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Friday, June 7, 2024

GRICE ED ORAZIO

 DIEQO RAPOLLA     VITA     DI     CON RAGGUAGLI NOVISSIMI     E CON NOTE DIFFUSE     SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA     •-'; ' -r: ~ :*     ^; '     POR TIOI   Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano   1892     ■ - \'        e;. \*     \ 1*1     V *L '*^      ^S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» «^ •'1^ •e* *-.'»     SU''     'X»     i I     I i     sJ-     Sì-     I^*     •.     VITA     DI     QVISTO OBAZIO FLACCO     DI     DIEGO RAPOLLA     o     VITA     DI        CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE  SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A   DI   DIEQO RAPOLLA   MOBILB VKN08IMO   CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA   CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI   PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB      PORTICI   pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO   Corso Garibaldi, 173  1893     L'ijf.S'^     : \   j  /        Riproduzione e traduzione vietate.   Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti   che gli concedono le leggi vigenti.      'jfr^j^ **y^sP' ^^i^^'? '%S0^'-'''''*S^ '^S^     Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem  nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo  CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico  tumet, nunc semipede ingreditìtr.   8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio     Sommo di poesìa mastro e di vita.  Pisdnnont*, ad Orazio     Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto !   D'un si vivace   Splendido colorir, d'un si fecondo  Sublime imagjnar, d'una si ardita  Felicità secura,  Altro mortai non arricchì natura     Xetattailo, Canto ad Orazio.     Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures,  DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra.   Ovidio, Trist. 4. Elegia to.     il mastro dei poeti, Orazio   La cui lira per tutto manda il suono,  E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio.   Tansillo, Canto al viceré di Napoli.     Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose  D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose,   Voltaire, EpItre à Horace.     Sume superbiam   Quaesitam meritis     VenoBino.       AI LETTORI     Dauti - /■/. Cult. XIV.     // cittadino di Venosa sentir devesi som-  mamente orgoglioso per esser nato in così  celebre terra, pili antica di Roma: splendida  civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi-  dissima nei medio-evo, e patria, il che più  monta, di Quinto Orazio Fiacco.   Del grande Venosino smisurate innume-  revoli sono state le produzioni letterarie che  ne hanno decantato il nome, criticata F opera     eterna, postillato e glossato ciascun verso o  parola   Non havvi paese al mondo che non abbia  offerto suir altare del culto della poesia per-  fetta di Orazio il suo attestato di reverente  omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran-  eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi  sulle opere del gran poeta italiano, e bio-  grafie e ricerche storiche pregevolissime su  tutto quello che riguarda la sua vita, ed i  luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par-     ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose  di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto.  Duole non poco però che in Venosa, fra  tanto lume d ingegni preclari che ha dato  quel paese, non vi sia stato scrittore che ab-  bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^  fondita, e con opera particolarmente a lui  dedicata; ed era un dovere attraverso i se-  coli venir lodato Orazio da gente venosina.  Neppure un bronzo od una lapide parlava  di lui sin oggi. '^     Ed invero il dottissimo cardinale Giovan  Battista De Luca venosino perchè nei suoi  quaranta volumi in folio non trovò il posto  per seguire quello che un S. Girolamo iniziò?  Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato  de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni  Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel-  lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve-  nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan-  gelo Lupoli), perchè non composero poema  sult immortale loro concittadino ?     Che anzi giustamente Francesco Fioren-  tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo,  redarguisce costui, perchè « discorre di quello  ix^che chiamava suo concittadino con un certo  « risentimento che non è giusto, perché Ora-  « zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve-  « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi  (( un certo compiacimento nel ricordare la sua  a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per  fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità,  sia perchè ogni genio sublitne sorvolando     per forza arcana, trova pure in tutto il ter-  restre spazio angusto confine!   In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una  componente r aristocrazia di quei tristi tempi  di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non  poteva il Tansillo toccare la sua lira can-  tando di Orazio, stella che illumina il mondo  e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ?   Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa-  mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma  non è lecito negligere i sommi.     Io, benché non degno di venir noverato fra  cotanto senno, ho composto questo lavoro con  gran fatica, con gran sudore, con gran reli-  gione, essendomi prefisso con esso diradare  molte idee oscure circa la vita e le opere di  Orazio, riferire coti la maggiore esattezza  quanto ad esse si associa, mettere in luce  tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che  formava pel passato delle lacune negli scritti  dei biografi anche più esatti italiani e stra-  nieri.     Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla  celebre Venosa, che si commettono con la vita  del suo immortale concittadino.   Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto   »   strenuamente compensato col fatto, che ho  aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che  immarcescibile cinge la fronte sublime del  grande italiano.   Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di-  sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri-  temprare gli animi alla fonte delle opere lei*     terarie immortali come quelle di Orazio, ed  il seguirne le norme che da esse emanano,  o cittadini^ è quanto di meglio si può fare.  Si respira così aura piti pura ; si resta an-  negato in un Lete morale dolcissimo: si guar-  da con occhio impassibile la vertiginosa corsa  del torbido torrente della vita umana, da una  sponda secura e tranquilla.  Valete.   Portici— Granatello 1892.   DZE&O BAPOLLA      PROLEGOMENI     L mondo, questo pianeta, che pare  sin oggi abbia il primato sul si-  stema universale dei pianeti, perchè in  esso vive l'uomo, il re della creazione,  avverti , circa duemila anni or sono,  una di quelle trasformazioni , uno di  quegli avvenimenti, che segnano date incan-  'cellabili, e che forse non più si verificheranno  nei secoli futuri, tranne quando avverrà la  fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi     vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava  il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian-  chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini,  la mollezza, la superbia, la degenerazione del  genio del bene in quello del male erano  giunte all'estremo limite del possibile. Era  prossima l'ora delle rivendicazioni, della re-  denzione, della riscossa voluta dalla ragione.  Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an-  nunziato, già da secoli, come apportatore di  pace ed amore. Roma, caput mundi, impe-  rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi,  ghermendo prede facili in difficili e remoti  paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si  disegnavano al massimo grado. I grandi ed  i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al-  bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori  morituri.   Roma già da sette secoli esisteva, quando  l'umanità parve potersi paragonare al vapore  chiuso in forte e potente recipiente che sem-  bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci,  le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come  i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta-  vano maggiore e più antica coltura, eran pres-     sochè cancellati da questi violenti conati di  gente che era barbara e volea divenire inci-  vilita. Neir immensa Roma, per la quale po-  poli al sommo grado belligeri pugnavano  sanguinosamente per potersi dire cittadini  romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed  appena ornati da toghe e preziose porpore,  che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti  e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare-  vano non use a piegarsi alle volubili e spesso  avverse disposizioni del destino. Da Roma  partiva quella voce imperiosa che comandava  alle schiere invitte la conquista del mondo  intero.   Tutto pareva nascer gigante in quel tempo,  e con l'impronta del misterioso e del sublime.  Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu-  gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo-  patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti-  bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone,  Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate ,  Augusto I   Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in-  vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva-  no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le-     vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone  della foresta : nato da vilissima gente, sorbì  sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i  potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo,  nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel  colore della pelle dovesse indicarne la mal-  vagità dell'animo, come dopo molti secoli in  Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe  solea far aspro maneggio.   Gridava fremente alle turbe spensierate e  lussuriose : O voi altri, che vantate imagini  lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi;  verrà Y ora della rivendicazione sociale. II  vostro cammino trionfale sarà arrestato da  un fiume di sangue. Le vostre pompe su-  perbe saranno oscurate da montagne di ca-  daveri deformi 1   Eppure Mario avea sortito dalla natura il  genio uguale a quello di Cesare, suo grande  nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri,  aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila  stesso si misurò a suo forte discapito. Corse  vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi  iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito  da visioni tremende 1     A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di  patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto;  era vendicativo oltre ogni credere, ma celava  in petto cuor generoso e forte.   Non poche migliaia di Sanniti restarono  sgozzati al semplice muovere del suo soprac-  ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui,  che invano entrava nel cotidiano bagno di es-  senze per torsi di dosso la miriade di paras-  siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen-  sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse  infetto il sangue degli umani, tra i servi e  gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii,  nelle barbare e sanguinose lotte, formicola-  vano, per appagare la sozza cupidigia di vec-  chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate  di rose, e briache e spossate dalla crapula  e dal piacere. Era il preludio delle guerre  servili. Dugentoventimila servi e Spartaco  con centoventimila gladiatori produssero uno  scoppio ed uno schianto formidabile, come  potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave.  Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or-  pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei-  mila.     ►^( 6 )»►-   A spaventoso movimento, repressioni più  spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente  ricco per le opime spoglie e per V oro rag-  granellato con la confisca dei beni delle sue  vittime e dei milioni di proscritti.   Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli  fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli  stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz-  zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia,  furono quelli che espiarono con lui V inau-  dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu-  mida e di regio sangue , morì da eroe nella  fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania,  condottiero di stanche e poche agguerrite  schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e  Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel  povero oppresso e quel ricco oppressore, es-  servi dovea odio mortale. Perversi però e  scelesti ambidue !   Cicerone e Catilina, sommo oratore ma  ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso-  luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che  mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni,  e dalla fine del primo si videro strani risul-  tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le     sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone  ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro-  stri del foro romano, e la lingua foracchiata  dall' aureo spillone della proterva Fulvia.  Splendidi esempii agli ambiziosi I   Mentre che alla magnifica Atene non re-  stava che il primato nel mondo per le let-  tere e per le scienze, e mentre V immensa  Roma repubblicana si affraliva e s* incrude-  liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas-  sacri e le guerre , nasceva Cesare.   Cesare lo si disse dapprima congiuratore  con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il  sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am-  bizione smodata e livore. Fu uno dei più  grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò  da atleta gigante con Pompeo, nato da eque-  stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e  Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani  gliene recarono la testa mozza, e volle punita  la barbara adulazione. Era letterato di gran  talento. Era generoso, ma sotto il mantello di  leone ascondeva animo felino , vendicativo,  dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di  propria mano il corpo con la spada, piutto-     ^( 8 )»^   sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am-  biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger-  mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato.   Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di  Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si  macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo  premeva come incubo, anelava alla libertà,   E tale fu la progenie umana sin da che  vide la luce.   Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla  missione di pace tra gli uomini. Fatalmente  però gli uomini si mantennero sempre gli  ' stessi.   Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra-  tricida per invidia e per sete di dominio. E  da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a  Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi  a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli  spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole  umane. *)   E da questi ai Torquemada, agli autori  degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono  Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da  questi a Luigi XI, il compare di Tristano,  ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre     ( 9 )»^     aizzava le orde a fare strage, e permise la tre-  menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre  che allagò il bel suolo di Francia col sangue  delle vittime del Terrore ; al prigioniero di  S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti  buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-  merevoli, che in questo nostro secolo avven-  turoso han messo a soqquadro l'universo con  lotte ferocissime.   Una è perciò la linea che appare precisa:  l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro  qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres-  sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla  porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel-  l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so-  vrani e sudditi, tra volgo profano e menti  elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi-  nistri delle diverse religioni; il quale odio  malvagio personificato potrebbe raffigurarsi  quale Encelado premuto dall' Etna.   La scala della nequizia in tutti i tempi ha  toccato i cieli, come quella biblica. . . .   Tale era lo stato del mondo allorché nac-  que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene  scorreva sangue di schiavo.      II.     LA FAMIGLIA DEL POETA      I ELLA vetustissima Venosa [Venu-  sid), città situata tra la Puglia e la  Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno  689 dalla fondazione di Roma, sessan-  tacinque anni prima dell' era cristiana,  essendo consoli L. Aurelio Cotta e L.  Manlio Torquato , essendo Cesare compro-  messo con la prima congiura di Catilina, per-  chè sognava la caduta della repubblica e la  dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il     nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel  libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo  chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò  nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco  nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli  stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira  del secondo libro, così si cognominò.   Ma tale soprannome non indicava che  avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi  a lui, quello che egli stesso dice di essere  di facilissima audizione, oppure che quelli  di sua famiglia fossero distinti con tal no-  mignolo, tra le non poche famiglie della  tribù oraziana, della quale si discorrerà in  appresso.   In un antico manoscritto che si conserva  nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che  vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna,  venosino, si asserisce che Orazio nacque  nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna  scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della  città, e presso certi molini, che in appresso  (come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap-  partennero ai Pironti venosini, e che oggi  son quasi di fronte alla cattedrale, venendo     ^( 13 M^   dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto  /e Sa/me.   