Grice e Nannini: la ragione conversazoinale e l’implicature
conversazionali dei corpi animati – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano.
Grice: “Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini about the naturalism: the ‘anima’ is
there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action, ‘l’azione’ – He is the Italian
Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent of the Muybridge
series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e, inizialmente, con Cesare Luporini.
Ha accompagnato la sua attività di
ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni accademici con una intensa
attività politica a Siena come militante del Partito Comunista Italiano. È
stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di Filosofia Teoretica
all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni anche filosofia della
mente ed è stato principale cofondatore e direttore di una scuola di dottorato
interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre più volte, visiting
professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e Oldenburg. Attualmente in
pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso l’Siena e dal è direttore di Rivista Internazionale di
Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono incentrati sulla
filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e la storia del
pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia analitica ed
in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare il
“naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come
Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello
spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il
proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in
meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla
teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato
soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di
naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del
problema mente-corpo. Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il
Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella
filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di
filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” -- Una introduzione storica alla filosofia dell’animo,
Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo,
Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici
sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società”
Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di
Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero
di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia»,
Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in
L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo
forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia
materialistica, in «Giornale di metafisica», Nicolaci G., Perone U., Ontologia e
metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in
Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come
Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società:
Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello:
Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e
filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano,
Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le
scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C.,
Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo
scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in
Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori, In-conscio, co-scienza e
intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta
cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per
una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, Sandro Nannini, La Nottola di Minerva: Storie
e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Nannini. Keywords:
corpi animati, l’interazione dei corpi animati, l’ego come direttore assente,
freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi Speranza: “Grice e Nannini: il
santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The Swimming-Pool Library. Nannini.
Grice e Nardi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Spianate). Filosofo italiano. Grice:
“The Italians are fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito
di una famiglia benestante, composta di nove figli, viene avviato sin dalla
tenera età alla carriera ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati
francescani a Buggiano e diventa chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce
dal convento di Buggiano perché non aveva intenzione di continuare nella vita
religiosa, avendone perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e
teologia frequentando il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di
Pisa. Volendo proseguire gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada,
quella di entrare in seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di
Pescia e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento
Modernista, condannato da papa Pio X con l'Enciclica Pascendi. Nel 1908
Nardi sostenne l'esame di concorso per una borsa di studio triennale conferita
dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di frequentare un corso di
perfezionamento filosofico presso l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio). Nel
1909 Nardi aveva da poco iniziato a frequentare l'Università Cattolica di
Lovanio che già decise l'argomento della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante
nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante, che venne discussa con
Wulf. La lettura dell'opera di Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a
Sigieri, non persuadeva N. sulla soluzione data al problema della presenza di
questo averroista nel Paradiso dantesco. Due pregiudizi la inficiavano: il
primo “consisteva in un'inesatta visione storica di quello che nel Medio Evo e
nel Rinascimento era stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio del Mandonnet
era quello di ritenere il pensiero filosofico di Dante conforme in tutto e per
tutto a quello d’AQUINO." Nel momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò
il modernismo teologico, ma non abbracciò la filosofia neo-scolastica che
quella Università belga stava elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul
finire dell'Ottocento, nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO
che prevedeva l'unificazione di fede e ragione. Il metodo di lavoro che
Nardi seguì nel corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase
sempre improntato al massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia
indelebile dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi
scientifici. Per Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma
tale atto libero non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e
ricerca del materiale documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei
testi. Ottenuta un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia
frequenta corsi di filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della
propria tesi su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi
pubblica altri interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico.
scritto ai corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva
riconoscere in Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A
Firenze discuterà la tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del
medico e filosofo padovano Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da
Prezzolini con il quale mantenne per lunghi anni una fitta
corrispondenza. N. volle abbandonare il sacerdozio. In una successiva
lettera indirizzata al vescovo Angelo Simonetti,
spiegava che era stato l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra
ordinazione, con preghiere e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare
filosofia presso il liceo classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si
trasferì a Milano. Ha da Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della
filosofia medievale presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non
ottenne la cattedra universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5
del Concordato in base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti
secolarizzati dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna D’Oro” dal
presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris causa da
parte dell’Padova e da parte di quella di Oxford. Le opere e gli studi su
Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo allo studio
del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di Sigieri di
Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione schemi
consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che ci
permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una
costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un
vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era
trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe
polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli
fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle
sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi
sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto
Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di
un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con
il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà
al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue
ricerche. L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo
della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai
il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il
senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della Divina
Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro tutte le
buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia è
custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una profetica
visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la filosofia di
Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi complessa
tendente a superare le antinomie e che mantiene intera la sua spiccata
originalità, il suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre
da una parte ristabilire il preciso significato delle parole in rapporto alla
terminologia filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire dall'altra
l'ambiente culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si muoveva per
arrivare a determinare la fonte, il libro letto da Dante. N. ha gettato
luce su molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia araba e
neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e Sigieri più
di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello
scolasticismo aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema
della "visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre
come nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non
è finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in
virtù di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al
terzo cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente
nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia
si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale
culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine
mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di
trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti. L'opera
dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che
termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del
tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con
le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La
terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia,
poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi
compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di
Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è
poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la
speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi
l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è
"il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia
della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una
visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei
Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Saggi: “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI
-- ; “Critica dantesca” (Milano, Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di
Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia
e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale
Critico della Filosofia Italiana",
Premi Feltrinelli, su lincei, Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto
Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem
Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone
del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica
sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le
fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri
di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri,
Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo
Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al
paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”,
Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della
filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento
italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura
medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica
e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita
in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il
naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma, Universitarie; “L'alessandrinismo nel
Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico, I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica”
La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della
filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del
commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della
verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale”
(Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano,
Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio
al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere
morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di
Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio,
Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la
cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il
dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La
Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso
di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche
notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio
e Zimara: due filosofi galatinesi, “Archivio
storico Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a
Padova alla fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo
alla biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura
e cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze,
Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura,
Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale.
Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i
Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in
Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la
teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas
vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in
Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi”
(Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti
di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di
studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier,
Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai
tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di
critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura
veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina
Commedia, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza
scientifica Società Dantesca Italiana. NARDI
# SAGGI SULL
ARISTOTEL ISMO PADOVANO
DAL SECOLO 3 T1S3
DD0b3fllS 7 UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI PADOVA CENTRO ARISTOTELICO BRUNO NARDI SAGGI SULL'ARISTOTELISMO PADOVANO . DAL
SEGOLO XIV AL XVI
G. C.
SANSONI - EDITORE FIRENZE UNIVERSITÀ DEGLI
STl^DI DI PADOVA STUDI
SULLA TRADIZIONE ARISTOTELICA NEL VENETO Volume I UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI PADOVA CENTRO ARISTOTELICO BRUNO NARD
I SAGGI SULL'ARISTOTELISMO
PADOVANO DAL SEGOLO XIV
AL XVI G. e.
SANSONI - EDITORE FIRENZE Questo volume
è stato pubblicato
a cura e
sotto gli auspici
del Centro per lo
studio della tradizione
aristotelica nel Veneto
e del Comitato per
la storia dell'
Università di Padova PROPRIETÀ LETTERARIA
RISERVATA Stampato in Italia AL
LETTORE Ho aderito di
buon animo a
che venissero riuniti
in questo volume, per
comodo degli studiosi
che ne fanno
ricerca, quattor- dici saggi sull'Aristotelismo padovano
e particolarmente su queir
interpretazione del pensiero
aristotelico che prende
il nome dall'arabo «
Averrois che 7 gran commento
feo », sparpagliati, come numerosi
altri loro confratelli,
in varie riviste
ormai non più facilmente
accessibili. Questi saggi
abbracciano un periodo assai
lungo di ricerche
dal igi2 al
ig^ó, e nel
loro insieme offrono un
quadro sufficientemente completo,
per monografie che si
richiamano fra loro,
della filosofìa a
Padova dai tempi di
Pietro d'Abano, a
principio del Trecento,
a quelli di
Giacomo Zabarella e di
Francesco Piccolomini, alla
fine del Cinquecento , quando ormai,
a Padova e
altrove, V Aristotelismo comincia
a volgere decisamente al
tramonto, per il
nascere delle nuove
scienze della natura e
del nuovo metodo
di ricerca scientifica
e filosofica. Fuori della
presente raccolta, già
abbastanza pingue, son
ri- masti i saggi stille
opere inedite del
Pomponazzi, meno quello relativo alla
miscredenza di Nicoletto
Vernia, perché essi
po- tranno essere riuniti a
suo tempo in
un volume a
parte, ed altresì quello sulla
letteratura e cultura
veneziana nel Quattrocento, apparso nel
volume La civiltà
veneziana del Quattrocento della Fondazione
Cini, che potrà
meglio figurare insieme
ad altri, che vado
preparando , sulla filosofia
veneziana del Rinascimento. Nella formazione
del presente volume
non è stato
sempre rispettato l'ordine cronologico
nel quale i
saggi qui compresi sono
apparsi, per il
bisogno di contemperarlo
con la successione storica degli
argomenti trattati. Ad
ogni modo, sono
stati sempre indicati in
nota la data
e il luogo
ove ciascuno ha
visto la luce la
prima volta. Inoltre,
ritengo opportuno avvertire
che tutti sono stati
più o meno
leggermente ritoccati, e
qualcuno in modo assai
notevole. AL LETTORE Quello che
mi ha guidato
in queste non
agevoli ricerche, non è
stato, cerne forse
taluno potrebbe pensare,
il gusto delle
notizie erudite, pur sempre
indispensabili alla ricerca
storica, sibbene il bisogno
di prospettare le
particolari condizioni e
circostanze d'ambiente
culturale in cui
certi problemi filosofici
eran posti, fra il
secolo XIV e
il XVI, dagli
aristotelici padovani, e lo sforzo da
questi sostenuto per
trovarne una soluzione
e per eva- dere da
abitudini mentali e
pregiudizi che alla
soluzione di quei problemi
s'opponevano. Su alcuni di
siffatti problemi discussi
e ridiscussi mille
volte nel corso di
quasi quattro secoli,
era naturale che
avessi a fer- marmi con insistenza
e abbondanza di
citazioni, perché chi legge
avesse modo di
rendersi conto, quasi
toccando con mano, dell'
imprecisione e non
di rado dell'
avventatezza di talune
af- fermazioni da parte di
non pochi storici
che la storia
delle idee non hanno
mai preso sul
serio, contenti troppo
spesso di luoghi comuni
e vacue generalità:
Per oppormi appunto
a questo an- dazzo e
per restituire ai
pensatori sui quali
mi sono fermato i
lineamenti della loro
umana fisionomia, m'
è parso non
fossero da sdegnare notizie
particolari e perfino
aneddoti che rasentano il
pettegolezzo, ma intanto
rivelano curiosi tratti
del loro carattere morale e
aprono uno spiraglio
su quell'ambiente scolastico,
per tanti aspetti così
diverso di quello
d'oggi. La distinzione poi
che s' è
preteso di fare
tra filosofia e cul-
tura s è
rivelata inconsistente, non
solo quando s'
è tentato di giustificarla , col
definire in termini
rigorosamente logici il concetto
di cultura come
diverso da quello
di filosofia, ma più
ancora quando, in
omaggio a quella:
pretesa distinzione, nel tracciare
la storia del
pensiero d'un epoca,
s' è tenuto conto quasi
esclusivamente dei pionieri
e si sono
disprezzate forme di pensiero
meno avanzate e,
diciamo pure, piii
umili, come, ad esempio,
per il Rinascimento,
le credenze magiche
ed astrolo- giche, condivise da
dotti non meno
che dal popolino,
e le opinioni intorno al
potere delle streghe
e al loro
commercio col diavolo, cui
davan credito, non
meno del volgo,
insigni « cherci
e letterati grandi e
di gran fama
», non che
giuristi e teologi
i quali s'ar- gomentavano d' estirparne la
mala semenza con
gli esorcismi e col
rogo. Così del
Rinascimento s' è
mostrato solo un
aspetto, mettiamo pure il
migliore e più,
seducente, ma unilaterale
e in- completo, per aver
relegato nell'ombra il « rovescio
della meda- glia », cioè
quelle forme di
pensiero che persistevano
non solo AL LETTORE
VII nelle masse popolari
e incolte, ma
altresì nei ceti
borghesi di media cultura,
nella nobiltà, nelle
corti principesche e
nel clero. Eppure anche
siffatte convinzioni rappresentano
particolari maniere di raffigurarsi
la vita e
il mondo e
costituiscono an- ch'esse
modi di
pensare la realtà,
che, per quanto
arretrati, furon condivisi dall'
enorme maggioranza degli
uomini nel periodo che
si dice del
Rinascimento. Altrettanto si dica
della distinzione fra
« ciò che
è vivo e ciò che è
morto » del
pensiero del passato,
quasi che potesse
morire quel che non
è mai stato
vivo, e che
vivere non fosse
un correre alla morte,
cioè un continuo
rinnovarsi. Singolarmente
penosa appare infine
l'ansia che per
il con- cetto, la natura,
il metodo, le
sorti della storia
e per il
valore del giudizio storico
dimostrano taluni che,
chiusi nella loro specola
teoretica, senza scomodarsi
colla ricerca e
la critica dei documenti
e delle testimonianze, indispensabili al
giudizio sto- rico,
pretenderebbero di dedurre
a priori gli
eventi della storia universale. Sì,
lo sappiamo, per
interpretare il linguaggio
dei documenti e delle
testimonianze ci vuol
cervello; e per
cervello intendo la «
categoria », cioè
la capacità a
inserire il fatto
accer- tato nella trama logica
del pensiero. Ma
la « categoria
è vuota senza V
intuizione », e
la mola del
pensiero frulla a
vuoto se dalla tramoggia
non cala giù il buon
grano falciato nei
campi arsi dal sole,
battuto vagliato e
seccato sull'aia. Sì
che a ragione pareva al
Vico « aver
mancato per metà
così i filosofi
che non accertarono le
loro ragioni con
l'autorità de' filologi,
come i fi- lologi che non
curarono d'avverare le
loro autorità con
la ra- gione dei filosofi
». B. N. INDICE Al Lettore
p. v I. La
teoria dell'anima e la generazione
delle forme secondo Pietro
d'Abano » i II. Intorno
alle dottrine filosofiche
di Pietro d'Abano
» 19 I. Le
prime accuse e
i processi per
eresia .... » ig IL Gli
« errata »
di P. d'Abano
secondo S. Champier
» 27 III. Eresia
di P. d'Abano,
secondo il Ferrari:
Dio e il mondo,
Scienza e Fede »
38 IV. La Psicologia
di P. d'Abano
e gli errori
storici del Ferrari » 59 V.
Conclusione. Il pensiero
scientifico di Pietro d'Abano in
rapporto alla Teologia » 69 III. Paolo
Veneto e l'averroismo
padovano » 75 IV. La
miscredenza e il
carattere morale di
Nico- letto Vernia »
95 V. Ancora qualche
notizia e aneddoto
su Nicoletto Vernia » 115 VI.
La mistica averroistica
e Pico della
Mirandola . «
127 VII. Appunti intomo
al medico e
filosofo padovano Pietro Trapolin » 147 Vili.
I Quolibeta de
I nielli gentil
s di Alessandro
AchiUini » 179 IX.
Appunti suU'averroista bolognese Alessandro AchiUini » 225 X.
Un altro sigieriano
dei primi del
Cinquecento: Geronimo Taiapietra
» 281 XI. Un'importante notizia
su scritti di
Sigieri a Bo- logna e
a Padova alla
fine del sec.
XV ... »
313 XII. Marcantonio e
Teofilo Zimara: due
filosofi Galati- tinesi del
Cinquecento » 321 XIII. Il
commento di Simplicio
a De anima
nelle con- troversie della fine
del secolo XV e del
secolo XVI »
365 XIV. La fine
dell'Averroismo » 443 Indice onomastico
e doxografico » 457 BRUNO NARDI SAGGI SULL'ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO
XIV AL XVI I LA
TEORIA DELL'ANIMA E LA
GENERAZIONE DELLE FORME SECONDO
PIETRO D'ABANO * I.
- Il già
celebre e oggi
invece quasi sconosciuto
medico e filosofo padovano,
Pietro d'Abano, vien
classificato ordinaria- mente
dai rari
storici moderni della
filosofia medievale che si
degnano consacrargli qualche
linea, fra gli
averroisti: da qual- cuno è,
anzi, presentato come
fondatore dell'averroismo al- l'università di Padova.
Ma, cosa strana,
dell'averroismo dell' Abanese
tacciono affatto gli
antichi storici che
pur lo fanno passare
come astrologo, mago,
eretico, e che
a queste accuse, riguardanti
le dottrine di
lui, ne aggiungono
ben altre riferentisi al
carattere personale, per
quanto queste ultime abbiano l'aspetto
di favole se
non, spesso, di
denigrazioni evidenti.
Scorrendo la monografia
che gli consacra
S. Ferrari ', il
sospetto che l'averroismo
del medico d'Abano
non fosse una pretta
leggenda, si accrebbe
in me a
tal segno che decisi
di consultare per
conto mio il
Conciliator differentiariini phi- losophormn et
praecipiie medicorum. Sennonché,
essendo l'opera relativamente rara
e trovandomi da
quattro anni quasi
sempre all'estero, non mi
fu così facile
procurarmela; quando, nel- l'essere a Bonn
m'abbattei in un'edizione
senza data, ma che
porta in
testa questa nota
manoscritta: impressus.... Me codex
est Venetiis a. 1483 per
Jo. Herbart
de Selgenstadt, alemanmmi. Mentre
andavo trascrivendo i
passi più impor- tanti dal punto
di vista filosofico,
quasi quasi non
sapevo credere a me
stesso, finché non
li ebbi collazionati con
altre * Già apparso
nella « Riv.
di Filos. Neoscolastica», I\',
1912, pp. 723-37, Solo
qualche lieve ritocco. I
/ tempi, la
vita, le dottrine
di Pietro d'Abano.
Saggio storico-filo- sofico
di Sante
Ferrari, Genova, 1900. 2
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI edizioni e
specialmente con quella
del 1476, di
cui, oltre le
copie possedute a Padova,
a Firenze, a
Torino ecc., una
si trova con mia
grande sorpresa proprio
nella Capitolare di
Pescia. Dico che non
sapevo credere a
me stesso, perché
i passi, a cui
il Ferrari rimanda,
lungi dal rivelare
le preoccupazioni averroistiche che
egli, con critica
bizzarra, crede scoprire ad
ogni pie sospinto
attraverso le dichiarazioni
di Pietro d'Abano, dimostrano,
al contrario, che
questi aderiva espHci- tamente e
senza riserve o
esitazioni di sorta
ad un'altra teoria intorno all'anima,
che era l'antitesi
perfetta di quella
del filosofo arabo di
Cordova. Quei passi
sono così chiari
che il Ferrari stesso
si sente imbarazzato
e suda due
camicie per interpretarli a
rovescio, come fa.
Dovrei forse dubitare
della buona fede di
lui ? Certo,
nell'opera erudita del
Ferrari si rivela qua
e là un
gusto matto di
sorprendere nel filosofo
da lui studiato atteggiamenti
e pose d'eretico
che agli occhi
del- l'autore lo rendono più
simpatico. E quando
gli fanno difetto i
documenti e le
dichiarazioni esplicite, ricorre
a stravaganti congetture o
a insinuazioni ridicole.
Ma io ritengo
il Ferrari un perfetto
galantuomo, e per
dubitare della sua
completa buona fede non
ho motivi sufficienti.
Penso invece che
gli manchi l'esatta conoscenza
del pensiero medievale;
in ma- niera che egli
non sa comprendere
nel loro giusto
significato certe dottrine, le
quali non si
possono capire se
non in rapporto ai
movimenti d' idee a
cui mettono capo.
Ora, infatti, sostiene che
Pietro d'Abano fu
accusato di materialismo;
più tardi, invocherà la
stessa condanna per
dimostrare che questi
non era sincero quando
dichiarava prava la
teoria averroistica dell'unità dell'
intelletto. Ora gongola
di gioia perché
Pietro,nel riferire l'opinione
del Commentatore, la
lascia passare senza una
nota di biasimo;
una pagina, dopo,
ti verrà a dire
che la
nota di biasimo,
che l'Abanese quest'altra
volta invece ha affibbiato
agli averroisti, va
presa per «
.... un'ostentazione a ufficio
di scudo »
! E via
di questo passo
-. - Op. cit.,
pp. 340-353. Il
Ferrari avrebbe fatto
bene, invece di ri-
mandare alle opere di
Pietro d'Abano, che
il lettore non
sa procurarsi con tanta
facilità, di offrire
estesamente citazioni più
abbondanti e meno laconiche.
Il pubblico poi
che si occupa
di queste materie
sa- prebbe, credo, fare a
meno, e quanto
a me molto
volentieri, della tra- duzione che il
Ferrari sostituisce ai
passi citati, i
quali nel loro
latino scolastico sono molto
meno oscuri. LA TEORIA
DELL ANIMA 3 Confesso
la verità. Arrivato
in fondo al
capitolo dove il Ferrari
parla della «
Psicologia genetica e
metafisica », non sono
mai riuscito a
raccapezzarmi sulla vera
dottrina del medico-filosofo d'Abano.
La quale, pertanto,
se si piglia
in mano il Conciliator,
è abbastanza chiara,
nelle sue linee
gene- rali, ed è ben
diversa da quello
che il Ferrari
va fantasticando. Ecco qui
uno dei passi
più importanti e
nello stesso tempo meno
ambigui. Alla differentia
48 ^ si
discute la questione
se il seme umano
sia o no
animato. E, a
proposito di questo problema, il
medico padovano espone
la sua teoria
sullo svi- luppo
dell'embrione e sull'origine
e natura dell'anima.
Egli dice: Rector autem huius
tain divini operis
[cioè dello sviluppo
embrio- nale] virtus est dieta
informativa ab anima
parentis decisa, per
im- pulsionem coeuntis incitata,
quam Galenus de
virtutibus nahiralibus, secundo, ca.
2, appellat summam
artem praesidem et
intellectivam sine mente, Aristoteles
autem intellectum vocatum
sive intel- lectivam
divinam, ceu ei
Haly ascripsit. Nominavit
autem eam Aristoteles intellectum
vocatum, ad differentiam
intellectus po- tentionalis et
agentis pars existentium
animae intellectivae, ut terfio
de anima inquit:
Dico autem intellectum
quo anima opinatur et
sapìt, ad differentiam
intellectus quem ponebat
Anaxagoras chaos dieta ex
eodem consimilia
sequestrantis. Et ideo
apparet hic erroneus intellectus
lacobitarum me persequentium
tam- quam posuerim animam
intellectivam de potentia
educi mate- riae; differentia
9; cum aliis
mihi 54 ascriptis
erroribus. A quorum nianibus gratia
dei et apostolica
m.ediante me laudabiliter
evasi. Da qua quidem
virtute, ló. animalium,
Avicenna: ' Virtus
infor- mativa est illa quae
dat vitam et
est proportionalis virtuti
su- percoelestium '. Arrestiamoci a
precisare il significato
di questo passo. L'Abanese parla
qui non dell'anima
umana, ma della
virtù i il formativa,
la quale più
sotto è così
descritta sulla scorta del
De animalibtis, XVI,
e. i, di
Avicenna: Virtus informativa est
illa quae dat
vitam et est
proportio- nalis virtuti
supercoelestium, et ista
virtus facit similia
secundum quid virtutibus supercoelestibus quousque
sit possibile illam recipere vitam,
et est dispersa
per universam substantiam
cor- poris sive sit
humiduin sive siccum:
et in spermatis
substantia est potentia potens
recipere hanc virtutem
et est spiritus
primus deferens calorem coelestem
et ipse est
causa omnium partium
sper- matis. Estque haec virtus
a corpore abstracta,
cui etiam ab
Arist. accipiens
commentator. j° metaphy.
i^Comm. 37]: Arist.
dixit 4 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI in libro
de animalibus, quod
ipsa sit similis
intellectui in hoc, quod
non agit per
instrumentum corporale et
membrum pro- prium. La teoria
della virtù informativa,
qui esposta, è
tratta dal secondo libro
del De generatione
animaliuni d'Aristotele 3 e la si
ritrova quasi negli
stessi termini presso
S. Tommaso 4. Siccome,
per altro, i
Giacchiti di Parigi
credettero che Pietro intendesse parlare
dell'anima umana, per
questa ragione, com'egli dichiara,
lo accusarono dell'errore
d'Alessandro d'Afrodisia e di
Galeno, l'ultimo dei
quali sosteneva che
l'anima fosse la stessa
complexio del corpo
organizzato \ e
il primo che r
intelletto materiale o
possibile dovesse farsi
consistere in una certa
virtìt. risultante «
ex universa illa
temperatura vel constitutione »
propria dell'organismo umano
^. Lo accusa- vano, dunque, dell'errore
opposto all'averroismo e
contro il quale il
celebre commentatore dello
Stagirita aveva aspra- mente polemizzato a
più riprese. A
quest'accusa aveva dato certamente motivo
l'appellarsi che Pietro
faceva a Galeno e
al di lui
fidelissimus interpres, Haly
ben Rodoam. Questi aveva
saputo trovare presso
Aristotele, non si
sa come, la teoria
dell' intellectus vocatus, della
cui provenienza aristotelica il Nostro,
con quella sua
espressione: « ceu
ei Haly ascrip- sit
», sembra tutt'altro
che convinto. L'
intellectus vocatus è la
traduzione letterale del
ó xixXoù\j.tvoc, voui;
del De gene- ratione animalium 7,
Basandosi su di
essa, Haly sosteneva che
r intelletto separato
di Aristotele, distinto
dall'anima individuale e identico
al voij? d'Anassagora,
fosse la stessa virtù
informativa, ossia l'influenza
degli astri la
quale per mezzo del
seme paterno presiede
allo sviluppo e
all'organiz- 3 Cap. 3,
736 b. 29 sgg. :
tkxvtwv (xév yùp
év tcò oTuéppiaTi
ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ yóvifxa
elvai xà CTTrép[xaTa
xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où
TTup, oùSè xotauxY]
SuvafjLit; Icttiv, àXkà
xò l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov èv T(p
CTTÉpfxaxi, jcai èv xo) à9p(óSEi.
TTVEUjj'.a xal rj Èv xw
TTVsufAaxt , quando viene a
parlare del capitolo
de electionihus. Egli
intanto di- stingue la ricerca,
invero innocente, dell'
« bora laudabilis
in- cipiendi aliquod opus
», affinché l'opera
da intraprendere abbia felice
risultato, pur senza
tentare di modificare
il corso o r
influenza del cielo,
dai tentativi, per
mezzo d' immagini 33 Cfr.
Ferrari, P. d'A.,
pp. 355-356. 34 Cap.
13. 35 Capp. 10
e 14. 36 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e di
scongiuri, di modificare
favorevolmente le influenze
ce- lesti per la buona
riuscita dell'opera che s'
intraprende. Che la prima
ricerca non abbia
niente d' illogico, dati
i presupposti astrologici che
noi conosciamo, o di temerario
dal punto di vista
della dottrina teologica
del tempo, è
evidente. Perciò l'autore dello
Speculum non solo
la ritiene legittima,
ma di- chiara che sia
opportuno, come pensa
anche Pietro d'Abano, conoscer l'ora
favorevole al concepire,
al prender medicine
e alle operazioni chirurgiche
36. Per quel
che riguarda invece
la costruzion delle immagini
a fine di
modificare l' influsso ce- leste, egli stima
necessario far molte
riserve: «Parti.... electio- num
dixi supponi imaginum
scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam
imagines sunt tribus
modis. Est enim unus
modus imaginum abominabilis,
qui significa- tione et
invocatione exigit.... Est
alius modus aliquantulum minus incommodus,
detestabilis tamen, qui
fit per inscrip- tionem characterum,
per quaedam nomina
exorcizando.... Tertius
autem est modus
imaginum astronomicarum, qui
eli- minat istas spernendas
suffumigationes et invocationes,
et non habet neque
exorcizationes, ncque characterum
inscrip- tiones admittit, sed
virtutem nanciscitur solummodo a
figura caelesti ». Posta tale
distinzione, mentre egli
condanna gli esorcismi, gì'
incatesimi e la
necromanzia, pensa di
non po- tersi arrogare il
diritto di condannare
o di negar
l'efficacia delle immagini astronomiche. D' immagini astronomiche,
ammesse dall'autore dello
Spe- culum, si parla nella
già citata differenza
X e nella
CI del Conciliator. Ma
Pietro d'Abano sembra
andar più oltre
ed ammettere anche quel
genere di pratiche
condannate dall'au- tore
dello Speculum^i. Si
tratta per altro
d'un equivoco. Egli crede
al fascino, all'arte
notoria, alla pvaecantatio
e alla magia (e
questo deve, senza
dubbio, aver contribuito
a crear la sua
fama di
mago e di
necromante) ; ma
intanto spiega i
fenomeni e i resultati
ottenuti con queste
arti, sforzandosi di
traspor- tarli sul terreno della
magia bianca, allora
ritenuta lecita dai teologi. 36 Conciliator,
diff. io (Champier,
II, 8). 37 Conciliator,
diff. 135 e 156. Champier,
III, 8, g,
io. Intorno alle interessanti varianti
del numero 8
nelle varie edizioni
del Conciliator, cfr. Ferrari,
Per la biografia
etc, pp. 48-9. LE
DOTTRINE FILOSOFICHE DI
PIETRO D'ABANO 37 Così
egli ammette l'efficacia
del fascino e
degl' incante- simi, come r
ammetteva Avicenna e come due
secoli dopo
l'ammetterà il
Pomponazzi, ma esclude
da essi ogni
carattere sovrannaturale e segnatamente
l' intervento di demoni
38, pur senza negar
l'esistenza di essi.
Per lui, l'anima
di certi uomini è
fornita, per uno
speciale influsso celeste,
di virtù eccezionali, e
si comporta, nel
modificare le influenze
astrali sulla terra, come
le immagini artificiali
costruite dagli antichi sapienti dell' India
39. — La
praecantatio è utile
al medico, come gli
è necessaria la
fiducia da parte
dell' infermo 40. Ma le parole dell'
incantesimo verbale desumono
la loro efficacia
dalla virtù celeste, come
dalle disposizioni favorevoli
delle costel- lazioni deriva l'efficacia,
secondo Albumasar, della
preghiera astronomica 41.
L'efficacia, insomma, di
tutte queste pratiche è
desunta dall'astrologia: siamo
fuori del dominio
della magia nera. 8. -
Una censura speciale
dello Champier riguarda
anche una dottrina la
quale non ha
niente che fare
con le dottrine di
carattere prettamente astrologico,
che abbiamo riferite; ma
che, anzi, sotto
un certo aspetto,
è opposta a
quelle: in- tendo la dottrina
della produzione delle
forme nel mondo infralunare. Essa
suona così: «
Ponentes.... creationem, etsi verissimi in
lege sint, in
philosophia tamen non
sunt admit- tendi, cum
ipsam levem faciant
omnino, ac primam
quasi causam multiplicibus vexent
laboribus; decorem non
minus et ordinem et
per consequens perfectionem
removentes, secun- dum Peripateticos, ab
universo «42. Lo
Champier pretende che, con
siffatta dottrina, l'Abanese
venga a contradirsi,
« quia simul stare
non possunt, quod
lege sint verissimi,
et tamen admictendi non
sint in philosophia;
quia omne verum
conso- nat ». Dove
non sai se
egli accusi il
filosofo di aver
negato la creazione, o
di avere ammessa
la dottrina averroistica
della doppia verità. Ma
nell'uno come nell'altro
caso, ha frainteso senz'altro il
pensiero di Pietro
d'Abano, come avremo
modo di dimostrare nel
paragrafo che segue. 38
Conciliator, diff. 135. 39
Ibid. 40 Ibid. 4' Conciliator,
diff. 156. 42 Conciliator,
diff. loi (Champier,
III, 2; cfr.
I, 3). Cfr.
soprap. 14 e 16. 38 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI realtà, di
tutte le dottrine
censurate dalla Champier, tre
appena sono tacciate
di eresia e
segnate di un
biasimo spe- ciale, e cioè:
i) quella, ora
accennata, intorno alla
creazione; 2) l'avere Pietro
affermato che Dio
non possa operare
nel mondo infralunare se
non per mezzo
d' intermediari; 3) l'aver ritenuta efficace
la praecantatio. Ora la prima
dottrina è stata, come
vedremo, semplicemente fraintesa
da lui; la
seconda è esagerata, poiché
così come l'Abanese
la intende, non
suonava affatto eretica ai
tempi di lui;
quanto alla terza,
egli non si è
accorto come la
praecantatio e le
altre pratiche affini
avessero perduto in Pietro
d'Abano quel loro
carattere originario deri- vante dalla magia
nera che le
rendeva singolarmente sospette. Se
lo Champier avesse
esaminato il Conciliaior
coll'animo scevro dai pregiudizi
di una scuola
teologica che aveva
già perduto per sempre
il senso della
libertà nel campo
scientifico, quel senso di
libertà che si
era così poderosamente
affermato nel secolo XIII
; se egli,
dico, avesse studiato
l'opera del medico- filosofo con
quel senso di
tolleranza che rivela
il teologo autore ■dello
SpectUum, e non
colla grettezza sospettosa
degl' inquisi- tori parigini e
padovani, avrebbe potuto
forse risparmiarsi quasi tutte
le sue censure
e castigationes. Notevole, per
altro, che nemmeno
lo Champier, che
con tanto zelo si
dette la pena
di spulciare l'opera
ritenuta peri- colosa, abbia formulato
le accuse ben
altrimenti gravi che, con
altro scopo, ha
sollevato contro Pietro
d'Abano il suo moderno
biografo. Sante Ferrari. III.
— Eresie di
P, d'Abano, secondo
il Ferrari: Dio E
il mondo, Scienza
e Fede. 1. L'averroismo
di P. d'A.
secondo il Ferrari.
— 2. Dottrina
della crea- zione; lo schema
neo-platonico; il concetto
di creazione mediata.
— 3. Eternità della
materia ? —
4. Il problema
circa l'eternità del mondo.
— 5. La
pretesa tendenza al
panteismo. — 6.
Il miracolo. — 7.
La doppia verità. I.
- L'ultimo processo
alle dottrine filosofiche
di Pietro d'Abano è
quello intentato ad
esse nella voluminosa
e farragi- nosa biografia scritta
intorno al nostro
filosofo da Sante
Fer- rari. Anzi che colla
serena comprensione dello
storico, si di- rebbe che
questo autore si
sia accinto allo
studio del pensiero dell' Abanese colla
stessa parziahtà dello
Champier e, quasi LE
DOTTRINE FILOSOFICHE DI
PIETRO D ABANO
39 direi, colla stessa
mentalità degl' inquisitori
parigini e pado- vani: coll'aggravante di
una minore disposizione
a intenderlo, derivante dalla
scarsa conoscenza, che ha il
Ferrari, di una filosofia
così complessa e
ricca di motivi
come quella medie- vale K La scarsa
conoscenza del pensiero
medievale, che verremo documentando, si
rivela subito, fin
dal primo tentativo
col quale il Ferrari
vorrebbe caratterizzare la
dottrina filosofica di P.
d'Abano, ora asserendo
che questi inclina
e simpatizza per l'avverroismo
^, ora sforzandosi
d' inquadrarne il pensiero nel
movimento d' idee noto
sotto il nome
di « averroismo
la- tino » 3. All'averroismo più
o meno latino
avrebbe inclinato il
maestro padovano: i) per
la negazione della
creazione dal punto
di vista filosofico, per
avere ammessa la
materia eterna, la ne-
cessità d' intermediari tra la
causa prima e
i fenomeni del mondo
infralunare, e l'eternità
del mondo; 2)
per una non
ben precisata tendenza al
panteismo e per
un certo naturalismo che lo
porta a negare
la possibilità dei
miracoli; 3) per
aver professata la dottrina
della doppia verità;
4) e finalmente
per la dottrina dell'
intelletto separato. In questo
paragrafo discuteremo il
giudizio del Ferrari
sui primi tre punti
; al quarto
punto riserveremo il
paragrafo che segue, giacché
ne vale la
pena. 2. - Alla
fine del paragrafo
precedente, abbiamo visto che
lo Champier segnala
come errore, et
horrendus, l'af- fermazione
di Pietro d'Abano,
che la dottrina
della creazione, pur essendo
vera dal punto
di vista teologico,
è da rigettarsi da
quello filosofico. L'
interpretazione sbagliata che
lo Cham- pier colla sua
censura dava di un passo
male inteso, diventa ^
Un esempio caratteristico dell'
incapacità a comprendere
e a giu- stificare, nel loro
genuino significato storico,
le idee del
passato, è il capitolo
che il Ferrari
dedica a P.
d'A. astrologo. Egli
riassume pur- chessia le dottrine
astrologiche del Nostro,
ma non le
spiega; anzi, ad un
certo punto non
sa far di
meglio che uscire
in questa goffa
escla- mazione : « Piaccia
al nostro lettore
che non ci
smarriamo in tali
labi- rinti del pensiero umano
che mettono avvilimento
e pietà» (P.
d'A., V- 375) ! 2
Pietro d'Abano, p.
348 e sgg. 3
Per la Biografia,
etc, p. 92-98.
L'accusa d'averroismo, per
altro, risale, sebbene non
precisata come presso
il Ferrari, per
lo meno al Renan
e al Tiraboschi. 40 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI addirittura una mostruosità
storica sotto la
scorrevole penna del Ferrari. Udiamo, infatti,
qual concetto questi
si sia fatto
della rela- zione tra la
divinità e il
mondo secondo la
mente di Pietro: «
Le azioni del
mondo superiore sulla
terra e su
noi vengono infine da
Dio; salvoché le une producendosi
per una serie
di mezzi, sono coordinate
a questi e
ne hanno la
misura, la co- stanza, la prevedibilità, oltre
che sono relativamente
ad essi inevitabili; onde
le possiamo in
certo modo ridurre
alle qua- lità degli elementi,
anche se non
vediamo precisamente il come;
le altre si
esercitano senza movimenti,
absque medii alteratione, o
da Dio stesso
o dalle stelle
imprimenti una spe- ciale virtù, com'
è nel caso
del magnete, la
cui virtù attrattiva è
collegata, lo attesta
l'esperienza, col polo
artico. L'opera divina è
del resto palese
nell'ordine universale e
nella finalità che governa
il cosmo. I
platonici (non si
dice Platone) 4
ripo- sero le cause universali
in divinità secondarie,
specie di mini- stri alla prima,
che danno le
forme alle cose,
onde Averroè disse che
Platone in un
modo alquanto oscuro
aveva asserito che il
creatore fé' gli
angeli e ordinò
poi loro di
creare le altre cose
mortali, il che
veramente non si
dee prendere alla
lettera. Aristotile le forme
delle cose terrestri
volle, secondo che
pa- reva anche a Temistio,
fossero generate dal
sole e dal
suo giro. Alcuni ammisero
che le forme
fossero nella nostra
terra la- tenti, quali Anassagora,
Empedocle, Democrito. Altri
parla- rono di creazione. I
primi traggono le
cose dal caos,
i secondi vogliono invece
che Dio le
produca dal nulla.
E quest'ultima opinione induxit
loquentes trium legum,
quae hodie sunt,
dicere aliquid fieri ex
nihilo.... adeo quod
diciint quod homo
cum moveat lapidem expellendo,
non est movens,sed
agens illud creai
motum.... Di
tali sentenze possiamo
leggere in Giovanni
Filopono.... Ma tra le
due opinioni opposte
e' è luogo
per due intermedie, anzi per
tre, che convengono
nell'ammettere due tesi:
la ge- nerazione essere un
tramutarsi delle sostanze,
e niente pro- dursi dal niente.
Convengon in ciò,
ma si discostano
poi nel 4 L'osservazione è
meravigliosa ! Neanche
a farlo a
posta, Pietro cita subito
il Timeo, nominando
espressamente Platone: «
Quare, 12. Metaph. [comm.
44], Commentor: '
Plato suis obscuris
verbis dixit quod creator
creavit angelos manu....'».
Cfr.
sopra, p. 13.
Del resta alla diff.
71 si legge:
«Plato namque posuit
substantias separatas,_ quas ideas
appellavit ». LE DOTTRINE
FILOSOFICHE DI PIETRO
D ABANO 4I modo
di pensare l'agente.
L'una pone che
l'agente crei la
forma e la dia
alla materia, sia
poi esso congiunto
o no con
materia: opinione di Temistio
e lino a
un certo punto
di Alf arabi. La seconda
nega che l'agente
sia affatto legato
alla materia e lo
chiama dator delle
forme, come pensarono
Algazel ed Averroè 5.
La terza è
quella di Aristotele,
che l'Afrodisio giu- dicò non
ambigua, e alla
quale non si
può non assentire; l'agente non
fa se non
il composto di
materia e forma,
mo- vendo la materia finché
ne esca in
atto la forma
che vi giace in
potenza.... La sentenza
aristotelica in qualche
cosa somi- glia a quella
dei creazionisti e in qualche
cosa ne differisce.... ma è
la sola vera,
perché sol essa
non porta a
conseguenze im- possibili,
come vi
portano le opinioni
di Platone e
di Anas- sagora, che furono
da Aristotele combattute
vittoriosamente. Coloro che invocano
la creazione, etsi
verissimi lege sint,
in philosophia tamen non
sunt admittendi » ^. Dopo questa
che vorrebbe essere
una parafrasi, invero molto
libera, di un
importantissimo passo del
Conciliator, il Ferrari scrive
ancora: «L'essenza della
materia rende inevi- tabile l'uso di
qualche mezzo o
strumento, per certe
produ- zioni, a Dio stesso.
In altre parole
Dio produce e
governa i cieli, gli
angeli, le anime,
ma nulla poi
potrebbe fare nei
regni inferiori delle cose
corporee senza il
loro mezzo, per
la troppa distanza tra
i due termini.
Gli è così
che per una serie di me-
diazioni, e con armonia
meravigliosa discende alle
infime cose terrestri l'azione
divina, passandosi per
gradi dalle cose incorruttibili, anzi
dall'imo semplice ed
immobile agli esseri composti, variabili
corruttibili » i. Parrebbe,
dunque, a sentire
il Ferrari, i)
che Dio, sorgente prima di
tutte le azioni
del mondo celeste
su quello terrestre, avesse di
fronte a sé
un principio eterno
di passività che
sa- rebbe poi la materia;
2) che questa
materia fosse eterna
al pari di Dio
e non prodotta
^ ; 3)
che l'azione divina
sul mondo '^ Leggasi
Avicenna, e non
Averroè, il quale
ha sempre combattuta la
teoria del «
dator formarum ».
Le edizioni hanno
solo un' A.,
che ovunque è abbreviazione
d'Avicenna. Il Ferrari
un'altra volta legge Aristotele, arruffando
tutto il senso
di un passo
importantissimo della diff. 57.
Cfr. P. d'A.,
p. 347. V.
anche sopra, p.
11. 6 P. d'A.,
pp. 249-251. Il
luogo del Conciliator
qui parafrasato è stato
riportato per esteso
sopra, p. 16. 7
Ib., p. 251. 8
P. d'A., p.
351. 42 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI corruttibile non
potesse in nessun
modo esercitarsi se non
attraverso una serie
di mezzi, che
sono i cieli,
gli angeli e le anime. Se
gì' inquisitori parigini
e padovani, che
se n' inten- devano, avessero lette
queste cose negli
scritti del maestro d'Abano, non
avrebbero aspettato ad
arrostire un cadavere, né
r imputato sarebbe
sfuggito loro dalle
mani. Il fatto,
in- vece, è che il
pensiero genuino di
lui è ben
diverso dall'esposi- zione
che ne
fa il Ferrari.
Vediamo dunque di
chiarirlo. Secondo lo schema
neo-platonico di Alfarabi
e di Avicenna
9, riassunto anche dall' Abanese, dalla
prima causa, che
è mo- tore immobile e
quindi « idem
et stabilis permanet
», non può derivare
ciò che è
molteplice e mutevole
; ma «
solum unum immediate »,
cioè la prima
intelligenza col primo
cielo. Da questa è
prodotta la seconda
intelligenza col secondo
cielo; e così di
seguito, di grado
in grado, secondo
un ordine di
ema- nazione discendente,
fino all' intelligenza
lunare, la quale produce
la così detta
« intelligenza agente
», « gubernantem quae sunt
in activorum et
passivorum spaerà simplicium
et compositorum», cioè tutte
le forme del
mondo infrahmare ^°. Pietro
d'Abano accetta in
parte questo schema,
ma v' intro- duce profonde modificazioni. Egli pone,
tra la causa
prima e la
materia, una serie
d' in- termediari che gli servono
a spiegare, come
a Dante ",
la con- tingenza nel mondo
inferiore; ma in
nessun luogo afferma
che la materia sia
eterna, come vorrebbe
farci credere il
Ferrari, per il quale
eterna vuol poi
dire non creata.
E sebbene dica, «
secundum Aristotelem et
Commentatorem, quod Deus
nihil potest in haec
[interiora] operari absque
medio «i^, è
evidente che egli intende
parlare, non di
una necessità di
natura e 9 Pietro
d'Abano come gli
scolastici del suo
tempo mette con
Avi- cenna anche Algazele. In
realtà questi scrisse
un'esposizione delle dottrine di
Alfarabi e di
Avicenna, alla quale
teneva dietro la
sua confutazione fatta dal
punto di vista
della teologia mussulmana
ortodossa. Fino ai tempi
del Nostro solo
la prima parte
era tradotta in
latino; la Destructio philosophorum si
conobbe assai più
tardi. Di qui
l'abbaglio. Cfr. M.
Asin Palacios, Algazel, Zaragoza,
igoi, pp. 141-143.
Il Duhem tuttavia crede che
quando Algazele scrisse
la prima parte
dell'opera, egli accet- tasse quelle dottrine
neo-platoniche che rifiutò
poi nella Destructio (Duhem, Le
système du monde
etc, Paris, 1914,
t. IV). 10 Conciliator,
diff. loi. Cfr.
sopra, pp. i4-iS- 11
Farad., XIII, 61-78;
XVII, 37-38; VII,
67-69. Cfr. il mio
saggio Dante e P.
d'A. (nei Saggi
di filos. dant.,
pp. 50-55). 12 Conciliator,
diff. 113, pr.
IV. LA DOTTRINE FILOSOFICHE DI
PIETRO D'aBANO 43 assoluta,
ma di una
necessità conseguente a
quella a perfecta ratio ))
che è poi
la stessa sapienza
divina, la quale
ha volon- tariamente
stabilito l'ordine mondano;
ordine che è
sospeso alla volontà divina
la quale è
immutabile. Ma se
la causa prima ha
fissato l'ordine cosmico,
nel quale gli
eventi del mondo infralunare
dipendono dal moto e dalle
^'a^iazioni che accadono nei
corpi celesti, intermediari
tra i due
estremi dell'atto puro e
della pura potenza
—, non ne
segue logica- mente che non
possa, in quanto
è superiore a
quest'ordine da sé stabilito,
derogarvi. Anzi troviamo
esplicitamente as- serito il contrario:
« Potest.... primus
sua mera benignitate, cum sit
agens supernaturale, per
voluntatem, absque motu et
transmutatione in haec
in inferiora operari,
quicquid dicat peripateticus))i3. Ora
se Pietro può
pensare ad un
intervento diretto, anche se
fuori dell'ordine naturale,
della causa prima sul
mondo della generazione
e corruzione, vuol
dire che la necessità
degl' intermediari, affermata
da lui sulla
scorta di Aristotele e
del Commentatore, non è la
necessità assoluta dei platonici
arabi, per i
quali è sempHcemente
impossibile, cioè AL secolo
XIV AL XVI anche
ancilla e jamula
della teologia, la
filosofia è riconosciuta indipendente da
quella e autonoma
entro la propria
cerchia di ricerche naturali.
Così, non ostante
tutti i tentativi
più o^ meno ingegnosi
per unificarle, quella
filosofia e quella
teologia non rimanevano meno
distinte, se non
opposte, per i loro
metodi propri di
ricerca e per
il loro spirito. In
questa distinzione, accettata
da tutti i
teologi medievali del tempo
di Pietro d'Abano,
era il germe
latente dell'eresia di cui
a torto si
vorrebbero render responsabili
solo i veri o
pretesi averroisti. Una
volta proclamata la
legittimità della ricerca razionale
e filosofica, per
mezzo di metodi
propri e di- versi da
quelli teologici, quale
autorità teologica in
terra avrebbe potuto più
mettere un freno
a coloro che,
intrapreso il cammino della
ricerca scientifica, intendevano
percorrerlo fino in fondo
? ^. E
infatti, si era
appena riconosciuta quella
distin- zione, che fu subito
avvertito il contrasto
tra filosofia e teo-
logia, contrasto che venne
sentito più o
meno da tutti
i pensa- tori scolastici, da
Sigieri di Brabante
come da Tommaso d'Aquino, da
Pietro d'Abano come
da Duns e
da Dante Ali- ghieri; e tutti
cercarono di risolverlo
con particolari e
diversi atteggiamenti
spirituali. Il contrasto, da
prima latente, doveva
portare, e portò,
al con- flitto fra i
rappresentanti delle due
principali facoltà degl'istitu- ti universitari, quella
delle arti e
medicina e quella
di teologia. Nella facoltà
delle arti si
leggevano e si
commentavano i libri d'Aristotele e
le trattazioni di
Avicenna, d'Averroè, di
Galeno, di Tolomeo e
di numerosi altri
autori greci ed
arabi. E vi ri-
fiorirono così, e si
accrebbero, l'antica astrologia,
la matema- tica, la medicina,
l'alchimia e la
magia, tutte insomma
le scienze create o
sviluppate dal genio
greco ed arabico.
Che queste scienze fossero
infestate da inveterati
pregiudizi meta- fisici, non toglie
che il loro
sviluppo abbia concorso
in larga misura allo
sviluppo del sapere
scientifico e al
progresso dello spirito umano.
Per mezzo di
esse si inaugurò
nell'occidente cristiano il metodo
della ricerca filosofica,
s' iniziò la libera indagine delle
cause naturali dei
fenomeni del mondo
ter- 8 E di
porre un freno
si tentò più
volte, ordinando, come
a Parigi nel 1272,
agli scolari della
facoltà delle arti
di astenersi dal
determinare cantra fidem quando
avessero da discutere
di un problema
che /idem videatur attingere
simulque philosophiam. Cfr.
Carthularium University Parisiensis, I,
499. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI
PIETRO D ABANO
73 restre. Al pregiudizio
teologico si sostituì,
è vero, quello
astro- logico. Ma l'errore di
aver riposto le
cause dei fenomeni
na- turali in influenze astrologiche,
non è poi
così grave e
imperdo- nabile, se esso significava
anzitutto libera ricerca
di cause naturali, affermazione
di leggi ed
esclusione dell'arbitrario dal mondo
dell'esperienza. E intanto
quell'astrologia, quell'al- chimia,
la vecchia medicina
e la stessa
magìa venivano racco- gliendo da ogni
parte ed accumulando
preziose osservazioni ed esperienze,
che, nella Rinascenza,
dovevano portare al
supe- ramento dei vecchi pregiudizi
e concetti metafisici,
e contri- buire direttamente al
rinnovamento della scienza. Al
quale non si
sarebbe mai giunti,
senza l' inaugurazione di quel
metodo razionale, la cui legittimità
era stata procla- mata all'unanimità dagli
stessi teologi scolastici,
non solo in teoria
ma anche in
pratica. Vediamo infatti
Tommaso d'Aquino esporre con
intera libertà e
senza prevenzioni le
dottrine di Aristotele, fino
a dichiarare, contro
il parere dei
vecchi teologi, che l'eternità
del mondo non
implica contradizione e
che la tesi della
creazione nel tempo
non può dimostrarsi
colla sola ragione. E
Alberto di Colonia
insieme al pensiero
aristotelico esponeva quello degh
altri peripatetici, greci
ed arabi, pur notando
che non di
rado esso cozzasse
coi dommi cristiani. Ora all'esempio
di Alberto si
richiamavano espressamente o tacitamente
Pietro d'Abano e
Sigieri di Brabante,
quando dichiaravano di trattare
«de naturalibus naturaliter
», senza farla da
teologi 9. De naturalibus
naturaliter: ecco il
programma di quegli ambienti laici,
che erano le
facoltà delle arti;
laici, s' intende, solo per
i metodi dell'
indagine scientifica e
filosofica in con- trapposizione con quelli
della teologia. Di
questi ambienti laici Pietro
d'Abano incarna perfettamente
lo spirito. In
questo spirito è la
sua vera, la
sua unica eresia;
un'eresia inconsa- pevole
che s'era già
insinuata nella coscienza
di tutti coloro che
avevan fatto buon
viso al rinascente
pensiero aristotelico, e che
era penetrata fino
nelle scuole di
teologia io. Senza
pre- stargli dottrine
eterodosse che negli
scritti a noi
noti egli ha 9
Cfr. il mio
studio La posizione
d'Alberto Magno di
fronte all'aver- roismo,
cit., pp. 197
sgg. 10 La filosofia,
infatti, questa povera
ancella della teologia,
aveva il compito di
stabilire i praeambida
/idei e dichiarare
il contenuto delle formule dommatiche.
Le opere teologiche
della Scolastica, compresa 74
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI espressamente riprovate,
senza attribuirgli quel
continuo sdoppiamento di coscienza
che piace a
chi, per il
gusto di farne un
eretico, ne farebbe
volentieri un ipocrita,
pronto ad af- fermare il contrario
di quello che in cuor
suo pensa, per
sal- vare la pelle dal
rogo; — le
sue audacie dottrinali,
dal punto di vista
della teologia imperante,
sono evidenti: maggiore di
tutte quelle intorno
ai miracoli e
ai fatti meravigliosi. Pietro d'Abano
è lo scienziato
forse più caratteristico di quel
periodo di cui
Tommaso d'Aquino fu
il maggior teologo, e
Dante Alighieri, il
sommo poeta. Per
la vasta erudizione, pur senza
essere un rinnovatore
e un precursore,
rappresenta la scienza della
fine del secolo
XIII e del
principio del XIV, in
tutti i suoi
molteplici aspetti, in
ogni sua tendenza.
L' idea centrale della scienza
di lui è
un' idea astrologica.
E i creatori della leggenda
popolare di un
Pietro mago, sebbene
non co- gliessero i
veri caratteri della
sua magìa (magìa
bianca, ben differente dalla
necromanzia), ci hanno
tramandato un' im- magine dell'uomo, che
forse è meno
difforme di quel
che non si creda,
dalla sua storica
personalità. la grande Summa
dell' Aquinate, son impregnate
di razionalismo; ra- zionalismo che si
afferma nettamente in
Raimondo Lullo. L'ancella cominciò ben
presto a farla
da padrona ! Ili PAOLO
VENETO E L'AVERROISMO PADOVANO
* Se Pietro d'Abano
non fu un
avverroista nel senso
vero e proprio della
parola, avveroista fu
invece l'eremitano Paolo Nicoletti da
Udine, detto comunemente
Paolo Veneto, il
quale professò a Padova
un tipo d'avveroismo
guardingo, che forse «gli
vi portò da
Oxford e da
Parigi, se pure
non v'era già arrivato
da Bologna, e
che risente della
lettura dell'opera di Sigieri
di Brabante, De
intellectu ad jratrem
Thomam ', op- pure degli scritti
di Tommaso di
Wilton impugnati a
Bologna, ottantacinque anni prima,
dal francescano Guglielmo
di Alnwick -. Paolo \'eneto
era andato a
studiare a Oxford,
insieme a un suo
fratello germano, maggiore
di lui, fra
Paolo Fran- -cesco, anch'egli
eremitano, alla fine
d'estate 1390, e
v'era * Dal voi.
Sigieri di Brabante
nel pensiero del
Rinascimento italiano. Roma, Edizioni
Italiane, 1945, pp.
115-132, salvo una
modificazione fino al quinto
capoverso. ' Cfr. Sigieri
di Brab. ecc.,
pp. 18-23. Che
l'averroismo padovano abbia origini
bolognesi è ipotesi
verosimile; ma non
si può escludere un'origine oltremontana.
Che poi Averroè
fosse tenuto in
gran conto a Padova
assai prima di
P. Veneto, è
provato dagli affreschi
di Giusto de' Menabuoi
nella cappella Cortelieri
nella chiesa degli
Eremitani, anteriori al 1370,
e dei quali
ci resta la
descrizione di Hermann
Schedel di Norimberga che
era studente a
Padova dal 1463
in poi. Giunto aveva
raffigurato Averroè insieme
agli eremitani maestro
Alberto da Padova e
al beato Giovanni
da Bologna. Cfr.
J. v. Schlosser,
Giusto's Fresken in Padua
n. die Vorlàufern
der Stanza della
Segnatura, in « Jahrbuch
der Kunsthistor. Sammel.
des allerhòch. Kaiserhauses
», Wien, 1896, XVII,
pp. 17, 45,
47, 94; S. Bettini,
Giusto S. M.
e l'arte del Trecento.
Padova, 1944, P-
n?- Paolo doveva
ben conoscere quegli affreschi. 2 A.
Maier, Wilhelm v.
Alnwicks bologneser Quaestionen
gegen Aver- roismus [1323),
in « Gregorianum
», XXX, 1940,
pp. 265-308. 76 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI rimasto almeno
un triennio 3. Il soggiorno
di Paolo in In-
ghilterra non era rimasto
ignoto ad Antonio
Cittadini da Faenza, che
a Ferrara, nel
1476, dettò un
commento polemico dei Logica
minora dell'eremitano, in
principio del quale
si legge: Ferunt autem quidam
non auctoritate indigni,
hunc libellum in Britannia,
ubi olim et
dialecticae et philosophiae
studia flo- ruerunt, in
antiquissimis litteris compertum
esse, ut ex
illis con- staret, prius
opusculum hoc extructum
fuisse quam Paulus
Ve- netus natus esset.
Quod eo magis
a non nulhs
creditur, quod certuni est
Paulum apud Britanos
visendorum gymnasiorum gratia aliquando
commoratum esse, ac
postea in Italiani
rever- tentem multos libros
secum detulisse, quorum
auctores Italis penitus erant
incogniti 4. Più tardi
soggiornò anche « in tlorentissima
universitate Parisina », ove
fra Paolo espose
gli Antepraedicamenta di Aristotele
5. Nel 1408, egli
era lettore nella
facoltà delle Arti
a Padova, e quivi
compose quella Summa
naturalium nella quale
è esposta la dottrina
del libri fisici
e della Metafisica
d'Aristotele, con sobrie discussioni
dei problemi agitati
nelle scuole ^. Notevole
in questa Summa
il trattato, diviso
in 42 capitoli, concernente il
De anima, perché
in esso ritroviamo
le tesi fon- damentali del De
intellectu di Sigieri.
Ma di questo
scritto aristotelico Paolo Veneto
ci ha lasciato
un'assai più ampia esposizione che
non saprei dire
in quale anno
redatta, ma forse non
di molto posteriore
alla Summa naturalium
7. 3 Reg. Re. mi
Barth. Veneti, nell'Archivio
della Curia generalizia degli Eremitani
in Roma Dd. 3, f.
132 v. Cfr.
il mio studio
sulla Lette- ratura e cultura
veneziana del Quattrocento,
nel voi. «
La civiltà Vene- ziana del Quattrocento
». Firenze, Sansoni,
1957, PP- ^^^
^ i35"36- 4 Cod.
Urb. lat. 1381,
f. 2 r. 5
Ghiotta notizia, segnalatami
dal prof. Giulio
F. Pagallo, in una
annotazione al Cod.
452 della Bodleniana
di Oxford (cfr.
Catal. di H.O. CoxE,
P. Ili, Oxford,
1854, p. 775). 6
La data di
composizione della Summa
naturalium è fissata
al 1408 dal codice
marciano che ne
contiene solo tre
parti. Cfr. G.
Valentinelli, Bibliotheca
manuscripta ad S.
Marci Veneiiarum, t.
IV, Venezia, 1872, p.
24, Lat., Classe
XII, cod. 23. 7
Come non molto
posteriore è 1'
Expositio super odo
libros Physi- eorum Aristotelis
necnon super comento
Averois cum dubiis
eiusdem, la quale porta
la data del
30 giugno 1409. Cfr. P.
Duhem, Le niouvement absolu et
le mouvement relatif.
Extrait
de la «
Revue de philosophie
». Montligeon (Orne), 1907,
p. 143. Le
stesse variazioni che
il Duhem ri- PAOLO
VENETO E L
AVERROISMO PADOVANO 77 Anche
in questa seconda
opera l' influsso esercitato
sull'ere- mitano dal
trattato dell'averroista belga
contro San Tommaso, è
decisivo, come possiamo
convincerci dalla lettura
dei se- guenti brani che
per comodità del
lettore riferiamo. Nell'esposizione del
testo 23 del II libro
De anima, frate Paolo
Nicoletti si pone,
« ad maiorem
dictorum evidentiam », alcuni
« dubia »,
il secondo dei
quali verte sul problema
« Utrum in eodem
animali plures possint
esse anime totales
», che egli risolve
nel modo che
segue, non senza
aver prima confutate altre soluzioni
^ : Circa liane
materiam, siint plures
modi dicendi. Primus
modus est, quod piante
non habent nisi
unam animam totalem,
scilicet vegetativam; bruta duas,
scilicet vegetativam et
sensitivain; homines vero tres,
videlicet vegetativam, sensitivam
et intel- lectivam; non
tamen simul generantur,
sed successive per
tempus, ita quod primo
generatur vegetativa, deinde
sensitiva, tertio leva tra
quest'opera e la
Summa naturalium, si
posson notare anche
fra quest'ultimo scritto e
il commento Super
libros Aristotelis de
anima, che senza dubbio
rivela una maggiore
complessità e maturità
di pen- siero. Nel commento
al t.c. 11 del III
libro, a proposito
del quesito se gli
universali « sint
in rerum natura
», l'autore dichiara
d'averne trat- tato quanto basta
« in alio
opere et in
prologo physicorum ».
È pro- babile che, dopo
l'esposizione sommaria delle
dottrine fìsiche e
meta- fìsiche dello
Stagirita, il Nicoletti
si sia accinto
a commentare le
singole opere aristoteliche alle
quali si riferiva
la Summa, cominciando,
come sappiamo, dagli otto
libri della Fisica
e proseguendo poi
col De caelo, col
De generatione et
coruptione, coi libri
Meteorologici, col De
anima e colla Metafisica.
Una vera biografìa
filosofica di Paolo
Veneto non è concepibile
senza aver tolto
in esame tutte
queste opere che
da parte del Momigliano
sono state piuttosto
ricordate che vedute
e lette. Tornato a
Padova nel 1428,
dopo le peripezie
che lo avevano
costretto a lasciare questa città
nel 1420 o
forse qualche anno
prima o dopo,
l'eremitano s'accinse a commentare
di nuovo il
De anima, come
ci attesta fra
Matteo da Ripalta, piacentino,
allora studente nello
studio padovano. Questi si
procurò nel corso
del 1429 una
copia dell'esposizione completa
del- l'opera aristotelica,
poiché il maestro
che con tanto
grido era tornato a
leggerla non andò
oltre il capitolo
« de gustabili
» (libro II,
t. e. 101-104, cap.
IO del testo
greco, 422» 8-422Ò
15), essendo stato
colto dalla morte all'alba del
15 giugno dello
stesso anno. Valentinelli,
t. IV, p. 57.
8 Pauli
Veneti, In libros
de anima explanatio
cimi textu incluso singulis locis,
maxima qiiidem diligentia
a vitijs mendis
atque erroribus quibus hacteniis
ex ignavia impressorum
scatebat purgata ac
pristine in- tegritati restituta
etc. E nel
colophon : Scriptum super
librimi de anima. . . . ex proprio
originali diligenter emendatum
per clarissimum. artium ac medicine doctorem.
D. magistrum
Hieronymum Surianum, filium
pre- stantissimi quondam
artium ac medicine
doctoris, Domini magistri
lacobi. de Surianis de
Arimino.... Venezia, Eredi
di Ottaviano Scoto,
i nov. 1504, libro
II comm. al t. e.
23, fol. 46,
col. 4-47, col.
2. 78 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI post completarti
organizationem membrorum generatur
intel- lectiva 9 Hic
modus dicendi est
superfluiis.... Secundus
modus dicendi est,
quod in quolibet
vivente est solum una
anima totalis; et
quod est ordo
in productione anima- rum,
quia fetus primo
vivit vita piante,
deinde vita animalis; tamen tales
anime simul non
manent in eodem,
sicut nec due figure,
sed in adventu
secunde corrumpitur prima,
et in adventu tertie corrumpitur
secunda 1°. Iste
modus est impossibilis,
quia tunc aliqua forma
per se ageret
ad corruptionem sui
ipsius..., Tertius modus dicendi
est, quod in
nullo nisi in
homine sunt plures forme
substantiales seu anime
totales, scilicet sensitiva
et intellectiva, quarum prima
educitur de potentia
materie per agens naturale,
secunda autem creatur
a deo, non
obstante quod ita bene
inhereat sicut prima,
adducendo illud philosophi,
16 de animalibus: «
intellectus venit deforis»". —
Sed hec opinio
in- cludit contradictionem, quia
si anima intellectiva
inheret materie, ergo educitur
de potentia materie
et generatur ad
generationera corporis
animati et corrumpitur
ad corruptionem eiusdem.
Item hec opinio non
est naturalis, quia
ponit intellectum creari;
et Aristoteles una cum
commentatore ponit ipsum
perpetuum et eternum. Deinde,
si anima intellectiva
inheret materie, ergo
in- tellectio et volitio
sunt subiective in
materia; quod est
centra philosophum et commentatorem
ponentes potentias rationales esse abstractas
a corpore, et
consequenter actus illarum. Quartus modus,
quem solum puto
rationalem, est iste,
quod pianta habet solum
unam animam totalem,
scilicet vegetativam, compositam ex
partibus diversarum rationum;
et consequenter animai imperfectum
simpliciter, quod non
habet aliquem sensum exteriorem nisi
sensum tactus, nec
aliquem motuin ad
locum, sed solum motum
dilatationis et constrictionis, habet
etiam solum unam animam,
scilicet sensitivam, que
propter sui imper- fectionem supplet
vices anime vegetative,
ita quod in
ostrea vel spongia marina
eadem anima est
sensitiva et vegetativa.
Animai autem perfectum habet
duplicem animam, scilicet
partialem vegetativam, in carne
vel osse vel
in aliquo proportionali, et 9
Questa teoria è
la seconda delle
opinioni da me
elencate in Giorn. Crii,
della Filos. Ital.,
XII, 1931, pp.
437-438, ed è
ricordata da Dante, Purg.,
IV, 1-6, come
« quello error
che crede ch'un 'anima
sovr 'altra in noi s'accenda
». 10 Questa dottrina,
già accolta dal
francescano fra Giovanni
della RocheUe, fu difesa,
com' è noto,
da S. Tommaso.
Cfr. lo stesso
Giorn. Crii., pp. 441-442,
sesta opinione. 11 Questo
«tertius modus», che è una
teoria intermedia fra
quella tomistica e quella
schiettamente averroistica, non
è altro che
la nona delle opinioni
da me elencate,
professata da Alberto
Magno, da Gio- vanni Peckam e
da Dante. Cfr.
Giorn. Crii., pp.
445-456; ib., XIII, 1932,
pp- 45-56 e
81-102; come pure
il mio voi.
Dante e la
cultura me- dievale, Bari, Laterza,
1949, pp. 271
sgg. Questa è
anche la tesi
di En- rico Bate; cfr.
Sigieri, nel pens.,
p. 177. PAOLO VENETO
E L AVERROISMO
PADOVANO 79^ nnam sensitivam
totaleni, ut equus
vel asinus. Homo autem, preter partiales
animas, habet duas
totales: cogitativam sensi- tivam, generabilem et
corruptibilem, inherentem et
informantem, et
intellectivam perpetuam et
eternam, informantem et non
inherentem '-. Da
siffatta teoria risultano
alcune conseguenze a
mò di corollari : ....
Tertio sequitur quod
homo non est
homo precise per
ani- mam cogitativam, nec
precise per animam
intellectivam, sed per ambas
simili.... Cogitativa enim
denominat hominem esse animai,
et intellectiva denominat
hominem esse rationalem; sed homo
est diffinitive et
convertibiliter animai rationale;
ergo ambe anime concurrimt
ad constitutionem hominis.
Quo dato, opor- tet
concedere quod, sicut
genus est prius
differentia et potentiale ad
illam, sicut universaliter
minus perfectum ad
maius perfectum, ita cogitativa
est prior intellectiva
in homine et
potentialis ad '2 Nella
Summa philosophie natura! is
o naturalium (Venezia.
Eredi di Ottaviano Scoto,
« Anno a
salutifera incarnatione tertio
et quingen- tesimo supra
millesimum. Idibus Martijs
»), V parte.
De anima, cap.
V, fol. 68, col. 4: «
Tertia conclusio: Necesse
est in homine
esse plures animas totales.
Probatur: nam sol et homo
generant hominem, 2°
physi- corum (t. e.
26); ergo homo
generatur; sed terminus
generationis est forma accipiens
novum esse, ut
colligitur ex sententia
philosophi, 5° phi- sicorum
(t. e. 7); ergo
aliqua forma hominis
generatur; sed non
intel- lectiva, 3° de anima
(t. e. 5);
ergo sensitiva generatur.
— Item, philo- sophus, primo
celi (t. e.
102) : «
omme genitum aliquando
corrumpetur »; ergo homo
aliquando corrumpetur; sed
non intellectiva, 3°
de anima (t. e.
19); ergo sensitiva.
Et ita necesse
est ponere in
homine duas ani- mas:
unam intellectivam, ingenerabilem
et incorruptibilem, secundum philosophum, et
aliam sensitivam, generabilem
et corruptibilem, quam Commentator vocat,
3° de anima
(t. e. 5),
cognitivam (sic, leggi
cogi- tativam). — Quarta conclusio:
Impossibile est in
aliquo vivente non intellectivo esse
plures animas totales.
Patet, quoniam si
in plantis vel in
brutis ponerentur plures
anime totales, unanecessario
super- flueret, quoniam illa
que est maioris
perfectionis totum actuaret,
sicut illa que est
minoris perfectionis, et
omnes operationes eius
exerceret, ex quo in
ea fundantur omnes
potentie inferioris anime.
Dicatur ergo quod in
plantis est solum
una anima totalis,
que est tota
in toto et pars
in parte, et
hec est vegetativa;
in animalibus autem
imperfectis est solum una
anima totalis, et
illa est sensitiva,
supplens vicem anime ,
que etiam extenditur
ad extensionem subiecti;
et in ani- malibus perfectis sunt
plures vegetative [partiales]
et una sensitiva totaUs, multiplicata
ad omnem partem
etherogeneam. Sed in
homi- nibus, preter formas
partiales vegetativas, sunt
due totales, scilicet sensitiva multiplicata
ad partes etherogeneas,
et intellectiva non
mul- tiplicata ad aliquam partem
illius individui, sed
bene ad omnia
indi- vidua speciei humane, eo
quod intellectus est
unus in omnibus
homi- nibus, iuxta intentionem
Aristotelis et determinationem Commenta- toris, 3"
de anima (t. et e.
5) ». 8o l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI illam 13. —
Quarto sequitur quod
idem individuum est
diversarum specierum
essentialium. Patet, quia
homo per animam
cogita- tivam sensitivam est
alicuius speciei generis
animalium, immo supreme speciei,
quia, secluso intellectu,
per cogitativam homo habet
discursum quodammodo rationalem,
ratione reminiscentie reperte in
eo et non
in aho; licet
enim memoria reperiatur
in aliis animalibus, non
tamen reminiscentia ;
neque reminiscentia competit homini
ratione intellectus, sed
ratione cogitative vir- tutis,
quia reminiscentia est
passio anime sensitive,
secundum Aristotelem, in libro
de meìnoria et
reminiscentia H. Item,
quia intellectus humanus est
pura potentia in
genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio
huius, et per
consequens est primus gradus
illius generis ^5,
ideo per intellectum
constituit primam speciem intellectivoruni, sicut
per cogitativam constituit
ultimam speciem generis animalium.
Nec est inconveniens
duos gradus specificos esse
immediatos, quia species
sunt sicut numeri,
8 ine- taphysice (t.
e. io). Et
si concluditur ex
eodem fundamento, quodlibet mixtum
esse diversarum specierum
essentialiter, ra- tione
forme mixti et
forme elementi, negetur
consequentia, quia forma elementi
non se habet
respectu forme mixti
nisi materialiter et potentialiter
per modum dispositionis
prefinientis in ma- teria formam mixti;
ideo non dat
mixto nomen specificum
nec diffinitionem
essentialem. Sed anima
cogitativa non se
habet tanquam dispositio prefiniens
animam intellectivam, cum
eque simul inducantur in
corpore, nec una
potest naturaliter esse
sine alia. Cogitativa tamen
dicitur esse prior
intellectiva et potentialis ad illam
propter suam imperfectionem ^^. Come
è facile vedere,
già in questo
luogo dell'esposizione del libro
secondo del De
anima, la tesi
caratteristica di Sigieri, 13
Anche Sigieri, come
sappiamo, affermava che
la cogitativa è or- dinata
« in
intellectivam », talché
« nec potest
intellectus informare ma- teriam
non informante cogitativa..., nec
potest cogitativa informare materiam non
informante intellectu »;
cfr. Sigieri nel
pens., p. 18. 14
Cap. 2, 453^
14 sgg. «
Quella parte dove
sta memora »
chiama l'anima sensitiva anche
Guido Cavalcanti, nella
canzone « Donna
mi prega», tutta pervasa
di dottrina averroistica ; cfr.
il mio voi.
Dante e la cult,
medievale,'^ pp. 104-105,
137. Gli averroisti
negavano si la me-
moria che la reminiscenza
all'intelletto; cfr. il
mio voi. Nel
mondo di Dante, Roma,
Edizioni di «
Storia e Letteratura
», 1944, pp.
373-374- 15 Altra tipica
tesi di Sigieri
che Paolo Veneto
svilupperà, come ve- dremo
fra breve. 16 Allo
stesso modo anche
nella Summa naturalium,
1. e. fol.
69, col. I :
« Ad secundum
dicitur, quod anima
intellectiva non adv-^enit enti in
actu substantiali, quia
eque primo adveniunt
corpori sensitiva et intellectiva.
Item, dato quod
sensitiva precederet tempore
intel- lectivam, adhuc
advenit enti in
potentia, quia forma
sensitiva hominis dicitur potentialis
ad ulteriorem actum;
non autem anima
intellectiva. Hec ergo est
differentia inter formam
substantialem et accidentalem, quia forma
accidentalis advenit enti
in actu ultimato,
forma autem substantialis advenit
enti in potentia,
licet non in
pura potentia ». PAOLO
VENETO E L
AV^ERROISMO PADOVANO Ol che
r intelletto, pur
essendo in sé
una sostanza separata unica per
tutta la specie
umana, s'unisce ai
singoli con un vincolo
sostanziale, sì da
potersi dire forma,
atto e perfezione dell'uomo, è
accennata in modo
esplicito '7. Ma
1' influsso del brabantino sull'udinese
è ancora più
evidente nell'esposizione del terzo
libro, del pari
che nei capitoU
35-37 della quinta parte
della Summa naturalium. In quest'ultimo
scritto, frate Paolo
tratta anzitutto della passività o
passibilità dell' intelletto
umano, formando queste quattro conclusioni: Quarum prima
est ista: Intellectus
humanus nullam habet de
se in actu
speciem intelligibilem, sed
ad quamlibet talem
est penitus in potentia.... Secunda conclusio:
Intellectus non est
aliqua una natura sed
solum habet possibilitatem recipiendi
omnes formas ma- teriales.... Pertia conclusio:
Intellectus possibilis humanus
ante intellectio- nem nullatenus est
actu.... Quarta conclusio :
Intellectus humanus est
immaterialis et incorporeus et
immixtus.... '8. Tutte e
quattro queste conclusioni
ritornano, con una
leg- gera variazione nel loro
ordine, in principio
dell'esposizione del terzo libro
De anima '9;
ma qui alla
terza conclusione, che corrisponde
alla seconda della
Summa, il maestro
pado- vano ricollega il problema
dell'unità dell' intelletto
che nella Summa è
discusso a parte
nel capitolo 37. 17
Tanto nella Summa
naturalium, 1. e,
f. 68, col.
