto  all'amare,  e  per  conseguen- 
za in  questo  luogo  del  Purgatorio  non  avrebbe 
indotto  Virgilio  ad  ammonirlo  :  Quanto  ragion 
qui  vede  Dir  ti  poss'io,  ma  questi  gli  avrebbe 
dichiarato  a  dirittura  e  senza  andare  in  troppe 
parole,  che  non  poteva  dirgli  nulla,  perchè  nulla 
la  ragione  ne  vede,  e  che  per  tutta  questa  bi- 
sogna gli  conveniva  aspettare  i  più  alti  ammae- 
stramenti di  Beatrice. 

Pertanto  quell'womo  non  sape  del  luogo  esa- 
minato del    Purgatorio  non  è  da  intendersi   se- 


98 

condo  la  nuova  interpetrazione,  ma  si  in  quello 
stesso  stessissimo  significato  che  lia  l' noni,  non 
se  n^avvede  in  un  altro  luogo  della  medesima 
cantica,  dove  il  nostro  Poeta,  esprimendo  una 
delle  più  note  leggi  dell'attenzione  intellettiva, 
dice: 


Quando  per  dilettanze  ovver  per  doglie 
Che  alcuna  virtù  nostra  comprenda, 
L'anima  bene  ad  essa  si  raccoglie; 

Par  che  a  nulla  potenzia  più  intenda, 
E  questo  è  contra  quell'error,  che  crede. 
Che  un'anima  sopr'altra  in  noi  s'accenda. 

E  però,  quando  s'ode  cosa  o  vede, 
Che  tenga  forte  a  sé  l'animo  volta, 
Vassene  il  tempo,  e  l'uom  non  se  n'avvede. 

Ch'altra  potenzia  è  quella,  che  l'ascolta, 
Ed  altra  è  quella,  che  ha  l'anima  intera; 
Questa  è  quasi  legata,  e  quella  è  sciolta. 


In  ambedue  i  luoghi  ci  significa  la  mancanza 
di  una  cognizione  propria  della  riflessione;  ma 
ne  l'una  né  l'altra  cognizione  manca  all'uomo 
per  un  invincibile  ostacolo,  che  stia  nella  sua 
stessa  natura,  bensì  per  una  accidentale  condi- 
zione in  cui  si  trova.  Onde,  finche  egli  rimane 
in  questa  condizione,  necessariamente  rimane 
anche  privo  di  quella  cognizione;  ma  egli  può 
pure  uscirne  e  il  potere  uscirne  non  consiste  in 
altro,  che  nel  potere  riflettere  su  di  se  e  su  quel- 
lo che  in  sé  avviene.  Fin  qui  i  due  casi,  a  cui 
si  riferiscono  i  due  luoghi  del  Purgatorio,  sono 
eguali  del  tutto;  la  loro  dififerenza  comincia  solo 
a  mostrarsi,  quando  si  prende  a   considerare  la 


99 

natura  dell'oggetto,  del  quale  si  tratta  d'acqui- 
star cognizione  per  via  di  un  ripiegamento  del 
pensiero  su  noi  stessi.  Perocché  nel  caso  con- 
templato nel  canto  IV  quest'oggetto  è  lo  scor- 
rer del  tempo,  e  nel  caso  contemplato  nel  canto 
XVIII  è  invece  la  provenienza  delV  intelletto 
delle  prime  notizie.  Or  chi  non  vede,  che  il  ri- 
piegare il  pensiero  su  noi  stessi  per  avvertire 
la  successione  delle  nostre  modificazioni  e  il  mo- 
vimento del  tempo,  è  assai  più  facile  che  il  ri- 
piegare il  pensiero  su  noi  stessi  per  risalire  fino 
all'origine  prima  di  ogni  nostro  conoscimento? 
Chi  non  vede,  che  d'ordinario  ogni  uomo  adulto, 
eccettuate  le  circostanze  di  breve  durata,  a  cui 
l'Alighieri  accenna  nell'esporre  il  primo  caso,  è 
capace  di  fare  e  fa  realmente  quella  semplice 
riflessione,  che  è  necessaria  per  accorgersi  del 
tempo  che  passa;  ma  che  all'opposto  pochissimi 
degli  stessi  uomini  adulti,  o  per  nativa  ottusità 
di  mente,  o  per  difetto  di  conveniente  educa- 
zione intellettuale,  o  per  impedimento  posto  dai 
casi  e  negozi  della  vita,  sono  capaci  di  fare  le 
molte  riflessioni  e  complicate  ed  astruse,  colle 
quali  soltanto  è  possibile  di  elevarsi  fino  a  quel 
fatto  primo,  in  cui  s'inizia  la  potenza  stessa  del 
conoscere?  Ma  quello  che  è  difficile,  sia  pur 
difficile  quanto  si  vuole,  non  è  impossibile;  e 
quello,  che  non  è  impossibile,  o  prima  o  poi,  o 
da  un  uomo  o  da  un  altro  si  fa;  e  cosi  si  va 
effettuando  quella  idea  di  progresso,  che,  se  per 
i  singoli  uomini  ha  il  valore  di  una  legge  mo- 


100 

rale,  per  tutta  insieme  l'umana  famiglia  ha  quel- 
lo d'una  legge  ontologica,  voglio  dire  d'infalli- 
bile necessità.  E  a  chi  quest'idea,  in  sui  primi 
albori  della  civiltà  moderna,  più  che  al  nostro 
Poeta  illuminò  la  mente  e  die  potenza  a  operare? 