Suo padre era uno schiavo fatto libero. La  quale condizione se non era tanto miserevole  quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av-  vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li-  berto ripeter doveva quella larva di libertà  dal suo antico padrone; come cittadino ve-  deasi privato del diritto al suffragio; aspirar  non potea agli alti uffizii civili, e neppure a  coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro  perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo  stesso matrimonio era per lui limitato nella  cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo-  sar non poteva sia la figliuola d' un senatore  o d* un patrizio, sia altro essere nato libero  od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il  liberto sotto la tutela del passato padrone, e  lui malaugurato se a questo si fosse ribel-  lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas-  sato padrone se ne avvaleva per servizii ono-  rifici, mediante lieve mercede. Malamente  taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio  fosse libertino nel senso voluto da Svetonio  in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di     -«( 14 ))^   Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di  schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo  padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel  senso detto dapprima, volendo intendere che  suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto  poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al-  cuno. \   . Il padre di Orazio prestava il servizio di  riscotitore di tasse del comune di Venosa e  di banditore, era un servus pubKcus; il Che  dimostra che il suo passato padrone essere  dovea di alto grado sociale, assegnandogli  tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser-  vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi  potea felice ed agiato, stantechè possedeva  presso la Rendina, luogo neir agro di Ve-  nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene  Orazio dicesse esser suo padre macro pan-  per ugello) un conveniente provento, e  quindi potette unire al suo impiego anche un  negozio di salsamentario, o salumiere; e come  vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la-  conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher-  nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni  di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum     ( 15 )     brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in  quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice-  rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu--  aito se emungere solebat. 5)   Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto  ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni-  tori, né da altri scrittori suoi contemporanei,  compreso lo stesso Svetonio, né il nome di  suo padre, né il nome e la condizione di sua  madre.   Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri-  zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri-  zione che dice leggersi sopra una casetta in  Venosa, che erroneamente fu detta esser la  casa di Orazio, così concepita:   HORATI C. L. Dio ....   MlTULLEIAE UX. . . .   e che sì è voluta decifrare così:   HoRATio DioDORo Caji Liberto  MiTULLEjAE Uxori 6)   La quale interpretazione importerebbe che  il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro  o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo     -«( i6 ))^   un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi  non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno  di questi è riferibile l'iscrizione funeraria.   I due eruditi Grotefend, il Franke nei  suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua  splendida opera The works of Q. Horatius  Flaccus illustrateci , opinarono il padre di  Orazio poter esser un discendente dell' il-  lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri-  divenuto libero, avesse ripreso, secondo il  costume del tempo, il proprio nome. Ma il  Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re--  gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin-  venute in Venosa indicanti l'esistenza di una  tribù Hofatia, colonia romana, nella quale  erano allistati gli abitanti della città di Ve-  nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que-  sta colonia, non discendeva però dalla fami-  glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op-  posizione le continue lamentazioni del figlio  di vii nascimento.   Né si potea concepire che , fra tanta chia-  rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di  un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non  enunziasse neppure il nome di quelli che gli     -«( 17 )f^   aveano data la vita. Ed è poi noto, come si  vedrà in appresso, che tutto venne confiscato  alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi-  lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando,  e del tutto sprovvista di mezzi, il che per-  metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi  con iscrizioni commemorative.   G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo-  sophia vetus et nova ad usum scholae, opina  che un avo del poeta Orazio, assoldato nel-  r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del  Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma,  e comprato da un questore venosino, dal  quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta-  stica, come moltissime venute fuori dalla pen-  na del letterato e filosofo del Calvados, non  ha fondamento, mancando della parte princi-  pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo  fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di  Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che  per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto,  non liberto, come era infatti; Orazio chia-  mando sempre suo padre liòertinus, non nel  senso voluto da Svetonio, e mostrando sem-  pre rammarico per tale causa.   3     ( i8)     Altri poi (come rilevasi da vecchissime  edizioni del gran poeta ) credettero assegnare  al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma  pure questo va chiaramente emendato, stante-  che si è voluto confondere il nomignolo del-  l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in  Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban-  ditori in quel tempo solcano annunziarsi a  suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^  tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse-  rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre  di Orazio e quello della sua genitrice: se ne  conoscono solo del tutto la condizione e lo  stato del primo. Orazio disse essere stato suo  padre uno schiavo, al quale venne concessa  la libertà. Tale origine del suo casato lo mo-  lestava acremente. E qui cade in acconcio  notare che mentre Orazio non ha mai indi-  cato il nome di suo padre e di sua madre,  non ha mai nominata la città di Venosa. Con  molta lucidità indica il luogo della sua na-  scita e ne fa un piccolo cenno storico topo-  grafico così concepito: Io non so con preci-  sione se son Lucano o Pugliese, perché il  colono venosino suole volgere l'aratro tra i     ( 19 )     due confini di queste due regioni. E che Luigi  Tansillo venosino cosi traducendo imita nel  suo canto al viceré di Napoli:   Io non so se Lucani o se Pugliesi  Siam noiy però ch'il venosin villano  Ara i confini d'ambidue paesi..,,.   Ed una colonia romana fu spedita in tal  luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar-  neli, e per impedir poi che tale infesta gente  corresse sopra Roma a molestarla come pel  passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non  poco ai Romani come le storie luculentemen-  te asseriscono. E tale colonia romana spedita  in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar  dovea guarentigia a tutta la regione pugliese  e lucana, e mostra ad evidenza V importanza  della città di Venosa in quei tempi.   Orazio volle con precisione dichiararsi ap-  partenente alla colonia ronìana che discac-  ciava da Venosa i Sanniti.   Eppure i Sanniti furono di razza Sabina,  ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè  la patria prima dei Sanniti, formar dovea la  sua seconda desiderata patria, la sua aspira-     ^ 20 >»^   zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana  commedia !   Eppure i costumi dei Sanniti furono qual  si conviene a popolo belligero, sobrio e buo-  no. Governavansi in austera repubblica, ed il  sistema democratico formava la base delle  loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria  davan persino le avvenenti compagne e le  figlie come premio. O sacrifizio memorabile \  Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i  Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora  definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra  tra le genti, il più forte li debellò. I Romani  290 anni prima di Cristo li espugnarono del  tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché  dice che la colonia venosina, debellati i San-  niti, divenne propugnacolo contro le ossi-  dioni di tal forte e belligera gente. Convien  quindi notare che Orazio per quanto asserì  esser nato sul suolo venosino, per tanto sem-  bra mostrarsi superbo di appartenere alla co-  lonia romana ivi residente: che anzi bisogne-  rebbe assegnargli meritevolmente la taccia  d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare  una sola volta in tutte le sue opere la patria     •^ 21 )»-   sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe  immortalati) né di suo padre, né di sua ma-  dre, bensì il nome del suo primo maestro  Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^  cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod--  cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis,  venusinae plectantur silvae, te sospite.....   E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa  traduce, cangiando le venosine selve in lucani  boschi:   Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^  Ai flutti esperii^ di là ratto il muova  A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7)   E per giunta in tutte le sue opere Orazio  non nominando mai, come dissi, Venosa,  spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,  TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma-  tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa  Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis-  sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su-  perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e  dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno  tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate  con le qualità individuali, superiori e rare,     -«( 22 )»-   vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio,  sovrano poeta, onore della razza umana!  Venosa, la patria tua, perdona tale non-  curanza, e tale al certo involontaria irricono-  scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura,  indicando a chiare note che sorbisti le prime  aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò  bastar deve per fare scomparire ogni traccia  di livore o sdegno verso di te, se pur può  albergare nell'animo di alcun tuo concitta-  dino livore o sdegno, come invece alberga  venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-.  tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im-  mortale aleggia benefico genio del luogo su  quella ancor bellissima terra; oppure da qual-  che stella lucente gitta raggio amico che mo-  stra la via al viandante in quelle selve lucane,  od al nocchiero la via nera dell'antico mare  Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an-  cora oggi si annega !  Orazio scrisse :   Che qual figliuol di libertin trafitto  Soft da tutti. 8)   Invero Guerrazzi da savio sostiene: La     -«( 23 )»-   ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio  riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven-  do la natura concesso all'uomo maggiori po-  tenze per acquistare, che non per mante-  nere. ^^   L'assillo nonpertanto che tormentava Ora-  zio era la sua nascita: perché non potendo  schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi  della plebe che lo dicea discendente da schia-  vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più  su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che  il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma-  gnanimità del suo genitore per averlo fatto  educare, istruii^e e porre a livello dei giovani  di buone famiglie ed agiate. Che anzi con  boria e sicumere che mal velava lo struggersi  interno, asseriva potersi porre a pari, egli  figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei  cavalieri di quel tempo anche nella superba  Romal   Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo-  sa questa sua assertiva, allorché si noterà co-  me egli stentar doveva per accaparrarsi sia  l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei  grandi, che un solo fortuito caso gli permise     avvicinare, e come molte volte ingiustamente  ne restava mortificato, mendicandone le  grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per  meritarsi l'onore di venire annoverato tra i  commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi  maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio-  vani amici ed ammiratori !   Non è lecito credersi di più di quello che  si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me-  rito, per quanto incontrastabile esso sia, in  questa commedia umana nella quale regna  sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come  poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva  circa la sua condizione nella società nella  quale viveva. Ma quel marchio che al solo  presentarselo alla mente lo straziava a morte,  il marchio di esser figliuolo di uno schiavo,  gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce  sublime quando esclama:   Io disdegno e allontano  Da me il vulgo profano   Tacciasi ognun   Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o)   Egli lodò grandemente il padre, perché     -«(25 )»-   questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove  molto era conosciuta la sua origine, e di af-  francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se-  natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i-  struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot-  tenne.   Orazio nacque, come si accennò, dodici  anni prima della congiura di Catilina. Cele-  bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio  Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i  filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo.  E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e  Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi  eravi pure una classe sociale che si distin-  gueva dalla volgare, la quale frequentava la  scuola di un maestro Flavio, del povero  Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar-  si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi  consacrato nel libro di Orazio, che pur non  dice il nome del suo genitore, della genitrice,  della patria. A questa scuola attinse i primi  rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni  lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza  col farsi in seguito beffe di essi e dei loro  parenti nobili venosini I La povera nobiltà     -«( 26 ))^   venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa  in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione :   Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA   Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus   CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM   Splendidae Civitatis Venusinorum  Consecravit ")   resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo  satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed  agiate della città di Venosa dovean tenere a  vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante  che ne conoscevano Torigine. Fu questa una  delle ragioni per cui il padre decise condurlo  in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto  un ingegno precoce e svegliato che promet-  teva alcun che di grande, e pensò abbiso-  gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade-  guato e conveniente. Orazio aveva circa otto  anni o dieci al massimo, secondo il computo  di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an-  norum Horatii, allorché giunse col padre  in Roma, e cominciò a frequentare quelle  scuole romane. Ed è caro quel vanto che     -«( 27 )»-   trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor-  dando il padre ed i felici giorni della pueri-  zia, e sentendosi nella folla della scolaresca  deir immensa città susurrare airorecchio di  esser creduto di alto lignaggio, dice :   Ma d'alti sensi osò condurre a Roma  Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti  Che un cavaliere che un senatore insegna  Ai propri figli, Allor se, come avviene  In un popolo immenso^ avesse alcuno  Gli abiti visto^ ed i seguaci servii  Certo creduto avria spese sì fatte  A me apprestarsi da retaggio avito 13)   La quale ingenua confessione dimostra   che il padre di Orazio, sebbene appartenente  alla bassa condizione di liberto, non doveva  essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen-  te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli  di coloni agiati e signori delle provincie^ non  vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad  apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi  vivono certo vita allegra, vestono panni di  lusso, e possono farsi seguire da servi e  staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma-  nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio     però per generoso e riconoscente sentimento  riferisce al padre il potersi istruire con tanta  comodità, né può tacciarsi di parabolano o  falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che  abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva  con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i  centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una  morale istintiva covava Tira repressa del  figliuol del liberto 1       ni.   ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE     L padre d' Orazio condusse suo fi-  " glìo in Roma nel 699 , cioè cin-  quantacinque anni prima dell' era cri-  stiana, non raggiungendo questi ancora  i dieci anni di età. Forte baleno dì or-  goglio e di stupore dovette abbagliare  il piccolo venosino, ma pur cittadino romano,  nel calpestare le aboliate strade della magnì-  fica Roma.   Ergevasi la città , che imperava allora su     buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici  celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio,  e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi  suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente  nel mondo , perchè dominio di validissime  potenze: la tiara, e la monarchia costituzio-  nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti  lunghi e meravigliosi, porte monumentali,  mura che potean vantarsi più durature e in-  concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle  cinesi. Avea più di quattrocento templi ador-  nati di colonne preziose, archi trionfali, obe-  lischi fatti trasportare con ingentissime spese  dalle più remote regioni del mondo onde si  fosse palesata la grandezza delle vittorie ro-  mane dalle spoglie ricavate dai potenti e  riottosi nemici.   