4, Secunda conclusio, quanto nell'esposizione del
De anima, 1.
e, f. 47,
col. 3, combatte la
tesi sostenuta un
tempo a Oxford
da Roberto Kilwardby
e da Tom- maso di
Wilton, e accolta
anche da Giovanni
di Jandum, che
« in aliquo vivente possit
esse multitudo formarum
iuxta pluralitatem predicato- rum essentialium
«. Della qual
tesi nell'esposizione del
De anima egli dà
questo riassunto :
« Tenentes pluralitatem
formarum in eodem
iuxta multitudinem
predicatorum quiditativorum, dicunt
quod prima forma Sortis
est illa qua
ipse est substantia,
et secunda qua
est corpus, et tertia
qua est corpus
animatum, et quarta
qua est animai,
et quinta qua est
homo, et sexta
qua est Sortes;
et ita de
individuis aliarum spe- cierum;
et imaginantur isti
quod, quantum ad
animam sensitivam, omnia animalia
sunt eiusdem rationis
substantialis, a qua
sumitur hoc genus «
animai »; et
secundum formas ulteriores
specifìcas, sunt homines, equi
et canes diversarum
rationum substantialium; concedentes
omnes tales formas realiter
distingui et fundari
in materia inhesive,
ordine essentiali, secundum quod
taha predicata invicem
essentiahter ordi- nantur. Ista
opinio est impossibilis
». 18 Summa naturai.,
pars V, e.
35, f. 87,
col. 2. 19 In
libros de anima,
III, ad t.
e. 1-5, f.
128, col. 3-130,
col. 3. 82 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Sul modo
di concepire la
passività dell' intelletto
possi- bile e il concorso
dell' intelletto agente
e del fantasma
al- l'atto dell' intendere, l'eremitano
riferisce quattro opinioni,, l'ultima delle
quali è quella
d'Averroè: Quarta opinio est
Averroys intellectui possibili
nihil nisi passi- bilitates assignantis,
fantasmati vero activitatem
tanquam par- ticulari agenti,
et intellectui agenti
tanquam agenti universali; ita quod
ad primas intellectiones et
species intelligibiles concurrit fantasma tanquam
agens particulare, et
intellectus agens tanquam agens
vniiversale; ad omnes
autem conseguentes se
habet intel- lectus agens sicut
causa particularis, fantasma
autem sicut causa sine
qua non, intellectus
autem possibilis solum
recipit et nun- quam
agit -°. Da questa
opinione il nostro
dichiara di dissentire,
non per quel che
concerne le prime
intellezioni, nelle quali
l' intelletto possibile è totalmente
in potenza, e
quindi del tutto
passivo, sibbene per quel
che concerne le
intellezioni successive, alle quali,
essendo già attuato
dalle prime, è
in grado di
concor- rere attivamente, « semper
tamen virtute intellectus
agentis ». Di qui
la conclusione formulata
piti oltre, che
cioè: Intellectus ante actuationem
speciei intelligibilis aliter
est in potentia quam
post actuationem eius
21. Dopo aver affermato
l'essenziale passività dell'
intelletto possibile, fra Paolo
si pone nella
Summa naUiralmni il
quesito del rapporto da
stabihre tra questo
intelletto e il
corpo umano, intorno al
quale « tam
Inter veteres quam
modernos multa discrepantia fuit
» ^-. E
prima di tutto
ricorda quod Plato posuit
intellectum uniri corpori,
non ut formam materie, sed
ut motorem mobili,
eo modo quo
nauta unitur navi et
intelligentia orbi, non
per modum informationis, sed
per con- tactum virtutis
(alium) a contactu
corporeo. 20 7è., ad
t. e. 5, fol. 131,
col. 3. Il
problema fu a
lungo discusso fra le
varie scuole nella
scolastica della decadenza,
senza che ci
si rendesse ben conto
della sua gravità,
poiché è problema
che investe tutta
la filosofia antica fino
a Kant: come
salvare l'immanenza dell'atto
del conoscere, se esso
ha bisogno d'una
causa esterna che
la produca nel soggetto
conoscente ? 21 Iv.,
ad t. e.
8, fol. 133,
col. 2. ^2 Summa
naturai., V, e.
36. i PAOLO VENETO E
l'aVERROISMO PADOVANO 83 Quanto
ad Averroè, il
nostro eremitano ne
espone il pen- siero in
questi termini: Secundo notandum
ex intentione Commentatoris, ij
de anima (comm. 5
et 36), quod
corporalis natura compatitur
secum spiri- tualem naturam,
et non cedit
ei organum fantasticum
seu imagi- native virtutis,
cum sit quid
corporale, intellectus autem
quid spirituale; organum predictum
non cedit intellectui,
et per con- sequens
illa eadem intentio
que informat virtutem
imaginativam, informat
intellectum materialem...; et
hoc dico quia
intellectus copulatur nobis per
formam suam. Copulatur enim nobis
per intentiones imaginatas, que
sunt eedem cum
intentionibus exi- stentibus in
intellectu possibili; et ita unitur
homini per fanta- smata
intellecta in actu.
Intentiones enim imaginative,
per Com- mentatorem, ut
informant virtutem imaginativam,
plurificantur, quia sunt ibi
cum conditionibus materie;
sed ut informant
in- tellectum possibilem
fiunt una intentio
in ipso, quia
non recipit cum conditionibus
materie. Et ideo
inquit Commentator, quod copulatur nobis
intellectus per continuationem intentionis
in- tellecte, quia eadem
est intentio informans
intellectum et virtutem imaginativam 23. Siffatta interpretazione del
pensiero del commentatore
di Cordova anzi che
da Sigieri è
suggerita invece da
Egidio Ro- mano, al quale
il confratello veneto
s'appella esplicitamente nel commento
al De anima: Secunda opinio
fuit Averoys dicentis
quod intellectus humanus non
unitur corpori ut
forma, sed per
fantasmata intellecta in actu.
Ad quod declarandum,
est notandum primo
secundum eum in hoc
tertio, iuxta expositionem
Egidij, quod corporalis natura compatitur
secum spiritualem naturam
etc. -4. All'opinione d'Averroè,
Paolo aggiunge quella
di Giovanni di Jandun
che, a mio
parere, egH non
ha ben compreso.
Ecco ad ogni modo
com'egli la riassume: Tertia opinio
fuit Ioannis de
ianduno dicentis quod
intellectus, secundum
Commentatorem, unitur corpori
humano, non ut
forma dans esse, sed
ut motor mobili
dans operari, eo
modo quo unitur intelligentia orbi
et nauta navi;
concedens consequenter quod datur
duplex homo: unus
qui componitur ex
corpore et anima cogitativa; et
alius qui componitur
ex intellectu et
toto residuo; 23 Ib. 24
In libros de
anima, 1. e.
f. 133, col.
4. Cfr. Egidio
Romano, Do intell. pass,
cantra Averr., Venezia,
1500, II parte,
fol. 92 col.
1-9. 84 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI quibus proportionaliter respondet
duplex intelligere, scilicet universale et
particulare ; homo
sumptus primo modo,
solum particularia
intelligit; et sumptus
secundo modo intelligit
solum universalia ^5. A queste
tre opinioni egli
oppone la tesi
d'Aristotele, se- condo il quale
l' intelletto è vera
forma sostanziale dell'uomo, cui dà
essere ed operare
^6. Ma com'egli intenda
il pensiero dello
Stagirita su questo punto,
c'è detto nella
Summa naturalium '^v. Tertia conclusio
: Anima intellectiva
non unitur corpori
humano per inherentiam. Patet
tripliciter: primo quia
ipsa est ingene- rabilis et
incorruptibilis, iij de
anima (t. e.
20) ; modo nulla forma inheret materie per
transmutationem, scilicet materie
que non generatur et
corrumpitur, ut colligitur
a philosopho, primo
de genevatione, et a
Commentore, in libro
de substantia orbis
(cap. 4). Secundo, quia
intellectus est impassibilis
et intransmutabilis, iij de
anima; sed nulla
forma inheret materie
nisi per transmu- tationem et passionem.
Tertio, quia anima
intellectiva est indi- visibilis et
impartibilis per carentiam
partium integralium; nam quelibet
forma inherens materie
suscipit conditiones intrinsecas materie secundum
quas inheret; cum
ergo conditio materie, secundum quam
forma inheret, sit
habere partes integrales, licet non
partem extra partem,
quia hec est
conditio quantita- tis, etc. Quarta
conclusio: Anima intellectiva
unitur homini substan- tialiter per
informationem, ita quod
est forma substantialis
cor- humani, non solum
dans operari, sicut
intelligentia orbi, sed etiam
esse specificum et
essentiale. Probatur: differentia specifica constituens
aliquam speciem sumitur
a forma illius speciei, sicut
apparet ex intentione
philosophi, io metaphysice (t. e.
25), dicentis quod
contraria consequentia materiam
non faciunt differentiam in
specie, sed contraria
consequentia formam; modo differentia
propria hominis est « rationale
»; ergo sumitur a
forma humana; sed
«rationale » sumitur
ab eo quod
est intel- lectivum; ergo
intellectus vel anima
intellectiva est forma
cor- poris humani. —
Item, « rationale
» ponitur in
diffinitione eius non tanquam
additamentum, sed tanquam
differentia eius, ut ponit
Porphyrius et Aristoteles
; ergo "
rationale » est
de essentia hominis; sed
nihil est per se rationale
nisi per aniinam
intellecti- ^5 Ib., fol.
134, col. I,
cfr. Sigieri, pp.
100-102. -6 Ib., fol.
134, col. 1-2:
«Quarta opinio fuit
Aristotelis dicentis in- tellectum
esse veram formam
substantialem hominis.... Ideo
est di- cendum cum
Aristotele et alijs
perypateticis veris, quod
intellectus est iorma substantialis
hominis, dans sibi
esse et operari
». ^7 Parte V,
cap. 36. PAOLO VENETO
E l'aVERROISMO PADOVANO
85 vam; ergo etc.
Unde ex diffinitione
anime data a
phylosopho, ij de anima,
convincitur hanc conclusionem
esse de intentione sua. Arguitur
enim sic: Anima
intellectiva secundum ipsum
est anima; ergo «est
actus primus corporis
»; patet consequentia
a dififinito ad diffinitionem
; ergo est
forma substantialis; patet consequentia secundum
phylosophum, ij de
anima (t. e. 6), eo quod
actus primus est
forma substantialis corporis;
et nonnisi corporis humani;
ergo etc. — Deinde
anima intellectiva est
illud «quo primo intelligimus
»; ergo est
forma substantialis hominis; patet consequentia,
quia non est
alia ratio ad
probandum ani- mam vegetativam
esse formam substantialem
corporis vege- tantis, et
animam sensitivam esse
formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima
intellettiva dunque è,
sì, forma dell'uomo,
in quanto gli dà
l'essere e l'operare
di uomo, ma
non perché sia inerente
al suo corpo
alla stessa maniera
delle altre forme naturali. Su
questa differenza Paolo
Veneto ritorna anche
nel commento al De
anima -^: Intelligenda est differentia
inter informare et
inherere: quo- niam informare
est dare alteri
esse actuale et
hoc dicit perfectio- nem in
forma, imperfectionem in
materia, quia dare
dicit perfectio- nem; sed
inherere est ab
alio sustantificari, et
hoc dicit perfectio- nem in
materia et imperfectionem in
forma, quoniam sustanti- ficare dicit
perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam
a subiecto. Ex
isto notabili..., sequitur quod
anima intellectiva, licet
informet corpus humanum, non tamen
inheret illi, quia
non dependet ab
eo; quocumque enim
tali corpore dato, ante
illud fuit et
post illud erit
anima intellectiva, cum illud
generetur et corrumpatur,
anima autem intellectiva sit eterna....
Ouatuor rationibus arguitur
animam intellectivam non inherere
materie; quarum prima
est ista: anima
intellectiva non educitur de
potentia materie; ergo
sibi non inheret....
Se- cunda ratio: anima
intellectiva est prior
materia; ergo non
inheret illi.... Tertia ratio:
anima intellectiva est
impassibilis et intransmu- tabilis; ergo
non inheret materie....
Quarta ratio: anima
intellectiva est
indivisibilis et inpartibilis
per carentiam partium
integralium, secundum
philosophum et commentatorem, in hoc tertio
(t. e. 6) ; ergo non
inheret materie. Anima sensitiva
o cogitativa ed
anima intellettiva son dunque,
per il maestro
padovano, due forme
totali che costi- tuiscono l'uomo nella
sua natura di
animale ragionevole. Ma pur
essendo due forme
distinte, sono unite
da un intimo ^^
In libros de
anima, III, ad
t. e. 6,
f. 132, col.
2-3. 86 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI legame talmente
stretto, che l'una
è fatta per
l'altra e l'una completa l'altra.
Per questa ragione
il Nifo, più
che due anime le
diceva 29 due
semianime costituenti, per
la lo- ro sostanziale unione,
una sola anima
umana; che è an- che
il pensiero di
Dante, il quale
ad esprimerlo si
serve della immagine del
« calor del
sole che si
fa vino, giunto
all'omor che dalla vite
cola » 30.
La tesi di
fra Paolo è
dunque identica in sostanza
alla tesi professata
da Sigieri nel
trattato in ri- sposta a
quello dell' Aquinate
contro gli averroisti
; ma d'ac- cordo col brabantino
il maestro padovano
non è nella
pretesa d'attribuire questa tesi
al commentatore di
Cordova; anzi egli riconosce
che è vero
il contrario: Cominentator tamen
diceret intellectum per se subsistere, et ipsum
non uniri materie
ut formam; sed
non sui ipsius
{sic, leggi: sum ipsius)
opinionis 3'. Ma se
il nostro eremitano
dissente da Sigieri
su questo par- ticolare, non dissente
affatto da lui
nel ritenere che,
pur es- sendo forma dell'uomo,
l' intelletto possibile è
unico per tutti gli
uomini. E nella
Summa naturalium 32
ritiene sia questo
il pensiero non soltanto
d'Averroè, bensì quello
d'Aristotele: Unde secundum philosophum,
primo et tertio
de anima, na- tura nihil facit
frustra et non
abundat in superfluis,
nec deficit in necessariis;
cum igitur natura
alicui speciei non
dederit nisi unum individuum,
et alteri plura,
hoc est ideo,
quia una species in
uno individuo potest
se perpetuo preservare,
et non alia;
ut species angelica que
perpetuo preservatur in
una intelligentia, et non
species humana; sed
ita est quod
species anime intellective potest se
preservare perpetuo in uno individuo,
quia anima in- tellectiva est
perpetua et eterna
sicut aliqua intelligentia
celestis, ergo frustra et
preter intentionem nature
ponuntur plures anime intellectuales solo
numero differentes. —
Item, intellectus venit de
foris, secundum philosophum,
xvj libro de
animalibus: aut ergo per
creationem, iuxta opinionem
fidei; aut per
motum a corporibus celestibus,
iuxta opinionem Platonis;
aut per introitum unius corporis,
aliud relinquendo, iuxta
opinionem Pictagore; aut per
novam actuationem unius
corporis humani, aliud non
relinquendo: nullus trium
priorum modorum potest
assi- gnari, quia intuenti
libros Aristotelis notum
est ipsum oppositum 29
Vedi Sigieri... nel
pens., pp. 13-20. 30
Purg., XXV, 76-78. 31
In libros de
anima, 1. e.
fol. 132, col.
3. 32 Parte V,
cap. 37, fol.
88, col. 3. PAOLO
VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO
87 opinari; ergo est
dare quartum modum;
et cum in
eodem corpore non possint
esse plures anime
intellective simul, secundum
omnes opiniones, sequitur quod
unicus est intellectus
in omnibus homi- nibus
secundum intentionem Aristotelis. E più
oltre: Quarta conclusio: Intellectus
non numeratur numeratione individuorum, sed
est unicus in
omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum
in eadem specie
non est nisi
per mate- riam, per
philosophum, j celi
(t. e. 92),
vij et xij
metaphysice (VII, t. e.
28; XII, t. e. 49), ubi
probat quod non
possunt esse plures intelligentie
separate solo numero
differentes, per hoc medium
: quecunque conveniunt
in eadem specie
et differunt numero, habent
materiam; sed anima
intellectivam non habet materiam scilicet
ex qua, nec in qua
per inherentiam; ergo
etc. Unde arguitur sic:
anima intellectiva est
ingenerabilis et incor- ruptibilis, iij
de anima (t. e. 20),
et non contingit
dare multitu- dinem infinitam,
j celi (t. e. 68)
et iij physicorum
(t. e. 40),
et species sunt eterne,
j posteriorum (t. e. 56) et
vii] physicorum (t. e.
57); ergo unica
est anima intellectiva
omnium. Patet con- sequentia, quia,
si anima intellectiva
mutatur mutatione indivi- duorum speciei humane,
aut ergo per
generationem et corruptio- nem, ut
posuit Alexander, et hoc non,
quia repugnat prime
parti antecedentis ; aut
per multiplicationem finitam
animarum re- cedentium et
advenientium, ut posuit
Plato vel Pictagoras,
et hoc iterum non,
quia omnes sciunt
oppositum scripsisse Aristo- telem; aut
per generationem vel
creationem et incorruptibili- tatem, ut
ponit fides, et hoc iterum
non, quia repugnat
secunde et tertie parti
antecedentis; ergo oportet
dare unicum intellectum in omnibus
hominibus, secundum opinionem
et intentionem Ari- stotelis. La stessa
tesi Paolo Veneto
sostiene anche nell'esposizione del De
animaci, ma con
una piccola variazione:
nella Summa, la teoria
dell'unico intelletto in
tutti gli uomini
è detta sen- 33
In libros de
anima. III, ad
t.c. 5, fol.
130, col. 3:
« Secundo notan- dum,
secundum Commentatorem, eodem
commento, quod Illa
natura (intellectus) non est
hoc aliquid, nec
corpus nec virtus
in corpore, quo- niam,
si ita esset,
tunc reciperet formas
secundum quod sunt
diverse et individuales; et
si ita esset,
tunc forme existentes
in illa essent
in- tellecte in potentia,
et sic non
distingueret naturam formarum
secun- dum quod sunt forme,
sicut est dispositio
in formis individualibus, sive in
spiritualibus sive in
corporalibus. Intentio commentatoris
est, quod intellectus humanus
non sit aliquid
singulare vel individuum, ex quo
non est corpus
nec virtus in
corpore; quoniam materia
est ratio individuationis, a
qua separatur intellectus
humanus sicut et
quelibet intelligentia celi. Tria
ergo inconvenientia adducit,
concesso quod intellectus sit
hoc aliquid. Primum
inconveniens est, quod
intellectus 88 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI z'altro rispondere
al pensiero d'Aristotele
« iuxta impositionem Commentatoris »
; nel commento
invece è presentata
sempli- cemente come « intentio
» e «
opinio Commentatoris »
: segno che sul
vero pensiero d'Aristotele
s'era forse affacciato
qualche dubbio alla mente
del maestro padovano. Un'altra tesi
tipica di Sigieri
consiste, come sappiamo, nel
ritenere che l' intelletto
agente, tanto per
Aristotele quanto per il
suo commentatore arabo,
sia Dio. Nella Summa
naturalium 34, fra
Paolo ritiene: quod intellectus
agens et possibilis
non separantur ab
anima intellectiva, sed sunt
differentie illius non
substantiales..., sed accidentales.... Intellectus
agens est coniunctus
anime intellective per inherentiam
et fantasmatibvis per
presentiam et indistantiam. Per altro nella
risposta « Ad
primum (argumentum) » egli
accenna anche alla
tesi di Sigieri,
ma senza aderire
ad essa: Commentator autem
vult intellectum possibilem
esse essen- tiam anime
intellective, et intellectum
agentem esse primam
cavi- sam, vitaliter immutantem
ipsum intellectum possibilem;
sed hanc opinionem non
teneo ad presens. Invece, quando
scriveva l'esposizione al De anima,
egli era ormai convinto
che la tesi
di Sigieri fosse
la sola vera,
non soltanto dal punto
di vista della
filosofia aristotelica, ma al-
tresì da quello teologico: Dubitatur, si
intellectus agens et
possibilis differunt tam
inter se quam ab
assentia anime, utrum
sint substantie vel
accidentia. In hac materia
fuerunt quatuor opiniones.
Prima fuit Avi- cenne
et Algacelis, dicentium
intellectum agentem et
possibilem esse substantias invicem
separatas loco et
subiecto, ita quod
se- cundum eum {sic)
intellectus possibilis est
forma hominis, et intellectus agens
est decima intelligentia
appropriata decime spere, a
qua nostra felicitas
dependet; sicut ergo
iste unus sol non
reciperet nisi formas
individuales et secundum
quod sunt diverse... Secundum inconveniens:
quod species intelligibiles essent
intentiones intellecte in potentia
et non in
actu; quod est
falsum, cum sint
univer- sales et depurate
a conditionibus materialibus.... Tertium
inconve- niens: quod intellectus
non poneret differentiam
inter formas univer- sales et
singulares, sive ille
forme corporales sive
spirituales ». E dopo aver
riferite quattro obiezioni
« contra commentatorem
», comincia la sua
risposta con queste
sintomatiche parole: «
Responsurus prò opinione Averroys,
dico...... 34 Parte V,
cap. 38, fol.
89, col. 1-4. PAOLO
VENETO E L
AVERROISMO PADOVANO 09 totum
universum illuminat, per
cuius illuminationem possunt omnes
oculi videre, sic,
dicebant illi, est
aliqua una substantia separata irradians
super fantasmata omnium
hominum, per cuius irradiationem possunt
omnes homines intelligere. Hec opinio
est in parte
defectuosa, quia postquam
intellectus factus est in
actu nos intelligimus
quandocumque volumus, secundum quod
posuit supra Commentator
et habetur ad
expe- rientiam; sed talis
substantia separata non
videtur irradiare supra fantasmata
quandocunque volumus, sicut
nec sol illuminat oculum quandocunque
volumus; cum ergo
non intelligamus absque intellectu
agente, ergo intellectus
agens non est
talis intelligentia separata 35. Siffatta
critica della tesi
d'Avicenna, ci fa
presentire come la pensi
il nostro su
quest'argomento: se invece
di identifi- care r intelletto
agente colla decima
intelligenza celeste, che è
r infima delle
intelligenze separate, Avicenna
l'avesse iden- tificato con Dio,
questo certamente irradia
della sua luce i
fantasmi « quandocumque
volumus ». Il
difetto insomma di questa
teoria consiste nell'avere
identificato l' intelletto agente con
un intelletto particolare,
anzi che con
un intel- letto veramente universale. Dopo di
che, Paolo Veneto
espone e critica
come seconda opinione quella
d' Egidio, di S. Tommaso
e di tutti
quegli antichi scolastici che
ritenevano l' intelletto possibile
ed agente facoltà accidentali
dell'anima. La terza
opinione, da lui
ri- ferita parimente
rifiutata, è quella
di Giovanni Eucliph, ossia Giovanni
WycHf, il cui
ricordo doveva essere
ancora ben vivo a
Oxford, quando vi
giunse il nostro
eremitano 56. Indi prosegue: 35
In libros de
anima, III, ad
t. e. 19,
fol. 142, col.
4. 36 La terza
opinione è così
riassunta (fol. 142,
col. 4-143, col.
i): « Tertia opinio
fuit Ioannis Eucliph
dicentis intellectum possibilem
et intellectum agentem esse
potentias anime inteUective,
non tamen esse substantias nec
accidentia; sicut enim
dicunt theologi quod
pater, filius et spiritus
sanctus sunt tres
persone realiter distincte,
non tamen tres substantie
nec tria accidentia,
sed una substantia
que est deus, ita
intellectus agens et
intellectus possibilis et
voluntas sunt tres
po- tentie realiter distincte,
non tamen tres
substantie, nec tria
accidentia, sed una substantia
que est anima
intellectiva ; et
sicut pater non
est filius, nec spiritus
sanctus, et tamen
est ille idem
deus qui est
filius et spiritus sanctus,
ita intellectus agens
non est intellectus
possibilis nec voluntas, et
tamen est intellectus
agens illa eadem
anima intel- lectiva numero, que
est voluntas et
intellectus possibilis. Opinio
ista non est tenenda
phylosophice nec theologice
» etc. 90 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Quarta opinio, que
tenenda est, fuit
Aristotelis ponentis in- tellectum
agentem et possibilem
esse virtutes et
potentias anime non subtantiales
nec accidentales, sed
intellectum possibilem esse accidens
proprium et inseparabile
anime intellective, quo recipit
omnes formas speculativas,
sicut materia prima
per suam accidentalem potentiam
recipit omnes forinas
naturales. Intel- lectuin vero
agentem voluit esse
substantiam primam, coniunctam intellectui possibili
non per modum
forme informantis nec
inhe- rentis, sed per
modum forme et
habitus presentis et
indistantis; nec aliqua intelligentia, preter
primam que deus
est, potuit esse intellectus agens,
quia, sicut potentialitati prime
materie respondet actus purissimus
in quo sunt
active omnes forme
naturales que sunt in
prima materia passive,
ita potentialitati anime
intellective competere
(correspondere ?) agens
primum, in quo
sunt effective omnes forme
speculative, que passive
sunt in anima
intellectiva, mediante
intellectu possibili 37.
Si enim aliqua
intelligentia depen- dens esset
intellectus agens, per
istam non posset
intellectus pos- sibilis intelligere
primam causam, quia
intellectus agens abstrahit intellecta et
agit ea, secundum
Commentatorem ; modo
nulla intelligentia inferior potest
abstrahere causam primam
nec in illam aliquo
modo agere, ratione
independentie
(suedependentie ?) et imperfectionis. Et
hec opinio non
solum est physica,
sed etiam a theologis
tenetur. Nel commento al
De anima, dunque,
ogni riserva è
sciolta, e fra Paolo
giudica la dottrina
che identifica l' intelletto agente colla
causa prima, cioè
con Dio, non
soltanto conforme al pensiero
d'Aristotele e d'Averroè,
ma senz'altro vera
in se stessa e
tenuta dai filosofi,
non meno che
da non pochi
teologi. La tesi di
Sigieri, intorno alla
quale aveva avuto
dei dubbi, aveva finito
per prendere il
sopravevnto nel suo
animo. Altrettanto non possiamo
dire d'un'altra tesi
del braban- tino, strettamente
connessa con quella
che concerne l' intel- letto agente, la
teoria cioè della
beatitudine per mezzo
del congiungimento della mente
umana coli' intelletto
divino. Su questo punto
Sigieri aveva fatta
sua l' interpretazione che il
Commentatore di Cordova,
nella celebre digressione inserita nel
commento 36 del
III libro De
anima, dava del 37
Allo stesso modo
per Dante, Conv.,
IV, xxi, 5,
l'anima in vita tratta
per virtù celestiale
dalla potenza del
seme, « incontanente
pro- dutta, riceve da
la vertù del
motore del cielo
lo intelletto possibile; lo
quale potenzialmente in
sé adduce tutte
le forme universali,
secondo che sono nel
suo produttore, e
tanto meno quanto
più dilungato da la prima Intelligenza
è ». Sul
qual passo, cfr.
B. Nardi, Dante
e la cultura medievale, pp.
267 sgg., e
Giorn. Crit. filos.
Hai., XIII, 1933,
pp. 54-56. PAOLO
VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO
QI pensiero d'Aristotele. Anche
l'eremitano sa bene
come la pensasse Averroè
: Commentator autem dicit
iij de annna
(t. e. 5
et 36), quod, cum
intellectus possibilis fuerit
intellectus adeptus, idest
actuatus omnium specierum materialium,
intelligit intellectum agentem per
essentiam propriam 38. Ma neppur
questa volta egli è dell'avviso
dell'arabo; e postosi il
quesito « Qualiter
intellectus noster intelligit
sub- stantias separatas »,
lo risolve affermando
che l' intelletto umano conosce
le sostanze immateriali
« non per
se et directe, sed
indirecte et reflexe
per cognitionem motus
celi» 39. Così nella
Summa naturalium. Ma
nell'esposizione del De anima
è anche più
esplicito, se fosse
possibile. Postosi di
nuovo il problema «
Utrum intellectus possit
intelligentias separatas cognoscere »,
fa questa osservazione
che è presa
alla lettera dal commento
di S. Tommaso: Istam questionem
non solvit hic
philosophus, dicens se
deter- minaturum alibi, scilicet
in libro metaphysice...; hec
questio tamen non invenitur
soluta per ipsum,
quia complementum illius scientie nondum
ad nos pervenit,
vai quia nondum
est totus liber translatus, vel
forte morte preoccupatus
librum non complevit
40. Ciò non di
meno egli espone
qual fosse il
pensiero d'Averroè e in
che differisse da
quello degli altri
interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma
giunto alla fine
della discussione, egli
ci fa sapere «
quod hec opinio
iam non tenetur
a theologis vel
phi- losophis », e
ripete « quod
intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu
possibili non per se et
directe..., sed indirecte et
reflexe per cognitionem
motus celi » 41. Da quanto
precede, mi pare
risulti in modo
da non lasciar dubbio, che
Paolo Nicoletti, quando
nel 1408 insegnava
a Padova, aveva od
aveva avuto tra
mano per lo
meno lo scritto di
Sigieri in risposta
al trattato tomistico
De unitale intel- lechis. Questa
e verosimilmente altre
opere del brabantino circolavano già
fra i maestri
dello studio padovano,
o fu il 38
Summa naturai. ,Y, e.
41, f. 91,
col. 3. 39 76.,
cap. 42, f.
92, col. i. 40
In libros de
anima. III, ad
t. e. 36,
fol. 152, col.
i, Cfr. S.
Tom- maso, De anima, III,
lez. 12. 41 Ib.,
fol. 153, col.
I. 92 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI nostro eremitano
a portarvele, forse
da Oxford o
da Parigi ? Non
saprei che dire,
perché tanto l'una
che l'altra suppo- sizione, in mancanza
di dati sicuri,
è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche
nella letteratura manoscritta
concernente i maestri che
professarono a Padova
e a Bologna
nei secoli XIV e
XV, potranno gettare
qualche luce sulle
correnti d' idee che fervevano
in quei due
centri d'intensa vita
intellettuale 4^. Per il momento,
a noi basti
di ricordare quel
maestro Taddeo da Parma,
il quale insegnava
a Bologna intorno
al 1320, e che
nel suo commento
al De anima
accoglieva la tesi
difesa da Sigieri nelle
Quaestiones de anima
intellectiva'iì. Ma Taddeo, più
che l'opera del
brabantino sembra aver
letto le Quae- stiones di Giovanni
di Jandun, le
quali ebbero in
Italia dal secolo XIV
al XVI la
più larga diffusione
e furono trascritte e
stampate in parecchie
edizioni, discusse con
vivacità e qualche volta
fraintese. Fraintesa in
particolare sembra es- sere stata da
Paolo Veneto, e da altri
la dottrina intorno
al modo come l'anima
intellettiva è forma
del corpo, la
quale, come già sappiamo
è in sostanza
quella di Sigieri,
cui espHci- tamente accennava.
Il bisogno di
togliere alla dottrina
aver- roistica quello che
essa aveva d'eretico,
dopo che il
concilio di Vienne aveva
definito esser l' intelletto
forma del corpo umano,
dovette invogliare gli
averroisti italiani a
procurarsi quegli scritti nei
quali Sigieri s'era
difeso contro le
obiezioni di S. Tommaso,
e nei quali,
senza rinunziare alla
tesi dell'unico intelletto avea
tentato di dimostrare
com'esso s'unisse al- l'uomo con tale
intimo e sostanziale
legame, da potersi
dire forma dell' individuo
umano cui s'attribuisce
l'atto dell' in- tendere. L' insegnamento di
Paolo Nicoletti a
Padova è una inequivocabile testimonianza
che gli scritti
di Sigieri non erano
ignoti. Un'altra cosa questo
insegnamento ci attesta:
che la dot- trina averroistica poteva
esser liberamente discussa
ed esposta a Padova,
fin dal primo
decennio del secolo
XV, senza che
chi se ne faceva
sostenitore incorresse nella
taccia d'eretico; tanto vero
che frate Paolo
non sente neppure
il bisogno di 42
Cfr. sotto, il
saggio XI. 43 Cfr.
Sofia Vanni Rovighi,
Le Quaestiones de
anima di Taddeo da
Parma. Testo e
introduzione. Milano, Soc.
Ed. « Vita
e pensiero », 195 I,
P- 35 sgg. l'AOLO
VENETO E L'AVERROISMO PADOVANO
93 ripetere la solita
formale protesta, che
altri averroisti avevano cura
di non omettere,
cioè che essi
trattavano dallo spinoso argomento come
filosofi e non
come teologi. E
forse perché gli averroisti
padovani usavano senza
parsimonia di questa libertà, il
vescovo Barozzi d'accordo
coli' inquisitore locale proibì
« quovis quaesito
colore » le
dispute intorno all'unità dell' intelletto.
Ma il divieto
riguardava la diocesi
di Padova, e non,
per esempio, Bologna
e Pavia, ove
si continuò a
dispu- tare con grande spregiudicatezza. IV LA MISCREDENZA E
IL CARATTERE MORALE
DI NICOLETTO VERNIA
* Non mi stancherò
mai dal ripetere,
per coloro che
han l'animo sgombro da
pregiudizi, che una
vera e propria
dot- trina della « doppia
verità » nel
medio evo e
nel Rinascimento non fu
mai sostenuta da
alcuno '. Molti
invece furon quelli che,
contro il concordismo
tomistico, posero in
rilievo l'oppo- sizione di fatto
fra la teologia
e la filosofia,
' intendendo per filosofia
la dottrina della
natura congegnata in
sistema da Aristotele, detto
perciò il «
filosofo « per
eccellenza, e svilup- pata dai suoi
commentatori greci ed
arabi. Il primo
a rendersi conto, in
modo chiaro ed
esphcito, di questa
opposizione, fu Alberto Magno.
Il quale, non
solo dichiarava apertamente
che « theologica cum
physicis principiis non
conveniunt » -, ma giungeva fino
a sostenere, non
doversi far caso
dei miracoli che Dio
opera oltre il
potere della natura,
quando si tratta
di conoscere quello che
è il corso degli
eventi naturali 3.
Perciò, egli che s'era
proposto « totam
Aristotelis scientiam prò.... viribus explanare
», dichiarava di
rifuggire dall' interpreta- zione che del
pensiero aristotelico davano
i dottori latini: «
quoniam in istarum
quaestionum determinatione omnino *
Dal «Giorn. Crit.
di Filos. Ital.
», XXX, 1951,
pp. 103-118. 1 Vedasi
quanto ho detto
sopra, pp. 55-58,
71-75, e in
Dante e la cultura
medievale, 2* ed.
Bari, Laterza, 1949,
pp. 208-209, nonché
quanto ne ha scritto
E. Gilson,
Etudes de philos.
médiév., Strasbourg, 1921, PP-
5i'75; id., Dante
et la philosophie,
Paris, 1939, p. sgg. 2 A. Magno,
Metaphys., XI, tr.
3, e. 7. 3
A. Magno, De
gener. et corrupt.,
I, tr. i,
cap. 22, ad t.
e. 14. Cfr. la
mia nota La
posizione di Alberto
Magno di fronte
all'averroismo, in « Riv.
di Storia d.
Filos. », II,
1947, p. 197
sgg. q6 l'aristotelismo padovano
dal SFXOLO XIV
AL XVI abhorremus doctorum
latinorum verba » 4 ;
fra i quali
è sicu- ramente il suo
confratello italiano, frate
Tommaso d'Aquino 5. La
pretesa « teoria
della doppia verità
» non fu
dunque una « teoria
« né una
« dottrina »,
ma la semplice
constata- zione del
disaccordo o contrasto
fra la filosofia
aristotelica e il pensiero
cristiano. Ed era
perfettamente logico che
gli esposi- tori del pensiero
aristotelico diffidassero dei
tentativi concor- distici di
Tommaso e d'altri
teologi, e preferissero
attenersi neir
interpretazione d'Aristotele ai
principii fondamentali della sua
metafisica, senza preoccupazioni teologiche,
sia che le conclusioni cui
giungevano s'accordassero o no coi
dogmi della fede, avendo
per altro cura
di dichiarare che
quello che affermavano come
filosofi, cioè come
interpreti d'Aristotele, non riguardava
né intaccava la
verità di fede,
cui essi prote- stavano di credere
come fa ogni
buon cristiano 6. Dal
punto di vista
logico e oggettivo,
questo atteggiamento degli averroisti
era perfettamente coerente
e non impHcava in
sé niente di
contradittorio, e tanto
meno costituiva quel- l'eresia che Tommaso
d'Aquino e alcuni
altri teologi vi
scor- sero. Il che compresero
bene non pochi
altri teologi ai
quali il tenta- tivo tomistico di
cristianeggiare la filosofia
aristotelica, per an- corare ad
essa il dogma,
non parve né
di buon gusto
né di 4 A.
Magno, De anima,
III, tr. 2,
e. i, ad
t. e. 2
; La posizione
d'A. M., p. 215.
Il Pomponazzi, che
rifugge del pari
da questo «
fratrizzare, idest miscere diver.-a
brodia » [Phys.
Vili, t. e.
76, Bibl. Nation.
di Pa- rigi, cod. lat.
6533, f. 568r),
loda anche lui
Alberto Magno, perché
a dif- ferenza degli altri
«fratres omnes», cioè
d'Egidio, di Tommaso,
di Scoto e di
Gregorio da Rimini,
s'è astenuto dal
« frateggiare »,
mescolando filosofìa e teologia.
Sicché « isti
fratres truffadini, dominichini,
fran- ceschini vel diabolini
habent bene rationem
comburendi Albertum, quia omnes
questiones sunt contra
fìdem nostram licet
dicat in fine, quod
ita dicit quia
ut philosophus loquitur,
et philosophica non
sunt miscenda cum theologicis;
et dicit quod
in theologia aliter
sentit; et dicit quod
est fatuum miscere
eredita cum physicis;
me autem vellent comburere» {Phys.,
Vili, t. e. 85. Arezzo,
Fraternità de' Laici,
m. 389, f. 317»'.
Cfr. cod. Parig.
cit., f. 584^). 5
Cfr. il mio
articolo Alberto Magno
e S. Tomìiiaso,
in « Giorn.
Crit. d. Filos. Ital.
», XXII, 1941,
p. 36 sgg.,
e La posiz.
di A. M.,
pp. 200, 210, 219. 6
Non va confusa
con questa tesi
la dottrina, svolta
più tardi da
Gior- dano Bruno, e anch'essa
d'origine averroistica, la
quale attribuisce alle «
verità di fede
» un valore
puramente pratico, che
il filosofo accetta solo
come tale. Dell'origine
e dello sviluppo
di questa teoria
ho parlato n «Giorn.
Crit. d. Filos.
Ital.», XXX, 1951,
p. 363 sgg. J MISCREDENZA E
CARATTERE DI NICOLETTO
VERNIA 97 buon augurio.
E in particolare
lo compresero gì'
inquisitori che
sorvegliavano con occhio
sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità.
A questi ultimi
importava mediocremente di sapere
come la pensassero
Aristotele e Averroè
sull'eternità del mondo o
sull'unione dell'intelletto all'uomo:
essi invece volevano essere
rassicurati sui sentimenti
personali dei com- mentatori cristiani d'Aristotele
intorno a questi
argomenti. E per esserlo,
bastaron loro, a
quanto pare, le
pubbliche di- chiarazioni
che, neir insegnamento
e nei loro
scritti, gli ari- stoteli
si facevano premura
di non dimenticare. Ciò spiega
come l'averroismo e
l'alessandrismo abbiano potuto avere
una vita abbastanza
florida sino alla
fine del secolo XVI;
e com'essi fossero
apertamente professati a Pa- dova,
a Bologna ed
altrove senza che
per questo corresse sangue, come
fantasticava Francesco Orestano
2. Ch' io
sappia, neppure una goccia
ne fu versato,
a meno che
non fosse dal naso
nell'ardor delle dispute. E
nella libera discussione,
entro e fuori
le aule universi- tarie, a Padova
e a Bologna,
e non per
editti restrittiva, l'ari- stotelismo nelle sue
varie tendenze esaurì
la propria vitalità, quando si
comprese che i
problemi da esso
posti erano inso- lubih,
per esser mal
posti. Ma, intanto,
quella che s'usa
chia- mare « dottrina della
doppia verità »,
aveva ottimamente compiuto la
sua funzione storica,
di assicurare un'assai
ampia libertà d' indagine e
di critica, di
cui il pensiero
del Rinasci- mento s'
è avvantaggiato ^. A
questo punto nasce
per altro un
dubbio perfettamente legittimo e
stimolante: erano poi
sinceri, averroisti e
alessan- dristi, quando dichiaravano
di limitarsi ad
esporre quello che, a
loro avviso, era
il pensiero d'Aristotele,
ossia la « ve- rità
filosofica », senza
aderirvi, ma anzi
ripudiandola, e di credere
alla verità della
fede ? oppure
si beffavano in
cuor loro degli inquisitori,
mettendosi al riparo,
per mezzo di
quelle dichiarazioni, contro le
pene canoniche comminate
agli eretici ? Un
dubbio siffatto solleva
problemi delicati, di
difficilissima 7 Riesame della
« Beatrice svelata
», in «
Studi su Dante
», IV, Milano, Hoepli, 1939,
p. 24; cfr.
il mio voi.
Nel mondo di
Dante, Roma, 1944, PP-
355-56. 8 B. Nardi,
Sigieri di Brabante
nel pensiero del
Rinascimento italiano, pp. 89-90.
Si veda anche
la voce Averroismo
nel II voi.
déW' Enciclope- dia Cattolica. 9»
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI soluzione. Intanto
si deve constatare
che, in generale,
gì' in- quisitori si mostraron
piuttosto propensi a
credere alla sin- cerità di quelle
dichiarazioni e a
lasciare che, nel
foro inte- riore, ognuno s'aggiustasse
con Dio come
meglio credeva. Non tutti,
però: che noi
sappiamo della citazione
di Sigieri, di maestro
Bernieri di Nivelles
e di maestro
Gosvino de la Chapelle
da parte dell'
inquisitore di Francia,
il 23 novem- bre 12769; del
processo intentato a
Biagio Pelacani, maestro a
Pavia, dal vescovo
di questa città,
il 16 ottobre
1396 '°; e dell'editto emanato
il 6 maggio
1489 dal vescovo
di Padova e dall'
inquisitore del luogo,
col quale si
vietava ai maestri e
agli scolari ogni
pubblica disputa intorno
alla dottrina averroistica dell'
intelletto. Quanto al
primo caso, sappiamo tuttavia che
Sigieri e i
compagni interposero appello
alla curia papale avverso
la sentenza dell'
inquisitore di Francia, né
risulta che questa
fosse confermata. Il
processo contro Biagio Pelacani
dev'essere stato motivato
da espressioni veramente ardite
« contra fìdem
catholicam et sanctam
ec- clesiam », come
quelle che s' incontrano
nelle Quaestiones sul De
anima conservateci nel
Codice Chigiano O.
IV. 41, e discusse
nel 1385 quando
Biagio insegnava a
Padova ". Il maestro
si dichiarò «
male contentus »
del linguaggio da lui
tenuto, e dopo
aver chiesto perdono
« de commissis
», il ve- scovo di
Pavia « restituit
eum ad lecturam
et salarium so- lita »
12. L'editto invece di
Pietro Barozzi, vescovo
di Padova, e dell'
inquisitore fra Martino
da Lendinara merita
più lungo discorso. Insegnava allora
nello studio padovano,
come lettore or- dinario di filosofia
naturale, Nicolò Vernia
da Chieti, che
per la sua piccola
statura era chiamato
ed egli stesso
si firmava Nicoleto, come
Pietro Pomponazzi, suo
alunno, sarà detto, per
la stessa ragione,
il Pereto (Nicoletto
e Perette son
forme italianizzate della schietta
forma dialettale padovana
Nicoleto e Pereto). Addottorato
in filosofia naturale
a Padova il 30 maggio 1458,
dopo avere studiato
la logica a
Venezia sotto 9 Cfr.
Riv. di Storia
d. Filos.,
1947, P- 120
sgg. 1° Anneliese Maier,
Die Vorlàufer Galiìeis
in 14. Jahrhundert, Roma, 1949,
p. 279. "
Ib., pp. 280,
285, 288 sgg. 12
Ih., p. 279. MISCREDENZA E
CARATTERE DI NICOLETTO
VERNIA QQ Paolo dalla
Pergola, occamista, e la filosofia
nello studio pa- tavino sotto Gaetano
da Thiene, averroista,
conseguì da veccliio anche
la laurea in
medicina, il 29
dicembre 1496. Nell'ottobre 1468,
quando successe a
Gaetano da Thiene come
ordinario di filosofia
naturale, doveva trovarsi
sulla quarantina, se nel
testamento fatto il
3 agosto 1499,
due mesi prima della
morte, accenna alla
sua età decrepita. In
questo testamento, pubbUcato
da P. Ragnisco
^3, accade di leggere
una dichiarazione, nella
quale il testatore,
nell' im- minenza della morte
che sentiva avvicinarsi,
vuol purgarsi dell'accusa che
pesava su di
lui, d'aver fatta
sua la dottrina averroistica dell'unità
dell'intelletto: Ego
Magister Nicoletus Vernias
Theatinus antedictus, publice legens in
florentissimo Gymnasio Patavino
ordinariam philoso- phiam naturalem
sine aliquo concurrente,
quam legi per
annos triginta tres elapsos,
ac disputavi ac
tenui quod opinio
unitatis intellectus
Averrois fuerit opinio
AristoteHs, et post
niultos annos, duni vidissem
et graecos et
arabes doctissimos, repperi
non solum dictam opinionem
alienam esse a fide nostra
et veritate, sed etiam
ab intellectu AristoteHs,
prout in quadam
mea quaestione intulata Reverendissimo Dominico
Grimani ad plenum
declaro; et hoc feci
prò removendo nialas
opiniones, qiias /orlasse
habnerunt auditores mei; nani
Deum testor quod
numquam credidi tali
opi- nioni, et cum sim
in aetate decrepita,
et considerans quod
oinnes morimur secundum naturalem
cursum, et videns
incertitudinem temporis,
diei et horae,
et deliberans disponere
supra rebus meis, ut
possim consequi vitam
aeternam in altera
vita promissam bonis iuxta
legem nostram, et,
prout in supradicta
quaestione declaravi, etiam iuxta
opinionem philosophorum hic
non potest esse vita
beata, sed tantum
misera.... m. Fra coloro
che s'eran formata
una cattiva opinione
di maestro Nicoleto, oltre
ad alcuni suoi
scolari, era certamente
anche il vescovo Pietro
Barozzi'S. Fine spirito
d'umanista e, come
molti 13 Documenti inediti
e rari intorno
alla vita ed
agli scritti di
Nicoletto Vernia e di
Elia del Medigo,
in « Atti
e memorie dell'Accad.
di Scienze Lettere ed
Arti in Padova
», Anno 292
(1890-1891), N. S.,
voi. VII, disp. 3»,
p. 280. 14 E
cosi, a che
serviva tutta la
sua speculazione filosofica
intorno alla copulatio o
continiiatio dell' intelletto
possibile con l' intelletto agente, in
cui avrebbe dovuto
consistere la felicitas
dell' Etica Nico- machea
in questa vita ?
15 Intorno al
quale è da
vedere 1' introduzione
di Franco Gaeta, Il Vescovo
di Padova P.
Barozzi e il
trattato « De factionibus extinguendis. Fondazione Cini,
Venezia-Roma, 1958. lOO L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI patrizi veneziani suoi
contemporanei, animato di
religioso ardore, il Barozzi
fu vescovo di
Padova dal 1478
alla sua morte nel
1507. Pastore di
anime e maestro
di vita cristiana
in una città dotta,
sede d'un rinomato
studio al quale
affluivano scolari da tutte
le parti d'
Italia e d'oltralpe,
non potè mo- strarsi indifferente alle
rumorose dispute la cui eco
si dif- fondeva lontano. Quel
battagliare intorno al
vero pensiero d'Aristotele, del
suo commentatore arabo
e degli interpreti greci, gli
pareva che inaridisse
le sorgenti della
vita e del pensiero
cristiano. Inoltre, l'accanimento
che molti dei
di- sputanti mettevano nel sostenere
le interpretazioni d'Ari- stotele più lontane
dal comune modo
di pensare dei
cre- denti, doveva
alimentare in lui
il sospetto, suscitato
da voci che correvano,
che qualche maestro
dello studio patavino, mentre si
dava l'aria di
essere un semplice
espositore della dottrina peripatetica,
in realtà avesse
finito per farla
sua propria fino a
negare i premi
e le pene
nella vita futura. L'editto episcopale
e inquisitoriale, pubblicato nellescuole di Padova
il 6 maggio
1489, dopo aver
citato alcuni passi scritturali, proseguiva: Et rursum
[memores] eorum que ad Colossenses
magis ad rem de
qua in presentiam
agimus accomodate scribit
[Apostolus], dicens : '
Videte ne quis
vos decipiat per
philosophiam et inanem fallaciam secundum
traditionem hominum, secundum
elementa mundi et non
secundum Christum '.
Et scientes sic
Inter disputan- dum solere
animos perturbar!, ut
interdum homines quod
falsum esse sciebant, prò
vero suscipiant et
defendamt.... Volentesque ut et
hi qui philosophiam
discunt, sic discant
ut christianam philosophiam, que
longe omnium prestantissima est,
non dedi- scant, et
hi qui docent,
dum se philosoplios
esse meminerunt, non obliviscantur se
etiam christianos existere,
ac venena disputa- tionum malarum
iuxta epulas philosophice
discipline non ponant.... Et
postremo existimantes eos
qui de unitate
intehectus disputant ob eam
potissimum causam disputare
quod, sublatis ita
tum premiis virtutum tum
vero supphciis vitiorum,
existimant se liberius maxima
queque flagitia posse
committere: mandamus ut nullus
vestrum, sub pena
excomunicationis late sententie quam si
contrafeceritis incurratis, audeat
vel presumat de
uni- tatis intehectusquovisquesito
colore publice disputare
^^. Non si trattava,
com' è chiaro,
della scomunica lanciata personalmente contro
il Vernia, che
della dottrina dell'unità 16
Ragnisco, Documenti, pp.
278-279. MISCREDENZA E CARATTERE
DI NICOLETTO VERNIA
lOI dell' intelletto era,
in quel momento
a Padova, il
piìi risoluto assertore; ma
di un provvedimento
che riguardava lui ed
altri, e
che sopratutto denunciava
una pericolosa moda
d' in- sincerità e doppiezza che
s'andava affermando ed
era nociva non meno
al costume morale
che alla pietà
religiosa. Può darsi che,
vietando ogni discussione
sull'argomento dell'unità dell' intelletto,
il Barozzi e
frate Martino abbiano
spiegato uno zelo eccessivo
; ma la
mala opinione che
gli alunni avevano concepito di
taluni maestri e le voci
che sul conto
di essi cor- revano, giustificano almeno
in parte il
severo ammonimento. Poiché a
questo in fondo
si ridusse l'editto
episcopale; né si sa
che esso desse
luogo a processi,
né che alcun
maestro fosse ridotto al
silenzio. Anzi è
noto, al contrario,
che Pietro Trapolino, alunno
di Nicoleto, continuò
a professare pubbli- camente il suo
moderato averroismo anche
dopo la promul- gazione dell'editto. E
lo stesso fecero
altri. Due soltanto, eh'
io sappia, s'affrettaronoa cambiare
in- dirizzo ai loro pensieri
e a recitare
la loro palinodia:
Agostino Nifo da Sessa
e Nicoletto Vernia
da Chieti, in
gara tra loro. Il
Nifo, com'egli stesso
e' informa ^7,
aveva cominciato averroista della
corrente sigieriana; e,
prima di abbandonare definitivamente questa
posizione, deve aver
giocato d'astuzia da quell'uomo
scaltrissimo che era.
Alla fine del
De intelledu e del
commento al De
animae heatiUidine , pretende
d'aver portato a termine
queste due opere
a Padova nel
1492. Ma io penso
che su questa
affermazione bisogni fare
molta tara: poiché nella
dedica del De
inielleciu a Sebastiano
Badoèr, nell'edizione veneta del
1503, che è
la più antica
che si co- nosca, il
Nifo dice in
sostanza d'aver rimaneggiato
l'opera, costituita
originariamente da una
Quaestio de intellectu,
che gli avversari gli
avevano impedito di
pubblicare, avendolo accusato d'eresia.
Da questa accusa
era riuscito a
discolparsi, a quanto pare,
per l' intervento del
Barozzi stesso, del
Ba- doèr e di teologi
e filosofi amici
che ne presero
le difese. Nella redazione del
1503, l'autore non
esita a confessare
d'essersi indotto a «
pristinam mutare sententiam
» ; e
questo non sol- tanto per ciò
che concerne la
forma primitiva dell'opera, giacché egli
ammette: «placuit quaedam tollere,
mutare alia. 17 D»
intellectu, Venezia, 1503,
I, tr. 2,
capp. 8-9. I02 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI addere plurima » '8,
Rabberciato alla meglio
il De intellectu
e rifattasi una verginità
filosofica, egli tentava,
lontano da Pa- dova, quella fortuna
che non manca
mai di arridere
agli uomini della sua
prolifica specie. Il Vernia
era noto in
tutta Italia, attraverso
i suoi numerosi discepoli, come
uno dei più
decisi averroisti. Per
noi è un po'
ditficile oggi ricostruire,
nel suo insieme,
la sua dottrina
in- torno ai diversi problemi
agitati nelle scuole
del tempo, perché non
sappiamo dove sono
andati a finire
i suoi scritti,
se dati alle fiamme
da lui stesso
prima di morire,
oppure se lasciati insieme alla
sua biblioteca al
monastero di S.
Bartolomeo in Vicenza, ovvero
al figlio adottivo
Nicoletto della Scrofa,
o ad altri. Nonché
le opere scritte
di suo pugno,
non ci son pervenute
nemmeno le reportationes
degli scolari che
pur non dovettero mancare.
Ci restano soltanto,
eh' io sappia, i
seguenti scritti a
stampa elencati dal
Ragnisco: I. la
Quaestio '^ « Dicaveram
tibi anno superiori
questionem meam de
intellectu.... Eamque, ne labores
iuventutis mee perditum
irent, imprimendam esse curavissem, nisi
emuli affuissent, qui me hereseos
accusassent. Ac malui ad
hoc tempus pervenire
morando, quam huiuscemodi
criminis culpam subire. lam
cessant accusationes: emulorum
iniquitas, sic mea fide
postulante, in propatulo
est. Ergo suo
tribuant commodo, si quam
utilitatem accepere qui
me insidiis persequuti
sunt, discantque interea diligentius
legere que volunt
criminari, ut cautius
egisse videan- tur. Sed
valeant isti, satisque
mihi sit Petrum
Barotium episcopum patavinum, christianorum
nostre etatis decus
et splendorem, te cui
non minus in
fide quam in
philosophia tribuo, et
quamplurimos alios tum theologos
tum philosophos iudices
ac censores habuisse,
qui semper innocentie mee
testes eritis. Tractaveram
hanc nobilissimam mate- riam
et de fontibus
omnium antiquorum phylosophorum
exhaustam, recenti stilo, quod
omnes fere commendare
visi sunt, preter
paucos, quorum precipuus fuit
Hieronymus Malclavellus, tunc
privatus scholaris, nunc nostre
academie diligens ac
iustus moderator; qui
ut est rectus ingenio, acer
iudicio, splendidus in
omnibus atque liber,
numquam ubi de honore
ac utilitate amicorum
suorum agit, assentari
novit. Hic cohortatus est
me, ut universum
opus in capitula
secarem, asserens antiqua stilo
esse antiquo tractanda.
Hac unica huiusce
viri ratione persuasus, licet
alias adduxerit quarum
illi copia est,
pristinam mutavi sententiam :
placuit quedam tollere,
mutare alia, addere
plurima. Nihil delevi quod
sit contra fidem
catholicam; non enim
potest destrui quod factum
non invenitur ».
Seb. Badoèr morì
il 30 giugno
1498 (cfr. i Diarii
di M. Sanudo,
I, 1004). La
dedica dunque e
il rabberciamento dell'opera sono
anteriori a questa
data, e probabilmente
dello stesso periodo nel
quale il Nifo
aveva preparato anche
l'edizione dei Col- lectanea
sul De anima,
usciti anch'essi nel
1503, presso la
stessa officina veneziana de
Quarengiis. Sembra pertanto
che l'edizione del
De intel- lectu, ricordata e
perfino citata da
taluno come uscita
a Venezia nel
1495, non sia mai
esistita ! MISCREDENZA E
CARATTERE DI NICOLETTO
V'ERNIA I03 an ens
mobile sii totitis
philophiae naturalis suhiectum
'9 del 1480; -
2. il prologo
alla Fisica col
titolo De divisione
philosophiae; - 3. la
Quaestio an medicina
nohilior ac praestantior
sii iure civili
^° del febbraio 1482
; - 4.
la Quaestio an
caelum sit animatum del
novembre 1491, nell'
infelice riportazione di
uno scolaro che forse
è Alessandro Sermoneta
^^ ; -
5. Quaestio an deniur
universalia realia --,
terminata il 17
febbraio 1492; -
6. la Quae- 19
Stampata a Padova,
nel 1480, nel
volume di commenti
d'Egidio Romano, di Marsilio
di Inghen e
d'Alberto di Sassonia
al De generatione et corruptione,
ed anche nell'edizione
scotina della stessa
opera (Venezia, 1521, fol.
129V-131V). Nell'edizione padovana
precede la dedica
a En- rico Languardo, vescovo
di Acerenza e
Matera. Ragnisco, Documenti, pp. 276-77;
Id., Nicoletta Vernia.
Studi storici sulla
filosofia padovana della 2»
metà del sec.
decimoquinto, in «
Atti del Reale
Istituto Veneto di Scienze
Lettere ed Arti
», t. 38°,
serie VII, t.
II, 1890-1891, p.
625. ^° Questa Quaestio
e lo scritto
precedente si trovano
in principio del volume:
Gualterii Burley, Expositio
in libros odo
de physico auditu Aristotelis
stagerite, emendata per me nicoletum
verniam thea- tinum puhlice
et ordinarie legentem....
Venetiis, 1482, 15
aprile (La Quaestio è
stata ristampata di
recente da E.
Garin, La disputa
delle Arti nel Quattrocento,
voi. IX dell' «
Ediz. Naz. dei
Classici del Pen- siero Italiano», Firenze,
Vallecchi, 1947, PP-
111-123). Precede la de-
dica a Sebastiano Badoèr,
censore di Venezia,
il quale, come
il Vernia, era stato
discepolo di Paolo
dalla Pergola, ed
era un convinto
scotista, qual erasi rivelato
a Nicoleto, per
averlo questi udito
argomentare con vigore in
una pubblica disputa
in occasione d'un
capitolo generale di Frati
Minori tenuto a
Venezia. In questa
dedica il Vernia
accenna anche ad una
amplissima quaestio de
inchoatione formarum che
avrebbe dovuto trovarsi nello
stesso volume, ma
che poi è
stata omessa. L'ar- gomento per altro
è ripreso con
certa ampiezza nella
Quaestio an dentur universalia realia,
di cui sotto. 21
Pubblicata dal Ragnisco,
Documenti, pp. 285-291. ^^
In principio del
raro volume Urbanits
Averoista philosophus sumnius ex
almifico Servoritin Divae
Mariae, comentorum omnium
Averoys super librum Aristotelis
de physico audita
expositor clarissimus. Per
probum virum Bernardinum Tridinensem
de Monteferrato. Venetiis,
1492. Questa importante opera
dell'averroista bolognese dell'Ordine
dei Serviti, la quale
nel prologo dell'edizione
stampata porta la
data del 1334 (ma
v. sotto, p.
318), era stata
ritrovata, coperta di polvere
e corrosa dalle
tarme, nella biblioteca
bolognese dell' Ordine, dal
priore generale dei
Serviti, frate Antonio
Alabanti, che, compresone il
pregio, tanto più
che anch'egli si
professava averroista, ne
scrisse, il 7 maggio
1492, al \'ernia,
come quello che
aveva sempre difeso
le parti d'Averroè, onde
averne il parere
per un'eventuale stampa;
e all'uopo gli mandò
lo scritto d'Urbano
perché l'esaminasse: «Ad
te igitur li- bellus
noster confugit: tu
eum paterno amplectaris
amore; et tandem tua
censura maturoque Consilio
examinatum censeas si
dignus est ut in
claram lucem professoribus
perypatheticis ad doctrinamque
Averoys aspirantibus
emergere possit, ad
nosque rescribere digneris.
Quod si feceris, ut
speramus et oramus,
non minus tibi
et Urbanus noster, operis conditor,
quam Averoys et qui eius
doctrinam sequuntur, inter I04 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI stio de gravibus
et levihus, senza
data^s; - 7.
Del 1481 è la Quaestio, rimasta
sconosciuta al Ragnisco,
An celum sit ex
materia et forma
constitutum vel non,
che termina: «Et
sic est finis huius
questionis compilate per me Nicolettum
verniam theatinum Padue philosophiam
publice legentem.... Anno domini.
M.cccc.lxxxj. Ultimo mensis
Julii », e
che si trova
in principio della rara
edizione veneziana, curata
dallo stesso Vernia, del
commento d'Averroè alla
Fisica, del 1483,
ove occupa ben dodici
colonne in-folio. Tutti questi
scritti sono schiettamente
averroistici ; e seb-
bene non riguardino alcuno
dei problemi scabrosi
pei quali gli averroisti
eran tenuti in
sospetto, tuttavia non
è difficile qua e
là imbattersi in
espressioni rivelatrici
dello spirito del loro
autore. Si prenda,
ad esempio, la
prima quaestio ricordata qui
sopra. Dapprima, secondo
lo schema familiare
al Vernia, sono addotte
le « opiniones
ab Aristotele et
suo commenta- tore deviantes »,
e in primo
luogo quella di
Tommaso che egli, nativo
di Chieti, si
compiace di chiamare
suo compatriota, poiché suddito
anche lui dello
stato napoletano. Tommaso appunto aveva
sostenuto, in principio
del suo commento alla
Fisica, « ens
mobile et non
corpus mobile, contra
Albertum merito cognomine magnum,
esse totius philosophiae
naturalis subiectum ». Poi
ricorda le critiche
mosse da Egidio
Romano ^1(05 ego quoque
minimus accedo, ingentem
immortalemque semper gratiam habebimus
» (nel voi.
cit., secondo foglio
non numerato). E il maestro padovano
gli rispondeva il 29 dello
stesso mese, dando
del- l'opera e dell'autore questo
giudizio : «
Vir ille (ut
dicam quod sentio) cum
omnibus bis, qui
Averoym ad haec
usque tempora secuti
sunt, certare mihi visus
est et plurimos
etiam vincere. Nemini
vero (ut mea quidem
fert opinio) cedit.
Cum enim Averoys
verba sensusque perobscu- ros
aperire illustrareque aggreditur,
nihil illius explanatione
enoda- tius, nihil clarius,
nihil denique absolutius
dici potest. Quaestiones vero quae
in naturali phylosophia
et plurimae et
gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat.
Sed ut est
acri iudicio praeditus,
ita acute subti- literque solvit,
ut ad rei
perfectionem nihil addi
posse videatur »
{ih). E mentre approva
il disegno della
stampa, informa che
a Padova nella biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara, esisteva un
altro codice dell'opera d'
Urbano, attribuito fino
allora a Giovanni
Marcanova (cfr. sotto, pp.
317-318), e promette
che, per far
meglio conoscere il
commento del servita, terrà
un corso sulla
Fisica. La quaestio
del Vernia sugli
universali occupa quattro fogli
non numerati, prima
del commento di
Urbano, ossia 12 colonne
intere e 2
mezze colonne. 23 Nel
voi. Acutissime questiones
super libros de
physica auscultatione ab Alberto
de Saxonia edite,
Venezia, 1504, f.
92va-94vb, con dedica al
filosofo e medico
Gerardo Bolderio da
Verona. MISCREDENZA E CARATTERE
DI NICOLETTO VERNIA
I05 alla tesi tomistica,
e il giudizio
di Giovanni di
Jandun sul- l'Aquinate, ritenuto
« melior expositor
inter latinos, unde per
excellentiam dicitur expositor,
sicut Averrois commen- tator
». Incappa infine
nella tesi degli
scotisti Giovanni Ca- nonico e
Antonio Andrès, i
quali s'eran permessi di
criticare Aristotele. Contro tanta
audacia egli insorge
ripetendo il giudizio, comune
a tutti gli
averroisti, sullo Stagirita: Ad
illa respondet Ioannes
Canoniciis, et similiter
Antonius Andreas, concedendo Aristotelem
male dixisse et
insufficienter ipsum
philosophiam tradidisse; philosophus
enim tanquam sacri- legus
insufficienter et erronee
tradidit nt)bis philosophiam
natu- ralem, ut Antonius
inquit. Sed minor
de istis, quod
cum tam pauca reverentia
centra philosophorum principem
loquantur; ncque unquam invenio
Albertum Magnum, sanctum
Thomam aut doctorem subtilem
talia contra Aristotelem
dixisse. Unde beatus Hieronymus,
de eo loquens,
scribens ad Eustochium,
De vita nionachonim , ait:
' Absque dubitatione
prodigium fuit gran- deque
miraculum in tota
natura, cui, ut
pergit, pene videtur infusum quicquid
naturaliter capax est
genus humanum ' 24. Cui concordat
Averrois, 3. De
anima, dicens: '
Ipse fuit regula in
natura et exemplar
quod natura invenit
ad ostendendum ul- timam
perfectionem possibilem in
materiis. Venendo poi alla
soluzione del problema,
il filosofo chietinf) sostiene «
de intentione aristotelis
et sui commentatoris
aver- rois cordubensis
fuisse, quod corpus
mobile est subiectum
in scientia naturali ».Ancora
più tipico è
il caso della
Quaestio aii medicina
iio- bilior ac praestaiitior
sii iure civili.
È notevole, anzi
tutto, che egli abbia
lasciato in pace i canonisti,
strettamente imparen- tati
coi teologi, gente,
gli uni e
gli altri, con
la quale è
prudente non aver briga.
Per dimostrare, dunque,
la tesi affermativa, che cioè
la medicina è
da più del
diritto civile, il
nostro si rifa -4
Lo stesso passo
dell'opera pseudo geronimiana
m' è accaduto
di trovar citato nel
De pietate Aristotelis
erga Deiim et
ìioinines di Fortunio Liceto (Udine,
1645, libro II,
cap. 22), amico
e collega di
Galileo a Pa- dova. Costui, al
pari di Alfonso
Tostado, vescovo di
Avila, In librum paradoxorum (Venetiis,
1508, V, cap. 132, fol. 68ra), e di
Giovanni Genesio Sepulveda, da
Cordova {Opera, Madrid,
1780, t. Ili,
Epist., VII, lettera al
teologo Fedro Serrano,
del 10 maggio
1554), pensava, se non
proprio a una
canonizzazione, che fosse
almeno altamente verosimile la
salvezza eterna di
Aristotele. Al quale
però il Tostado
,da buon umanista, unisce
le anime di
Socrate, di Platone
e di siffatti
filosofi, che Cristo avrebbe
liberato discendendo al
limbo. I06
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI al concetto, comunemente
ammesso, che la
medicina nella sua parte
teorica rientra nella
« filosofia naturale
» ed è
scienza speculativa; il che
non può dirsi
dal diritto civile.
Ora nella speculazione intorno
alla natura Aristotele
aveva fatto con- sistere il fine
ultimo e la
perfezione suprema dell'uomo,
a cui si giunge
soltanto mediante l'apprendimento delle
scienze speculative,
coronato dal congiungimento o
copulatio con r intelletto
agente. Ex quo sequitur,
hominem equivoce dici
de homine rationali et
iurista, cum iurista
non sit nisi
equivoce, cum inrista
ultimo fine hominis sit
privatus. Et hoc
est quod Averrois
dicit in pro- logo libri Physicorum,
quod homo equivoce
dicitur de homine perfecto per
scientias speculativas et de homine
ignorante eas, sicut dicitur
equivoce de homine
vero et picto
^^ Ci sarebbe da
chiedersi se mastro
Nicoleto non fosse
per caso in vena
di scherzare, per
dar la baia
ai colleghi della facoltà
di diritto: ma
purtroppo egli non
fa che ripetere
cosa di cui tutti
gli averroisti erano
convintissimi; anzi taluni
di essi, come Alessandro
Achillini e Tiberio
Bacilieri^^^ pensavano che al
raggiungimento della suprema
perfezione e della
feli- cità cui l'uomo aspira,
bastassero i libri
bene interpretati di Aristotele
e d'Averoè, che
quelli ritenevano aver
conqui- stato il più alto
grado di felicità
di cui l'uomo
è capace in
questa vita, non ostante
i sorrisi ironici
degli alunni, e
quelli del Pomponazzi -i.
Al cospetto della
morte, come abbiamo
visto, -5 Nel citato
voi. del Burley
sulla Fisica, Venezia,
1482, f. 3vb.
Il passo d'Averroè in
principio al prologo
della Fisica, al
quale accenna il Vernia,
è questo: «
Declaratum est in
scientia considerante in
opera- tionibus voluntariis, quod
esse hominis secundum
ultimam perfectionem ipsius et
substantia eius perfecta
est ipsum esse
perfectum per scien- tiam
speculativam; et ista
dispositio est sibi
felicitas et sempiterna vita. Et
in hac scientia
manifestum est, quod
praedicatio nominis hominis perfecti
a scientia speclativa,
et non perfecti,
sive non ha- habentis
aptidinem quod perfici
possit, est aequivova,
sicut nomen hominis quod
praedicatur de homine
vivo et de
homine mortuo, sive praedicatio hominis
de rationali et
lapideo ». 26 Cfr.
il mio Sigieri nel
pens., p. 151. -7
Accade spesso al
mantovano di fare
dell'ironia sulla «copulatio» degli averroisti
« qui continuo
prandent cum deo
et qui habent
intel- lectum adeptum »
(comm. al I
delle Meteore, del
nov. 1522. Parigi, Bibl.
Nat. cod. lat.
6535, f. i2or).
E del Bacilieri
riferisce: «Ideo Ti- berius
iactatus solum sibi
defìcere quatuor digitos,
ad hoc ut
felicitatem istam pertingat »
(Comm. al XII
della Metaph., Arezzo,
Frat. Laici, ms. 389,
f. 248r. Cfr.
Parigi, e. s.,
cod. lat. 6537,
f. 139V). MISCREDENZA E
CARATTERE DI NICOLETTO
VERNIA IO7 ([uesta convinzione
abbandonava il filosofo
chietino, persuaso ormai, col
volger degli anni,
che non solo
secondo la fede, ma
« etiam iiixta
opinionem philosophorum, hic
non potest esse vita
beata, sed tantum
misera ». Evidentemente
nella sua giovinezza anch'egli,
come molti, aveva
ignorato la man- zoniana preghiera allo
Spirito divino: «Dona
i pensier che il
memore ultimo dì
non muta ». Averroista
era il Vernia
anche nella soluzione
del problema se il
cielo è animato,
e di quello
«sul moto dei
gravi e leggeri «^s. Anzi, su
quest'ultimo argomento, mentre
perfino molti aver- roisti
avevano finito per
scostarsi dalla dottrina
d'Aristotele e avevano accolta
la teoria nominalistica
degli impetus, il Vernia
segna un ritorno
puro e semplice
alla tesi dello
Sta- girita, seguita da
Averroè, da Sigieri
e da pochi
altri 29. La Quaestio
an denhir universalia
realia è invece
un tenta- tivo di mostrare
l'accordo tra Averroè
e Alberto Magno
sulla dottrina,
convenientemente
interpretata, della «
inchoatio formarum » ;
poiché gli universali
di cui qui
si parla, non
sono le intentiones primae
et secundae dei
dialettici, ma le
idee con- siderate come cause
della realtà, gli
universalia physica, come li
chiama il Vernia,
ossia le forme
delle cose 3°. 28
Nel voi. cit.
delle Acutissime questiones
di Alberto di
Sassonia, pp. 92
t'a-94 vb. ^9 Cfr.
A. Maier, Zwei
Grundproblenie der scholastichen
Philosophie. Roma, Ediz.
di Storia e
Letter., 1959, p.
295. 30 Nel voi.
di Urbano Averroista,
cit., col. 6:
«Ex quo patet
error illorum qui dicunt
inchoativum secundum commentatorem
et Albertum esse potentiam
subiectivam [materie], cum,
ut visum est,
sit potentia formalis distincta
a potentia materie,
que est in
substantia forma substantialis, imperfecta
tamen, cum omnis
potentia materie taUs, quam
ponunt, si distincta
ab ea et
sit accidens Ex quo
sequitur dari universalia realia
ad mentem veriorum
philosophorum peripatheti- corum, tum
Grecorum, tum Arabum,
tum latinorum; cum
tales essentie sint universalia
physica et in re, ut
visum ». Il
primo di tali
universali fisici è per
il ^'ernia la
« forma corporeitatis
» di Avicenna,
coeterna alla materia. In
proposito, abbiamo questa
informazione nel commento del
Pomponazzi al De
substantia orbis di
Averroè (Cod. Reg.
lat. 1279, fol. yr).
«Credo quod haec
responsio fuerit Nicholeti;
quia etiam ipse tenebat
ad mentem commentatoris
formas corporales de
praedica- mento substantiae materiae
primae esse coaeternas.
Et tunc glosabat ipse
commentatorem, hic dum
dicit quod materia
non habet formam quae
reponat eam in
esse specifico et
ultimo, quia si
materia prima baberet formam
ultimam specificam, tunc
non posset ipsa
materia aliam formam recipere,
quia, cum ultimo
non detur ultimum,
ipsa forma esset in
actu completo, nam
infra formam ultimam
specificam non sunt [
nisi ] individua;
et in hoc
commentator dissentit ab
Avi- Io8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Anche in questa
Quaestio, terminata il
17 febbraio 1492, non
mancano accenni alla
dottrina averroistica dell'
intel- letto ; ma sono
accenni più cauti
31. L'editto episcopale
era stato promulgato evidentemente
per qualche cosa.
Nel settembre del 1492
a Colze nel
vicentino, mastro Nicoleto
dovette pen- sare al modo
di dissipare i
sospetti d'eresia che
gravavano su di lui,
e, sebbene affetto
da oftalmia, prese
la penna e
cominciò a buttar giù
una specie di
confutazione dell'averroismo. Nacquero così
le Quaestiones de
pluralitate intellectus cantra falsani et
ah omni ventate
remotam opinionem Averroys
et de animae felicitate.
L' idea di quest'opera
gli fu suggerita
(« non iniussa cano
! ») da
frequenti esortazioni del
doge di Venezia, Agostino Barbadigo,
e dallo stesso
Pietro Barozzi, che,
se da una parte
lo minacciava di
scomunica, dall'altra cercava di
adescarlo con buone
promesse. La composizione
dello scritto non dovette
procedere molto rapida.
Poiché soltanto nel- l'estate del 1499
l'opera fu presentata
ai revisori ecclesiastici e al
vescovo per la
stampa r-. I revisori,
frate Antonio Trombetta,
Vincenzo Merlino e Maurizio
Ibernico, prodigarono all'autore
le più ampie
lodi, e il vescovo
Barozzi se ne
dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche
nel dare atto
del nuovo atteggiamento
assunto, ricorda le voci
che un tempo
correvano sul conto
di lui, e non osa dichiararle
infondate; anzi lo
stesso paragone che
egli fa del chietino
con S. Paolo,
il quale di
persecutore del nome
cri- stiano era divenuto un
ardente difensore della
fede, sem- brerebbe
insinuare il contrario: cenna qui
ponebat talem formarti
specificam ultimam; sed
commen- tator dicit, quod
talis corporeitas non
est forma specifica
completa, sed est forma
generica imperfecta; et
sic dicebat ipse
[Nicholetus] quod materia prima
habet istam formam
genericam sibi coaeternam, et in
ipsa etiam formam
elementorum ». 31 Così,
per esempio, in
principio della 4*
colonna: «Et tu
nota hoc prò Averoy,
quod anima intellectiva
non dat esse
corpori humano; sed hoc
quod dicitur est
mendatium purum, ut
in 3° ' De anima
' de- clarabo ».