Luoghi  del  Poema  di  Dante 

CHIOSATI     O    CITATI     DAL     PAGANINI. 


Jnf.       I,  30. 

y,        III,  35-39. 

«        IV,  144. 
VII,  73-96. 
Pura.   IV,  1-12. 

XVII,  91-96,   127. 

XVIII,  46-66. 
XXI,  28. 

XXIV,  49-54. 

XXV,  63. 
Par.     I,  103-126. 


Par.     II,  19,  107,  140. 
X,  82-139. 

XIII,  58. 

XIV,  1-9,  29. 

XXIII,  25-30. 

XXIV,  91-94. 

XXVIII,  54. 

XXIX,  49-51. 

XXXII,  2. 

XXXIII,  115,  124. 


Autori  0  libri  allegati  nelle  chiose. 


Agostino  (S.),  pag.  26, 54, 64. 
Aristotile.  26,  27,  28,  33,  34, 

35,  37,  38,  39,   40,  42,  43, 

80,  81,  85. 
Alessandro  Afrodisiaco,  36, 

41. 
Alessandro  d'Ales,  27. 
Apocalisse,  66. 
Atti  degli  Apostoli,  6'i. 
Averroè,  31,  33,  35,  36,  38, 

39,  41,  44,  81,  82. 
Bartolo  da  Sassoferrato,  57. 
Bettinelli  Saverio,  93. 
Biagioli  N.  G.,  14,  15. 
Bonaventura  (S.),  22. 
Bossuet,  63,  64. 
fiuti  (Da)  Francesco,  13,  23, 

34,  52,  53,  76. 
Oano  Melchior,  36. 
Cesari  Antonio,  74. 
Condorcet  (de)  M.  G.,  60. 
Conti  Augusto,  73. 
Daniello  Bernardino,  15,  16. 
Epicuro,  48. 
Esodo,  87. 
Evangeli,  60,  84. 
Fichte  G.  T.,  61,  68. 
Fracastoro  Girolamo,   82. 
Giustino  Martire,  84. 
Hegel  Giorgio,  68,  69. 
Ippocrate,  84. 
Livio,  57. 
Lombardi  Baldassarre,  15, 

16,  74, 


Lucrezio,  pag.  48, 

Muratori  Lodovico,  36. 

Cenerò,  93. 

Orazio,  54. 

Ovidio,  54. 

Ozanam  A.  F.,  21. 

Pacuvio,  45. 

Paolo  (S.),  25, 

Petrarca,  36,  37, 

Platone,  36,  48,  80. 

Renan  Ernesto,  38. 

Retorici  ad  Erennio,  45. 

Rosmini  Antonio,  42, 61,  90. 

Sartini  Vincenzo,  73. 

Scoto  Michele,  38. 

Schelling  Peder.  Gugliel- 
mo, 68. 

Seneca,  54. 

Socrate,  80. 

Tolomeo  da  Lucca,  3G. 

Tommaseo  Nicolò,  15.  17, 
21,  24,  54,  55. 

Tommaso  d'Aquino  (S.),  18, 
20,  26,  35,  39,  40,  43,  49, 
81,  83, 84,  85,  86,  88,  89,  90, 
92. 

Varchi  Benedetto,  74. 

Venturi  Pompeo,  15. 

Vico  Giambattista.  41,  55, 
58,  59,  60,  61,  62,  63. 

Vigne  (Delle)  Piero,  38. 

Virgilio,  54. 

Vives  Gian  Lodovico,  36. 


INDICE 


Cablo  Pagano  Paganini  bicordato  da  un  suo  di- 
scepolo   Pag.  5 

I.  Di  un  luogo   del  Purgatorio  di  Dante,  che  non 

sembra  essere  stato   ancora  dichiarato  pie- 
namente    „  13 

II.  Sopra  un  luogo  della  Cantica  del  Paradiso     .  „  23 

III.  JuAverroè  della  divina  Commedia „  31 

IV.  Alcune  osservazioni  sulla  Fortuna  di  Dante.  „  45 

V.  Sopra  un  luogo  del  canto  XXIV  del  Paradiso.  „  63 

VI.  Di  un  luogo  filosofico  della  divina  Commedia.  „  73 

Tavola  dei  luoghi  del  Poema  di  Dante  chiosati  o 

citati  dal  Paganini „  101 

Tavola  degli  Autori  o  libri  allegati  nelle  Chiose.  „  ivi 

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