Se però Roma mostravasi tanto superba e  potente alla vista, il che poteva lusingare i  sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non  proveniva da paese barbaro e povero , bensì  da Venosa, caput Apuliae, città monumen-  tale e stupenda, siccome attestano le antiche  carte e le lapidi che hanno sfidata la corro-  sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere     ( 31 )     nella sua ampiezza e magnificenza gente av-  vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di  Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui  più sopra si delineò la proterva jattanza),  quel popolo, dapprima così forte e generoso,  vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon-  derante, la libertà che offriva ai cittadini la  repubblica di Catone, repubblica ormai mo-  ribonda. La mollezza ed il mal costume tor-  cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo  romano. E perciò Orazio stesso, allorché co-  minciò a balenargli in mente il vero, scrisse  che le cure del suo buon genitore, che gli fu  guida permanente, fra tante grandezze e fra  tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca-  dere in brutture ed ignominie e dal venir tac-  ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu-  rarono la stima dei buoni e dei veramente  grandi.   Il padre soleva giornalmente condurlo dai  maestri più celebri della città, ed ai banchi di  quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli  di senatori e di altre famiglie nobili ed alto-  locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre  che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto     ( 32 )»-     Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè  s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio  immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i  popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo  fatto libero superava per lusso e per criterio  sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini.   Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che  se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto  scegliersi un padre, avrebbe scelto quello  che gli die natura, non trovando altro uomo  più coscenzioso, più perspicace, più amore-  vole di questo ! Desta ammirazione e mera-  viglia questa confessione, se si rifletta che il  padre di Orazio era illetterato, e che era stato  soggetto alla schiavitù 1   Ed Orazio nel parlar di suo .padre include  pure la madre sua, perchè dice:   . ... io pago a' miei (genitori), di fasci  E di sedie curuli avoli adorni  Saprei spezzar . . . . »S)   Le prime lettere gli furono apprese da Pu-  pilio Orbilio da Benevento, che, come narra  Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel  tempo e tra i migliori maestri sotto il con-     solato di Cicerone. Visse centenario; morì  povero , solita fine dei non pochi lavoratori  coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e  non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora-  zio, che se lo rammentava con satirica soddi-  sfazione.   L'uso delle sferzate nella palma delle mani  degli scolari, antico più del tempo del quale  si discorre , formava sin negli ultimi nostri  giorni un genere di punizione che la civiltà  invadente va oggi disperdendo, siccome si è  tolto il barbaro uso di bastonare e torturare  i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti-  tuirsi a quelle corporali e costrittive.   Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò  Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me-  nando a memoria e tratteggiando le scene  drammatiche del poeta Livio Andronico ed  altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni,  cominciò ad attingere alle fonti delle lettere  greche, che egli stesso poi definì le più pure  e che dovevano occupare i dì e le notti degli  scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi-  loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra-  lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che   5     gli fece acquistar gusto alla satira, furono i  suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap-  prese quell'arte divina , quella melodia am-  maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio  tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago-  narsi all'ape industre del monte Matino (ser-  vendosi per similitudine del nome d* un monte  della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso  del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee  svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da  ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for-  mar xumti immortali 1   Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de-  rogare l'aurea massima di Ovidio del prin-  cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del tetto  «npic.1, eha Bud«t   ■ var»(EUr bnpuko   . SctDW col cV»l.    Io rad•-     che, essendo gli scribi addetti al contenziose  amministrativo, od alla pubblica contabilità,  formavano un' autorità speciale, siccome la  Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi  formavano un collegio a parte e la carica era  vitalizia ed inamovibile.   Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli,  e presso la via Nomentana in Roma nei pri-  mi anni del secolo decimonono, come da altre  che vennero con esattezza riportate e com-  mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati,  da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma  inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da  Visconti, si rileva appunto l'importanza del-  Tuffizio di scriba.   Hawene una di un Tito Sabidio Massimo,  scriba della questura, ed appartenente al sur-  referito collegio, al quale i Tiburtini innalza-  rono un monumento in riconoscenza dell'alta  protezione accordata da lui a questa città:   T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae.   Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici.   Salio. Curatori Fani Herculis.   Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii.   Locus Sepulturae. Datus,     •^( 69 )»-   VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS.   TlBURTIUM.   Siccome quest'altra seguente iscrizione a  Manio Valerio Basso antico tribuno di legio-  ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854  nel Giornale di Roma dal comm. Visconti,  rende noto che la carica di scriba della que-  stura soleva assegnarsi alla miglior classe  dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam-  biare con la carica di tribuno delle milizie,  acciocché se qualcuno fosse stato esonerato  o per età o per volontà, trovar potesse un  appannaggio adeguato al proprio valore, ed  un meritato guiderdone:   Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso.   Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI.   Primo. Harispic. Maximo.   Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et.   Fratri. Suo.  Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.   Erroneamente quindi gli antichi interpreti  della parola scriba e dell' impiego ottenuto  da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e  biografi attribuirono solo il senso di copia-     tori di pubblici atti, oppure notai o redatt  di atti privati, all'ufficio di scriba.   Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii  pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi  zio più facile V accesso ed il conversare e  grandi ed i potenti di queir età, come si \  drà in appresso.   U importanza poi di tale impiego ott  nuto dal poeta si rileva anche da quello ci  egli stesso scrisse nella satira sesta del libi  secondo :   Quinto ,   Ti pregano i notai che non ti scordi   Di tornar oggi pel noto affare   Al collegio d* altissima importanza ... 32)   Anche il Gargallo spiega la parola scribi  con la voce notato; ma non credo aver voluta  egli intendere quello che oggidì importa h  carica di notaio, bensì componente il collegio  degli scribi questorii suddetti.   Il sommo poeta trascorse dunque i primi  anni della sua dimora in Roma tra Toccupa-  zione che gli offriva tale dignità onorifica e  lucrativa e tra i diletti della poesia.   Non può asserirsi con piena conoscenza  quanto Weichert, uno dei più indefessi il-     lustratori del poeta, nella sua opera Poe-  tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che  Orazio avesse solo ventisette anni allorché  venne presentato a Mecenate, cioè nel 715  di Roma. La cronologia diventa un mito  quando si ravvolge in date così lontane e  senza testimoni oculari. Volendo però se-  guire tale opinione, adottata pure da Andrea  Dacier, la presentazione di Orazio a Mece-  nate successe quattro o cinque anni dopo  la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran  protettore degrillustri letterati di quel tempo,  non lo ammise nella propria corte se non dopo  averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo  e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato  se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda-  rono, avessero imberciato nel segno propo-  nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando  era a sua conoscenza che Orazio aveva so-  stenuto la carica di tribuno nelle legioni di  Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano.  Riesce quindi logico noverare la satira quarta  del primo libro di Orazio come scritta poco  prima che fosse a Mecenate presentato, stante  che in essa si scusa con quelli che lamenta-     •^( 72 )»-   vansi delle sue punture, e gliele rimprove  vano come poco coerenti per uno che int(  deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]  egli vuol farsi credere semplice moralista  filosofo che castiga, ridendo, i costumi,  perciò egli si esprime presso a poco coi  Il leggere satire, il veder frizzata la catti  gente non riesce certo piacevol cosa a colo  che hanno la coscienza poco monda. Ma e  è puro ed integro ed onesto, non teme  scudisciate del poeta, siccome disprezza  calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai  dar divulgando le mie composizioni nel  piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel  accademie. Scrivo per semplice diletto, spini  da forza arcana e per pura intenzione di ù  del bene e purgare la società inondata d;  vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv  diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh  costarono sudori a generazioni di lavorator  Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci:  può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia  d'aver calunniato chi merita lode, d'aver  scemato il merito, anzi non aver abbastanz;  lodato i cittadini eminenti ed onesti?     Un uomo che parla così di se stesso me-  ritava venire annoverato tra quelli la cui ami  cizia è un guadagno, un pregio, un onore.   Vario e Virgilio lo presentarono a Me-  cenate.      IO         VI.   MECENATE     iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa.   cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu  k ÉufanUl pad or nada td kncluopv.   Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa     AIO Cilnio Mecenate nacque in  Arezzo l'anno di Roma 686, e  68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile,  -■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di-  ì scendente dai re dell'Etruria, che erano  quei guerrieri etruschi venuti a soc-  correre Romolo nella guerra contro i Sabini.  Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i  primi anni legato di amicìzia col giovane Ot-      taviano, e fecero insieme gli studii delle h  tere e delle scienze in Atene.   Egli pure, seguendo le orme degli avi,  intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt  rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli  la repubblica e difendere Roma dai nemi  interni ed esterni.   Non fu affetto dal morbo dell' ambizion   Allorché Augusto divenne padrone del v  stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei  i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg  rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl  di rappresentarlo quando si allontanava e  Roma.   Preferiva il sistema governativo a regim  monarchico assoluto, piuttosto che quell  retto a repubblica, e riuscì a far determinar  col suo savio consiglio Augusto a conservar  quel potere sovrano che per suoi fini particc  lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell  propria influenza, dei suoi disinteressati am  monimenti e del suo credito per rendere Au  gusto, imperatore e pontefice, proclive ali  clemenza ed a far più manifesto il fastigio  della monarchia. Amante del lusso, egli stes     ( 71 >-     so spronava Augusto severo, economico e  restio al grandeggiare, al rendersi sovrano  per magnificenza e per sublimi intraprese edi-  lizie e monumentali.   Sposò Terenzia, donna di grandissima  bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò:  ritornò ad essa sommesso: che non hawi  grande uomo esente da mende , principal-  mente dipendenti da procacia donnesca. So-  stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne  ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^  la dipinge nel vero suo aspetto.   Era scrittore forbito, piacevole ed erudito.  Compose ( ma non sono giunte fino a noi )  una Storia naturale, la Vita di Augusto, e  diverse tragedie e poesie.   Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi  competere con Lucullo: largheggiava con ma-  gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro-  verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be-  neficato i sommi letterati del suo tempo.   Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul-  lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono  i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi-  tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son-     tuosi conviti od a sterili raccomandazioni  Bensì soleva rendersi splendido per largi  zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze  per tutta la vita del protetto. Pochi sovran  si sono succeduti sulla scena del mondo pro-  dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei  dare ed innalzare chi realmente possedeva  meriti personali così insigni da immortalare  il protettore, considerandolo nei frutti del lorc  ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro-  vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu-  sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della  splendida sua villa a Tivoli non sarebbero  bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran-  dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha  fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna.  Il vero monumento imperituro a Mecenate  glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino.  Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo  insigne protettore: « O Mecenate, o decoro  nostro e parte massima della nostra fama. »  Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me-  cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu-  do della sua persona; ma non attribuisce a  lui, bensì al proprio ingegno la propria im-     -«( 79 )^   mortalità. La superbia Oraziana (superbia  derivante dai meritati allori ) non comportava  servilità comuni al volgo.   Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir-  gli una sola favilla di quel genio che il gran  cittadino di Venosa stesso definì particella di  aura divina?   Tutti i tesori di Golconda non equivalgono  a quegli slanci di lirica sublime che non han-  no avuto eguale in nessun mortale quaggiù !   Come si accennò innanzi, Orazio venne  presentato a Mecenate mentre vivea occu-  pato neir ufficio di scriba questorio, e nel  comporre satire ed altre poesie, che aveano  già richiamato l'attenzione degli altri eruditi  del giorno. E ciò dovette succedere neir an-  no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor-  passato il ventisettesimo anno. Egli stesso  così descrive questa presentazione:   r ottimo Virgilio   Da pria^ poi Vario dissero chi fossi,   ' Né me figliuol di genitor preclaro  Né me opulento possessor che scorra  Suoi vasti campi su destrier pugliese^  Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^  Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«)     ( 8o )m^     E dice pure:   Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando  Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua  Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s)   Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà  tanta bonomia e tanta confusione vedendos  al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò  tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu  un amico sincero che cordialmente e senzc  vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc  nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava  l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams  di lui, mentre pel contrario molti altri lo di-  sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine  cercavano fargli il maggior danno possibile?  Aggiunger poi si deve che la magnificenza  che circondava Mecenate, il suo palagio, la  fila dei cortigiani che colle teste curve sino  a toccare le lastre marmoree del pavimento,  il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che,  per quanto impavido fosse, dovette risentirne  certamente imbarazzo e confusione.   Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti,  dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle  anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano.     ^( 8i )]»-   ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit-  torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu-  sa nella cornice che cinge i re nelle reggie,  colla divisa brillante di generale italiano, con  quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano  come saette sin nelle intime latebre dell'ani-  mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e  sentimenti, non ti produsse alcuna emozio-  ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti  avesse di sua mano largita un' alta onorifi-  cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito  sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e  compiacimento? Se nulla hai provato, dir  debbo che l'animo tuo è insensibile come pie-  tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour,  Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci-  turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo,  quando la mano del gran re strinse la loro !   Discordanti ben vero appaiono le opinioni  circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da  Virgilio e da Vario presentato a Mecenate.   Molti sostengono (e si riscontra nelle me-  morie dei suoi moderni biografi) che siffatto  avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di  Roma, così che fanno succedere nel 737 il     II     •^( 82 )»-   viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi  e quindi pochi mesi dopo questa data la pub  blicazione della satira quinta del libro primo  che ne descrive facetamente il viaggio , l  evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat  terelli piccanti.   