E più oltre
(a metà della
stessa colonna) : « Unde
intellectiva anima apud ipsum
non creatur, sed
est eterna; et
in hoc Albertus, et
bene sicut fidelis
christianus, ei adversatur,
volens ipsam de
novo fieri per creationem,
et hoc secundum
Aristotelem ». 32 La
quale apparve soltanto
postuma nel volume
già cit. delle Acidissime questiones
super libros de
physica auscuUatione ab
Alberto DE Saxonia edite,
Venezia. A. Calcedonio
da Pesaro, M.
D.iiii., ff. 83 y-92
ra. i MISCREDENZA E CARATTERE
DI NICOLETTO VERNIA
IO9 Cum prius et
disputando et docendo
unum esse in
omnibus intellectum sic explicaveris,
ut totam pene
Italiani errare feceris, ut
aiunt malivoli tui
et minuti philosophi,
ut in epistula
tua ais, etsi istud
non senseris, fuisti
forte causa ut
alii hoc sentirent. Nunc opusculum
composuisti, quo sentire
te contrarium non solum
dicis verum etiam
probas. Quod cum
diligentia vidimus et approbamus.... Quo
circa, sive ita
senseris sive non,
opusculum istud componere precium
fuit, ut error
pessimus illius maledicti Averroys extirparetur.... Nihil
hac mihi re
gratius, nihil iis
qui te audiverant utilius,
nihil tibi, qui
apud miiltos ob
eam rem infamiam non
mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi
di questa non
mediocre infamia e
per impedire che si
parlasse di un
voltafaccia, mastro Nicoleto
insisteva nel dichiarare che
la difesa un
tempo da lui
assunta dell'averroismo non muoveva
da intima adesione
alla dottrina dell'unità
del- l' intelletto, ma era
fatta soltanto «
disputandi ac acuendi ingenii gratia
» 33. Era sincero
in questa sua
protesta, rinnovata con
solennità anche nel suo
testamento ? Per
il vescovo e
per l' inquisitore questo non
aveva importanza: ad
essi bastava il
fatto che, comunque l'avesse
pensata un tempo,
ora il sospettato
aveva fatto lodevole ammenda
del passato col
suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra
i suoi alunni
d'un tempo ve
n'era sicuramente qual- cuno che, assistendo
ai funerali e alla tumulazione
di lui nella chiesa
di S. Bartolomeo
a Vicenza, e
ripensando al carattere del
maestro, doveva sorridere
di questa commedia
e ripensare in cuor
suo alla novella
di Ser Ciappelletto. Nicoleto Vernia
non era precisamente
quello che si
dice un cuor di
leone. Nello stesso
suo testamento revoca,
come giu- ridicamente nulla, una
donazione de' suoi
beni alla moglie, fatta
sotto la minaccia
di morte da
parte del cognato
Pietro de Salvato. Nel i486,
era stato richiamato
all'ordine dal Senato,
perché pare facesse i
suoi comodi, leggendo
senza concorrente e tra-
scurando di studiare «con
grande lagnanza degli
scolari» 34. Il Nifo, già
suo alunno, ci
narra di lui
due episodi che
pos- sono servire a lumeggiarne
il carattere. Il
primo è meglio 33
Nella dedica al
card. Domenico Grimani
[ib., f. 83r).
Cfr. sopra, p. 99. 34
Ragnisco, Nic. Vernia,
pp. 622-623. Cfr.
qui sotto il
saggio successivo. no
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI riferirlo in
latino; Cum Nicoletus Theatinus,
praeceptor noster, sua
aetate peri- pateticus eximius,
ludibriis
ludificationibusqiie
oblectaretur, plu- rima
jecisse multi norunt.
Et inter prima,
cum Veronam peteremus, ut
baptizaremus puerum cuiusdam
communis discipuli, et
post crepusculum ad urbem
applicaremus, essetque caupo
prohibitus recipere iudaeos, qui
extra urbem hospes
erat, nobis hospitium conferentibus dixit:
— Te recipere
non possum, quia
prohibitus sum, — demonstrans
Nicoletum; — te
autem possum — ,
annuens me. Interrogantibus quare
respondit: — Quia
Iudaeos hospitari prohibitus sum.
— At praeceptor
subiecit: — Audi,
amice, a secretis. —
Et mox penem
praeputiumque ostendit. Quem cum vidisset,
hospitatus est nos. Il
Nifo aggiunge che
la mattina dopo,
sopraggiunti alcuni della città
ad incontrarli e a riverirli,
l'oste chiese umilmente scusa, mentre
mastro Nicoleto non si stancava
di raccontare a tutti,
uomini e.... donne,
il piccante episodio
35. L'altro aneddoto si
può raccontare anche
in volgare, seb- bene sia
assai più sconcio
del primo, se
è vero. Narra
dunque il Nifo che,
rimasta vacante a
Padova una cattedra
di diritto canonico, per
la morte del
titolare. Agostino Barbadigo,
che era allora capitanio
della città, era
sollecitato dagli studenti a
corpirla con un
dottore di diritto
canonico siciliano. Il
Bar- badigo annunziò che aveva
già pronto l'uomo
che faceva al caso,
e questi era
mastro Nicoleto. —
Ma Nicoleto è
un filo- sofo, — osservarono
quelli —, e di diritto
canonico non se n'intende
— -. Montato su
tutte le furie,
il magistrato li
manda a farsi impiccare,
e chiamato a sé Nicoleto
gli propose di
legger diritto canonico al
mattino, per 300
ducati d'oro, e
di conti- nuare a legger
filosolia nel pomeriggio.
Il maestro non
si pe- ritò di accettare,
effondendosi in ringraziamenti. Se
fin qui la faccenda
era abbastanza sporca,
il peggio vien
dopo. Gli studenti malcontenti
andarono da Nicoleto
a pregarlo di voler
far capire lui
stesso al Barbarigo
che il diritto
canonico non era il
fatto suo. —
Che io vada
a fare una
dichiarazione del genere ad
un uomo che
mi giudica sommo
in ogni ramo dello
scibile ? —
Gli studenti non
si scoraggiarono e
lo tenta- rono per un
altro verso: si che non
molto dopo, «
munusculis 35 A. NiPHi,
Opuscula moralia et
politica cum G.
Naudaei de eodem auctore
iudicio, Parigi, 1645,
De re aulica,
I, e. 87,
p. 335. MISCREDENZA E
CARATTERE DI NTCOLETTO
VERNIA III non mediocribus
acceptis ab illis
studentibus », si
presentò al Barbadigo e
con ogni rispetto
lo pregò di
liberarlo da un carico
che, data l'età,
pesava troppo sulle
sue spalle [36.
Chi oserebbe insinuare che l'
idea di
conferire a lui
una seconda cattedra (e
un secondo stipendio)
fosse ispirata al
Barbadigo dal Vernia stesso
? Ma non meno
interessante, per la
religiosità e F
indole mo- rale di lui,
è quel che
apprendiamo dalle lezioni
del Pompo- nazzi, che,
al pari del
Nifo, del chietino
fu alunno e
collega e, da ultimo,
successore sulla cattedra
di Padova. Il
ricordo del vecchio maestro
padovano e del
suo carattere faceto
e bizzarro accompagnò il
mantovano per tutta
la vita. Così
nella lezione 27 del
commento al De
sensu et sensato
37, tenuta nel
febbraio 1525, tre mesi
prima della morte,
accennando al modo
superfi- ciale col quale Pietro
d'Abano aveva trattato
un quesito in- torno ai
sapori, dice: «
eo modo quo
dicebat Nicolettus, prae- ceptor
meus, sicut mus
super farinam et
gatta super car- bones
». Un'altra volta,
a proposito del
noi usato spesso
da Averroè, ricorda: «Dicebat
Nicoletus: advertendus est
sermo; loquitur da papa,
ponendo numerum pluralem38)).
Nelle le- zioni sul terzo
della Fisica, narra
che il Vernia
aveva spacciata come sua
un'opinione che era
invece di Gaetano
da Thiene, come si
vide dopo la
stampa di questo
: « Magister
Nicoletus attribuebat sibi hanc
opinionem. Impresso Gaetano,
latro inventus est» 39. Un'altra
volta accennando alla
a via nomina- lium
», il Pomponazzi
aggiunge: «imo merdalium,
ut dicebat Nicholetus) » 40.In principio
del commento al VII della
Fisica, del nov.
1517, accenna a un
dissidio tra gli
scolari sui libri
di quest'opera che il
maestro avrebbe dovuto
leggere: Unde lepidissinms vir
nicholetus qui, curti
versaretur discordia inter scolares
(sicut modo versatur
inter vos), an scilicet
primi an ultimi libri
physicorum essent legendi,
dixit: Non timeatis,
quia ego unica lectione
legam omnes 4or
primos 41. 36 ib.,
p. 336. 37 Bibl.
Nation. di Parigi,
Cod. lat. 6536,
f. sgr. 38 Ib.,
Cod. lat. 6537,
In XII Metaphys.,
f. 135V. 39
Arezzo, Bibl. della
Fraternità de' Laici,
Ms. 389, Super
j° Physi- corum, i. 3o6r. 40
Ih., Ms. 389,
Super I Phys.,
f. 28v. 41 Bibl.
Nat. Parigi, cod.
lat. 6533, f.
284r. 112 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI Nello stesso
commento, in una
lezione del gennaio
1518, intorno ai sottili
accorgimenti di Averroè
per salvare Aristo- tele, narra del
suggerimento dato dal
Vernia a uno
scolaro ignorante che doveva
affrontare un esame: =Credo
ergo quod commentator
voluit dicere hoc;
sed sibi accidit ut
cuidam scholari patavii,
qui volens disputare,
et nihil sciebat, fuit
ad Niccoletum, qui
eum doceret. Volebat
enim iste scolaris ingredi collegium,
et non poterat
nisi disputaret. Quare
magi- ster Nicoletus dixit:
— Dabo tibi
unam responsionem ad
omne argumentum; distingue enim
et dicas: Tuum
argumentum tenet propter quia,
et mea conclusio
propter quid. Et ita
vult dicere Averrois....
Tamen possemus dicere
ad omnia illa argumenta....
Oportet enim scaramuzare quandoque
4-. Sempre nelle lezioni
sul VII della
Fisica, incontriamo un altro
aneddoto, ove il
Vernia è alle
prese con Francesco
di Nardo, in una
disputa di moda,
« de intentione
et remissione formarum »,
che concerneva la
dottrina dei «
calculatores », particolarmente invisi
al Pomponazzi: Et ubi
Aristoteles in hoc
loco {Phys., VII,
t. e. 32) fuit
parcus, Entisbery in suo
tractatu et Calculator
fecerunt de hoc
magnos tractatus.
Aristoteles enim dimisit
hec, quia ille
compositiones et ille truffe
spectant ad matematicum;
et calculatores latenter vincunt ph^dosophos;
interponunt enim geometricalia. Sed
philo- sophus, ut phylosophus
est, non se
intromittit ad hec. Et isti calculatores sophiste
appellantur; quare non se debent
intro- mittere in phylosophia,
sed in geometria.
Unde erat magister Franciscus neritonius,
(erat enim vir
doctissimus) , et in
uno ca- pitulo fratrum
erat etiam Nicholettus,
protesto ignorantissimus, et arguebat
domino francisco neritonio
in illa disputatione,
et in calculatione argumentabatur; et
dominus franciscus nesciebat respondere, quia
mathematica ignorabat. In hoc enim
argumento erat quater fortassis
totum alphabetum. Dominus
tamen fran- ciscus intrepide respondit
sibi, quod Nicholetus
fecerat ut conti- gerat
in suo capitulo
cuidam fratri, cui
prior comiserat ut
predi- caret de conceptione
virginis. Cum venisset
tempus predicandi, dixit ille
bonus vir qui
debebat predicare illa
die : O
domini audi- tores, ista
materia de conceptione
est tante difficultatis, quod non
poteritis numquam eam
percipere. Itaque, rogo
vos, ut loco istius
dimittatis me narrare
ystoriam sancti Alexandri,
quam 42 Arezzo, ms.
390, f. lygr.
Allo stesso episodio
il Pomponazzi aveva accennato anche
nelle lezioni In I de
anima (nel cod.
della Bibl. Na- zionale di Napoli,
Ms. Vili, D. 81 fol.
97v), che sono
dell'autunno 1503, ed ivi
fa il nome
dello studente somaro,
che pare sia un Baldassarre da Chiusi. MISCREDENZA E
CARATTERE DI NICOLETTO
VERNIA II3 promptissime capietis.
Sic etiain, dixit
dominus franciscus, con- tigit
domino Nicoleto :
qui dum in
hac materia quam
posuimus disputandam nihil intelligeret,
incepit nobis cum
suis argumentis calculatoriis narrare
ystoriam beati Alexandri
! 43. Ben più
grave è quanto
il Pomponazzi narrava
agli scolari, in una
lezione sul secondo
libro del De
caelo, tenuta a
Bologna il 28 novembre
1519. Stava esponendo
il testo 17,
e poiché taluni dicevano
che Dio e le intelUgenze
celesti « prima
in- tentione agunt propter
se «, mentre
le cose generabili
e cor- ruttibili « prima
intentione faciunt propter
alia et secundario propter se
», ha il
coraggio di dire
apertamente che non è vero:
Non videtur verum;
imo videtur totum
oppositum; quia quicquid homines
faciunt, [faciunt] primo
propter se, secundario vero propter
alios. Verbi gratia,
homines student: prima
intentio eorum est hicrari
scientiam et fieri
perfecti et eiusmodi;
secun- dario vero ut illustrent
domuin suam et
patrem etc. Unde
Ari- stoteles numquam somniavit,
quod deberet fieri
bonum ut iretur in
paradisum, et evitari
malum ne iretur
in infernum; sed
bene dicit quod debemus
exponere vitam prò
patria et eiusmodi,
et potius mori quam
committere peccatum, ut
acquiramus illarn virtutem, sciHcet
fortitudinem. Ergo quicquid
homo facit, prima intentione facit
propter se, ut
in omnibus discurrere
potestis. Ideo videtur fatuitas
philosophorum dicere hoc
de genera- biUbus, scilicet
quod primo agant
propter alia, et
secundario propter se. Unde
Nicoletus, vir lepidus,
qui non credebat,
ut ita dicam, dal
tecto in su,
cum sepissime audiret
beatum Bernardinum de Feltro
predicantem et in
suis predicis dicentem
: ' O
tu, attende tibi; o
tu, attende tibi,
mulier luxuriosa '
44, bonus Nicolettus emebat bonos
pullastros, fasianos, et si quis
diceret illi: ' Quid
vis tacere, o
Nicholette ? ',
respondebat: ' Volo
attendere mihi '. Item
rapinabat et eiusmodi,
et si dicebatur
illi: ' Quid
vis facere ? ', dicebat: 'Attendere
mihi volo'. Omnia
ergo faciebat propter
se 45. Lo stesso
ritratto morale del « buon
Nicoleto », il
Pompo- nazzi tracciava negh stessi
termini agli scolari
bolognesi in una lezione
sul primo delle
Meteore tenuta il
15 novembre 1522: 43
Arezzo, 1. e,
f. i68r. 44 Bernardino
da Feltre predicò
la quaresima a
Padova nel 1492 (cfr.
Wadding, Annui., XV,
p. 7, XV),
e di nuovo
vi fu nel
1494. quando « Patavium....
profectus, in Ecclesia
Cathedrali, assumpto ilio
trito suo themate '
Attende tibi ',
egregie populum de
rebus saluti maxime necessariis instruxit
« [Ib., 66,
XIV). 45 Parigi, Bibl. Nat., Cod.
lat. 6534, f. 131.114
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVIErat Padue
quidam frater sancii
Francisci de observantia, qui dicebatur
frater Bernardinus de
Feltro, qui predicabat
et in predicatione semper
dicebat: ' Attende
tibi, attende tibi
'. Unde Nicolettus, qui
legebat Padue, emebat
perdices, capones et multa
bona. Inde ipse
erat malus homo,
et prò uno
quadrante perdidisset
hominem, et nullum
habebat prò amico.
Unde, eundo ad predicam,
accepit illud verbum
' attende tibi
' suo modo,scilicet: attende
tibi, idest sguazza
et triumpha. Ideo
emebat perdices etc.46. Tale è
il ritratto morale
del Vernia quale
fu conosciuto dal Peretto:
miscredente, crapulone, rapinatore,
che per un
quat- trino avrebbe rovinato un
uomo, senza amici.
Così giudicava il Pomponazzi
l'autore delle Quaestiones
sulla pluralità de- gl'
intelletti e sull'
immortalità dell'anima, nel
quale ai revi- sori ecclesiastici deputati
dal Barozzi e al Barozzi
stesso era parso di
ravvisare il campione
stesso dalla fede,
che aveva debellato definitivamente l'averroismo
e l'alessandrismo ! Tuttavia
non va dimenticato
che dall'estate del
1496 al- l'autunno del 1499
il Peretto era
stato assente da
Padova, in seguito a
dimissioni dalla cattedra
da lui occupata
e sulla quale era
stato sostituito dal
Nifo 47. Ora
è sicuramente in questi
anni che la
crisi filosofica e
religiosa del Vernia,
ini- ziatasi nel corso del
1492, venne a
maturazione, se vera
crisi ci fu in
un uomo così
lepido e astuto.
E la testimonianza del Pomponazzi
non può aver
valore per gli
anni in cui
il man- tovano lo perse
di vista.Del resto,
queste oscillazioni tra
una spregiudicatezza quasi scettica e
il bisogno di
conformarsi all'ambiente religioso
e di accettarne il
formalismo, è tutt'altro
che alieno dall'
indole, piena di contradizioni, di
un uomo dell'età
di papa Borgia» 46
Ib., Cod. lat.
6535, f. jòyc. 47 Cfr. C.
Oliva, Note snW
insegnamento del Pomponazzi,
in «Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
VII, 1926, p. 181.ANCORA
QUALCHE NOTIZIA E
ANEDDOTO SU NICOLETTO VERNIA
* Ritengo che questo
ameno e spregiudicato
maestro, prima che a
Padova, si recasse
adolescente a Venezia,
in casa del Patrizio
Sebastiano Badoèr, nei
cui « lari
era stato educato
» il suo conterraneo
e parente Nicolò
Manupello da Chieti
', che, addottorato in
artibus a Padova
il 22 aprile
1444 -, vi s'addottorò anche
in medicina il 18 settembre
1450 3. Altri- menti non si
spiegherebbe come, nella
dedica dell'esposizione del Burleo
alla Fisica d'Aristotele
(Venezia, 1482), egli
po- tesse dire d'essersi affezionato
al Badoèr «
a teneris annis
», e come mostrasse
di conoscere così
a fondo la
storia leggen- daria di questa
famiglia. Dal testamento fatto
a Padova il
lunedì 2 novembre
1478, e pubblicato da
Paolo Sambin, si
conosce il nome
del padre, per esser
detto « clarissimus
artium et medicine
doctor dominus magister Nicolaus
filius honorabilis viri
ser Antonii de
civi- tate Theatina »
4. E lo
stesso si legge
nell'atto di donazione *
Dal « Giorn.
Crit. d. Filos.
Ital. », XXXIV,
1955, pp. 496-503- La
nota su Cristoforo
da Recanati è
inedita. I Expositio excel. mi
philosophi Giialterij de
burley anglici in
libros odo de physico
anditn Aristotelis stagirite
emendata per me
nicoletum verniam theatinimi publice
et ordinarie philosophiam
in gimnasio patti- vino
legentem Venetiis. M.cccc. Ixxxii.
die quintadecima mensis aprilis, dedicata
a Sebastiano Badoèr,
« censore del
comune di Venezia
»: Del Manupello si
legge appunto nella
dedica: « affinis
ac conterraneus meus clarissimus
phisicus et mediciis
Nicholaus manupellus Thea- tinus
in tuis laribus
fuit educatus ». ^
G. Erotto e
G. Zonta, Ada
graduum academicorum Gynnasii Patavini, ab
anno MCCCCVI ad
annum MCCCCL, Padova,
1922, n. 1825. 3 Ib.,
2437. 4 P. Sambin,
Intorno a N.
V., in Rinascimento,
III, 1952, p.
265, docum. I. Il6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI de' suoi
libri al monastero
di S. Giovanni
in Verdara, del giovedì
i6 gennaio 1483
(se il 16
gennaio di quell'anno,
e non piuttosto il
17, fosse caduto
in giovedì 5).
Dai quali due
docu- menti si rileva che
il buon Nicoletto
si lasciava passare
come « artium et
medicinae doctor »,
quando dottore di
medicina non era ! Nella
stessa dedica al
Badoèr si legge
: « cum
enim sub disci- plina clarissimi philosophi
pauli pergulensis essem,
a quo etiam tu
eruditus fuisti, pluries
ab eo audivi
te summum philosophum atque
theologum evasisse, nullumque
esse qui te in
docrina francisci de
marronis subtilisque doctoris
lohannis scoti antecelleret ».
Orbene: Paolo da
Pergola il 19
marzo 1442 era reggente
delle scuole annesse
in Venezia alla
chiesa di S. Giovanni
Elemosinarlo a Rialto,
nel quale anno
egli era anche piovano
di questa chiesa;
e reggente di
queste scuole restò fino
alla sua morte
nel 1455 ;
fu sepolto nella
chiesa di cui era
piovano 6, Tanto
Sebastiano Badoèr quanto
il giovane Nicoleto, e,
suppongo, anche Nicolò
Manupello, sono stati sotto
la disciplina di
Paolo a Venezia. Questa scuola
merita d'esser meglio
conosciuta, sia per gì'
insigni maestri che,
dopo il pergolese,
vi insegnarono, sia perché
nella seconda metà
del Quattrocento e
per tutto il Cinquecento essa
fu una specie
di succursale dello
Studio pa- tavino, nella quale
molti giovani veneziani
cominciavano gli studi di
logica e di
filosofia, che poi
andavano a completare
a Padova, ove s'addottoravano. Così
appunto sappiamo aver fatto
anche il giovane
chietino, il quale,
da Venezia, forse
dopo la morte del
pergolese, si recò
a Padova, ed
ivi, dopo essere stato
qualche tempo sotto
la disciplina di
Gaetano da Thiene, conseguì il
dottorato in artihus,
ma non in
medicina, il 30 maggio
1458, primo promotore
lo stesso maestro
Gaetano 7. Dopo questa
data, non si
hanno di lui
altre notizie fino
al- l' inizio dell'anno scolastico
1465-1466, quando fu
assunto alla lettura straordinaria di
filosofia. Dalla dedica
del Vernia 5 Ib.,
p. 266, docum.
III. 6 A. Segarizzi,
in Atti dell'
Istit. Veneto s.
1. a., LXXV,
1915-1916, p. 646 sgg.
e la breve
notizia dello stesso
in Nuovo Arch.
Veneto, N. S., LXV,
1917, p. 232.
Cfr. anche il
mio studio già
cit. Letter. e
cultura veneziana del Quattrocento,
pp. 111-118. 7 P.
Silvestro da Valsanzibio
O. F. M.
Cap., Vita e dottrina di
Gae- tano di Thiene, Padova,
1949, pp. 13-14- IANCORA QUALCHE
NOTIZIA SU NICOLETTO
VERNIA II7 stesso ad
Enrico Languardo, arcivescovo
di Acerenza e Ma- tera, del
volume di commenti
di Egidio Romano,
di Marsilio di Inghen
e d'Alberto di
Sassonia al De
generatione et corruptione, stampato a
Padova nel 1480,
veniamo a sapere
che dodici anni prima,
quindi nel 1468,
era stato chiamato
« ad legendum philosophiam in
locum quondam Gaetani
Thienei philosophi celeberrimi »
; carriera abbastanza
rapida che mal
si spieghe- rebbe senza l'appoggio
di potenti patroni
ch'egli aveva a Venezia. L' intervento di
questi patroni a suo favore
si fece palese, del
resto, nel maggio
del 1469, con
l'edificante episodio che traggo
dagli atti del
«Sacro Collegio dei
Medici e Filosofi»
di Padova ^, a
solazzo dei «
laudatores temporis acti
», i quali vanno
dicendo che certe
soperchierie avvengono soltanto
ai nostri giorni. Ecco dunque
l'episodio. Ma, prima
di narrarlo, bisogna
sa- pere che al Sacro
Collegio dei Medici
e Filosofi, che
aveva un numero limitato
di membri, erano
aggregati solo medici
e filosofi padovani e
veneziani, in numero
limitato, dopo aver
conseguita la laurea in
artihus e in
medicina, e a
seconda della disponibilità dei posti.
Da sapersi è
altresì che soltanto
ai membri del
Collegio spettava di farsi
« promotori »
dell'ammissione di coloro
che ne fossero degni
al « tentativum
» e al
« privatum examen
» per il conseguimento
del titolo di
dottore « in
artibus » e in medicina e
al primo «
promotore » toccava
il privilegio di conferire
le insegne del
grado al neo-dottore,
previo il giura- mento di rito.
Coloro che non
fossero cittadini padovani
o veneziani, ma fossero
maestri nello Studio
di Padova da molti
anni, sì che
non avessero più
bisogno di essere
« ballo- tati »
periodicamente, potevano essere
aggregati al Collegio, in
seguito al parere
favorevole dei membri
di questo e
con le cautele previste
dagli statuti. Ora sentite
questa. Un bel
giorno, e precisamente
il mercoledì 31 maggio
1469, il priore
del Sacro Collegio
dei Medici e
Filo- sofi di Padova, che
era il dottore
« in artibus
» Maestro Cri- stoforo da Recanati
(de rechaneto) 9,
udito il parere
dei con- siglieri, convoca il
Collegio in assemblea
straordinaria e tiene *
Arch. ant. dell'
Univ. di Padova,
S. Coli, de'
Med. e Filosof.,
voi. 312. b. 49r. 9
Su lui, v.
Facciolati, Fasti Gymnasii
Patavini, parte II, p. 104. Il8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ai convenuti
questo discorso: Famosissimi doctores,
causa convocationis excellentiarum ve- strarum
est ista, quia
die heri quidam
officialis Magnifici domini pottestatis padue
mihi mandavit, ex
parte prefati magnifici domini pottestatis,
quatenus hodie convocare
facerem collegium ad instanciam
d. M. Nicoleti,
et, in executione
literarum serenis- simi
ducalis domini] dicto
d. M. Nicoleto,
assignare debere locum in
collegio cum conditionibus
prout in dictis
literis continentur, et quod
unusquisque super hoc
dicat apparere suum
^°. L' intervento della Signoria
veneziana a favore
del filosofo chietino metteva
in serio imbarazzo
il Collegio, geloso
dei suoi diritti e
privilegi. Forestiero, laureato
nelle arti da
appena ii anni, lettore
di filosofia a
Padova da appena
quattro, il Vernia veniva
imposto dall'autorità politica
centrale, senza che il
Collegio fosse stato
nemmeno interpellato prima,
e senza una ragione
di particolari benemerenze
che gli dessero
la precedenza su altri.
Che modo di
procedere era questo ?
Vero è che
anche Maestro Cristoforo da
Re e anati
era entrato a
far parte del Collegio,
di cui egli
era priore, nel
maggio 1464, mentr'era «
legens ordinarie philosophiam
naturalem », per l'
intervento e l'imposizione dallo
stesso governo veneziano
e senza il
gra- dimento del Collegio stesso
". IO Arch. Ant.
dell'Univ. di Padova,
voi. 312, f.
4gr. " Maestro Cristoforo
Rappi (secondo C.
Benedettucci, Biblioteca recanatese, Recanati,
1884, p. 124)
da Recanati era
nato il 4
ottobre (giugno, sec. il
Benedettucci) 1423, ma
s'era addottorato in
artibus a Padova, il
3 febbraio 1454
(Arch. della Curia
Vescovile di Pa- dova, Diversovitìu, voi.
28, f. 23 v). Non
mi risulta la
data esatta del dottorato
in medicina, che
sicuramente ebbe luogo
pochi anni dopo. Ma
il 25 giugno
1462 ebbe dal
Senato veneziano un
aumento di stipendio come
professore di filosofìa
naturale da molti
anni nello studio patavino,
allo scopo di
impedire che egli
accettasse un invito fattogli dal
vicedomino di Ferrara;
« que res
universis scolaribus studii ipsius
molestissima est, non
sine incomoditate et
iactura nostri do- mini], quia si
recederet, omnes qui
illum audiunt, eum
sequerentur » (Arch. di
St. di Venezia,
Senato-terra, Reg. 5,
f. 12 r). Di queste
buone disposizioni del Senato
a suo riguardo
il Recanati non
tardò ad ap- profittare; poiché sotto
la data del 18 maggio
1464 si legge
{Ib., f. 79 r) : «
In studio nostro
paduano, ut notum
est, reperitur Clarissimus
doctor magister
Christophorus Recanatensis, legens
ordinarie philosophiam naturalem. Qui,
ut litere Rectorum
nostrorum et rectoris
Universitatis Artistarum
padue testantur, neminem
in Italia habet
parem. Et qui vehementer optai
prò honore suo
cooptari in collegio
Artistarum et me- dicorum
padue, in locum
scilicet primi qui
deficiet, et multi
prestan- tiorum doctorum ipsius
collegii hoc velie
et cupere videantur.
Vadit ANCORA QUALCHE NOTIZIA
SU NICOLETTO VERNI
A IIQ Ma sentiamo
come l'estensore del
verbale continua a
rias- sumere il discorso dell'avveduto
priore: Sed sibi videtur,
quod ( durum.
est centra stimulum
calci- trare » [Actiis, IX,
5; XXVI, 14].
Et quod ipse
non vult in
hac re nisi quod
vult totum coUegium,
ad quod omnino
oportet super hoc providere: aut
quod ipse d. M. Nicolletus
acceptetur in dicto
colle- gio iuxta tenorem literarum,
aut quod colligantur
duo experti qui sint
doctores dicti collegii,
et quod ipsi
accedant ad Magnifìcos dominos pretores
[sic, 1. rectores]
padue et etiam
ad Serenissi- mum dominium,
ad deffendendum iura
collegi] contra dictum
M. pars, ut dictus
magister christophorus, quo,
hoc gradu honoris
auctus, animatior et promptior
reddatur ad perseverandum
in sua lectura, Auctoritate hiiius
consilii cooptetur in
dicto Collegio, in
locum scilicet primi qui
quoquo modo deficiet.
De parte, 88;
de non, 12;
non sinceri 2 ». Ritengo che
di parere contrario
dovesse essere Ser
Vitale Landò, dot- tore e
milite, non che
« Sapiens terre
firme », il
quale ammoni « quod
serventur promissiones facte
collegio doctorum medicorum
et artistarum padue »,
evidentemente col rispettarne
i privilegi e
gli statuti. Anche allora
il Collegio aveva
pestato i piedi
e masticato amaro, ma
poi aveva finito
per rassegnarsi. Simili
ingerenze del governo
ve- neziano nelle faccende del
Collegio non erano
una novità: che
anche quando di Lauro
Quirini, veneziano e
« doctor artium
» da cinque
anni, pose la sua
candidatura per essere
accolto nel Collegio
padovano, ove i veneziani
avean diritto a un certo
numero di posti,
la decisione si trascinò
per oltre un
mese, finché la
domanda fu respinta
con 9 « ba- lote »
contro 8 (Arch.
Ant. dell'
Univ. di
Padova, Sacro Coli,
degli Artisti, voi. 309,
ff. 122 v-r27
V, 15 apr.
i maggio -1845). Dopo
la morte di
maestro Gaetano da
Thiene (18 luglio
1465), Crist. da Recanati
fu chiamato dal
Senato veneto con
voto unanime del 9
sett. 1465 (Senato-terra, Reg.
5, f. 134
v) a succedergli
nella prima lettura ordinaria
di filosofia. Morì
il 30 marzo
(gennaio, sec. il
Bene- dettucci) 1480 a
56 anni, e
fu sepolto nella
chiesa delle monache
di S. Francesco dell'
Osservanza, « in
vico pontis Altinatis
», in un'arca di
pietra « cum
doctoris effigie dormientis
», e un
epistaffio che lo
rac- comandava ai posteri come
« medico celeberrino
et philosophorum inclyto, quem
universae Italiae Gymnasia
peripateticae scholae prin- cipem
luxerunt » (lac.
Salomonius, Insc. ript.
Urbis patav. Padova, 1701,
p. 211, n.
20). Io, purtroppo,
non conosco se
non le Quaestiones recollectae super
Calciilationes sub magistro
Chistophoro de Recaneto, huius artis
principe, die sabbati
mensis novembris 1469,
in festo sanctae Catharinae ».
Ma il Coxe,
Catal. Mss. Bibl.
Bodl., Ili, Oxonii,
1854, segnala l'esistenza di
un'esposizione Magistri Christofoli
de Reganato super de celo
et niundo ad
instanciam Magistri.... Yeronimi
de Cam- marino, e
forse anche sul De physico
auditu (n. 279,
col. 644-45), non- ché di
certe pillulae magistri
Christophori Rechanatensis (n.
488, 5, col. 810).
È un po'
poco per giudicare
delle lodi che
gli tributarono i con-
temporanei. Ad ogni modo,
è inesatto quello
che scrive il
Facciolati, Fasti Gymnasii Patav.,
II, p. 104,
che egli «
primus averroi auctori- tatem in
Gymmasio Patavino conciUasse
dicitur, eius commentarla
in philosophando unice secutus
». Prima di
lui c'erano stati
Paolo Veneto e Gaetano
da Thiene, di
cui il recanatese
era stato discepolo. I20 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Nicoletum, et
petere quod diete
littere revocentur, tanquam impetrate et
concesse contra formam
statutorum dicti collegi],, ipso collegio
et iuribus suis
inauditis. Et super
hoc factis multis
sermonibus et arengationibus, prefatus dominus
prior posuit ad
partitum, quod quibus
placet quod acceptetur in
collegio d. M. Nicolectus
iuxta tenorem lite- rarum
Serenissimi domini], ponat
suffragia sua in
pisside rubea; quibus vero
placuerit quod defensentur
iura collegi] contra
dictum Magistrum Nicoletum [per]
expertos dicti collegi],
ponat balotam suam in
pisside viridi. Et
facto scrutinio cum
bussolis et balotis, invente fuerunt
balote quinque in
pisside rubea, in
favorem dicti M. Nicoleti,
et balote xv] in pisside
viride, quod defensentur iura collegi]
contra dictum Magistrum
Nicoletum ^~. Cinque contro
sedici costituisce un
bello scacco per
ser Nicoletto. Tuttavia è
notevole che cinque
membri del Collegio si
mostrassero disposti, fin
dal primo momento,
a incassare il colpo,
non ostante l'affronto
al corpo. Lo
facevano per sim- patia verso il
filosofo chietino, o
perché eran persuasi
anch'essi che « durum
est contra stimulum
calcitrare » ?
Si trattava ora di
eleggere coloro che
dovevano assumersi la
difesa dei diritti del
Collegio al cospetto
dei rettori della
città e del
go- verno della Serenissima. Deinde posuit
[prior] ad partitum,
de consensu dominorum consiliariorum, quod
quibus placet quod
elligantur d. M.
Nicolaus de Sancta
Sophia, d. M.
Ioannes Michael [de
Bredepalea], d. M. lacobus
[f. q. mag.
Gratiadei] de Veneti]s
et d. M. Ioannes Petrus
de carari]s, qui
accedant ad Magnificos
pretores [/. rectores] padue et
ad Serenissimum dominium
Venetiarum, ad deffen- dendum iura
et statuta dicti
collegi] contra d.
M. Nicoletum et literas
per ipsum impetratas,
ponat balotam suam
in pisside rubra; quibus
vero non placet,
ponat balotam suam
in pisside viride. Et
facto scrutinio invente
sunt balote xx]
in pisside rubra, et
balote due in
pisside viridi negante.
Et sic fuerunt
ellecti. In questo verbale
v' è un
piccolo dettaglio che
potrebbe fa- cilmente
sfuggire. Il messo
del podestà aveva
detto, a nome di
questo, che fosse
riunito il Collegio
e che ogni
membro di- cesse la sua
intorno alla faccenda
: « et
quod unusquisque super hoc
dicat apparere suum
». E l'estensore
del verbale ci assicura
che furono fatti
dai convenuti molti
« discorsi e ar- ringhe
» in
proposito e a
sproposito. Gli animi
della maggio- 12 Arch.
ant. delI'Univ. di
Padova, voi. 312,
f. 49 v. I ANCORA
QUALCHE NOTIZIA SU
NICOLETTO VERNIA 121 ranza
s' infiammarono nel denunciare
l'affronto fatto al
Sacro Collegio e ai
suoi statuti, e
infiammati.... si suggestionavano a vicenda
sino a prendere
le decisioni che
presero quel merco- ledì 31 maggio. Ma
tornato a casa,
ognuno di quelli
che avevano gridato piti
forte contro la
soperchieria che si
perpetrava da parte della
Serenissima Signoria, si
sarà messo a
riflettere che anche le
mura della chiesa
di S. Urbano,
ov'eran raccolti, avevano orecchie, e
probabilmente più d'uno
si sarà morsa,
un po' tardi, la
lingua. Fatto sta che
il venerdì 2
giugno il Sacro
Collegio fu di
nuovo convocato dallo stesso
priore, non più
nella chiesa di
S. Urbano, ma «
in palatio Episcopali,
hora xxij ».
Il priore si
fece eco delle considerazioni che
due giorni di
riflessione avevano ma- turato nell'animo dei
suoi magnanimi colleghi,
e parlò un
lin- guaggio più circospetto. Illico et
immediate prefatus prior
dixit: famosissimi domini doctores, vos
vidistis Mandatum mihi
factum nomine collegij [/.
Potestatis], ut accipere
debeamus omnino in
collegio, in exe- cutione
literarum ducalium, d. M.
Nicoletum, prout in
literis ducalibus
continetur. Mihi videtur,
ne videamur esse
inobedientes et rebelles Hteris
Serenissimi domini] Venetiarum,
quod bonum esset ipsum
d. M. Nicoletum
acceptare in dicto
collegio ad ul- timum
locum, cum protestacione
quod non intendimus
ipsum acceptare in preiudicium
iurium et statutorum
nostrorum, et quod reservamus
nobis ius prosequendi
iura nostra centra
dictum d. M. Nicoletum
et petendi revocationem
dictarum literarum tanqviam indebite,
collegio nostro inaudito,
concessarum et com- missarum
dicto d. M.
Nicoleto. Et ita
satisfaciemus Voluntati Serenissimi dominij
impune et absque
alio inconvenienti et
schan- dalo dicti collegij. E
COSÌ fu deciso.
Un paio di
settimane dopo, e
precisamente dal martedì 20
giugno ^3, «Nicoletus»
comincia a figurare
in coda alle liste
dei membri del
Collegio; poi, man
mano che altri membri
entrano a farne
parte, il suo
nome dall'ultimo posto passa
al penultimo, e, su su,
in una ventina
d'anni di- venta uno dei
primi, e comincia
ugualmente a figurare
in quelle dei promotori
nei verbali di
dottorato. Della protesta e
della riserva cui
accennava il priore
del Collegio, l'egregio 13
Ib., f. 52 V. 122 l'aristotelismo PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI dottore in
artihus Maestro Cristoforo
da Recanati, non si
parlò più, ritenendosi
che il fatto
ricadesse sotto l' impero
di quello che i
giuristi pisani chiamavano
1' « ius
mengicum seu gengicum de
praescriptione », e che molti
filosofi molto filo- soficamente ritengono un
« precipitato storico
della giustizia eterna » ! Nove anni
dopo, esattamente il
lunedì 2 novembre
1478, il povero Nicoletto,
sano per grazia
di nostro Signor
Gesù Cristo « mente
et sensu »,
era tuttavia «
corpore languescens »; e
pare si trattasse
di malattia piuttosto
seria, se in
quel giorno provvide a
far testamento, disponendo
dei suoi averi
a fa- vore del monastero
di S. Giovanni
in \'erdara a
Padova '4. Da questo
documento confrontato col
testamento del 1499, pubblicato dal
Ragnisco ^S appare
che nel 1478
egli a Padova abitava «
in contrata burgi
Capellorum » e
non ancora « in contrata S.
Lucie», come nel
1483, se questa
data è esatta
^^, né ancora «in
contrata putei Bonelli»,
come nel 1499
'7; risulta parimente che
non era ancora
cittadino di Vicenza,
che non disponeva dei
possessi di Colze,
e non si
sa se ancora
avesse avuto a che
fare con la
famiglia vicentina Dalla
Scrofa. Questi rapporti sono
strettamente connessi con
l'acquisto poco chiaro della
cittadinanza vicentina e
della villa di
Colze, quando i suoi
guadagni erano aumentati
assai. Su tutti
questi punti potrebbero far
luce ricerche negli
archivi notarili di
Padova e di Vicenza. Ad
ogni modo, parrebbe
che le sue
fortune cominciassero a prosperare,
scapolato alla morte,
dopo il 1481;
ed anche al- lora con
l'appoggio di autorevoli
patroni. Dal primo
dei tre documenti pubblicati
da R. Persiani
^^, si rileva
che l'amba- 14 Cfr.
P. Sambin, /.
e. Sui rapporti
del Vernia coi
canonici Regolari Lateransi del
monastero di S.
Giovanni in Verdara
a Padova gette- ranno luce le
ricerche dello stesso
Sambin sulla biblioteca
di questo monastero. Uno
studio sulla tomba
del Vernia e
sui rapporti di
lui con gli stessi
Canonici Lateranensi del
monastero di S.
Bartolomeo a Vi- cenza sta
per dare in
luce negli Atti
dell'Accademia vicentina, il
prof. Antonio della Pozza,
direttore della Bertoliana. 15 In
«Atti e Memorie»
dell'Accad. di Se.
Lett. ed Arti
di Padova, Anno 292,
1890-1891, N. S.,
voi. VII, disp.
3^, p. 280.
V. sopra, p.
000. 16 Poiché il
16 genn. 1483,
non cadeva in
giovedì, come nel
docum. Ili pubblicato dal
Sambin, ma in
mercoledì. Quindi o
è sbagliato l'anno, oppure il
giorno. 17 Ragnisco, /.
e, p. 284. 18
In La Riv.
Abruzzese di Se,
Leti, ed Arti,
Vili, 1893, pp.
211-212. ANCORA QUALCHE NOTIZIA
SU NICOLETTO VERNIA
I23 sciatore napoletano, Dott.
Aniello Arcamona, s'adoprava
in quest'anno presso il
Senato veneziano, perché
il famoso dot- tore Maestro Nicoletto
da Chieti, che da più
anni leggeva a Padova
la filosofia ordinaria
« cum maxima
elegantia et suf- ficientia ac
contentamento omnium »,
fosse confermato in detta
lettura « ita
ut non subiaceat
de cetero ulli
ballottationi ». Era già
aggregato al collegio
! La domanda
fu accolta con
122 voti favorevoli, e
uno solo contrario. Molto più
importante è il
secondo documento pubblicato dallo stesso
Persiani, del 13
dicembre 1487. Da
esso si rileva che
ser Nicoletto, ottenuta
la stabilità a
vita, aveva messo
su boria, e «sub
pretextu quod non
habeat ccncurrentem sibi parem,
obtinuit pridem a
dominio nostro litteras,
per quas ei concessum
fuit ut legere
possit bora extraordinaria, quo fit
quod venit eo
modo carere concurrente
». Quanto al credersi
superiore ad ogni
altro professore che fosse
a Padova, e
magari sotto la
cappa del cielo,
il Vernia fu buon
maestro ad Agostino
da Sessa, che
si riteneva « il primo homo
dil mondo »,
com'ebbe a dichiarare
al console veneziano a
Napoli, Lunardo Anselmi
'9. In questo
sì il maestro che
lo scolaro eran
ben lontani dalla
modestia del Peretto
man- tovano che preferiva di
confessare con Socrate
: « Hoc
unum scio, quod nihil
scio » -°. Ed
anche questa volta
ser Nicoletto era
riuscito ad otte- nere r
insolito privilegio con
lettera della Signoria
veneziana. Ma egU non
aveva fatto i
conti con gli
studenti, che, per
quanto chiassosi, erano anche
allora i migliori
giudici della capacità dei
loro professori. E
gli studenti appunto
protestarono per r immeritato
privilegio e per la flagrante
violazione degli statuti accademici
da parte di
coloro che avrebbero
dovuto esserne i vigili
tutori. L' istituto della concorrenza
a Padova esigeva
che per ogni materia
professata i lettori
ordinari fossero due,
e che leggessero e
commentassero gli stessi
testi negli stessi
giorni e alla stessa
ora. Gli studenti
potevano ascoltare la
lezione dell'uno o dell'altro
concorrente, scambiandosi poi
gli appunti e le
impressioni, e avviare
discussioni, sollevando obiezioni 19
M. Sanuto, Diarii,
VII, 678. 20 Giorn.
Crii. d. Filos.
Hai., XXXIII, 1954,
pp. 91-92 e
341-342. 124 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI alla fine
della lezione, e
continuando le discussioni,
avviate entro l'aula, al
circolo dei filosofi,
che più tardi
ebbe la sede sotto
il portico del
podestà, a pochi
passi dal Bò. L'
intento perseguito con l' istituto
della concorrenza era
quello di obbli- gare i
professori a tenersi
al corrente ed
a studiare :
« Et hoc ut
fiant dihgentissimi coactique
sint studere, et
ex conse- quenti satisfacere habeant
scolaribus audientibus ». Ora
Mastro Nicoletto, ottenuto
il privilegio di
leggere senza concorrente, «
hora extraordinaria »,
scelta a suo
piacimento, dice il documento
pubblicato dal Persiani,
« minime curat studere, fitque
negligens cum magna
murmuratione scolarium, qui, hanc
ob causam, relieto
studio, venerunt ad
presentiam nostri domimi et
indolentes {sic, 1.
dolentes) supplicantur ut forma
et continentia ipsorum
statutorum superinde loquen- tium
sibi observetur ».
Non saprei se
fra quei cari
studenti v'era anche il
Pomponazzi, il quale
si laureò in
artihus appena qualche mese
prima che il
Senato obbligasse il
maestro chie- tino a rispettare
gli statuti sul
fatto della concorrenza
e a rinunziare al
privilegio abusivamente concessogli
(13 dicem- bre 1487). Ultimo
aneddoto della vita
padovana del Vernia
è il suo dottorato
in medicina avvenuto
un po' alla
chetichella il 29 dicembre
1495. L' 8
settembre dello stesso
anno, dopo trent'anni d' insegnamento della
filosofia naturale, in
ricono- scimento dei suoi meriti,
la Signoria veneziana,
con l'appro- vazione di tutto
il Consiglio, gli
aveva finalmente concesso il
raro privilegio che
un tempo era
stato concesso, per
le loro benemerenze, a
Gaetano da Thiene
e a Maestro
Cristoforo da Recanati, di
leggere senza concorrente.
Parrebbe che ormai non
dovesse avere altra
aspirazione che quella
di portare a compimento
le Quaestiones de
pluralitate intellectus contra falsam
et ah onini
ventate remotam opinionem
Averroys, per riguadagnarsi la
stima del vescovo
di Padova e
per ottem- perare all' invito
del doge Agostino
Barbarigo, dimostrando falsi e
calunniosi i sospetti,
che si susurravano
« in angulis
», di una sua
adesione all'averroismo. Doveva
essere sulla set- tantina. Eppure alla
distanza di trentasette
anni dal dottorato in
artihus non esitava
a sottoporsi agli
esami per conseguire il
titolo di dottore
in medicina. Promotori
furono i suoi
col- leghi Giovanni
Aquilano, Lorenzo da
Noale e Girolamo
da Verona; testimoni i
patrizi veneziani Lorenzo
Donato e Vin- { ANCORA QUALCHE
NOTIZIA SU NICOLETTO
VERNIA I25 cenzo Quirini,
e i maestri
dello Studio Pietro
Pomponazzi e Antonio Francanziano -^ Che
cosa l'avrà spinto
a procacciarsi il
titolo di medico
a quell'età ? e
a che cosa
poteva giovargli ?
La risposta forse potremo
trovarla in questa
notizia che si
legge nei Diarii di
Marin Sanudo --,
« a di
2 zener »
[1499]. Vene li miedigi
di collegio di
questa terra [Venezia],
expo- nendo, conzò sia che
a tempo di
le vachation maestro
Zuan de l'Aquila, maestro
Nicoleto, maestro Hironimo
da Verona et maestro
Gabriel Zerbi, medici,
legevano a Padoa,
venissero a miedegar in
questa terra; per
tanto chiedevano, nel
tempo ste- vano dicti
medici qui, facessero
le angarie come
Ihoro, sì da pagar
il medico in
armada etc. E
li fu concesso,
et cussi per la
Signoria, consulente collegio,
fo terminato in
scriptura. Ecco a che
cosa doveva servire
la laurea in
medicina: ad andare «
a miedegar »
a Venezia durante
le vacanze, facendo concorrenza ai
medici del luogo,
sia col fatto
di essere maestri di
medicina dello Studio
patavino, sia perché
questi padovani non facevano
« le angarie
» che dovevano
fare i medici
vene- ziani « sì da
pagar il medico
in armada ».
Lo stipendio di 180
fiorini non pareva
abbastanza al filosofo
chietino, che, al
dire del Pomponazzi, «prò
uno quadrante perdidisset
hominem» -3, e doveva invidiare
i guadagni che
i colleghi medici
traevano, nel periodo delle
vacanze, a Venezia,
dall'esercizio della loro arte. Due di
essi, Giovanni Aquilano
e il veronese
Girolamo della Torre, erano
stati suoi promotori,
ed entrambi godevano di
onorata nominanza a
Padova e altrove
per la loro
perizia nel « miedegar
», sì che
la loro opera
era molto ricercata.
Ma di gran lunga
più celebre era
Gabriele Zerbi, anch'esso
vero- nese, anatomista e avversario
di Iacopo Berengario
da Carpi, ■che gli
muove gravissime accuse,
forse infondate o
almeno esagerate. Appena sei
anni più tardi,
nel 1505, morì
di morte •efferata, nel
viaggio di ritorno
dalla Turchia, ove
la sua fama di
medico era giunta,
recatavi dai veneziani. 21 Padova,
Arch. d. Curia
Vesc, Acta graduum,
voi. 44, f.
290 r. V. sotto,
p. 162. " I,
314- 23 V. sopra,
pp. 114. 120 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Coiraiuto compiacente
di questi e
altri colleghi, il
29 di- cembre 1495, il
filosofo chietino ebbe
dunque le insegne
di dottore in medicina,
conferitegli da Giovanni
Aquilano, e quattro anni
dopo lo troviamo
a Venezia «
a miedegar », in sieme a
Giovanni Aquilano, a
Gerolamo da Verona
e Ga- briele Zerbi, ai
quali la piacevole
compagnia del faceto
filo- sofo non doveva riuscire
ingrata. Ma bel gioco
dura poco. Ed
il primo ad
abbandonare il quartetto fu
proprio maestro Nicoletto,
il quale fece
appena in tempo a
preparare per la
stampa il libro
che lo faceva
tor- nare nelle buone grazie
del Barozzi. Il
3 agosto 1499,
a Vicenza, dettava le
sue ultime volontà,
e due mesi
dopo trovava pace nella
tomba presso i
Canonici Regolari Lateranensi
della stessa città -4. 22
Sotto al bel
monumento sepolcrale che
ora trovasi nella
cap- pella dell' Ospedale Civile
di Vicenza, e
già da me
riprodotto in «
Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXVI, 1955, pp. 496-97,
si legge questa
iscri- zione, in cui è
fatta speciale menzione
della sua ultima
opera: « Ni- co[letus], Phi[losophus]
Cla[rissimus], De animi
plu[ralitate] ac fel[i- citate] edito
libro, Pat[avina] in
Acca[demia] anni[s] XL
flor[uit]. Obiit III
Nonas Octobris M. CCCC.
LXXXXVIIII. VI LA MISTICA AVERROISTICA E PICO
DELLA MIRANDOLA = Comunemente, quando
si parla oggi
d'averroismo, vien fatto di
pensare alla dottrina
dell'unità dell' intelletto
possibile per tutta la
specie umana; la
quale dottrina vien
designata, con un vocabolo
moderno che si
direbbe coniato apposta
per ac- crescere la confusione,
«pampsichismo». Ma rari
sono coloro che dell'averroismo mettono
in evidenza quella
tipica dottrina mistica che
fu uno degli
argomenti maggiormente discussi, fra
gli averroisti e
i loro avversari,
dalla fine del
secolo XIII a tutto
il XVI. E,
ciò che è
più strano, ne
tacciono sia il
Man- donnet che il
Van Steenberghen nelle
loro massicce diffuse monografìe dedicate
a Sigieri di
Brabante. Eppure la mistica
averroistica era stata
fatta oggetto di ampia
discussione da parte
di S. Alberto
Magno, di S.
Tommaso e di Sigieri.
Sebbene non fosse
stato ancora tradotto
in latino il trattatello
De animae beatitudine,
essi conoscevano bene
il commento e l'ampia
disgressione d'Averroè sul
testo XXXVI del terzo
libro del De
anima, assai più
importante di quel piccolo
trattato, e per
chiarezza e per
compiutezza. In questo testo
del De anima,
s'accenna al problema,
se è possibile che l'
intelletto unito al
corpo arrivi a
conoscere le sostanze separate.
Ivi Aristotele promette
che questo argo- mento sarà discusso
più tardi ' ; a
noi per altro
non è giunto alcuno
scritto dello Stagirita,
nel quale il
problema ora ac- cennato sia risolto.
S. Tommaso, dopo
aver dubitato che Aristotele, sorpreso
dalla morte, fosse
mai pervenuto a
trat- * Dal volume
Umanesimo e Machiavellismo dell'
« Archivio di
Filo- sofia », Padova, Editoria
Liviana, 1949. I Arist.,
De Anima, III,
t. e. 36,
e. 7, 43ib
18-19. 128
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tare delle sostanze
separate -, finì
per credere che
il problema fosse risolto
dallo Stagirita in
un'opera non ancora
tradotta in latino che
gli era stata
mostrata 3. Anche
Alberto Magno, che a
questo problema dedica
il suo trattato
De intellectu et intelligibili, ritiene
che quest'opera, rimasta
sconosciuta a lui, era
ben nota a
molti dei discepoli
d'Aristotele, i quali
si sarebbero ispirati ad
essa in quei
numerosi scritti che
Alberto ben conosceva e
nei quali credette
di trovare il
fior fiore del- l' insegnamento aristotelico
4. Neil' intento di
chiarire il pensiero
di Aristotele su
questo punto, commentatori greci
come Alessandro d'Afrodisia
e Temistio, o arabi
come Alf arabi, Avicenna
ed Abu Baker Avenpace, avevano
cercato negli scritti
dello Stagirita quale, a
loro avviso, dovesse
essere la soluzione
di quel problema, conforme ai
principi della filosofia
peripatetica. Averroè, venuto dopo
costoro, aveva intrapreso,
nel detto commento al
testo XXXVI del
terzo del De
anima, una vivace
critica delle loro teorie,
in parte rigettandole
e in parte
sforzandosi di correggerle. Alessandro d'Afrodisia
aveva ritenuto che
l'uomo potesse arrivare alla
conoscenza del mondo
immateriale mediante la «
copulatio » dell'
intelletto potenziale con l'
intelletto agente. L' intelletto potenziale
è, per l'Afrodisio,
una semplice pre- parazione o disposizione
dell'organismo vivente di
vita sen- sibile. L'
intelletto agente invece
è la causa
prima di tutte
le cose, la quale,
irraggiando la luce
dell' intelligibilità sulla
ma- teria, la plasma e
trae dalla potenzialità
di essa tutti
gli esseri del mondo
corporeo. Questi imprimono
le loro qualità
dapprima sui sensi esterni
; e per
mezzo di queste
prime impressioni susci- tano l'attività dei
sensi interni e
particolarmente dell' imma- ginativa. L'attività conoscitiva
degli animali inferiori
al- l'uomo s'arresta qui. Ma
l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione
dell' intelletto agente,
è dotato d'un
principio vitale più perfetto
che tende più
su. V è in
esso una capacità
o disposizione che,
per quanto le- gata all'organismo vivente,
lo porta ad
aprirsi una veduta
sul 2 S. Tommaso,
De anima, III,
lez. 12 in
fine. 3 S. Tommaso.
De imitate intellectus
cantra averr., ed.
L. W. Keeler, Roma, Pontificia
Univ. Gregoriana, 1936,
Cap. I, 42,
p. 27. 4 Alb.
Magno, De intellectu
ed intelligibili, I
tr. i, e. i.
MISTICA AVERROISTICA E
PICO DELLA MIRANDOLA
129 mondo intelligibile. Questa
capacità o disposizione
è ciò che Aristotele avrebbe
chiamato l' intelletto in
potenza. Soltanto la luce
inteUigibile dell' intelletto
agente, la quale
avvolge € vivifica tutta
la natura, può
trarre all'atto questa
pura potenziaHtà. Ma la
luce divina dell'
intelletto agente attua r
intelletto potenziale per
gradi : prima
per mezzo degl'
intel- ligibili astratti dai fantasmi
dell' immaginativa ;
poi per mezzo delle
scienze speculative ;
finalmente, quando l' intelletto umano è
intelletto in atto o in
abito, l' intelletto agente,
cioè la luce divina,
lo riempie di
sé, lo informa
e lo rende
capace di contemplare in
se stesso il
mondo divino dei
puri spiriti. Siccome in
questo stato l' intelletto
contempla Dio per
mezzo di Dio stesso,
esso è detto
« intelletto acquisito
». La teoria d'Alessandro, con la
sua graduale ascesa
della mente umana a
Dio, che nell'ultimo
grado della sua
elevazione finisce per essere
deificata, sembra aver
sedotto Averroè. Il quale,
per altro, ne
scorge acutamente le
difficoltà. Se il punto
di partenza di
questa ascesa verso
il divino è l'
intel- letto in potenza, e
se questo è
semplice attitudine dell'anima sensitiva essenzialmente legata
all'organismo del quale
su- bisce le vicende, bisognerebbe
ammettere che una
virtù or- ganica, generabile e
corruttibile, vincolata cioè
dalle condi- zioni dello spazio
e del tempo,
fosse capace d'elevarsi
alla conoscenza di ciò
che è universale,
libero cioè dallo
spazio e dal tempo,
ossia dalle condizioni
della sensibilità o,
come si diceva nel
medio evo, della
materia. Si può
bene intendere, fino ad
un certo punto,
che la causa
prima operi, come
causa agente, sul mondo
materiale e sull'intelletto potenziale; ma non
si riesce a
capire in che
modo l' intelletto agente
possa farsi forma d'una
virtù organica e
renderla simile a
sé. L' « in- telletto
acquisito» è concetto
che non è
punto chiaro. In
quanto « acquisito »
parrebbe qualcosa di
diverso dal soggetto
che lo acquista; ma
non si vede
come un soggetto
corruttibile possa acquistare e
far suo l'eterno. Per
queste ragioni parve
ad Averroè che l'
intelletto poten- ziale non dovesse
essere « ncque
corpus ncque virtus
in corpo- re »;
in altri termini,
la natura di
siffatto intelletto vuol
essere sciolta da ogni
intrinseco legame colla
materia. Sostanza se- parata esso stesso,
l' intelletto possibile diviene
capace di quella ascesa
al mondo delle
sostanze separate, mediante
la « copulatio »
coir intelletto agente. 9 130 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Anche Abu
Nasar Alfarabi s'era
fermato a meditare
sul problema posto da
Aristotele e sulla
soluzione che ne
aveva dato Alessandro. E
nella sua opera
intorno all' Etica
Nico- machea, avendo accettata
la dottrina del
commentatore greco suir intelletto
possibile, s'era limitato
a considerare l' intel- letto agente come
causa attiva del
passaggio di quello
dalla potenza all'atto, e
non come forma
che s'unisce ad
esso. In- vece, nel trattato
De intellectu et
intelligibili , Alfarabi ammise che
r intelletto possibile,
già pienamente attuato
dagl' intel- ligibili tratti del
mondo sensibile, diventa
soggetto d'una più intima
unione coli' intelletto
agente, dal quale
riceve una più copiosa
illuminazione che gli
dischiude la vista
del mondo sovrasensibile. In
questa unione coli'
intelletto agente, cui serve
di preparazione l'acquisto
delle scienze speculative,
e che anche Abu
Nasar chiama «
intelletto acquisito «
{intel- lectus adeptus), consiste
la suprema perfezione
della mente umana e
la beatitudine finale
dell'uomo 5. Ma
Averroè e' in- forma, nel De
animae beatitudine ^, che il
povero Abu Nasar, giunto
al fine de'
suoi giorni con
la ferma convinzione
di po- tere arrivare a
questo alto grado
di perfezione, cui
s'era appa- recchiato
procacciandosi tutto il
sapere a lui
accessibile, come s'accorse che
non c'era arrivato,
ebbe a dichiarare
im- possibile e vana l'aspirazione
a congiungersi con
le sostanze separate, ritenendo
ormai favole da
vecchierelle le descri- zioni puramente immaginarie
che taluni facevano
dell'uomo pervenuto a tale
sovrumana altezza. Quest'umile riconoscimento della
limitatezza del sapere umano
fatto da Alfarabi,
ormai sul passo
estremo, non aveva per
altro scoraggiato Abu
Baker Avenpace. Il
quale, dice Averroè 7,
s'adoperò a lungo
a risolvere l'arduo
problema, senza perderlo di
vista un batter
d'occhio. Oltre che
nel suo commento al
De anima, Avenpace
tratta di questo
argomento in « molti
altri suoi libri
», di due
dei quali conosciamo
i titoli: 5 Alpharabii,
De intellectu, nell'edizione
di Avicenna, Opera....
per canonicos emendata. Venezia,
eredi di Ottaviano
Scoto, 1508, fol.
68, col. 4. Il
trattatello è stato
ristampato nella traduzione
latina da E. GiLSON,
in Archives d'
hist. doctr. et
litt. au moyen
8ge, 1929. Cfr. B. Nardi,
introduzione a S.
Tommaso d'Aquino, Trattato
sull'unità del- l'intelletto
contro gli averroisti,
Firenze, Sansoni, 1938,
p. 32. 6 Capp.
3-4; cfr. A.
Nifo, In Averrois
de animae beatitudine,
Venezia, eredi dì O.
Scoto, 1520, I,
testo 59, e
II, t. 11. 7
Avere., De Anima,
III, comm. 36,
digress., parte II
e III. MISTICA AVERROISTICA E
PICO DELLA MIRANDOLA
I3I r Epistula de
perfectione 8, e
il Tractatus de
copulatione. Anche la teoria
di questo pensatore
si ricollega strettamente
a quella di Alessandro
e d'Alfarabi, per
quanto concerne la
natura dell' intelletto potenziale
e nel ritenere
che alla conoscenza delle sostanze
separate si possa
giungere per mezzo
del sapere speculativo, ossia
della progressiva attuazione
dell' intelletto, in potenza.
L'atto col quale
l' intelletto umano dal
sapere scientifico s'eleva alla
conoscenza dei puri
intelligibili separati, potrebbe dirsi
un atto di
superastrazione, col quale
dai con- cetti astratti, ricavati
dalla realtà sensibile,
si astrae quella pura
essenza intelligibile che
è semplice e
identica per tutte le
menti: «Et cum
philosophus ascenderit alia
ascensione, considerando in intellecto
inquantum intellectum, tunc
in- telliget substantiam abstractam
» 9. Sembra,
per altro, che Abu
Baker si mostrasse
alquanto perplesso in
merito a questa suprema ascesa,
che dovrebbe coronare
gli sforzi di
chiunque è giunto in
possesso di tutto
lo scibile filosofico;
e che egli, nell'Epistola de
perfectione, la ritenesse
possibile non tanto per
lo sforzo della
natura umana, quanto
piuttosto per un aiuto
divino: « intellectio
istius intellectus est
de possibilitate divina, non
de possibilitate naturae
» '". Ad ogni
modo, la maggiore
difficoltà, che travaglia
anche la teoria di Alf
arabi e
d'Avenpace, consiste nel
punto di par- tenza, cioè nell'aver
considerato l' intelletto potenziale
gene- rabile e corruttibile, come
l'aveva ritenuto Alessandro
d'Afro- disia. Non così possiamo
dire di Temistio.
Per questo parafraste bizantino d'Aristotele,
com' è stato
inteso da Averroè,
l' in- telletto potenziale è immateriale,
uno ed eterno,
al pari del- l' intelletto agente
che n' è la forma.
Il problema che
concerne Temistio, è un
altro. Se l' intelletto
potenziale è uno
e inge- nerabile, ed uno
e ingenerabile è
l'intelletto agente; e
se il primo è
tratto dalla potenza
all'atto e diventa
intelletto spe- culativo per r
informazione del secondo,
non si riesce
a vedere come il
concorrere di due
cause eterne possa
dar luogo ad un effetto generabile
e corruttibile, qual'
è il mio
individuale atto d'
intendere, susseguente, in
particolari contingenze di 8
MuNK, Mélanges de
philosophie juive et
arabe, Parigi, 1859,
p. 393 sgg. 9
AvERR., /. e,
parte III. '0 AVERR.,
ib. 132 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI tempo e
d'ambiente, al non
intendere, e diverso
dall'atto col quale altri
intende quel che
non intendo io.
Nel pieno con- giungimento dell' intelletto
potenziale con l' intelletto
agente consiste anche per
Temistio il più
alto grado di
perfezione raggiungibile
dall'uomo; ma il
bizantino non spiega
perché questo congiungimento avvenga
soltanto alla fine
e non al principio
dello sviluppo intellettuale
dell'uomo; egli cioè
non spiega perché l' intelletto
agente, fin dal
primo momento della sua
unione all' intelletto
possibile, non attua
tutta intera la potenzialità
di quest'ultimo, se è vero
che gì' intelligibili, come pensa
Temistio con Platone,
anzi che tratti
dalle imma- gini sensibili, sono
irraggianti dall' intelletto
agente su quello potenziale. A risolvere
le difiìcoltà contro
le quali urtava
da un lato la
teoria d'Alessandro e
dall'altro quella di
Temistio, il com- mentatore di Cordova
pose questi fondamenti.
Anzi tutto, l'intelletto che
è soggetto del
pensare, in quanto
questa fun- zione
conoscitiva si differenzia
dal sentire, non
può essere e
quindi al «
privatum examen »
per ottenere il dottorato
in medicina. Ecco
il verbale di
quest'ultimo atto,, rimasto ignoto
al Ragnisco il
quale, confondendo col
Vernia Nicolò Manupello, egli
pure da Chieti
e parente del
Vernia, riteneva che questi
si fosse laureato
in filosofìa il
22 aprile 1444 e
in medicina forse
nel 1458: A nativitate
Domini nostri Jesu
Christi 1496 {sic).
Indictione 14, die martis
29 decembris, in
loco solito examinum. Privatum examen
et Doctoratus in
facilitate Medicinae Cla- rissimi
Artium doctoris Domini
Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae
legentis absque concurrente,
examinati per Sacrum collegium
Artium et Medicinae
doctorum, corani ve- nerabili Domino presbytero
Antonio de Malgarinis,
cathedralis ecclesiae
paduanae Mansionario, in
hac parte Vicario,
in assi- stentia spectabihs
domini Leonardi Butironi,
Rectoris, appro- bati unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, sub promotoribus
Domino Joanne Aquilano
qui de dit
insignia prò se ac
Dominis Laurentio de
Noali et Hieronymo
de Verona. [Testes]. D.
Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius
Quirino, artium scholaris. D. M. Petrus
de Mantua / D.
M. Antonius
T^achantianus \ In questo
atto da me
veduto (Arch. d.
Curia Vesc, voi.
44, cot., f. 2gor)
e gentilmente trascrittomi
dal Rev.mo Mons. A.
Barzon, il dottorato
in medicina di
Maestro Nicoletto è fissato
al martedì 29
die. 1496. Ma
che si tratti
d'un semplice lapsus dell'estensore è
provato dal fatto
che l'atto immedia- tamente precedente (f.
289V) è del 23 dicembre
1495, e il f.
29ir porta la
data del 2
gennaio 1496. Inoltre,
il 29 dicem- bre 1496, cadeva
in giovedì, e non martedì
come il 29
dicem- bre 1495. Infine, il
29 dicembre 1496
il Pomponazzi non
pc- teva fare da
testimone, perché nell'ottobre
aveva lasciato Padova, e
vi fece ritorno
solo dopo la
morte del Vernia
nel 1490, Ma forse
non si tratta
di errore, bensì
dell'aver computato il principio
del 1496 «
a nativitate Domini
», cioè dal 25 di- cembre. Notevole nell'atto
riferito è poi la presenza,
fra i testimoni, di
Lorenzo Donato e
di Vincenzo Quirini.
Il primo era
un pa- trizio veneziano, e
a lui, questore
a Padova, il
Nifo, alunno del Vernia,
dedicherà, nel 1497,
il prologo d'Averroè
alla Fisica, stampato in
fine del commento
dello stesso Nifo
alla APPUNTI INTORNO A
PIETRO TRAPOLIN 163 Destructio destructionum
dello stesso Averroè.
Del secondo, al quale
il Nifo a
Padova e da
Salerno ostentava il
suo partico- lare e interessato
attaccamento, faremo cenno
piìi giti. Ma potrebbe
anche darsi che il motivo
che spinse il
filosofo chietino ad addottorarsi
in medicina fosse
un altro. Leggiamo infatti nel
Sanudo (II, 314)
che i medici
veneziani il 2
gennaio 1499 si lagnarono
in Collegio perché
Giovanni Aquilano, (( maistro
Nicoleto », Girolamo
da Verona e
Gabriele Zerbo, medici che
leggevano a Padova,
durante le vacanze
andavano « a miedigar
in questa terra
», cioè, a
Venezia, e non
applica- vano ai clienti le
« angarie »
di legge che
dovevano far pagare i
medici di Venezia,
a prò del
medico dell'armata (v.
sopra, pp. 125-126). Pare
che a quei
tempi l'esercizio della
medicina desse guadagni più
vistosi della filosofia;
e a «
maistro Nico- leto » dovevano
far gola. Ma col
1496 comincia per
la filosofia padovana
un periodo di crisi
che coincide con la partenza
del Peretto. Questi,
messo a dura prova
dalla concorrenza del
Nifo, dovette sentirsi spronato ad
accogliere un invito
che gli era
fatto, di andare
a stabilirsi alla corte
di Alberto Pio,
a Carpi. E
nella prima metà d'ottobre 1496
egli rinunziò alla
cattedra e chiese
licenza d'an- darsene,
adducendo a motivo
i suoi personali
interessi. Questo risulta dal
decreto del Senato
veneziano, in data
16 di quel mese
(Venezia, Arch. di
Stato, Senato terra,
Reg. 12, f.
ijjr) : Renuntiavit niiper
eximius doctor D.
Petrus de mantua
lecturae ordinariae
philosophiae gymnasij nostri
patavini, cuius retinebat primum locum;
et hoc impulsus
privatis suis negotijs. Sicché i sapienti
del Consiglio e
della Terra ferma,
nella necessità di provvedere
per l'anno scolastico
1496-1497 alla cattedra rimasta
vacante, nominarono a
succedergli Ago- stino Nifo, ((
qui erat concurrens
ipsius. D. Petri
de mantua secundo loco
», promovendolo al
primo, col salario
di 90 fiorini, e
dandogli come concorrente,
« ad secundum
locum », il fa-
moso e a
tutti gratissimo dottore
Antonio Fracanzano, vicen- tino, « de
cuius sufficientia et
doctrina litterae Rectorum
no- strorum Paduae dant
amplum testimonium »,
coll'annuo salario di 80
fiorini. Ma il Nifo
non valeva il
Pomponazzi, e d'altra
parte risulta che nel
corso dell'anno scolastico
1497-1498, non sappiamo per
quali ragioni, se
per motivi di
stipendio o per
attriti co] 164 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Fracanzano, ad
un certo momento
tagliò la corda.
Sì che il Senato
veneziano, in seguito
a rapporto del
rettore degli Ar- tisti di
Padova, considerando che
maestro Nicoletto «
ob suam ingravescentem etatem
continue non potest
legere, quamvis ob eius
sufficientiam est valde
gratus omnibus scolaribus, et quoniam
illam lectionem alias
legebat D. Augustinus
de sessa cum florenis
90 in anno,
vir apprime sufficiens
et gratus illis scolaribus,
qui libenter veniret
ad legendum »,
decide che il Nifo
sia condotto di
nuovo con fiorini
120, ed abbia
a con- corrente lo stesso
Fracanzano (Ib., Reg.
13, f. ^yr,
ig giugno 1498). Questi s'era
addottorato in artibus
nel maggio 1489;
nel- l'autunno del 1492 era
stato assunto alla
lettura della logica, e
questa cattedra occupava
ancora il 21
luglio 1494 (Padova, Arch. della
Curia, Acta grad.,
voi. 44. f.
246V); nel 1495
aveva conseguito la laurea
in medicina, e
quindi assunto alla
cat- tedra straordinaria di filosofia
che occupava il
29 dicembre 1495 (Arch.
d. Curia, 1.
e, f. 290r).
L'anno successivo, fu
pro- mosso, come abbiamo visto,
alla cattedra ordinaria
« secundo loco ». Ben
poco ci è
noto anche del
suo indirizzo filosofico.
Di scritti di lui
a stampa non
conosco che le
otto « Quesiiones
in consecutiones Stradi ac
de sensu composito
et diviso, pubbli- cate nel volume
del faentino Benedetto
Vittori, In Tysberum de
sensu composito ac
diviso cum eiusdem
collectaneis in sup- positiones Pauli
Veneti. Nec non
Tractatus Alexandri Sermo- nete,
Bernardini Petri de
Landìtciis, Pauli Pergulensis
et Baptiste da Fabriano
in eundeni Tysberum.
Item qiiestiones Frachan- ciani Vicentini
in consecittiones etc. (Venetiis, impensa
heredum q. Oct. Scoti. 5
dicembre 1517, ff.
56ra-65v), e dedicate
ad Alessandro Sermoneta. Esse
appartengono senza dubbio
al periodo nel quale
il Fracanzano fu
lettore di logica.
Di opere manoscritte ne
conosco invece due.
Una è nel
cod. Ashburn 1048, nella
Laurenziana di Firenze,
ff. ir-38v con
questo titolo:
Excellentissimi Doctoris Domini
Antonii fracantiani Vicentini de
casu et fortuna
fatoque quaestiones incipiunt
(9 capitoli, oltre il
proemio). L'altra è
nel codice Vat.
lat. 10728, e porta
questa intestazione: Tractatus
proportionalitatum Domini
antonii fracantiani Vicentini
di ff. io.
È divisa in tre
trattati ed è
scritta di mano
d'un allievo, che
probabilmente è Girolamo Accorumboni
o Accoramboni da
Gubbio. Ecco APPUNTI INTORNO
A PIETRO TRAPOLIN
165 quanto scrive questo
alunno : «
Finis Tractatus proportionum Fracantiani, praeceptoris
mei, qui legit
patavii ordinariam philosophiae ;
obiit mo cccccvi,
die 28 aprilis.
Ego vero eram tum
bacchalarius ordinarius in
studio patavino. Pontifex
erat prope bononiam cum
exercitu, ut dominum
iohannem expel- leret ».
Niente son riuscito
a sapere del
commento inedito In VII
Physicorum di cui
parlano i Memorabili
di Giovanni da Schio
(ms. nella Bibl.
Bertoliana di Vicenza,
lettera F) e che
era posseduto dal
canonico Fulvio Querengo.
Interessante è quanto riferisce
Marin Sanuto (II,
485), come il
24 giugno 1499 furon
ricevuti a Venezia
in Collegio «
maestro de Star- niti »
(? !) teatino
et maestro Gabriel
Zerbo, doctori, lezeno
a Padoa in philosophia
et medicina, insieme
col retòr di
scolari artista, con commission
dil collegio di
doctori; et forno
alditi in contraditorio con
maestro Antonio Fraganzan,
dotor vicentin, leze in
philosophia, qual non
voria haver conco- rente
inferior a lui,
né vorìa essi
doctori esso in
nel collegio di doctori.
Or fo gran
parole, et scrito
ai retòri di
Padoa, dagi Information >>. Non
conosco l'esito di
questa bega; ma
è certo che l'
inse- gnamento della filosofia a
Padova versava in
gravi condi- zioni. Il Nifo
se n'era andato,
e non farà
più ritorno a
Padova, ove non gli
mancavano gli appoggi
di potenti amici,
ma dove aveva dovuto
cozzare altresì contro
l'avversione di maestri e
scolari. Il 4
ottobre poi era
morto maestro Nicoletto,
che il 3 agosto
a Vicenza aveva
fatto l'ultimo suo
testamento, e con
lui spariva dalla scena
padovana la figura
forse più nota
fra gli stu- denti di
filosofia e più
popolare per le
sue bizzarrie (v.
sopra, sag- gi IV e V)
. Nessun
maestro di qualche
rilievo occupava più le cat- tedre di
filosofia. Di ciò
ebbe a preoccuparsi
il Senato veneziano nella seduta
del 31 ottobre
(Senato terra, Reg.
13, f. 97r). A
succedere al Vernia
fu perciò richiamato
« Magister Peretus de
Mantua, vir singulari
doctrina preditus et
studentibus gratus », per
la durata di
due anni, con
180 fiorini di
salario »; per concorrente
gli fu assegnato
il Fracanzano, «
vir doctis- simus, qui
iam per annos
septem legit »
(dunque dall'autunno del 1492,
quando fu nominato
lettore di logica)
; e poiché
il vicentino ricusava l'ufficio
di concorrente col
salario di 80 fiorini,
fu deciso di
portarlo a 130,
onde « possit
legere contentus et facere
bonam concurrentiam ».
Alla cattedra straordinaria di filosofia
fu accettato il
bolognese Tiberio Bacilieri,
disce- l65
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI polo, amico e
collega di Alessandro
Achillini, del quale
portò a Padova le
dottrine. Egli aveva
dovuto lasciare la
città natale, in seguito
alla sospensione per un quinquennio
inflittagli da quel Collegio
dei medici e
filosofi (cfr. sotto,
pp. 226-27). E
forse il Bacilieri dovette
fare da concorrente
al Peretto, quando
il Fra- canzano entrò
per tre anni
al seguito del
nuovo cardinale Marco Corner,
che, elevato alla
sacra porpora a
diciott' anni, aveva
an- cora bisogno d'andare «a
Padoa a studia»
(M. Sanuto, II,
929). Ma ritornato sulla
sua cattedra il
Fracanzano nel 1502,
e ri- preso il suo
posto di concorrente
del Pomponazzi, il
Baci- lieri l'anno
successivo lasciò Padova
per Pavia (cfr.
il mio voi. Sig.
di Brah. nel
pens. del Rinasc.
ital., pp. 132-152). Nella stessa
delibera del 31
ottobre 1499 si
trova ancora: Demum legit
in dicto Gymnasio
iam annos sexdecim
[dunque dall'anno scolastico 1483-1484,
quando il Trapolin
salì sulla cat- tedra di
filosofia quale straordinario] Magister
Petrus trapolino, qui iam
est senex et
onustus ingenti numero
filiorum, et habet
flo- renos 250 de
salario in anno,
quod exiguum est
respectu laborum quos sustinet
in legende. Ideo
captum sit quod
dicto magistro Petro addantur
floreni quinquaginta, ita
quod habeat de
salario trecentos in anno
et ratione anni,
attento presertim quod
eius concurrens [che era
Gabriele Zerbo] habet
fiorenos sexcentos de salario
in anno. Con questa
delibera del Consiglio
veneziano che vigilava sulle sorti
dello Studio patavino
la crisi della
filosofia pado- vana era avviata
a una felice
soluzione. Intanto venivan su
ottimi elementi nuovi,
alunni dei vecchi maestri, che,
appena addottorati e
taluno anche prima,
sa- livano giovanissimi
sulla cattedra. Così
il 17 agosto
1499, s'addottorò /;/ artihus
Lorenzo dal Molino,
da Rovigo, già alunno
del Pomponazzi e
del Trapolin che
al giovane dottore conferì le
insegne, e nel
verbale di dottorato
troviamo anno- tato che egli
era già stato
deputato « ad
lecturam dialecticae » (Arch.
d. Curia Vesc,
voi. 46, f.
71). Il 21
maggio 1500, s'era addottorato in
artihus il veronese
Gianfrancesco Burana {Ib., voi.
47, f, 106),
e un anno
dopo lo troviamo
ordinario di logica {Ib.,
f. i62r). Il
veronese Bernardino Plumazio,
già alunno del Nifo,
fu chiamato «
ad extraordinariam philoso- phiae lecturam
» {Ib., f. 248r). Anche Francesco
Trapohn, al quale conferì
le insegne di
dottore in artibus
il padre, il 6
ottobre 1501, troviamo
che « electus
est ad lecturam
publicam APPUNTI INTORNO A
PIETRO TRAPOLIN 167 logice
» [Ih., f.
i68r). L'anno scolastico
1503-1504 fu promosso straordinario di
filosofia naturale. E dopo la
laurea in medi- cina, conseguita il
4 marzo 1506,
anche questa volta
« promo- tore.... D. Petro
Trapolino genitore suo
qui dedit insignia
» (e fra i
testimoni era Gaspare
Contarini), passò alla
seconda scuola di medicina,
collega del padre
e, come questo,
colle- giato. Il 14
novembre 1500 s'addottorò
in artibns Giacomo Filippo delle
Pelli Negre da
Troia in Puglia,
promotore Pietro Trapolin, ed
anche egli era
già stato eletto
« ad moralem
philo- sophiam publice legendam
» {Ih., voi.
47, f. 135).
Il 1° febbraio 1501
s'addottorò in medicina
Girolamo Bagolino, di
cui ab- biamo udito l'elogio
fatto da Girolamo
Avanzo [Ih., f. 146
v) e del
quale è ben
nota la carriera
scolastica. Il 6
agosto s'ad- dottorò in artihus
M. A. Zimara,
promotore ancora P.
Trapolin, e l'anno seguente
cominciò a insegnare
prima logica, poi
fi- losofia [Ih., f. i62r).
Il 5 nov.
1502 conseguì il
dottorato in artihus Girolamo
Fracastoro, anch'egli già « ad
lecturam logice deputatus »
{Ih., f. 225r). Proprio in
questi anni, affluiscono
a studiar filosofia
a Pa- dova giovani delle
più ragguardevoli famiglie
patrizie vene- ziane. Primi fra
tutti Vincenzo Quirini,
Marco Gradenigo, Girolamo Taiapietra,
Santo Moro, Cristoforo
Marcello, Ga- spare
Contarini, Nicolò Tiepolo,
Antonio Surian, M.
A. Con- tarini, Lorenzo Venier.
Il Quirini, ancora
« artium scholaris
», figura in vari
atti di dottorato
come testimone fin
dal 1495; ma recatosi
a Roma, vi
sostenne le «
conclusion » nella
chiesa dei Santi Apostoli,
il 29 maggio
1502, presenti Pietro
Bembo e l'oratore veneziano
Marin Zorzi, e
fu addottorato in
artihus da papa Alessandro
VI. Il suo
esempio seguirono anche
il Taiapietra e il
Tiepolo, addottorati essi
pure a Roma,
dopo avervi disputato le
loro brave «
conclusion », il
primo nella primavera del
1506, il secondo
nell'estate 1507, da
Giulio II (M. Sanudo,
III, 278; VII,
116; P. Bembo,
Opp., t. Ili,
Ve- nezia 1729, p. 3i4r).
Invece Cristoforo Marcello,
che il 17 ot-
tobre 1500 aveva sostenute
ai Frari, a
Venezia, « alcune
con- clusion » (M. Sanudo,
III, 978), s'addottorò
in artihus a Pa- dova,
promotore P. Trapolin,
il 20 ottobre
1501, e gli
fecero da testimoni M.
A. Foscarini, vescovo
di Città Nova
e ancora studente di
diritto canonico, Girolamo
Barbarigo, primicerio di S.
Marco, e Pietro
Pomponazzi (Arch. di
Curia Vesc, voi.
47, f. lògr). Del
dottorato in artihus
di Andrea Mocenigo,
discepolo l68
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI del Pomponazzi, trovo
questo verbale {Ib.,
f. 256): Anno Nativitatis
dominicae 1503, indictione
sexta, die Sabati XII
Augusti. Privatum examen
in Artibus, in
loco solito exami- num,
per Venerandum Collegium
Artium et medicinae
doctorum, et comprobatio unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, in
assistentia Spectabilis. D.
Pauli Zerbo Rectoris, coram Reverendo
d. Ludovico de
rugerijs vicario. Et
deinde in medio cathedralis
ecclesiae, assistentibus M. cis et
CI. imis dominis Thoma Mocenigo
praetore, patruo, et
Paulo Trivisano equiti, praefecto urbis,
avunculo, et aliorum
praestantissimorum docto- rum
scholarium civium et
praelatorum corona, per
R.mum D. Epi- scopum,
eius domino Vicario
recitante, pronuntiatus fuit
Doctor in Artibus M.
cus et doctissimus
vir. D. Andreas
Mocenigo, natus M. ci et
CI. mi D. Leonardi, fili]
olim Serenissimi principis
Vene- tiarum D. Joannis
Mocenici, post longas
lucubrationes et scho- lasticos labores
et publicas disputationes
ac varia virtutis
et doctrinae suae experimenta.
Cui tradita fuerunt
insignia per Excell.mum artium
et medicinae doctorem,
D. Magistrum Pe- trum
trapolinum prò se
ac Dominis Magistris
Ioanne de Aquila, Symone Estensi,
Hieronymo de foelicibus
ac Bernardino Spirono. Testes: D.
Laurentius Venerio, D.
Antonius Suriano, D.
Gaspar Contareno, artium scholares. È
notevole che anche
qui s'accenni a
pubbliche dispute, tenute verosimilmente a
Padova e a
Venezia, delle so- lite «
conclusion ». L'
11 settembre dello
stesso anno, s'ad- dottorò in artibus
Marco Gradenigo, ed
ebbe a testimoni
il Magnifico G. Batt.
Memo, suo zio
e podestà di
Padova {Ib., f. 258r).
Il 4 luglio
1504, s'addottorò in
artibus Sebastiano Foscarini, promotore
Bartoloneo da Montagnana
{Ib., f. 287r)
; un anno dopo,
il 14 giugno
1505, fu eletto
lettore di filosofia nelle scuole
di Rialto a
Venezia, al posto
di Antonio Giustinian nominato ambasciatore,
e questa cattedra
egli tenne fino
alla sua morte nel
1552 (M. Sanudo,
VI, 185). L'
8 agosto dello stesso
1504 s'addottorò parimente
in artibus Lorenzo
Venier, « el Gobeto
», del quondam
Marino procurator di
S. Marco, e gli
furon testimoni Giorgio
Corner, padre del
Cardinale e podestà di
Padova, Paolo Trevisan,
capitanio, Antonio Surian e
Girolamo Polani (Arch.
Cur. vesc. cit.,
f. 29or). Prima
del dottorato a Padova,
egli aveva tenuto
le sue «
conclusion », il 12
giugno, ai Frari
in Venezia, disputando
per più giorni con
Lorenzo Bragadin, lettore
di filosofia, con
Giovanni Ba- doèr, dottore
e cavaliere, con
Marin Zorzi, anch'egli
dottore, e con alcuni
frati (M. Sanudo,
VI, 31). Il
21 maggio 1505
fu APPUNTI INTORNO A
PIETRO TRAPOLIN 169 la
volta di Santo
Moro di Marino,
che ebbe a
testimoni Alvise Molin, podestà
di Padova, Angelo
Trevisan, capitanio, i due celebri scotisti
francescani Antonio Trombeta
e Maurizio Ibernico, lettori
nelle scuole del
Santo, e Pietro
Pomponazzi (Arch. Cur. Vesc,
cit., f. 417^).
L' 11 maggio
anch'egli aveva tenuto «le
conclusion ai Frari,
qual'è impresse» (M.
Sanudo, VI, 163). E
finalmente Antonio Surian,
nipote del patriarca dello stesso
nome, dopo una
disputa pubblica di
due giorni a Padova
e di un
giorno ai Frari
a Venezia [Giorn.
Crii. d. Filos. Hai.,
XXXI, 1950, p.
312), il 9
luglio 1506 ebbe
le insegne di dottore
in artibus da
Bernardino Speroni, «
prò se ac
Dominis Magistris Ioane de
Aquila, Benedicto de
Odis, Petro Trapolino, Victore Maripetro,
Antonio de Faenza,
Francisco ab Equis, Petro
de Mantua, Antonio
Carrano et Carolo
de lanua com- promotoribus suis
» (Arch. Cur. Vesc, cit.,
f. 371 v). Dal
qual verbale appare che
Pietro Pomponazzi, forestiero,
era stato, dopo quindici
anni di soggiorno
padovano, aggregato al
Col- legio dei medici e
filosofi di Padova, Dallo
stesso Archivio della
Curia Vescovile, (voi.
cit., f. 38ór) si
rileva che xA.ntonio
« D. Petri
Trapolini », il
19 dicembre 1506, ricevve
la prima tonsura
dalle mani del
vescovo Pietro Barozzi, il
quale venne a
morte di lì
a poco, il io gennaio
1507. Questo figlio del
Trapolino fu avviato
allo studio del
diritto, e, dopo alcuni
anni di vita
dissipata, rimessosi sulla
buona strada, professò Decretali
e Diritto Civile
a Padova fra il
1526 e
il 1528. Ma
morì giovane il 6
settembre 1529, se
sono esatte le notizie
raccolte dal Facciolati
{Fasti Gymnasii Pata- vini, parte III,
pp. 106, 109,
128, 130, 131). Divenuto un
fiorente centro di
intesa vita intellettuale, lo studio
di Padova attirava,
oltre la nobiltà
veneziana e stu- denti di
molte parti d' Italia,
molti studenti d'oltralpe,
spe- cialmente dalla
Germania e dalla
Polonia. Fra coloro
che vi sostarono per
più anni, è da ricordare
Nicolò Copernico, che, già
studente di diritto
e quasi certamente
anche delle Arti a
Bologna fra il
1496 e il
1500, a Padova
fu studente di me-
dicina dall'autunno del 1501
forse sino alla
primavera del 1505, e
a Padova certo
non può aver
trascurato lo studio della
matematica e dell'astronomia. A Padova
avevano insegnato queste
scienze il Peurbach
e il Regiomontano, ossia
Giovanni Muller di
Kònigsberg, e dipoi Francesco Capuano
di Manfredonia, i
quali avevano discusso 170 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI le osservazioni di
Tolomeo e quelle
di Albategni in
rapporto ad una revisione,
che si rendeva
ogni giorno più
necessaria, delle Tavole Alfonsine.
Si parla anche
della fama di
profondo matematico goduta da
Pietro Trapolin, considerato
niente- meno che « il
primomatematico del suo
tempo », sì
che per questa sua
fama accorrevano a
Padova, « avidi
d'ascoltarlo, scolari d'ogni nazione
» (G. Vedova,
Biogr. d. Scrittori
Padovani, II, p. 361).
Alunno del Trapolin
e del Pomponazzi
era stato il mantovano
Benedetto del Tiriaca
che s'addottorò in
artihus il 20 dicembre
1494, promotore il
Trapolin che gli
conferì le insegne, e
testimone il Peretto
suo concittadino. Dal
1498 al 1506 egli
tenne la cattedra
di matematica e
astronomia con tanto plauso
che, avendo dato
le dimissioni, bandito
il concorso per dargli
un successore, quando
gli studenti seppero i
nomi degli aspiranti
a quella lettura
presero ad agitarsi
e chiesero che il
Tiriaca fosse richiamato
sulla cattedra, come fu
fatto con deliberazione
del Senato veneziano
in data 7 settembre
1508. È arduo
pensare che fra
il 1501 e
il 1505 il giovane
Copernico, che era
tra i ventotto
e i trent'uno
anni d'età, non l'abbia
avvicinato e si
sia disinteressato dell'
in- segnamento del giovane maestro
di forse due
o tre anni
più anziano. Un confronto dei
ritratti dell'astronomo polacco,
e spe- cialmente
dell'autoritratto, col giovane
matematico seduto e intento
a tracciare un
disegno nel quadro
del Giorgione «
i tre filosofi »,
m' ha indotto
a credere che
questo giovane sia pro- prio Copernico, studente
a Padova. Volgendo
le spalle a To- lomeo
e all'arabo Albategni,
egli è rappresentato
dal pittore di Castelfranco
Veneto, al centro
ideale e prospettico
del quadro, nell'atto di
scrutare la natura
che ha dinanzi
e di volgere le
spalle ad un
sapere che stava
per tramontare. Il 20
aprile 1506 Pietro
Trapolin era a
Venezia, presente alle solenni
esequie fatte a
Marco Antonio Sabellico
nella chiesa di S.
Stefano. Gian Battista
Egnazio fece l'orazione
funebre dell'amico umanista deceduto
(M. Sanuto, Vili,
329). Il Pomponazzi, circondato
dalla stima e
dall'affetto dei suoi alunni
e dei colleghi,
il 15 ottobre
1504, aveva rinnovato
l' in- gaggio « per tres
annos de firmo
et unum de
respectu » ;
e in quell'occasione il
Senato gli aveva
portato lo stipendio
dai 180 ai 250
fiorini, motivando l'aumento
con la singolare
dot- trina del filosofo e
coi bisogni della
numerosa famiglia da À APPUNTI INTORNO
A PIETRO TRAFOLIN
I7I mantenere (Venezia, Arch.
di Stato, Sen.
terra, Reg. 15,
f. 37r). Quanto alla
numerosa famiglia, sappiamo
che sotto Natale del
1500 egli s'
era sposato con
Cornelia di Francesco
Dondi dell' Orologio, dalla
quale aveva avuto
una o forse
già due figliolette. Per
parlare di numerosa famiglia,
bisogna pensare che egli
avesse a carico
altri parenti. Tanto
più che lo
stesso motivo del bisogno
in cui versava
per la famiglia
numerosa sarà addotto dal
Peretto per chiedere
un nuovo aumento
di lì a tre
anni, in occasione
del rinnovo dell'
ingaggio. Lo sti- pendio questa volta
gli fu portato
a 370 fiorini,
e il manto- vano s'impegnò «per
annos septem proximos
» (Ib., f.
185V). Le cose dello
Studio patavino procedevano
dunque a gontie vele,
e quando, nel
novembre 1506, ad
Alessandro Achillini costretto a
fuggire da Bologna,
per la caduta
dei Bentivoglio dei quali
era fautore, fu
offerta la cattedra
di filosofia natu- rale, «
secundo loco »,
che era stata
del Fracanzano, morto, come
abbiamo visto il
28 aprile ;
si che il
bolognese si trovò
ad essere per un
biennio concorrente del
Pomponazzi. E in di-
sputa tra loro al
circolo dei filosofi,
al portico pretorio,
fra il palazzo della
ragione e il Bò, li
ritrasse ambedue al
vivo Paolo Giovio, il
quale nel 1506
era alunno del
Peretto, e a
Padova rimase fino alla
primavera del 1507,
quando fece ritorno
a Pavia. Ma la serenità
che Bologna invidiava
a Padova non
durò a lungo e
un violento uragano
si abbatté su
questa, nel 1509, quando,
per il furore
« totius fere
Europae virium in Rem
Venetam conspirantium »,
come con bella
frase si legge
sulla tomba del doge
Loredan nella chiesa
di San Zane
e Polo, Venezia corse
pericolo mortale e le milizie
imperiali occupa- rono
Padova il 6
giugno. Sembra che
proprio lo stesso
giorno dell'entrata dei tedeschi
in Padova, morisse,
non saprei in quali
circostanze, Pietro Trapolin,
in età di
58 anni e
venti giorni. E fu
certo ventura per
lui che, giacendo
nella pace del chiostro
di S. Francesco,
ov'era la tomba
della famiglia Tra- pohna
(nella stessa chiesa
riposa il Roccabonella), non
ebbe a vedere lo
scempio della città,
il saccheggio della
sua casa e la
sciagura dei suoi
congiunti ed amici.
All'avvicinarsi del nemico, il
5 giugno, i
rettori della città
e il consiglio
cittadino, formato di 16
deputati, discussero a
lungo se arrendersi
o resistere. « Et
parlò Alberto Trapolin,
che si voleno
tenir per la Signoria,
e non si
dar al re
di romani, si non vedono
mazor 172 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAI, SECOLO XIV
AL XVI exercito eh'
1 nostro a
preso Padoa, ben
non voleno danno, ni
el nostro campo
entri in Padoa
», dice M.
Sanuto. (Vili, 352). Ma le
difese veneziane eran
deboli, e Padova
cadde. Vi fu un
principio di saccheggio,
ma una grida
rassicurò i cittadini; fu
formato un governo
provvisorio di otto
notabili padovani, e l'ordine
fu ristabilito (M.
Sanudo, Vili, 366-7).
Di questo governo fece
parte anche Alberto
Trapolin, Bertuzzi Baga- roto,
lettore di diritto
canonico e Lodovico
Conte. Qualche settimana dopo
il numero di
otto deputati fu
portato a sedici. Insieme ai
predetti fece parte
di questo nuovo
governo prov- visorio anche un
altro dottore padovano,
Giacomo da Lion (M.
Sanudo, Ih., 439). L'ordine relativo
che regnava in
Padova consentì che i professori dello
Studio continuassero a
svolgere i loro
corsi e a fare
esami. Così mi
risulta che il
Pomponazzi il 2
luglio 1509 era promotore
nel dottorato di
Alvise da Brescia
(Arch. ant. dell' Univ.,
Sacro Collegio dei
medici e filosofi,
n. 220, f. 30 v).
Ed altri esami
si tennero anche
nei giorni successivi. Ma i
veneziani mal si
rassegnavano alla perdita
di Padova, anche perché
sapevano che non
pochi padovani non
se la pren- devano poi tanto
calda per Venezia,
e ricordavano che
nel tentativodi Marsilio da
Carrara, del 1435,
non pochi l'avevano favorito, e
la Signoria per
dare un esempio
memorabile, aveva fatto impiccare
nel 1437 una
sessantina di persone,
fra le quali l'avo
di Alberto e
di Pietro Trapolin.
Perciò si affret- tarono a ricuperare
la città, affidando
l' impresa ad Andrea Gritti. Entrate
in Padova, il 17 luglio,
le milizie veneziane
si dettero a saccheggiare,
nei giorni seguenti,
le case dei
fratelli Trapolin e di
altri padovani, compromessi
o sospetti, mentre Alberto, col
fratello Roberto e con Ludovico
Conte, s'asser- ragliò nel palazzo
del Capitanio, ove
fatto prigione fu
mandato a Venezia, coi
suoi compagni, per
render conto del
suo con- tegno verso la
Signoria. È appunto
col ritorno dei
veneziani che cominciarono i
maggiori guai per
Padova. Nell'elenco delle case
saccheggiate che menziona
M. Sanudo (Vili,
523, 453), figurano quelle
dei fratelli Alberto,
Roberto e Nicolò Trapolin, e
quella di Francesco
loro nipote, e
figlio del u
quon- m dam maistro
Pietro, medico ». La stessa
casa di maestro
Pietro, ove viveva la
vedova Maria, coi
figli Giulio, Alessandro
ed Alba, non fu
risparmiata, e pare
che in questo
saccheggio andassero
distrutti per intero
le opere manoscritte
e i corsi APPUNTI INTORNO
A PIETRO TRAPOLIN
I73 di lezioni da
lui tenute. M.
Sanudo poi e'
informa (IX, 52) che
il 14 agosto
anche « Julio
Trapolin, fo fiol
di missier Piero
», fu fatto prigioniero
e dal capitanio
di Padova spedito
a Ve- nezia con altri
14 compagni per
esser giudicato. Ma anche
ripresa dai Veneziani,
Padova rimaneva sotto
la minaccia degli imperiali
che ne occupavano
i dintorni imme- diati e
alla fine di
settembre tentarono di
fare di nuovo
irru- zione in città. Soltanto
ai primi di
ottobre i tedeschi
levarnoo il campo. Intanto l'università
aveva ricevuto un
fiero colpo: maestri e
studenti nel mese
di luglio ed
agosto cominciarono a
prendere il largo, e
taluni non vi
ritornarono piìi, altri
soltanto più tardi. Fra
quelli che non
ritornarono, è il
Peretto Mantovano, nonostante l' ingaggio
per sette anni
preso da lui
un anno prima. A
dir il vero,
il 3 aprile
gli era morta
la moglie ed era
rimasto con due
bimbette ancora in
tenera età. Nel
luglio o nell'agosto, forse
dopo essersi in
fretta riammogliato con Ludovica
del nobile Pietro
da Montagnana, cittadino
pado- vano che ritengo abitasse
nella contrada di
S. Lucia, lasciò Padova
con la famiglia,
forse per riparare
a Mantova, portando con
sé il ricordo
dello Studio patavino,
delle battaglie chev'avevacombattuto, degli
alunni che a
lungo gli attestarono la loro
devozione, primi fra
tutti Lazzaro Bonamico
da Bas- sano, Gaspare
e Marcantonio Contarini,
e dei colleghi,
e in particolare di
quello che era
stato suo maestro
e poi caro amico,
Pietro Trapolin. Invece
Marcantonio Zimara da S. Pietro in
Galatina già alunno
e poi fiero
avversario del Pom- ponazzi,
dopo aver girovagato
in patria, a
Salerno e a
Napoli, vi fece ritorno
per tre anni
solo nel 1525. Non
è esatto per
altro che lo
Studio venisse chiuso
per otto anni, fino
al 1517, poiché
dagli Ada graduimi
dell'Archivio della Curia Vescovile
risulta che, per
esempio, 1' 8
maggio 15 io fece il
dottorato in artibiis
Matteo Binno de'
Tomasi figlio di Maesto
Jacopo chirurgo veneziano,
ed ebbe le
insegne da Nicolò Genua
(voi. 49, f. 4V) ;
il 2 dicembre
1511 s'addottorò ugualmente in
artibus Girolamo Oldoino,
e fra i
testimoni era Marcantonio Genua
figlio del dottore
Nicolò (f . 84V) ;
il 13
ottobre 1512 ebbe
le insegne di
dottore pure in
artibus il Magnifico e
generoso Francesco del
fu Chiarissimo Ga- briele Morosini, promotore
lo stesso Nicolò
Genua, e testi- moni
i Magnifici Giambattista Spinelli
partenopeo, dottore. 174 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI cavaliere, conte di
Cariato e oratore
massimo di Sua
Maestà Cattolica, Pietro Duodo,
podestà di Padova,
Alvise Emo, Capitanio, nonché
i Reverendi Leonardo
Contarini, dottore in artibus,
in teologia e in decreti,
e Girolamo Giustinian, canonico patavino
(f. I2ir). Ed
altri dottorati ebbero
luogo,, come può vedersi
negli stessi Ada
della Curia Vescovile
e in quelli più
volte ricordati dell'Archivio
antico dell' Uni- versità, per quanto
lacunosi. Certo è, per altro,
che la at- tività dello Studio,
sia per il
minor numero degli
alunni, sia per scarsità
di buoni maestri,
fu assai ridotta
fino alla ripresa del
1518. Nel quale
anno, al io
giugno (voi. 52,
senza numero dei fogh),
troviamo il dottorato
in artibus di
Spero- nello figlio dello
Spettabile ed esimio
dottore Bernardino Speroni, nobile
padovano, presenti come
testimoni i Ma- gnifici Paolo Donato,
podestà, e Marcantonio
Loredan, de- gnissimo
capitanio, non che
i tre nobili
veneziani Almorò Donato, Pietro
Venier, Giacomo Loredan. Dopo la
deportazione a Venezia
dei fratelli Alberto
e Ro- berto Trapolin, del
loro nipote Giulio,
lìglio di Pietro,
e degli altri che
s'erano compromessi nei
fatti di Padova,
« più di 100
per sospetto, oltra
li ritenuti» (M.
Sanudo, IX, 73),
fu fatto il processo
a carico di
Alberto Trapolin «
fratello di misier Piero
dotor excellentissimo, el
qual Alberto era
di XVI al governo
di Padoa, homo
di gran inzegno,
et anche suo
avo fo apicato a
Padoa a tempo
di la novità
di misier Marsilio
di Carrara dil 1437
», di Lodovico
Conte, « fato
cavalier per r imperator
presente novitev », di Bertuzi
Bagaroto, « dotor, qual
lezeva publice in
iure canonico a
Padova et havia
300 ducati a l'anno
di la Signoria,
era richo e
famoso », e
di Gia- como da Lion
« dotor, el
qual fé' la
oration a l' imperator (cioè poco
dopo il 6
giugno; l'orazione è
riportata da M. Sa-
nudo, Vili, 468-469) quando
se deteno padoani,
ne la qual dice
gran mal de'
venitiani ». Il
Consiglio dei X
con la Zonta fu
implacabile con questi
quattro padovani, che
vennero im- piccati il sabato,
1° dicembre 1509.
M. Sanudo, IX,
358-359, che ci dà
alcuni particolari della
loro impiccagione, e'
informa anche che i
loro beni furono
confiscati, e aggiunge:
« Restane a spazar
li altri padoani
»! Della fine d'Alberto
Trapolin e dei
suoi compagni parla anche
il vicentino Luigi
da Porto, che
assistè al supplizio {Lettere storiche....
dall'anno i^og al
1528.... per cura
di B. APPUNTI INTORNO
A PIETRO TRAPOLIN
1 75 Bressan. Firenze, Le
Monnier, 1857, lettera
ad Antonio Sa- vorgnan,
del 18 dicembre
1509, pp. 147-153).
Del Trapolin dice «
che era profondissimo
filosofo e teneva
alquanto del- l'epicureo », sì
che « pareva
che non accettasse
con tanta ri- verenza, né con
tanto desìo le
cose sante dette
da' religiosi con quanto
gli altri facevano;
ma taciturno, ovvero
dicendo alcuna fiera parola
contro i Viniziani,
aspettava l'ora del fine
suo». E dinanzi
alle forche, «voltato
messer Bertucci al Trapelino
disse: ' Ecco
il legno della
nostra croce '.
' Ecco — rispose
egli — il
luogo dove la
nostra innocente vita
da una ingiusta morte
sarà terminata ' ». Pare invece
che Roberto e
Nicolò, altri fratelli
di Pietro, e il
figlio di questo,
Giulio, se la
cavassero a buon
mercato. Poiché di Nicolò
ci vien narrato
(Papadopoli, Hist. gymnasii patav.
t. II, 210,
n. 85) che
andò in Germania
al seguito dell' Imperatore
Massimiliano, da cui
ebbe onori, e quindi
si mise al
servizio di Carlo
V, prese parte
all'espu- gnazione di
Tunisi, della quale
scrisse la storia;
infine si ricon- ciliò, già vecchio,
con Venezia, e potè ritornare
a Padova, ove morì
a 94 anni
nel 1559. Di
Roberto Trapolin consta (Padova, Arch.
di Stato, Estimo
1518, voi. 288
(289), Polizze della Città,
Polizza 49, presentata
il 29 sett.
1518) che nel 15 18
si trovava ad
« bavere 5
fioli, 4 menori,
de li quali.... tre
fiole da maridare
». e che
egli era «
confinato in Venetia, dove
sto — egli
diceva — cum
spesa, né posso
veder li fatti miei
et convegno pagar
uno fator et
ogni cosa me
va in ruina
». Il 31 luglio
1543 egli era
già morto poiché,
Trapolin de' Tra- polin suo figlio
presenta a nome
degli eredi, a
questa data, la prescritta
dichiarazione all'ufficio dell'estimo.
Di Giulio con- sta che
nell'ottobre 1515, insiem.e
al fratello Alessandro,
ebbe procura dalla madre.
Maria del fu
Francesco de' RoselH,
nella causa che questa
aveva intentato per
l'eredità paterna. Gli stessi
Giuho e Alessandro
compaiono ancora insieme
alla madre nel contratto
di nozze, del
7 giugno 1518,
della loro sorella Alba
col nobile padovano
Gaspare del fu
Daniele Buzacarini, abitante nella
contrada di S.
Agnese (Padova, Arch. di
Stato, Sez. notar.,
Not. Alessandro Bragadin,
voi 1391, f. 48ir).
Ma Giulio morì
a 44 anni
nel 1529, cioè
l'anno stesso in cui
sarebbe morto l'altro
fratello, Antonio, secondo
il Fac- ciolati, e
fu sepolto a
S. Francesco, insieme
al padre, prima che
la tomba di
famiglia dei Trapolin
divenisse proprietà dei 176
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI nobili De Lazzara,
figli di Marina
Trapolina, che non
è detto in quali
relazioni di parentela
fosse col filosofo
e i suoi
eredi (lac. Salomonio, Urbis
patav. Inscriptiones, Padova,
1701, p. 343, n.
102). Alessandro invece
era ancora vivo
nel 1548, quando, insieme
a M. Antonio
e Pietro, nipoti
del filosofo, provvide a
far trasportare nella
chiesa dei Carmini
le ossa del padre
e della madre
e di altri
suoi maggiori, in una tomba che
avesse da accogliere
lui e tutti
i suoi, come
si legge nel- r
iscrizione riportata dagli
storici di Padova
(PapadopoU, Hist. gymnasii patav.,
I, p. 293, n.
30); anzi, dalla
già citata Polizza 49
dell' Estimo del
1518 risulta ancor
vivo il 3 mag-
gio 1569. E Francesco Trapolin,
che sull'esempio paterno insegnò
a Padova prima la
logica, indi la
filosofia naturale, e
di poi la medicina
? I documenti
padovani tacciono di
lui, dopo il
sac- cheggio della sua casa
nel luglio 1509.
Può darsi ci
sia qualcosa di vero
nella notizia raccolta
anche dal Portenari,
Della jelic. di Padova,
p. 251, che
egli andasse a
legger medicina a
Firenze. G. Cesare Scaligero,
De subtilitate, CLII,
dist. i, pretende
di sapere che «
Francesco Trapolin, precettore
di Pietro Pom- ponazzi,
che anche un'altra
volta lo Scaligero
chiama suo precettore, morì
per aver mangiato
un intingolo ove
la do- mestica aveva messo
della cicuta invece
di prezzemolo. Se non
che precettore del
Pomponazzi non fu
Francesco Trapolin, ma Pietro,
il padre. Lo
Scahgero, o meglio
Giulio di Benedetto Bordone, addottorato
in artihus a
Padova il 22
giugno 1519, mostra, anche
per questa confusione,
di riferire dopo
molti anni una voce
raccolta per sentito
dire. Certo è
invece, per l'attestazione dell'Estimo
citato (Polizza 51),
che la «
nobele Madonna Maria Trapolina
» era, nel
settembre 1518, « tu- trize et
gubernatrice de i
fioli del q.
messer Francesco Tra- polin, q. m.
piero.... )>. A
questa data dunque
Francesco era morto. E
forse suo figlio,
se non di
Alessandro o di
Giulio, potrebbe essere quel
Pietro Trapolin che
figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale
dei Carmeni e fa denuncia
dei suoi beni all'ufficio
dell' Estimo il 30 marzo
1569 (Polizza 52,
f. 7). Costui è
sicuramente l'autore delle
21 lettere originaH
scritte fra il 7
aprile 1556 e
il 2 marzo
1574, a Gian
Francesco Mus- sato nel Ms.
619, 2, della
Biblioteca del Seminario
di Padova. A questo
figliuolo Pietro Trapolin
aveva trasmesso, col
con- ferimento delle insegne dottorali
in filosofia, e
in medicina il APPUNTI
INTORNO A PIETRO
TRAPOLIN I77 meglio della
sua arte, ed
egli avrebbe dovuto
custodirne l'ere- dità
spirituale. Invece l'oblio
colse il figlio
anche prima del padre.
Poiché se di
quello resta appena
il nome nelle
carte sbiadite della Curia
Vescovile e dell'Archivio
antico dell' Uni- versità di Padova,
di questo ci son pervenuti
almeno i pochi frammenti menzionati
in principio, insieme
alla gloria d'es- sere stato ricordato
dal suo grande
discepolo ed amico
Pietro Pomponazzi come suo
precettore (Prologo al
De incantatio- nihiis) :
« Dicisque ulterius
te quandam responsionem
alias a Petro Therapolino
patavo, nostro communi
praeceptore, audivisse, quam ipse
Alberto ascribebat.... ». Queste
parole sono rivolte
a Ludovico Panizza, cui
il Pe- retto indirizzava
la sua opera;
sebbene dalle stampe
non ap- paia, è attestato
però dal codice
Ambrosiano di essa.
Ludo- vico Panizza,
mantovano, era studente
a Padova negli
ultimi anni del Quattrocento
e nei primi
del Cinquecento; e nel voi. 47,
più volte citato,
di quella Curia
Vescovile (f. 278V),
c'è anche il verbale
del dottorato «
in artibus et
Medicinis D. M.ri Ludovici
panicia Mantuani, filij
D. Dominici de
panici] s », ov' è
detto che dell'uno
e dell'altro grado
accademico « habuit insignia a
D. M.ro Petro
trapolino ». Fra
i testimoni figura al
primo posto Pietro
Pomponazzi, « artium
doctor, ordina- riam philosophiam
legens ». Il
Paniza è autore
di tre opere
a stampa: di una
Qnestio de phlebotomiis
fiendis (Venetiis, per Bernardinum Benalium,
M. D. XXXII),
dedicata al duca Federico
Gonzaga, e di
un Commentarium de
venae sectione per sex
egregios et praeclaros
iudices diindicatum, cui
si trova ag- giunto dello stesso
autore il Lihellus
de minoratione ex
visce- ribtts.... ad Herndem
Gonzagam Principem iustissimum
et Cardinalem amplissinitmi (Venetiis,
MDXLV). Quest'ultimo volume
ha in principio
un bel ritratto
dell'autore e una
ta- vola raffigurante i sei
medici e filosofi
in atto di
giudicare e approvare la
sua opera. Nella
Qnestio de phlebotomiis , scritta contro un
chiarissimo medico del
quale non è
indicato il nome, accade
al Panizza di
ricordare l'antico maestro
che gli aveva conferite le
insegne dottorali. Accennando
ad Avicenna che fu
il migliore seguace
d'Aristotele, dal quale
discorda solo «in paucissimis
admodum rebus», egli
continua (f. e. 4r; Sectio
II, cap. 7): Ideo
Trapolinus, preceptor meiis,
sue etatis philosophorum ac medicorum
gloria, autoritate Girardi
bolderii Veronensis, 12 lyS l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI hanc dicebat
profitentibus arteni: '
Insequimini Avicennam, primo; insequimini
Avicennam, secundo; insequimini
Avicen- nam, tertio ! '. E
un po' più
giù (f. g.
2v cap. 24),
a proposito d'un'argo- mentazione «
subtilissima et tota....
metaphisicalis », osserva: Ex
quo non mirum
si medici ista
non intellexere, artifices sensitivi grossique
cum sint; stat
enim in abstractis
a materia.... Sed ex
sententia perspicui speculatoris
Petri trapolini, artifices huius artis
res tales e suis expellere
mentibus tenentur, cum
me- dicina sit de immersis
in materia et
quandoque feculenta et
turpi. Ma se il
Paniza ricorda il
Trapolin come insigne
medico, M. Antonio Genua,
figlio di Nicolò
che del Trapolin
era stato collega per
molti anni, continuò
a ricordarlo (sicuramente l'aveva conosciuto
da ragazzo) anche
come filosofo di
tendenze moderatamente
averroistiche, insieme al
Pomponazzi, nel commento al
De anima, stampato
postumo (a Venezia
nel 1576), ma composto
almeno un ventennio
prima. Altre notizie su
questo maestro, amico
e collega del
Peretto Mantovano non sono
riuscito a rintracciare,
ed ho riunite quelle che
ho trovato per
chi, come dicevo
e come mi
auguro, vorrà intraprendere più
ampie ricerche sullo
Studio patavino nel Rinascimento.
Intanto son lieto
di potere annunziare
che altre notizie e
documenti sulla famiglia
Trapolin, coinvolta nelle vicende
di Padova al
momento della guerra
per la lega di
Cambrai, il lettore
potrà trovare nella
A Criticai Edition of
the « Lettere
Storiche » 0/
Litigi da Porto,
a cura di
Cecil H. Clough, in
corso di stampa
presso 1' University
Press di Oxford. vili I QU
OLI BETA DE
INTELLIGENTIIS DI ALESSANDRO ACHILLINI
* I. - Se
a Padova il decreto episcopale
del 6 maggio
1489, vietava di disputare
« quovis quaesito
colore », sotto
qualsiasi pretesto, della dottrina
averroistica dell' intelletto,
meno che per combatterla,
e maestro Nicoletto
da Chieti e
il suo discepolo Agostino
Nifo da Sessa
si affrettavano a
recitare la loro palinodia,
e la penna
a impugnare l'averroismo
brandiva anche lo scotista
francescano Antonio Trombetta
i, a Bologna, sotto la
liberale signoria dei
Bentivoglio, Alessandro Achillini potè liberamente
discutere, al capitolo
generale dei francescani tenuto in
questa città, sotto
il generalato di
Francesco San- * Dal
voi. Sigieri di
Brab. nel pens.
del Rinasc. Ital.,
cit., pp. 45-90. I
II francescano frate
Antonio Trombetta, ordinario
di Metafìsica invia Scoti
a Padova, aveva
scritto, prima del
Vernia, un Tvactatiis
de humana- ruiìi animarmn
plurificatioiie coìitra Averroistas,
che sarà poi
pubblicato a Venezia, per
Bonetum Locatellum, nel
1498, col quale
scendeva in lizza
in difesa della proibizione
del vescovo P.
Barozzi. Il Wadding,
Scriptoves Ordinis Minornni, Roma,
1906, p. 30,
e' informa che
taluni, anzi che col
nome volgare di
Trombeta o Trombetta,
preferivano « cultu
quodam latino » di
chiamarlo con quello
di Tubefa; e
Antonio Tubefa è
chiamato anche
nell'epitaffio sepolcrale nella
chiesa di S.
Antonio a Padova, che
il Wadding riporta.
Sul finire delle
Questione s de pliiritate
etc, cominciate nel settembre
1492 e pubblicate
nel 1499 (v.
sopra, p. 108), il
Vernia scriveva (f.
92) : «
Si quis vero,
per resolutionem ad immediata
et per divisionem
ad minima, argumentationes contra Averroym, in
hoc quinto [commento]
philosophice discipline depra- vatorem, videre
desiderat, videat, opus
contra ipsum reverendi
sacre pagine magistri Antoni]
Trombetta, philosophi integerrimi
et theologi excellentissimi, provincie
sancti Antoni] Patavini
ministri meritissimi. Nam frustra
visum est mihi
tangere que ab
eo mihi amicissimo
sunt optime declarata ».
E il Trombetta,
che è il
primo dei tre
revisori del- l'opera del \
ernia, rende testimonianza, a
sua volta, al
sapere del col- lega e
alla fede di
lui, si da
procacciargli l'approvazione del
sospettoso Barozzi. l8o
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI sone, il primo
giugno 1494, presenti
forse il Nifo
e Giovanni Pico della
Mirandola, i suoi
Quoliheta de intelligentiis ^, in difesa della
sua interpretazione sigieriana
della dottrina aver- roistica, portata
alcuni anni più
tardi a Padova
dal suo « fìdus
Achates », Tiberio
Bacilieri, e da
lui stesso, e
a Padova pro- fessata da Geronimo
Taiapietra e da
Lorenzo Venier 3,
quando ormai il Nifo,
che n'era stato
propugnatore fin dai
primi anni del suo
insegnamento padovano -,
l'aveva apertamente ri- pudiata. In quest'opera
l'Achillini è sigieriano
da principio alla fine,
sebbene egli, secondo
un costume molto
diffuso, non faccia mai
il nome dell'averroista brabantino
né d'alcun altro, tranne
si tratti di
Aristotele o d'Averroè
o d'altra auto- rità pari a
queste. E, cosa
notevole, le opere
di Sigieri cui
egli attinge, sono quelle
stesse dalle quali
il Nifo prende
le citazioni che ho
riferito nel volume
su Sigieri di
Brahante nel pensiero del
Rinascimento Italiano: il
che si presterebbe
a varie con- getture. Come sappiamo,
le tesi difese
da Sigieri nel
suo trattato De intellectu, scritto
in risposta al De imitate
intellectiis di S.
Tom- maso, erano queste: i)
r intelletto possibile
è, in sé
stesso, l' infima delle
so- stanze separate, ed è
unico per tutta
la specie umana
4; 2) l'anima intellettiva
dell'uomo risulta dall'unione
del- l' intelletto
possibile, separato ed
eterno, colla «cogitativa»
che 2 Alexandri Achillini
bononiensis de intelligentiis quolibeta
in quibus quid commenta[for]
et Aristoteles senserint
et in quo
a veritate deviaverint continetur.
Anno domini Mcccclxxxxiiij Kalendis
iuniis in capitulo generali
minorum edita et
impressa Bononie impensis
Bene- dicti Hectoris [Faelli]
Bononiensis, illustrissimo Ioanne
secundo Ben- tivolo reipublice
Bononiensis habenas felicitar
moderante. La seconda edizione, fatta
presso lo stesso
editore Faelli, porta
la data del
5 marzo 1506, ed
è dedicata al
conte Annibale Rangoni,
che giovinetto aveva udito
l'Achillini disputare intorno
agli argomenti trattati
nel libro ed aveva
preso attiva parte
alle dispute. Intorno
al Rangoni, cfr.
G. Ti- RABOSCHi, Biblioteca
Modenese, t. IV,
1783, pp. 252-256. 3
Per il Taiapietra,
vedi più oltre
il saggio X.
Per Lorenzo Venier, allievo del
Bacilieri, è da
vedere il volume
di Nicolò Bonet,
Metaphys., naturai. Philos., Praedicam.,
necnon Theol. natur.
Recogn. ... per
magnif. dom. Laurentium Venerium....
Venetiis, Eredi di
Ottav. Scoto, 1505, con
lettera del Bacilieri
al Venier, e
dedica di questo
al doge Leonardo Loredan. Le
note marginali del
Venier risentono dell'
insegnamento del suo maestro
bolognese. 4 Nifo, De
intellectu, I, tr.
3, e. 18;
tr. 4, e.
io; II, II,
tr. 2, e. 11;
De anime beatit.,
I, comm. 53;
cfr. Sigieri ìiel
pens., pp. 16,
18-19. I « QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS » l8l è la
più alta delle
facoltà di cui
sia dotata l'anima
sensitiva dei singoli 5 ; 3) in
questa unione coi
singoli l' intelletto, uno
in sé, acquista un'esistenza
individuale e molteplice,
pari al numero dei
singoli ^ ; 4)
mercé questa unione,
l'anima intellettiva può
dirsi forma sostanziale «inerente»
all'uomo, e non
soltanto forma «assistente»; sì
che da essa
l'uomo trae il
suo essere specifico
di animale ragionevole 7 ; 5) r
intelletto possibile è pura potenza
priva di ogni
atto sostanziale; soltanto grazie
all'azione dell'intelletto agente la
sua potenza è
gradualmente attuata 8; 6)
r intelletto agente
è Dio ;
ma esso può
dirsi parte della anima
umana in quanto
concorre all'atto dell'
intendere umano e alla
fine dello sviluppo
intellettuale dell'uomo s'unisce all'intelletto possibile
come forma 9; 7)
r intelletto umano
può arrivare a
conoscere le sostanze separate e
Dio per unione
intenzionale colla loro
essenza '". Nel «
libello » De
felicitate, poi, l'averroista
del Brabante aggiungeva quest'altre tesi: 8)
nell'atto intellettuale col
quale l' intelletto possibile intende nella
sua essenza V
intelletto agente, cioè
Dio, con- siste formalmente la
suprema felicità dell'uomo
in questa vita"
; 9) al pari
dell' intelletto umano,
anche le altre
intelli- genze separate
conseguono la loro
beatitudine nell'atto col quale
intendono l'essenza divina
i- ; 5 NiFO,
De iutell., I,
tr. 3, e.
18; De anima,
comm. ad III,
t. e. 5;. cfr.
Sigieri, pp. 15-ig. 6
NiFO, De intell.,
I, 3, e.
18 e 26;
De a>iima, comm.
ad III, t.
e. 5: cfr. Sigieri,
pp. 15-20. 7 NiFO,
De ititeli., l,
tr. 2, e.
8; tr. 3,
e. 18 e
26; De anima,
comm. ad III, t.
e. 5; cfr.
Sigieri, pp. 15-20. 8
NiFO, De intell.,
I, tr. 3,
e. 18; tr.
4, e. io;
De anima, collect. ad
III, t. e.
14; cfr. Sigieri,
De anima intell.,
IX (Mandonnet, Sig. de
Brabant et l'averr.
latin, llème partie,
Louvain, 1908, p.
171), e la quarta
delle sei Qitaestiones
naturales edite dallo
Stegmùller, in Rech. de
tìiéol. anc. et
méd., III, 1931,
pp. 179-180.
Cfr. Sigieri, pp.
17, 21, 28. Vedasi
anche Giorn. Crit.,
XX, 1939, pp.
467-471. 9 NiFO, De
intell., I, tr.
4, e. io;
II, tr. 2,
e. 17; cfr.
Sigieri, pp. 24-26. 10
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 11; De
anime beatit., I,
comm. 53; V. Sigieri,
p. 21. " NiFO,
De intell., II,
tr. 2, e.
2; De anime
beat., II, comm. 21; V.
Sigieri, pp. 24-27. 12
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 2 e
17; De anime
beatit., II, comm.
21; De anima, collect.
ad III, t.
e. 14; v.
Sigieri, pp. 25-27. 102 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI io) sì per
r intelletto umano,
sì per le
altre intelligenze separate, «intellectio
qua Deus intelligitur
est ipse Deus» '3. Ora
tutte queste tesi
son difese dall' Achillini nei
suoi Qtioli- heta de
intelligentiis; anzi la
massima parte di
quest'opera del maestro bolognese
è dedicata alla
trattazione di questi
dieci punti svolti negli
scritti di Sigieri,
dei quali il
Nifo ci ha ri-
velato l'esistenza; il che
m' ha recato,
quando ho potuto
ren- dermene conto, non poca
sorpresa. La trattazione dell'Achillini verte
intorno a questo
problema fondamentale : «
Utrum latitudo intellectuum
sit uniformiter difformis ».
Per intendere l'esatto signiiìcato
di questo pro- blema, giova ricordare
alcune cose. È noto che
Anassagora, a spiegare l'origine
del movimento fisico
che separa i
semi delle cose dal
\ny\La. nel quale
eran tutti confusi,
e per dar
ragione dell'ordine che s'osserva
nella natura, sentì
il bisogno di
porre una mente ordinatrice,
«non mista perché
dominasse ))i4. Ma parve a
Platone e ad
Aristotele che, pur
avendo affer- mato un così
operoso principio, Anassagora
non ne traesse tutto
il vantaggio che
poteva e non
gli attribuisse quella causalità che
gli sarebbe spettata
nell'ordinamento delle cose. Perciò,
il primo ad
ogni specie di
cose nel mondo
sensibile fece corrispondere una
propria idea nel
mondo del pensiero; ed
il secondo pose
tante menti separate
quanti, a suo
modo di vedere, sono
i movimenti celesti.
Anzi che un
solo intelletto, abbiamo così
per Aristotele una
gerarchia d' intelhgenze, com- prese fra due
termini estremi: l'intelletto
umano in basso,
e la mente del
primo Motore immobile,
puro pensiero, al
vertice. Come le idee
dei generi e
delle specie hanno
una maggiore o minore
estensione, così questi
intelletti hanno una
maggiore o minore capacità
d' intendere, in rapporto
alla funzione che ad
essi è riservata
come motori; poiché
non va mai
dimenti- cato che solo per
mezzo del movimento
Aristotele, al pari
di Anassagora, era giunto
ad affermare l'esistenza
d'una prima Mente motrice
dell'universo e di
altre menti intermedie
fra quella e il
mondo della generazione,
aventi l'ufficio di
adattare r impulso che
viene dal primo
Motore, a particolari
fini su- bordinati al fine
supremo. Perciò la
prima Mente è
intelli- genza al massimo grado,
mentre gli altri
intelletti, giù giù ^3
Luoghi cit. nella
nota preced. 14 ARisT.,
De anima, III,
e. 4, 429^ 19. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 183 di
cielo in cielo,
fino all' intelletto
umano, possiedono una capacità
d' intendere sempre più
limitata. Rappresentandosi r intelligenza
a guisa d'una
qualità, per esempio,
d'un colore, di cui
s' hanno molti
gradi d' intensità, da
quello piìi cupo a
quello più chiaro,
gli scolastici dal
secolo XIV al
XVI solevano chiamare latitudo
l'estensione compresa fra la cosa
che pos- siede quella data
qualità nel minimo
grado, e la
cosa che la possiede
nel grado più
alto e più
intenso: perciò la
latitudo dell'intelligenza
non è altro,
come dice l'Achilliniis, se
non la gerarchia stessa
degl' intelletti, avente
il grado più
basso o più dimesso
nell' intelletto umano,
e il grado
più alto o
più intenso neir intelletto
divino. Chiedersi se la latitudo
degl' intelletti sia «
uniformiter difformis »,
significa per lui
domandarsi se le varie
intelligenze differiscon fra
loro per gradi
uguali op- pure no 16.
Ma per risolvere
siffatto problema, è
necessario vedere qual' è
la natura propria
dei singoli intelletti
compresi nella 15 «
Latitudo intellectuum est
ipsi intellectus ordinati
secundum quod ex se
sunt ordinabiles ».
De intelligentiis, quol.
I, in Alex.
Achil- LiNi, Bononiensis, philophi
celeberrimi. Opera omnia
in iDium collecta.... cum
annotationibus excell. doctoris
Pamphili Montij, Bononiensis, scholae Patavinae
publici professoris. Venetijs, apud
Hieronymum Scotum, MDXLV, fol.
i, col. i.
A questa edizione
mi riferisco anche nelle
citazioni successive, per
ragioni di comodità. 16
In un trattatello
De latitudinibus formarum,
più volta stampato dal
i486 in poi
sotto il nome
di Nicolò d'Oresme,
si leggono in
principio queste definizioni che
giova tener presenti
: « Latitudo
uniformis est illa que
est eiusdem gradus
per totum ».
« Latitudo difformis
est que non est
eiusdem gradus per
totum ». Questa
si divide come
segue: « Latitudo secundum
se totam difformis
est cuius nulla
pars est uni- formis »; «
latitudo non secundum
se totam difformis
est illa cuius
aliqua pars est uniformis».
La «latitudo uniformiter
difformis» è una
sotto- specie della « latitudo
secundum se totam
difformis », ed
è precisamente quella «
cuius est equalis
excessus graduum Inter
se equaliter distan- tium
» {Tractatus de
latidinibus formarum secundum
Reverendum dodo- rem magistrum
Nicholaum Horen, Venezia,
1505, [fol. 27]).
Sul- l'autore di questo piccolo
trattato, l'eremitano Iacopo
di San Martino, detto anche
Iacopo da Napoli,
il quale riassunse
e schematizzò, non
del tutto fedelmente, un
più ampio trattato
di Nicolò d'Oresme,
come sul sommento di
Biagio Pelicani da
Parma che insegnò
anche a Padova
e a Bologna, e
in generale sul
tentativo di costituire
verso la metà
del sec. XIV un
metodo matematico per
il calcolo dell'
intensità delle qua- lità non
solo corporee ma
anche spirituah, completa
luce ha fatto
la Dott. Anneliese Maier,
nella sua opera
An der Grenze
von Scholastik iind Naturwissenschaft. Roma,
Ediz. di Storia
e Letter., 1952.
pp. 257-384, che è
uno dei più
seri e documentati
contributi allo studio
della filosofia della natura
nel secolo XIV,
condotto con rara
conoscenza delle fonti manoscritte, e
perfetta intelligenza dei
problemi trattati. 184 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI latitudo di
quella perfezione o
qualità che dicesi
intelligenza: e segnatamente se
il primo e più alto
intelletto sia intelligenza infinita. Nel
qual caso, è
evidente che la
latitudo dell' intelli- genza sarebbe infinita. Occorre pertanto
chiedersi in primo
luogo se il
primo Mo- tore, cioè Dio,
muova l'universo con
vigore o virtù
intensiva- mente infinita, e sia
perciò di vigore
intensivamente infinito. Per intendere
il significato del
qual problema, è
necessario ricordare che l'argomento
principale, col quale
Aristotele era salito a
Dio, è quello
del moto, come
abbiamo già osservato: Dio è
essenzialmente il primo
Motore immobile dell'
universo, è l'universo è
il mosso. Ora
l'universo, per Aristotele
come pei Pitagorici, è
una sfera di
raggio finito, avente
per centro assoluto la
terra e per
limite esterno il
cielo delle stelle
fisse. Finito nella mole,
il mondo si
muove con moto
finito in ve- locità, e
infinito soltanto in
durata, poiché l'universo
è eterno. Dall' intensità
del moto dell'universo
non si può
dunque ar- guire ad un'
infinità intensiva della
virtù o vigore
con cui Dio- muove
il mondo. Ed
infatti Averroè dice
espressamente in più luoghi
17, che v'
è proporzione tra l'
intensità di vigore
nel movente e la
velocità del mosso;
sì che un'azione d'intensità infinita e d'
infinito vigore non
può esser ricevuta
in un corpo di
grandezza finita. Se
il primo Motore
movesse il cielo
con virtù intensivamente infinita,
questo dovrebbe muoversi
con velocità infinita in
un solo istante.
S. Tommaso credette
di potersi sottrarre alla
conclusione cui era
giunto Averroè, con- cedendo che tutto
ciò è vero
dei motori naturali
che mettono nel muovere
tutta la forza
di cui sono
capaci; ma non
è vero dei motori
che agiscono con
intelletto e libera
volontà, qual è Dio.
Il primo Motore
dell'universo, per l'Aquinate,
appunto perché dotato d' intelligenza e
di libero volere,
comunica al mondo quel
tanto di movimento
che meglio si
conviene, in rapporto al
fine che si
propone di raggiungere
e alla capacità limitata del
mosso; ma questo
non implica che
vi sia una proporzione necessaria
tra la quantità
di movimento ricevuta dal
mondo e la
virtù del primo
Motore, l' infinità della
quale può dimostrarsi per
altra via i^. 17
AvERR., Phys., Vili,
comm. 79; De
caelo, II, comm. 38-39, 63,
71 ; Metaph., XII,
41; De substantia
orbis, cap. 3. 18 S.
Tommaso, Phys., Vili,
lez. 21, ad
t. e. 79. I I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGEN TIIS » 185 La
proposizione 29^ delle
219 condannate a
Parigi nel 1277, suona
così: Quod Deus est
infinitae virtutis in
duratione, non in
actione, quia talis infinitas
non est nisi
in corpore finito,
si esset. E di
nuovo la proposizione
62^: Quod Deus est
infinitae virtutis, non
quia facit aliquid
de nihilo, sed quia
continuat motum infinitum
'9. La condanna di
queste due proposizioni
è sicura prova
che, anche su questo
punto, gli averroisti
parigini accettavano r interpretazione che
Averroè aveva dato
del pensiero d'Ari- stotele. Era di
questo avviso anche
Sigieri ? «
De ista quae- stione
», — e'
informa Giovanni di
Jandun -o —
« credunt magni viri
in philosophia, Philosophum
et maxime Commen- tatorem veritati
catholicae adversari ». Che egli
alluda a S. Tommaso
non è possibile,
poiché l'Aquinate scagionava
Ari- stotele da quest'accusa d'opporsi
alla verità della
fede su quest'argomento. Doveva
dunque trattarsi d'averroisti.
Ora « vir magnus
in philosophia »
è titolo che
troviamo dato a Sigieri.
Parrebbe dunque che
Sigieri accettasse l' interpreta- zione averroistica della
dottrina aristotelica in
proposito. Il che è
confermato anche dall'ultima
citazione che del
bra- bantino abbiamo trovato
nel De primi
Moforis infinitate del Nifo.
A quanto ci
fa sapere il
suessano, Sigieri e
Giovanni di Baconthorpe «
petunt.... primum Motorem
esse universi mobilis celestis formam
perficientem et non
constitutam » e
che esso è «
prima illius perfectio
», sì da
potere affermare che,
almeno per accidens, si
muove insieme al
cielo -i. Siccome la
quistione concerneva direttamente
l'onnipotenza di Dio e
la sua trascendenza,
s'era accesa in
proposito un'ap- passionata
e interminabile controversia
che si protrasse
fin oltre il secolo
XVI, poiché troppo
premeva ai teologi
aver dalla loro parte
Aristotele. Soltanto quando
si comprese che la
filosofìa aristotelica non
era tutta la
filosofia, l'ardore della controversia cominciò
a venir meno
--. 19 Denifle
e Chatelain, Chart.
univ. Paris.,
I, 544 sg. -0
Quaestiones super Averrois
sermonem de substantia
orbis, q. 12. -I
V. Sigieri, p. 41.
22 Giovanni di
Jandun, oltre che
nelle Quaestiones sul
De substantia or- bis,
discute il problema
« utrum primum
Principium sit infiniti
vigoris » lS6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI L'Achillini, da
quel buon averroista
ch'egli è, ci
dà del problema questa
soluzione: « Primum,
mens Philosophi fuit deum
esse finiti vigoris.
Secundum, ad oppositum
est veritas ». Provata
la prima parte
della tesi, riferisce
le obiezioni «
centra Philosophum », alle
quali fa seguire
la risposta d'Aristotele. Ma nel
far questo, che
è un procedimento
generale seguito in tutti
e cinque i
Quolibeta, l'Achillini si
mette al riparo
da ogni accusa d'eresia
con questa tipica
dichiarazione, fatta una volta
per sempre :
« Ad haec
praemitto quod ubi
Philosophum introducam
respondentem, non teneo
responsionem illam»^!. Dopo ben
cinque fitte colonne
di serrate schermaglie
dialet- tiche e di citazioni
di testi, sì
da darci l' impressione che
egli la pensi proprio
come Aristotele e
il suo «
ottimo commen- tore », eccolo
a dichiararci: Sed quia
haec opiiiio in
phiribus errat, ut
patet consideranti ea in
quibus introducitur Philosophus respondens,
ideo, ea di- missa,
pone secundum dictum
principale : Deus
est infiniti vigoris in
essendo et operando
in tempore et
actione. Ex quo
sequitur infinitam esse intellectuum
latitudinem 24. E le
prove di questa
tesi ? Nessuna,
tranne quel patet,
che non è affatto
una prova. Seguono
invece quattro obiezioni anche nelle
Quaestiones sulla Metafisica
(XII, q. 15)
e in quelle
sulla Fisica (Vili, q.
22) : e
tutte e tre
le volte con
molta ampiezza. Lo
stesso problema è ventilato
da Duns Scoto,
Qiiodl., q. 7,
da Giov. di
Bacon- thorpe. In I
Seni., dist. 44-45,
da Gregorio da
Rimini, In I
Seni., dist. 42, q.
3, a. I,
e più tardi,
ma anche con
maggior copia, dal
Nifo, dall' Achil- lini, da
Tommaso de Vio,
detto il Cardinal
Gaetano, che nella
sua Subti- lissima quaestio
de Dei gloriosi
infinitate intensiva, terminata
a Pavia, il IO
settembre 1499, credo
abbia raggiunto il
primato della prolissità (è
stampata in appendice
al commento tomistico
della Fisica, Ve- nezia, 1573, pp.
316-335), si da
superare lo stesso
Elia del Medigo,
detto altresì Helias Cretensis,
il quale tratta
di quest'argomento nella
sua interminabile De primo
Motore acutissima quaestio
(in appendice alle Quaestiones di
G. di Jandun
sulla Fisica, Venezia,
1552, f. 133,
col. 1-4) e nelle
Annotationes in dictis
Averrois super libros
Physicorum- {ib., fol. 153,
col. 4,-f. 155,
col. 4). Vedasi
anche M. A.
Zimara, Theoremata, 61, e
Fr. Piccolomini, De
caelor. motoribus, 33-35.
Giordano Bruno, nel primo
dialogo De l'infinito,
universo e mondi
(in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze,
1958,, pp. 387-88), accenna all'
« importantissimo ar- gomento, per il
quale — dice
Elpino — è
stato ridutto Aristotele
a negar la divina
potenza infinita intensivamente ».
La soluzione che
del problema affaccia Filoteo,
il quale dall'
infinità di Dio
ha dedotto r infinità
dell'universo, consiste nel
cambiarne i termini,
si da mo- strarlo definitivamente superato. 23
AcHiLLiNi, De intell.,
ql. I, f.
i, col. 2. 24
Ih., f. 2,
col. 2-3. I «
QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 187 contro quest'asserto, alle
quali il filosofo
bolognese fa del
suo meglio per rispondere
in una mezza
colonna, osservando, alla fine,
che « rationes
philosophorum super dictis
ab eis fundantur; ideo
non difficile est
eas solvere» =5.
Ma intanto non le
risolve. A questa che
è la quaestio
principale del primo
Quolibetum. tengon dietro tre
duhia, coi quali
si tende a
precisar meglio il concetto
aristotelico-averroistico di Dio e a
porre in evidenza taluni postulati
della soluzione data
al problema principale. Il primo
di questi dubbi
consiste nel chiedersi
« utrum tantum deum
deus intelhgat »,
cioè se Dio
conosca soltanto sé
stesso oppure anche le
cose inferiori ad
esso e segnatamente
quelle del mondo sublunare.
Anche su questo
punto l'Achillini è averroista: Respondeo per
duo dieta. Primuni:
opinio Aristotelis est,
quod sic. Secundum: illa
opinio non est
vera -6. La prima affermazione
è provata con
ben sei gruppi
di argo- menti, che in
tutto assommano a
venticinque. La conclusione dei quali
è la seguente: Ex
his de mente
Philosophi habentur quinque;Primum, deus intelligit
se et non
aliud. Et si
dixeris: verum est
recipiendo, sed aliter non -7;
dicam quod non
potest aliquid intelligere
aliud a se, nisi
recipiendo; ideo non
potens recipere, non
potest intel- ligere aliud. Productio
autem vilium non
infert passionem in agente;
ideo quamvis deus
non intelligat vilia,
producere tamen potest. Secundum,
aliae intelligentiae in
actu intelligunt se et perfectius se
et nihil vilius
eis. Tertium, intellectus
possibilis ^5 Ib.,
f. 2, col.
3. 26 Fol. 2,
col. 3. 27 Così
appunto dicevano i
teologi: Dio non
intende le altre
cose di- verse da sé,
nel senso che la mente
divina sia attuata
da un qualche altro
intelligibile diverso dalla
sua stessa essenza,
e dinanzi al
quale esso sia in
potenza; Dio conosce
le altre cose
conoscendo se stesso,
e quindi senza niente
ricevere. La condanna
che il vescovo
di Parigi, Stefano Tempier,
fece nel 1270
di tredici proposizioni
averroistiche, e che è
il primo sicuro
documento dell' esistenza
d'una corrente averroi- stica a
Parigi, colpisce queste
due proposizioni: «Quod
Deus non co- gnoscit
singularia « e
« Quod Deus
non cognoscit alia
a se >>.
Cfr. De- NiFLE e
Chatelain, I, pp.
486-487. Tuttavia, leggendo
attentamente il commento d'Averroè,
Metaph., XII, comm.
51, e la
Desfriictio de- structionum, disp.
VI, dub. 3-4,
nasce il sospetto
che il suo
pensiero non sia stato
ben compreso. Si
veda in proposito,
Giov. di Baconthorpe, In I
Sent., dist. 35
e 39; M.
A. Zimara, Theoremata, 83. l88 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI intelligit se viliora
et nobiliora. Quartuin,
nullus intellectus, nisi forte
possibilis, intelligit aliquid
extra se. Quintum,
deus est simpliciter primo
notum; sed primum
principium complexum, de quo
quarto Metaphysicae, commento
octavo, est notissimum nobis 28. Ai
venticinque argomenti coi
quali è provata
la tesi averroi- stica, se ne contrappongono sedici
; ma, mentre
i primi restano insoluti, ai
secondi è data
una soluzione dal
punto di vista averroistico. Dopo
di che l'Achillini
s'affretta a concludere: Sed propter
multa falsa, quae
sequuntur ad hanc
positionem, eam cum auctoritatibus eius
dimittamus. Tenemus igitur
quod Deus cognoscit omnia;
ex quo sequitur
quod non omnis
intellectus intelligens
aliud a se
patitur ab eo.
Sequitur secundo, quod
non omnis intellectio, qua
materialia intelliguntur, est
collecta ab intellectu agente
ex singularibus. Ex his duobus
fundamentis solvuntur
rationes philosophorum, quia
super oppositis corol- lariorum fundantur
29. Il
secondo diibium concerne
la causalità efficiente
del primo Motore. Aristotele
3° aveva detto
che la prima
Intelligenza muove le intelligenze
preposte al movimento
dei singoli cieli, come
bene supremo da
esse conosciuto e
desiderato, ossia come fine
ultimo cui tutte
le cose tendono.
Il problema che pone
il maestro bolognese,
« utrum prima
Forma, quae est ultimus
Finis, sit primus
Motor », verte
non sull' attrattiva che Dio
esercita sugli esseri
in quanto «
amor che muove
il sole e le
altre stelle »,
bensì sul movimento
rotatorio della prima sfera
mobile. Secondo un'
interpretazione del pensiero d'Aristotele e
del suo commentatore
di Cordova, Dio
muove i cieli soltanto
per mezzo d'un
motore appropriato, cioè
d'un' in- telligenza, la quale
è mossa dal
desiderio di assomigliare
al primo Motore 31.
Secondo un'altra interpretazione, invece, Dio
muove il primo
cielo mobile immediatamente v-
; e poiché il
primo mobile rapisce
col suo impeto
tutti gli altri
cieli, ne 28 ACHILLINI,
fol. 3, col.
2. 29 Fol. 4, CI.
30 Metaph.,
XII, e. 7,
10720 2-4 (t.
e. 37). 31
Giov. DI Jandun,
Quaestiones sup. Metaph.,
XII, q. 17,
Quaest. sup. Phys., Vili,
q. 21. 32 Cfr.
M. A.
ZiMARA, Quaestio de
triplici cansalitate intelligentiae (in appendice
alle Quaestiones di G. di
Jandun sulla Metafisica,
Venezia, 1525, fol. 170,
col. 2-4); Theoremata, 61. I
« QUOLIBETA DE
IXTELLIGENTIIS » 189 viene
che il primo
Motore esercita su
tutto l'universo una
vera e propria azione
di causa efficiente
e non soltanto
di causa finale. Sigieri, a
quanto sappiamo dall'ultima
citazione del Nifo,
ri- teneva che il primo
Motore fosse addirittura
forma e perfe- zione del cielo,
a tal segno
che si muove
per accidens insieme ad
esso ; nel
che egli non
faceva se non
ripetere una dottrina d'Averroè, il
quale in più
luoghi insiste sul
concetto che il primo
Principio è tale
in quanto è
fine, forma e
motore del- l'universo 33. L'Achillini risolve
il dubbio, dimostrando
con quattordici argomenti che
Dio imprime al
mondo un movimento
effettivo come primo Motore
di esso; né
questa volta ha
bisogno di distinguere tra
l'opinione di Aristotele
e la verità,
poiché « Philosophus in
hoc quaesito non
recedit a veritate
», quanto all'asserto della
causalità efficiente ; ma osserva
che si discosta dal
vero in un
particolare: « sed
bene in circumstantia: quia dictum
est de mente
eius, quod Deus
est motor immediate
et appropriate movens caelum,
et quod nulla
alia intelligentia ab ipso
movet primum caelum;
sed hoc non
est verum etc.))34. Ed
infatti la tesi,
che il moto
del primo cielo
derivi immedia- tamente da Dio,
si basa sul
concetto che Dio
è forma del primo
cielo. Ora questo
concetto è schiettamente
averroistico, ed è uno
dei presupposti della
teoria che dalla
finita grandezza del moto
celeste deduce, come
abbiamo visto, il
vigore finito del primo
Motore. Questo necessario reciproco
rapporto tra Dio
e il mondo
si scorge anche meglio
nella discussione del
terzo dubbio :
« Utrum Deus libere
moveat caelum ».
Neil' interpretazione averroi- stica del
pensiero d'Aristotele, se Dio è
necessario a spiegare l'esistenza del
moto, e, diciamo
pure, l'esistenza del
mondo stesso, è altrettanto
vero che, posta
l'esistenza del primo
Mo- tore e della prima
Causa efficiente, questa
e quello agiscon come
natura anzi che
come libera volontà
creatrice. « Sigieri non
sembra aver concepito
la possibilità d'una
vera libertà creatrice, che
a lui pare
esclusa tanto dall'
immutabilità divina quanto dalla
necessità delle specie »3\
Posto Dio come 33
AvERR., Metaph., X,
comm. 7; XII,
comm. 5-6, 36,
38, 41, 44; De
subst. orbis capp.
1-2. 34 AcHiLLiNi, fol.
4, col. 4. 35
F. Van Steenberghen,
Les oetivres et
la doctrine de
Siger de Bra- bant,
Bruxelles, 1938, p.
128; Sig. de
Brab. d'après
ses oeuvres inédites, igo L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI prima Causa motrice
del mondo, questo
ne risulta necessaria- mente, come la
conseguenza dalle premesse
d'un sillogismo. Aristotele aveva
ben fermato la sua attenzione
sugli eventi che si
dicon contingenti e
fortuiti; ma anzi
che dedurre la contingenza di
tutti gli esseri
creati dall'essenziale libertà
del pensiero divino, aveva
imposto allo stesso
pensiero divino e all'atto
creatore la necessità
del suo astratto
formalismo logico, e la
contingenza e il
caso aveva limitato
al mondo su- blunare, spiegando l'una
e l'altro per
mezzo del concetto
delle '( cause impedibili
» e dell'
« indisposizione della
materia » che spesso
è sorda a
rispondere all' intenzione
dell'arte. Pur tra- scendente o «
separato », il
primo Motore resta
così prima forma e
prima perfezione dell'universo, al
quale è intimamente
unito non come forma
« constituta per
subiectum », bensì
come forma « constituens
subiectum » 36. Per
dimostrare la tesi,
che secondo Aristotele
Dio muove il cielo
per sua natura
e non liberamente,
sì da poter
non muo- verlo o mutarne
la velocità e la direzione,
l'averroista bolo- gnase argomenta
così: tutto ciò
che si muove
per un principio essenziale che
è in esso,
si muove per
sua natura; ma
questo è il caso
del cielo; dunque
esso è mosso
naturalmente 37. Se il primo
Motore potesse non
muovere oppure muovere
in modo diverso da
quel che fa,
il mondo potrebbe
esser diverso da quello
che è, e
anche non essere.
Ma tutte queste
conseguenze sono impossibili per
Aristotele, che dall'
immutabilità del primo Motore
deduce la necessità
e l'eternità dell'universo, come d'un
effetto connaturale e
inseparabile dalla sua
causa. Puro atto senza
alcuna potenza, Dio
causa dall'eternità il II
voi., Louvain, 1942,
p. 607. Tale
è il pensiero
di Siglari in
tutti gli scritti intestati
a lui dai
codici. Per attribuirgli
con qualche fondamento la
tesi opposta, bisogna
supporre che siano
sue le Quaestiones
sulla Fisica edite dal
Delhaye (cfr. Giorn.
Crii., XXIV, 1943, pp.
85-90). Ma per farlo
manca ogni serio
indizio esterno, e
le prove interne
sono troppo deboli. 36 Si
veda il passo
del Nifo riportato
in Sigieri.... p. 41. Su
questa distinzione ricavata da
diversi luoghi di
Averroè, cfr. dello
stesso Nifo il commento
al De anima,
III, ad t.
e. 5, già
riferito in Sigieri,
p. 15. Vedasi anche
l'Appendice nello stesso
volume, pp. 175-176. 37
AcHiLLiNi, Quol. I.
dub. 3, fol.
5, e. i
« Omne quod
movetur per principium quod
est in eo,
movetur per naturam,
octavo Physicorum, t. e.