Ma nella Cronologia del Dacier, che devt  stimarsi la più esatta disposizione degli av  venimenti e degli anni nei quali Orazio com  pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con-  solati sotto i quali Orazio accenna scrivere,  viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716,  od in quel torno di tempo, cioè quando Ora-  zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò  più presumibile. Poiché nelle opinioni con-  trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por-  tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri-  guardo alla sua salute un po' malandata ed  alla circospezione a conservarsi, ed alla sua  vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e  rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non  appare verosimile. Sia però come si voglia,  certa cosa é che Mecenate riserbossi nove  mesi per poterlo ammettere nel novero dei  suoi amici stretti.     ( 83 )     Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis-  simo, baldo, perchè adusato agli esercizii  aspri della milizia: sperto del mondo, perchè  provato dalle sventure e chiaroveggente: a-  mante del vivere allegro, buontempone, re-  sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni,  uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade-  scarle col vischio della poesia, dovea venir  ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti  e dei viveurs di quel tempo.   Era bel giovane, se non bellissimo, e ne  menava vanto; ed i malanni della precoce se-  nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la  cisposità degli occhi ed i reumatismi, non  aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso-  gnevole delle stufe calde di Cuma o delle  fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò  fé' propendere la bilancia a suo favore.   Mecenate, gran conoscitore degli uomini,  ed indagatore minuzioso, specialmente trat-  tandosi di quelli che doveano essergli sempre  vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con  sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com-  mensale ed ospite nelle sue splendide reggie.   Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni     -«( 84 )     detrattori del sommo poeta, che nel temp  in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve  nisse pubblicata in Roma una lettera sua i  prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co  quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n  implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms  calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv  più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat  tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup  plice nessun onore, provando in petto senti  menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé  tanto che in luogo di adulare sferzava i cor  tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl  dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de  fatti di sua vita e le proverbiali espression  di superbia che si notano nei suoi scritti, at  testano lalto grado della sua alterigia , fie-  rezza ed indipendenza. E non aveva poi h  carica autorevole e redditizia di scriba que-  storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante  poco, a lui nemico del lusso e delle albagie  boriose dei grandi, come potette addebitarsi  tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es-  sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia-  mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro.     -«( 85 )   È noto del resto che il gran Venosino nei  più antichi tempi non fu tenuto in quella no-  minanza altissima, come ora si tiene. *^)   Oh che gli uomini sogliono vedere sem-  pre il male nel prossimo, e fingono non ve-  derne il bene I   L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a  Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo  animo riconoscente e buono. Mecenate lo  colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a  gran fortuna ed insperata, e per aver ester-  nata la sua riconoscenza procacciossi la tac-  cia di pettegolo e vile adulatore.   Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La  malizia regna sovrana negli apprezzamenti,  come nelle altre cose. Che un letterato espri-  ma le proprie idee sulla divinità in maniera  da rendersi sublime, esponga le massime più  belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene  dair ammirare il cuore da cui partono siffatti  sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia  di stravagante. Se poi, al contrario, allo  scrittore sfugge il benché minimo biasime-  vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore  cattivo, da un animo perverso. »     -«( 86 )     Così giudicano gli uomini!   Le massime così morali ed istruttive d  Orazio, la sua circospezione, la sua religio  ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza  il suo animo generoso ed affettuoso insieme  la sua amicizia, che si svelava sempre sin  cera e disinteressata, non furono bastevoli e  liberarlo dal dente della calunnia e dai vita  perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori   Quando altro i suoi nemici non potetterc  fare, stabilirono la lega del silenzio, creden-  do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti  ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc  qualcuno dei sommi furono quelli che ricor-  darono Orazio.   Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg-  giante di propria luce!   Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe-  dirono certo, perché pregavano Orazio stesso  a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche  e petizioni a Mecenate per aversi quello  che Orazio ottenne per suoi meriti straor-  dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne  aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi-  pendenti e sommi non mercanteggiavano     ( 87 )     sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò  sempre una virile dignità, né fu mai pa-  rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo  amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte  che li colpì, per istrana fatalità, insieme !   Svetonio riporta l'epigramma faceto ed  amichevole che Mecenate ad Orazio diresse,  che molto spiega e rischiara :   Ni te visceribiis meis, Morati^  Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm  ninno me videas strigosiorem,   (( Se io, o Orazio, non continuerò ad  amarti più di me stesso, possa tu vedermi  ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^)  Al cardinale Ippolito d'Este, che non era  certo al livello di Mecenate, né per inge-  gno, né per ricchezza e potenza, e che ri-  volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili-  ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo-  vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva :   Fa che la povertà meno m*incresca^   E fa che la ricchezza sì non m*ami   Che di mia libertà per suo amor esca.   Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii   Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9)     -«( 88 )»-   Si noti differenza di sentimenti !   Orazio così risponde al celebre giurecon  sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi  gliava a celebrare coi carmi suoi immorta]  le gesta di Ottaviano :   Trebazio di Cesare tinvitto   Osa le gesta celebrar^ sicuro   Che ne otterrai ricca al lavor mercede,  Orazio cedono ineguali   A tanto desio le forze inferme.   . . . . fuor che in propizio istante . .   Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30)   Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed  c( si tibi natura deest, corpuscolum non  « deest. ))   Dai quali brani si rileva che Augusto non  solo stimava Orazio al massimo grado, tanto  da temere che essendo le sue opere immor-  tali, non curasse d'immortalarlo in esse,  quanto eragli amico intrinseco e con lui so-  leva scherzare come con un suo pari. Ed  Augusto non addivenne l'erede testamentario  del poeta? Sono fatti che riescono incom-  prensibili a quelli che non vogliono riflet-  tere quanto grande sia la potenza del genio,  dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate  venosino è un fenomeno che merita uno stu-  dio speciale, e non altrimenti possono spie-  garsi quelle poesie nelle quali la superbia  e lo sprezzo del volgo profano fanno ma-  nifesta quella grandezza sua, che chiarissima  a lui stesso appariva.     ( no )     Di bronzo più durevole  Ho un monumento alzato.,.^  Non Jta che basti a chiudere   Me breve tomba intero   Dair imo suolo alt etere  Diran eh* io seppi alzarmi  Primier su cetra italica  Cigno d* Eolii carmi,,,..  Superba or va^ Melpomene   Dei meritati allori   Tutto il terrestre spazio  È angusto a me confine,...   Non io   Da r urna e da la stigia  Onda sarò ristretto^  Già del figliuol di Dedalo  Io spiego ala piti ardita....  Laude fra tardi posteri  Farà ch'io, guai per fresca  Aura, arbuscel piti vegeto  Ognor m^ innovi e cresca..,.  La pompa è a me soverchia  Che r altrui tombe onora,.,. 34)   Colui che si esprimeva in questi termin  sentir doveva di essere di gran lunga supe  riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso  incomprensibile che abbia potuto divenire i  favorito del potentissimo Augusto, siccom(  lo era del generoso Mecenate.   E che la superbia di Orazio fosse stafc     -^ III )»-   sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo-  ta supremazia sui suoi simili, patentemente  vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle  sue massime radicate di sobrietà e morigera-  tezza, dal suo contentarsi del poco e godere  della parsimonia. Mecenate ed Augusto po-  teaii certo offerirgli più che un podere in Sa-  bina, potean delegarlo proconsole in terre lon-  tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu-  cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un  ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio,  un attendersi un reciso rifiuto, perchè non  eran questi i voti del venosino.   È notorio che Orazio non usò altri di-  stintivi di onorificenze se non lanello e gli  ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol-  tanto per accompagnare Mecenate nei pub-  blici ritrovi, perchè non amava certo che si  fosse detto che l'amico del potente signore  fosse un figliuol di liberto, bensì un cava-  liere che comandato aveva una legione ro-  mana!   Un poderetto in luogo ameno, salubre,  tranquillo e lontano dai rumori della gran  città, un tetto sicuro, la certezza di vivere     ( 1J2 )     agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici   protettori, ai quali dimostrava ad ogni p   sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne   solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii   graziava le divinità!   Ah che daddovero era una grand' anim   quella di Orazio venosino ! O divino Verd   o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi   venti di uomini immortali aborrenti dalla st   perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e   all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs   cile notare nel passato, fatte le dovute ecce   zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual   riuscì appena in certa guisa a far risonar   pel mondo la tromba della fama, che non pii   si appagarono di piccoli poderi o rustich-   casette, ma bramarono s'innalzassero monu   menti a loro stessi viventi. Vollero onor   sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra   stuono di accademie e di teatri, e scialo à  superare i re della terra !           IX.   LA VILLA SABINA     SvsTomo — Vitt ili Orma   L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa,   Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^...  Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL   Gaioallo — Tra4. ili Orati     I ell' esposizione della Promotrice  del 1878 in Napoli si ammirava un  cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia,  dell'illustre pittore Camillo Miola, mio  amico, autore della Sibilla, del San-  sone al torchio, delle Danaidi, del  Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar-  danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita-  liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som-      ( "4 )     mo, dichiarandolo uno dei migliori artii  moderni d' Italia.   Ed invero chi esamina quel quadro st  pendo yien compreso d' ammirazione p  l'arte e per la precisione storica che vi  nota. Non palagio cinto da portici, o i  parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca  celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui  modesta costruzione nascosta da un altissin  albero, sul quale si arrampica un cespo g  gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno  me roseto; con semplicità di colore, con pi  cola corte, con finestrette modeste, da un  delle quali pende una gabbiolina con un  capinera, e da cui compare il busto di On  zio che maschera una vaga donzella, dell  quale si distinguono solo le belle fattezz-     rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che  saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si  versan dalle anfore colme vini prelibati rac-  colti nel podere. Una capretta randagia presso  il rustico cancello di legno, apparisce spetta-  trice innocua di quelle piacevolezze campestri.  Basta veder quel quadro per formarsi una  idea della proprietà che Orazio si ebbe in  dono da Mecenate, unico dono che la sua  modestia aggradì, e che confaceva al suo  ideale.   Orazio cosi enunzia la topografìa del suo  podere rustico:   Tutto di monti una catena il forma^  Se non che t interrompe opaca valle  Ma così^ che sorgendo^ il destro lato  Ne copre il sole^ e con fuggente carro  Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima  Ne loderesti »7)   Nella terza satira del secondo libro per  la prima volta parla di tal dono che gli venne  fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando  cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina  il Dacier, nella sua Cronologia delle opere  oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit-     ( ii6 )»^     ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece-  nate per tal dono che gli giungeva nel suo  trentesimosecondo anno di età.   La voracità del tempo che ogni traccia  di opera distrugge ed oscura, fece del tutto  scomparire le vestigia della villa di Orazio  in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi  ammiratori, e la religione che accompagnò  i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru-  deri di tal fabbricato e podere, guidati dal  lume nello stesso Orazio nelle descrizioni  che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul-  timi anni stabilire il luogo preciso, la con-  formazione e r area dove quella villa sor-  geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve-  tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu)  e nella quiete.   Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus-  siano, nelle sue Racemationes venusinae ,  stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no-  te sulle epistole oraziane; e principalmente  r opera che X illustre letterato abbate Cap-  martin de Chaupy pubblicò in Roma nel  1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta  della casa di Orazio, possono offrire pre-     -«( 117 )     zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in-  vestigazioni profonde e minuziose fatte per  dar luce chiara a tale obbietto.   Orazio disse che al suo piccolo fondo ba-  stavano cinque lavoratori per menarlo a col-  tura, i quali andavano a smerciarne le der-  rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene,  ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia-  centi a quelli che lui stesso abitava, e dove  ciascuno soleva vivere con la propria fami-  glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul  far della sera, sprigionavansi cinque nuvo-  lette azzurrognole che ne indicavano il ru-  stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno  tranquillo.   Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii  di terre nelle province meridionali di vivere  nel proprio fondo circondati dai rispettivi  coloni, e r occhio vigile del padrone non  nuoce alla prosperità di esso.   Si comincia pure oggi a comprendere dai  ricchi possessori di latifondi che la pigra vita  delle popolose città non ridonda a vantag-  gio della loro fortuna. Si creino pure ca-  stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora     -«( ii8 )     presso la sorgente, donde si ricavano quel  ricchezze che rendono disuguali gli uomii  fra loro. Si renderebbe così possibile e pei  donabile tale disuguaglianza!....   Il principale castaido di Orazio dovev  nominarsi Davo, marito forse a quella Fi  dile alla quale dirige consigli savissimi  salutari con una sua epistola. Davo esser do  veva un cattivo castaido, come lo son per h  più quei villici che abituati da tempo a fa  da padroni nel fondo, mal vedono un nuo  vo signore venire ad imporre ad essi leggi (  dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta  acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe-  ste saturnali, solendosi concedere ai subal-  terni piena facoltà di esternare i proprii sen-  timenti senza poter venire redaguiti dal pa-  drone, ancorché gliele cantassero amare,  (e tal costume si è conservato sin negli ul-  timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel  suo sudicio e laido poema, che intitolò //  yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà  possa degenerare in licenza) svela il suo  animo protervo, indocile e poco amante delle  rusticane usanze e prosperità derivanti dalle     ( 119 )^     buone e fertili annate, e dall' amor del suolo  opimo; che anzi si svela amante dei piaceri  della città per quanto spregiatore delle gioje  campestri, e sotto la veste del campagnuolo  si nasconde un guattero tralignato, ed un  operajo invido ed infingardo.   Davo prima di entrare nel podere aveva  servito dei signori romani nell* ufficio di  mediastmus. Si figuri il bel tomol   Il fondo si componeva di una selvetta ce-  dua (dove al poeta successe quel fiero in-  contro col lupo, ed un dio propizio lo fé'  restare incolume) ricca di elei ed altri alberi  ghiandiferi che servivano ad alimentare le  piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre-  scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed  un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab-  bondavano, con diverse altre specie di frutta  delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben  potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite  poi formava la parte più ricca del fondo, e  dalla quale Orazio solea distillare quel cele-  brato vinello che non disdegnava far gusta-  re al palato di Mecenate.   Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo     ( I20 )»-     di acqua freschissima, che ricascando in gt  terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi  je, formava poi una fonte limpida e crisfc  lina da potersi paragonare al celebre fon  Bandusia, che versava le sue pure linfe pres;  la patria del poeta, e che ancora oggidì qu  di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah  di Venosa, presso il bosco di Banzi. La   fontana   D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9>   è appunto \ attuale fontana degli Oratir  presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press  Venosa nella strada che mena a Palazzo £  Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai  da Orazio in una gita a Venosa per cacci,  o diporto.   Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio  corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav-  viverà I In che cosa si discosta dalle credenze  del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla  divinità che dall' alto dispone, assiste e pro-  tegge ?   O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin-  cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale  che tutto vede e dispone, e che premia o  punisce. Non è la sommissione buddistica,  bensì la virile sommissione ad una forza on-  nipotente. Orazio diceva:   Che Giove fra celesti   Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^   E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben-  ché ammantato di scetticismo volteriano, gri-  dava: // est, il est, il est! ■**)   A tali credenze religiose mescolandosi la     -c(a più dolce salsa alle vivande  Procaccia col sudor. 5^)   Soleva in compagnia dei suoi familiari ed  alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere  a queste semplici vivande un buon bicchiere  di vino schietto e leggiero, che essi mede-  simi avevano manipolato dopo la gioconda  vendemmia.   La sua mensa era linda, lucente, bianca,  sulla quale campeggiava un vasello emble-  matico ripieno di sale: e V aveva per caro  auspicio e quale usanza religiosa.   Il sale ha avuto grande importanza in tutti  i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe-  liti serviva per purificare e consacrar la vit-  tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è   19     ( H6)     mista al sale. Questa sua grande mondezza,  non lo dissuadeva dall' invitare a convito  amichevole, oltre ai suoi amici di condizione  eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio,  LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle  di vita allegra ed avvenenti, come Fillide,  Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me-  cenate, al quale scriveva:   n nauseoso lusso   ammirar cessa.   Grato ben giunger suole  Sovente ai grandi il variar di scena.  Cerca mensa frugai^ là dove ammessa  Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora  In pover tetto fa sparir le impronte  Che affanno incide in accigliata fronte.  Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio  Povertà senza fasto e senza sfregio. 53)   Ed in tali circostanze straordinarie mo-  strar si soleva galante a modo suo. Inco-  minciava col prevenir gli amici che se con-  servavano vino miglior del suo, Io portas-  sero pure alla sua mensa che non se ne  sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un  bicchierino di soverchio alla salute del do-  natore.     ( H7 )     Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse  l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero  al suo desco gli astemii, sostenendo che pu-  tirono di vino sin dall' alba le dolci muse.   Prometteva ai commensali che li avrebbe  collocati nel triclinio ciascuno presso a per-  sona che non gli riuscisse antipatica o me-  ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava  riservare il posto ai più gai, ai più giovani  e baldi, presso quelle generose donzelle ro-  mane di bellezza e brio regine. La gentilez-  za, poi, formava il principale suo pensiere.  Così scriveva a Torquato:   Già il focolare da un pezzo e le stoviglie   Splendon rigovernate a farti onore   A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,.   Che sozza coltre   Che sordido mantil non giunga il nc^so  Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto  Tal non sia che specchiarviti non possa 54)   Né gli piacevano numerosi convitati, ma  pochi, cari e buoni:   Che caprino sentore ammorba i troppo  Folti conviti. 55)     -«(148 )     Riesce in vero gradito e dilettoso figi  rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi  vito, con quel suo faccione pieno e rose^  ilare, faceto, coronato di rose, levigato  terso colla cute, da sembrare un majaletl  lustro e pinzo.   Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi  zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover  glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit  curare gì' innesti delle piante e degli albei  da frutta; della qual cosa solcano ridere  vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi  frequentasse la corte, e che di Augusto e e  Mecenate e di altri potenti fosse familiare  non poteano persuadersi di questo suo amor  per così rustiche e basse faccende campe  stri. Non riflettevano essi che nella ment  del venosino eravi fisso, incardinato il « m  admirari y> secondo l'opinione di Laerzic  e di Democrito. Orazio era dotato di « aia  raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor  lo lusingavano punto, anzi ne era al somme  disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle  sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie  consiglio:     ( H9 )     Alma al ben fare accorta   Tu serbi •   inflessibile   A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57)   E dopo le escursioni nel podere ponea  mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg-  gendo, meditando.   Solca poi di tratto in tratto recarsi nella  gran città, in Roma, sia pel disimpegno della  sua carica di scriba della questura, sia per  altre faccende, sia per coltivare le amicizie  di Augusto, di Mecenate e di altri che egli  stimava, principalmente versati nelle lettere  e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè  la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei  finti amici invidi e malvagi, degli zingani,  dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor-  dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette-  rati non lo avevano risparmiato.   villa, e quando io rivedrotti^ e quando  Potrò dei prischi saggi or fra i volumi  Or tra il sonno e le pigre ore oziose  Trarre de V egra vita un dolce oblio ì  Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte  E i buoni erbaggi come va conditi  Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I     -«( I50 )»-   notti I cene degli dei^ dov* io  Presso il mio focolar coi miei m' assido^  E mangio^ ed alla vispa famiglinola  Dei servii nati dai miei servii io stesso  I già libati pria cibi dispenso! S^)   Della sjpa persona soleva avere som  cura, perchè quasi giornalmente immerge  nel bagno, e dopo ungere si solea di o  profumato e finissimo. Nel vestire most  vasi dimesso e noncurante, ma non pe  privo di gran pulitezza o da potersi dir  come vuole san-  to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del  Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi-  nario ed inesplicabile quanto in appresso  verrò esponendo circa le consuetudini do-  mestiche di Orazio.   Nelle molteplici edizioni delle opere del  sommo poeta, le quali riportano la sua bio-  grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho  rilevato che si è tralasciata una notizia in-  teressante che riguarda una sua pratica oc-  culta, la quale può ben riferirsi al culto sur-  riferito di misticismo caldaico.   La vita di Orazio composta da Svetonio  Tranquillo, che fu V unico che scrisse del  gran venosino pochi anni dopo la morte di     ( IS7 )     lui, e che fa accrescere certezza alle investiga-  zioni fatte neir analizzarne le opere, si com-  pone non più di una sessantina di versi di  stampa. Tutto è laconico e scritto fugace-  mente, come se si trattasse d* un cenno ne-  crologico. Sembra che Svetonio abbia vo-  luto far notare con certa diffusione Solo l'a-  micizia intima che legava Orazio ad Augusto,  ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani  di lettere. La quale riproduzione di brani di  lettere di Augusto ad Orazio dirette forma-  vano forse il soggetto che per la maggior  parte dei contemporanei destar doveva in-  teresse maggiore, e far di Orazio un uomo  agli altri superiore per tanto onore. Il brano  della biografia che è stato cancellato ( forse  per purgarla), V ho rilevato da un' edizione  olandese delle opere di Orazio del 1663, pub-  blicata dal filologo inglese Giovanni Bond,  che la prima volta comparve in Londra nel  1614, e dopo se ne riprodussero diverse al-  tre edizioni intere, ed è il seguente :   (( Ad res venereas (Horatius) intemperan-  tior traditur nani speculato cubiculo scorta  dicitur , habuisse disposila , ut quocunque     -«( 158 ))•-   respextsset, tòt et imago e re f erre-  tur....... ))   Formava adunque per Fiacco un culto  (( / ars Venerea » , ed egli addimostrava-  sene tanto fervente, perchè nato nel luogo  ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella  cennata antica cronaca venosina del Cenna ,  il quale era pure investito della prima di-  gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di  Venosa, si leggono i seguenti versi che rin-  forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe-  tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi,  vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato  in sua vita di costumi osceni, il che tutto  è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico  Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi  Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese  del 1700, nel suo poema. « L Emulation »  va all'eccesso contrario, proclamando Orazio  (( modéle de bravoure et de chasteté. »   Ciò che forma adunque l'addentellato al  dispregio di molte produzioni oraziane, viene  per tal riguardo distrutto ; considerando che  la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei  tempi una qualifica essenziale dell' immora-     ( 159 )     lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta-  mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi-  sce gli adulteri, i violatori delle vergini,  gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo-  rali ed i disonesti. E se non è questo il cor-  reggere i costumi, qual altro fondamento di  morale, mancando la cristiana, poteva offrir-  gliene sostegno ?   Egli rampogna acremente i Romani d' ir-  religione e lascivia. Egli volle vivere sempre  celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto  d' alta responsabilità che non volle allacciar-  sene, né restarne tenacemente avvinto. La  moglie di Mecenate gli forniva un esempio  troppo splendido d* incostanza, infedeltà e  disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia  abbandonando lo sposo. E non parea conve-  niente al sagace venosino far la triste figura  di Mecenate, intendendo professare V opi-  nione di Seneca a tal riguardo, quando com-  pose la biografia del marito dell' infedelis-  sima Terenzia. (^^)   Il suo celibato vien confermato dal non  aver scritto mai carme o verso per donna  che fosse stata sua moglie.     ( i6o )     E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del  libro 3^:   Te Mecenate il rimirar sorprende  Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^  Io cèlibe^ di ?narzo a le calende   E fior prepari.    E solo ad un celibe sarebbe convenuto far  pompa di tante conoscenze di cortigiane e  donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine,  Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera,  Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-  no, essendo state amanti riamate di Orazio,  che se egli non aveva moglie, godeva non  poco del benefizio inapprezzabile di essere li-  bero e celibe.      ìÀjiS^Ì      se. "*-Sj     XII.     GLI ULTIMI ANNI DEL POETA     GuOALio — Tml. di Orm     , N moltissimi punti delle opere di  Orazio appare che nella sua mente  elevata si presentava l'immagine della  morte, questo indecifrabile, nebuloso,  oscurissimo problema, questo fatto in-  cognito, pauroso e spaventevole. E dir  ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so-  steneva che :   Con impavido ciglio   Se delteteree spere in pezzi infrante     ( l62 )     Valta compage piombi   Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s)   Non poteva con tutto ciò esimersi da quella  paura istintiva, da quel senso di terrore in-  generato dal dover mancare alla vita, dal do-  ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto.   ...... Nato a morir ^   Tutti attende alfin quella profonda   Che non conosce aurora unica notte . .   Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . .   Presto rapì t inclito Achille morte   E a me ciò farse offrir vorrà la sorte   Necessità di morte   Getta sovra ciascun   Legge crudeli Ma pazienza mitiga   Ciò che non ha riparo   Tutti spigne tal forza ad ugual meta   Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66)   Tutta la sua filosofia: le massime di De-  mocrito e di Epicuro, che facean precetto  essenziale di dispregiare e non curare gli  orrori del sepolcro, non bastarono a toglier  questo pensiero ftinestissimo dalla mente di  lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com-  mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu-  ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli  rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano     ( i63 )     il dolore, promettendogli una patria lassù,  sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni  godimento ed allietata dalla vista di quel Dio  rimuneratore e buono ed onnipotente.   Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so-  levansi ammettere quei miti inverosimili ed  incredibili, che acchetavano la bramosia di  quei popoli privi di una fede consolatrice,  che prometteva la beatitudine ventura come  compenso alla vita onesta e laboriosa.   Dato che il piacere terreno formar do-  vesse la meta della felicità, che poteva spe-  rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru-  zione completa, la particella della materia  andava a ricongiungersi alla materia:     Noi cadendo  Nella notte che non sgombra  Più non siatn che polve ed ombra .  Degli anni il breve termine  Vieta ordir lunga speme:  V ombre favoleggiate e la perpetua  Notte già già ti preme, 67)     Nella distruzione completa del suo essere  Orazio ammetteva che soltanto una parte di  se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il     (J60   frutto dei suoi sudori, il suo monumento:  r anima sua.   E tale credenza, che non era dubbio, gli  scusava la fede nel!' immortalità dello spi-  rito umano.   L* (( omnis moriar », espressione tanto  concisa per quanto chiara, spiega che non  eravi dubbio in lui neir immortalità del-  lanima. La paura della morte comune a tutti,  sebbene con tanta jattanza, dalla maggior  parte apparentemente sfidata, più che Ora-  zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E  siccome la paura è attaccaticcia e conta-  giosa, Orazio non addimostravasi meno al-  larmato di lui. E tal pensiero dominante  trapela nelle sue opere, come quell'altro,  che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né  bastavagli a frenargli la lingua, la sua for-  tezza e valentia. La paura della morte era  così possente in Mecenate da fargli dettar  quei versi riportati da Seneca, che non  fanno grande onore al valoroso romano:   Vita dum superest, bene est  Hunc mihi vel acuta  Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^     -«( i65 )»-   Tanto grave e scoraggiante riusciva per  lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve-  nire inchiodato in croce come l'ultimo dei  malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca-  ronte nella palude Acherontea.   Orazio venivalo consolando con teneris-  sime espressioni, perchè Orazio non era co-  dardo, né intendea scoraggiarlo maggior-  mente. Ma le sue espressioni non appro-  davano gran che. Tentò alfine porre in ope-  ra il savio consiglio, che la pena gli sa-  rebbe venuta scemata sapendolo compagno  nel dolore, ed è perciò che gli dice senza  essere scevro di paura :   , Non piace ai numi   Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi  Un dì medesimo fia d* ambi estremo  Ne il voto è perfido, inseparabili  Andremo^ andremo. Che pria se muori  Pur teco air ultimo comun mi trovi  I nostri unanimi fuor S ogni esempio  Astri consentono 69)   E tale profetica consolazione, per istrana  fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito  veder tutto con tinte soprannaturali. Buona  parte di quello che molti direbbero spirito     -«( i66 )»►-   profetico attribuir si deve alla paura della  morte che premeva così Mecenate come O-  razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non  è vigliaccheria, bensì è innata nella natura  umana. Anzi prode è colui che questa paura  affronta, e guarda imperterrito quella figura  armata di falce, sfidandola sui campi delle  battaglie, al letto degli appestati.   Se non vi fosse terrore e spavento istin-  tivo del morire, quale prodezza, qual valentia  sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le  pesti, il mare irato ed il baleno delle armi  nelle tenzoni cavalleresche ?   L' amistà che legava Mecenate ad Orazio,  il sentirsi quel grande consolato da lui così  coraggiosamente lo fecero memore del poeta  che l'assisteva nelFora estrema a preferenza  degli altri. Nel suo testamento scriveva ad  Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura  di Orazio Fiacco come prendereste cura e  terreste memoria di me stesso I »   E riesce veramente straordinario come,  morto appena Mecenate, che era già soffe-  rente e presentiva la propria fine , dopo  pochi giorni, un subitaneo malore colpì il     ( i67 )»-     sommo poeta, da non lasciargli neppure il  tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo-  lontà. Andonne misteriosamente a raggiun-  gere r amico neir ima notte, siccome aveva  promesso.   Orazio morì neir anno di Roma 746, es-  sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio  Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette,  due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27  novembre.   Già da qualche tempo varcati i dieci lu-  stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof-  ferenza ai nervi e malinconia che accom-  pagnar sogliono per lo più quelli che tra-  scorrono molte ore del giorno a logorarsi  la mente coi severi studii. Perchè i visceri si  rendono sofferenti per le occupazioni men-  tali, e defatigata la mente, la tetraggine  invade il cervello , principalmente quando  gli anni incalzano.   