27. Intelligo in
subiecto maioris: per
se primo, et
non secundum accidens; et
tunc patet propositum
ex diffinitione naturae,
secundo Phy- sicorum, t. e. 3. Sed caelum
movetur per principium
etc, ut vult
Com- mentator Aristotelem declarasse
in principio septimi
Physicorum, etc. ». I
'( QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » IQI mondo
con ordine e
moto necessario. Dal
che « sequitur
nullam esse in rebus
libertatis contingentiam, ad
quas non concurrit homo »
; poiché la
ragione della contingenza
dell'umano ar- bitrio
consiste nel modo
di conoscere, essenzialmente discor- sivo, che è
proprio dell'uomo; di
guisa che la
mente umana, procedendo per
composizione e divisione
di concetti, «
potest aftìrmativam vel negativam
[partem] concludere, et
conse- quenter ad utramque
partem possibilis est
assensus ». Or questo
non accade né
nelle altre intelligenze
superiori all'umana, né, tanto
meno, nella prima
Intelligenza 38. Necessario a
render ragione della
realtà dell'universo, dei movimenti
celesti e di
ogni accadere, il
primo Motore d'Ari- stotele non ha
altra realtà, per
l'averroista, all' infuori
di questa, né altra
ragione di essere
che questa: senza
il mondo da esso
causato e mosso,
il primo Motore
non sarebbe nulla. Perciò
Dio e mondo
formano un binomio
indissolubile, come amore e
cuor gentile nella
canzone guinizelliana, come
il sole e il
suo risplendere: ch'adesso che
fo il sole sì
tosto lo splendore
fo lucente, né fo
avanti il sole. Contro
questa dottrina del
Filosofo, qual'era intesa
ed espo- sta dal Commentatore
di Cordova, l'Achillini
riferisce ben diciotto argomenti,
avendo però cura
di farci sapere
che cosa gli averroisti
rispondevano. Dopo di che conclude,
secondo il suo costume
: His praetermissis, ad
veritatem revertamur, et
dicamus Deiim ad extra
mere libere et
contingenter agere. Concedanius
insuper quod in Deo
esse et agere
sunt idem, et
tamen non, si
necesse est Deum esse,
necesse est Deum
agere ad extra.
Dicamus tertio quod, licet
necessitas sit melior
conditio essendi, non
tamen est melior conditio
operandi ad extra.
Ncque immutabilitas divina toUit
novitatem in effectu,
quia ab aeterno
determinavit Deus agere nunc.
Ideo contra philosophos
dicamus, quod ab
antiqua vohmtate potest aliquid
novi poni in
esse, sine mutatione
operan- tis, aut remotione
impedimenti etc. Addo
insuper, licet necesse sit
Deum esse productivum
ad extra, non
tamen necesse est
ipsum producere ad extra.
Concedo etiam nullam
rem quae est
Deus esse contingentem ;
dimitto naturam assumptam,
et tamen de 38
ib., fol. 5,
col. 1-2. ig2 L
ARISTOTELISMO PADOV'ANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Dee formabiles sunt
propositiones per accidens
et contingentes, propter connotationem
extrinseci. Neque propter
hoc quod Deus multa
producibilia potest producere,
quorum nullum producet, concedendum est
potentiam divinam frustrari,
quia reduci potest et
in aliquo illius
generis reducta est
in actum 39. Con
queste proteste di
attaccamento all' insegnamento teologico, ha
termine il primo
qiiolibetum che tratta
dell' in- telletto del primo
Motore, la cui
latitudo è dunque
finita com' è finita
la grandezza del
mondo e del
movimento. L'opposizione fra la
tesi averroistica e
quella teologica non
è che un
aspetto particolare fra la
concezione aristotelica del
mondo e l' intui- zione cristiana. Per
Aristotele, come l'espone
Averroè, Dio è principio
teleologico e causa
prima efficiente della
natura; la natura alla
sua volta è
effetto necessario ed
eterno dell'at- tualità
divina. Dio è
principio in quanto
dà origine a
un prin- cipiato; esso è
l'atto che precede
logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico
riflette la necessità
e l' immutabilità della
sua prima causa. Dio
insomma è complemento
necessario della natura ed
è esso stesso
natura: è la
stessa natura intellettua- lizzata, cioè considerata
platonicamente sub specie
aeternitatis. Neil'
intuizione cristiana del
mondo, invece. Dio
è spirito, cioè libera
volontà creatrice, infinita
potenza, infinita sapienza, infinito amore.
Il mondo e' è, ma
potrebbe non esserci,
o esser diverso; e
c'è, per un
atto di liberalità
divina. La necessità delle leggi
di natura non
è assoluta, ma
relativa al decreto della
volontà divina che
liberamente le ha
stabilite e può mutarne
il corso. Così
la contingenza è
alla radice stessa
del- l'ordine cosmico; il miracolo
è affermazione e
prova della con- tingenza della natura
e delle leggi
fisiche. Con siffatta
dottrina il cristianesimo liberava
l'uomo dalla tirannia
del fato cui dovea
piegarsi la volontà
dello stesso Giove.
Al posto degli inesorabili decreti
dell' Ananche si sostituiva
la libera e
onni- potente volontà di Dio,
che ha dato
all'uomo il potere
di coo- perare ai suoi
eterni disegni. Libero
e artefice del
proprio de- stino, l'uomo si
sente così simile
a Dio. Dopo quello
che Agostino e lo Pseudo
Dionigi e Pier
Da- miani e il Cardinal
Cusano avevano speculato
intorno alla natura divina,
mentre nel rinnovato
platonismo cristiano del Rinascimento
covavano i germi
che sarebbero esplosi
nei 39 Iv., fol.
5, col. 4-f.6,
col. i. I «
QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS )) I93
dialoghi De la
causa e De
V infinito, la
dottrina averroistica su Dio,
anzi che un
progresso, dove sembrare
la ricaduta in una
delle più anguste
forme di naturalismo
già da molto
tempo sorpassate. Ad un
superamento definitivo occorreva,
per altro, eliminare quella
ristretta visione cosmologica
alla quale il concetto
di Dio era
legato, e che
è merito delle
nuove scoperte astronomiche aver
per sempre dissipato. 2. -
Il secondo qiiolihetum
tratta delle intelligenze
separate, intermedie fra 1'
Intelligenza divina e l'
intelletto possibile, proprio della
specie umana. Queste
intelhgenze son sostanze separate preposte
ciascuna al moto
d'uno dei cieli
inferiori alla prima sfera,
che è mossa
immediatamente dal primo Motore. L'Achillini comincia
coll'affermare che, secondo
la dottrina d'Aristotele, siffatte
intelligenze non sono
state prodotte, e per
conseguenza sono eterne;
ma che, secondo
la verità della fede,
è tutto il
contrario. La prima
parte della tesi
è dimostrata con quattordici
argomenti; con altrettanti
la seconda; colla differenza, che
gli argomenti in
favore della prima
parte non hanno risposta,
mentre degli argomenti
in contrario abbiamo la
soluzione. Per quel che
concerne la dottrina
d'Aristotele, il lettore poco
esercitato potrebbe rilevare
una divergenza tra
l'averroista bolognese e Sigieri
su questo punto:
che, mentre quello
dice le intelligenze celesti
non prodotte, questo
al contrario le
dice tutte causate immediatamente o
mediatamente da Dio
che dà l'essere a
tutte le cose 40.
In realtà, la
divergenza è soltanto nel
modo d'esprimersi e
non nel pensiero. Perché le
intelligenze celesti non si posson
dire prodotte ? Perché
non sono state
tratte dalla potenza
all'atto, quasi che ci
fosse una loro
potenza ad essere,
la quale precedesse,
anche soltanto logicamente, il
loro atto di
essere. Esse sono
natural- 40 Sigieri di
Brab., Impossibilia, I
(ed. Mandonnet, Sig.
de Brab. et l'averr.
latin au XlIIème
siede, Ilème Partie,
Louvain, 1908, pp. 76-77) ; De
necess. et conting.
caus. (Mandonnet, pp.
111-112); Aletaph., II, 8 (ediz. a cura
di Cornelio A. Graiff, Sig.
de Brab. Questions
sur la Me- taphysiqiie. Texte
inédit. Louvain, Édit.
de 1' Institut
Super, de Phi- losophie, 1948,
pp. 46-51), III,
7-8 {ib., pp.
93-103). Cfr. Van
Steen- BERGHEN, S. d.
B. d'après ses
oeuvres inédites, voi.
II,
p. 606. 13 194 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI mente e necessariamente, per
il fatto stesso
che esiste la
prima Causa che le
fa essere, a
quel modo che
l'esserci il sole
fa sì che ci
sia lo splendore.
Esse son certamente
causate dalla prima Intelligenza,
ma non prodotte
alla maniera delle
cose che possono essere
e non essere.
L'atto non s'aggiunge
in esse alla potenza,
né l'essere sopravviene
all'essenza: sono puri atti
per loro natura,
ed atti eterni,
come eterno e
necessario è l'Atto primo
che le causa
41. Strettamente connesso con
questo problema è
il primo dei tre
duhia: «. Utrum
ponenda sit creatio
». Anche a
questo quesi- to il giovane
maestro bolognese risponde,
essere opinione d'Ari- stotele che non
si dà creazione;
ma soggiunge che
la tesi dello stagirita non
è vera. Secondo
la dottrina aristotelica,
la causa agente ha
sempre bisogno d'una
materia su cui
esercitare la sua azione,
e dalla cui
potenza trae quello
che essa produce. Ora
la creazione implica
una produzione dal
nulla, senza pas- saggio dalla potenza
all'atto 4^. Allo
stesso modo Sigieri,
par- lando dell'anima
intellettiva (e il
discorso vale per
tutte le intelligenze e
altresì per i
corpi celesti), afferma
che, sebbene essa possa
dirsi fatta, nel
senso che è
causata e dipende,
al pari delle intelligenze
celesti, dal primo
principio d'ogni essere, tuttavia non
può dirsi che è stata
fatta dal niente,
ma anzi che essa
« de se
est semper ens,
ab alio tamen
», poiché « in eius ratione
seu defìnitione est
semper esse, cum
careat ma- teria ». Se
non che, pur
essendo « de
se, seu de sui ratione, semper ens
», non ha
questo suo essere
« ex se
effective, sed ab alio
». Per questa
ragione, essa è
certamente causata ed essenzialmente dipendente
da Dio, « sed non
est verum eam esse
factam ex nihilo
» 43. 41 AcHiLLiNi,
Quol. II, f.
2, col. I :
« Orane agens
extrahit id quod est
in potentia ad
actum: sed in
intelligentiis non est
potentia extrahi- bilis ad
actum (intelligo de
potentia distante ab
actu, et de
actu infor- mativo eorum aut
potentiali, ex quo et alio
fiat una intelligentia) : ergo
in eis non
est agens. Ratio
tota est Commentatoris, 12
Metaph., comm. 44. Ex
hoc sequitur quod
intelligentiae non componuntur
ex esse et essentia,
tamquam ex doubus
principiis intrinsece componen- tibus intelligentiam ». 42
AcHiLLiNi, Quol II,
dub. I, fol.
7, col. 4. 43
Sigieri, De anima
iniellect., V (ed.
Mandonnet, pp. 160-161). AcHiLLiNi, ib.,
fol. 8, col.
2: « Potentiale
non potest esse
sine actu. Est autem
deus actus vitalis
intelligentiarum et finis,
et caeli est
forma et finis, corruptibilibus autem
dat esse et
conservat movendo. Primo
enim Metheororum :
Est autem ex
necessitate continuus iste
superioribus I « QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS )) £95
Ancor più evidente
è l' influenza della
dottrina di Sigieri
sulla soluzione del secondo
dubbio che l' Achillini
si pone :
« Utrum intelligentiae inferiores
intelHgant superiorem ».
L'averroista italiano
formula in proposito
tre tesi, il
significato delle quali ci
è chiarito da
un luogo dei
CoUectanea del Nilo
sul De anima 'i'^, riferito da me
altra volta. Colla
prima tesi egli
si op- pone alla teoria
di coloro che,
al dire del
Nifo, il quale
sicura- mente riassume da Sigieri
citato un po'
più oltre, sostenevano che «
Deus multiplicat lumen
quod est quoddam
accidens spirituale existens in
mentibus intelligentiarum, per
quod elevantur intellectus illi
ad intelligere primum
» ; la
qual teoria il Nifo
nel commento al
De anime beatitudine
attri- buisce a S. Tommaso
e la combatte
appoggiandosi a Sigieri
45. La prima tesi
dell'Achillini, dunque, suona
come segue:Primum: intelligentia
inferior non intelligit
superiorem per aUquod accidens,
ut species, actus,
vel habitus etc. Probatur
primo, quia in
intelligentiis non est
aliquod accidens. Patet
quo- libeto 3. —
Secando, omne compositum
est novum; sed
in in- teUigentiis non
est novitas; ergo
neque compositio. Maior
est Commentatoris, 12 Metapliysicae, comm.
39, sive sit
compositura substantiale,
sive accidentale, sive
in intelHgentiis, sive
non; ea enim probat
ibi Commentator, quod
intellectio non est
accidens in deo; coehim
autem, quia subiectum
est accidenti, novitatem habet, sciUcet
motum, 8 Pliysicoriim,
comm. 15. —
Tertio, si sic, cum
secunda intelHgentia intelHgat
se per essentiam,
3 De anima, comm.
13, perfectior esset
intellectio secundae de
se, quam in- tellectio secundae de
prima, et sic
secunda intelligentia esset felix
cognoscendo se, et
non primam; vel
intelligentia duas intel- lectiones habens
felicitaretur intellectione imperfectiori. —
Quarto, lationibus, ut omnis
eius virtus gubernetur
inde. Ideo, primo
remoto, omnia destruuntur; ideo
duodecimo Metaphysicae, textu
et commento 38; Ex
tali igitur principio
caelum et natura
dependet. Et primo
Caeli, commento 100: A
primo quidem ente
datum est esse
et vivere; bis quidem
clarius, bis vero
obscurius. Et in
libro De substantia
orbis,, versus finem: Ex
quo verificatur, quod
dator continuationis motus
est dator esse omnibus
aliis entibus ».
Così anche nelle
Qiiestiones sulla Metaphysica, ed.
CTraiff, luoghi citati.
Invece l'autore delle
Quaestiones super libros Physicorum ,
edite dal Delhaye
come opera di
Sigieri. sostiene senza alcuna
esitazione la tesi
« quod necessarium
est aliquid fieri ex
nihilo » (I,
q. 24, pp.
53-54), sebbene ritenga
che alcuni esseri non
sian prodotti da
Dio immediatamente. È
un altro punto
sul quale il dissenso
dagli scritti di
sicura appartenenza a
Sigieri è troppo
evidente. Per attribuire queste
Quaestiones al maestro
brabantino occorrerebbe una qualche
testimonianza sicura che
non s' ha,
fino ad oggi, 44
III. ad t.
e. 14; cfr.
Sigieri.... nel pens.,
pp. 27-28, 45 V.
Sigieri, pp. 26-27. 196 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI si sic,
tunc scientia earuin
non esset scitum;
consequens est centra determinata quolibeto
primo, et tertio
De anima, comm. 14: « Intellectus
in formis abstractis
est idem cum
intellecto » ; et incidentaliter 8
Physicorum, comm. 40 :
« In abstractis
intellectus et intellectum [idem]
sunt. — Quinto,
quia tunc intellectio,
qua secunda intelligentia intelligeret
primam, et intellectio
qua se- cunda intelligentia
intelligeret se, essent
alterius generis, quia una
esset substantia et
alia accidens 46. Risulta
da questa prima
affermazione, che l'atto
col quale le intelligenze inferiori
conoscono la prima
Intelligenza, cioè Dio, è
un atto sostanziale
al pari di
quello col quale
conoscon se stesse. Anche
in questo l'Achillini
è d'accordo con
Sigieri, per il quale
l' intendere è perfezione
essenziale dell' intelletto possibile, sì
che « ponere....
substantiam esse in
actu in genere intellectualis naturae
et non intelligentem
in actu, est
ponere contraria et impossibilia
vel incompossibilia » 47. La seconda
tesi dell' Achillini consiste
nel negare che le
intelligenze inferiori conoscano
la prima Intelligenza
come loro causa, in
quanto avvertono che
la loro natura
ha essere da quella 48.
Così appunto pensavano
taluni filosofi, come
rife- risce il Nifo: Dixerunt quod
intelligentia interior intelligit
superiorem per essentiam inferioris;
essentia enim inferioris
est causata ab in-
tellectu superiori, et
omne causatum ducit
in cognitionem cause; ergo
intellectus interior per
essentiam sui intelligit
superiorem. Oportet enim imaginari
essentiam inferiorem esse
obiectum ade- quatum sui
intellectus; et sic
tanquam obiectum adequatum intelligitur solum
a semet. Et
quoniam illa essentia
est effectus 46 Achillini,
Quol. II, dub.
2, fol. 8,
col. 3. 47 Sigieri,
Quaestiones naturales (ed. F. Stegmùller,
Nenaitfgcf. Quaestionen des Sig.
v. Br., in
Rech. de Théol.
ancienne
et médiév., Ili, 1931
pp. 179-180); De
anima intell., IX
(ed. Mandonnet, p.
171). Cfr. Giorn. Crii.
d. FU. Ital.,
XX, 1939, pp.
467-471. Un'attività acci- dentale dell' intelletto
è invece l' intendere
per l'anonimo autore
delle Questiones in libros
Arist. de anima,
II, q. 8
(ed. Van Steenberghen, Sig. d.
Br. d'après ses
oeurres inédites, I
voi., pp. 67-69), III,
q. 8 (pp. 135-137);
ma quanto più il chiaro
editore s'affanna a
dimostrare che l'autore di
esse è Sigieri,
tanto più evidente
appare che non
lo è. Si noti
poi che nella
terza delle Quaestiones
naturales edite dallo
Steg- mùller, il maestro brabantino
insegna che l' intelletto
possibile ha il suo
atto primo ed
essenziale per l'unione
all' intelletto agente,
e che questo e
quello son due
sostanze separate; la
qual dottrina ha
non poca importanza per
quello che siamo
per dire. 48 Achillini,
fol. 8, col.
3. 1 I « QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS » I97 superioris, etiam
continet saltem instrumentaliter essentiam
su- perioris; et sic
intellectus ille per
essentiam illius secundario intelligit superiorem. Il Nifo
stesso riferisce quattro
dei « molti
argomenti » che Sigieri
opponeva a siffatta
teoria 49. Gli
stessi argomenti quasi alla
lettera oppone alla
stessa teoria anche
l'Achillini: Secundum dictum :
intelligentia inferior non
intelligit superio- rem per essentiam
inferioris. — Probatur
primo, quia tunc
scientia non esset scitum.
Patet consequentia, quia
tunc secunda esset scientia ipsi
secundae de prima
etc. — Secundo,
nulla res distincta a
perfectiori est sufficienter
repraesentativa perfectioris; sed secunda
non est ita
perfecta sicut prima;
ergo etc. —
Tertio, si sic, tunc
non dependeret intelligentia
inferior in suo
intelligere a prima; et
sic secunda esset
actus purus, quia
non esset poten- tialis
respectu alicuius perfectivi
eius formaliter. —
Quarto, quia tunc intelligentia
inferior beatiiìcaretur in
seipsa tanquam in obiecto
repraesentativo omnium intelligibilium ab ea, aut
felici- taretur in obiecto
secundarie cognito. —
Quinto, quia tunc
aliqua cognitio dei dependeret;
quia omnis intelligentia
inferior dependet; et omnis intelligentia inferior
esset cognitio dei
per te. —
Sexto, quia tunc nulla
esset compositio in
intelligentiis, nisi forte
ex perfectione et defectu
eius; de qua
non loquor nunc.
— Septimo, quia non
salvaretur efììcientia dei
super motu proveniente
ab inferioribus
intelligentiis 5°. Anche per
quel che concerne
la terza tesi,
l'Achillini ripete alla lettera
quello che, secondo
il Nifo, si
leggeva « in
quodam tractatu
intelligentiarum et beatitudinis
» di Sigieri: Tertium dictum:
intelligentia inferior intelligit
superiorem per essentiam superioris.
— Probatur primo
a sufficienti divi- sione. — Secundo,
quia in abstractis
intellectus et intellectum sunt idem.
— Tertio, quia
intelligentiae abstractae perficiuntur per se
invicem; ergo una
est alterius forma,
et non nisi
quia una est alterius
scientia vel amor.
Antecedens patet, 12
Metaph., commento 44 :
« Perfectio uniuscuiusque
moventium unumquemque orbium perficitur
per primum motorem
omnium »; sed
non ef- fective, ncque
materialiter, sed finali
perfectione coincidente cum forma.
— Quarto, necesse
est in omni
intelligentia intelli- gente
aliud esse aliquid
simile formae et
aliquid simile materica; et
si non, non
esset multitudo in
formis abstractis, tertio
De anima, commento 5
; quia, posita
multitudine, una est
potentialis alteri. Est autem
secunda simile materiae,
ideo recipiens, et
prima si- 49 Nifo,
De anima, Venezia,
1522, III, coUect.
ad t. e.
14, f. 171, col.
3. 50 AcHiLLiNi, /.
c; Nifo, /.
e; cfr. Sigieri,
pp. 27-28. 19^ l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI mile formae,
ideo recepta. —
Quinto, in intelligentiis est
compo- sitio, et non
est alia quani
ex intelligente et
intellecto, deside- rante et desiderato;
ergo etc. Maior
patet, 12 Metaph.,
com- mento 51: Quod est
minoris compositionis est
nobilius in ilio genere,
donec deveniatur ad
simplex. Patet minor,
12 Metaph., com- mento 44: «Tantum
illic est causa
et causatum», secundum
quod intellectum est causa
intelligentis. Sed intellectum
non est causa efEectiva intelligentis, ncque
materialis, ncque finalis
tantum, sed formalis et
finalis simul, vel
formalis tantum. Ideo
subdit Commentator, « non
inconvenire unum esse
causam plurium, secundum quod
a pluribus intelligitur
», perfectius tamen
a per- fectioribus, et
imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc
patet Commentatore, 3 De
anima, commento 5
: « Essentia
primae formae est quidditas
eius; aliae autem
formae diversantur in quidditate
et essentia, quoquo
modo ». Loquitur
Commentator de essentia, ut
fecerat 2 De
anima, comm. 147:
Pomum « est indivisibile subiecto,
et divisibile secundum
essentiam diversam in eo,
secundum quod habet
colorem, odorem et
saporem », licet in
multis sit differentia
etc. Ex hoc
patet intelligentiarum compo- sitio,
quae cum aliis
est, et earum
simplicitas, quia non
compo- sitio ex aliis;
ideo, 3 De
anima, comin. 9:
« Res abstractae
sunt simplices, et non
compositae. Ex his
habetur quod, cum
supe- riores intelligentiae sint
in inferioribus, adhuc
potest intelligentia interior intelligere
superiorem, non intelligendo
tamen aliquid extra se.
Patet etiam quod,
cum intelligentia superior
sit intel- lectio inferiori,
quod potest superior
principiare motum productum ab
inferiori, eo modo
quo intellectio est
principium operationis ab intelligentia productae
» i'. Giunto alla
fine della discussione,
l'Achillini si domanda se
una tale teoria
non contradica alla
verità teologica; e ri- sponde
di no,
anzi dichiara di
trovarla in tutto
conforme a quello che
la fede insegna
in proposito 5%
E veramente anche S.
Tommaso è del
parere che, nell'atto
della visione beatifica, l'essenza divina
non è soltanto
oggetto conosciuto, «
id quod intelligitur »,
ma altresì forma
intelligibile per mezzo
della quale la stessa
essenza divina è
conosciuta, « forma....
qua intelligitur» 53. Questa forma
attua bensì l'intelletto
umano reso capace per
grazia, ma l'attua
solo idealmente, «
in in- telligendo », non
sostanzialmente, poiché l' intelletto
umano ha già un
suo atto sostanziale
anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina
54. Non così
per l'Achillini e
per Sigieri* 51 AcHiLLiNi,
/. e, col.
3-4; NiFO, /.
c, 3-4; cfr.
Sigieri, p. 28. 52
ACHILLINI, fol. 9,
col. 3. 53 S.
Tommaso, S. theol.,
Suppl., q. 92,
a. i. ^'4 Ib. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » IQQ Questi
non fanno alcuna
distinzione fra l'ordine
naturale e lo stato
soprannaturale concesso per
grazia, fra la
conoscenza che compete alle
intelligenze separate per
loro natura e la visione beatifica
di cui parlano
i teologi. Inoltre,
l' intendere delle
intelligenze create, tanto
nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è,
per l'Aquinate, una
operazione accidentale che s'aggiunge
alla loro natura
sostanziale già costituita in
atto 55, e
il loro stesso
intelletto è una
potenza altra dalla loro
essenza 56. Per l'Achillini
e per Sigieri,
invece, l'essenza stessa di
qualsiasi intelletto, sì
di quello umano
come di quelli celesti,
come vedremo anche
meglio in seguito,
con- siste in un atto
sostanziale d' intendere, dovuto
alla loro vmione coli'
intelletto agente che,
per essi, è
Dio. Fra l' intel- letto umano e
le intelligenze celesti
v' è solo
questa differenza, che r
intelletto agente s'unisce
al primo per
gradi, e comple- tamente solo al
termine del suo
sviluppo; alle seconde
invece è eternamente unito
come forma che
attua tutta insieme
la loro capacità. GÌ'
intelletti inferiori a
Dio hanno essere
sol- tanto in quanto intendono
la prima Intelligenza,
che sola è da
sé e per
sé. Dio così
è il sole
del mondo intelhgibile
; le altre intelligenze
ne sono lo
splendore. In questo
eterno rag- giare dalla prima
Luce intelligibile e in questo
eterno riflet- terla per diversi
gradi, consiste l'essere
delle menti inferiori alla prima
Mente. Per questo nell'
intelletto non v'
è memoria, che
è ritorno del passato.
Siffatto ritorno del
passato non è
concepibile là dove è
solo un eterno
presente senza mutamento.
I teologi medievali, compreso
S. Tommaso, potevano
attribuire agli angeli la
memoria, in quanto
attribuivano ad essi
un conoscere puramente naturale
e accidentale distinto
dal conoscere « in Verbo »
; non gli
averroisti, pei quali
le intelligenze conoscono solo in
quanto sono informate
dall'essenza divina. Ed
è sicu- ramente sotto r
influenza di questa
dottrina averroistica che Dante
rimprovera ai teologi
di avere attribuito
la memoria agli angeli^?;
che è un'altra
delle tante tracce
dell'influsso dell'avveroismo
sul pensiero del
nostro poeta. 55 S.
Tommaso, 5. rheol.,
I, q. 54,
art. 1-2. 56
Ib., a. 3. 57
Par., XXIX, 76-81.
Si veda in
proposito, B. Nardi,
Nel mondo di Dante,
Roma, 1944, pp.
372-374. 200 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI Il Quolihetum
concernente le intelligenze
celesti si chiude con
un terzo duhiuni,
nel quale l'averroista
bolognese si chiede se
le intelligenze intermedie
distino dalla prima
Intelligenza con certo ordine,
ossia seguendo una
qualche proporzione: «Utrum ordine
quodam recedant intelligentiae mediae
a prima». Il problema
è risolto da lui coll'affermazione che
così è per Aristotele, non
però secondo verità
58. Anche questo è
un problema tipicamente
averroistico, e trae origine
da quel passo
del commento d'Averroè
al dodi- cesimo della Metafisica,
che dice: Quoniam vero
ordinatio istorum moventiiuTi
a primo motore oportet ut
sii secundum ordinem
stellarum et orbium
in loco, manifestum est
etiam; prioritas enim
in loco eorum
et in magni- tudine
facit eos priores
in nobilitate 59. Qual
fosse il pensiero
di Sigieri su
questo argomento, non sappiamo.
Ma conosciamo quello
d'un averroista a
lui abba- stanza vicino e
che, come il
brabantino, insegnava a
Parigi nella scuola delle
Arti; voglio dire
Giovanni di Jandun.
Questi discute il problema
« Utrum motores
corporum celestium sint ordinati
secundum ordinem corporum
celestium in magni- tudine et in
loco » nelle
Qiiaestiones sulla Metafisica,
e lo ri- solve
in senso affermativo
^°. La soluzione che
del problema ci
dà il bolognese,
è sostan- zialmente identica a.
quella dell'averroista di
Jandun: posto che v'
è tra le
intelligenze celesti un
ordine gerarchico fondato sul
differente grado di
perfezione, egli stabilisce
una corri- spondenza fra questo
e l'ordine dei
cieli, in quanto
essi si differenziano per
grandezza e velocità: Primus est
ordo secundum gradum
perfectionis essentialis earum (intelligentiarum) sic
quod, quanto una
intelligentia est perfectior alia,
tanto est primo
propinquior, non tainen
secundum proportionem
geometricam; patet quolibeto
5. Hic autem
ordo, qui rationes formales
intelligentiarum
consequitur, causa est aliorum
ordinum qui sequuntur.
— Secundus est
ordo caelorum secundum magnitudinem
eorum, secundum quam
caelum maius continet caelum
minus. Perfectiore igitur
intelligentia caelum maius regitur
et gubernatur. Oportet
enim informabile corre- 58
AcHiLLiNi, Quol. II,
dub. 3, fol.
9, col. 2. 59
AvERR., Metaph., XII,
comm. 44. 60 IoANNis
DE Ianduno, Quaestìofies
in Metaph., XII,
q. 19. I «
OUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 20I spendere formae
sic, quod altieri
caelo altior intelligentia
api)ro- priatur.... — Tertius
est ordo velocitatis
in motu. Caelum
enim maius velociori motu
movetur, distinguendo inter
movere et cir- cuire. Huius sententiae
fundamentum ponit Commentator,
se- cando Caeli, commento 58
: super (semper
?) eorum
intelligen- tiarum
intellectus est fortior
et desiderium est
fortius; ideo ab eis
motus est velocior
61. Se
il cielo è
il soggetto informabile
e l' intelligenza è
la sua forma, e
se le intelligenze
non hanno altra
funzione che quella di
motori dei diversi
cieli, ne segue
che dal numero
dei cieli e dei
moti celesti si
debba dedurre, come
aveva insegnato Aristotele (>-,
il numero delle
intelligenze. Ora cieli
in senso vero e
proprio possono dirsi
soltanto quelli in
cui brillano una o
più stelle. Perciò
otto e soltanto
otto sono le
intelli- genze motrici. La più
alta di esse
è Dio, che
muove immedia- tamente il cielo
delle stelle fisse,
« quod secum
rapit alia corpora caelestian^B.
Le altre sette
muovono ciascuna uno
dei cieli planetari, nell'ordine
stabilito dagli astronomi.
L'Achil- lini, come respinge
con Averroè la
teoria degli eccentrici
e degli epicicH, così
sembra rifiutare il
nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità
di Tolomeo: « Or bis
stellatus est finis corporum quae
sunt intra, quoniam
extra ipsum nihil
est»; esso è il
primo e più
perfetto di tutti
gli altri cieli
; « ideo
caelum stellatum deo informatur
» 64. Se non
che i moti
planetari non sono,
per Aristotele, m^oti semplici; sibbene
la risultante di più movimenti
che richiedono più sfere.
Così Aristotele, a
render ragione del
moto di ogni pianeta,
aveva dovuto, sull'esempio
di Eudosso, scindere ogni
cielo planetario in
un gruppo di
più sfere, ciascuna
delle quali aveva un
diverso movimento. Dalla
composizione dei loro moti
risultava il moto
apparente del pianeta.
Una sola intelligenza, secondo
l'avviso dell' Achillini, presiede
al moto 61 Achillini,
Quol. II, dub.
3, fol. 9,
col. 2. Il passo d'Averroè
nel luogo citato suona
cosi : «
Quod igitur magis
propinquum fuerit primo orbi,
habebit maius desiderium,
quoniam propinquitas in
loco illic est similis
propinquitati essentiarum ad
invicem, quae est
propinquitas in scientia et
in inteUectu rationali;
quanto enim. magis
intellectus primi moti erit
fortior, tanto magis
desiderium erit perfectius;
et quanto magis desiderium
erit perfectius, tanto
motus eius erit
velocior ». 62 Metaph.,
XII, t. e.
43-48, e. 8, 1073»
37-1074» 16. 63 Achillini,
fol. io, col.
i. 64 Achillini, fol.
9, col. 3. 202
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI di Ogni
pianeta ; ma
ognuna delle sfere
che formano quel
gruppo planetario è mossa
da una sua
particolare anima che
è causa efficiente di
moto, mentre l' intelligenza che
presiede al gruppo è
soltanto causa finale
a cui le
anime celesti obbediscono
65. Si hanno così
otto intelligenze: la
prima è Dio,
motore del cielo stellato
e quindi di
tutto l'universo: ad
essa obbediscono le sette
intelligenze planetarie, più o meno
nobili secondo che sono
più o meno
vicine al primo
Motore. Ciascuna delle sette
intelligenze planetarie presiede
a un gruppo
d'anime celesti, quanti sono
i moti dei
quali il moto
di ogni pianeta è
la risultante. Tutto questo,
pensa il filosofo
bolognese, si ricava
da Ari- stotele e dal
suo commentatore di
Cordova: ma secondo
la verità della fede,
fra la prima
Intelligenza, che è
infinita, e le intelligenze inferiori,
non può stabilirsi
alcuna proporzione, poiché queste,
per quanto più o meno
perfette, sono tutte ugualmente distanti
dall' infinità della
Prima. Ciò non di
meno, anche secondo
la fede, esiste
fra le intelligenze
angeliche un ordine basato
sulla loro diversa
perfezione. Con questa osservazione, mentre
sta per mettere
il piede sulla
soglia della teologia, «
in ianuis theologiae
», l'Achillini pone
fine al se- condo
quolibeto. Ma mentre il
filosofo averroista sentiva
il dovere di
arre- starsi sul limitare della
teologia, il teologo
al contrario non sentiva
ritegno di portare
l'abito del ragionamento
filosofico sul terreno della
verità rivelata e
di contaminare, come
spesso avveniva, i dogmi
della fede colle
lucubrazioni della filosofia. Tale è
il caso, fra
i molti che
si verificarono dal
secolo XIII in poi,
della speculazione teologica
intorno agli angeli. L'angelologia ebraico-cristiana era
solidamente costituita nei suoi
capisaldi teorici, come
ne' suoi elementi
rappresentativi e
fantastici, assai prima
del suo incontro
colla filosofia aristo- telica. Ma poi
che, per opera
dei filosofi maomettani
ed ebrei l'aristotelismo prese
contatto colla rivelazione,
e a poco a
poco alla primitiva
e rozza cosmologia
biblica si soprappose quella dotta
dei greci ^^^
anche l'angelologia subì
un'uguale contaminazione. « Omnes
gentes quae concedunt
Deum esse, 65 ACHILLINI, fol.
IO, col. I. ^^
Cfr. il molto
interessante e istruttivo
studio di G.
Ricciotti, La cosmologia della
Bibbia e la sua trasmissione
fino a Dante,
Brescia, « Mor- celliana », 1932. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 203 conveniunt in
hoc, quod caelum
est locus Dei
et aliorum spi- rituum
qui vulgariter dicuntur
Angeli», osservava Averroè^?; e
come lui pensavano
Avicenna, Isacco Israeli
e Moisè Maimo- nide.
Il problema da
risolvere, per i
teologi cristiani, era
quello di trovare nella
gerarchia angelica, fissata
dallo pseudo Dio- nigi Areopagita o
da S. Gregorio
Magno, il posto
preciso ove collocare le
intelligenze motrici d'Aristotele
e dei suoi
commen- tatori. Così, mentre Tommaso
assegna la funzione
di intel- ligenze motrici ad
alcuni angeli dell'ordine
delle Virtù, il do-
menicano Maestro Teodorico di
Vriberg fa delle
intelligenze di cui parlano i
filosofi, un ordine
a parte che
precede l'ordine costituito dalle
anime dei cieli
e quello degli
angeli ^^. Per Dante,
le intelligenze motrici
dei cieli sono
quelle stesse « le quali la
volgare gente chiamano
Angeli» 69; ma
non tutti gli Angeli,
sibbene quelli che,
in ciascuna gerarchia
ed ordine, sono stati
deputati alla vita
attiva, cioè al
governo del mondo, anzi
che alla pura
vita contemplativa 7°.
E secondo la
nobiltà dei diversi cieli
essi appartengono a
gerarchie e ordini
diversi?' ; sì che
il poeta, al
pari degli averroisti,
può stabilire un
rapporto tra la perfezione
dei cieli e
quella degli ordini
angelici disposti in nove
cerchi concentrici intorno
a Dio: Li cerchi
corporai sono ampi
ed arti secondo il
più e '1
men della virtute che
si distende per
tutte lor parti. Maggior bontà,
vuol far maggior
salute; maggior salute maggior
corpo cape, s'elli ha
le parti igualmente
compiute. Dunque costui che
tutto quanto rape l'altro
universo seco, corrisponde al cerchio
che più ama
e che più
sape. Per che, se
tu alla virtù
circonde la tua misura,
non alla parvenza, delle sustanze
che t'appaion tonde, tu
vederai mirabil conseguenza di maggio
a più e
di minore a meno
in ciascun cielo,
a sua intelligenza
7^. 67 De caelo,
I, comm. 22.
Cfr. C. Baeum ker, Witelo,
in Beitr. z.
Gesch. d. Philosophie d.
Mittelalters, III, 2,
1908, pp. 537
sgg. 68 E. Krebs,
Meister Dietrich, in
Beitr. z. Gesch.
d. Philos.d. Miti.,
V, 5-6,
1906, pp. 88*-9i*. 69
Dante, Convivio, II,
iv, 2. 70 Ib.,
II, IV, 10-13. 71
Ib., II, v,
13-15. 73 Par., XXVIII,
64-7S. 204 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI Così non
ragionava certamente Tommaso;
così ragionavano invece Averroè
e gli averroisti,
pei quali le
intelligenze motrici son forma
delle rispettive sfere,
come forma del
cielo stellato è Dio
stesso. 3. - Il
terzo quolibeto tratta
dell' intelletto possibile,
che occupa r inlìmo
posto tra gì'
intelletti e costituisce
la « tertia et
ultima pars latitudinis
intellectuum ». A
proposito di esso l'Achillini stabilisce
questa tesi: «
Intellectus possibilis est intensissimum materialium
et remississimum abstractorum
», ossia è la
più intensa delle
forme unite alla
materia e la
meno attiva delle forme
separate 73. Poiché,
come vedremo, l' intel- letto umano, per
lui, è una
sostanza separata, unica
per tutta la specie
umana, e, nello
stesso tempo, forma
sostanziale degl' individui ai
quali è unito
per sua natura. Intorno a
questa tesi, son
discussi quattro dubia,
il primo dei quali
concerne la teoria
d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e
combattuta da Averroè
74, secondo la
quale l'intelletto pos- sibile sarebbe una
virtù organica tratta
dalla potenza della materia. L'averroista
bolognese confuta questa
dottrina con undici argomenti
tolti dagli scritti
del commentatore arabo. Ma
se r intelletto
possibile non è
una « virtus
materialis », al modo
delle forme che
hanno essere solo
per la materia a
cui sono unite
e dalla quale
sono individuate, se
esso ha una sua
propria realtà indipendente
dalla materia, ne
consegue che in se
stesso sia unico
per tutti gli
uomini. Questa è ap- punto
la tesi
che l'Achillini sostiene
d'accordo con Averroè, discutendo il
secondo dubbio : « Utrum
[unum] intellectum. possibilem habeat
omnis homo » 75. Fra gli
argomenti a sostegno
della tesi averroistica
vi sono questi, desunti
dalla natura della
conoscenza intellettuale: Si sic
[cioè, si intellectus
possibilis esset multiplicatus
ad nu- merum hominum),
contingeret ut res
intellecta apud te
et apud me sit
unum in specie
et duo in
individuo; ratio patet
supra. — Secundo, si
sic, procederetur in
infinitum in coiiceptibus; quia 73
AcHiLLiNi, f. IO,
col. 1-2. 74 De
anima, III, comm. 5, digress.
pars. III. Cfr.
S. Tommaso, Trat-
tato sull'unità dell'intelletto contro
gli averroisti, Firenze,
Sansoni, 1938, pp. 19-20,
40-42. 75 AcHiLLiNi, fol.
IO, col. 4-f.
II, col. I. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 2O5 conceptus
essent numero diversi,
et ab omni
per se intelligibili numeraliter multiplicato
abstrahibilis est conceptus;
ideo ab illis conceptibus essent
alii conceptus abstrahibiles
; patet supra.
— Tertio, unus
est conceptus essentialis
omnium individuorum eiusdem speciei;
ergo unus est
intellectus possibilis omnium
ho- minum. Questi tre
argomenti non sono
in sostanza che
uno solo, cioè quello
di cui già
facevano uso gli
averroisti, coi quali polemizza Tommaso
nel De unitate
intellectus, e a
capo dei quali era
Sigieri: Adhuc autem ad
munimentum sui erroris
aliam rationem inducunt. Quaerunt
enim utriim intellectum
in me et
in te sit unum
penitus, aut duo
in numero et
unum in specie.
Si unum intellectum, tunc
erit unus intellectus.
Si duo in
numero et unum in
specie, sequitur quod
« intellecta habebunt
rem intellectam « : quaecumque enim
sunt duo in
numero et unum
in specie, sunt unum
intellectum, quia est
una quidditas per
quam intelligitur; et sic
procedetur in infinitum,
quod est impossibile.
Ergo
impos- sibile est quod sint
duo intellecta in
numero in me
et in te;
est ergo unum tantum,
et unus intellectus
numero tantum in
omnibus 1^. 76 S.
Tommaso, Traci, de un. intell.
cantra averr.,ed. Keeler,
Roma, 1936, § 106,
pp. 68-69; cfr.
il mio commento
alla traduzione di
questo opuscolo tomistico, Firenze,
Sansoni, 1938, p.
175, nota 2.
L'argomento che deriva da
Averroè {De anima,
III, comm. 5,
digress. pars V,
sol. ^ae quaestionis), è
ampliato da Egidio
Romano nel suo
trattato De plur. inteìlectus possibilis,
Venezia, 1500, parte
I, fol. girò,
ed è la sesta delle ragioni
colle quali Averroè
« positionem suam
roborat et vult
osten- dere quod intellectus,
qui dicitur possibilis,
est unus numero
», in questo modo:
«Si potest estendi
quod una et
eadem species intelligibilis in- format
omnes intellectus, tunc
sequitur quod sit
unus intellectus in omnibus
numero. Unde licet
non sequeretur quod
eadem res videretur ab
oculo omnium hominum,
si unus esset
oculus omnium, bene
tamen valeret quod, si
una species informaret
oculum cuiuslibet hominis, quod
unus esset oculus
cuiuslibet hominis. Ergo
a simili: si
igitur una species informat
intellectum omnis hominis,
omnes homines habent unum
intellectum. Quod autem
una species informet
intellectum omnis hominis, patet;
nam possibile est
quod plures homines
intelligant la- pidem. Tunc
ergo quero: aut
est per imam
^peciem lapidis, aut
per aliam et aliam.
Si per unam,
habeo intentum; si
per aham et
aliam, tunc ille due
species oportet quod
differant numero, et
communicent in forma, cum
ducant in cognitionem
unius naturae. Sed
quotiescunque aliqua dicunt differentiam
in numero seu
in specie, tunc
nullum eorum habet intellectum
in actu, et
habet tantum intellectum
comm.unem; ideo nulla illarum
specierum est in
intellectu in actu,
sed habebunt intellectum communem.
Et
tunc quero de
ilio intellectu comuni,
cum possit intelligi, utrum
intelligatur per eandem
speciem vel per
aliam; sed non est
abire in infinitum;
standum est igitur
in primis, quod
una species potest informare
intellectum plurium hominum
et pari ra- 206 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Nel corso
della discussione delle
obiezioni contro la
tesi dell'unità, l'Achillini inserisce
addirittura un brano
di Sigieri, che noi
conosciamo attraverso una
citazione del Nifo
e che questi dice
preso dal trattato
De intellectn, «
misso Thome in responsione ad
illum Thome» 77. Giova
riportarlo, per un
con- fronto con quanto scrive
il suessano: Ad, haec
supponamus quod iste
terminus « homo
» significat compositum ex
corpore et intellectu,
et quod «
homo » est per se unum,
directe reponibile in
praedicatione substantiae, sub
« ani- nali »,
intrinsece denoininatum intellectione
etc. Secundo, non potest
intellectus informare materiam
non informante cogitativa quia non
stat materia sino
forma constituta in
esse per eam;
et non potest intellectus
informare sine sua
proxima dispositione et ultima,
quae est cogitativa.
Et sic patet
cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis
cogitativa non sit
forma generica. Ex quo
patet quare operatio
cogitativae et intellectus
possibilis se co- mitantur,
ut tangit Commentator,
2 De anima,
comm. 15. Ncque potest
cogitativa informare, non
informante intellectu, quia, dato
informabili ultimate disposito
et informativo, ponitur
in- formatio. Est autem
materia informata cogitativa
informabile propinquum et ultimate
dispositum ad recipiendum
intellectum; et sic potest
una forma substantialis
esse dispositio ad
aliain, dummodo illa forma
praeparans non sit
materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil
mali dictum est78.
Tertio, praemittendum apud Averroim
quod intelligentiae sunt
haec et individuae
individua- tione non repugnante
esse universali, quia
esse earum in
anima et extra animam
est idem, 3
De anima, comm.
9, et 7
Metaphy- sicae, commento 41:
«In abstractis non
differt quidditas ab eo cuius est
». Est autem
intellectus possibilis de
genere intelligen- tiarum, ideo
non repugnat intellectum
dare esse hoc,
quamvis etiam sit universalis.
Ideo concedo Sortem
habere suum esse hoc
ab intellectu. Sed
a materia, divisa
informabili cogitativa. tione omnium;
igitur omnes homines
habent unum intellectum
numero »^ Appare evidente
da questo testo
d' Egidio e
da quello di
Tommaso, come si sia
ingannato il Fiorentino,
di solito attento
e accurato, quando ha
creduto di ravvisare
nel terzo argomento
dell'Achillini, qui sopra riportato, «
due mutazioni sostanziali
» dell'averroismo {Pietro
Pom- ponazzi. Studi storici
su la scuola
bolognese e padovana
nel sec. XVI. Firenze,
1868, pp. 254-255).
Il « conceptus
essentialis omnium indivi- duorum eiusdem
speciei » è l'
intellectum, cioè il
votjtÓv aristotelico, l'universale che
è certamente unico
per tutti gì'
individui d'una stessa specie. Dall'unità
dell' intellectum Averroè
e, con lui,
l'Achillini dedu- cono l'unità
dell' intellectus possibilis. 77 Nifo,
De intellectu, 1,
tv. 3, e.
18; cfr. Sigieri,
p. 18. 78 Questa
frase che nel
riassunto del Nifo
manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e
mostra che questi
ha un testo
dinanzi a sé. I «
QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 20/ informante mediante
dimensionibus, oritur possibilitas
multi- plicationis
individuorum sub eadem
specie; quae omnia,
secundum Commentatorem,
propter esse universale
intellectus, informari possunt ilio
et ab ilio
sumere suum esse
hoc et unum,
et verius unum quam
bruta a sensu,
quia mediantibus dimensionibus unitur sensus
materiae, sed non
intellectus 79. Parrebbe dal
confronto di questo
brano con quanto
ci è fatto sapere
dal Nifo, che
l'Achillini abbia fatto
sua una pa- gina dello scritto
di Sigieri in
risposta al De
unitale intellectus dell'
Aquinate. Come vedremo
più oltre, non
è questo l'unico caso
da rilevare. Dopo aver
sostenuta con sedici
argomentazioni la tesi dell'unità dell'
intelletto possibile, attribuita
ad Aristotele, ed aver
risolto le quattro
obiezioni contro di
essa, il bolognese conclude affermando
che la tesi
d'Aristotele e d'Averroè
è falsa, e, contro
il metodo finora
seguito, fa vedere
che cosa si può
rispondere ai sedici
argomenti a prò
di essa. Indi passa
a discutere un
terzo dubbio, e
cioè « Utrum
intel- lactus possibilis sit
pure potentialis ».
Il problema era
stato posto almeno due
volte da Sigieri
di Brabante, e
tutte e due le
volte risolto allo
stesso modo: l'intelletto
possibile, prima dell'atto dell'
intendere, non ha
alcun atto, né
può dirsi so- stanza se
non in potenza.
Affermare, come facevano
Tommaso ed altri, che
esso sia una
sostanza in atto
« in genere
intellectua- lis naturae »,
prima dell'atto d' intendere,
« est ponere
con- traria et impossibilia vel
incompossibilia»8o; per questa
ra- gione appunto Aristotele aveva
detto e quod
intellectus ante intelligere nullam
naturam habet nisi
istam quod possibilis»^'. L' intelletto possibile
diviene atto e
sostanza « in
genere intellectualis
naturae », soltanto
per l'azione su
di esso del- l' intelletto agente,
che è una
sostanza separata, la
quale, come ormai sappiamo,
per Sigieri è Dio.
Identica è la
soluzione che di
questo problema dà
l'Achil- lini: r intelletto possibile
è sostanza puramente
potenziale « in genere
intelligibilium»^'-, e quello
che lo trae
dalla potenza 79 AcHiLLiNi,
fol. II, col.
2-3. ^0 Sigieri, Qiiaestiones
naturales, ed. Stegmùller,
III, pp. 179-180. ^i
Sigieri, De anima
intellectiva, ed. Mandonnet,
IX, p. 171. Cfr.
Giorn. Crii. d.
Filos. Hai., XX,
1939, pp. 467-471. 8i
AcHiLLiNi, Quol. Ili,
dub. 3, fol.
12, col. i-fol.
13, col. 4. 2o8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI l'atto è r
intelletto agente che,
anche per 1'
averroista ita- liano, come vedremo
esaminando il quarto
quolibeto, è Dio: Componitur enim
intellectus possibilis agenti;
tali tamen com- positione quod
remanent dnae substantiae
separatae in actu. Ideo,
3 De anima,
comm. 20, istae
substantiae sunt duae
uno modo, et unum
alio modo. Sunt enim duae
per diversitatem actio- nis;
et sunt unum,
quia intellectus materialis
perficitur per agen- tem.
Et
secundo De anima,
comm. 74, et
3 De anima,
comm. 36, omnis actio
attributa alieni propter
aliqua duo existentia
in eo, necesse est
ut unum sit
materia et aliud
forma; sed nos
intelli- gimus per intellectum
agentem et possibilem,
3 De anima, comm.
18; et sic
aliquo modo intellectus
agens est forma
nobis, ut patet 3
De anima, comm..
36. Se r intelletto
possibile non è
un atto prima
d' intendere, ma semplice potenza,
ne segue che l'
intellezione che attua questa
potenza, sia essa
l'atto sostanziale dell'
intelletto, poiché la pura
potenza non è
mai soggetto immediato
d'ac- cidenti. Perciò l'atto d' intendere,
del pari che
l'abito della scienza, è
perfezione essenziale dell'
intelletto possibile e atto
che costituisce la
sua sostanza quando
pensa e ragiona
^3. Anche in questo
egli è perfettamente
d'accordo con Sigieri
^4 Unico per tutta
la specie umana,
l' intelletto possibile è eternamente
congiunto coli' intelletto
agente che ne
attua la potenza, e
possiede, grazie a
questo congiungimento, un
atto di pensiero eterno
in cui consiste
la sua stessa
natura. Di abiti e
di atti accidentali
si può parlare
non in rapporto all'
intelletto in sé,
ma solo in
rapporto ai fantasmi
sensibili ai quali l' intelletto
possibile s'unisce nei
singoli individui della specie
umana. Questo, s' intende,
dal punto di
vista averroistico, in quanto
s'ammette un unico
intelletto per tutti gli
uomini. Ma ciò
non è più
vero, se si rifiuta come
falsa la tesi dell'unicità dell'
intelletto possibile. L'ultimo dubbio
del terzo quolibeto
verte sul problema: «
Utrum intellectus possibilis
sit forma dans
esse hominem ». Giacomo
Zabarella, un secolo
più tardi, faceva
le sue mera- viglie perché l'Achillini,
dopo aver sostenuto
l'unità dell' in- telletto, non avesse
visto la contradizione
che e' è
ad affer- mare che lo
stesso intelletto, unico
per tutta la
specie, è forma ACHILLINI, fol.
13, col. I. Cfr.
Sigieri, nei luoghi
cit. I « QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS » 209 informante, e
non soltanto assistente,
sì da costituire
l'uomo nel suo essere
di uomo ^5.
Ma il filosofo
padovano non sapeva che
anche in questo
il bolognese segue
da presso il
maestro brabantino. Del quale
è appunto la
tesi, a quanto
e' informa il Nifo
86, che r
intelletto, pur essendo
unico in sé
stesso, è « forma
costituens hominem et
hunc hominem :
hominem in esse specifico,
et hunc hominem
in esse hoc
». Anzi il
Nifo ci fa sapere
che Sigieri, nell'opera
della quale il
suessano riferisce alcuni tratti
che son riportati
alla lettera anche
dall'Achillini, come abbiamo visto
a proposito del
secondo dubbio di
questo terzo quolibeto, riteneva,
al pari del
bolognese, dottrina con- forme alla mente
d'Averroè quella che
afferma esser l' intel- letto possibile forma
sostanziale dell'uomo. Come
Sigieri, anche l'averroista italiano
poneva nell'uomo due
forme: la cogitativa tratta
dalla potenza della
materia, e l' intelletto. Ma la
prima è ordinata
al secondo, e
questo è complemento e
perfezione di quella
87 ; sì
che la materia
già informata dalla cogitativa è
1' « informabile
ultimate dispositum ad
recipien- dum
intellectum))88, che ne
è la forma
ultima. Il Nifo
ad espri- mere questo intimo
e sostanziale rapporto
fra la cogitativa e
r intelletto possibile,
s'era servito del
termine di «
semianime o semiforme ».
Il termine nell'Achillini non s'
incontra, e non credo
s' incontrasse nemmeno nello
scritto di Sigieri
al quale il suessano
si riferiva: ma
il concetto e'
è, sì nell'uno
che nell'altro 89. Forma sostanziale
che dà all'uomo
il suo specifico
essere di 85 Iacobi
Zabarellae, Liber de
mente hiimana (nel
voi. De rebus naturalibus, Venezia,
1590, pp. 641-684,
e nei Commentarii
in tres Arist. libros
de anima, Venezia,
1605, dopo il
commento al t.
11, del libro
II), cap. 3 e
II. 86 De inteUectu,
I, tr. 2,
e. 8, tr.
3, e. 18;
De anima. III,
comm. ad t. e.
5; cfr. Sigieri....
nel pens., pp.
14-20. Anche il
Card. Gaetano, nel
suo commento al De
anima, stampato a
Firenze, lui vivente,
nel 15 io, dopo aver
detto che Averroè
separò l'anima intellettiva
dal corpo, osserva in
margine che questo
è « contra
alexandrum achiUinum, quolibeto
30, et subgerium in tractatu
ad S. Thomam,
qui volunt quod
intellectus uniatur secundum esse,
apud averroem, et
sit unicus »
(III, cap. 2,
fol. 59,
col. 3). 87 ACHILLINI,
fol. 15, col.
I. 88 AcHiLLiNi, fol.
II, col. 3. 89
In Sigieri anzi
il concetto s' incontra
fin nelle Quaestiones
super iertio de anima
del Merton College,
cod. 292; cfr.
«Giornale Crit. d. Filos.
Ital. », XXXI,
1950, pp. 317-25.
Lo stesso concetto
appare anche nelle Quaestiones
de anima intellettiva,
ed. Mandonnet, Vili,
p. 170. 14 2 IO
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI uomo, r
intelletto non è per altro
« forma constituta
in esse per materiam
», sì da
dipendere da questa,
come accade per le
forme che son
tratte dalla potenza
della materia, poiché ha
un proprio essere
di forma separata
al pari delle
intelli- genze celesti, che pur
son forme dei
rispettivi cieli 9°. Ed
anche in questo concetto
l'accordo dell'Achilhni coll'averroista belga è
perfetto. Forma e perfezione
del primo cielo
Dio, forma e
perfezione dei cieli inferiori
al primo le
intelligenze motrici, forma
e perfezione dell'uomo l' intelletto
possibile, che è l'
infima delle intelligenze. Resta
ora da vedere
come Dio sia
forma anche degl' intelletti
e ragione di
ogni intelligibilità. 4. -
Il quarto quolibeto
è dedicato all'
intelletto agente. Se r
intelletto possibile è pura potenza,
l' intelletto agente è puro
atto senz'ombra di
potenza; perciò esso
possiede, fra tutti gì'
intelletti, il massimo
grado d' intensità nell'
intendere. Esso dunque è
Dio. La identità
dell' intelletto agente
con Dio, che il
Nifo attesta essere
stata sostenuta da
Sigieri, è dimo- strata
dall' Achillini con questi
argomenti: Primo, omnis felicitas
est deus; sed
intellectus agens est
feli- citas; ergo etc.
Maior et minor
in secundo dubio
et tertio decla- rantur. —
Secundo, omnis intellectus
qui est. omnia
facere est deus; sed
intellectus agens est
intellectus qui est
omnia facere, 3 De
anima, textu comm.
18, etc. Patet
maior, quia esse
omnia facere est ad
omnia receptibilia in
intellectu possibili, ad hoc
ut in
eo recipiantur, effective
concurrere, vel est
ad omnia facti- bilia
effective concurrere, vel
omnia facere, idest
purus actus; et quomodocumque intelligatur,
soli deo competit.
— Tertio, illud cuius
substantia est sua
operatio omnimode, est
deus; sed intel- lectus agentis substantia
est illius operatio
omnimode, 3 De
anima, comm. 19: «Et
est in sua
substantia actio »,
idest, non est
in eo potentia ad
aliquid. — Quarto,
omne quod est
primum educens formam de
materia, est deus;
patet ex quolibeto
primo. Sed in- telligentia agens
est primum educens
etc, 2 De
aniìna, comm. 59. —
Quinto, omne quod
animae nostrae infundit
intellectum, est intellectus agens;
sed deus animae
nostrae infundit intellectum. Patet
maior, quia intellectum speculativum facit
intellectus 90 Achillini, fol.
15, col. 2;
cfr. Quol. Ili,
dub. 3, contra,
ad i, fol. 12,
col 3. Nifo,
De intell., 1,
tr. 2, e. 8; De
anima, III, comm. ad
t. 5; V.
Sigieri, pp. 14-20. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 211 agens
esse in intellectu
possibili, faciendo de
potentia intellectis actu intellecta.
Minor est
Aristotelis exemplum, 3
Rhetoy'icorum: « Intellectui deus
lumen accendit in
anima ». Ex hoc patet
quare Commentator, 3
De anima, comm.
20, dixit se differre
a Themistio, in
modo ponendi intellectum
agentera, et convenire cum
Alexandre; quia Themistius
voluit intellectum agentem non
esse Deum, quia
animae nostrae est
pars; sed Alexan- der voluit intellectum
agentem esse deum:
patet ex 3
De anima, comm. 36,
ubi Commentator, recitando
opinionem Alexandri dixit: «
Intellectu s agens est
prima causa agens
intellectum ma- terialem))9i. Il primo
di questi argomenti
è preso da
Sigieri?-, come ve- dremo anche meglio
fra poco. Il
secondo e il
terzo son ricavati dal
testo aristotelico del
De animai, ov'
è detto che
è proprio dell' intelletto
agente rendere intelligibili
tutte le cose,
e che lo stesso
intelletto agente è atto per
sua natura, senza
alcuna mescolanza, sì che
« non intende
ora sì ed
ora no »,
ma intende sempre, senza
intermissione; le quali
cose son proprie
sol- tanto di Dio. Importante
poi è l'osservazione concernente
la dichiarazione di Averroè,
il quale approva
Alessandro d'Afro- disia,
per avere identificato
l' intelletto agente colla
causa prima che trae
dalla potenza all'atto
l' intelletto possibile o hylico. Dopo
di che l'Achillini
riporta ben nove
obiezioni che so- levano farsi alla
tesi da lui
sostenuta; l'ultima delle
quali è questa: «
Nono, sequitur deum
esse partem animae
nostre, quod non videtur
etc», giacché Aristotele 94
aveva detto che tanto
r intelletto agente
quanto quello possibile
bisogna che siano due
èv t-^ ^u/y^...
Sia9opaL Alla quale
obiezione il bo- lognese risponde semplicemente
così: «Ad nonum,
declaratum est supra quomodo
deus est pars
animae nostrae, et
quomodo non )). Ed
infatti in un
passo del quolibeto
III, dub. 3, che
abbiamo già riferito
altra volta 95,
egli aveva detto
che, pur essendo l' intelletto
possibile ed agente
due sostanze diverse, s'uniscono nell'atto
dell' intendere di
guisa che in
qualche modo « intellectus
agens est forma
nobis ». 91 AcHiLLiNi,
Quol. IV, dub.
I, f. 16,
col. I. V. sopra, il
saggio VI. 92 NiFO,
De intell., II,
tr. 2, e.
17; cfr. Sigieri,
p. 25. 93 II,
e. 5, 43oa
15, 18, 22. 94
De anima. III,
t. e. 17,
e. 5, 4303-
j^ 95 V. sopra,
p. 208. 212 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Ma in che
modo Dio s'unisca
all' intelletto umano
come forma, è detto
più ampiamente nella
discussione del secondo dubiuni del
IV quolibeto, ove si pone
lo stesso problema
che s'era posto Sigieri
nel Libey de
felicitate 9^, «
Utrum felicitas sit deus
», e lo
risolve allo stesso
modo del brabantino.
Dio è il fine
supremo di ogni
intelligenza, nel cui
conseguimento consiste la beatitudine,
perché Dio è
ciò che è
« simpliciter perfectum quod
secundum se est
eligibile semper »,
è « opti- mum, pulcherrimum, delectabilissimum »,
è quello che
« nullo indiget »
ed è «
principium honorum et
causa ipsorum ».
Sol- tanto Dio, dunque, «
est felicitas sibi
aut aliis intelligentiis aut homini,
quia solum ipse
est perfectissimum intelligibile
et appetibile propter se
», e solo
in lui «
eminenter reperitur ratio obiecti
intellectus et voluntatis
» 97, Si dirà
che la felicità
è un atto
che è in
noi, mentre Dio non
è in noi.
L'Achillini risponde che,
come nel primo
quoli- beto aveva concesso «
deum esse intellectionem intelligentia- rum, nunc
conceditur deum esse
intellectionem intellectus possibilis et
hominis » 9^. Ma
s'obietta ancora: Tertio, nullum
obiectum operationis quae
est felicitas est
illa operatio quae est
circa illud obiectum;
patet ex differentia
Inter obiectum operationis et
operationem. Sed deus
est obiectum operationis quae
est felicitas; patet
io Ethicorum, cap. io: « Per- fecta
felicitas est operatio
speculativa optimorum ».
Ergo etc. A questa
obiezione l'Achillini risponde
negando la mag- giore : Ad tertium
negatur maior, quia
sufficit inter operationem
et obiectum distinctio rationis.
Dico igitur quod
felicitas (non in- telligo
polica[m] quae est
usus virtutis, septimo
Politicorum, sed
contemplativa [m], quae
secundum Philosophum, decimo Ethicorum, cap.
8, est secundum
nobilissimum habitum qui
est sapientia, et secundum
eundem, septimo Politicorum,
est melior quam politica)
non est actus
qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati:
quia si sic,
tunc non tenderent
intellectus et vo- luntas
in félicitatem tamquam
in ultimum finem.
Secundo, quia ille actus
non est perfectissimum. Tertio,
quia oporteret ponere ¥>
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 2 e
17; cfr. Sigieri,
pp. 24-26. 97 AcHiLLiNi,
fol. 16, col.
3-4. 98 ACHILLINI, fol.
16, col. 4. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 213 duas
felicitates: imam formalem
et intrinsecam, et
aliam obiecti- vam et
extrinsecam ; et
sic Aristotelem et
Commentatorem indi- stincte processisse
in aequivoco, cum
dixeriint felicitatem esse ultimum
fineni et operationem
animae. Quarto, quia
ex quolibeto tertio non
datur accidens inhaerens
intellectui. Concludo igitur quod
tantum una est
felicitas, et quod
ea omnia vere
felicitabilia felicitantur;
et ista est
deus. Hanc sententiam
ponit Commen- tator, IO
Etliicoritm, capite 8: in Deo
esse felix est
in speculatione sui, in
nobis esse felix
est in eo
in quo est sibi, prout
nobis est possibile 9"). Allo stesso
modo Sigieri sosteneva
che, come «
Deus Deo per essentiam
beatificatur », così
l' intelligenza a lui
più vi- cina « essentia
Dei ut forma
felicitatur », «
et consequenter omnes residui
intellectus; adeo quod
intellectus hominis essentia Dei
felicitatur, quemadmodum Deus
essentia Dei»ioo. Sebbene distinti
nella loro natura,
l' intelletto causato non potrebbe
intendere Dio, se
Dio non lo
informasse di sé,
giacché, tanto per l'Achillini
quanto per Sigieri,
« intellectio qua
Deus intelligitur est ipse
Deus»; l'operazione colla
quale Dio è inteso
da parte dell'intelletto causato
e l'oggetto inteso formano, nell'atto
dell' intendere, una
cosa sola. In
quest'atto, Dio, informando di
sé gì' intelletti
inferiori, fa ad
essi dono di se
stesso. « Ex
quo patet —
osserva il bolognese
— quod felicitas est
optimum deorum donum,
quia non est
donum excellentius quam donare
seipsum, et praesertim
si donatum sit perfectissimum entium.
Hinc apparet quam
commode potuit Aristoteles, 13
De animalibus, substantiam
hominis divinam appellare »
'"i. Principio di siffatta
beatitudine è, pertanto,
il congiungi- mento della mente
um.ana con Dio
nell'atto dell' intendere. Perciò la
felicità consiste formalmente
in un atto
d' intelli- genza, poiché
solo nell'atto dell'
intendere avviene il
congiun- gimento dello
spirito causato coli'
intelletto primo :
la beatitu- dine è il
più alto grado
della vita speculativa,
come con Ari- stotele aveva detto
Averroè 'o-. A questo
punto giova chiarire
qual era il
pensiero di Si- gieri intorno ad
una questione dibattura
specialmente fra i 99
ACHILLINI, fol. IO,
col. 4-fol. 17,
col. I. 100 NiFo,
/. c; V.
Sigieri, p. 25. loi
AcHiLLiNi, fol. 16, col. 4.
Cfr. Arist., De
part. animai., IV,
e. IO,
686» 27-28. "•- Eth.
Xiconi., X, comm.
al e. 8,
11 jS 20
sgg.; De anima,
III,comm. 36. 214 I'
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI teologi. Questi solevano
chiedersi se l'esser
beato si fonda, come
dice Dante ^°3,
nell'atto che vede
oppure in quel
ch'ama; in altri termini,
se la heatitudo
risieda formalmente in
un atto di conoscenza
del quale è
soggetto l' intelletto, ovvero
in un atto d'amore
che risiede nella
volontà. Ed è
noto che, mentre i
teologi del vecchio
indirizzo agostiniano e
i francescani po- nevano la
beatitudine in un
atto di volontà
al quale precede la
conoscenza, Tommaso e
la sua scuola
la facevano consi- stere essenzialmente in
un atto d' intelligenza, d'accordo
in questo cogli averroisti,
al quale atto
d' intelligenza tien dietro l'atto
d'amore da parte
della volontà. Se
non che l'una
e l'altra teoria presuppongono
una troppo netta
distinzione fra l' in- telhgenza e
il volere. Sigieri
supera il problema,
negando la distinzione reale
fra queste due « facoltà
». Ciò risulta
da un importante luogo
del Nifo, che
prima m'era sfuggito. Dopo aver
riassunto « que ex libello
Subgerii.... excipiun- tur"4)), intorno
al problema dell'identità
della beatitudine con Dio,
il Nifo prosegue: Ut
igitur positio huius
philosophi intelligatur, oportet
accipere quod sicut unum
precise est intellectum
et volitum sub
diversis rationibus,
intellectum quidem ut
perficiens intellectum ipsum absolute, volitum
ut perficiens illum
sub indifferentia fuga
aut consensus; ita una
numero est intellectio
et volitio, sed
differunt quoniam
intellectio est intellectum
absolute, volitio est
intellectum ut acceptum vel
fugitum; sic unamet
res est voluntas
et intel- lectus 105
: intellectus quidem,
ut perficitur ac
formatur ab intel- ligibili sub ratione
forme absolute; voluntas
autem ut perficitur ratione fuge
vel prosequele, ut
superius diximus. Ergo
intellectus et voluntas sunt
unamet res simpliciter
absolute, licet sint
di- verse rationes; et inde
videmus Aristotelem et
Averroem nuUam facere differentiam
inter ea, nec
tractatus diversos, nec
capitula diversa, ut in
libro De anima
visum est. Ex quo
sequitur, quod unamet
felicitas est intellectio
et vo- litio, ac unainet
essentia est intellectum
et volitum; est
enim in abstractis intellectio
rei idem quod
ipsa res, ac
volitio rei idem etiam
cum re volita.
Ergo si Deus
erit felicitas. Deus erit intel- lectio et volitio
insimul; et etiam
simul est volitio
quod felicitas, et intellectio
quod volitio et
felicitas etc. Amplius
sequitur quod ociosa
est questio querens
utrum fe- 103 Pa»'.,
XXVIII, 109-111. '04 Nifo,
De intelL, II,
tr. 2, e.
17; cfr. Sigieri,
p. 26. i°5 Così
anche I'Achillini, Quol.
Ili, dub. 3,
fol. 13, col. 4: «Ad primum,
voluntas et intellectus
sunt idem re,
licet secundum esse
vel rationem differant ». I «
QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 2I5 licitas principalius
sit intellectio quam
volitio, an econtra;
cum volitio et intellectio
non differant nisi
nomine vel ratione;
nisi questio fiat sub
ratione respectiva hoc
modo, scilicet utrum
fe- licitas sit Deus
sub ratione qua
intellectio, an Deus
sub ratione qua volitio
vel amor ^°(>. A
questa felicità, dichiara
l'Achillini, noi tendiamo
per na- tura, né può
darsi che il
desiderio naturale resti
inappagato in tutta la
specie. Perciò, considerato
in rapporto alla
specie umana che è
eterna, anche l' intelletto
umano, come insegna Averroè, è
eternamente felice, perché
eternamente congiunto con Dio
e colle intelligenze
separate '07. Ma
non felici son
tutti gli uomini, singolarmente
presi, poiché non
tutti arrivano, in questa
vita, a questo
segno. Giacché per
l'Achillini, come per Sigieri,
si tratta appunto
della felicità alla
quale è concesso all'uomo d'arrivare
in questa vita,
mediante l'acquisto della scienza: «
Felicitatem autem in
alia vita, quam
non potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theologis
relinquimus considerandam » ^°^. Ma
può l'uomo arrivare
in questa vita
a conoscere le so-
stanze separate ? Tale
il problema che
il nostro bolognese
si pone subito dopo,
col terzo dubbio.
Nella soluzione di
esso egli fa uso
dell'argomento di Sigieri,
riferito dal Nifo
e da Francesco de'
Silvestri: Secundo, si impossibile
esset intellectum possibilem
intelligere substantias
abstractas, ociose egisset
natura, quia fecisset,
quod est in se
naturaliter intellectum, non
intellectum ab aliquo.
Ratio est Averrois, secundo
Metaphysucae, comm. primo.
Suppono in hac ratione,
quod omnis intellectio
conveniens intellectui pos- sibili convenit homini,
sic quod non
est possibile quod
intellectui competat, quin homini
conveniant: hoc voluit
Aristoteles, primo De anima,
textu commenti 64, et hoc
proposito negato, clauditur via
Commentatori ad ostendendum
caelum intelligere. Ideo,
si possi- bile est substantias
separatas intelligi ab
intellectu possibili, possi- bile est substantias
separatas intelligi ab
homine. Hoc stante, arguo
sic : Ouandocumque est
aliqua forma non
apta recipi in maxime
receptivo alicuius generis,
illa non est
receptibilis in minus reciptivo
illius generis; sed
intellectus possibilis in
genere intelligentiarum est maxime
receptivus; patetexquolibeto tertioio9; 106 Nifo,
ib., e. 18. 107
AcHiLLiNi, fol. 17,
col. I. Cfr.
AvERR., De awf/Ma,
III, comm. 36. 1°^
ACHILLINI, ib. i°9 V.
sopra, pp. 207-208. 2l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ergo, si
primam formam non
est possibile intellectum
possibilem recipere, non est
possibile alium intellectum
recipere primam. formam; et
sic iam frustrarentur
intelligentiae mediae ab
hoc fine, qui est
deum gloriosum intelligere.
Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus
non potest intelligere
interiora, ut quolibeto primo dictum
est esse de
mente Averroismo; sed
nulla intelli- gentia media
potest primam intelligere,
ut ex ratione
superiori sequitur; ergo nulla
intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed
ncque deus potest
intelligentias medias intelligere, secundum Averroim,
ut patet quolibeto
primo; neque intellectus possibilis potest
eas intelligere per
te; ergo intellectum
naturaliter in se non
est intellectum ab
aliquo. Patet consequentia
de intel- ligentiis mediis:
quia non a Deo, qui
est supra; non
a seipsis, ut sequitur;
neque ab intellectu
possibili, qui est
infra, per te intelliguntur; et
non est alius
intellectus ab istis.
Et sic patet alia
ociositas in natura
et maxima; et
sic patet quod,
quamvis non sit homo
finis intelligentiarum, tamen,
si non sunt
intelli- gibiles ab homine,
frustrantur a suo
fine; et sic
ociose sunt in- telligibiles etc.
Ilaec omnia ex
modis intelligendi dei,
intelli- gentiarum et
intellectus possibilis supra
declaratis sunt evidentia'". Passando ad
esporre i fondamenti
filosoiìci sui quali
si basa la tesi
che attribuisce all'
intelletto umano il
potere di ele- varsi a
conoscere le sostanze
separate, l'averroista bolognese distingue, come
aveva già fatto
Giovanni di Jandun
"2, la conoscenza speculativa
acquisita per mezzo
dello studio delle discipline filosofiche,
dalla conoscenza intuitiva,
« qua cogno- scimus
substantias separatas per
earum essentias proprias
» ; e in
quest'ultima fa consistere
la felicità suprema
dell'uomo. Sì che la
beatitudine non è
raggiunta coll'acquisto delle
scienze speculative, ma dopo
il loro apprendimento. L'acquisto
per altro delle scienze
è una condizione
indispensabile e sufficiente a
rendere la mente
umana preparata e
disposta al congiungi- mento coir intelletto
agente, che sappiamo
ormai esser Dio. Ma,
oltre a ciò,
è necessario che
alla perfetta conoscenza
spe- culativa tenga dietro la
pratica delle virtù
morali: Cum igitur fuerit
homo secundum virtutes
morales sufficienter habituatus, sic
quod cessaverit discordia
inter sensitivum appe- titum
et intellectivum; sic
quod rationi regimen
tributum erit 11° AcHiLLiNi,
Quol. I, dub. I. Questo luogo,
nella stampa veneziana, è
evidentemente difettoso. "I AcHiLLiNi,
Quol. IV, dub.
3, fol. 17,
col. 1-2; NiFO,
De intell., II, tr.
2, e. II
; In Averroys
de anime beatitudine ,
I, comm. 53;
cfr. Sigieri, pp. 22-23. "2 De
anima. III, q. 36; Metaph.,
II, q. 4. I
« QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 217 sine
intrinseco repugnanti; sic
quod veruni erit
dominium ra- tionis super
viribns sensitivis, tunc continuabitur intellectus possibilis, secundum
quod est felix,
homini et denominabit
homi- nem felicem. Ex quo
patet quod quia
in habituatione hominis secundum virtutes
et scientias magnum
tempus vitae hominis labitur "3. Unito al
corpo umano da
un legame intrinseco,
l' intelletto possibile trae dall'esperienza sensibile
le forme immerse
nella materia e rese
immateriali per un
processo d'astrazione. Quando, attuato
da queste forme
divenute intelligibili e dal-
l'abito delle scienze filosofiche,
l' intelletto umano si
trova congiunto coli' intelletto
agente nell'atto della
beatitudine, alla stessa beatitudine
parteciperanno in tal
modo le cose
del mondo materiale, fatte
intelligibili; sì che
l'uomo verrà ad essere
anello di congiunzione
fra il mondo
superiore e il
mondo inferiore, « nexus
superiorum cum inferioribus,
ultra hoc quod forma
hominis sit intelligentia » "4.
Anzi, siccome Dio nell'atto
della beatitudine è
forma dell' intelletto
beato, e questo è
forma del corpo
umano, ne segue
che anche la
stessa materia partecipa alla
beatitudine; di guisa
che attraverso l'uomo la
beatitudine si diffonde
su tutto il
mondo inferiore "5. Ma
poiché l' intelletto agente
è la suprema
Intelligenza, cioè Dio, mentre
l' intelletto possibile è l'
infima, questo non può
unirsi immediatamente alla
prima Intelligenza, sibbene mediante le
intelligenze intermedie. Sì che nell'atto
stesso e, potremmo dire,
coll'atto stesso col
quale s'unisce all'uomo r
intelletto agente come
forma, s'uniscono all'
intelletto pos- sibile anche le
altre intelligenze ad
esso superiori già
informate dalla prima Intelhgenza: Cum intellectus
agens sit suprema
intelligentia, et intellectus possibilis sit
intima, non potest
naturaliter uniri intellectus
agens intellectui possibili immediate,
quia aliae intelligentiae naturaliter mediant. Ideo
oportet quod aeque
cito, sicut incipit
intellectus agens esse forma
et intellectio istius
hominis, incipiat quaelibet alia intelligentia
media informare hunc
hominem. Ex hoc
pate- bunt apud Aristotelem
et Commentatorem novem
gradus feli- citatis, sicut
novem sunt apud
eos intellectus felicitabiles, quorum 113
AcHiLLiNi, fol. 18,
col. I. "4 76. "5
Ib., fol. 18,
col. 2. Per
questa teoria della
beatitudine, v. sopra il
saggio VI, dedicato
alla mistica averroistica. 2 IO
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI prinius et
maximus dee convenit,
nonus vero et
intìmus intellectui possibili, medij
vero medijs intelligenti]
s aptantur ordinate
etc, quia intellectus cognoscens
deuni per plura
media remissius cognoscit et
imperfectius. Ideo prima,
quae est sua
cognitio per essentiam, se
perfectissime cognoscit. Secunda
autem intelli- gentia recipiendo
cognoscit primam, licet
immediate eam recipiat. Tertia vero
mediante secunda; et sic gradatim
descendendo "6. In questo
senso dice Sigieri,
come ci attesta
il Nifo, che r
intelletto possibile dell'uomo,
« ut habet
esse intentionale, est materia
omnium intellectuum separatorum
» "7. Nell'ultimo dubbio
di questo quarto
quolibeto, l'Achillini riassume e
schematizza quanto ha
detto in questo
stesso quo- libeto e nel
terzo, circa il
congiungimento {copulatio, continuatio) dell'uomo coli'
intelletto. I congiungimenti, a
dir vero, son tre,
e non uno
solo: il primo
è quello dell'intelletto possibile col
corpo umano di
cui è forma
; il secondo
è quello dell'
in- telletto agente coli' intelletto
possibile ; il
terzo è il
congiungi- mento dell'
intelletto agente coll'uomo. Il
primo congiungimento è
duplice. Anzi tutto,
l' intelletto possibile
s'unisce all'uomo secundum
esse, cioè come
forma sostanziale che dà
all'uomo il suo
essere specifico di
uomo, e ciò fin
dal momento in
cui l'uomo comincia
ad essere uomo. Indi
s'unisce a lui
secundum operationem, quando
l'uomo comincia a far
uso dell' intelligenza "8,
Questo duplice con- giungimento era già
esplicitamente distinto da
Sigieri, secondo la testimonianza
del Nifo "9. Anche il
congiungimento dell' intelletto
agente coli' intel- letto possibile è
duplice : dapprima
l' intelletto agente s'unisce all'
intelletto possibile come
causa agente dell'
intendere, concorrendo
all'astrazione del concetto
dall' immagine o fantasma
sensibile, e promovendo
lo sviluppo intellettuale
per mezzo delle scienze;
indi, al termine
dello sviluppo intellet- tuale, s'unisce all'
intelletto possibile, acconciamente
disposto e preparato, come
forma che ne
attua tutta la
potenzialità e gli dà
la beatitudine '=o.
Siffatta distinzione è
d'Averroè '^i. "6 Ib.,
fol. i8, col.
2. "7 Nifo, De
intelL, I, tr.
3, e. 18;
cfr. Sigieri, p.
19. "8 AcHiLLiNi, Ib.,
fol. 19, col.
3. 119 De intelL,
1, tr. 3,
e. 26; De
anima, III, comm.
ad t. 5;
cfr. Si- gieri, pp. 15
e 20. 121 AcHiLLiNi,
ib., col. 3-4. 120
AvERR., De anima.
III, comm. 36. I
" QUOLIBETA DE
INTELLIGENTIIS » 219 Ed
essa vale anche
per il congiungimento dell'
intelletto agente con l'uomo.
Giacché dapprima l' intelletto
agente, trovando l'
intelletto possibile già
unito secundum esse
al corpo di quest'uomo
particolare (per esempio,
di Socrate), illumina della
sua luce i
fantasmi della cogitativa
di lui, di- versi dai
fantasmi di altri
uomini, e ne
trae quelle specie
in- telligibili che sono intese
in questo particolare
momento da Socrate. Piìi
tardi, quando l' intelletto
di Socrate, conve- nientemente attuato dagl'
intelligibili tratti dalla
sua parti- colare
cogitativa, si sarà
arricchito di una
sempre più varia e
complessa esperienza, l' intelletto
agente gli dischiuderà, se n'
è degno, il
mondo splendente della
pura luce che
emana da sé, come
da sole d'ogni
intelligibilità '-^ Come in
Sigieri, così anche nell'Achillini s'avverte
lo sforzo per
superare la difficoltà maggiore
dell'averroismo, già avvertita
dallo stesso filosofo di
Cordova, consistente nel
bisogno di conciliare l'universalità del
conoscere e il
valore della personalità
umana individuale. La grande
obiezione che S.
Tommaso fa, dal punto
di vista strettamente
filosofico, alla dottrina
d'Averroè, è appunto questa:
posta l'unità dell'
intelletto, come può esser
vera la proposizione
: « hic
homo intelligit »
? "3 Alla fine
del diibimn «
utrum felicitas -^it
deus >>, l'Achillini si domanda
se l'uomo che
in questa vita
abbia avuto il
pri- vilegio d'arrivare a congiungersi
coli' intelletto agente
come a sua forma,
può perdere volente
o nolente questa
sua beati- tudine. La sua
risposta è incerta
e imbarazzata, anche
perché concerne uno dei
più scottanti problemi
che, non molti
anni dopo, sollevò gran
clamore di dispute,
voglio dire il
problema dell' immortalità personale.
Già S. Tommaso
avea notato che, tolta
tra gli uomini
ogni diversità d' intelletto, ne
segue che, dopo la
morte, niente rimanga
della coscienza indivi- duale'=4. L'averroista
bolognese, pur ritenendo
con Sigieri che r
intelletto possibile è
forma del corpo
umano, e che
nel suo atto d' intendere
è essenzialmente legato
ai fantasmi della cogitativa, pensa
che all'eternità dell'
intendere e della
bea- titudine non sia necessario
un legame col
singolo, bastando il 122
ACHILLINI, fol. ig,
col. 4. 1^3 Cfr.
la mia introduzione
a S. Tommaso,
Trattato sull'ìtniià dell'in- telletto, pp.
43-50. 1-4 Tratt. sull'unità
dell' intelL, §
2, p. 96. 220
l'aristotelismo PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI legame colla specie,
la quale nella
successione dei molteplici individui dura
eterna: Testatur enim Aristoteles,
quinto Ethicorum, capite
13: u Multa enim
et natura existentium
scientes et operamur
et patimur, quorum nulluni
neque voluntariuni neque
involuntarium est, puta senescere
vai mori ».
Conditio enim suae
naturae, quam scit esse
mortalem, non patitur
nolle, et quia
mors non est
finis neque bonum, 2
Physicotum, textu et
commento 23, ideo
non vult felix mortem.
Neque desiderio naturali
permanentiam sempiternam appetit in
individuo, sed in
specie, secundo De
anima, comm. 34, et
primo Physicoruni, comm.
81. Et propter
hoc in proem.io
octavi Physicorum dixit Commentator,
fortunitatem ultimam esse
se- cundum fatuos vitam
aeternam. IMulta autem
mala felicitas hominis compatitur,
quae felicitati dei
aut intelligentiarum re- pugnant.
Est enim, inter
veros felicitatis gradus,
humanus intì- mus. Ideo,
primo Ethicorum, capite
14: « Sapientem
omnes exti- mamus fortunas
decenter terre ».
Felicitatem autem in
alia vita, quam non
potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theo- logis
relinquimus considerandam 125. Il
Pomponazzi, sebbene abbia
dell' intelletto possibile
un concetto così diverso
da quello dell'Achillini, sul
tema dell' im- mortalità personale è
perfettamente d'accordo con
lui: tranne che per
il mantovano solo
l' intelletto agente è
veramente im- mortale per essere
una sostanza separata,
come volevano anche Temistio
e gli averroisti
^'^. 5. - Visti
quali sono i
diversi gradi d' intelligenza, compresi fra
la mente Prima
che è puro
atto e l' intelletto
possibile che in sé
è pura potenza,
l'Achillini affronta il
problema che s'era posto
da principio, e cioè «
utrum latitudo intellectuum sit uniformiter
difformis ». Un
siffatto problema era
nato, come dicevamo, dal
tentativo di applicare
a misurare i
gradi d' intensità dell' intelligenza
il metodo delle
calcidaiiones matematiche,
che s'usa per
misurare l' intensità delle
quahtà materiali, come la
velocità, il colore,
la temperatura e via dicendo. Qualcosa
di simile è
stato tentato nella
psicologia moderna per misurare
l' intensità della sensazione
; e già 1*5
AcHiLLiNi, Quol. IV,
dub. 2, fol.
17, col. I. 126
p Pomponazzi, De
immortai . animae, cap.
io. I e QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS » 221 Nicolò d'
Oresme aveva esteso
il metodo al
calcolo del dolore e
del piacere ^-7. Appiglio
a porsi siffatto
problema nei riguardi
dell' intelli- genza
dev'essere stato quel
che si legge
nel Liber de
causis, che è un
estratto della Elenientatio
theologica di Proclo: In
primis Intelligeiitiis est
virtiis magna, quoniam
sunt vehe- mentioris unitatis,
quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et
in Intelligentiis secundis
inferiores sunt virtules debiles, quoniam
sunt minoris unitatis
et pluris multiplicitatis. Quod est
quia Intelligentiae quae
sunt propinquae Uni
puro, sunt maioris quantitatis
et maioris virtutis;
et Intelligentiae quae sunt
longinquiores ab ipso,
sunt minoris quantitatis
et debilioris virtutis. Et
quia Intelligentiae propinquae
Uni puro sunt
maioris quantitatis, accidit inde
ut formae quae
procedunt ex Intelli- gentiis primis procedant
processione universali unita;
et nos quidem abbreviamus
et dicimus, quod
formae quae veniunt
ex Intelligentiis primis in
secundas, sunt debilioris
processionis et vehementioris separationis
i-^. Allo stesso modo
Alberto Magno: Omnes.... formae
ab ipsa totius
universitatis natura largiuntur; quo autem
magis ab ea
elongantur, eo magis
nobilitatibus suis et bonitatibus
privantur; et quo
minus recedunt eo
magis no- biles sunt
et plures habent
bonitatum potestates et
virtutes 1^9. Siffatto modo
d'esprimersi sembra fatto
a posta per
invo- gliare ad applicare il
metodo del calcolo
matematico all' in- telligenza. E l'Achillini,
dopo essersi chiesto
se la latitudo degli intelletti
sia « uniformiter
difformis », si
pone altresì il quesito
« utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio
at- tendatur penes appropinquationem summo
». Esula dall'
in- tento che ci siamo
proposti in questa
ricerca, il seguirlo
nella critica che egli
fa della pretesa
di stabihre un
rapporto quanti- tativo fra i
vari gradi d' intelligenza, e
perciò ci hmitiamo
a segnalare la soluzione
negativa che egli
dà dei due
problemi, a chi avesse
ancora in proposito
delle fìsime del
genere 13°. 127 A.
Maier, An der
Grenze, pp. 324-325;
cfr. altresì a
pp. 258-259. 128 Liber
de causis, prop.
X; cfr. Proclo,
Institutio theologica, CLXXVII (l'opuscolo
era stato tradotto
in latino da
Guglielmo di Moerbeke nel
1268, col titolo
di Elenientatio theologica). "9 Alberto
Magno, De intellectu
et intelligibili, I,
tr. i, e. 5. 130 ACHILLINI, Ouol.
V, fol. 20,
col. I-fol. 21,
COl. 2. 222 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Dalle pagine che
precedono sembra intanto
potersi con- cludere che solo
la prima Intelligenza
è fonte di
sapere e di luce
intellettuale. S. Tommaso
agli averriosti che
dall'univer- salità del
conoscere avevano preteso
di dedurre l'unità
del- l' intelletto per tutti
gli uomini, obiettava
che, se mai,
se ne dovrebbe concludere,
secondo il loro
modo di vedere,
« che debba esservi
un solo intelletto non
soltanto per tutti
gli uomini, ma in
tutto l'universo; sì
che il nostro
intelletto non è soltanto
una qualsiasi sostanza
separata, ma è
Dio stesso «'ji. L'Aquinate aveva
ragione. Né Sigieri
e l'Achillini gli
danno torto : che
per essi Dio
è l' intelletto agente
che effettua sì nella
mente umana sì
nelle intelligenze celesti
l'atto dell' in- tendere e
s'unisce all'una e
alle altre come
forma, a tal
segno da fare in
qualche modo una
sola sostanza con
ciascuna di quelle. Soggetto
assoluto di pensiero
e sorgente d'ogni
intelli- gibilità. Dio causa col
suo intendere altri
intelletti, nei quali l'atto
dell' intender divino
si particolarizza per
gradi, fino all' intelletto
della specie umana
che, informando i
vari corpi dotati di
sensibilità, mentre comunica
ad essi la
sua superiore individualità spirituale,
ne assume l' individualità contin- gente e caduca,
per farla partecipe
dell'atto divino del
cono- scere. Si rileva altresì
dalle pagine precedenti,
che l' interpreta- zione
sigeriana del pensiero
aristotelico doveva apparire
al- l'Achillini un' interpretazione organica,
sistematica in tutti i
suoi particolari, e
sostanzialmente diversa da
quella tomi- stica ispirata dal
bisogno di abbreviare
la distanza fra
la « filo- sofia »
e la fede,
quasi che la
fede non avesse
in se stessa
una filosofìa che la
giustificava appieno. Liberi
da questa preoccu- pazione apologetica, gli
averroisti potevano discutere
in piena indipendenza di
spirito e con
grande spregiudicatezza intorno a
quello che era
il genuino pensiero
d'Aristotele, s'accordasse o non
s'accordasse colla fede. Giustamente dice
il Laurent, parlando
del domenicano Bartolomeo Spina
avversario del Pomponazzi
: « Per
lui che non ha
subito l' influsso del
rinnovamento che 1'
Umanesimo ha introdotto nella
teologia, affermare che
Aristotele nega r immortalità
dell'anima, equivale ad
affermare che tale 131
S. Tommaso, Traci,
de unit. intelL,
ed. Keeler, §
107; cfr. la mia
traduzione e relative
note, Firenze, Sansoni,
1938. I « QUOLIBETA
DE INTELLIGENTIIS » 223 dimostrazione è
filosoficamente impossibile. Basta
leggere alcune pagine del
suo lavoro per
rendersi conto dei
principi che han diretto
le sue critiche.
Il vecchio binomio:
Aristo- tele = Verità, è
il sottinteso, starei
per dire, d'ogni
riga del suo volume....
Non bisogna perciò
stupirsi delle invettive
che lo Spina rovescia
sui suoi avversari:
i termini più
virulenti ricorrono sotto la
sua penna» n-. E
la stessa osservazione
il Laurent ripete a
proposito del tomista
del cinquecento, Fran- cesco Silvestri da
Ferrara '33, Trasportiamo questa
osservazione all' inizio
della polemica averroistico-tomitica, e
sarà finalmente chiarito
il significato della così
detta « teoria
della duplice verità
», della quale qualche
storico della filosofia
s' è scandalizzato
anche più di quel
che non abbian
fatto nel passato
gì' inquisitori del- l'eretica pravità,
talora, se non
sempre, meno irragionevoli di certi
storici della filosofia
'34. Che l'aver
rivendicato il diritto alla
libertà della ricerca
storica nell' interpretazione del
pen- siero aristotehco,
prima che all'
influsso dell'umanesimo, si deve
all'averroismo. E anche
in questo l'Achillini
è buon discepolo di
Sigieri, nel tenere
cioè costantemente distinto il
pensiero del Filosofo
dalla verità della
fede. La quale, forse,
ha subito maggior
danno che non
van- taggio dall' impegno che
taluni hanno messo
a mostrarne la troppo
intima aderenza ad
un particolare sistema
filosofico. 132 M.-H. Laurent,
Le Commentaire de
Cajétan sur le
« De anima
», in principio a
Thomas De Vio
Cardinalis Caietanus, Scripta
Philo- sophica: Comment. in
De anima Aristotelis,
ed. l. Coquelle,
voi. I, Roma, Angeliciim, 1938,
p. XLIII. 133 Ih.,
p. XLIX. 134 Intorno
al significato storico
della dottrina della
« doppia verità
», si veda quel
che ne ha
scritto il Gilson,
Études de philosophie
medievale, Strasbourg, 1921, pp. 51-75; Dante
et la philosophie,
Paris, IQ39, pp. 258 sgg.
; cfr. (:ui
sopra, pp. 55-58,
ji-j^, 95- )8, e
il mio volume
Dante e la cultura
medievale, Bari, Laterza,
1949, pp. 207-211,
nonché 1' in- troduzione a S.
Tommaso, Trattato sull'unità
dell' intelletto, pp.
82-83. IX APPUNTI
SULL'AVERROISTA BOLOGNESE ALESSANDRO ACHILLINI
* Quando, un decennio
fa, ebbi ad
occuparmi dell'avver- roista bolognese
Alessandro Achillini, lo
feci unicamente per i
suoi Quoliheta de
intelligentiis e per
le tracce evidenti
in essi di dottrine
sigieriane i. Ma per il
momento non mi
detti cura di far
ricerche sul curricolo
della sua vita,
bastandomi la data del
1494, quando i
Quoliheta furono disputati
nel capitolo generale dei
frati minori tenuto
quell'anno a Bologna
e per l'occasione stampati.
Successivamente ho raccolto
alcuni dati biografici che
credo utile far
conoscere a chi
voglia occuparsi a fondo
di questo non
comune maestro bolognese,
tenuto ai suoi tempi
in altissima considerazione, e
degno anc'oggi d'esser ricordato
sotto diversi aspetti. I.
- Secondo le
notizie raccolte da
Serafino Mazzetti, di solito
accurato e preciso,
nel suo Repertorio
di tutti i
professori antichi e moderni
della famosa università.... di
Bologna 2, A. Achillini,
figlio di Claudio
che dicesi fosse
oriundo di Bar- berino in Val
d' Elsa 3,
e coprì più
volte cariche pubbliche, sarebbe nato
a Bologna il 20 ottobre
1463. Questa data
presa dal Tractatus astrologicus
di Luca Gaurico,
non sempre bene informato, dovrebbe
però essere anticipata
di due anni
se- * Dal «
Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXIII, 1954, PP-
67-108. 1 B. Nardi,
Sig. di Brab.
nel pensiero del
Rinascimento italiano, Roma, 1945,
pp. 45-90 (vedi
saggio precedente). 2 Bologna,
1848, n. 15,
p. 11. • 3
B. Carrati, Genealogie
di famiglie nob.
bolognesi, Bologna, Ar- chiginnasio, Ms. B.
699, tav. 2. 15 226 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI condo la
cifra degli anni
ch'egli aveva quando
venne a morte il
2 agosto 1512,
quale si trova
nell'elogio che di
lui si legge nel
Libro segreto del
Collegio delle Arti
e di Medicina
e che riferiremo più
giù. Ma la
cifra di XXXXXI
anni è corretta
su rasura e con
altro inchiostro. Inoltre
il fratello Giovanni
Fi- loteo Achillini, nel
suo Viridario 4,
compiuto nel 1504,
ci assi- cura che Alessandro,
in quell'anno, in cui egli
stava scrivendo il X
canto del poema,
aveva varcato d'un
lustro « il
mezzo ca- min ))
della vita. Parrebbe
dunque che il
Gaurico avesse ragione. 11
Mazzetti inoltre e'
informa che fu
laureato in filosofìa
e medicina il 7
settembre 1484, e
che lo stesso
anno cominciò a insegnar
logica a Bologna,
nel quale insegnamento
durò fino al 1487.
L'anno innanzi, a 23 anni
d'età, era stato
ritratto da Francesco Francia
^. Dall'autunno 1487
all'estate del 1494, insegnò
filosofìa; dall'autunno 1494
all'estate del 1497
passò a medicina; ma
dal novembre 1497
all'ottobre 1506 resse
en- trambe le cattedre, cosa
non comune, spiegabile
solo col fa- vore di
cui godeva presso
i colleghi e
presso i Bentivoglio
dei quali fu sempre
caldo fautore. D'un
insegnamento tenuto dal- l'Achillini a
Padova, prima di
questo momento, non
mi pare dunque si
possa parlare. Il
Gaurico accenna anche
ad un soggiorno abbastanza
lungo dell' Achillini a
Parigi, del quale purtroppo non
abbiamo altra testimonianza, e
d'altra parte non si
riesce a trovare
un periodo della
sua vita nel
quale collocarlo. A Bologna
ebbe sicuramente ad
alunno il bolognese
Tiberio Bacilieri o de
Bazaleriis, il quale
fu approvato «
in artibus )> il
lunedì 3 luglio
1492 ^ e
« in artibus
et medicina »
il 4 febbraio 1496, «
nemine discrepante ». Fra i
promotori al dottorato era
l'Achillini che «
dedit insignia »
al neo dottore
7. Il 9 di- cembre
1499, il
Bacilieri fu aggregato
in sopranumero ai
col- 4 II Viridario
di Gioanne Philotheo
secondo figliolo di
Claudio Achillino Bolognese. Impresso
in Bologna per
Hieronymo di Plato
Bo- lognese, nel M.D.XIII. Sotto
la f. m.
di N. S.
Leone Decimo, 24 di-
cembre. Dedica al Papa.
Fol. 184 v
sg. I vv.
che riguardano Alessandro son riportati
più giii, p.
251. 5 II disegno
del Francia è
posseduto dagli Uffizi
di Firenze. Fotogr. Alinari, più
volte riprodotta. Se
l'Ach. era nato
nel 1463, il
disegno è del i486;
se no, di
qualche anno prima. 6
Libro Segreto del
Collegio [delle Arti
e della Medicina']:
dall'anno- 1481 al 1500
(Bologna, Archivio di
Stato, busta 217);
f. 91 r.
Dal libro dei Partiti.
XI, f. 902,
24 die. 1493
(Arch. di Stato),
risulta che il
Baci- lieri riscuoteva già 100
lire bolognesi annue
«prò stipendio lecture
».. 7 Ib.. f.
41 r. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 227 legi
bolognesi delle arti
e della medicina
^. Ma non
era passato un anno
dalla sua aggregazione,
che fu sospeso
per un quin- quennio dall'uno e
dall'altro collegio, con
decisione del 9 luglio
1500 confermata cinque
giorni dopo, «
propter nonnulla demerita et
facinora.... facta et
commissa ». Fra
questi « fa- cinora
» pare fossero
anche « parole
ignominiose e turpi
» nei riguardi dei
suoi colleghi. La
punizione fu inflitta
con otto fave bianche
contro una nera.
Fra i votanti
era anche l'Achillini 9. Questa
la ragione perché
il Bacilieri proprio
in quest'anno dovette lasciar
Bologna, e recarsi
a Padova 'o, e
quindi a Pavia ove
rappresentò l'averroismo della
corrente sigieriana che aveva
assimilato alla scuola
dell' Achillini". Il i»
ottobre 1505, scaduto il
quinquennio della sospensione,
egli fu riammesso
a far parte dell'uno
e dell'altro collegio,
per unanime consenso, senza che
ci fosse bisogno
di porre ai
voti la proposta
'-. I Quolibeta de
intelligentiis, preparati per
la disputa del 1494,
rappresentano dunque il
pensiero filosofico dell'Achil- lini nel
primo periodo del
suo insegnamento della
filosofia naturale prima che
passasse all' insegnamento
della medi- cinateorica. In
quest'opera, come ormai
sappiamoci, si ritrovano, inserite negli
schemi del metodo
calcolatorio, divenuto di moda
anche a Bologna
come a Padova,
tutte le tesi
fonda- mentali dell'averroismo,
concernenti Dio, le
altre intelligenze separate, e
in particolare l' intelletto
possibile e la
copulatio di questo con
1' intelletto agente;
tesi tutte, specialmente
quelle riguardanti l'
intelletto umano, desunte
dai tre scritti
di Si- gieri, che,
secondo l'attestazione del
Nifo, si leggevano
ancora alla fine del
secolo XV. Ma qui
accade di doverci
porre un piccolo
problema. Nessun dubbio sulla
data di pubblicazione
dei Qnolibeta dell'Achil- lini, che
nel 1494, trentunenne,
si esibiva campione
della dottrina sigieriana in
una pubblica disputa
alla quale erano intervenuti dotti
di varie tendenze.
È per caso
in questa cir- costanza che Giovanni
Pico e il
Nifo si trovarono
a far viaggio 8
Ib., f. 54 r- 9 Ib.,
f. 57r-v; ff.
59 r-62 v. 'o V.
sotto, p. 288. "
Cfr. il mio
Sigieri, cit., pp.
132-152. '^ Libro Segreto,
cit.; n. 3,
dall'anno 1504 a
tutto il 1575,
f. 4 r. '3
Cfr. saggio prec. 228 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI insieme, diretti
a Bologna, disputando
tra loro come
l'unità del- l'intelletto
potesse conciliarsi con l'
individualità e la
sopravvi- venza dell'anima
del singolo '4? Il
Nifo ci fa
sapere di essere stato
averroista sigieriano prima
del 1492, e
pretende d'aver composto nell'estate
di quest'anno, poco
più che ventunenne, il Tractatus
de intellectu nel
quale la dottrina
sigieriana è combattuta. Ho
già espresso piìi
volte i miei
dubbi sulla veri- dicità del Nifo,
il quale aveva
troppo interesse ad
acconciare il racconto della
sua vita in
modo da meritarsi
le grazie del vescovo
di Padova, Pietro
Barozzi^S. Il piccolo
problema che vorrei porre,
e che non
sono in grado
di risolvere, è
questo: chi portò a
Padova o a
Bologna gli scritti
di Sigieri ricordati dal
Nifo ? Fu
Paolo Veneto che
certamente dimorò a
Oxford e a Parigi
? Fu Giovanni
Pico ? Fu
l'Achillini stesso, se mai
fosse vero, come
pretende il Gaurico,
che anch'egli soggiornò a
Parigi ? Del
resto, gli scambi
fra le due
università italiane e quella
parigina erano frequenti,
e, come sappiamo
di fran- cesi che durante
il Quattro e il Cinquecento
erano venuti a studiare
a Padova e
a Bologna, sappiamo
del pari che
Pietro e Lorenzo Pasqualigo,
patrizi veneziani, erano
stati a studio
a Parigi, e il
primo anzi nel
1494 vi aveva
sostenuto, ventiduenne, ben due
mila conclusioni i^. 2.
- Nell'estate del
1498, quando all'
insegnamento della medicina teorica
aveva riunito quello
della filosofìa naturale, l'AchilUni fece
stampare la sua
seconda opera De
orhihus in quattro libri '7.
Nel primo libro
ritroviamo tutte le
grandi tesi della fisica
celeste di Aristotele,
nella più rigida
interpre- tazione averroistica,
fino al punto
che è ritenuta
assurda la teoria tolemaica
degli eccentrici e
degli epicicli, che
aveva 14 A. Nifo,
In libriim Destvuctio
Destructionum Averrois comment., I,
dub. 8; cfr.
ib., IV, dub.
7; cfr. sotto,
pp. 31Q, 376-77
e 451. 15 V.
sopra, pp. 101-102
e sotto, p.
311, n. 52. 16
V. sotto, p.
289. 17 « Hoc
secundum opus in quatuor libros divido
». Il che
esclude l'esistenza di quel
trattato De proportionibiis niotuum,
che secondo lo Hain,
n. 71, sarebbe
stato stampato a
Bologna « per
Benedictum Hecto- ris 1494
». Questo trattato,
composto più tardi,
usci postumo, come diremo
più giù, nel
15 15. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
229 SÌ il grande
merito di salvare
le apparenze dei
moti planetari assai meglio
che non la
teoria delle sfere
concentriche, ma che mal
si conciliava coi
principi della fisica
aristotelica. E l'Achil- lini, come
in generale tutti
gli averroisti, ci
teneva alla fedeltà ai
testi che egli
s'era assunto l' impegno
di esporre. Nel
se- condo libro di quest'opera
si parla invece
delle intelligenze motrici, cioè
di Dio, primo
motore immobile, e
quindi dei motori preposti
al governo di
ciascun cielo. A
questo punto il maestro
bolognese si chiede
se, oltre alle
inteUigenze separate, esistano altresì
dei dèmoni. La
credenza nei dèmoni
e nelle loro opere
prodigiose non era
diffusa, alla fine
del Quattro- cento, soltanto nel
popolino, ma anche
nei ceti colti,
presso i quali la
demonologia cristiana era
rincalzata da quella
neo- platonica. L'Achillini
nel suo rigido
averroismo non sa con
esattezza ove collocare
siffatte nature ibride,
di spiriti imbe- stiati,
e quale funzione
propriamente assegnare ad
esse. Am- messa per fede,
l'esistenza dei dèmoni
è relegata tra
le opi- nioni volgari i8.
E quanto ai
fatti meravigliosi che
ad essi vengono attribuiti,
il bolognese è
d'avviso si possano
spiegare con l'arte umana
o per mezzo
di cause naturaH,
a dir vero, non
meno meravigliose, come
farà più tardi
il Pomponazzi, e come
aveva fatto molto
prima Pietro d'Abano. Dopo
questa parentesi, egli
torna a parlare
dell' immuta- bilità di Dio,
ingenerabile,
incorruttibile,
inalterabile, non soggetto a
movimento locale né a mutamento
di pensiero, poiché tutto
atto senza potenza.
Di questa divina
immuta- bihtà partecipano anche
le altre intelligenze
celesti, sebbene in queste
sia qualche potenzialità,
in quanto ogni
intelUgenza di sotto subisce
l'azione di quella
di sopra, sì
che questa è intelletto
agente per rapporto
a quella che
vien dopo, e
quella che vien dopo
può dirsi intelletto
possibile per rapporto
alla precedente, come già
sapevamo dai Qiioliheia
de intelligentiis '9. Primo
intelletto agente che
immediatamente o mediatamente informa di
sé tutte le
intelligenze inferiori, è
Dio. Ma le
intel- Ugenze inferiori sono
informate da quelle
di sopra senza
su- bire cangiamento nel tempo,
bensì con atto
eterno, che fa i8
De orbibus, II,
diib. i, fol.
37 rb (secondo
l'edizione degli Opera omnia,
curata da Panfilo
Monti, Venezia, 1545,
alla quale per
comodità mi richiamo) . '9 Ib.,
dub. 2, Secundo
principaliter, Septimum dictum,
fol. 39 va. Cfr. Qiiol.
de intell., V,
dub. 3, f.
18 rb; e qui sopra,
pp. 197-198 e 217.
230 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI dire talora
ad Averroè che
esse sono atti
puri senza potenza, cioè
puro intendere senza
mutamento. Ultima delle intelligenze
è l' intelletto umano
che propria- mente si disse
possibile o potenziale,
poiché non ha
altra na- tura che quella
di essere in
potenza. Questo intelletto,
unico per tutta la
specie umana e
forma che dà
all'uomo il suo
essere specifico di uomo,
non passa dalla
potenza all'atto del
cono- scere se non è
coadiuvato dall'esperienza sensibile.
In quanto passa dal
non conoscere al
conoscere le cose
del mondo sen- sibile, che sono
il suo oggetto
proprio, esso è
soggetto a mu- tamento o
alterazione. Questa alterazione
era intesa comu- nemente come modificazione
dell' intelletto stesso
ad opera delle specie
intelligibili o rappresentazioni in
esso delle cose conosciute. L'Achillini
respinge questa teoria,
appoggiandosi a un famoso
testo del VII
della Fisica aristotelica -o, che
aveva già richiamato l'attenzione
d'Averroè, e coglie
l'occasione per ribadire un
concetto già da
lui affermato alla
fine del terzo Qttolib.
de iìitelligentiis -i.
Aristotele aveva detto
che nella parte intellettiva
dell'anima non si
dà né generazione né alterazione
vera e propria:
l'atto conoscitivo non
importa un mutamento qualitativo
intrinseco all' intelletto,
ma una semplice variazione
del rapporto fra
questo e le
forme del mondo sensibile
che la mente
conosce in sé
stesse senza bi- sogno che
una rappresentazione o
« specie intelligibile
», di- stinta dalla realtà
conosciuta e dal
soggetto conoscente, venga a
inserirsi fra l'una
e l'altro. Un
mutamento qualitativo e intrinseco
subiscono invece le
facoltà sensitive e
con esse la cogitativa, cui l'
intelletto s'unisce nell'atto
d'apprendere le forme del
mondo sensibile. L' intelletto
in sé stesso
è immu- tabile, come i
principi logici e come le
forme a priori
di Kant; senza di
che nessun giudizio
certo sarebbe possibile;
il muta- mento e l'alterazione
sono soltanto nel
contenuto del cono- scere, e soltanto
per denominazione estrinseca
s' attribuiscono all' intelletto.
Perciò l'Achillini distingue
con Sigieri l' intel- letto dall'anima razionale:
quello è unico
in sé stesso
per tutta la specie
umana; questa invece,
risultando dall'unione del- l' intelletto con
la cogitativa, è
individuale al pari
di quest'ul- tima e diversa
in ogni uomo;
e a questa,
propriamente, e non -°
T. e. 20,
e. 3, 247
b I sgg. -^
Diib. 3, f.
13 ra: Hic
aliquantulum morabimur. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 23 1 a
quello, spetta la
funzione raziocinativa e
discorsiva, consi- stente
appunto nell'applicazione delle
immutabili forme del pensiero
alla mutevole esperienza
sensibile. Merito dell' Achil- lini è
appunto questo, che a lui
spetta per altro
in quanto ha ripreso
un motivo di
alcuni pensatori della
prima metà del secolo
XIV --, d'aver
capito che la
dottrina delle specie intelligibili finisce
per offuscare la
conoscenza della realtà, ricacciata al
di là della
rappresentazione che attua
il soggetto conoscente. L'atto
conoscitivo è possibile
solo in quanto
il reale conosciuto è
presente per se
stesso al soggetto
che l'ap- prende. Vero è
che, per l'Achillini,
le cose del
mondo fisico hanno un
« esse reale
» fuori del
soggetto che le
pensa, e non
possono essere in questo
se non per
il loro «
esse intentionale »;
di guisa che lo
sdoppiamento fra realtà
in quanto appresa
e realtà in sé
risorge e rende
plausibili le obiezioni
che altri aristotelici e averroisti
ebbero a rivolgere
al filosofo bolognese. E
primi fra tutti
il Pomponazzi e
Marcantonio Zimara. Il Pomponazzi
si dichiarò «
contra modernos pedagogos,
qui tenent secundum Averroem
quod intellectus possibilis
nihil de novo recipit
», fin dal
1500, mentre commentava
a Padova il De
anima -3. I
«moderni pedagoghi» dai
quali dissentiva erano il
Nifo, l'Achillini e
il suo fido
Achate, Tiberio Bacilieri,
che, per le ragioni
accennate più su,
era diventato collega
del mantovano nello studio
patavino. Questo è
confermato da una nota
in margine al
codice napoletano che
ci ha tramandato il
commento del Peretto:
« Nota contra
socios Achillinum Tybe- riumque
bononienses » -4.
Più tardi, mentre
commentava a Padova la
stessa opera aristotelica,
nel corso dell'anno
scola- stico 1504-1505, il maestro
mantovano dedicò una
quaestio speciale a esporre
e combattere «
opinionem noviter repertam quae
tenet nullo pacto
dari species intelligibiles ».
Veramente questa opinione non
era proprio «
noviter reperta »,
come 22 Vedasi il
mio libretto Soggetto
e oggetto del
conoscere nella filosofia antica e
medievale, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1952, pp.
2555.23 Bibl. Naz.
di Napoli, mss.
Vili. D. 81,
f. 52 r,
e Vili. E
42, f. 195 r.
-4 Ib.
La nota nel
ms. napoletano Vili.
D. 81, f. 52 r
parrebbe di mano di
Antonio Surian che
trascrisse il testo
della riportazione, di cui
forse è autore
quel Marco da
Otranto che è
Marcantonio Zimara, il quale
ne avrebbe fatto
copia a Basilio
Troiano e questi
a Gian Bene- detto Caravegi da
Crema, dal quale
l'ebbe il Surian
{ib., f. 76
r). 232 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI del resto
ben sapeva il
Pomponazzi ^s; ma
nuova poteva sem- brare per il
modo come la
presentavano e per
il vigore col quale
la difendevano i
due «pedagoghi» bolognesi.
Ma nuova o no,
il Peretto non
esitava a giudicarla
« abominevole, fatua e
bestiale » : Et
dico primo quod
opinio ista est
abominabilis, fatua et be-
stialis et nihil
boni ab ea
potest capi. Ego
enim nihil intelbgo
de opinione ista. Isti
contra se adducunt
duo miUia auctoritatum
et totam ecclesiam doctorum,
ipsosque glosantes totaliter
dilaniant et lacerant. Vide in scriptis
suis ~^. Che il mantovano
non avesse presa
per il suo
verso e non avesse
capito l'opinione d'Averroè
e dell' Achilhni, non
è da stupire, dato
l'orientamento del suo
pensiero quale doveva rivelarsi anche
meglio in seguito.
Così anche nell'esposizione del VII
della Fisica, fatta
a Bologna nell'anno
scolastico 15 17-15 18,
giunto al commento
del testo 20,
sul quale si
fon- davano gli averroisti della
corrente dell'Achillini, torna
a ripetere : Ista est
pars dignissima in qua aut
ego erro aut
omnes aiii maxime erraverunt;
sed credo quod
potius iUi decipiantur
quam ego; sed in
hoc constituam vos
iudices. In ista
ergo parte commen- tator
ponit unum documentum,
ex quo traxit
Burleus, quod est de
mente commentatoris, cum
anima sit unica
in omnibus hominibus, ipsam
nihil capere {ins
capit) de novo,
ncque acquirere [ms aquirit)
scientiam per species
de novo advenientes,
sed scientia est substantia
animae. Et non
possum [non] mirari
de istis mo- dernis,
qui faciunt se
inventores et autores
huius viae, cum
vi- deant Burleum ante
se de hoc
iam expresse loqui.
Imo, ante Burleum Henricus
de Gandavo tenuit
hoc idem esse
de mente commentatoris; et
etiam Thomas ascribit
hoc commentatori, Hcet propter
aham rationem 27. Non
meno aspro, contro
l' interpretazione che l'Achillini aveva sostenuta
del pensiero d'Averroè,
è il giudizio
di Mar- 1 25
Infatti nel ms.
napoletano Vili, E.
42, f. 1951,
si legge: «Pro quo,
domini, debetis scire
quod insurgit nova
phylosophia, immo an- tique; quare Burleum
videatis: expresse super
textu commenti 2oi septimi
physicorum dicit intellectum
speculativum esse eternum
et non dari species
intelligibiles
commentatoris; hec etiam
tenet augustinus sessa, Alexander
Achylinus et multi
alii insequentes i
tos.... ». 26 Ms.
napol. VIII. D.
31, f. 83 r.
27 In
VII de phys.
auditu, Bibl. Nation.
di Parigi, ms.
lat. 6533, f. Jj 330 r
(ad t. e.
20); cfr. ms.
45 della Biblioteca
del Collegio Campana
di 9 Osimo, f.
201 V. i APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 233 c'antonio
Zimara da Otranto,
in una sua
quaestio « Utrum ad
mentem Averroys intellectus
possibilis recipiat species intelligibiles subiective
». Esposta e
criticata la dottrina
del- l'Achillini, della quale
vorrebbe far rilevare
l'assurdità dal punto di
vista aristotelico ed
averroistico, egli conclude: Et
in veritate opinio
istius hominis adeo
est erronea, ut me pudeat amplius
arguere centra ipsvim.
Ipse enim ignorat
adhuc quomodo forma materialis
generatur. Item habet
fateri quod formae materiales
secnndum suum esse
formale accipiantur in sensibus
interioribus, quia non
est maior ratio
quare in intellectu possibili materiales
formae sint secundum
esse formale, et non
in ipsa
cogitativa et imaginativa.
Quantum autem ista
sint incon- venientia, non
solum sapientibus, sed
etiam yulgaribus sunt novissima [1.
notissima]. Unde licet
mihi dicere de
isto homine, quod dixit
commentator de Avicenna,
in tertio Celi,
comm. 67, quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et bona
confidentia in proprio
ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores^S. A risolvere
le obiezioni mosse
alla tesi dell'Achillini bisogna tener
costantemente presente la
distinzione fra anima
razio- nale e intelletto in
sé. L' intelletto possibile,
in sé considerato e
in quanto unico
per tutta la
specie umana, non
è modificato da alcuna
rappresentazione che gli
venga dal mondo
sensibile. Invece, in quanto
unito alla cogitativa
individuale di Socrate e
di Calila, con
la quale forma
l'anima razionale composta
di ciascuno individuo umano,
esso è certamente
soggetto a mu- tazione e
ad alterazione, non
per il mutare
di qualcosa in esso,
ma per il
mutare dell' immagine
sensibile che è
nella cogitativa cui è
unito. Che se
l'Achillini dice l' intelletto
pos- sibile pura e nuda
potenza senz'atto di
sorta, prima dell'atto d' intendere, questo
va inteso per
rapporto all' intelletto -8
M. A. Zimara
de sancto Petro
de Galatinis Terrae
Hj^drunti, ar- tium doctoris,
Quaestio qua species
intelligibiles ad mentem
Averrois defenduntur ad Magnificum
patritium \'enetum Antonium
Surianum; s. 1., a
cura di Francesco
Storella, pridie idus
lanuarii 1554. La
stessa « quaestio »
fu pubblicata dal
francescano Girolamo Girelli,
professore di teologia nello
studio di Padova,
in principio del
suo Tractatus adversus quaestionem M.
A. Zimarae de
speciebus intelligibilibus ad
mentem an- tiqiioritm Averrois
praesertim. Venetiis, 1561.
Il passo riportato
è al f . 7
V. Il Girelli,
che aveva studiato
a Padova, ov'era
stato alunno del Pomponazzi, cita
l'Achillini (f. 23 r e
26 v), ma
si rifa specialmente
a Enrico di Gand
e al carmelitano
inglese Giovanni di
Baconthorpe, noti avversari delle
«species intelligibiles». V.
sotto, p. 328. 234 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI agente che è
tutto atto senza
potenza ed è
la scienza in
atto, al cui possesso
tende l' intelletto possibile. Il
III libro del
De orhihus s'apre
col settimo dubbio
del- l'opera: « an intelligentia
sit forma dans
esse caelo ».
Anche su quest'argomento l'Achillini
si sforza di
mantenersi fedele ad Averroè:
ogni cielo è
composto di materia
e di forma;
il corpo sferico di
esso è la
materia, l' intelligenza motrice è la sua forma.
Per questa unione
ciascun cielo è
un animale vi- vente, non di
vita vegetativa o
sensitiva, come pretendeva Avicenna, ma
di vita intellettuale. Le
sfere celesti sono
perciò quegli animali immortali
ed eterni di
cui parlano Aristotele nel IV'
dei Topici -9 e
Porfirio nella sua
Isagoge alle Categorie
3°. Animali viventi di
vita intellettuale, l'atto
dell' intendere e del
volere si predica
dei cieli, di
cui le intelligenze
son forme sostanziali, a
quel modo che si predica
dell'uomo di cui è forma sostanziale
l' intelletto possibile, che è l' infima
delle intelligenze separate. Sebbene i
corpi celesti siano
dotati di spazialità
e di movi- mento al pari
dei corpi del
mondo inferiore, essi
son « corpi spirituali »,
immuni da composizione
di materia e
di forma, poiché il
loro essere è
costituito dall'unione immediata
con la propria intelligenza.
Questo concetto averroistico
di una « cor-
poreità spirituale e immateriale»,
che piacque anche
al Ficinosi, fu oggetto
di lunghe controversie
fra gli averroisti
e le altre scuole
aristoteliche, e fra
gli averroisti stessi. Dio
è la prima
delle intelligenze separate;
e come ognuna
di queste è forma
sostanziale del proprio
cielo, ch'essa avviva di
vita intellettuale e
a cui imprime
movimento, così anche Dioè
forma sostanziale del
primo cielo mobile
al quale, insieme al
primo moto, imprime
la propria perfezione
intellettuale 3^ Con ciò
il bolognese non
fa che sviluppare
un concetto già chiaro
nella sua precedente
opera, Quol. de
intelligentiis, I, dub. 2. L'
idea di
Dio, quale emerge
da siffatto modo
di ve- dere, è r
idea di un
Dio strettamente legato
al mondo finito ^9
Arist., Top., IV,
e. 2, i22b
14: tcov ^cóoiv
xà jjièv ■8-VY]Tà
xà •^'à-B-àvaTa. 30 Porfirio,
Isagoge et in
Arist. Categor. comni.
ed. A. Busse,
nei Commentaria in Arist.
graeca, voi. IV,
De differentia, p.
io, 11 sgg. 31 Argmn. in
Platon. Theol. ad
Laurent. Medicen
[in Opera, Basilea, 1561, t. I, Epist.
lib. II, p.
707). 3- De orbibìts,
III, dub. i,
f. 47 rb-vb. i APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 235 di
Aristotele, come forma
e motore non
mosso della prima
sfera celeste, e anima
del primo «
corpo spirituale »
che contiene e racchiude
entro di sé
le altre sfere
animate e immortali,
fino al cielo lunare,
che racchiude nella
sua concavità la
« sphaera activorum et
passivorum », ossia
i quattro elementi
e quelle cose che,
sotto r influenza
celeste, «di lor
si fanno». Forma
e motore di un
mondo finito, è
evidente che di
siffatto Dio non si
può dimostrare l' infinità
né l'onnipotenza né
la libera azione creatrice. Del resto,
per ciò che
concerne l'animazione dei
cieli, v'erano teologi disposti
ad ammetterla. L'Achillini
lo sa bene;
ma os- serva che da
parte dei teologi
esistono difficoltà non
facilmente superabili ad accogliere
simile teoria. Per
essi, infatti. Dio creò
le intelligenze «
in statu merendi
et demerendi ; viatrices enim aliquantulum
fuerunt », durante
quella « morula
» con- cessa loro da
Dio per potere
scegliere liberamente il
bene o il male
33. Ora che
cosa sarebbe accaduto
se l'anima del
primo cielo avesse peccato
? Il primo
cielo sarebbe stato
dannato. Eppure esso avrebbe
dovuto accogliere i
beati, a meno
che Dio non avesse
preparato per sé
e per i
santi un altro
luogo più adatto, o
che non avesse
predestinato l' intelligenza di quel
cielo alla beatitudine
eterna ! Ma
il maestro bolognese taglia corto
su questo e
altri problemi sottili
e imbarazzanti: per lui,
secondo la verità
della fede, non
può ammettersi che Dio
sia unito come
forma ad un
cielo; ciò ripugna
alla sua infinità e
al potere che
ha di trarre
le cose dal
nulla 34. Tutto questo,
per altro, riguarda
i teologi e
non la filosofia, se
per filosofia s'
ha da intendere,
come quasi tutti
allora in- tendevano, il sistema
aristotelico della natura,
cosa che non tutti
gli storici della
filosofia han sempre
avvertito. E problema tutto
teologico è quello
discusso nel dubbio ottavo
dell'opera, che è
il 2° del
terzo libro, intorno
alla crea- zione dal niente
e al cominciamento
o novitas del
mondo nel tempo. In
oltre venti fittissime
e uniformi colonne
in-folio, interrotte da appena
due capoversi, la
dottrinateologica della creazione
del mondo nel
tempo è sottoposta
ad una serrata e
minutissima critica che
ne dimostra l' inconciliabilità coi 33
Cfr. Dante, Par.,
XXIX, 49-51. 34 De
orb., f. 47
vb. 236
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI principi più Certi
della metafisica aristotelica
35, per termi- nare, al solito,
dopo tanto sforzo,
con questa dichiarazione: « Tenendum
est autem deum
creasse mundum et
non ab aeterno, et
ab aeterno ipsum
potuisse creare.... »! 36. Segue
il nono quesito
o dubbio, «
utrum caelum sit
finitae magnitudinis in actu
», intorno al
quale l'Achillini, fedele ad
Aristotele e ad
Averroè, mostra di
non tenere in alcun
conto il tentativo
fatto da alcuni
teologi del secolo XIV,
di dedurre la
possibilità d'un universo
infinito dalla infinità e
onnipotenza di Dio;
che anzi dalla
limitatezza del- l'universo
aristotelico egli è
condotto a limitare
la potenza divina. Perciò
egli si contenta
di osservare :
« Quod si
theo- logus concedat deum
posse lacere corpus
infinitum, oportet ipsum dicere
has difiìnitiones quantitatum
non esse diffini- tiones absolute,
sed quantitatum finitarum,
quemadmodum oportet ipsum concedere,
quod acquale vel
inacquale non est passio
quantitatis, sed est
passio propria quantitatis finitae »
37 ; nel
che consentono appieno
il Cusano e il Bruno. Nel
decimo quesito col
quale si conclude
il terzo libro,
il maestro bolognese esclude
la possibilità di
altri mondi fuori di
quello descritto da
Aristotele, che ha
per centro la
terra e per limite
la convessità della
prima sfera di
cui è forma
so- stanziale Dio stesso. Anche nel
quarto libro troviamo
ribadite le grandi
tesi del- l'aristotelismo
averroistico intorno alla
natura celeste presa nel
suo complesso. Sferico
è il cielo,
perché corpo perfettissim.o cui non
può competere se non la
perfettissima delle figure geometriche, qual
è appunto la
sferica 38. Ed
è formato di natura
luminosa che consegue
alla luce intellettuale
dell' in- telligenza che l'anima
e lo muove,
diminuendo d' intensità giù giù,
di grado in
grado, fino alla
sfera lunare, la cui lumino- sità propria è
appena percettibile nelle
ecclissi di luna
39. Ampio sviluppo maestro
Alessandro dà al
quesito concernente l'eter- nità del moto
celeste, connesso con
quello dell'eternità del mondo
e dibattutissimo insieme
a questo, nei
commenti al- 35 Ib.,
f. 5irb: «ad
quartum, stando in
principiis philosophorum, rationes militant;
sed negatis eorum
principiis, tiinc cessai
disputatio ». 36 Ib.,
i. 52ra. 37 Ib.,
f. 52ra. 38 Ib.,
IV, dub. I, f.
54ra-vb. 49 Ib., dub.
2, f. 54vb-55rb. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 237 l'ottavo
della Fisica 4°.
Circolare ed eterno,
il moto delle
sfere celesti riflette l'eterna
circolarità del pensiero
delle intelli- genze
motrici: « Quia
igitur intellectio intelligentiae exit
ab intelligente et revertitur
super idem ut
intellectum est, ideo intellectio est
principium motus circularis,
quoniam in cir- culo
exit corpus ab
a, ut a
principio, et revertitur
in idem a, ut
in terminum, per
arcum circuii»! 41. L'ultimo quesito
del De orèzèiis,
concerne l' influenza celeste sul
mondo infralunare. In
nessun'altra trattazione quanto in
questa dell'Achillini appare
evidente come le
dottrine astrologiche sull' influenza
dei cieli avevano
finito per pren- dere consistenza metafisica
nel sistema aristotelico
della na- tura, nel quale
le sfere celesti,
coi loro motori
intellettuali, e il mondo
elementare, contenuto nel
concavo dell'orbe lu- nare, son
solidali e quasi
direi complementari fra
loro, legati come sono
da un legame
di causalità 42.
« Si caelum
staret, ignis in stupam
non ageret, quia
Deus non esset
», suonava una proposizione
condannata dal vescovo
di Parigi nel
1277 43. E l'Achillini:
se il movimento
celeste s'arrestasse, non
solo il fuoco non
s'apprenderebbe alla stoppa
e allo zolfo,
ma addi- rittura « tunc
non essent ignis,
stupa aut sulfur»;
e ciò per la
ragione « quod
in primo instanti
quietis caeli resolverentur omnia inferiora
in materiam primam,
quia desineret caelum
esse conservans
interiora...; aut in
nihil omnia redirent.
Ideo supra dictum est,
quam repugnat naturae
vacuum, aut materiam esse
sine forma, tam
repugnat caelum quiescere.
Ideo Aver- roes,
12. Mataphysicae, comm.
41, auctoritate Aristotelis,
9. Meìaph., [t.J e. 16, [e. 8,
io5ob 22 sgg.)
: ' Non
est timendum caelum quiescere
' 44. Meno
male ! Ma nel
trattare della causalità
che il mondo
celeste esercita su tutte
le cose del
mondo inferiore, il
bolognese è indotto
a porsi il problema
della libertà umana.
Sigieri45 e Giovanni
di 40 Ib., dub.
3, f. 55rb-57ra. 41
Ib., dub. 4,
f. 57ra-vb. 42 Su
questo legame fra
il cielo e
il mondo inferiore,
cfr. Averroè, De caelo,
I, comm. 22;
Aristotele, Meteor., I,
e. i, 338b 22;
e. 2, 339* 21
sgg. 43 Denifle e
Chatelain, Chart. Univers.
Paris., 1, p.
552. Cfr. «Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXIX, 1951, p.
379. 44 De orb.,
IV, dub. 5,
f. 59rb. 45 Cfr.
F. Van Steenberghen,
Sig. de Brab.
d'après ses oeuvres inédites, voi.
II, Siger dans
l' hist. de l'Aristotélisme, nella
collez. Les philosophes belges,
t. XIII, Louvain,
1942, pp. 624
e 663-665. 238 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Jandun 46
se l'eran posto
assai prima, e
l'avevan risolto allo stesso
modo. L' influenza dei
corpi celesti non
s'esercita in modo diretto
se non sui
corpi infralunari. Sull'
intelletto e la volontà
umana questa influenza
non s'esercita se
non indiretta- mente, nella misura
che lo spirito
umano è legato
al corpo. Ma per
se stessa quest'
influenza non s'esercita
sull'atto del giudicare e
del volere, che
può resistere ad
ogni influenza indiretta. Ora
la nostra libertà
trae origine dal
giudizio della ragione, che
per sé è
immune da ogni
diretto influsso celeste. Al
qual proposito l'Achillini
coglie l'occasione per
chiarire l'equivoco che nasce
dal confondere la
libertà umana con la
contingenza, la quale
nel linguaggio aristotelico
è ben altra cosa.
La libertà è
propria del giudizio
che non è
determinato dall'oggetto
appreso; la contingenza
deriva invece da
indi- sposizione della
materia « che
a risponder molte
volte è sorda
»; la prima è
propria dell'uomo; la
seconda spazia in
tutta la natura sublunare,
ove l' impronta del
suggello celeste è
osta- colata dalla cera mortale
47, Ma anche in
questo l'Achillini non
dice niente di
nuovo. Lo stesso concetto
della libertà, più
che svolto, è
appena ac- cennato. 3. -
Poco dopo la
pubblicazione del De
orbi bus a mezzo della stampa,
il maestro bolognese
preparava l'edizione di
alcuni rari opuscoli pseudo
aristotelici insieme ad
altre cose non
meno rare, fra le
quali egli inserì
anche un suo
trattatello De univer- salibus, la
cui composizione è
probabile risalga agli
anni in cui leggeva
logica fra il
1484 e il
1487. Nacque così
l'Opus septisegmentatum
stampato nel 1501,
a spese dell'editore 46 Phys.,
vili, q. 6. 47
De orb., 1.
e, f. 58vb:
« Ex potentiali
in genere intelligibilium na- scitur
libertas, sed ex
potentiali in genere
sensibilium nascitur contin- gentia. Hoc voluit Philosophus,
6. Metaph., textu
comm. 5, in transla- tione graeca:
quare materia erit
causa praeterquam ut
in pluribus aliter accidentis.... Quod
igitur dixi in
primo opere, Quolibeto
[de in- telligeutiis] primo,
[dub. 3, nell'ediz.
del 1494] :
' Sequitur secundo
nul- lam esse in
rebus contingentiam ad
quas non concurrit
homo ', passum est
ab impressura defectum,
non apponendo '
libertatis ' »
[prima di ' contingentiam
']. Ma nell'edizione
del 1506 e
in quella del
1508, l'au- tore ebbe cura
di correggere l'errore. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 239 bolognese
Benedetto d' Ettore
Facili. La stampa
riuniva in- sieme queste rarità:
Pseudo Aristotele, De
secretis secretorum, De regum
regimine, De sanitatis
conservatione, De physionomia. De signis
tempestatum, ventorum et
aquarum, De mineralibus; poi il
fragmento De intellectu
di Alessandro d'Afrodisia
nella traduzione medievale di
Gerardo da Cremona,
il De animae beatitudine di
Averroè, cui tien
dietro l'opuscolo De
universa- lihus dell'
Achillini stesso; infine
l'epistola d'Alessandro il Macedone
ad Aristotele, De
mirahilihus Indiae. L'anno seguente
deve aver curato,
presso lo stesso
editore Ijolognese,
l'opuscolo De primo
et ultimo instanti
di Walter Burley, a
spiegazione del quale
egli aggiunse una
breve nota: Alex. Achillini
Bon. Examinatio huius
quadrate figure et ad-
dictio oblunge (f. A 5), cui
seguono (f. A
6-B 6) le
Proportiones di Alberto di
Sassonia (Bononie.... per Ben. Hectoris,
die XXIII Aug. MCCCCCII. La
rara stampa è
posseduta dalla Bibl. Nationale
di Parigi, Rés.
V. 810). Nel 1503
curava altresì la
stampa del libretto
di Agostino Trionfo da
Ancona, agostiniano. De
cognitione animae et
eitis 'itentiis, cui l' Achillini
aggiungeva una Quaestio
de sensihilibns noribus di
Maestro Prospero da
Reggio, egli pure
agosti- .: .no, «
excerpta et sumpta
ex quaestionibus ab
eo Parisius J'.putatis supra
prologo primi magistri
sententiarum » (Bo- logna, presso Giovanni
Antonio de' Benedetti,
31 maggio 1503) ;
e poco dopo
quella della Destructio
in arborem porphy- rianam dello
stesso Trionfo, presso
lo stesso stampatore
de' Benedetti (io luglio
1503). Nello stesso
anno e presso
lo stesso editore, die
in luce la
Quaestio de subiecto
physionomiae et chyromantiae, o
anche De Chyromantiae
principiis et physio- nomiae, dedicata a
Bartolomeo Coclite e
premessa all'opera di questo,
Chyromantiae ac physionomiae
anastasis cum ap- probatione magistri
Alex. Achillini, uscita
a Bologna presso il
de' Benedetti nel
1504 e dedicata
ad Alessandro Bentivoglio, figlio del
signore di Bologna,
Giovanni IL Due
altre quae- stiones, una
De potestate syllogismi,
l'altra De subiecto
medicinae, dedicate
all'alunno Virgilio Porto
da Modena, l' Achillini stampò a
Bologna, presso lo
stesso Giovanni Antonio
de' Benedetti, nel 1504. Questo Virgilio
Porto era ancora
alunno dell 'Achillini e ne aveva raccolto
le lezioni su
quei due argomenti.
Nel 1505 si addottorò,
e nel nuovo
anno scolastico cominciò
a leggere 240 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI medicina teorica a
Bologna fino al
1525, quando passò
a me- dicina pratica; ma
il 6 agosto
1527 venne a
morte ancor gio- vane 48.
Ecco la dedica
affettuosa del maestro
: Alexander Achillinus Virgilio
Porto Mutinensi, discipulo haud
penitendo, foelicitatem. Nostra quaedam
fragmenta (ut moris
eorum est), Virgilii
mi amantissime, diligentem eorum
collectorem adeunt. Tu
enim urbanitate et virtutibus
et doctrina is
es, quem inter
caeteros nobis dilectos elegi,
apud quem aptissime
reponantur; te enim semper
cognovi nostri nominis
studiosum. Logicalia quidem alios
docebis; medicinalia vero
exacte (ut assoles)
contempla- beris: ex quibus
non minus gloriae,
Alexandre tuo aurigante, te
iam comparaturum existimo,
quam hactenus ex
poeticis mu- neris (/. numeris) adeptus
sis. Haec igitur
nostris aliis, quae
apud te sunt, adiungas.
Vale,
et libenter res
nostras perlege. 4. -
L' II settembre
1505, presso lo
stesso de' Benedetti, uscì il
De elementis che
si può dire
formi, insieme al De intelli- gentiis e
al De orbibiis,
la terza parte
di un'opera complessiva, la quale
abbraccia tutto il
sistema aristotelico-averroistico
della natura, ossia
tutta intera la
sfera cosmica, avente
la terra per centro
e per periferia
il cielo delle
stelle fisse. Consa- pevole dell' importanza
dell'opera, l'Achillini dedicò
il De elementis «all'invittissimo principe
e padre della
patria, Gio- vanni II Bentivoglio
», con una
lettera che è
documento im- portantissimo
per stabilire i
legami che univano
il filosofo al signore
di Bologna. Neil' «
explicit » di
questa e dell'opera
precedente l'Achil- lini,
anzi che
col nome d'Alessandro,
comincia a sottoscri- versi « il
figlio di Claudio
Achillini », arieggiando
alla lontana la maniera
degli arabi. A
rendere piìi solenne
l'edizione del De elementis,
il giovane Porto
fece scattare il
suo estro poetico e
dettò questo epigramma,
che si legge
sul frontespizio, e in cui il
nome di Claudio
Achillini è ricordato
nel momento che per
la prima volta,
per quanto io
sappia, al figlio
veniva dato l'appellativo di
nuovo Aristotele: Cum modo
legisset titulum natura
libelli huius, Achillaeo est
obvia facta seni, 48
Su di lui,
V. TiRABOSCHi, Bibl.
Moden., IV, pp.
226-228. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
24I atque ait: O
nimium foelix hoc
pignore, Claudi, quam melius
dici Nicomachus poteras. Un
altro epigramma scrisse
per la stessa
stampa Ludovico Boccadiferro, che
traduce va il suo cognome
in quello meno plebeo
di Siderostomo. Anch'egii
era discepolo dell' Achillini, e più
tardi ne continuerà
l' insegnamento averroistico a
Bologna, ma con assai
minore vigore speculativo. Il De
elementis è diviso
in tre libri.
Nel primo si
parla dei mutamenti e
delle vicissitudini che
accadono nel mondo
sublu- nare e della materia
che n' è
il soggetto. In
28 diibia son
di- scussi tutti i problemi
concernenti l'esistenza della
materia prima, la sua
natura di soggetto
indeterminato e potenziale del divenire
fisico, la sua
conoscibilità, i suoi
rapporti con la forma,
con le dimensioni,
e il concetto
di privazione. Niente di
particolarmente notevole, tranne
questi tre punti:
primo, il sscondo dubbio
«an Sorte non
existente, Sortes non
sit homo», che richiama
l'attenzione sulla discussione
che fa di
questo problema anche Sigieri
di Brabante, nella
Quaestio utrum haec sii
vera: 'Homo est
animai', nullo homine
existente '^^; secondo, il
sesto dubbio, ove si nega
la tesi che
attribuiva alla materia una
forma sostanziale di
corporeità da essa
inse- parabile; terzo, il dodicesimo
dubbio, ove si
sostiene che la materia
prima è ingenerabile
e incorruttibile e
perciò eterna, checché ne
pensassero altri con
Avicenna. Il II libro
tratta degli elementi
e della loro
mescolanza. Al qual proposito
il bolognese riprende
in esame l'annoso
pro- blema se nei «
misti » restino
in atto o
soltanto in potenza
le forme elementari, ritorna
sulla « forma
corporeitatis » che Avicenna
voleva inseparabile dalla
materia, e fa
un fugace accenno alla
famosa « colcodea
« dello stesso
Avicenna, « quae est
decimus intellectus in
descendendo a deo,
et est formarum datrix in
concavo lunae assistens
ad regulandam activorum et passivorum
sphaeram et ipsam
conservandam » 5°.
Altro 49 De elementis,
I, diib. 2,
f. gava. P.
Mandonnet, Sig. de
Brab. et l'averr. latin
au XI Ile siede,
seconda parte: testi
inediti. Nella coli. Les
philos. belges, t.
VII, Louvain, igo8,
pp. 65-70. 50 De
eleni., II, art.
2, f. ii2rb.
SuU'origine e il
significato della pa- rola «
Colcodea », dopo
quanto ne aveva
scritto Alfonso Nallino,
son ritornato in «
Giorn. Crit. d.
Filos. It. »,
XXXIV, 1955, p.
188, per dimostrare che
essa entrò in
circolazione coli 'edizione del
Conciliator di Pietro d'Abano
(Venezia, 1483). 16 242 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI tema è quello,
allora di grande
attualità, se e
come le forme sostanziali siano
capaci d'accrescimento e di diminuzione,
di maggiore o minore
intensità (art. 3").
Più importante, sebbene non
nuovo, è quello
che egli dice
della generazione degli
or- ganismi viventi, e in
particolare dell'uomo (art.
4° e 50).
Tutte le forme degli
esseri corporei, da
quelle elementari a
quelle animali, son tratte
dalla potenza della
materia. Ma mentre le
forme elementari permangono
nei « misti
», attenuate nelle loro
proprietà, come aveva
detto Averroè, la
«forma mixtionis » resta
soltanto potenzialmente nel
vegetale, e come
l'anima vegetativa si corrompe
all'apparire dell'anima sensitiva,
nella quale rimane potenzialmente o
virtualmente. L'Achillini in questo
non si dilunga
molto da S.
Tommaso e da
Pietro d'Abano. In certi
momenti, anzi, egli
sembra accogliere la
tipica dot- trina tomistica dell'unità
della forma sostanziale.
Con due strappi però:
uno, di minore
importanza, concerne la
per- manenza delle forme elementari
nei « misti
» ; l'altro,
assai maggiore, riguarda l'unione
dell' intelletto col
singolo. A rammendare quest'ultimo
strappo che compromette l'unità della
coscienza umana, l'AchilHni
s'adopra con ogni accorgimento dialettico,
pur mantenendosi fermo
sulla tesi averroistica fondamentale
: l'unità dell'
intelletto. È interes- sante seguirlo nel
suo tentativo. Lo sviluppo
dell'organismo umano s' inizia
con una fase puramente vegetativa,
come aveva detto
Aristotele. Principio delle funzioni
vegetative nell'embrione è la così
detta « anima vegetativa »,
all'apparire della quale
la precedente «
forma mixtionis » si
corrompe. Così, nella
seconda fase dello
sviluppo embrionale, alla forma
vegetativa subentra quella
sensitiva, mentre la prima
si corrompe. Ma
qui l'Achillini si
domanda: — Allora dovremmo
dire che prima
d'essere animale, l'em- brione nella prima
fase è stato
pianta ? —
No — egli
risponde ; — perché
altro è esser
pianta, altro è
vivere a mo'
di pianta, come dice
appunto Aristotele 51.
L'anima vegetativa d'una pianta
è termine della
nascita di quella
pianta, ed è
quindi forma determinata e
perfetta nella sua
specie; la forma
ve- getativa nell'animale,
invece, è forma
indeterminata e imper- fetta; più che
punto d'arrivo, è
preparazione e avviamento 51
Ib., art. 4,
f. i24vb. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 243 ad
un grado più
alto di vita;
questa è in
via, direbbe Dante
5^, quella è già
a riva. In questo
concetto del passaggio
dall' indeterminato al determinato parrebbe
dovesse cercarsi la
chiave per intendere come r
intelletto, unico in sé, s'unisce
all'anima sensitiva a costituire
l' individuo umano particolare.
Ed è concetto
ari- stotelico che mitiga alquanto
la crudezza dell'altro
concetto, essere le forme
sostanziali come i
numeri e come
le figure della geometria, di
cui non si
dà aqcrescimento o
diminuzione senza
cambiamento di specie.
Aristotele appunto, nel
De ge- neratione animalium,
II, e. 3,
aveva detto che
nel processo genetico non
nascono insieme l'animale
e l'uomo, né
l'animale e il cavallo
53. Dal che
parrebbe che l'animale,
che precede l'uomo e
il cavallo, dovesse
essere non una
forma determi- nata e specifica,
ma una forma
generica e indeterminata, la quale
tende là a
determinarsi in cavallo,
qua in uomo. Venendo
a parlare appunto
del processo genetico
umano (art. 50), il
maestro bolognese si
chiede « an
in ipso (homine) animam intellectivam
expectet sentitiva » 54. E
per risolverlo, ricorda anzitutto
quali, a suo
modo di vedere,
ne sono i due presupposti : Unum,
quod intellectus sit
forma informans materiam,
dans esse hominem. Aliud,
quod prius tempore
sit anima sensitiva in
materia, quam intellectus
possibilis. Quorum primum
in libro De intelligentiis declaravi
55, et etiam
in libro De
orbihus, [II, dub. VI],
quaestione de motu
intellectus. Ouibus addo,
quod ambo illa asseruntur
ab Aristotele, 2.
De genevatione animalium, [cap. 3],
dicente: ' Sed
quamobrem talem animam
prius haberi necesse sit,
ex his quae
De anima disseruimus
apertum est. Sen- sualem
autem, qua animai
est, tempore procedente,
recipi et rationalem, qua
homo est, certum
est. Quest' « anima
sensitiva » che
precede l'apparire dell'
intel- ligenza, è una forma
generica e indeterminata
che prepara l'avvento di
un'altra forma più
determinata, per la
quale l'uomo comincia già
a distinguersi dal
cavallo e dagli
altri animali; e questa
è la cogitativa.
La cogitativa è
nell'uomo 52 Purg., XXV,
54. 53 Arist.,
De gen. animai.,
II, e. 3,
736b 2. 54 De
elem., II, art. 5, f. i26ra. 55
Si veda sopra,
pp. 208-209. 244 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI quello che
negli altri animali
si dice estimativa,
ed è, insieme air
immaginativa, alla memorativa
e al ((
sensus communis », uno
dei così detti
sensi interni. Come
l'estimativa negli ani- mali, anche la
cogitativa (che talora
è chiamata essa
pure esti- mativa) ha la
funzione di distinguere
e giudicare sensibilmente le percezioni
particolari e quello
che v' è
nelle cose apprese
di utile e di
dannoso. Per questo
essa è chiamata
anche «ratio particularis »
; ma è
facoltà sensibile, legata
all'organismo, tanto che i
medici e anatomisti
antichi e medievali
le assegna- vano come organo
il « ventricolo
medio » del
cervello, mentre all' immaginativa
assegnavano quello anteriore,
e alla memora- tiva quello posteriore.
Ma oltre alla
funzione ora accennata, la
cogitativa umana ne
ha un'altra, per
la quale si
distingue sostanzialmente
dall'estimativa degli altri
animali: essa è ordinata
a preparare quelle
immagini sensibili, o
fantasmi, quasi riassunto di
tutto il mondo
dell'esperienza sensibile, che r
intelletto farà oggetto
di elaborazione mentale,
scien- tifica, traendo fuori dalle
rappresentazioni particolari il
con- cetto universale.
Mentre nell'animale inferiore
all'uomo l'anima sensitiva per
mezzo dell'estimativa si può dire
sia giunta a riva,
ed abbia raggiunta
la più alta
perfezione di cui
è capace, non così
è della cogitativa
umana, la quale,
per quest'ultima sua funzione
preparatoria all'atto dell'
intendere, è ordinata per
sua natura a
congiungersi con l' intelletto
possibile. Questo alla sua
volta, nella gerarchia
delle intelligenze se- parate, è
quello che tiene
l' infimo grado, perché,
pura potenza d' intendere, è
ordinato, per iniziare
il suo passaggio
all'atto, ossia per divenire
intelletto in atto,
all'apprensione intelligi- bile
delle forme del
mondo sensibile, di
cui la cogitativa
gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non
si può dire
che la cogitativa
sia la vera
forma del- l'uomo, come pure
dicevano molti averroisti
56, e che
per essa l'uomo si
distingua dagli altri
animali. O se
vogliamo, essa è forma,
sì, ma incompleta.
E questo perché
la cogitativa umana 56
Fondandosi su un
famoso detto d'Averroè,
De anitna, III,
comm. 20 : ■«
Et per istum
intellectum [queni vocat
Aristoteles passibilem-, e che Averroè denomina
cogitativa] differt homo
ab aliis animalibus
». Al qual detto
gli averroisti sigieriani
ne opponevano però
un altro, tratto dal
primo commento allo
stesso terzo libro
del De aniìiia:
« Cum per hanc
virtutem [rationalem] difterat
homo ab aliis
animalibus, ut dictum est
in multis locis
». APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLTNI
243 non è ancora
giunta a riva;
a riva essa
giungerà quando sarà unita
all' intelletto possibile,
che, alla sua
volta, è ordinato per
sua natura ad
essere eternamente unito
alla cogitativa umana, negl'
infiniti individui della
specie. V è
insomma tra la cogitativa
umana e l' intelletto
possibile un vincolo
sostan- ziale, per cui l'una
è ordinata per
natura all'altro, e
recipro- camente, ed
entrambi si completano
a vicenda. Forma
com- pleta dell'uomo, sia in
universale, quanto alla
specie, sia in particolare, quanto
ai singoli, è
dunque l' intelletto possibile unito alla
cogitativa; e non
solo forma assistente,
ma vera forma informante
che dà all'uomo
l'essere di uomo
e ne fa il
soggetto dell' intendere. A
prima vista potrebbe
parere, e certe
espressioni potrebbero indiirci a
crederlo, che l'anima
cogitati^•a, tratta dalla
potenza della materia, e l'
intelletto possibile, venuto
dal di fuori, fossero due
nature, due quiddità
diverse, due forme,
anzi due anime. Ed
effettivamente esse stanno
nell'uomo a rappresen- tare due modi
di conoscenza che
all'Achillini, come ad
Ari- stotele e a Platone,
son parse irriducibili: Duo igitur
svint principia cognoscendi
in ncibis reperta:
unum universaliter, et est
intellectus, et est
incorporeus, inorganicus, incorruptibilis; aliud
vero singulariter, et est sensus,
et est virtus in
corpore et organica
et corruptibilis, et est
anima cogitativa 57, Ma
poiché la cogitativa
è forma incompleta
ed è ordinata ad
unirsi all' intelletto,
e questo alla
sua volta è
complemento di quella, possiamo
ben dire che
dalla loro unione
risulta un'anima composta, come
aveva detto Sigieri
58, la quale
è tutta intera forma
dell'uomo. Tuttavia, poiché
la cogitativa è forma
incompleta che riceve
il suo ultimo
complemento dal- l'unione
con r
intelletto, possiamo dire
ugualmente che 1' in-
telletto termina il processo
della generazione umana,
e che esso ha
da ritenersi forma
dell'uomo a più
forte ragione che non
l'anima cogitativa: Quamvis in
homine duae species
colligentur, ibi est
tantum intellectus, qui est
ultima forma, qua
homo est homo.
Cogitativa igitur forma non
est ultima, sed
ordinatur in intellectum.