In una lettera che il poeta scriveva ad  un compagno d'impiego nella questura, Cel-  so Albinovano, suo amico, ma che giunto al-  l' apogeo della grandezza, perchè ben ve-  duto e careggiato dal giovane Nerone, erede     ( i68     dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo  (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben-  ché infermo , per questo favorito di ven-  tura) così diceva :   Dritto né ameno è di mia vita il corso^   Perché men della mente sano   Che delt intero corpo^ udir vo' nulla,  Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi  Medici fanno orror, gli amici restia  Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o)   Ed a Mecenate . scriveva :   Ma di cor debil troppo e troppo infermo  Me conoscendo^ chiederai tu quale  Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70   Col corpo affranto dal peso degli anni,  dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e  nelle avventure e nei godimenti venerei,  sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor-  tale malattia del suo Mecenate e la fine dì  questo. Il colpo fu troppo violento e dovea  riuscirgli fatale. La sua fibra debole non  poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con  lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la-  coniche note di Svetonio, circa la vita di  Orazio, dice che lo stato suo di salute era     ( i69 )     deteriorato assai con gli anni, che non gli  conveniva più restar l'inverno nelle monta-  gne della Sabina, nella sua cara villa : che  svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo  scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi  enimi fere otium suwn conferebat , ibique  carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava  Orazio infermo e pensava morirvi là. Così  egli scriveva al fido amico Settimio:   Oh tregua al vecchio fianco   Tivoli dia   Quivi piagnente di pietosa stilla   Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^)   Certuni erroneamente attribuirono la mor-  te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana  la coincidenza della sua con la morte di Me-  cenate. Ma deve venire del tutto bandita  tale idea per le seguenti ragioni. Orazio  dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so-  leva dileggiarli; e la storia di Empedocle,  che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente  lo dimostra. Empedocle per desio di molta  vanagloria e prodezza, invano precipitossi  neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la  inutile bravura.     22     ( I70 )     Esaminando imparzialmente e con co-  scienza la vita di Orazio, si nota che ogni  sua cura si volgeva a conservarla, sia che  militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa-  bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi  facilmente proclive all' apoplessia. Che era  già fiacco e malandato in salute nel suo  undecimo lustro. Che il dolore della per-  dita del suo più caro amico e protettore  Mecenate (egli così amante degli amici e  riconoscente) doveva avergli prodotto tale  un rincrudimento dei suoi malanni da dar-  gli la morte con colpo apopletico. E son  numerosi gli esempii di fratelli od amici  ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re-  pentina disparizione d* un fratello o d' un  amico, li han seguiti immantinenti nella  tomba sopraffatti da colpo di malore vio-  lento.   Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E  che fu tale il suo genere di morte lo prova  poi chiaramente il non avere avuto il tempo  di tesser un elogio funebre al suo sommo  protettore Mecenate, che aveva assistito negli  ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e     -«( 171 )»-*   con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere  il proprio testamento.   Svetònio dice: (c Quum urgente si va-  letudinis non sufficeret ad obbligandas testa-  menti tabulas . )) 73)   Dovette avvalersi di quello che, dice Giu-  stiniano, prescrivevasi dal giure civile di  quel tempo, cioè della prova testimoniale di  sette cittadini, che dinanzi notaro provarono  esser volontà del moribondo Orazio che l'im-  peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio  per decidersi a lasciare erede \ imperatore ,  che consentì ad accettare \ eredità, doveva  esser fornito di non pochi beni di fortuna.  Che di fondi, che di valsente doveva aversi  senza manco veruno un buon dato, stante  la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio  quando accennando alle largizioni di Me-  cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al-  tera liberalitate locupletavit. »   Ma delle sue sostanze rimaste non ap-  pare vestigio od accenno, meno della villa  e del podere in Sabina, che han formato,  come si disse, la paziente investigazione  dei dotti archeologi e degli ammiratori     ( 172 )     del grande poeta. L' aver lui posseduto po-  deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non  è che una supposizione dei comentatori  delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi-  razione han formato un dominio. Mentre  chiaramente Orazio, nella sua diciottesima  ode del secondo libro dice: (c Satis beatus  unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara-  zione formò la base delle rimunerate inve-  stigazioni archeologiche del Capmartin de  Chaupy, siccome si accennò parlandosi della  villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune  r idea falsa che Orazio si avesse colà un po-  dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ».  Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,  principalmente dal Tommaso Nicolò d' A-  quino, autore dell'opera Delle delizie Taran-  tine, da Giambattista Gagliardo nella sua  Descrizione topografica di Taranto, e da Ate-  nisio Carducci, illustre letterato tarantino,  nella sua versione dell' opera del D'Aquino,  con note, non si è potuto affermare che Orazio  avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe  vi avesse fatto delle brevi escursioni per  isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi     ( 173 )     vestigio di casa o podere a lui od ai suoi  appartenuta, dovendosi credere erronea V as-  sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua  cronaca manoscritta, più volte mentovata,  della città di Venosa del 1500, nella quale si  dice aver posseduto Orazio una casa presso  le antiche mura della città, a levante, forse  alludendo a quella che si accennò nei capi-  toli precedenti, appartenente ad uno della  tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri-  zione. E da tale ipotesi lascia derivare che  dalle finestre di quella sua abitazione in Ve-  nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra  vastissime campagne, e da quella veduta  venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda-  turque domus longas quae prospicit agros. »  Perché non riferire invece con maggiore pro-  babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra  chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto  ciò che si è riferito nei capitoli precedenti  circa la dimora di Orazio in Venosa, ove  si trattenne solo adolescente : circa la con-  fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè  seguace di Bruto, e particolarmente per non  averne fatto il menomo indizio in tutte le     -«( 174 ))^   sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era  cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten-  sione dei campi asserita dal Cenna è un  sogno.   Che Orazio abbia fatto in Venosa qual-  che rara apparizione , forse per diletto ed  in compagnia d'amici, lo lascia desumere  soltanto r ode al fonte di Bandusia, che  rumoreggiava con polla cristallina ed ar-  gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es-  sendosi recato Orazio a cacceggiare od a  merendare, dovette improvvisare quei versi.  Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu-  stratori delle sue opere.   Orazio, come si disse, nacque a dì 8  dicembre del 689 dall' edificazione di Roma,  essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu-  cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no-  vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario  Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età  di anni cinquantasette. Acrone scambia però,  per errore dei copiatori delle sue opere , il  numero LXXVII per LVII, assegnando ad  Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri-  nito asserisce: « Alti supra septuagesimum     ( 175 )     annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai-  sum existimo. »   Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome  Svetonio, ritengono con precisione gli anni  della vita di Orazio essere stati cinquanta-  sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV  anno di Augusto, il secondo asserendolo  morto nelle date surriferite, e riportando i  consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ;  dai quali limiti precisi estremi non è lecito  discostarsi.   Il suo cadavere venne trasportato , tra  il compianto universale, in Roma, (non è  indicato da alcuno antico scritto il luogo  preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba  della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle  sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve-  tonio, che Mecenate possedeva un superbo  palazzo suir Esquilino, e presso ad esso  una tomba monumentale. In questa ripo-  sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed  Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera-  mente uniti di pensieri e di amore ; benché  l'uno nato di reale famiglia e di sangue  purissimo, e X altro figliuol di liberto.     -«( 176 )     Una possanza inesplicabile ed onnipotente  li fece incontrare, divenire tra loro stretta-  mente simpatici, e quindi insieme dormire  nello stesso Ietto V ultimo sonno I   Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno  le gesta e la gloria pel suono reboante della  tromba della fama procacciatasi col proteg-  gere generosamente quella schiera immor-  tale di uomini che vissero nel secolo di Au-  gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo  nionumento. È tutta sua la gloria che fa  semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire  l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di  vita sarawi sul globo.   Del sommo poeta non si conservano sta-  tue antiche o figure nei monumenti da po-  terne precisare la struttura corporale ed i  lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare  tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare  le parole che si riferiscono al suo fisico, per  vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de-  scrive con certa vanagloria la lussuria dei  suoi capelli d' un bel color d' ebano , che  ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma  che gli anni e le cure aveano resi argentei.     -«-   Questi hanno improntata una certa tinta di  pazzia benigna, che in luogo di ammira-  zione suol destare compatimento, antipatia e  ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro  osseo che le ricopre, il corpo umano, non  han bisogno di quella veste esterna non  naturale, oppur naturale, sian cenci o por-  pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema,  capelli o calvizie per foggiare un genio od  un cretino I Si può essere profondo filo-  sofo, saggio come gli antichi della Grecia,  e conservar forme aristocratiche, linde, ma-  nierose, affabili, con un corpo formato al  pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu-  culento, e Foscolo e Byron e Leopardi  negli ultimi scorsi anni così difformi tra  loro.   Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre  antiquario austriaco, nella sua opera « Doc-  trina Nummorum » e lo conferma Masson  nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti-  tolato « De Horatii effigie », essersi rin-  venuti dei medaglioni di metallo, terminati  nella loro circonferenza con un cerchio da  tre a quattro millimetri di larghezza, e che     ( i8o )     possono ben rassomigliarsi alle nostre me-  daglie commemorative o di onore, nei  quali si vede inciso in un lato un busto ,  ed intorno ad esso la scritta chiarissima  (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta  n' è illegibile e consumata. Il busto anzi-  detto è modellato esattamente a tenore di  quanto più sopra si è esposto. Uno di essi  si conserva nel museo del Louvre. E certo  appaiono riproduzione di busti o medaglie  d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel  quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno  è r opinione del dottissimo barone Walke-  naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse,   «   o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran  venosino. Deve però convenirsi che un uo-  mo che ha da poco varcati i cinquant' anni,  raro è che si renda deforme e barbogio.  Anzi la razza umana generalmente suole  giungere a questa età ancora atta a buona  vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi.  Se r aureola che circonfuse Orazio non  fu il (( nomen imitile » e neppure X opi-  nione che i suoi contemporanei ebbero di  lui ( opinione poco proporzionata ai suoi     -«( i8i )>9^   meriti, secondo che dottamente asserisce  Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe  tra i dotti il primo posto, perchè Dante  stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio  Satiro), maggiormente risulta la sua vera  gloria dal sempre fecondo entusiasmo che  per r eternità gli uomini risentiranno per   lui   Trascorsi appena nove anni dalla morte  di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri-  sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por-  tentosa !      t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-!        ^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^     XIII.  L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO     Ouao - za. I/I. - Ode XXX.      HE dire di Orazio poeta, creatore  nella letteratura latina di due ge-  neri di poesie del tutto nuove, e che  seppe far giungere ed elevare persino  I la lettera all' eccelsitudine dì un ge-  nere poetico?  Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è  quasi il solo che merita di esser letto, poiché  s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è  pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà     -«( i84 )»-*   delle figure, delle espressioni, d' una felicis-  sima audacia. » E Petronio ^7) continua as-  serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora-  zio sono accuratemente felici, come Omero  ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi-  dero la strada che conduce al lirico stile, o  non ebbero il coraggio di batterla. » E que-  st* opinione distrugge la miserabile assertiva  di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che  chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi,  appena poeta non isprezzabile [memorabilts  poeta). Tanto potevano in questo possessore  degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, .  che tra certi letterati sono solite malattie I   Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti-  bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare,  S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio ,  Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo ,  Dante, Voltaire e cento altri, a coro una-  nime, gridarono le lodi del gran venosino.   Moltissimi eruditi si sono occupati di stu-  diare precisamente le opere di Orazio. I più  celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent-  lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il  Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber,     ( i85 )>9-     il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum,  il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab-  ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern,  il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O-  relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle  opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio  Porfirio, e dell'altro che prendendo nome  dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano,  non meno che di Emilio e Terenzio Scauro.   Ciascuno di essi ha cercato desumere con  pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio  scrisse le singole parti del suo eterno monu-  mento. Cercherò notare le più interessanti  investigazioni.   Orazio dapprima scrisse le satire e ne   compose il primo libro negli anni di Roma   713-718 , non avendo ancora raggiunto il   trentesimo anno. Pare che la prima di tutte   sia stata la settima fatta neir inverno del   713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe   con impeto sarcastico contro un tal Rupilio   che con lui aveva militato nell'armata di Bruto,   Segue poi la seconda scritta nell' autunno del   714, nella quale parla in generale dei vizii di   cui la società romana era infetta. La quarta   24     ^ i86 )     satira fu scritta nell'estate del 715, ed in  essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi  mostrato un po' virulento nello sferzare la  cattiva gente, e secondo il parere di Wei-  chert fu questa la satira che i suoi amici  Virgilio e Vario presentarono a Mecenate,  avendo inculcato al poeta di scriverla per  cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse  la terza nel principio del 716, ed in essa fa  vedere che mentre gli uomini sogliono cri-  ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i  proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve-  dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo,  e non vedi la trave che è lì lì per acce-  carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira  venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i  commensali di Mecenate; infatti la satira  quinta che descrive con gran lepidezza e pre-  cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi,  vi fa risaltare la figura di Mecenate come  attore principale e come uomo politico, spe-  dito dal governo per delicati maneggi a quel  luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per-  sonaggi influenti, e che compagni insepa-  rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario,     ( i87 ))^     Cocceio e Tucca. Compose poi la prima  satira in omaggio al suo gran protettore, e  pubblicando il libro nel 717-718, la pose  come principale, perchè a lui dedicata e per  testimoniargli la sua stima ed il suo affetto.  Scrisse la nona dopo circa un anno per cor-  reggere quei miserabili che invidiandogli la  protezione di Mecenate, mostravano, .mor-  dendolo col dente velenoso della livida in-  vidia, di non esserne a parte. La bellissima  satira sesta, nella quale pone la virtù come  il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava  con la quale schernisce i superstiziosi e le  donnacce, furono scritte, secondo l'opinione  di Spohn, nel 719.   Il libro degli Epodi era già stato com-  posto da Orazio prima del cennato primo li-  bro delle satire, ma fu pubblicato non prima  del 729.   Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi  dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in-  ventore dei giambi, al dir di Diomede gram-  matico. Sebbene altri sommi scrittori, com-  preso il Gargallo nelle note, ammettano che  epodi si dicesse il libro compilato da odi pò-     ^ i88 )m^   stume di Orazio, fondandosi sul termine gre-  co epodem, che significa sopraccantare.   Benteley, Weichert e Jahn sostengono che  il secondo libro delle satire sia stato com-  posto negli anni 719 a 729. E la terza del  secondo libro delle satire sostengono essere  stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo-  strando che già poco più che trentenne Orazio  avea avuta donata quella proprietà.   Riguardo alle odi, furono scritte, se-  condo il parere di Butman, del Dacier e  di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734,  E da quest'anno ed i seguenti sino al 744,  cioè nella sua età di anni cinquantacinque,  solo l'ultima ad Augusto, come omaggio  al più grand' uomo del secolo e suo insi*  gne benefattore.   