Non tamen est homo
unus per simplicem
formam, sed per
composi- 57 De ehm.,
II, art. 5,
f. lijrb. S^ Cfr.
sopra, p. 206. 246 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI tissimam; nullum
enim est mixtiim
homine compositius. Habet igitur
homo duo esse:
unum est esse
inateriale a cogitativa; reliquum vero
est esse divinum
ab intellectu possibili
59. Perciò l'Achillini nei
QuoUbeta de intelligentns, ai
quali più volte si
riferisce nel secondo libro
del De elementis,
aveva detto : Non potest
intellcctus informare materiam,
non informante cogitativa, quia
non stat materia
sine forma constituta
in esse per eam....
Neque potest cogitativa
informare, non informante intellectu, quia,
dato informabili ultimate
disposito et informativo, ponitur informatio.
Est autem materia
informata cogitativa in- formabile propinquum et
ultimate dispositum ad
recipiendum inteilectum ^°. Le quali
parole, secondo la
testimonianza del Nife,
son tolte alla lettera
dall'opera di Sigieri,
De intellectu ad
fratrem Thomam ^i. Il terzo
ed ultimo libro
del De elementis
abbraccia dician- nove
quaestiones , intorno alle
proprietà degli elementi,
e cioè alla quantità
e alle loro
qualità, al movimento,
alla gravità, alla figura
e al luogo
proprio di ciascuno.
E poiché le
teorie dello Heytesbury, o
Heutisbery, come lo
chiamavano, e quelle del
Suisset, o meglio
Swineshead, erano venute
a scompi- gliare le idee
dei maestri bolognesi
non meno che
di quelli padovani, anche
l'Achillini s' impegna in una prolissa
discus- sione del problema di
moda, se di
ogni cosa naturale
si dia un massimo
e un minimo
6=, sul quale
nel corso delle
sue lezioni e in
trattati speciali ebbe a soffermarsi
più volte anche
il Pomponazzi, imprecando ai calculatores
forestieri e nostrani
^3. A questo problema
tien dietro una
non meno prolissa
discus- 59 De elem.,
1. e, f.
i2gra. ^° V. sopra,
p. 206. 6^ NiFO,
De intellectu et
daemonibus, I, tr.
3, e. 18; cfr. il
mio Si- gieri, cit., pp.
17-18. ^2 De elem..
Ili, dub. i,
f. 230va sgg. ^3
Pomponazzi, De maxima
et minimo ad
Laurentium Molinum, Ms. Ambrosiano
R. 96 sup.,
f. i52r (vecchia
numeraz. f. 39r)
; In I Phys.,
Parigi, Bibl. Nation.,
ms. lat.
6533, f. 49
Gr sgg.; Arezzo,
Bibl. Frat. de' Laici,
ms. 389, f.
42V sgg. (il
Pomponazzi prende di
mira par- ticolarmente il suo
concittadino Pietro da
Mantova), nonché le
due opere a stampa
De reactione e
Tractatus penes quid intensio
et re- missio formarum
attendatur. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
247 sione sul quesito
« utrum aliquid
moveat se ».
E sebbene l'au- tore dichiari di
voler trattare di
ogni specie di
movimento, celeste o elementare,
animato o inanimato,
sostanziale o accidentale, corporale
o spirituale, egli
s' intrattiene più a lungo
intorno al moto
naturale degli elementi
e dei «misti»
e specialmente alla gravità
e « leggerezza
», ritenute con
Ari- stotele e Averroè forme
sostanziali dei corpi,
all'azione del cielo, del
« luogo naturale
», del generante
edi ciò che
rimuove r impedimento al
cadere o all'elevarsi
di un corpo
64. Le stesse idee
averroistiche, che l'Achillini
sosteneva a Bologna,
aveva sostenuto a Padova
il Pomponazzi, nell'anno
1500, commen- tando r Vili
della Fisica 65. Ad un
certo momento il
maestro bolognese accenna anche
al moto violento
dei proiettili. E come
il Pomponazzi, sostiene
egli pure che
il proiettile lan- ciato «movetur a
medio» e combatte
la tesi dell' « impetus » difesa
dai «parisienses»66^ cioè
da Giovanni Buridano,
da Ni- cola d'Oresme, da
Alberto di Sassonia,
detto Albertuccio o Alberto
il piccolo, per
non condonderlo con
Alberto Magno, e altresì
da Marsilio di
Inghen, e portata
a Bologna da
maestro Biagio da Parma
che d'Albertuccio era
stato alunno a
Parigi ^7. Seguono altri
diciassette quesiti intorno
ai quattro elementi e
alle loro qualità
sostanziali. La soluzione
di essi è
quella averroistica. Ma l'ultimo,
il diciannovesimo, ha
un' impor- tanza speciale per
il tempo in cui è
posto : «
Dubitatur decimo- nono,
utrum terra sit
ubique habitabilis ».
Il problema se l'era
già posto Pietro
d'Abano prima del
1310, nella diff.
LXVII del suo Conciliator,
e l'aveva discusso
con ampiezza, ricor- dando i viaggi
di Marco Polo e la
relazione di frate
Giovanni cordigliere, cioè del
francescano Giovanni del
Pian del Car- 64
De eleni., Ili,
dub. 2, f.
I34ra sgg., e
specialmente sulla gravità
e nerezza, f. i36rb. 65
Bibl. Naz. di
Napoli, ms. Vili.
D. 81, f.
1311: Questio Magistri Petri Pomponatii.... de
motu gravium et
leviiim, quam fecit
Magister Petrus dum legeret
librum 8. Physicoriun
anno domini 1500.
Sullo stesso argomento il
mantovano ritornò nel
commento all' Vili
della Fisica del 1518,
Arezzo, Bibl. Frat.
de' Laici, ms.
389, f. 3iiv-3i2r, ove combatte
la « solutio
de impulsu que
communiter tenetur a
pari- siensibus » (ad
t. e. 82). 66
De elem., 1.
e, f. I35va
« Secunda est
opinio Parisiensium.... ». 67 A. Maier,
Zz£^ei Grundprobletne der
scholastischen Naturphilosophie: das
Problem der intensiven
Grosse; die Impetustheorie. 2*
ediz. Roma, 1951, pp. 1
13-313, e per
Biagio Pelacani da
Parma in particolare, pp. 270-274. 240 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI pine 68. L'Achillini
conosce e cita
il Conciliator, ma
di mala voglia e
senza entusiasmo: Quod autem
sub aequinoctiali continue
habeantur ficus, aut quod
aer sit ibi
temperatissimae dispositionis, aut
quod aninialia ibi habitantia
temperatam habeant complexionem,
aut quod pa- radisus
terrestris ibi sit:
sunt res quas
experientia naturalis nobis non
ostendit ^9. Il che
è ben detto
per il paradiso
terrestre, ma non
per le altre cose
ricordate, delle quali
1' « experientia
naturalis » di arditi
viaggiatori e missionari
era cominciata da
un pezzo. Il filosofo
bolognese, che pur
sapeva qualcosa di
ciò che co- storo narravano di
aver visto e
toccato con mano,
senza avere il coraggio
di negarlo, si
contenta di dire
che è cosa
che non riguarda i
filosofi intenti alla
ricerca del perché,
bensì gli « storiografi
» cui spetta
d' indagare se un
fatto è o
non è : «
Pro malori parte
veritas illarum (causarum)
ex historia ' quia
est ' dante,
petenda est ;
ideo haec historiographis re- linquantur, et
praesertim de Marco
Veneto aut Dominico Indiano loquentibus
» 70. Chi
sia questo Domenico
Indiano non saprei dire.
Ma coloro che
avevan parlato e
scritto del- l' India e
delle terre australi
eran più d'uno.
Negli anni stessi in
cui l'Achillini componeva
il De elementis, s'aggirava per r
India e le
terre australi Ludovico
de Varthema, che
pare,, e non senza
buon fondamento, fosse
oriundo bolognese. 5. -
Il 5 marzo
1506, uscì «
per Benedictum Hectoris
Biblio- polam Bononiensem »
la seconda edizione
dei Quoliheta de intelligentiis , cui
l'autore premise diciotto
dubia sollevati dal conte
Annibale Rangoni, al
quale l'edizione era
dedicata, in- sieme con le
soluzioni di essi.
Questi diciotto dubia
nelle edi- zioni successive sono
stati rimandati in
fine dell'opera. Tutti questi
scritti hanno, in
complesso, carattere stretta- 68
Che « cordelarius
)) (in francese
cordelier) significhi «francescano» o «
cordigliere », è
sfuggito a Sante
Ferrari, in quel
suo volumaccio, pieno di
tanti spropositi, I
tempi, la vita,
le opere di
Pietro d'Abano, p. 276,
del quale ho
parlato a lungo
sopra, nei primi
due saggi, eil ove
« cordelarius »
è diventato un
cognome, Cordellari ! 69
De eleni., Ili,
dub. 19, f.
i49rb. 70 Ib. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 249 mente
filosofico, se per
filosofia s' intende, come
s' intendeva allora, la teoria
della natura completata
dalla metafisica. Le stesse
questioni De suhiecto
physiononiiae et chiromantiae e De
suhiecto medicinae , ben
poco hanno che
riguardi da vicino la
medicina propriamente detta.
Tuttavia dalle Anotomicae annotationes , pubblicate
postume dal fratello
Giovanni Fi- loteo, nel
settembre 1520, e
delle quali parleremo
più oltre, si può
ricavare che maestro
Alessandro, il quale
dal 1494 reggeva una
delle cattedre di
Medicina Teorica, fu
condotto a discutere di
anatomia e di
fisiologia 7". In queste
Annotationes infatti egli accenna
più volte ad
osservazioni da lui
fatte nel 1502 (f.
i6v), nel 1503
(ff. 5v, 15V,
16) e nel 1506 (f. 12
v). Lo studio bolognese,
da quando l'Achillini
assunse l' insegna- mento
della Medicina Teorica
ebbe quasi sempre
tre maestri deputati «
ad lecturam Chyrurgiae
», che di
solito aveva per testo
fondamentale V Anatomia del
Mondino, sulla guida
del quale si conducevano
le dissezioni dei
cadaveri o «
anotomie », che, alla
fine del Quattrocento
e nei primi
del Cinquecento, si facevano
con speciale messa
in scena, pari
a quella non
meno solenne per la
confezione della Triaca.
A queste «
anotomie » assistevano maestri
e scolari e per l'occasione
si sospendevano per otto
o dieci giorni
le lezioni. Siccome
l'Achillini non fu mai
deputato « ad
lecturam chyrurgiae »,
è verosimile che egli,
come maestro di
Teorica, abbia preso
parte a qualcuna delle abbastanza
frequenti « anotomie »
tenute negli anni
da lui stesso indicati
e in altri
ancora ~-. Nell'anno scolastico
1502-3, fra i
maestri deputati a
leggere 71 A. Pazzini,
La scoperta della
membrana timpanica, nella
rivista // Valsalva, IX,
1933, pp. 298,
scrive: «L'Achillini lesse anatomia nell'università di
Bologna nel 1497,
ma per breve
tempo. Nel 1501
ri- prese la cattedra e
la tenne fino
al 1508 ».
La notizia è
inesatta per più versi.
Una cattedra d'anatomia
a Bologna allora
non esisteva. Di
ana- tomia si occupavano il
professore di Teorica,
quando faceva lezione su
un testo di
anatomia, per es.
su talune parti
del Canon di
Avicenna o su alcuni
trattati di Galeno
ecc., e il
professore di Chirurgia.
L'Achil- lini fu sempre professore
di Teorica dal
1494 al 1506,
e dall'ottobre 1508 al
1512. 7* Oltre a
queste « anotomie
» pubbliche, ve
n'erano del resto
anche di private che
i maestri facevano
per proprio conto,
quando ne avevano la
possibilità, a scopo
d' indagine scientifica. Cfr.
G. Martinotti, L' in-
segnamento dell'anatomia a Bologna
prima del sec.
XIX, in Studi
e me- morie per la
Storia dell'univ. di
Bologna, voi. II,
Bologna, 191 1, p.
30 sgg. Ma l'autore
non dà esempi
per il periodo
dell'Achillini, né dice
che fossero frequenti. 250 L
ARISIO'IELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Chirurgia, insieme a
Domenico della Lana,
che già insegnava da
vari anni, e
a Biagio de'
Mercuri, ucciso il
5 novembre 1505, compare
nello studio bolognese
la figura di
Jacopo o Beren- gario da Carpi,
detto semplicemente il
Carpo. Questo illustre maestro, che
godeva della protezione
d'Alberto Pio, signore
di Carpi, commentando il
Mondino, ebbe a
correggerlo su molti punti,
e dominò la
chirurgia bolognese del
suo tempo, cui
aprì nuove vie, fino
alla sua partenza
per Ferrara nel
1527. A pro- posito della scoperta
del martello e
dell' incudine nell'orecchio medio, gli
storici della medicina
sono incerti se
attribuirla all'Achillini o al
Carpo, e sembrano
quasi insinuare che vi
fosse rivalità fra
i due colleghi
bolognesi. Il certo
è che l'Achil- lini
nelle Annotationes non
ne fa cenno;
e d'altra parte
il Carpo, nei Commentaria
cum amplissimis additionihus
super Anatomia Mundini, stampato
a Bologna, «
per Hieronymum de Benedictis.
Pridie Nonas Martii.
M.D.XXI », quando
il collega era morto
da quasi nove
anni, trattando nel
comm. XXXVII (fol. 477r)
di questi due
ossicini, lungi dall'attri- buirsene la
scoperta, e' informa
che « sunt
aliqui qui volunt quod
illa ossicula moveant
aerem intra stantem
et panni- culum praedictum
». E anche
nelle Isagogae hreves
et exactis- simae in
anatomiam humani corporis
(seconda ediz. del
1530, s. 1., pp.
230-32), lo stesso
Carpo torna a
parlare dei «duo ossicula
» e delle
varie opinioni per
intenderne la funzione. Se
se ne discuteva,
ed altri avevano
opinioni diverse da
quella di maestro Jacopo,
è segno che
questi « duo
ossicula » erano stati
notati da qualche
tempo, forse in
qualcuna delle « ano-
tomie »
tenute dallo stesso
chirurgo, e alle
quali un maestro di
Teorica, qual era
l'Achillini, non poteva
rimanere estraneo 73 Giacché
è risaputo come
nel corso appunto
di queste « ano-
tomie »
e nelle discussioni
inevitabili a cui
davano occasione, furon notate
discordanze, le quali
ogni giorno cresce van
di numero, fra l'esperienza
e le trattazioni
anatomiche di Ga- leno, di
Avicenna, del Mondino
o di Ugo
da Siena, e
si venne rinnovando la
scienza anatomica. Nel 1506,
Alessandro Achillini godeva
dunque a Bologna della
più alta considerazione come
filosofo e come
medico e 73 Del
resto l'attribuzione di
questa scoperta all'Achillini
si fa ri- salire a
ciò che ne
dicono Eustachio Rudio
e Giulio Casserio
piacentino. Cfr. G. N.
Pasquali Alidosi, / dottoribolognesi di teol.
filos. medie, e d'arti
liberali dall'anno 1000
per tutto marzo
1623, Bologna, 1623,
p. 8. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 25I del
favore dei Bentivoglio
che gareggiavano coi
signori di Ferrara e
d' Urbino e
coi Medici nel
proteggere gli studi,
le arti e i
begli ingegni 74,
Per Natale del
1504, il fratello
Giovanni Filoteo Achillini portava
a termine il
suo enfatico e
strampa- lato poema
intitolato Viridario, stampato
a Bologna, nel
1513, « per Hieronymo
di Plato Bolognese
», e dedicato
a « Gioanne de
Medici Cardinale, bora
Leone sommo Pontifice
». Nel canto X,
Giovanni Filoteo tesse
le lodi di
Bologna; prima delle donne
e dei gentiluomini
illustri, poi degli
studi che dan
fama a Felsina. Fra
i dotti bolognesi
due ne indica
in particolare: l'uno è
Giovanni Zaccaria Campeggi,
allora giurista di
gran fama, che dopo
avere insegnato il
diritto a Pavia
e a Padova, s'era
fermato definitivamente a
Bologna (a meno
che Gio- vanni Filoteo non
intenda del figlio
di lui, Lorenzo,
che, insieme al padre,
teneva la cattedra
straordinaria di diritto
civile, egli pure giurista
di grido e
futuro cardinale, cui
saranno affidate importanti e
delicate missioni diplomatiche)
; l'altro è Alessadro
Achillini, che il
poeta, suo fratello
minore,esalta con orgoglio e
ammirazione (ff. i84v-i85r)
: Dui lumi chiari,
ciascaduii divino: lune il
Campeggio, laltro lo
Achillino. Di luna legge
e laltra quel
Campeggio, si come e
voce e ver,
porta corona. Ne gli
altri studii lo
.\chillino veggio, che Theologia
sparge in ogni
zona. lalta philosophia laudar
non deggio, che fama,
e de laltre
arti, il Mondo
introna. Me glorio, godo,
e laudo il
Creatore che a questo
unico son fratel
minore. Chi legge e
intende lopre sue
superne, dove e insudato
in la sua
gioventute, gli darà laudi
gloriose e eterne. Hor
pensi, pervenendo a
senettude, le lucubration, calami
e lucerne scranno al
letto et al
lettor salute. Di un
lustro a punto
il mezzo camin
varca, sei debito farà
Ih orrenda Parca. Che
maestro Alessandro fosse
dottissimo in filosofia
e nelle altre arti
lo sapevamo ;
ma che egli
si fosse addentrato
anche in 74 Nel
bimestre settembre-ottobre 1491,
e in quello
di novembre- dicembre 1504,
fu anche del
consiglio degli Anziani.
Catalogus omnium doctoriini collegiatorum
in artibus liberalibus
et in facilitate
medica, Bo- logna, 1664,
p. 22. 252 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI un campo così
diverso come quello
degli studi di
teologia, ci sarebbe facilmente
sfuggito, se il
fratello poeta non
avesse richiamato
l'attenzione su questo
aspetto della sua
cultura. A dir vero,
più volte, leggendo
taluni dei suoi
scritti, m'era accaduto d' imbattermi, senza
farci troppo caso,
in brani che, ben
considerati, attestano nell'autore
buona conoscenza delle cose
teologiche, pari certamente
a quella di
Tiberio Bacilieri, il quale,
averroista alla maniera
dell'Achillini, non esitava a
dichiararsi pronto, se il papa
l'avesse gradito, a in- terrompere
l'esposizione d'Aristotele e,
«relieto lumine na- turali, propositiones creditas
magna cum facilitate
et bre- vitate resolutissimas reddere
» 1^. Il 19
maggio del 1506
l'Achillini avrebbe dovuto
essere presente come compromotore
all'esame di dottorato
che quel giorno dovevano
subire maestro Guglielmo
Spinola da Modena, che
per un biennio
era già stato
Rettore dello studio
« et optime se
habuerat in officio
», e maestro
Guido da Pesaro. Dovette invece
farsi rappresentare da un collega,
perché « tunc temporis
iverat Romam, ut
interesset disputationibus fìendis in
capitulo generali fratrum
minorum tam observanti- norum quam
conventualium, grafia sui
honoris, studiique nostri ac
almae civitatis bononiae
» 7^. Nel
saggio che segue, si
dirà quanto basta
di questa disputa
avvenuta il 6
giugno 1506 in casa
e sotto la
protezione del Cardinale
Domenico Grimani. Il patrizio
veneziano Geronimo Taiapietra
prota- gonista di questa disputa,
al capitolo generale
dei frati minori tenuto
a Roma, giostrava
in difesa di
quel- l'averroismo sigieriano
che l'Achillini, dodici
anni prima, aveva difeso
durante un altro
capitolo generale di
francescani a Bologna. L' invito
deve essere stato
rivolto all'Achillini 75 Nella
dedicatoria a Giulio
II della Lectura
in tres libros
de anima di Tib.
Bacilieri, Pavia, 1508. Cfr.
il mio Sig.
d. Brab. nel
pensiero ecc., p. 136.
A convincerci della
buona conoscenza che
all'Achillini non do- veva mancare deUe
cose teologiche, oltre
ai molti luoghi
nei quali egli mette
in rilievo, su
vari argomenti, il
dissenso irriducibile tra
filosofi e teologi, basta
ricordare i brevi
accenni alla libertà
degli angeli {De
orò., ITI, dub. I,
f. 47rb), alla
grazia infusa {ib.,
dub. 2, f.
5ira), alla duplice natura in
Cristo [De eleni.,
II, art. 2,
f. ii2rb), al
peccato originale e alla
giustificazione {ib., art.
5, f. i29rb),
alla transustanziazione e al- l'
identità del corpo
di Cristo nel
sepolcro {ib., i29rb-vb)
e simili. 76 Libro
segreto del collegio,
cit., n. 3, f. 6r.
Cfr. L. Mùnster,
Aless. Achillini, in
Riv. di Storia
delle Scienze Mediche
e Naturali, XXIV, 1933.
P- 75- APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 253 dal
Card. Grimani, per
desiderio del Taiapietra
stesso, cui doveva stare
a cuore d'avere
al suo fianco,
nel pubblico ci- mento, un
maestro di tanta
autorità, del quale
condivideva il pensiero. Però fu
un peccato che
maestro Alessandro fosse
assente da Bologna quel
19 maggio, poiché
maestro Geronimo de Bombaxia,
priore per quel
trimestre del Collegio
di medicina, annota di
suo pugno nel
Libro Segreto del
Collegio stesso: « Et
eadem die habuimus
opulentam colationem a
docto- ratis»; usanza non
del tutto infrequente,
e fatta oggetto,
a quanto mi consta,
anche di speciali
norme regolamentari. 6. —
Nell'autunno dello stesso
anno l'Achillini, che
era priore del Collegio
(carica già da lui coperta
altre volte), dovette provvedere alla
sua incolumità personale,
all'appressarsi delle milizie papali:
« Erat enim
tunc temporis universa
urbs in sagis ob
terorem summi pontificis,
qui magnis et
gallorum et italorum copiis
ad eam approperabat,
ut urbem suam
libe- ram in liberiorem
redigeret; quod sibi
sviccessit fuga opti- matum
bentivolorum, qui tunc
ei preerant, suscepta
». Come fautore dei
Bentiviglio, egli il 7 novembre
era fuggito a Pa- dova,
mentre nella carica
di priore gli
era successo maestro Chiaro Francesco
de' Genuli 77. L'
II novembre Giulio
II faceva il
suo ingresso in
Bologna, e i maestri
dello studio andavano
a rendergli omaggio: Die
xi'^ novembris, Beatissimus
sumnius pontifex iullius
papa secundus
honorificentissime ingressus est
praetorium fori bono- niensis, tanquam
Dominus benemeritissimus; et
nostra collegia iverunt obviani
ei pedestres usque
ad mansionem prope
positam strale maioris, cum
vestibus et biretis
rosaceis et banale
de variis, et beatitudinem
suam associavimus usque
ad sanctum petrum. Sic
enim consue visse alios
collegiatos factitare, a
Domino Paris de grassis,
Magistro ceremoniarum, accepimus
78. Fuggito da Bologna,
l'Achillini era accolto
come maestro nella seconda
cattedra ordinaria di
filosofia naturale, a Pa- dova.
Ivi appunto lo
troviamo come concorrente
del Pompo- 77 Libro
segreto, n. 3,
f. yr. Cfr.
L. Mùnster, p.
16. 78 Libro segreto,
ib. 254 I- ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI nazzi che
occupava la prima
cattedra, come risulta
dal titolo dalla reportatio
del corso di
lezioni che il
Peretto Mantovano tenne nell'anno
scolastico 1506-1507 sul De substantia
orbis di Averroè: Expositio libelli
de substantia orbis
ex. mi ac tempestate
nostra naturalis
philosophiae luminis Magistri
petri pomponacci Man- tuani.
Patavij. M.D.VII. xx
mensis Februarij, dum
primum locum ordinariae philosophiae,
ad concurentiam ex. mi allexandri achiUini bononiensis, publice
profìteretur 79. Sebbene il
Facciolati pretenda di
sapere che maestro
Ales- sandro era stato professore
a Padova nel
quadriennio 1484- 1488, e
che in quest'ultimo
anno aveva avuto
per antago- nista il Pomponazzi,
la notizia è
smentita dai rotuli
bolognesi e dagli altri
documenti del Collegio
delle Arti e
di Medicina che danno
presente a Bologna
l'Achillini ininterrottamente dal 1484
al 1506. Invece
è certo che
il mantovano, che
iniziò il suo insegnamento
padovano solo nel
1489, ebbe a
concor- rente, quando
ritornò a Padova
nel 1499, l'alunno
e socio dell' Achillini, Tiberio
Bacilieri, lino alla
partenza di lui
per Pavia, e, partito
questo, il Fracanziano.
Prima dunque che con
l'Achillini, il Pomponazzi
s'era scontrato col
di lui « fido
Achate », che
del suo Enea
non era per
altro che una
pallida e sbiadita ombra
^o. Soltanto dunque nei
due anni scolastici
1506-1508 il Pe- retto si
trovò ad avere
per concorrente l'Achillini,
del quale già conosceva
il pensiero. Ma a giudicarne
dal contenuto dell'
Expositio libelli de
substantia orbis, i
dissensi fra i due,
per quanto senza
dubbio notevoli, non
paion tali da do-
ver degenerare in risse.
Anzi, non ostante
i dissensi, vi
sono nell'esposizione
pomponaziana molte pagine
che il bolo- gnese avrebbe potuto
sottoscrivere a piene
mani. Così, per esempio,
quando il mantovano
combatte la teoria
avicenniana della « forma
corporeitatis » coeterna
alla materia (fol.
yv sgg.) ; o
quando tratta della
dottrina averroistica delle
« dimensiones interminatae »
anteriori ad ogni
forma corporea (f .
I3r) ; o quando
nega con Averroè
che le sfere
celesti siano animate da
un'anima sensitiva, distinta
dall' intelligenza motrice, come pretendeva
ugualmente Avicenna (f.
i/r). Anche sul 79
Cod. Vat. Regin.
lat. 1279, f.
^r. 80
V. sotto, p.
288. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
255 grosso problema An
caeluni sit compositum
ex materia et
jorma (ff. i8r-24r), il
Pomponazzi si sforza
di mostrare come
le varie opinioni in
contrasto si possan
difendere e come
si possan risolvere gli
argomenti che ad
ognuna si obiettano.
Il suo ari- stotelismo e il
suo averroismo insomma
non hanno la
rigidità intransigente del pensiero
dell'Achillini. Col quale
il manto- vano era in
sostanza d'accordo anche
nel dubitare della
di- pendenza delle
intelligenze e dei
corpi celesti dalla
causalità efficiente del primo
motore (f. 28r-30v),
e altresì della
infinità intensiva del vigore
col quale questo
muove l'universo (f. 33V-34V). La vera
e profonda differenza
fra l'uno e
l'altro maestro, trovatisi di
fronte a Padova,
è questa. L'Achillini
accetta integralmente l'
interpretazione averroistica d'Aristotele,
an- che là dove altri
aveva visto discordanze
fra il testo
e il com- mento e
nel pensiero stesso
d'Averroè aveva notato
non poche contradizioni, onde
le molte opinioni
sul vero pensiero
dello stagirita e le
diatribe fra gli
stessi averroisti, ciascuno
dei quali aveva in
serbo il suo
modo di risolvere
quelle discor- danze e contradizioni. Quello
del bolognese rappresenta
uno dei sistemi più
coerenti d' interpretazione del
pensiero d'Ari- stotele, dal punto
di vista rigidamente
averroistico. Per mezzo di
sapienti accorgimenti logici,
suggeriti dalla più
scaltrita arte dialettica, per
via di impensati
ravvicinamenti di testi e
di sottili distinzioni,
le contradizioni spariscono,
i contrasti sono conciliati,
le obiezioni mosse
dai dissenzienti risolte,
le dubbiezze dissipate. Di
guisa che il
sistema aristotelico- averroistico, costruito
con procedimenti deduttivi
che mentre scimmiottano quelli
della geometria in
realtà si risolvono
in una caricatura del
metodo matematico, ostenta
una compat- tezza in tutte
le sue parti,
sì da dare
l' illusione della raggiunta certezza, in
cui l'animo si
quieta e non
sente più l'acre
puntura del dubbio. In
questa superba convinzione
di essere ormai arrivato «
al segno che
si tien gran
miracol di natura
», e pros- simo alla copiilatio
con l' intelletto agente,
l'Achillini non aspira orm.ai
ad altro che ad assomigliare
ad Aristotele, del quale
dice con Averroè
: « qui
divinus potius quam
humanus ; quoniam a
M. D. annis
cifra non est
inventus error in
eius dictis alicuius
momenti; naturae enim
consiliarius extitit»! 8', 8i
De phys. auditu,
f. óyvb. 256
l'aristotelismo tal C
vano dal secolo
XIV AL XVI Al
Pomponazzi, al contrario,
questa balda sicurezza
dell' in- fallibilità d'Aristotele
e d'Averroè era
venuta meno. Egli non
soltanto afferma « quod Aristoteles
non fuit deus et
ipse non novit
omnia» 82, ed
ugualmente «quod Commen- tator
erravit neque ipse
est deus «^3,
ma spesso dichiara
di non riuscire a
intenderli, che preferirebbe
esser discepolo che non
maestro, talvolta anzi
non esita a
qualificare pazzesche, dal punto
di vista della
stessa ragione umana,
le loro dottrine. Ma
il più spesso,
da quell'uomo faceto
che era, più
che incapo- nirsi a dissolvere
gli argomenti dei
suoi avversari (cosa
non facile senza accettarne
taluni presupposti, il
che l'avrebbe con- dotto ad invischiarsi in
un perpetuo circolo
vizioso, senza via d'uscita), preferiva
motteggiare con essi e svignarsela
con qualche piacevole e
magari salace barzelletta.
Esempi: nel febbraio 1520,
stava esponendo il
secondo libro del
De cado, e precisamente
il commento averroistico
al testo 34,
là dove si pretende
di poter dimostrare
con arzigogoli sillogistici
che il mondo «
non potuisset esse
nec maior nec
minor, secundum philosophos »,
perché esso ha da esser
proporzionato alle di- mensioni dell'uomo, «
cum mundus sit
propter hominem ». Questo
modo di argomentare
stuzzica la vena
umoristica del Peretto: Modo, si
mundus esset maior,
homo non posset
vivere; nam si haberetis
thalamum maximum, non
possetis vivere, quia
ibi esset nimis frigus.
Unde si Sanctus
Petronius esset in
decuplo maior, organum, quod
nunc habetur, non
posset sentiri per
totum. Similiter, si mundus
esset maior, sol
esset nimis parvus,
et sic non posset
calefacere, et sic
corrumperetur homo. Similiter, si
esset minor, nimis
sol calefaceret, et
ita non possent
esse plures celi. Mundus
ergo non potest
esse maior neque
minor; et est
sicut dicebat illa bona
mulier, quod virga
bene manebat in
vulva sua, et quod
virga non oportebat
quod fuisset nec
maior nec minor, nec
grossior nec subtilior,
nec curtior nec
longior; ita quod
era, ut dicitur, a
punto. Et hoc
respondent fatui philosophi
ad istam dubitationem 84. E
perché, mentre il
moto violento dei
proietti è più
intenso da principio e
poi va rallentando,
il moto naturale
dei gravi e dei
leggieri « est
in fine velocior
» ? La
ragione ve la
dà Averroè : ^2
Arezzo, Bibl. Laici,
ms. 390, f.
41V; cfr. Parigi,
Bibl. Nation., ms. lat.
6534, f. I3r. 83
Arezzo, ms. cit.,
f. 47V; Parigi,
ib., ms. lat.
6533, f. 53V. 84
Parigi, ib., ms.
lat. 6534, f.
6ov. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
257 Et ponit conimentator
huius rationem: v. gr., grave
descen- dens in fine
velocius est quam
in principio, quia
confortatur ex desiderio finis
et termini; ideo
intenditur desiderium, et
intento desiderio intenditur virtus
motiva et motus.
Exemplum do vobis: quando
vos itis ad
amicam et appropinquatis illi,
antequam figatis priapum, vos
mandate fuor el
seme in sulle
cosce. Similiter, quando aliquis est
clericus, non desiderat
papatum; sed quando
incipit liabere sacerdotia magna,
incipit desiderare episcopatum,
postea cardinalatum, et tunc,
quando est cardinalis,
magnopere papatum desiderat, quia
illi est propinquus.
Et ita dicit
commentator....85. Alla fine di
novembre 1522, stava
commentando il primo delle
Meteore, e precisamente
il capitolo della
pioggia, della rugiada, della
grandine, della neve e della
brina. Seguendo passo passo
il testo aristotelico
e prendendo in
esame le varie opinioni così
poco convincenti intorno
alle cause del
riscalda- mento e
raffreddamento, della siccità
e dell'umidità, esce
in queste dichiarazioni: Ego multos
annos consideravi ista,
et ex toto
mihi non sati- sfacio,
et volo addiscere
2as dubitationes quas
nescio solvere, et solutionem
relinquo istis meis
sociis qui cenant
cum deo et
omnia sciunt.... Domini, ego
dico vobis sicut
dicebat Petrarca: '
Così ben io potessi
con lingua '
exprimere quaelibet mente
concipio.... Domini et filij
mei, dicam vobis
veruni: certe quo
ad nostrum saeculum, multum
laudo fratres sancti
Hieronymi, idest li
lesuati, quoniam non student
et nihil faciunt
nisi dicant '
Pater noster ' et
'Ave Maria'. Et
ita contenti vivunt
et sine molestia.
Et quantum ad alium
saeculum, magis laudo,
et mallem habere
conditiones Socratis, qui ad
hoc devenit et
dixit hoc: 'Unum
scio, quod nihil scio
', quam conditiones
Aristotelis, quem credo
quod multa finxerat se
scire, quae tamen
ipse ignoraret. Dico
vobis quod ista nescio
solvere. Solvant qui
continuo prandent cum
deo qui habent intellectum
adeptum ^6. I soci
che pranzano e
cenan con Dio
e san tutto,
sono evi- dentemente quegli averroisti
che, come l'Achillini
e il Baci- lieri,
ritenevano fosse concesso
al filosofo di
giungere, in questa vita,
al termine dello
sviluppo filosofico e
al congiungimento coir Intelletto
agente, nel quale
consiste il pieno
appagamento del desiderio
umano di sapere. Paolo
Giovio si trovava
a Padova, sui
ventiquattro anni, di- scepolo del Peretto,
quando questi ebbe
per concorrente l'Achil- 8?
Ib., f. i64r. **^
Parigi, ib., ms.
lat. 6535, f.
i2or-v. I 258
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI lini fuggito da
Bologna; sì che
quello che egli
racconta dell'uno e dell'altro
è testimonianza di
quanto ebbe ad
osser- vare. Al grande cacciatore
di aneddoti non
pareva vero di
tra- mandarci qualche fugace impressione,
colta a volo,
intorno ai personaggi del
tempo, nei quali
s'era imbattuto. Egli
infatti niente ci dice
dell'insegnamento dell'
Achillini a Bologna.
Ce lo rappresenta a
Padova, averroista che
gode fama di
solido e ben digesto
sapere, mentre il
Pomponazzi, astioso rivale
^7, mosso da ambizione,
gli vuota la
scuola. Un po'
trasandato nel ve- stire e
nel portamento, ma
con fronte sempre
raggiante, si- curo di sé,
eccolo là al
portico pretorio, nel
circolo dei dotti, mentre
nel rozzo gergo
scolastico affronta l'avversario
e cerca d' irretirlo entro
le maglie dei
suoi bifronti e
cornuti enti- memi ^^, E
talora sembra averlo
abbattuto col vigore
delle sue stoccate; ma
il più delle
volte quello sfugge
alla presa delle armi
dialettiche, l' impeto dei
colpi vibrati cadenelvuoto,, stornato da
una facezia o da un
motto salace, «
salsa dicaci- tate »,
che suscitava, in chi assisteva
a quelle giostre
di sillo- gismi, le più
scroscianti risate. Negli anni
del soggiorno padovano
l'Achillini attese a
riunire in un sol
volume le opere
che aveva stampate
separatamente a Bologna e
che abbiamo elencate
fin qui. La
prima edizione degli Opera
omnia fu fatta
a Venezia a
spese degli eredi
di Otta- viano Scoto, ed
apparve il 29
luglio 1508. Essa
comprendeva i Quolibeta de
intelligentns, il De
orbibus, il De
universalibus,. il De elementis
89 e le
questioni De principiis
chiromantiae et phvsionomiae, De
potestate syìlogismi e De subiecto
medicinae. 87 II Capparoni,
Profili bio-bibliografici di
medici e naturalisti
celebri italiani dal sec.
XV al sec.
XVIII. Roma, 1926,
p. 12, dice
addirittura che a Padova
l'Achillini « ebbe
a soffrire l' invidia
del Pomponazzi con il
quale sostenne non
lievi dispute, avendolo
ad avversario poco cortese
e corretto ».
Tutto questo mi
pare che aggravi
un po' troppo
il racconto del Giovio. 88
Paolo Giovio, Elogia
virorum literis illustrium.
Basilea, 1577, pp. 71-72
e p. 86.
In questa edizione
dell'opera del Giovio
si trova quel ritratto
dell'Achillini che il
Mlinster (1. e,
p. 15) riproduce diseconda mano, dichiarando
di non sapere
donde provenga. Un
ritratto del filosofo bolognese
il Giovio doveva
possedere nel suo
museo a Como. Una
copia di esso,
se non proprio
l'originale, si trova
ora nel ballatoio della sala
Fagnani presso la
Bibl. Ambrosiana di
Milano, somigliante all' immagine
degli Elogia. Altro
ritratto dell'Achillini è
posseduto dal museo dell'
Università di Bologna. 89
La dedica al
Bentivoglio naturalmente fu
omessa. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
259 7. - La
partenza di questo
insigne maestro aveva
lasciato un gran vuoto
nello studio bolognese,
e le autorità
accade- miche, che non riuscivano
a colmarlo, lo
sollecitarono a ritor- nare sulla sua
cattedra, minacciandolo dell'ammenda
di cin- quecento ducati d'oro
e di pene
anche più gravi,
ove non avesse ottemperato
all'ordine 9°. Così
egli il 14
settembre 150S fece ritorno
in patria, ove
riprese la sua
attività normale di dottore
dei due collegi
delle Arti e
di Medicina, e
il duphce insegnamento della
filosofia naturale e
della medicina teorica; tanto poco
il nuovo regime
papale si preoccupava
dell'opposi- zione che
avrebbe potuto venirgli
dalla filosofia. Al periodo
del ritorno a
Bologna appartiene il
trattato De distinctionibus, edito
quivi, « per
Ioannem Antonium de Benedictis..., Anno
domini 1510. Die 5. Octobris
». L'opera concerne i
concetti trascendentali di
ente, uno, vero,
buono, e quelli di
essenza, di cosa,
di identico e
distinto, della distin- zione reale e
della distinzione concettuale,
delle formalità scotistiche, della
relazione e dei
suoi fondamenti, dell'ana- logia e dell'uso
di questi concetti;
di guisa che
la trattazione ci dà,
di scorcio, un
sommario di tutto
il pensiero metafisico dell'Achillini intento
a salvare e a conciliare
la dottrina d'Averroè con
quella dei maggiori
maestri. Nel 1509,
come 90 Da una
lettera dei Quaranta
riformatori dello Studio
bolognese, in data 11
sett. 1507 (pubblicata
da B. Podestà,
Di alcuni docum.
ined. riguardanti P. Pomponazzi,
in «Atti e
Mem.» della R.
Deput. di Storia Patria
per le provincie
di Romagna, Anno
VI, Bologna, 1868,
p. 142, nota), appare
che i riformatori
avevano già prima
fatte le loro
rimo- stranze, perché s'era assentato
senza licenza. L'Achillini
s'era scusato « cum
dire che ne
fu concessa hcentia
dal M. co Sr. Confaloniero
d' Justi- tia »
e che senza
di ciò non
sarebbe mai partito.
Ma i Quaranta
repU- carono che la
licenza non era
stata né richiesta
né concessa nella
forma valida. Perciò s'affrettasse
a far ritorno,
se non voleva
esser multato di 500
ducati d'oro o
colpito con altre
gravissime pene «
nelle quali incorrono li
nostri doctori che
partono da Bologna
senza licentia per andare
a legere fora
nelli externi studi
». Tuttavia l'AchiUini
non ri- tornò che un
anno dopo. Nel
Lib. Partitorutn (Arch.
di Stato di
Bologna, voi. 13, f.
136V), al 14
sett. 1508, si
trova che con
19 su 19
fave bianche «I conduxerunt
Ex.m Artium et
Medicinae Doctorem, D.
M.m Alex, de Achilinis
ad legendum in
Studio Bononie »
col salario di
900 lire bolo- gnesi, integre e
privilegiate, e alla
condizione di leggere
Teorica ordi- naria al mattino
e Filosofìa ordinaria
la sera. La
formula « conduxe- runt » vuol
dire che si
tratta di un
nuovo ingaggio. 26o l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI maestro di
Teorica, commentò la
prima fen del
IV libro del Canon
di Avicenna 91. Ripreso
il corso delle
lezioni, egli si
dette nel 1511
a esporre il De
physico auditu di
Aristotele. Ma l'esposizione
fu inter- rotta dagli eventi
bellici di quell'anno.
È noto come
il grande capitano Gian
Giacomo Trivulzio, al
servizio del re
di Francia, il 23
maggio di quell'anno
avesse ripreso Bologna
al papa e come
avesse riaperte le
porte al ritorno
dei Bentivoglio. Ma Giulio
II, fatta lega
con gli Spagnoli,
non tardò a
usare dei servigi di
questi per far
bombardare la città
e ridurla all'ob- bedienza della Chiesa.
Sorpreso dagli avvenimenti,
il maestro continuò a
far lezione finché
gli alunni, per
fuggire all'assedio, non disertarono
lo studio 9^. Il 5
febbraio del 1512,
penetrato di sorpresa in
città Gaston de
Foix obbligò gli
Spagnoli a sbloccare Bologna.
Ma dopo la
battagha di Ravenna
dell' 11 aprile, perduto
l'appoggio francese, i
Bentivoglio dovettero di nuovo
prendere il largo. Com'era suo
costume, l'Achillini avrebbe
fatto volentieri a meno
di pubblicare questo
frammento di esposizione
del De physico auditu.
Ed infatti egli
non aveva mai
pubblicato nessun commento a
scritti d'Aristotele o
d'altri, bensì tratta- zioni originali sebbene
ispirate al pensiero
d'Aristotele e d'Aver- roè.
Perciò mi sorprende
assai quello che
Ladislao Miinster scrive 93
degli Opera omnia
nell'edizione del 1508
curata dal- l'autore stesso: «
Si tratta in
gran parte di
opere d'Aristotele, di Alessandro
Afrodisiaco (! ! !), d'Averroè
ecc. provviste di commenti
dell' Achillini ». Ma
ch'egli, non che
scorsa, non abbia mai
visto in faccia
questa edizione, è
provato dal fatto 91
Nel cod. latino
14 (io) dell'
Università di Bologna
si trova, tra altre cose
dell' Achillini, una Expositio
supra prima 41
Avicennae, da- tata 7 settembre
1509. L. Frati,
Indice dei codici
latini conservati nella R.
Bibl. Univers. di
Boi., Firenze, 1909,
p. io. V.
sotto, p. 269. 92
II Fantuzzi, Notizie
degli scrittori bolognesi,
I, p. 51,
dice, senza per altro
citare la fonte,
come «l'anno 1512,
alli 15 Gennaio,
tenendosi una radunanza di
Teologi, di Dottori
legisti e d'altri
Uomini insigni, per consultare
se si dovea
ricevere il Legato
proposto a Bologna
dal Conciliabolo di Pisa
(cioè il Cardinale
San Severino, fatto
legato di quella radunanza
e Governatore di
Bologna), gli aderenti
a' Benti- voglio sostenevano l'affermativa, e
fra essi Alessandro
Achillini piià d'ogni altro
aringo con grande
arte ed impegno
per sostenerla. E se non potè
ottenere l' intento, ne
venne però, che
fu determinato di non
ricevere né questo
né quello destinato
allora dal Pontefice
Giulio II ». 93
0 Riv. di
St. delle Se.
Med. e Naturah
», XXIV, 1933,
p. 71. I APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 201 che
fra le opere
incluse in questa
edizione pone il
De physico auditu, stampato
la prima volta
nel 1512, e
il De niotimm proportione, di
cui diremo più
giù. L'Achillini, dunque, per
sua esplicita dichiarazione, non pensava
affatto a dar
in luce una
nuova esposizione dell'opera aristotelica, parendogli
che bastassero quelle
greche, latine ed arabe
che correvan per le mani
di tutti. In
ciò fu imitato dal
Pomponazzi, che non
pensò mai a
dare alle stampe
alcuno dei numerosi commenti
ad Aristotele, lasciati
inediti nelle riportazioni dei
suoi alunni. Quello
che decise il
bolognese a desistere dal
suo proposito, è
quanto egli stesso
scrive in principio del
frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis
Aristotelis librorum interpretationes notis
mandare, quoniam expositores
tum Graeci, tum Arabes,
tum Latini, evolvere
ipsos cupientibus textum
Ari- stoteUs piane aperuerunt.
Difficultates autem circa
sententias Aristotelis et Averrois
contingentes, ex libris
a me editis
non dif- ficile erat comprehendere. Sed
quia varii auditores
varia fragmenta philosophica, me
legente, varie collegerant,
et me inscio
meo nomine publicaverant, non
passus sum ut,
quae nostra non
erant, prò nostris haberentur.
Ideo coactus sum
haec scripta, tum
ap- ponendo tum variando tum
rescindendo, diligentius repurgare, ut
ipsa, manu propria
elaborata, proprium auctorem
recogno- scerent v4. E alla
fine dell'opera: Hucusque (cioè
fino al principio
del libro II,
t. e. i) nos pro- secuti
sunt audientes. Quod
si amplius durassent,
noster labor longior fuisset.
Et haec nostra
recognoscens, fragmenta esse
vo- luissem, sed fractionum fragmenta
sunt, quoniam eis
commi- nutiva fractio supervenit,
Hispanis Bononiam armis
impeten- tibvis et moenia
machinis deicientibus 95. Per
giocondità del lettore
aggiungerò che nel
II volume della Storia
dell'università di Bologna
di Luigi Simeoni
(Zani- chelli, Bologna 1940, p.
51) si legge
che Alessandro Achilhni, 94
Alex. Achillini, Expositio
primi Physicoriitn. E
infine: Expli ciiint fragmentorum
fractiones physicales ab
Alex. Ach. Bon. ordinariam Theorice de
mane publice docente.
Impresse per Hieron.
de Benedictis civem bonon.
Anno Domini M.D.XII,
f. iv. Questa
avvertenza è stata omessa
nell'edizione degli Opera
omnia curata da
Panfilo Monti nel
1545. 95 Ib., f.
33rb, e nell'edizione
del Monti, f.
gorb. 202
l'aristotelismo PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI se non scopritore,
fu almeno «
il primo descrittore
degli ossi- cini
dell'orecchio nel suo
De physico auditu
». Con che
il Si- meoni parrebbe
credere che in
questa opera l'Achillini
si occupi dell'anatomia dell'orecchio
! E questa
doveva essere un'opinione ben
radicata in lui,
se anche poche
pagine dopo scrive che
il bolognese fu « celebre
tanto come dialettico..,, quanto come
anatomico e medico
», e che
« le opere
che di lui possediano.... che
trattano tanto De
universalibiis come De physico
auditu..., mostrano questo
doppio carattere» (p.
57). Ora nel De
physico auditu non
si parla affatto
di cose atti- nenti all'anatomia, bensì
di quello di cui Aristotele
parla in quest'opera e,
fra l'altro, anche
degli universah, ma
dell'organo dell'udito
proprio no. Un'altra opera
composta dall' Achillini in
questi ultimi anni della
sua vita e
lasciata inedita è
il De proportione
motuum. L'argomento riguarda il
rapporto che Aristotele,
nel VII della Fisica9^, aveva
stabilito tra la
forza, la resistenza
e la velocità del
movimento, e il
tentativo da parte
di Tommaso Bradwar- dine, di
Nicola d'Oresme e
degli altri «
calculatores » di
tra- durlo in un rapporto
matematico. Le dottrine
di costoro, por- tate in
Italia da Biagio
Pelacani da Parma,
« Parisius docto- ratus
», avevano suscitato
vive controversie tra
coloro che accettavano la
novità delle «
calculationes » e
gli averroisti che alle
nuove dottrine furono
piuttosto ostili. L'
Achillini si mostra pienamente
informato dello stato
della questione, allora dibattutissima anche
a Padova e
a Bologna. Conosce e
cita il commento
del Campano alla
Geometria di Euclide, l'Aritmetica di
Giordano de Nemore,
i trattati calcolatori
di Tommaso Bradwardine, del Swineshead,
dello Heytesbury, di Nicola
d'Oresme, d'Albertuccio ossia
d'Alberto di Sassonia, di
Paolo Veneto, di
Giovanni Marliani «
in sua quaestione subtili de
proportionibus », insomma
tutta la letteratura
del- l'argomento, che noi oggi
ben conosciamo attraverso
le dotte e dihgenti
ricerche della Dott.
Anneliese Maier97. Intento
del maestro bolognese era
quello di salvare
le regole delle
propor- zioni formulate da Aristotele
e da Averroè
nel VII della
Fisica e di accordarle
con le teorie
calcolatorie, a differenza
di quello 96 Cap. 5, 249b
27-25ob 8 (t.
e. 35-39)- 97 Die
Vorlàufer Galileis im 14. Jahrhundert,
Roma, 1949, pp. 79-215; An
der Grenze von
Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma,
1952, pp. 257-384. I APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 263 che
pensava potesse farsi,
pochi anni dopo
la morte di
lui, il Pomponazzi 98. L'opera
non potè essere
pubblicata dal filosofo
bolognese perché prevenuto dall'
improvvisa morte. Lo
Hain, n. 71, registra
quest'opera dell' Achillini col
titolo De distyibiitionihus ac proportione
motuum, e la dà stampata
a Bologna, « per Benedictum Hectoris
», nel 1494.
Ma il Gesamtkatalog, I,
p. 79, dichiara l'esistenza
di questa edizione
« zweifelhaft ».
Io la direi semphcemente
inventata. Per due
ragioni: primo, perché nell'opera sono
citati il De
orbibtis e il
De elementis sicura- mente posteriori al
1494; secondo, perché
il fratello Giovanni Filoteo che
nel 15 15 ne
curò l'edizione postuma,
la dà come inedita,
nella dedica a
Leone X: «
Itaque Alexandri ipsius auctoris nomine
(quando ipse funere
praeventus acerbo non potuit)
ea sanctitati tuae
nuncupatim dico » 99. Ma il
2 agosto 15 12,
coli 'animo profondamente amareggiato per gli
avvenimenti che avevano
turbato la serenità
dello 98 « Aliqui
ergo ducti inani
gloria voluerunt salvare
Aristotelem ; Inter quos
fuit Ioannes Marilianus,
qui construxit tractatum
in quo intendebat salvare
Aristotelem; et aliqui
fecerunt tractatum centra Marilianum.... Et
totus mundus apud
me non salvaret
Aristotelem, et Aristoteles sibimet
contradicit, et videbitur
aperte errasse, et
una re- gula alteri
contradicit. Fortassis enim
quod decipior; sed
iudicabitis vos per dieta
Aristotelis, quod non
potest salvari. Aristoteles
etiam fuit homo et
decipi potuit, sicut
etiam possibile est
me decipi » (P. Pomponazzi, In
ynm. Phys., ad
t. e. 39,
ms. aretino,
Bibl. de' Laici,390,
f. 180V sgg.).
Giunto alla fine
della sua riportazione,
l'alunno, che dal cod.
della Kungl. Biblioteket
di Stoccolma, Va.
24 (cfr. «
Giom. Crit. Filos. It.
», XXXVII, 1958,
p. 354) appare
essere quel Magister Hieronymus Bonus
o de Bono,
da Bologna, laureato
in Artibus et Medicina
il 13 ott.
1519 (Libro Segreto
del Collegio, cit.,
f. 32v), annota: P^^
ribadire la scoperta del
Mondini, che le
altre pretese opere
anatomiche non erano che
una sola, pubblicata
con titoli diversi
nelle varie edizioni, e
per correggere l'errore
accolto anche dal De
Renzi, pur così
informato. Tuttavia, io
non ho voluto prestar fede
neanche al Mondini
e al Medici,
e ho voluto
rer.- "8 L. e,
p. 13. "9 Mazzuchelli,
Gli scrittori d'Italia,
t. I, p.
102. '2*' G. Fantuzzi,
op. cii., pp.
54-55. 272 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI dermi conto
de visti della
curiosa vicenda i-'.
Ho potuto così constatare che
la prima edizione
è quella che
vide la luce a
Bologna il 24
sett. 1520, a
cura di Giovanni
Filoteo Achillini, col titolo
di Anotomicae annotationes , nella
stamperia di Ge- ronimo de' Benedetti,
con dedica a
Panfilo Monti, che di
maestro Alessandro era
stato alunno, ed
ora teneva la
cat- tedra ordinaria di medicina
teorica, « Bononiensis
Gymnasii splendor immortalis »,
nientemeno ! Questa
dedica porta la data
del 12 settembre
dello stesso anno,
ed ha nel
frontispizio la ben nota
xilografia, sormontata dal
nome « Magnus
Alexander Achillinus » ;
sotto il ritratto
di lui, tre
distici di Annibale Camillo da
Correggio, « Artium
et Medicine discipulus
». La dedica parrebbe
escludere che vi
fossero edizioni anteriori. La
stessa opera, col
titolo De humanis
corporis anatomia, uscì a
Venezia nel 1521,
per Io. Ant.,
et fratres de
Sabio, con la stessa
dedica di Giovanni
Filoteo a Panfilo
Monti. Terza stampa della
stessa opera è
quella che apparve
nel FascicuUts medicinae di
Giovanni de Ketam,
ediz. veneziana « per
Caesarem Arrivabenum », del 1522.
In questa edizione l'opera dell' Achilhni forma
il trattato X
della raccolta, subito dopo
V Anatomia del Mondino,
e porta questo
titolo: Anno- tationes
anathomie Alex. Achil.
honon.; ed anch'essa
ha la de- dica del
1520 a P.
Monti. Dell'edizione di
Venezia, 1516, in fol.
secondo il Capparoni,
in 4° secondo
lo Hirsch, nessuna traccia, sebbene
altri la ricordino
per sentita dire.
Delle edi- zioni posteriori a
quella del 1522
non mi sono
occupato. Il colmo in
questo pasticcio pseudo
erudito è raggiunto
dal Miinster ^^z^ il
quale, dopo aver
parlato della prima
e della seconda opera
secondo l'ordine del
Capparoni e dello
Hirsch, aggiunge di suo
che le Annotai,
anatomicae del 1520
pare non siano un
nuovo trattato, bensì
l'unione delle due
precedenti! '23. I-' Esempio
tipico non so se di
disinvoltura o d' improntitudine let- teraria, da parte
di troppi scrittori,
avvezzi a copiacchiare
come scola- retti e a
spacciare per certo
quello che hanno
appreso soltanto per sentito
dire. ^^^ L. e,
p. 72. 1^3 Curioso
è il caso
di A. Pazzini.
Nello studio già
segnalato, che è del
1933, sebbene parli
di «scritti anatomici»
(p. 298), egU
con questa espressione parrebbe
tuttavia intendere le
sole Adnotationes anato- micae che nel
Fascicuhis medicinae del
Ketam sarebbero state
pubbli- cate, dice lui, col
titolo in Mundini
Anatomiam adnotationes. Invece nella
Storia della medicina,
voi. I, Soc.
Editr. Libr., Milano,
1947, p. 614, J APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 273 Queste
Anotomicae annotationes che
il maestro bolognese aveva lasciato
tra le sue
carte, non costituiscono
propria- mente un'opera di anatomia
umana da dare
alle stampe, ma lo
schema forse d'un'opera
che egli andava
preparando e per la
quale raccoglieva osservazioni
che gli era
accaduto di fare nel
corso di diverse
dissezioni anatomiche predisposte
da lui stesso o
insieme ad altri
colleghi. Queste dissezioni
avevano lo scopo di
riconoscere nell'organismo umano
quello che si legge
in Galeno o
in Avicenna, nel
Mondino o in Ugo da Siena.
Nel corso di
queste ricognizioni accade
talora all'Achil- lini di
notare errori commessi
dagli anatomisti precedenti, e
discordanze fra quello
che leggeva negli
scritti di costoro e
quello che gli
rivelava l'esperienza. Spesso
egli ha cura
di descriverci il procedimento
col quale egli
conduceva la dis- sezione, e di
suggerire il modo
più adatto per
mettere a nudo, senza
lederlo, quell'organo o
tessuto che si
ha in animo
di studiare. L'opera, come
dicevo, è semphcemente
abbozzata; ma anche in
questo stato, essa
costituisce un notevole
docu- mento di quello che
s'andava maturando nelle
scuole di chi- rurgia. Mentre le
rumorose dispute intorno
al modo d' in- tendere i testi
classici dell'anatomia recavano
assai scarsa luce per
una esatta rappresentazione della
struttura dell'or- ganismo
umano, gì' impetuosi
torrenti di parole
s'arrestavano, le ire si
placavano, quando gli
occhi dell'anatomista e
di coloro che gli
facevan corona nell'anfiteatro, si
fissavano su quello che
il coltello metteva
a nudo, e
la luce dell'esperienza rive- lava qualcosa di
nuovo e d' insospettato. Il
che del resto avvenne, nel
secolo XVI, non
solo nel campo
dell'anatomia, ma in tutte
le ricerche concernenti
la natura, e
non per in- flusso dell'umanesimo e
del platonismo, ma per un
processo di critica interna,
quasi direi di
autocombustione, in seno alle
scuole aristoteliche. Galileo
stesso vien dall'aristotelismo in via
di dissoluzione. Il
Rinascimento è frutto
dell'approfon- dirsi e
dell'estendersi
dell'esperienza in tutti
i campi del
sa- pere naturale. Com' è
noto, Panfilo Monti
nel 1545, mentr'era
professore vedo che è
ritornato all'errore del
Capparoni e dello
Hirsch. Se avesse dato
un'occhiata alla memoria
del Mondini e
all'opera di M.
Medici, oltre alla correzione
di questo errore,
vi avrebbe trovato
forse qualcosa che poteva
giovargli anche per
l'argomento da lui
trattato, riguar- dante la scoperta
della membrana timpanica. 18 274 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI a Padova, raccolse
in un volume
gli Opera omnia
dell' Achil- lini, cioè tutte
le opere che
il maestro bolognese
stesso aveva dato alle
stampe, più il
De proportione motuuni;
e il volume, edito
da Geronimo Scoto
a Venezia, fu
dedicato al patrizio veneziano e
chiarissimo filosofo Sebastiano
Foscarini. Perché ne lasciò
fuori le Anotomicae
a?inotationes ? Non
certo perché egli non
le ritenesse autentiche;
ma verosimilmente perché
gh parvero, come sono,
opera frammentaria, piii
schema e ma- teria di
opera che opera
completamente delineata; o
forse anche perché quelle
note gli parvero
ormai sorpassate e di scarso valore,
dati i rapidi
progressi che l'anatomia
in quegli anni andava
facendo. Sì che agli
occhi dell'alunno editore
l'opera dell' Achilhni degna d'essere
presa ancora in
considerazione e tramandata e
meditata era opera
di filosofo. E
questa sola egli
intese tra- mandarci con l'edizione
da lui curata
1-4. Con le
Annoiationes il Monti trascurò
altresì gì' inediti
che non dovevano
mancare sia tra le
carte del maestro,
o dispersi in
riportazioni di scolari. 9.
- Se ora
ci chiediamo quale
è stato il
giudizio complessivo degli storici
sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo
con- statare, anzitutto, che troppi
son coloro che
ne hanno parlato per
sentito dire. E
questo tanto tra
gh storici della
filosofia quanto tra quelli
della medicina. Di
costoro evidentemente non è
da tener conto.
Come non è
da tener conto
di giudizi come quello
del Munster '^s,
il quale da
ciò che dell'Achilhni narra a
modo suo il
Giovio, è indotto
a rappresentarcelo come «
schizzoide >> ! Il
primo che ha
parlato dell'averroista bolognese
dopo averne scorse le
opere, se non
tutte, almeno i
Qitoliheta de intelligentiis, fu,
tra gli storici
della filosofia, Francesco
Fio- rentino nel suo Pomponazzi
del 1868, pp.
252-262. E a quel
che ne
disse allora l'onesto
Fiorentino si rifanno
su per giù
gli storici posteriori, trascurando
però taluni giudizi
di questo e altri
esagerandone fino a
renderli irriconoscibili. Che
l'Achil- lini fosse un
averroista, tutti a
un di presso
s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia
le Anotomicae annotationes
non furon mai
del tutto di- menticate e il
nome dell'Achillini vien
ricordato da anatomisti
po- steriori, anche quando le
sue opere filosofiche
erano ormai cadute
del tutto in oblio. 125
L. e, p. 59.
APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
275 se averroista di
più o meno
stretta osservanza pareva
dubbio. La tesi che l'
intelletto possibile, forma
immateriale e incor- ruttibile, infima delle
intelligenze celesti, è
unica per tutta
la specie umana, è
certamente tesi averroistica.
Ma pareva al Fiorentino
che il bolognese
si discostasse dallo
schietto aver- roismo,
perché questo riteneva
1' intelletto forma
assistente e non informante
dell'uomo, l'Achillini invece
ammetteva che r intelletto
umano, pur essendo
unico per tutta
la specie, è vera
forma informante che dà all'uomo
il suo essere
di uomo. Se non
che lo storico
calabrese non pare
s'accorgesse che con
que- sta seconda tesi, senza
rinnegare la prima,
la dottrina averroi- stica non era
affatto parzialmente abbandonata,
ma anzi approfondita; e
che, grazie a
questo approfondimento, veni- vano a
cadere tutte o
gran parte di
quelle obiezioni che si
facevano alla tesi
averroistica, di spezzare
l'unità del soggetto umano cui
s'attribuisce l'atto d' intendere.
E già prima,
Si- gieri e Tommaso
di Wilton, Paolo
Veneto e Giovanni
Pico, coetaneo del bolognese,
avevano interpretato il
pensiero d'Averroè alla stessa
maniera; e questo
non per motivi
di fede, ma per
eliminare dalla dottrina
aristoteUco-averroistica un
assurdo evidente sul
quale speculavano gli
avversari del- l'averroismo;
tanto vero che
l'anima razionale che
yien detta informare l'uomo,
resta in sé
unica per tutta
la specie umana. Non
è pertanto esatto
l'affermare che ogni
seguace d'Averroè riteneva l' intelletto
« forma assistente
» dell'uomo e non « forma
dans esse ». Il
Fiorentino è stato
colpito anche da
un passo del
De eie- mentis (II,
art. 5, verso
la fine), ove
si parla dell'unione
del- l' intelletto con l'anima
sensitiva dell'uomo, come
abbiamo visto più su,
e dove l'Achillini
torna ad esporre
con nuovi particolari la
sua dottrina sigeriana
già esposta nei
Quolibeta de intelligentiis. Ad
un certo momento
si domanda: « Quo-
modo stat opinio
Aristotelis cum fide
?» — giacché
tanto l'inter- pretazione
che dà
del pensiero dello
Stagirita Averroè, quanto quella
che ne dà
Alessandro d'Afrodisia, secondo
la ragion naturale, discordan
dall' insegnamento della
fede. E il
nostro averroista risponde: Il
fatto che entrambe
discordin dalla fede, significa
che tutte e due son
false, e che
su questo punto, come
su altri non
pochi, bisogna che
noi credenti abbando- niamo il filosofo;
ma dovendo scegliere
a lume di
ragione tra quelle due
interpretazioni, entrambe false,
quella che ha I 276 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI miglior verisimiglianza, sceglieremo
quella d'Averroè, perché, sostenendo questi
che l'anima è
forma informante che dà
all'uomo l'essere di
uomo, viene a
dire che l' intelletto, nel- l'atto di unirsi
all'uomo, termina il
processo della genera- zione umana e
quindi ha in
qualche modo un
cominciamento nel tempo, come
appunto insegna la
fede. In tutto questo
non vedo né
incertezza né spossatezza
da parte dell' Achillini; né
tanto meno che
egli si senta
spinto «ad accettare l'averroismo
dopo averlo dichiarato
falso «'^ó. L'opposizione
tra molte tesi
difese da Aristotele
e la verità cristiana era
comunemente ammessa, da
quando Alberto Magno aveva
proclamato che «
theologica cum Physicis
prin- cipiis non conveniunt»'-?, e
che al filosofo
che voglia trattare delle cose
naturali secondo i
principi della ragion
naturale, non deve importare
dei miracoli della
fede '-8. È
vero che Tom- maso, combattendo l' interpretazione averroistica
del pen- siero d'Aristotele, s'era
adoprato ad accordar
questo col pen- siero cristiano. Ma
questo concordismo tomistico
non era parso né
di buon gusto
né di buon
augurio, non solo
ad aver- roisti come
Sigieri, discepolo in
questo d'Alberto Magno,
ma nemmeno ad alcuni
teologi che s'erano
ribellati al tentativo «
de Aristotele haeretico
facere omnino catholicum
». E molti, non
solo maestri in
artibus, ma anche
teologi e commentatori delle Sentenze
di Pietro Lombardo,
dalla fine del
secolo XIII al secolo
XVI, ritennero perfettamente
fondata sul testo aristotelico e
legittima l' interpretazione averroistica,
salvo quando questa discordava
da quella di
altri commentatori autorevolissimi, come
Alessandro, Filopono od
altri special- mente greci. Ora ai
tempi dell'Achillini e del Pomponazzi,
a Bologna come a
Padova, era obbhgo
di leggere e
discutere il testo
ari- stotelico e il commento
d'Averroè. Averroisti si
dissero tutti quelli che,
rifiutando il concordismo
tomistico, d' ispirazione avicenniana, mostravano
ripugnanza a «
miscere diversa brodia))i29, e,
per quello che
concerneva il pensiero
aristotelico, s'attenevano
al commento averroistico.
Il che non
implicava ^'^^ Fiorentino, ib.,
p. 259. 127 Metaphys.,
XI, tr. 3, e. 7. 1-8
De gen. et
corr., I, tr.
i, cap. 22,
ad t. e.
14. Cfr. «Rivista
di Storia d. Filos.
», II, 1947,
PP- ^97 ^gg.
V. sopra, p. 95.
^29 V.
sopra, p. 96. APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 277 affatto
che essi dovessero
accettare le dottrine
d'Aristotele quali erano esposte da
Averroè, come loro
proprio pensiero. Gli averroisti
potevano quindi con
perfetta coerenza dichia- rare che la
dottrina dell'eternità del
mondo e dell'unità
del- l' intelletto era dottrina
vera e necessaria
nel sistema del
pen- siero aristotelico; ma che
questa dottrina era
falsa secondo la fede
che s' ispira al
\"angelo e non
ai libri d'Aristotele. Il che
è perfettamente vero
anche per noi. Questo
non hanno ancora
compreso taluni storici
della filo- sofia. Uno dei
quali '3", dopo aver
detto che «enger
an dem averroistischen Aristotehsmus
schloss sich Alex. Achilhni an (aus
Bologna, war Professor
der Philosophie u.
Medizin, zuerst in Padua
(!), seit 1509
(!) in Bologna,
wo er um
1518 (!) starb).... »,
aggiunge: « So
weit Aristoteles von
dem christlichen Glaubensstandpunkt (z.
B. hinsichtlich der
Schòpfung der Welt) abweicht,
ist er ini
Sinne der Kirchlichen
Lehre zu kor- rigieren
» (la sottolineazione è mia e.... pour
cause). Il qual giudizio
vien trasportato di
sana pianta nella
massiccia Storia della filosofia
di N. Abbagnano
(voi. II, I,
U.T.E.T., 1948, p. 70)
: « In
realtà la sua
preoccupazione [dell'
Achillini] co- stante è quella
di correggere la
dottrina aristotelica nel
senso dell' insegnamento ecclesiastico
» (anche questa
sottolineazione è mia) '31.
Ma egli v'aggiunge
qualcosa di suo,
che aggrava '30 Ueberweg-Moog, Die
Philos. der Neuzeit
bis zuyn Ende
des X Vili. Jahrh.,
Berlin, 1Q24, p. 28. E già
prima E. Renan,
Averroès et l'averr., 3*
ed., Parigi, 1S66,
p. 361: "
Tout en reconnaissant
que sur ces
deux points (l'unite des
àmes et 1'
immortalité collective) la
doctrine d' Aver- roès est conforme
à Aristote, Achillini
rejette expressement ces
théories comme opposées à
la foi ».
E cita H.
Ritter, Gesch. der
neneren Philos., I parte,
p. 383 sgg.,
citato anche dal
Fiorentino. '3' La stretta
aderenza dell'Abbagnano al
Moog appare anche
da quel che l'uno
e l'altro dicono
dello Zimara. Scrive il secondo:
« Noch strenger hielt
am Averroismus fort
M. Ant. Zimara
(aus Neapel.... gestorb. 1532)....
In ihnen (Schriften)
suchte auch er
den Averroismus mit Kirche
zu vereinen. Die
Einheit des menschlichen
Intellektes wird von ihm
als Einheit der
allgemeinen
Erkenntnisprinzipien
gedeutet ». E
l'Abbagnano: «e lo
stesso [di spogliare
l'aristotelismo e l'averroismo dei loro
caratteri originari in
omaggio ad una
preoccupazione dogma- tica]
accade nelle dottrine
del napoletano M.
A. Zimara [ma
se era di S.
Pietro in Galatina
presso Otranto, tanto
che a Padova
lo chiamavano l'Otranto o
l'Otrantino !] (morto
nel 1532), anch'egli
professore a Pa- dova, il
quale interpretava l'unità
dell' intelletto, sostenuta
dall'aver- roismo, come
l'unità dei principii
universali della conoscenza
». Dello stesso avviso
pare sia anche
G. Saitta, //
pens. ital. nelV
Umanesimo e nel Rinasc,
voi. II, Bologna,
1950, pp. 379-80:
« Le sue
Contradictiones \ 278
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI assai l'errore dell'autore
tedesco: «L'aristotelismo e
l'aver- roismo sono stati qui
spogliati dei loro
caratteri originari, in omaggio
ad una preoccupazione dogmatica
». Preoccupazione che l'Achillini,
al pari degli
altri averroisti, non
mostra mai d'avere, anche
quando, constatata l'opposizione
fra Aristotele e il
dogma, dice esser
dovere del credente,
che tale voglia rimanere, di
ripudiare Aristotele, non di correggerlo,
che vor- rebbe dire travisarlo.
In questo i
nostri vecchi erano
onesti e coerenti. L'ottimo E.
Garin 132 ricorda
la breve preghiera
che si legge in
principio del De
elementis: « Luminum
clarissima lux, qua ac
solutiones ex dictis
Aristotelis et Averrois
parlano dell'unità dell'
in- telletto di tutti gli
uomini come l'unità
dei principii universali
del conoscere ». Il
Moog e l'Abbagnano
non citano alcuna
fonte della loro affermazione. Il
Saitta invece cita
le Contradictiones dello
Zimara, senza però indicare
un punto preciso.
Ma egli non
deve averle lette: che
lo ritengo troppo
intelligente, se le
avesse lette, da
lasciarsi scap- pare simile afferm_azione. E
allora ? Allora
il Moog, l'Abbagnano
e il Saitta derivano,
direttamente o per
via indiretta, il
loro giudizio dal libro
del Renan, Averroès
et l'averroisme, ove
appunto accade di
leg- gere (ed. cit., p.
375): «L'unite de l'
intellect est adoptée
dans le sens de
l'unite des principes
communs de l'esprit,
mais ouvertement rejetée en
ce sens qu'
il n'y aurait
qu'un seul principe
substantiel de la
raison humaine ». E
il Renan cita
le Solutiones contradicionum, Averrois
Opera, t. XI dell'ediz.
di Venezia 1560,
fol. 177V-188V (più
semplice e più comodo
era citare le
stesse Solutiones contrad.
super III de
anima, contr. XVI). Se
il Moog, l'Abbagnano
e il Saitta
si fossero presa
la briga di andare
a vedere questo
luogo dello Zimara,
avrebbero potuto con- statare, con non
poca sorpresa, che il Renan
quel giorno doveva
essere febbricitante o ubriaco
o fortemente distratto,
giacché l'averroista otrantino in
quel luogo dice
esattamente il contrario.
Ivi lo Zimara, che
s'era proposto di
conciliare un'apparente contradizione
fra due affermazioni d'Averroè,
riporta un brano
del commento di
Temistio al De anima,
ove si legge
appunto ; «
Unde enim communes
illae animi conceptiones praenotionesque communes
omnibus haberentur ? Unde
indigentia illa impressaque
omnium mentibus primorum
notitia con- stitisset, natura
duce, nulla ratione,
nulla doctrina ?
Unde postremo intelligere mutuo
et intelligi vicissim
possemus, nisi iiniis
singularis intellectus
fttisset, quem communem
omnes homines haberemus
? ». Pla- tone, osserva lo
Zimara, con un
simile ragionamento aveva
dimostrato l'esistenza deUe idee.
Temistio ed Averroè
lo usano per
dimostrare l'unità
dell'intelletto; se no,
bisognerebbe ammettere che
la scienza nell'alunno si
generasse da quella
del maestro a
quel modo che,
secondo Aristotele, il fuoco
si genera dal
fuoco. « Hoc
autem sequitur secundum ponentes pluralitatem
inteUectus, ut ipse
(Averroès) opinatur.... ». Niente di
più si legge
nell'opera dello Zimara,
il quale non
si chiede affatto se
questa dottrina s'accordi
o meno con
la fede. A
lui basta chiarire il
pensiero d'Aristotele e del suo
commentatore, eliminando le contradizioni. V.
anche sotto, pp.
350-351. 132 L. e. APPUNTI
SU ALESSANDRO ACHILLINI
279 omnes aliae veritates
illiistrantur, me per
umbras materiae tutum ab
errore per Filium
hominis ducas in
te ipsum ». E
l'accenno a una
breve preghiera è
anche in principio
del De physico aiiditu:
«Deus illuminatio mea
sit. Primo dubi- tatur.... ».
L'uso di dar
principio ad un'opera,
ed anche alla lezione,
nel nome di
Dio, era un
tempo costume di
ogni buon cristiano non
meno che di
ogni fedele maomettano.
Perciò non parrà strano
di trovare che
anche il Pomponazzi
al suo corso di
lezioni sul De
substantia orhis, cominciato
il 20 feb- braio 1507, premettesse
una « oratiuncula
accomodata », della quale
però il raccoglitore
delle lezioni non
riporta il tenore 133.
Né si creda
che questo fosse
formaHsmo o ipocrisia. Nella maggior
parte dei casi,
non vi sono
serie ragioni per
du- bitare della sincerità di
chi si protestava
buon cristiano, senza per
questo rinunziare alla
sua libertà d' interprete
del pensiero aristotelico; libertà
che, a mio
avviso, non che
nuo- cere ha giovato molto
alla fede, non
costretta violentemente negli artificiosi
schemi d'un sistema
filosofico ormai in
via di dissoluzione. E così
maestro Alessandro, l'averroista
Alessandro Achil- lini, poteva
riposare tranquillo nella
chiesa di S.
Martino, a Bologna, come
tredici anni più
tardi il Peretto
mantovano in quella di
S. Francesco nella
sua città natale,
sotto le grandi ali
del perdono di
Dio. 133 Cod. Vat.
Regin. lat. 1279,
f. 3r. X UN
ALTRO SIGIERIANO DEI PRIMI
DEL CINQUECENTO GERONIMO TAIAPIETRA
* Di averroisti della
corrente di Sigieri
di Brabante nel
Ri- nascimento italiano
m'era accaduto d' incontrare, alcuni anni
addietro, Giovanni Pico
della Mirandola, Alessandro Achillini, Agostino
Nifo negli anni
della sua giovinezza,
Ti- berio Bacilieri e Antonio
Bernardi della Mirandola '.