Orazio dalla sua villa aveva spedito ad  Augusto diversi scritti e molte delle let-  tere surriferite, e gliele indirizzò con un  viglietto umoristico consegnato ad un Vinio  Frontone Asella, che è proprio l'epistola  decima del primo libro. Augusto dopo aver  letto tali componimenti, gli rispose così:  (( Sappi che io sono teco sdegnato , per-     -^( 189 )»►-   che in molti di cotali scritti (come sono le  satire e le epistole) tu non parli principal-  mente con me. E forse che temi non ti sia  per tornare ad infamia nella posterità, se tu  mostri d'essere stato mio amico ?» A questo  onorevole ed amorevole rimprovero Orazio  rispose colla prima epistola del secondo libro,  che è invero un capolavoro nel genere sotto  ogni rispetto.   Il primo libro delle epistole venne com-  posto prima del quarto libro delle odi.   Il carme secolare scritto per condiscen-  dere al volere di Augusto fu composto nel  737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio.  L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca-  polavoro, e che può dirsi una lettera di-  dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può  benissimo classificarsi come terza nel secon-  do libro delle epistole , e venne composta  nel 741-742, mentre la prima epistola del  secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi  essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com-  posta nel 744, avendo il poeta V età di anni  cinquantacinque.   Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta     ^ 190 ))^   pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua  opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa  che sa quasi dell' inverosimile.   Basta però per convincersene notare il  numero straordinario delle edizioni delle sue  opere, dacché ci furono tramandate, siansi es-  se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti.   Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi  precisare chi sia stato il primo scopritore dei  canti immortali di Orazio, né dove rinven-  gasi la prima edizione di essi nei tempi re-  motissimi composta. Vuoisi da taluni che  in un museo inglese se ne conservi vestigio.  Certissima cosa é che da molti secoli, sia  in Italia che in Germania, in Francia ed in  Inghilterra principalmente, le edizioni delle  opere del gran poeta possono contarsi a cen-  tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne  sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e  note illustratrici. È proprio l'arboscello pro-  fetizzato da Orazio :   Laude fra tardi posteri  Farà ch'io guai per fresca  Auray arbuscel più vegeto  Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i     Quante opere insigni di altri uomini nati  in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia  ed altrove sono state composte nei secoli  scorsi I E sono ignorate o perdute e scom-  parse per sempre. E dei monumenti sanscriti  di Persia, delle opere eccelse degli arabi che  scrissero nei tempi del califfi e dei sultani,  e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori  armeni, che invano i Mechitaristi tentarono  illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute  neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo,  o giacciono ignorate in fondo a qualche pol-  verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro-  dotto un fenomeno superiore, se pure non  uguale, a quello del monumento oraziano.  Alle opere di Orazio avvenne un simile me-  raviglioso fatto.   Sembrarono piccoli granelli di seme, che  fruttificando, e dapprima poco curati (che dai  suoi contemporanei, come si disse e lo con-  fermò Leopardi, non furono tenute in quella  stima che meritavano) divennero poi giganti.  Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si  distesero nelle viscere della terra, per tutte  le latitudini, con gagliardia non mai vista.     -^( 192 )»-   E per disperdersene le tracce, per abbat-  tere tale fenomenale vegetazione, bisogne-  rebbe che la terra universa andasse in fran-  tumi.   Dalla nostra Italia, avventurosa patria del  poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli,  appaiono vestigia del portentoso volume,  in tutte le lingue tradotto e glossato.   Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta  del monumento oraziano è una fronda fre-  sca e vegeta che ci ricorda uno dei più  grandi italiani.   Non era scorso un secolo dopo la morte  di Orazio , siccome attesta Giovenale, che  già le opere di lui, dai suoi contempora-  nei poco apprezzate, servirono in presso  che tutte le scuole di Roma come libri di  testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve  arguirsi che non poche edizioni dovettero  farsene in quei tempi remoti. Ma il primo  editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba-  silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe-  lice grammatico, sui manoscritti e ne fece  redigere non pochi esemplari riveduti e cor-  retti.     ^( 193 /»-   Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne  le seguenti edizioni principali antiche e mo-  derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali  esemplari condotte:   Edizione primaria, senza luogo ed anno,  con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee  26, in folio piccolo.   Altra che non porta data, né firma del ti-  pografo che s' ignora. Si compone di un vo-  lume in quarto di a 57 pagine, stampate in  lettere rotonde, di forma poco graziosa. An-  tichissima. Se ne conoscono solo due o tre  esemplari in Inghilterra.   Edizione pure senza luogo, senza data e  senza tipografo conosciuto. Forma un volu-  me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri  rotondi, ma molto belli, come quelli che si  usavano verso la fine del 1400.   1474. — Edizione di Napoli. In quarto per  Arnauld de Bruxelles, pagine 168.   1474. — Edizione di Milano. In quarto.  Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli.   1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna.   1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda-  min.   25     ( 194 )     1481. — Venezia. Senza nome di tipo-  grafo.   1482. — Milano. In folio. Per Antonio  Miscomini, col comentario di Cristofaro  Lantini.   1482-1491. — Milano. In folio, con co-  menti di Antonio Mancinello e degli antichi  scoliasti. Edizioni ripetute molte volte.   1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin-  ger. Opere di Orazio in latino, con testo  stabilito sopra manoscritti preziosi antichi.  Con molte incisioni.   1501. — La prima edizione Aldina. Ver  nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo  Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa.   1503. — Firenze. La prima dei Giunti in  8.° Filippo Giunti. Rarissima.   1505. — La prima Ascenziana in 8.°   1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu-  zio. Riproduzioni.   1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini.   1553- — Venetiis. In quarto grande, di  228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio.  Con note erudite di Erasmo de Roterda-  mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara.     1555- — Venezia. Con postille di Gior-  gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu-  reto.   1561. — Lione. Due volumi in quarto di  Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò  magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci  antichi codici. Edizione ripetuta con molte  correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567,  in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo-  vamente nel 1577 e nel 1587.   1566. — Anversa. Teodoro Pulman con  critiche rinomate.   1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano;  anche con critiche.   1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru-  chio.   1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un  manoscritto Blandiniano antichissimo, ed  altri della biblioteca dei benedettini di Gand  andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac-  creditatissimo.   1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due  volumi in ottavo.   1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu-  penda, bellissima I     -^( 196 )»-   1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In  quarto con dottissimo comento.   161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana  con note di Daniele Heinsius. Con disser-  tazione dotta di tale letterato sopra le sa-  tire.   1629. — Anversa. Nuova edizione del  medesimo, riveduta con note.   1653. — Leida. Variorum, Editore Cor-  nelius Schrevelius.   1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of-  ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi  di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne-  lius Schrevelius accurante. Riproduzione.   1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre-  cedente di Schrevelius, corretta.   1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di  Andrea Dacier.   1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio,  molte volte ricopiata.   1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu-  penda.   1696. — Parigi. Jouvensy.   1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo  Bentley.     ^ 197 )»►-   171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent-  ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra  Orazio. In quarto. Monumento immortale  dell'arte critica, lacerato dai contemporanei  per livida invidia. Ripetuta l'edizione in  Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia  nel 1826.   1729. — Parigi. Due volumi in quarto.  Stefano Sanadon, con traduzione delle opere  di Orazio molto stimata.   1752, — Londra. Con note del Dacier.  Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa.   1756. — La suddetta in Amsterdam, ri-   ■   veduta e corretta. Otto volumi in ottavo.   1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-  snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e  Both nel 1822.   1770. — Parigi. Edizione classica in ot-  tavo di Giuseppe Valart.   1774. — Napoli. Michele Stasi, con note  di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo.  Molto stimata.   1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot-  tavo, contenente solo le odi, con note ed  illustrazione di Ch. D. Jhan.     -^( 198 )     1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in  Milano nel 1792.   1791. — La stupenda edizione del Bo-  doni in Parma.   1794. — Londra. Due volumi in ottavo  di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa.   1799. — La più stupenda e magnifica si-  nora edita di F. Didot. In folio.   1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo  di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi  le satire e le epistole, ma sono eruditissimi  pomenti e note sulle altre opere e partico-  larmente sul carme secolare.   1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con  note di Gessner e Zeunio. Composta sulla  prima edizione dello stesso editore in Londra.   1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot-  tavo del Doering. Riputatissima edizione per  uso delle scuole.   181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di  Carlo Fea. Con critica e note riputatissime.  Edizione bellissima.   181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di  Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi  e gli epodi. Ma è superba.     ^ 199 )«►-   1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed.  Heindorf, con conienti eruditi e note. Con-  tiene solo le satire.   1820. — Maneim-Baden. Due volumi in  ottavo di F. Both.   1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi-  zione di Carlo Fea di Roma con molte ag-  giunte.   1821. — Heidelberga. Due volumi in ot-  tavo di Grevio. Contiene le sole odi.   1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel-  tissime note ed aggiunte.   1828. — E. F. Schmid. Due volumi in  ottavo. Contiene solo le epistole.   1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo-  lume in ottavo. Edizione di Perlkamp.   1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con  biografia di Orazio e note. Libro erudi-  tissimo e molte volte riprodotto, e partico-  larmente l'ultima edizione quarta, accura-  tamente emendata e corretta, sicché con ra-  gione può dirsi la migliore.   1838. — Venezia. Premiato con meda-  glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con  traduzione in versi e note del celebre mar-     -^( 200 )>»-   chese Tommaso Gargallo. Un volume in  ottavo, preziosissimo.   Della vita e delle opere di Orazio scris-  sero pure con profondità di vedute e som-  ma dottrina:   Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae,  5 volumi in ottavo. Berlino 1817.   Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber-  lino.   Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo-  lume in ottavo. Leida 1703.   Eichstedt , Critica ed osservazioni stille  opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1.   Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva-  zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa-  rigi, 1823.   Cristofaro Martino Wieland, Traduzione  delle opere di Orazio^ con note. Quattro  volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827.   Morgesten, Le satire e le epistole ora-  ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801.   E fra tutti primeggiano gli scrittori fran-  cesi che convien notare:   C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione  delle odi di Orazio in versi francesi con     -«( 201 )l^   biografia ricavata da vecchissimo mano-  scritto.   Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran-  cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi,  1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può  definirsi una delle più dotte e belle edizioni  delle opere del poeta.   Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,  Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi-  ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour-  nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux,  Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli-  grafo barone Walckenaèr, che nel 1840  compilò una Storia della vita e delle poesie  di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo,  opera dottissima ed insuperabile.   E redizione grandiosa del Didot del 1855  in Parigi, con tavole topografiche e note e  biografia, che può asserirsi la più perfetta  edizione del secolo. Riproduzione con ag-  giunte di quella suddetta del 1799.   E tra gr italiani il Metastasio, il Leo-  pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il  Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo,   il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal-   26     ( 202 )     vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi,  il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco,  ed altri molti scrittori di comenti e studii  e saggi critici.   Ma in Italia tra le molte traduzioni delle  opere oraziane, la più perfetta e completa  è quella del marchese Tommaso Gargallo,  e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa,  facendo risaltare la bellezza della frase ora-  ziana, tale ammirevole letterato ha cercato  inciderne il concetto, abbellendola con versi  armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla  musa stessa del gran poeta venosi no.   Mi sono avvalso in questa mia opera ap-  punto della traduzione del Gargallo, prin-  cipalmente in quei passi della storia, nei quali  era necessario dar luce alla dicitura con le  stesse parole di Orazio, le quali forma-  no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi  massimi del poeta : « Jamais homme n'a  donne un tour plus heureux à la parole  Pour lui /aire signifier un beau sens, avec  brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser-  vendomi dei versi sublimi frutto del forte  ingegno del Gargallo, e dettati in purissima     lingua italiana , per illustrare uno dei più  grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai  miei concittadini, ai quali, per questo mio  lavoro, chiedo venia e benevola approva-  zione.     M^ihr^^yr^'-i      NOTE           «li^^illl^^^l     ?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai';     (i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso  il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria    deità orientale anteriore     r^( 212 y»^   all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che  nelle notizie sull' etimologia del nome della città di  Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome  riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe-  tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na-  poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet-  tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè  scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento  trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in  una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa,  riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal  Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori  di sigle, che viene così tradotta :   MbKCUKI tMVIC. 8ACR.   pro salute  Pbassbmtis mostri   Agaris Acnc.   Come pure trova riscontro in una pietra di corniola  incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente  alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen-  nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati,  con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto  la scritta  di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-  giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò  aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon-  deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore.   Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda  opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa  e meritoria.   (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati,   (5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium.   (6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip.   (7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere  di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*"   (8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.*   (9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante.     r^( 217 )»-   (io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.*   (11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente  avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della  nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al  Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to-  pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi  annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per  mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece  inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città  e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta  di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu-  sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori.  Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci-  tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in  Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi  opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata  tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa,  mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im-  portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu-  cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e  che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero  di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai  monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata  per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica  onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,  siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non  però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi-  stenti in Venosa.       Bemusbi    . MOMUMRNTUlf.          POBLICX    . rACTUM D. D.        M.    . MUTTIBMUS .    L. F. C. Vibius .    l.    F.    M.    Bfsssius . F.   OB    F. M. Camillius   . HONOREM.    . l.    F.     28     ( 2l8 >•-     M. Mumnius « L*. F.   C. Vmn» . L. F.   n . Vis . J. D.   Statuas . KZ   D. D.  Rbficivmdas   e.   Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte  dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po-  che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono  quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva-  sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima  terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà  scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500  e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei  prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti-  tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio.   I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric-  chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie,  tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore  Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-  nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del  regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini  politici dei sovrani che si successero, non venne man-  tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar  dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi  patrizii illustri, scelti dal popolo.   E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora  in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-  derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse  la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer-  « sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri  e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de-     E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im-  peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi-  narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha  memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi-  nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse  edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello  splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce-  neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e  duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il  che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu-  Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì   L'iscrizione è la seguente :   StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM  UftBIS AMICUS DUM FUKHIS   Sbupbr Rxgmabis   Jums POTKNTEB   E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna)  del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono  magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono  un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed  illustri del regno.   In detta accademia presedeva lo stesso cardinal  Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo,  o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa     -«( 220 )ì9^     Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap-  presentava l'Olimpo.   E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita  insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto  riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500  per quanto disadorno scrittore :    e così si enumerano molti  doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare  fatti di valore e degni di stima e compenso.   Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine  riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del  1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani  nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae —     -«( 221 )•-   Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el  1723, che rimontano sino al precedente secolo deci-  mosesto:   Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di  Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno  di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale  diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della  sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici.   Deitardis.   Gomiti.   Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado  Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i  re aragonesi.   Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu-  minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei  quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian-  none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa  e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino,  agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero  Roberto, Lucio, Fabio e Carlo.   Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi-  nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L  D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa,  che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale  di Napoli.   Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del  celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era  nobile nolano.   Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di  conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa  Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di  Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV.   Fenice.     -«( 222 ))^   Solimene.   Casati,   Consultnagni.   Giustiniani,   Caputi,   Simone.   Moncelli.   Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene-  ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui  nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della  nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio  Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico.   De Bellis.   De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale  Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa,  autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio.   Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve-  nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile  Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior-  dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia-  copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo,  siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa  famiglia venosina derivato ?   Fioriti.   Tramaglia.   Ttsct.   Tommasini.   Palogani.   Pagani.   Balbi.   Sperindeo.   Berlingieri.   Violani.     -«( 223 )»^   Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne  membro della celebre accademia venosina, e poeta fa-  moso.   Abenanti,   Grossi.   Protonotabilissimi,   Capibianchi,   Campanili.   Ferrari,   Faccipecora,   Leonetto   Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale  palestra.   Aloisiis,   Rosa.   Biscioni.   De Vicariis.   Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus  D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^  U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae  triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in  legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi  ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber-  rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia  Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con-  siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio  erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto  (1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera  di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni  (1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo.   Vitamore.   Moncardi.   Lauridia.     ( 224 )     De Jura o Thura.   Sprioli,   Leoparda,   Sozzi.   Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine  di Malta.   Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e  dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti  in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di  essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente  epigrafe, riportata dal Corsignani.   JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino   Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi   Prognato   MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS  OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB   Canonicatu Insignito, humanab salutis  Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos  Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi   DIGNI8SIM0 P   •   E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con  la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi  Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta  neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella  vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen-  tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei  più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima  alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am-  mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan-  tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni :   Sull* altare :   HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR.   DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM.   MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI.     -«( 225 )»^     àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO.   FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D.   PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT.   SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO.   MDCLXVU.     Sotto l'altare:   SACELLUM . HOC.  NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. .  IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA.  RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA.   Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li  Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che  dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa,  D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed  altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si  volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri-  vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla,  e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar-  chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo,  (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia  Rapolla, la seguente iscrizione:   CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB.   U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus.   EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB.   Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc.   MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB.   UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT.   ANNO DOMINI MDCCXXII.   La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no-  bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi-  tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame  il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma-  gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri   personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan-   29     •^( 226 )»^   zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com-  t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-  luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub-  blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra-  zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro  compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera  « Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La  Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^  serve quelque chose de plus que son nom et sa position  antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai  ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche  degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po-  tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del  seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro-  logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini  1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra-  sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino,  con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve-  nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella  capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con-  siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far  distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese  a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per  sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no-  bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1   (12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera  9^   quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile  Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di-  stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto  parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di  miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in  una grotta messa sul ciglione di una collina verso  oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata  sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è  rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la-  terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo,  coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni  indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui   soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo   si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno  ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un  forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata ,  che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala,  ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la  loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer-  tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che  si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte  e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va-  sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai  tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue  e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando  andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai  tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di-  versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran-  dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E  venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un  borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin-  ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi-  tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde     -«( 231 )»-   la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro-  no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine.   In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si  disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti  ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de-  stinati a grandi imprese.   L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun  abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante  porta con sé una particella dell'aura divina, che emana  da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle  e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii  antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete  raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me-  glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi  Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri-  fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a  poche città meridionali d'Italia.   (15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di  Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*.   (16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua  ode quarta del libro terzo  ed il « pios  errare per lucos > han dato campo a non poche dispute  tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per-  sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una  balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del  pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le  ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve-  nosa. Gargallo traduce :   Da pueril trastullo  Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia     -«( 232 )»-     De r Apula nutrici, amar faruimllo  Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie  Tutu a nuazi arhuscelli  Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli.     Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar  appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si  chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa ,  usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia.  Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia  Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re-  gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella  Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia  Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu*  cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro  per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È  certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture ,  della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè  i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei  tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona  parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.).  Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu-  sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^  a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che  fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-  scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio  avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come  oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella,  RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non  esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro  della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia  o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove  la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della  quale si discorre.     I     (J33j   Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat-  tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau-  beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in  Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^.. ^. .. g .É|..^ ^ .y ^, .ly.., ».^ ..^ ^ ^. | ^^ >.. ^ .L.. ^IfcHiilnlfcjtUlt^     3     ■^     :     '^     ''     7     '3     P     PERE DELLO STESSO AUTORE     n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250,  Tipi Di Angelis — Napoli, 1870.   XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi  Tarnese — Napou, 1877.     Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo-  lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico  Vesuviano — Portici, I891.     Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo        Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi   Giannini — Napoli, 1886. ì 

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