Ma il grup- po dei
sigieriani doveva essere
più numeroso, e
ad esso parreb- be che avesse
aderito, in un
momento del suo
sviluppo intel- lettuale,
anche il
Pomponazzi, come mi
propongo di dimo- strare a suo
tempo. Ma fu, da parte
del Peretto, l'ultimo tentativo di
salvare l'esegesi averroistica
d'Aristotele; dopo di che,
s'orientò decisamente verso
l'alessandrismo. Invece un altro
convinto sigieriano dei
primi anni del
Cin- quecento è il patrizio
veneziano Geronimo di
Cà Taiapietra o Taiapiera.
Costui, figlio del
quondam Quintin di
Cà Taia- pietra, dopo essere
stato per otto
anni a studiare
a Padova, richiamato in
famiglia per dedicarsi
alla vita pubblica,
come si conveniva ad
un giovane del
suo rango sociale,
s'accostò al cardinale Domenico
Grimani del titolo
di S. Marco
e pa- triarca d'Aquileia, non
che munifico protettore
degli studi e degli
studiosi -, per
averne appoggio. Fu senza
dubbio per suggerimento del
Grimani che il
giovane Taiapietra si
preparò a un pubblico
cimento per coronare
col dottorato in
filosofia la carriera di
studi intrapresa a
Padova e terminata
con la * Dal
((Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXI, 1952, pp.
306-330. ' Sigieri di
Brabante nel pensiero
del Rinascimento italiano,
Roma, Edizioni Italiane 1945. ^
P. Paschini, Domenico
Grimani cardinale di
S. Marco, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 1943. 262 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI licentia docendi, ossia
col titolo di
magister artium. L'occa- sione di una
pubblica disputa s'offrì
con la convocazione, per la
fine della primavera
del 1506, del
capitolo generale dell' Ordine
dei frati minori,
del quale il
Grimani era cardinal protettore. L'uso
di siffatte dispute
in occasione di
capitoli generali dei vari
ordini religiosi era
una veneranda usanza, vecchia d'oltre
due secoli. Sollecitato dunque
dal Grimani, il
Taiapietra si recò
a Roma per dar
saggio del suo
sapere. La pubblica
discussione ebbe luogo in
una solenne riunione
di dotti tenuta
nella residenza abituale del
cardinale a Roma,
il giorno di
sabato 6 giugno 1506
3. L' indomani mattina,
domenica della Trinità,
il gio- vane dottorando fu
presentato a papa
Giulio II, perché
si degnasse conferirgli il
titolo di dottore
in ariibiis. La
ceri- monia è così ricordata
nei suoi diari
da Paride Grassi
4, maestro delle cerimonie
del papa. Dopo
la messa cantata
del cardi- nale Arboreo e
la creazione da
parte del papa
di un milite aurato, dice
il Grassi: [f. 2i6v]
Creatio doctoris in
artibus per papani
in capella. Cum adhuc
papa sederet, superveneruiit Cardinalis
de Grimanis et orator
venetus qui rogarunt
papam, ut dignaretur
quendam dominum magistrum [Hieronymum
Taiapietra] doctorem in artibus
creare, qui, ut
testificati sunt, bene
se gessit in
disputa- tionibus cum fratribus
ordinis minorum qui
venerant ad capitulum generale etc. Et sic
sua Sanctitas absolute,
idest sine cerimoniis, ipsum genuflexum
creavit [f. 2i7r]
doctorem hoc modo,
videlicet: papa ante doctorandum
genuflexum hec verba
dixit, videlicet: Intelleximus a
Cardinali de Grimanis
et ab oratore
veneto quod sis in
artibus exscellens et
doctus, quodque in
disputationibus pri- dianis que
apud edes suas
habite fuerunt te
laudabiHter exhi- bueris; propterea
nos, tam ad
predictorum relationem, quam etiam
ad intuitum tue
virtutis et meritum,
creamus te doctorem in
artibus, dantes tibi
omnia privilegia que
alii in quibuscumque studiis et
universitatibus habere consueverunt,
in nomine patris et
tìlii et spiritus
sancti '. Quo facto
ipse doctor osculato
pede pape, illi
gratias agens, recessit. Et
Cardinalis de Grimanis
et orator predicti
gratias etiam pape egerunt. Il
venerdì successivo, 12
giugno, la notizia
del fatto era
già arrivata a Venezia,
poiché Marin Sanudo
"^ la registra
sotto 3 Fra i
presenti alla disputa
era l'Achillini. V.
sopra, pp. 252-53. 4
Cod. Vat. lat.
4739, f. 2i6v-2i7r. 5 Diarii,
voi. 6, col.
352. IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 283 ■questa data
con parole che
attestano la fedeltà
del cronista: Item, come
a dì.... sier
Hironinio da dia'
Taiapiera, quondam sier Quintino,
tene le conclusion
in chaxa dil
cardinale Grimani. Et el
cardinal episcopo di
Urbin disputò contro
una, dicendo l'era ereticha;
il cardinale Grimani
la mantenne, et
vinse; et così a
dì.... il papa
lo dotoroe. Siccome la
notizia giunta da
Roma non indicava
il giorno esatto della
discussione e quello
del conferimento del
titolo dottorale, l'onesto Sanudo
lascia i due
spazi in bianco.
In compenso ci trasmette
due notizie preziose:
quella dell'obie- zione che il
cardinale Gabriele Gabrielli,
vescovo di Urbino, ebbe
a fare a
una tesi sostenuta
dal Taiapietra, perché,
a suo parere, «
l'era ereticha », e quella
dell' intervento del
Gri- mani in favore del
suo protetto. Del resto,
prima della fine
del mese il
neo dottore era
già di ritorno a
Venezia; poiché negli
stessi Diarii di
Marin Sanudo si legge
6. A dì 28
[giugno 1556]. Fo
gran conscio. Vene
uno dotor nuovo, vestito de
scarlato, si ha
dotorato a Roma,
sier Hironimo da
cha' Taiapiera, quondam sier
Ouintin. l'o fato
podestà de Verona,
et niun non passò. Da
questo momento egli
entra nella carriera
amministra- tiva e poUtica, e
non so se
si sia più
occupato di filosofìa. Nei Diarii
del Sanudo il suo nome
ricorre spesso, ma
sempre per le cariche
ricoperte in servigio
dello stato veneziano. Ciò potrebbe
spiegare perché il
nome di Geronimo
Taiapietra sia sfuggito anche
al diligentissimo Luigi
Ferrari che l'omette sì
nella prima che
nella seconda edizione
del suo grande
Ono- masticon. Né in
fondo avrebbe interessato
molto neppur me, se
il suo nome
non fosse legato
a un suo
libro del quale
ritengo valga la pena
dire qualcosa. Questo libro
s' intitola: Sunima divinarum
ac naturalium difficilium quaestionum
Romae in capitiilo
generali fratrum minorum per
Hieronymum Taiapietra, patritium
Venetum, puhlice
discussarum. E fu
stampato a Venezia
« a domino Pincio
Mantuano. Anno Domini
M.CCCCC.VI. die VI
Aprilis ». Il libro
fu pubblicato dunque
il 6 aprile,
cioè due mesi
prima ^ Ih., col.
260. 2S4
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI della discussione, che
evidentemente era stata
preparata per tempo dal
cardinal Grimani, cui
la Summa è
dedicata. Recandosi a Roma,
il Taiapietra portava
con sé il
volume, come programma della
pubblica discussione che
doveva aver luogo il
6 giugno. Così
aveva fatto Giovanni
Pico, pubbli- cando nel i486
le novecento Condusiones
per la disputa
che avrebbe dovuto tenersi
a Roma nel
gennaio 1487; così
aveva fatto anche Vincenzo
Querini, altro patrizio
veneziano, quando s'apprestava a
discutere, parimenti in
Roma, le sue
Condu- siones, « in Ecclesia
Sanctorum Apostolorum, die
XXIX Mali » del
1502 7. L'opera, come
dicevo, è dedicata
dall'autore al cardinale Domenico Grimani.
Nella dedica il
Taiapietra accenna al distacco
forzato dallo studio
patavino: .... quum mihi
mine redeunduni esset
ad meos, qui
me in patriam ex
celebratissimo gymnasio patavino,
in quo octo
iam perpetuis annis vitam
non minus honestam
quam studiosam duxi, centra
propriam ferme voluntatem
revocabant. A Padova dunque
aveva dovuto recarsi
al principio del- l'anno scolastico 1497-98,
quando v'era ancora
Agostino Nifo da Sessa.
Costui, alunno di
Nicoletto Vernia, aveva cominciato a
insegnare a Padova
appena ventunenne, durante l'anno accademico
1491-92, nella seconda
scuola di filosofìa straordinaria, ove
professava la dottrina
averroistica di Si- gieri
di Brabante. Nel
1495 era stato
promosso alla seconda scuola ordinaria
come concorrente del
Pomponazzi, col quale debbono
essere cominciati fin
d'allora i litigi.
E quando nel 1496
il mantovano si
dimise dall' insegnamento,
il Nifo fu chiamato
a succedergli. In
questi anni egli,
ambiziosissimo e astuto, mentre
si dava da
fare per schivare
l'accusa d'eresia, combattendo l'averroismo
prima da lui
professato 3, per
non 7 V. sotto,
il saggio XIII,
p. 400. 8 Nifo,
De intellectu, I, tr. 2,
e. 9: «
Longo tempore Averroy
va- cavi et, ut dixi,
hanc opinionem (di
Sigieri) sequebar ad
mentem eius»; In lib.
Destr., Ili, dub.
2: « Peccatum
meum longo tempore».
Dalle indicazioni
cronologiche fornite dal
Nifo stesso in
quest'ultimo scritto, Disp. XIV,
dub. I, quaestio
3 in fine,
e dub. 3, quaestio 5,
parrebbe che ciò vada
riferito al periodo
prima del 1494.
Dalle quali indicazioni si dovrebbe
dedurre che egli
fosse nato nel
1470, oppure verso
la fine del 1469,
come nelV Arbole de
casa Nipho (nel
voi. ms. Historia
e docu- menti della famiglia
Nifo, posseduto da
Benedetto Croce, p.
212). IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 285 inimicarsi il
vescovo Pietro Barozzi,
anzi per procacciarsene la benevolenza,
come faceva nello
stesso tempo quella
vecchia volpe di maestro
Nicoletto 9, era
riuscito a circuire
molti giovani delle più
ragguardevoli famiglie patrizie
veneziane che a Padova
venivano per fare
i loro studi
e procacciarsi il titolo
di « dotor
» tenuto in
gran conto dal
governo della Se- renissima e quasi
direi indispensabile per
l'accesso a talune cariche dello
stato. Suoi discepoli
erano stati Vincenzo
Que- rini, Geronimo Bernardo
e Antonio Giustinian,
l'amicizia dei quali si
compiace spesso di
ricordare ^°. A
Francesco Bra- gadin, patrizio
veneto, dice egli
stesso d'aver dedicate
certe sue Quaesiiones de
anima " che
non mi risulta
fossero mai stampate; a
Lorenzo Donato dedica
nel 1497 l'edizione
da lui curata del
prologo d'Averroè alla
Fisica '-; a
Sebastiano 9 V. sopra,
i saggi IV,
V e VII. I''
Tutti e tre
son ricordati nei
Collectanea s\x\De auima,
III, t. e. 36,
e nel
commento alla Desimciio,
prol. I, dub.
8, XIV, dub.3. Da
quest'ul- timo luogo si rileva
che tanto Geronimo
quanto il padre
erano morti prima del
gennaio 1497, quando
il commento alla
Destritctio fu stampato. Nel
luogo citato dei
Collectanea, oltre che
ai tre patrizi
veneziani ri- cordati,
raccomanda il suo
libro anche a
Pietro Campesano, medico e
filosofo di Bassano
che in quegli
anni doveva studiare
a Padova. Egli è
il padre del
poeta di Bassano
Alessandro Campesano (G. B.
Vergi, Notizie intorno
alla vita e
alle opere degli
scritt. d. città
di Bass., e. I,
Venezia, 1775, pp.
16-17). " Collect., prohemium:
«In questionibus meis
libri de anima
in- scriptis domino Francisco
Bragadeno patricio Veneto)'.
Marin Sanuuo, Diarii, II,
col. 579-580, ricorda
una disputa avvenuta
in Venezia nel- l'aprile 1499 alla
presenza del patriarca
intorno ad alcune
tesi pericolose, e fra
coloro che intervennero
ad essa menziona
Giorgio Pisani, Marco Dandolo, Marin
Zorzi, Nicolò Michiel,
Piero Pasqualigo, dottori,
Pietro Corner, lacomo Michiel,
Francesco Bragadin «
doctissimi in philo- sophia
». Nota invece
la mancanza di
« sier Antonio
Zustinian, dotor, che leze
philosophia ». Su
Francesco Bragadin, v.
Zeno, « Giorn.
di letter. », t.
V, pp. 369,
362-364. 12 Scrive E.
Garin a propo
ito dei primi
scritti del Nifo
{Rinasci- tnento, II, 1951,
p. 63): «Innanzi
all'edizione della Fisica,
che reca la data
del 1495, v' è
una lettera di
ringraziamento a Lorenzo
Donato.... In uno degli
esemplari da me
esaminati la dedica,
del 1495. è
sul verso di una
carta che sul
recto reca una
lettera con cui il Nifo
presenta per l'approvazione il
suo commento alla
Destructio destritctionum, compi- lato fra il
1494 e il
gennaio '97 ».
E più oltre:
« Ad ogni
modo esce nel
'95 l'edizione curata dal
Nifo della Fisica
col commento d'Averroè
» (p. 65). Dove
il Garin abbia
trovato che questa
edizione della Fisica
del 1495 sia stata
curata dal Nifo,
io non so.
So invece che
la lettera del
Nifo, anzi del Niffus
de Suessa a
Maestro Nicolò Grassetto,
francescano e inquisitor dell'eretica
pravità (vedetelo divotamente
genuflesso ai pie' della
Vergine, a Padova,
nella chiesa del
Santo, di fronte
alla tomba di Antonio
Trombetta), è sicuramente posteriore alla
stampa del 206 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Badoèr il De
intellectu, sostanzialmente rimaneggiato
e pub- blicato per le
stampe nel 1503,
quando aveva ormai
detto addio a Padova
e prima ancora
all'averroismo i?; per
Gero- nimo Bernardo compone il
De sensu agente,
compiuto il 14 giugno
1495, ma pubblicato
nel 1497, quando
il Bernardo era morto,
e dedicato a
G.B. Spinelli, patrizio
partenopeo m; al Giustinian
dedica il commento
In XII Metapysicae
pubbli- cato nel 1505, ma
composto assai prima
su preghiera di Ge-
ronimo Bernardo, il cui
nome il Nifo
accoppia sempre a
quello del Giustinian; a
Santo Moro, altro
giovane patrizio che
aveva commento alla Desiriictio,
non solo perché
si riferisce a
questa, ma perché è
stampata nel recto
di un mezzo
foglio facente parte
dell'ul- timo quinterno di questo
volume; l'altra metà
contiene due pagine della
Destnictio (quinterno q,
fol. I2ir-v). Il
verso poi del
mezzo foglio, al cui
recto è la
lettera al Grassetto,
reca il prologo
di Averroè alla
Fi- sica e la dedica
di questo prologo
al pretore Lorenzo
Donato, per la ragione
che gli editori
del '95 l'avevano
omesso. Niente di
più. 13 V. sopra,
p. 102. Alla
fine del trattato
stampato si legge:
«Et sic consumatus est
liber de intellectu.
26. Augusti, 1492.
In Patavino studio ».
Ora che nel
1492 il Nifo
abbia scritto una
Quaestio de intellectu (cfr. la
dedica del De
intellectu a Seb.
Badoèr, neU'ediz. del
1503) è verosimile; ed
è verosimile che
l'avesse scritta in
senso sigieriano, tanto che
gli emuli poterono
accusarlo d'eresia, com'egli
stesso ci fa
sapere. Ma che questa
Quaestio sia identica
col trattato pubblicato
nel 1503, è difficile
crederlo, dopo quel
che egli stesso
confessa a Sebastiano Badoèr :
« Placuit quedam
tollere, mutare alia,
addere plurima »
! Troppo interesse aveva
il Nifo a
voler far credere
che fin dal
suo primo anno d' insegnamento s'era
liberato dall'averroismo inviso
al Barozzi. Vuo- le il
Garin un esempio
della fede che
merita il Nifo
? Eccoghelo. Nell'edizione dei
Collectanea ch'egli aveva
pronta il 12
settembre 1498, e che
vide la luce
per la stampa
col titolo In
librum de anima Aristotelis
et Averrois commentatio ,
a Venezia, «
per Petrum de Quarengiis
Bergomensem. Studio et
impensa domini Alexandri Calcidonij, Pisaurensis.
M.ccccc.iij. Die x.
Maij », dedicando
l'o- pera a Baldassar Miliani,
patrizio partenopeo, il
Nifo vede un
segno particolare d'amicizia neU'essersi
il Calcidonio addossate
le spese della stampa
del volume: «
quod et noster
Alexander Calcedonius, communis amicus, tui
et mei amoris
omni solertia sumptibusque
prò his edere instituit ».
Ebbene, nella ristampa
degli stessissimi Collectanea
nel 1522 (Suessa, Super
libros de anima,
Venetiis), in fine
della prefazione che vi
appose, questo barabba
osa scrivere: «Quantum
igitur inique Alex. Calcidonius Collectanea
nostra publicaverit quantumve
venenose, ex bisce patet.
Ego enim publicare
illa non destinaveram,
nisi nono pressis anno
» ! che
e frase oraziana
adattissima a imbrogliare
anche meglio le carte.
Ma V. anche
più oltre, p.
370, n. 8. ^4
L'opera fu pubblicata,
come « codicilus
» al commento
della De- structio, nel
1497. Che al
momento della pubblicazione
tanto Geronimo Bernardo che
suo padre fossero
morti, risulta dalla
frase dello stesso Nifo
in fine del
commento alla Destructio:
«quorum animae in
perpe- tuum gaudeant »,
confermata dalla dedica
del commento In
XII Me- tapysicae al Giustinian. IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 2S7 avuto alunno
a Padova negli
ultimi anni, dedica
il commento al De
beatitudine animae di
Averroè, rimaneggiando un
vecchio scartafaccio del periodo
averroistico, di mano
del suo alunno veronese Bernardino
Plumazioij; al cardinale
Domenico Gri- mani dedica
nel 1497 il
commento alla Destructio
destnictionum , servendosi,
per insinuarsi nell'animo
del cardinale, dell'am.i- cizia d'un
tal prete Prosdocimo
familiare del Grimani;
più tardi nel 1504
gli dedicherà anche
il trattato De
primi motoris infinitate; e
nello stesso anno
dedicherà a Vincenzo
Querini il De diehus
cniicis. Ma non ostante
tutte queste amicizie
e protezioni, non
potè sottrarsi ai «
latrati », com'egli
più volte si
duole, dei suoi colleghi
e avversari. Non
saprei se per
questa o per
altra ragione, nel 1497,
si allontanò da
Padova. Il Facciolati
'^ per altro informa
che « revocatus
est anno MCDXCVIII,
stipendio argenteorum CXX »
; il che
lascerebbe supporre che
fra le ragioni del
malcontento vi fosse
anche quella dello
scarso stipendio. Sappiamo di
professori che correvano
là dov'erano megUo pagati,
e che spesso
la minaccia di
andarsene era un buon
mezzo per farsi
aumentare lo stipendio.
Ma il Facciolati ci
fa sapere che,
non ostante questo
aumento, il Nifo
« anno vertente rursus
abiit », in
cerca di miglior
fortuna, o sempli- cemente per sposarsi
con Angela Laudi
da Sessa. A
Padova non tornò più,
sebbene siamo informati
che nell'ottobre 1503 e
nel gennaio 1504
egli s'adoprava per
tornarvi 17. Vi tornò
invece nell'ottobre del
1499, dopo la
morte di Nicoletto Vernia,
il Peretto mantovano,
cioè il Pomponazzi, '5 Anche
quest'opera porta in
fine la dichiarazione: «Compievi Patavii. M.ccccxcii.
xiv Maij ».
Santo Moro si
addottorò a Padova nel
maggio 1505 (M.
Sanudo, Diarii, VI,
col. 163). Quando
il Nifo gli dedica
l'opera, sa che
l'antico scolaro di
Padova «nunc... naturae mundique interpretem gravissimum evasisse
». Io non
conosco altre edizioni anteriori
a quella scotina
di Venezia del
1524. Di Geronimo Bernardo dice
(I, comm. 56) : «
accepi verba haec
ut iacent in
codice meo, quem felix
illa Hieronymi Bernardi
memoria olim mihi
misit ». Vi sono
non pochi rimandi
al trattato De
inteUectii, e non
di rado nella stesura
che esso ebbe
dopo la revisione
! 16 Fasti gymn.
patav., 1, parte
II, p. 109. 17
M. Sanudo, Diarii,
V, col. 171,
766. Anzi sotto
la data del 25
marzo 1504 (col.
972) si legge:
k Item, ave
lettere de l'orator
nostro in corte, che
domino Agustino Sexa,
qual è li,
vengi a lezer
a Padoa, et li
ha dimandato. Par
contento venirvi, et
è facto più
docto di quello era,
et ha studiato
in grecho ». 26»
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI dopo due
anni d'assenza '8, per
restarvi ininterrottamente fino all'assedio della
città nel 1509.
V'erano poi maestro
Pietro Trapolin, averroista moderato,
che dall' insegnamento
della filosofia naturale era
passato a medicina
teorica, frate Antonio Trombetta francescano
e fra Geronimo
da Monopoli dome- nicano, che insegnavano
in concorrenza la
metafisica, l'uno ad mentem
Scoti, l'altro ad
mentem Thomae. Dal
1500 all'estate del 1503
era venuto a
Padova il bolognese
Tiberio Bacilieri, alunno e
poi collega di
Alessandro Achillini del
quale condi- videva le idee
'9, forse a
sostituire Antonio Fracanziano
che in seguito ad
una lite fra
maestri aveva lasciato
lo studio pado- vano ed
aveva seguito a
Roma il nuovo
cardinale Marco Corner -0.
Ma nell'ottobre del
1503 il Fracanziano
torna a Padova ad
occuparvi la seconda
cattedra di filosofia
ordinaria, in concorrenza col
Pomponazzi, mentre maestro
Tiberio, che diceva mancargli
appena quattro dita
per arrivare alla piena
e perfetta copulatio
con l' intelletto agente
-", aveva accolto r
invito di recarsi
a Pavia. Sotto la
guida di siffatti
maestri il giovane
Geronimo Taia- pietra aveva
fatto i suoi
studi a Padova;
e con lui
c'erano negli stessi anni,
su per giù,
Andrea Mocenigo, figlio
di Leonardo e nipote
del doge Giovanni;
Gaspare Contarini,il futuro
cardina- le; Antonio Surian, nipote
del patriarca di
Venezia dello stesso nome;
Santo Moro, e
altri rampolli delle
più illustri famiglie
pa- trizie veneziane.
Maestri e scolari
vivevano uniti da
uno stesso spirito goliardico
non scompagnato da
febbrile ansia di
sapere. Nel dicembre del
1500, il Peretto,
che marciava ormai
verso la quarantina, pensò
bene di accasarsi
con una gentil
donna padovana figlia di
Francesco Dondi dell'
Orologio. Ed ecco i^
Cfr. Facciolati, Fasti,
1. e; C.
Oliva, Note suW
insegnamento di P. Pomponazzi,
III, in «
Giorn. crit. d.
Filos. Ital. »,
VII, 1926, pp. 181-183.
'9 Facciolati, ib.,
p. iii. V.
sopra, pp. 226-27.
Il 6 ag.
1501, era pre- sente ai
dottorati in artibìts
di M. Ant.
Zimara e di
Girol. Oleari, col titolo
di «extraordinarius philosophiae >> (Arch.
d. Curia Vesc.
di Padova, Acta grad.,
voi. 47, f.
i62r). 20 Fr. Franceschetti, La
famiglia dei conti
Fracanzani di Verona, Vicenza ed
Este con notizie
dei loro antenati
ecc. Bari, presso
la Direz. del Giorn.
Araldico, 1896, pp.
30-31. 21 Pomponazzi, In
XII Metaphys., ad
t. e. 17:
«Ideo Tiberius iactatus solum
sibi defìcere quatuor
digitos ad hoc
ut foelicitatem istam pertingat »
(Arezzo, Bibl. Fraternità
de' Laici, Ms.
389, f. 248r;
Cod. Ambros. A. 52
inf., f. 2o8r) . IL
SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA
289 Andrea Mocenigo intonare
per l'occasione nn
epitalamio in latino, ove
tra molte reminiscenze
mitologiche si leggono questi due
distici molto confidenziali
rivolti, s' intende, allo sposo
22 ; Ista dies
omnes reliquos divellit
amores : paecipit haec
soli perpetuoque vaces. Substulit ista
dies sectari fornice
tetra scorta suburbano, substulit
ista dies.... Ma la
giocondità della vita
studentesca nel rumoroso
e gaio ambiente dello
studio patavino non
distoglieva questi giovani patrizi veneziani
dallo scopo per
cui erano venuti
sulle rive del Bacchigliene
tra le «
antenoree mura». E
Marin Sanudo 23 ci
fa sapere che
1' 11 maggio
1505, « zorno
di Pasqua di
mazzo, da poi disnar,
sier Santo Moro
di sier Marin,
studia a Padova, tene
le conclusion ai
Frari, qual è
impresse. Arguì molti,
videlicet domino Laurentio Bragadin,
leze in philosophia
[a Venezia], sier Piero
Pasqualigo 24, dotor,
cavalier, sier Marin
Zorzi, dotor, e altri,
et poi andò
a Padoa et
si dotoroe ».
Ugualmente il Sanudo al
26 marzo 1506
annota che «
in questo zorno,
in la chiesia di
Frari, fo tenuto
le conclusion per
sier Antonio Surian, quondam
sier Michiel, nepote
del patriarcha nostro, qual
studia a Padoa.
Vi fu il
reverendissimo patriarcha, e l'orator
di Franza e
molti patricii invidati
e dotori»-s. Con -2
Io. Brunatius, Poìììponatius, nella
Raccolta di opuscoli
scient. e filos., t.
XLI, Venezia, 1749,
pp. 34-35. -3 Diarii,
VI, col. 163. 24
Di Piero Pasqualigo
riferisce il Sanudo,
ib., I, col.
631, sotto il 22
maggio 1497, che
a Roma «
haveva tenuto conclusion
publice et si aveva
facto uno honor
grandissimo et hora
sta dotorado nomine
pon- tificis dal cardinal
di San Zorzi
». E sotto
il 19 giugno
1498 {ib., col.
964) : « Vene
da Milan in
questa terra Pietro Pasqualigo, dotor,
patricio veneto, stato.... et
si trovò a
Milan al tempo
dil capitolo general
di frati minori dove
tene le conclusion
publiche. Vi fu
el ducha con li oratori, et
fu molto comendato,
come si have
lettere di Marco
Lupomano orator nostro nel
conscio di pregadi.
Questo avia studiato
a Paris, et
è giovane di età
de anni 2....
et è doctissimo
». Il Degli
Agostini, Not. storico- critiche intorno
la vita e le opere
degli scrittori veneziani,
t. II, Venezia, 1754. P-
304. dice che
Piero nel 1494
a 22 anni sostenne a
Parigi due mila conclusioni.
Anche il fratello
Lorenzo Pasqualigo aveva
studiato a Parigi (Sanuco,
ib., col. 51). -5
M. Sanudo, Diarii,
VI, col. 324.
La cronaca di
questa disputatio è fatta
dallo stesso Surian
in una pagina
del volume in
cui ricopiava le lezioni
tenute dal Pomponazzi
sul De anima
nel 1500 e
nel 1504 (Ms. della
Bibl. Naz. di
Napoh, Vili. D.
81, f. 76V,
già descritto da
P. O. Kristeller, in
« Revue intern.
de philosophie »,
V, 1951, 15,
pp. 148- 19 290 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI questa pubblica
disputa anche il
Surian conquistava il
titolo di « dotor
», come appare
da quanto il
Sanudo ricorda sotto
la data del 12
luglio -6. E
sarei quasi tentato
di credere che, allo scopo di
conseguire il dottorato,
anche Vincenzo Querini affrontasse a
Roma la solenne
disputa cui accennavo
e alla quale assistè
anche Pietro Bembo,
egli pure patrizio
veneziano, cavalier ma non
« dotor «
qual era invece
suo padre. Quello di
stampare le Conclusiones
per la pubblica
disputa non mi consta
che fosse un
obbligo; ma si
sa che Giovanni Pico
le aveva stampate
nel i486, il
Querini le aveva
stampate, « impresse »
le aveva Santo
Moro, e anche
il Taiapietra si af-
149), ed
è importante perché
c'introduce nel bel
mezzo dell'ambiente scolastico padovano:
« Que disputatio
a me habita
fuit Patavii per biduum
1505, more veneto,
die vero 22°
marcii. Et prima
die argu- mentatus est
dominus Bernardus de
Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector;
2° loco R.
dominus Cristophorus Marcellus,
patritius venetus,
prothonotarius apostolicus; 3°
magister Antonius Trombeta ordinarius Metaphysice,
Patavii legens; 4"
Dominus magister Hie- ronymus
de Monopoli, ordinis
Thomistarum, ordinariam Metaphysice legens [cfr.
Quètif-Echard, Scriptores Ord.
Praed., II, p.
76]; 5° Do- minus magister Antonius
faventinus ordinariam theorice
medicine le- gens; 6° Dominus
magister Franciscus de
Caballis, brixiensis, ordi- nariam practice medicine
legens. Et
disputatio hec habita
fuit in aede cathedrali, in
choro penes altare
maius, coram R.mo
domino D. Petro Barocio, episcopo
patavino, et magnificis
Andrea Griti, pretore,
Paulo Pisani equite, prefecto
Padue, R.mo D.
Hieronymo Barbadico primi- I cerio Sancti
Marci. Duravit disputatio
usque ad 24
— horam satis
fe- 1 liciter die dominico,
et fuit dominica
quadragesime quarta. 1^ die (et fuit
habita in salis
magnis), primo argumentatus
est Dominus magi- ster Mauricius ordinis
Minorum hybernicus, preceptor,
ordinariam theologie legens; 2°
Dominus magister Gaspar
perusinus ordinis Thomi- starum [cfr. QuÈTiF-EcHARD, 1.
c, p. 24],
Ordinariam theologie pro- fessus
et profitens; 3°
Dominus magister Petrus
Trapolinus, patavinus,, ordinariam theorice
medicine legens; 4°
Dominus Petrus mantuanus,. olim preceptor;
5" Dominus Antonius
Fracancianus, vicentinus, ordi- narius philosophie, ambo
professi et profìtentes.
Et disputatio fuit mane
Venetiis autem die
26 marcij, die
Jovis, in aede
S. Francisci Minorum; et
interfuit R.mus Patriarca,
patruus meus, R.mus
D. D. ar- chiepiscopus spalatensis,
D. Bernardus Zane,
R.mus Marcus Antonius Foscarenus, episcopus
Emonensis [cioè di
Città Nova in
Istria], R.mus D. D.
Dominicus episcopus Chisamensis,
suffraganeus R.mi D. Pa- triarche. Argumentatus
est in primis
Dominus Sebastianus Foscharenus, doctor, legens
lecturam physice Venetiis;
2° loco R.mus D.
D. Bernardus Zane, archiepiscopus Spalatensis;
3° loco Dominus
Andreas Mozenigus, doctor; 4"
D. magister Petrus
de Cruce ordinis
Minorum, regens ibi; 5°
Dominus Santes Maurus,
doctor etc. Et fuit
dies felicissima. Quare Deo
semper honor et
gloria ». 26 M.
Sanudo, ib., col.
373. IL SIGIEKIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 29I frettò a
presentarle stampate. Più
tardi, so di
Matteo Bin, le cui
« conclusiones »,
dedicate a Nicolò
Michiel, Procurator di S.
Marco, furon discusse
a Venezia nel
dicembre 1510-7; e so
pure di Giulio
Ruggiero, discepolo a
Padova di M. An-
tonio Genua, che stampa
le sue Positiones ,
cioè le sue
tesi, dedicandole al cardinale
Ercole Gonzaga, per
la disputa che doveva
aver luogo a
Padova nella chiesa
di S. Antonio
nel luglio 1557 ^8
; e l'esempio
suo sarà seguito
due anni dopo da
un altro discepolo
del Genua, M.
Antonio Mocenigo 29, nipote
di Vincenzo Diedo
patriarca di Venezia,
per la disputa che
doveva aver luogo,
come nel caso
di Antonio Surian,
a Venezia e a
Padova. Non conosco il
contenuto delle tesi
o « conclusion
» soste- nute dal Surian
e dal Moro;
conosco invece quello
delle Con- clusiones del Querini
e del Bin,
delle Positiones del
Rug- giero e dei Panidoxa
theoremataque del Mocenigo.
Il Querini, discepolo del
Nifo quando questi
aveva già abbandonato l'averroismo, si
dichiara apertamente contro
Averroè come aveva fatto
il maestro. Invece
averroista è il
Bin; e anche il
Ruggiero e il
Mocenigo sostengono apertamente la dottrina
averroistica del Genua
combinata con quella di
Simplicio. Allo stesso
modo il Taiapietra
è un risoluto
so- stenitore dell'averroismo
della corrente sigieriana,
del quale, dopo la
partenza del Nifo
da Padova, era
stato sostenitore Tiberio Bacilieri.
Ciò apparirà meglio
dall'esame del conte- nuto della sua
opera. Un'aperta professione d'averroismo
accade d' incontrare tìn sulla
soglia del libro,
cioè nel proemio
intitolato anch'esso al Grimani.
Dopo avere accennato
ad Aristotele come
« regula *7 La
rara stampa veneziana
della Casa G.
Tacuino, è posseduta dal
British Museum, 1172,
h. i (i).
All'amico Carlo Dionisotti
son debitore della cortese
segnalazione e del
microfilm. ^8 Positiones hasce
de vero et
bono Julius Rugerius
ad disceptandum proposuit. In
quibus si quid a religione
ac summa veritate
dissentire lector animadvertet
, id
non ex animi
sententia, sed ex
Aristotelis ac veterum Philosophorum placitis
pronunciatum sciat. Venetiis
mdlvii, f. yor Finis. Disputabuntur
triduo Patavij in
tempio D. Antoni],
mense Julij, Die..., Hora....
Nella sezione ottava
«de homine quatenus
intel- ligit et speculatur
» (fol. 54V
sgg.), accade d'incontrare
tutte le tesi dell'averroismo Simpliciano
del Genua, coli'
idea della «
progressio » dell'unico intelletto
« ad secundas
vitas » nei
diversi corpi umani
ecc. Cfr. sotto, XIII,
p. 388 sgg. 29
V. sotto, XIII,
p. 3 9
^gg.. 292
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI in natura »
secondo il noto
concetto d'Averroè 3°,
il giovane filosofo veneziano
continua: Post queni prinius
floruit Averroes cordubensis,
qui ex graecis expositoribus velut
ex optimis quibusdam
fontibus philosophiam non tam
hausisse quam expressisse
visus est. Eos enim insequi et
incessere delectatus est
apprime, unde is
solus est qui
condigne et recte apud
omnes commentatoris nomen
adeptus fuit; tantum enim
est ex agro
fertili messem tacere.
Hinc est, ut
qui Averroem exacte legerit,
et suis quaeque
locis singulatim singula
contu- lerit, eius doctrinam
facile percipiet ab
optimis manasse aucto- ribus.
Quid enim aliud
est commentator Averroes
quam Alexander, Themistius, Simplicius,
ac demum ipsemet
Aristoteles transpo- situs ? Ouamobrem
et nos divino
beneficio confisi, non
vana si- militer gloriae
cupiditate impulsi, et
absque ulla prorsus
invidia, sed solum utilitatem
aliquam studiosis afterre
anhelantes, penes horum virorum
sententiam quarumdam diftlcilium
quaestionum summam seu compendium
ordinare suscepimus: ea
enim beni- volentia perypatheticos prosequor
omnes, et praesertim
summum Aristotelem eiusque magnum
commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere
duces, ut si
quid ex illorum
disciplinis de- prompserim, quod
utile, pulchrum lionestumque
putem, id quippe omnibus communicatum
esse velim, quo
omnes literati una mecum
ipsorum rapiantur amore
eosque digna veneratione
pro- sequantur et colant. Verum nos,
divini Platonis De
legibus imitati, ut
scilicet ne cuivis liceat,
quae aediderit, aut
privatim ostendere, aut
in usum publicum concedere,
antequam super id
publici et idonei
con- stituti iudices ea
viderint et probarint
(quod maxime observant venerabiles illi
magistri parisienses), opus
hoc nostrum in
stu- diosorum communem usum
concedere ullo pacto
voluimus, ante- quam
gravssima amplissimi Venetiarum
prothoflaminis censura et lima
castigetur; cuius quidem
titulis et laudibus
(nisi defraudetur) solum ipsemet
accedit religiosissimus antistes
Antonius Surianus; simulque nisi
prius in clarissimorum
virorum conventu et
corona opus hoc manutenerem
et tutatus essem. E
il « prothoflamen
» di Venezia,
cioè il patriarca
Antonio Surian, zio di
quell'altro Antonio Surian,
che era stato
disce- polo a Padova del
Pomponazzi e del
Fracanziano, e che
del Peretto ci ha
tramandato le lezioni
sul De anima
del 1500 e del
1504, contenute nel
codice della Bibl.
Naz. di Napoli, Vili.
D. 81, studiato
dal Kristeller, il
buon patriarca di Ve-
nezia, dicevo, dopo aver
letta l'opera del
Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di
questa aperta esaltazione
d'Averroè, 3° De anima.
III, comm. 14. IL
SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIKTRA
293 che avrebbe fatto
fremere il vescovo
di Padova, Pietro
Ba- rozzi, gli scrive
questa candida letterina
che si legge
in fondo al volume: Filii
[sic) diarissime, praeclarum
opus tuum, in
quo Aristotelis peripatheticorum principis
et Averrois eius
fidi et luculentissimi commentatoris sensum
diligenter et ad
unguem examinasti, non mediocri
gaudio voluptateque lectitavi,
eo quod te
philosophum praestantissimum
noverim, tum et
ortodoxae matri ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut
te quam maximis
prosequamur laudibus,
magnisque honoribus te
decorandum extollendumque censeamus. Exinde
enim persuaves et
amenissimos tibi fructus acquires, nec
modicam saeculo utilitatem,
patriaeque nostrae gloriam
allaturus es. Vale. Eppure l'averroismo
dell'opera non concerne
soltanto una o due
tesi che vi
siano difese quasi
di passaggio, ma
domina tutto intero il
volume, dalla prima
all'ultima pagina; salve sempre,
s' intende, le solite
proteste d'obbligo, chiaramente espresse o
sottintese, che l'autore
cioè non persegue
altro intento che quello
di esporre qual
è il genuino
pensiero d'Ari- stotele e del
suo fedele commentatore,
senz'alcun pregiudizio per la
fede e per
gì' insegnamenti della
Chiesa. L'opera si divide
in due libri
: il primo
concerne otto problemi dibattutissimi nelle
scuole di filosofìa,
alla soluzione dei
quali son dedicati altrettanti
trattati, e in
ciascuno di essi
un capitolo è consacrato
alla esposizione della
vera dottrina del
Filosofo e del suo
fedelissimo interprete, mentre
altri son riservati
a combattere più le
obiezioni dei «
cacoaverroisti », com'egli li
chiama (lib. II,
tr. i, e.
7), che non
quelle degli avversari dell'averroismo. Nel
primo trattato si
discute il problema
se unico sia il
principio di tutte
le cose, o
possa esser molteplice; e
nel quinto capitolo
« philosophi et
commentatoris vera positio inducitur
cum suis rationibus
et fundamentis ». Nel
secondo trattato, si
parla della immaterialità
e semplicità divina; e
nel cap. 14
« philosophi et
commentatoris vera po- sitio inducitur ».
Nel terzo trattato
si dimostra la
tipica tesi averroistica «
Deum tantum seipsum,
idest essentiam pro- priam
intelligere ac intueri
»; e nel
cap. 11 «
vera positio philo- sophi et commentatoris
in hac materia
ponitur ». Nel
trattato quarto si pone
il quesito «
an primus motus,
qui est diurnus, sit
immediate a Deo
glorioso », e
si critica la
tesi dell'aver- roista Giovanni
di Jandun, il
quale sosteneva che
Dio non può 294
L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI muovere il
primo mobile se non per
mezzo della prima
intelli- genza; nel cap. 6
poi è esposta
la vera opinione
del filosofo e del
SUO commentatore su
questo argomento. Nel
trattato quinto è presa
in esame la
vexata quaestio, se
Dio sia causa efficiente delle
cose eterne, cioè
delle intelligenze e
dei cieli, poiché delle
cose corruttibili non v' è
dubbio che esse
non pos- sono esser prodotte
immediatamente da Dio. È noto
che il teologo agostiniano
Gregorio da Rimini
riteneva che, secondo Aristotele, Dio
è causa finale
ultima delle intelligenze
e dei cieli, ma
non causa efficiente
del loro essere 31.
Il Taiapietra, d'accordo con
Sigieri -, è del parere
che, pur essendo
coe- terne a Dio, sì
le intelligenze motrici
che i cieli
incorruttibili son tratti all'esistenza
da lui per
via di vera
causalità effi- ciente, e in
proposito intraprende una
lunga disquisizione che dura
per diversi capitoli
contro il teologo
agostiniano; giacché è bene
si sappia che,
per quanto riguarda
l' interpretazione del
pensiero d'Aristotele, vi
furono teologi che
si spinsero anche più
in là di
taluni averroisti. Nel
cap. 13 è
esposta la vera dottrina
del filosofo e del commentatore
« cum suis
ra- tionibus et fundamentis
», che è
poi la dottrina
sigieriana. Nel trattato sesto,
è discusso un
altro problema oggetto
di lunga contesa, fin
dai tempi di Sigieri,
se cioè Dio
nel muo- vere il mondo
si palesi di
virtù intensivamente infinita
ossia, come soleva dirsi,
di infinito vigore.
Dopo aver combattuto r
interpretazione che d'Aristotele
avevan dato S.
Tommaso, Alberto Magno e
Duns Scoto e
quella di alcuni
averroisti che, a suo
giudizio, falsavano il
pensiero d'Aristotele e
d'Averroè, l'autore passa ad
esporre, nel cap.
io, la «
vera positio » del-
l'uno e dell'altro, riaffermando
la sua fiducia
nel commen- tatore : Quum inter
tot celebres philosophos,
nullus adhiic posterio- rum
philosophantium aut priorum,praeter Aristotelem,
inventus sit qui commentatori
Averroi in rebus
naturalibus aut divinis exponendis equipolleat,
unde merito nomen
magni et certe
maximi commentatoris est assequutus,
ideo, primae philosophiae
princi- piis innitendo, in
hoc quesito ad
mentem philosophi et
commen- 31 Lectura in
II Sent., dist. i, q.
i; cfr. Giov. di
Baconthorpe, In II Sent.,
dist. i, q.
i; Giov. di
Jandun, Meiaphys., II,
q. 5; id., ■Quaestiones sup.
De siibst. orbis,
q. 14. 32 Cfr.
F. Van Steenberghen,
Sig. de Brab.
d'après ses oeiivres inédites, II
voi., Louvain, 1942,
p. 606. V. sopra,
p. 103. IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 295 tatoris dicimus
infinitum, ut proposito
attinet, alias infiniti di- stinctiones omittendo,
dupliciter intelligi posse:
vel secundum tempus et
durationem, vel secundum
virtutem et vigorem;
quo- rum unum vocant latini
infinitum extensive, et
alterum intensive. Pro quo
sciendum quod si
primum principium secundum
primum modum infinitum intelligatur,
hoc utique ad
mentem philosophi et commentatoris
concedendum est, quoniam
primus motor motu locali
uno et continuo
movet per infinitum
tempus; et sic etiam,
secundum eos, quaelibet
intelligentia est infinita;
quae- libet enim intelligentia
movet, secundum Aristotelem,
orbem proprium motu locali
circulari infinito. Potest
et secundo modo intelligi primum
principium esse infinitum
in qualitate actionis, scilicet in
vigore; et hoc
pacto negat philosophus
et commen- tator. Ma rendendosi
conto che un'affermazione sì
grave poteva sonare sgradita
alle orecchie dei
teologi, il nostro
s'affretta a dichiarare: Sed quamvis
isti, philosophus scilicet
et commentator, sic dicant,
nihilominus tamen dico
secundum fidem et
veritatem, quod deus, qui
est primum principium,
est virtutis infinitae, scilicet in
qualitate actionis, ita
quod quantum est
de se potest velocitare motum
in infinitum, immo
movere in instanti,
nec est limitata sua
virtus ad actionem
determinatam ; et
hoc absque omni ambiguitate
verum est, non
tamen potest convinci
aut comprehendi ex sensatis;
et ideo non
est mirum si
philosophus ac caeteri antiquorum
naturales, sensata tantum
insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum
enim deus ipse
naturae sit auctor, potest
utique plus facere
quam possit natura
vel natura- liter comprehendi,
quoniam quemadmodum ipse
omnia excedit in infinitum,
sic etiam profecto
in agendi potentia.
Iccirco iuxta illud quod
primo Esaias et
postmodum Paulus dixerunt,
propter ista et alia
quae oculus non
vidit nec auris
audivit, nec in cor
hominis ascendit, sacrosantae
ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua
haesitatione credendum est,
et absque aliqua
demon- stratione aut sensuum
experientia etc. E la
stessa dichiarazione ripete,
come d'uso, tutte
le volte che gli
accade di toccare
un problema intorno
al quale vi sia
conflitto fra la
filosofìa e la
teologia. Nel settimo trattato
si chiede se
il numero delle
intelUgenze motrici debba dedursi
dal numero dei
movimenti e delle
sfere celesti, oppure se
ve ne siano
di non addette
al moto dei
cieli; e nel cap.
4 è esposta
al solito l'opinione
del filosofo e
del com- mentatore, che il
Taiapietra ancora una
volta toglie a
difen- dere. Inoltre nel cap.
12, è esposta
la vera opinione
del filosofo 296 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e del
commentatore, che la
nobiltà delle intelligenze
va posta in relazione
con la maggiore
ampiezza e altezza
delle sfere da esse
mosse. Nell'ottavo ed
ultimo trattato del
primo libro, si dibatte
l'annoso problema, se la materia
di cui constano
i cieli sia «
eiusdem rationis cum
materia horum inferiorum
» ; e di
nuovo nel cap.
12 viene esposta
e difesa come
vera la dottrina d'Averroè,
la quale combacia
perfettamente con quella del
principedei filosofi, e vi
si dice che
la materia dei cieli
non è in
potenza a diverse
forme, ma soltanto
a diverse posizioni locali. Il
secondo libro si
divide in sei
trattati. Il primo
dei quali verte sulla
natura dell'anima umana
e precisamente sul
pro- blema « utrum humana
et rationalis anima
sit una vel
plures, dans esse homini
et immortalis». Fin
dal primo capitolo
di que- sto trattato, l'autore
ci palesa candidamente
qual è il
suo inten- to: anzitutto rigetterà
tutte le opinioni
che più s'allontanano
da Aristotele e da
Averroè; poi riferirà
quelle che più
si avvici- nano al loro
pensiero : «
Demum veram philosophi
et commen- tatoris addemus
sententiam ab ea
quascunque amovendo cavillationes, ut
eius veritas clarior
appareat.... ». Ed
egli non meno candidamente
spera che dalla
sua fatica verrà
non poco giovamento alla
restaurazione della filosofìa,
che al co- mune giudizio degli
averroisti pareva in
quei tempi non
poco decaduta: Unde speramus laborem
hunc nostrum non
modo rem peri- patheticam, idest
Averroycam, adiuvaturum esse,
verum etiam aucturum, quum
forte scriptum hoc
non tantum erit
causa de- clarandi rem
obscuram et latentem
multum in philosophia,
sed etiam aliis, hoc
est bene dispositis,
initium fiet vel
occasio Iabo- randiindoctrinaphilosophi et
commentatoris, et ad
communem utihtatem quamphira scitu
nobilissima scribendi. Et
sic forte in Italia
reviviscet philosophia, quae
temporibus meis, M.D.V., cum
philosophis pessum ivit,
adeo ut hac
tempestate pauci vel nulli
reperiantur philosophi; sunt
autem in precio
triviales, nebulones et sophistae
33; sperandum est
tamen naturam ali- 33
È un lagno
che Averroè aveva
fatto dei filosofi
del suo tempo, nel
famoso prologo alla
Fisica; ed è
curioso vedere come
gli averroisti della fine
del Quattrocento e dei primi
del Cinquecento lo
ripetano pei loro tempi.
V insiste in
particolare il Pomponazzi,
parafrasando sia il prologo
al primo libro
della Fisica sia
quello al terzo
(Cod. lat. della Bibl.
Naz. di Parigi,
n. 6533, f.
6v e lagr;
Arezzo, Fratern. de'
Laici, ms. 3QO, f.
(x-jv, e ms.
300, f. igir.
Cfr. «Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.
», XXX, 1951, pp.
371-372). IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 29/ quando nostri
misertam iri, et
nobis integram redituram
philo- sophiam et philosophos;
natura namque non
deficit in necessariis neque abundat
in superfluis. Iccirco
laborandum est prò
viribus ut ad nos
redeat niater nostra
pliilosophia. Con questa speranza
nel cuore, che
la filosofia aristotelico- averroistica minacciata
da un lato
dal concordismo tomistico che
la svisava, e
dall'altro dalla retorica
umanistica che la disprezzava e
dileggiava, il nostro
giovane averroista si ac-
cinge a difendere quella
che era apparsa
la più ostica
delle tesi averroistiche, qual'
è quella dell'unità dell'
intelletto. Ed anzitutto egli
espone e combatte,
sulla scorta d'Averroè,
la dottrina di Alessandro
d'Afrodisia, intorno alla
quale si dif- fonde per ben
sei lunghi capitoli
(2-7). Nel cap.
4 accade d' in- contrare questa allusione
all'ambiente filosofico padovano: «
Conantur quidam alexandrei
et acutissimi viri
prò Alexandro ad rationes
Averroys et auctoritates
Aristotelis respondere.... >>. Giusto un
anno prima, nel
1504, il Pomponazzi,
che stava com- mentando a Padova
il terzo del De anima,
s'era posto il
pro- blema dell' immortalità dell'anima,
e pur dichiarandosi
an- cora propenso a ritener
possibile una soluzione
positiva del problema secondo
la ragione, aveva
dimostrato in che
modo la tesi d'Alessandro
avrebbe potuto sostenersi.
Forse allu- dendo al Pomponazzi,
il Taiapietra nel
rintuzzare le ragioni degli
alessandristi osserva :
« Etsi Alexandrea
opinio lumini tantum innitendo
naturali non minus forte
substentabilis sit 34 iuxta
fundamenta sua, quam
et averroyca, hoc
nihilo- minus in loco
ipsum ad intentionem
philosophi minime lo- quentem
fuisse proculdubio ostendemus
» (cap. 5).
Nel qual passo è
quanto mai significativa
la distinzione fra
ciò che è sostenibile
« lumini tantum
innitendo naturali »,
e ciò che è sostenibile «ad
intentionem philosophi». A
prescindere dai fran- cescani che di
questa distinzione facevano
largo uso, essa è
una novità nella
storia dell'aristotelismo; Aristotele
non ha visto tutto
quanto si può
vedere col lume
di ragione; la ra-
gione umana può spaziare
forse oltre i
confini del mondo
ari- 34 Come appunto
diceva il Pomponazzi,
commentando il terzo
libro del De anima
nel 1504 (Vedasi
P. O.
Kristeller, Two impubi.
Que- stions on the
Soul of P. Pomponazzi,
in « Medievalia
et Humanistica », Vili,
1955, pp. 87-90,
94), quando il
Taiapietra era ancora
studente a Padova. 29o L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI stotelico : è
un' idea sulla
quale insiste più
volte il Pompo- nazzi
e che doveva
ferire a morte
l'autorità di cui
Aristotele, «maestro e duca
de l'umana ragione ))3s,
aveva finora goduto. Dopo
la critica della
tesi alessandrista, il
nostro espone e confuta
la dottrina di
Abubacher, « Averroys
socius )>, di
Aven- pace, « eius
magister «, quasi
fossero due persone
diverse, di Avicenna e
di Alfarabi (cap.
8) ; e
qui eccolo nel cap. 9, in quo Aristotelis
et Averroys vera
positio ponitur in
hac materia cum suis
motivi s, ad esporci
l' interpretazione
sigieriana del pensiero di
questi due filosofi: Clini binas
hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias
tamqnam impossibiles omnino
ad, mentem philosophi reliquimus,
superest videre et de tertia,
quae est Averroys se
unicum ad intentionem
Aristotelis loqui pollicentis. Aliorum autem
sapientum opiniones hoc in tractatu
non inda- gamur. Item
quia intentio nostra
in praesentiarum non
est de omnibus loqui,
sed tantum manifestare
quae fuit opinio
commen- tatoris, et quorundam
errorem refellere, qui
temporibus nostris nonnulla monstra
in hac materia
(ut finxerunt de
intentione Averroys) enixi sunt.
Tum etiam, ut
sententia est philosophi, thopicorum primo,
capite IX, quolibet
proferente contraria opi- nionibus
sapientum sollicitum esse
stultum est. De anima
igitur disceptantes quadrifariam
circa ipsius in- coeptionem loqui
poterant: primo, quod
quandoque producta fuit in
materia, quandoque corrupta:
quem modum sequutus est
Alexander aphrodiseus, ut
disputavimus in pracedentibus abunde satis,
in quo quidem
tamquam demonstratum nobis palam
est, rationalem animam
non a corpore
incipere, neque in corpus
desinerei illam quoque
prò parte insequi
visi sunt arabum sapientes, ut
supra piane constat.
Secundo, quod novum
acceperit esse, quod nunquam
perditura sit: et
hic dicendi modus
Platonis est, cui contradicit
philosophus et commentator,
Divinorum XII, tex. co.
XXXIX; et primo
Coeli, tex. co.
CXX; alioquin natura possibilis verteretur
in necessariam; nullum
enim novum est perpetuum. Tertio,
quod nullum eius
fuerit initium, sed
dissi- panda quandoque foret:
et is quoque
modus impossibilis est; omne
namque aeternum a
parte ante est
etiam aeternum a
parte post, et econtra,
ut sententia est
philosophi et commentatoris, ibidem, primo
Coeli et mundi
3^; nec aliquis
hominum dudum id percepit,
quod quum perscrutata
non sit dignum,
absque auctore 35 Dante,
Conv., IV, vi, 8.
36 T.
e. 104-109 (e.
IO, 27gb 32-280=1
31). A questo
principio del De coelo
fa appello il
card. Bessarione, In
calimin. Platonis, III,
e. 22, so- stendo
che, per Aristotele,
se l'anima è
immortale ed eterna
a parte post, deve
esserlo anche a
parte ante, con
tutti gli assurdi
che dal punto di
vista aristotelico ne
seguirebbero, se l'anima
intellettiva fosse IL SIGIERIANO GEKOXn.O
TAIAPIF.TRA 209 dimissum fuit.
Quarto, quod, ncque
quandoque cadet, nec
exor- dium ulluni aliquando
acceperit: si igitur
rationalis anima nec incepit
cum corpore, nec
in corpus desinet,
sed semper fuit
et aniplius semper erit
immortalis ac substantia
semper existens simplex et
immixta, humano orbi
secundum esse unita,
non tamen corruptibilis nec
alterabilis secundum eius
substantiam, opinio redditur Aristotelis
scilicet et Averroys
et multorum tam
anti- quorum quam modernorum peripatheticorum, ut
Themistii, Theophrasti,
Pythagorae et caeterorum
eiusdem sectae. Id
igitur in quo veriores
scilicet peripathetici concurrunt,
est rationalem animam nec
incipere cum corpore,
nec etiam incipere
ab aliquo corporis, nec
desinere in potentiam
corporis, nec in
corpus ipsum, sed esse
semper qviid immortale
divinum et impatibile.\'erum id
in quo discreti
et differentes sunt
isti viri, hoc
porro loco a me
perscrutandum non expectetur:
tum quia prò
nunc tantum philosophi et
commentatoris opinionem venamur,
ex qua ad caeteras
quascumque discrimen colligere
poterimus; tum quia praeter
opinionem opus nostrum
multum excresceret. Hanc sententiam
comprobant Aristotelis auctoritates
mul- tae; quarimi quae
adversus Alexandrum iam
adductae sunt nobis sufficiant.
Motiva
autem philosophorum sunt
multa, et primum quod
ad hoc movit
Averroym, fuit ratio
fortis quae ex libro
De substantia orbis
piane colligitur, quoniam
nulla forma inducta in
materia non mediantibus
interminatis dimensionibus et non
per dispositiones qualitativas
et quantitativas praecedentes, simul accipit
esse cum toto. Sed rationalis
anima hominis huiusmodi est.
Ergo etc. Amplius amne
quod est dominus
suorum actuum est
abstractum et immortale. Sed
anima humana intellectiva
talis est. Ergo
etc. Maior utique evidens
est ex se:
quod enim non
habet dominium suorum actuum,
ad unam tantum
partem determinatur; que- madmodum
ad delectabile appetitus
sensitivus; et talis
procul- dubio est materiae
immersus. Minoris
autem veritas inductive declaratur: nam
si uni vero
philosopho vel religioso
offeratur inoltre
moltiplicata col numero
degli uomini. Si
che il Bessarione
ne aveva concluso: «Igitur
alterum de his
duobus dicat necesse
est: aut enim unum
eundemque intellectum omnibus
esse, aut una
cum corpore animam interire
». E se
egli poteva ritenere
[ib., e. 27)
che nessuno era riuscito
finora a dimostrare
la falsità della
tesi averroistica dell'unità dell' intelletto,
secondo i principi
della filosofia aristotelica,
il Pompo- nazzi, che,
pur ritenendo perfettamente
aristotelica questa dottrina, la
considerava stoltezza {fatuitas),
almeno fin dal
1504 (cfr. Kristeller, 1. e,
p. 93, e
il ms. napol.
Vili. E. 42,
f. i86r), troncò
nell'inverno 1515-1516 le sue
precedenti esitazioni, e
prese a sostenere
con risolu- tezza la tesi
che, pur essendo
quello dell' immortalità
dell'anima un « problema
neutrum », tutti
i principi formulati
da Aristotele, e se- gnatamente
quello stabilito in
questo luogo del
De caelo, sembrano concludere alla
mortalità dell'anima. Pochi
mesi dopo scrisse
il trattatello De immortalitate
aniniae. Ma sullo
sviluppo del pensiero
del Perette intor- no a
questo argomento, cfr.
«Giorn. Crit.», XXXII,
I953. PP- 45
e 175. 300 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI puella, appetitus tunc
tendit in fornicationem, quia
delecta- bile; intellectus autein
reicit et fugit,
quia malum et
propter offensionem dei proximique.
Ecce igitur qualiter
hominis intel- lectiva anima
domina est suorum
actuum, quia scilicet
potest delectabile fugere vel
persequi; non sic
autem appetitus ipse. Et
haec fuit ratio
divini Platonis in
Phaedone, ibi inter
omnes efficacior, quam olim
ab eo accepit
platonicus Plotinus, in
tractatu de immortalitate animae,
quam etiam adducit
divus Albertus in libro
De origine animae.
Et fuit
haec ratio apud
aliquos tantae effìcaciae et
auctoritatis, ut palam
dixerint, quod qui
conatur hanc solvere rationem
fatuus est. Rursum,
quod intelligit omnia
tam materialia quam
imma- terialia est iinmateriale,
et per consequens
immortale; haecenim se
consequuntur, ut constat
in intelligentiis; sed
intellectiva hominis anima omnia
comprehendit, tam scilicet
materialia quam etiam iinmaterialia
; igitur immaterialis
est, et ex
consequenti immortalis.
]\Iaioris primam partem
innuit philosophus, iii.
Deanima, tex. co.
iiii, quum dixit,
quod omne recipiens
debet esse denudatimi a
natura rei receptae.
Secunda etiam pars
patet; alioquin rationalis anima
esset organica, et
sic determinata ad unum,
cuius tamen oppositum
in nobismetipsis comprehendimus. Minorem vero
in nobis proculdubio
quottidie experimur. Quare etc.
Et confirmatur, nam
anima nostra intellectiva
universaliter et abstracte intelligit;
ergo et ipsa
est abstracta et
immortalis; secus ipsa esset
aut aliquis quinque
sensuum, aut sextus
sensus, et sic per
consequens non iniiversaliter intelligeret
; quod apud perypatheticos est
valde absurdum et
manifeste falsum. Adhuc, si
ista rationalis anima
non est abstracta
et immortalis, tunc aut
est complexio, aut
forma superaddita complexioni;
sed non primum, quia
tunc esset accidens,
quod nullus sanae
mentis fateretur; minus etiam
secundum; sequeretur enim
ipsam esse organicam et
extensam, et sic
fìeret determinata ad
unum que- madmodum et
caeteri sensus, cuius
tamen oppositum in
nobis manifeste percipimus omnia
et universaliter percipientes. His ita
prealibatis, inquiunt veriores
perypathetici hunc intel- lectum
materialem esse formam
perpetuam ex utroque
latere, loquendo praecipue ad
intentionem philosophi et
commentatoris, unicamque
omnibus hominibus inesse,
ac minime generabilem aut corruptibilem
nec eductam de
potentia materiae. Amplius opinantur ipsam
facere per se
unum cum homine
constituto in esse per
cogitativam; et ponunt
quod intellectus ipse
non potest informare materiam
non informante cogitativa;
non enim stat materia
absque forma constituta
in esse per
eam ; nec
potest intellectus informare sine
sua proxima et
ultima dispositione, quae quidem
est cogitativa respectu
intellectus; unde, esto
quod cogitativa ipsa non
sit forma generica,
ordinatur nihilominus in intellectum propter
ipsius essentialem ordinem
ad ipsum. Nec econverso
potest cogitativa informare
materiam et ipso
quoque non informante intellectu;
positis enim informabili
ultimate disposito et ipso
informativo, necessario et
ipsa insurgit infor- \ IL
SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA
3OI niatio 37. Est
autem materia informata
cogitativa informabile propinquum et
ultimate dispositum ad
humanum recipiendum intellectum; et
sic potest una
formia substantialis ad
aliam esse dispositio, dummodo
forma illa praeparans
non sit materiae
ratio recipiendi. Adduntque post
haec hunc eumdem
intellectum primo et
ade- quate informare totum orbem
humanum; secundario vero
illius partes, ut scilicet
sunt individua hominis.
Nec
intellectui humano, quamvis sit
unicus et individuus,
pluribus dare esse
aeque primo hominibus, utputa
Socrati, Fiatoni, Ciceroni
et sic de
aliis, re- pugnat; in
via namque philosophi
et commentatoris constat intelligentias esse
individua, ut xii.
Primae Pìiilosophiae et in libris De
coelo; et illa
eadem esse cum
suismet quidditatibus; unde intellectus
materialis, quum sententia
commentatoris, se- cundo Physice
auscultationis , infima sit
intelligentiarum, erit et ipsa
individuum et sua
quidditas; septimo enim
Methaphysicae, comm. xli, et
iii. De anima,
comm. ix et
x, in abstractis
a ma- teria non differt
quidditas ab eo
cuius est. Intellectus
igitur ma- terialis
individuum erit et
singularis; ob id
tamen nihil prohibet, licet intellectus
ipse sit etiam
quidditas universalis, dare
esse hoc et singulare
homini, ut iam
dictum est. Et
sic apparet quo- modo
esse hominis, in
eo quod homo,
est ultimo per
hunc intel- lectum, et quomodo
difterentia hominis, in eo quod
homo, su- mitur ultimate
ab hoc eodem
intellectu ; et
sic quoque individuum ipsum humanum,
idest constitutum ex
cogitativa tanquam ex materiali,
et ex ipso
intellectu tanquam ex
formali, utputa Sortes vel
Plato, habent esse
hoc ad ipso
intellectu ultimate. A
materia autem divisa informabili
cogitativa dimensionibus mediantibus informante, nascitur
possibilitas
multiplicationis individuorum sub eadem
specie; quae omnia
propter esse universale
ipsius intellectus, ut supra
diximus, informari possunt
ab ilio, et ab eodem sumere
esse suum verum
hoc et unum. Et
breviter autumant intellectum
ipsum primo esse
formam adequatam totius suae
sphaerae humanae; secundario
vero par- tium sphaerae,
ut particularium hominum,
hoc scilicet pacto quod,
inquantum quidditas, partiri
possit per materias
informatas dimensionibus et cogitativis,
inquantum autem individuum, est id
esse per quod
individuum hominis est
hoc ultimate. Dicuntque praeterea
opinionem esse Averroys,
ut intellectus uniatur homini
non tantum ut ars et
motor instrumento et or-
gano, sed etiam secundum
operationem et esse.
Yocant autem aliquid
alteri vmiri secundum
esse, quando illud
habet esse et nomen
ab eo; non
autem audiunt esse
prò operatione, iuxta illud
' vivere viventibus
est esse ',
nec prò esse
educto de po- 37
Questa tesi si
trova alla lettera
nei Quolibeta de
intelligentiis di Alessandro Achillini
(v. sopra, pp.
206 e 246,),
e il NiFO,
De intellectu, I, tr.
3, e. 18,
la dice tolta
dal trattato De
intellectu di Sigieri
(cfr. il mio Sig.
di Brab. nel
pens. ecc., p.
18 e p.
73). 302
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tentia niateriae; sed
per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit
intellectus. Dicunt etiam quod,
quando aliqua forma
unitur alicui mate- riae,
duo debemus considerare:
primum, prout ipsa
forma ma- teriam constituit
in esse, scilicet
prout forma materiam
informat eique nomen et
difììnitionem concedit simul,
prout ipsa forma
a materia sustinetur ac
ab ea dependet
in esse et
conservari secun- dum suum
genus causae, ac
etiam ab ea
in operari dependet; secundum autem
prout aliqua forma
aliquod subiectum sive materiam
in esse constituit,
ipsa tamen per
subiectum vel ma- teriam in
esse non constituitur,
sicut se habet
intelligentia et orbis; et
huiusmodi asserunt se
habere rationalem animam
ad hominem, sive ad
orbem humanum et
suas partes, ut
iam dictum est. Dat
ante intelligere hanc
distinctionem Averroys, Physicorum primo, comm.
Ixiii, ubi ait: ' Et
quia coelum caret
hoc subiecto, ideo caret
forma quae substentetur
per hoc subiectum,
et fuit necesse ut
forma eius sit
liberata ab hoc
subiecto, et non
habet constitutionem per corpus
codeste, sed corpus
codeste consti- tuitur per illam,
ut scies alibi
' etc. Ex
quibus apparet aliquam esse
formam subiectum suum
tantum constituens, non
autem per illud constituta,
sicut est de
forma codi et
de anima intel- lectiva in
proposito nostro; alia
vero est forma
constituens su- biectum suum in
esse, ac per
illud ipsa quoque
in esse constituta» Hoc idem
dicitur in vili.
Physicae auscultationis, ex
comm. lii.... Illud idem
etiam et in
capite ii. De
substantia orbis.... Hanc
eandem sententiam possumus sumere
a commentatore iii.
De anima^ comm. V.
et comm. xx,
non minus quam
a Themistio, ibidem
in Paraphrasi sua de
anima. Caeterum quod
ista sit opinio
commenta- toris Averroys, ex
verbis suis intdligi
potest. Ait enim.... Nel
cap. IO, il
Taiapietra riferisce le
obiezioni che a lui facevano gli
altri averroisti, i
quali ritenevano che
per Averroè r intelletto
è separato dall'uomo,
sì che «
intentio fuit commen- tatoris, quod
intellectus possibilis, licet
sit unicus in
omnibus hominibus, non tamen
proprie dat esse,
sed operationem, eo modo
quo dicunt aliqui
intelligentiam uniti coelo,
non dando ei perfectiones
primas, sed tantum
secundas, et hoc
modo anima ipsa intellectiva
unitur homini, secundum
commen- tatorem, mediantibus scilicet
fantasmatibus ». Ed
anzi tutto riferisce cinque
obiezioni ricavatedalle opere
dei vecchi aver- roisti. A queste
ne aggiunge ben
ventisette che gli
movevano i contemporanei, irritati
dal vedere la
dottrina d' Averroè interpretata in
modo così diverso
dal consueto :
« ex modernis autem inveniuntur
quos adeo positio
nostra in via
commen- tatoris fastidit, quod,
ut eam penitus
delerent, omne quasi possibile induci
contra illam attulere
», Nel riferire
questi 27 IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIATIETRA 303 argomenti, egli
usa sempre il
plurale « dicunt
», « volunt
» etc. Ma giunto
alla fine del
capitolo, abbandona il
plurale e addita un
certo dottore contemporaneo
di cui però
non fa il
nome: « Ex his
potissime vult iste
doctor colligere positionem
hanc contradicere
fundamentis Averroys expresse,
ut supra dictum est.
Et fortius et
uberius instetit iste
homo in hac
materia, quam aliquis alter
quem ego unquam
viderim. Et iudicio
meo multum laboravit hic
vir, sed frustra....
». E nel
capitolo successivo, rispondendo a
queste obiezioni, torna
ad accennare a
costui {ad vigesimum septimum)
: «■ Et
certe sum admiratus
de isto homine qui
aliquas tam frivolas
rationes aduxerit ».
Quasi con certezza si
può ritenere che
questo dottore averroista
che inveiva contro quello
che egli riteneva
un travisamento delpensiero d'Averroè,
fosse Marcantonio Zimara?^.
Ad ogni modo è
indubbio che la
controversia non era
tra averroisti e antiaverroisti, ma
tra averroisti e
averroisti, cioè tra
primi cugini, se non
proprio tra fratclh
carnali. Ed erano
maestri dello studio patavino:
«Sed post hos
invenio aliquos qui in
gymnasio publico patavino
se magnos philosophos
faciunt, voluntque per urbem
digito ostendi ac
ab omnibus observari; sed quo
iure non video
» (/&.). Alla
spocchia di questi
« chaco- averroyci expositores
» il Taiapietra
oppone la sua
superba "1^ Cfr. sotto,
p. 340. Marcantonio
Zimara, che nel
1505 de- dicava ad Andrea
Mocenigo, discepolo del
Pomponazzi (v. sopra, p.
289) la Quaestio
de principio individuationis , le
Annotationes in Ioannem Gandavenseni
super Quaestionibits Metaphysicae
e la Quaestio de
triplici causalitate intelligentiae (in
appendice alle Ouaesiiones
di Giov. di Jandun
sulla Metafisica, Venezia,
1505), era quello
che meglio rappresentava l'averroista
combattuto dal Taiapietra
(v. sotto, p.
34 ) sgg.). Non
è tuttavia da
escludere che egli
si riferisse direttamente
al Pomponazzi, che, discutendo
dell' immortalità dell'anima,
nel 1504, aveva combattuta
la dottrina sigieriana
in questi termini
(cfr. Kri- steller, 1.
e, p. gì) : « Alia
est opinio quorundam
se averroistas existi- mantium, qui
dicunt quod anima
ita se habet
ad corpus sicut
forma ad materiam. Vult
autem opinio ista
quod fuerit de
intentione Averrois, animam intellectivam
esse formam dantem
esse ipsi corpori.
Formarum autem dantium esse
aliquae sunt constitutae
in esse per
subiectum et eductae de
potentia subiecti et
insunt ex mutua
dependentia ei; aliae vero
sunt quae nec
sunt constitutae in
esse per subiectum,
nec sunt eductae de
potentia subiecti, nec
insunt ei ex
mutua dependentia, tamen dant
esse ipsi subiecto.
Et talis forma
praesupponit corpus organizatum actu
existens, et [non]
inducitur absque disposinone praevia, sed
praesupponit omnes conditiones
requisitas ». Le
stesse cose nel ms.
napol. Vili. E.
42, f. i84r.
Cfr. « Giorn.
Crit. Filos. Ital.
»,. XXXVII, 1958, p.
346. 304 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI certezza di
essere nel vero : «
Et haec et
tanta dixi, quia
hanc viam ad mentem
commentatoris caeteris subtiliorem
et pro- babiliorem esse
existimo, ac ab
omni contradictione remo- tiorem
» (cap. 11).
E più oltre:
«Et ista est
resoluta doctrina philosophi, et
panis non est
tradendus canibus »
(ib.). Nel mio studio
sulla diffusione del
commento di Simplicio al
De anima e
sulle ripercussioni ch'esso
ebbe nelle contro- versie della fine
del secolo XV e di
quello successivo, ho di-
mostrato che i primi
a trarne profìtto
furono Giovanni Pico della
Mirandola e il
Nifo, e come
l'uno e l'altro,
ma special- mente il secondo,
avessero trovato in
Simplicio una conferma del
loro averroismo di
marca sigieriana 39.
La quale opinione è
condivisa dal nostro,
che nel cap.
XII così scrive: Post
haec omnia invenitur
una alia opinio
quae Simplicio ascri- bitur,
qui ex intellectu
et cogitativa aggregai
animam rationalem, quasi ex
istis compositam, quae,
si recte intelligatur,
ad iiostram opinionem reducitur.
Puto enim quod,
quum ipse fuerit
unus ex bonis Aristotelis
expositoribus (ut omnes
graeci latinique philosophi de
ipso testantur), voluerit
cogitativam realiter di- stingui ab intellectu
; verum quoquo
modo rationalis anima
ex cogitativa et intellectu
componi dicitur, prò
quanto cogitativa omnino habet
introitum in essendo
animam hominis licet
non ulti- mate, et distinguendo
ipsum, ac ipsum
in specie non
ultimate reponendo. Et confirmatur
hoc, quia quae
ad invicem quoquo modo
vel vere componuntur,
ad invicem et
distinguuntur. NTon autem credo
Simplicium tenere cogitativam
et intellectum esse idem
realiter, secundum tamen
gradus distinctos, quoniam
tunc realiter essent plures
intellectus generabiles et
corruptibiles, sicut de cogitativis
evenit. Et hanc
sententiam confirmat Averroys, duodecimo Methaphysicae, comm.
xxxviii, ubi ait:
' Et ex hoc
quidem apparet bene
quod Aristoteles opinatur,
quod forma hominum, in
eo quod sunt
homines, non est
nisi per continua- tionem eorum
cum intellectu qui
declaratur in libro
de anima '. Unde
patet quod Averroys
vult quod differentia
hominis, in- quantum homo, ultimate
sit ab intellectu.
Hoc idem sentit
Aver- roys in Libro destruc.
desiruc, [disp. i],
in solutione dubii
xxxiii, et viii ibidem.
Quare etc... Et sic etiam
verificatur quod intel- lectus is non
est actus corporis,
idest non est
forma educta de potentia
materiae ab agente
scilicet naturali, ut
testatur philo- sophus; ob
id tamen nihil
prohibet quod intellectus
ipse sit actus corporis, idest
forma informans corpus
et dans esse
corpori, ut supra iam
diximus.... Et ex his
habetur haec Simplicii
positio in via peripatheticorum optime
tirmata. 39 Vedansi più
oltre i saggi
XIII e XIV. IL
SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA
305 Indi il giovane
maestro, dopo aver
fatto vedere in
che la tesi d'Averroè
sull' intelletto possibile differisca
dalla dottrina di Temistio
e di Plotino
(cap. 13), e
dopo aver risolte
le obie- zioni degli altri
averroisti e degli
avversari dell'averroismo (capp. 14-18),
torna ad insistere
che la sua
maniera d' inten- dere il pensiero
d'Averroè concorda in
tutto e per
tutto con quanto asserisce
il commentatore di
Cordova e, con
lui, pen- sano i migliori
averroisti, a capo
dei quali è
Sigieri (cap. ig) : Ecce ergo
qvio modo vult
ipse (Avwroes) intellectum,
inquan- tum quidditas,
partiri per materias
informatas dimensionibus et cogitativis;
inquantum vero est
individuum, esse id
per quod individuum hominis
est hoc. Intellectus
ergo, ut habet
esse reale, est forma
suo orbi; ut
autem habet esse
intentionale et univer- sale, est materia
omnium intellectuum separatorum.
Et ista vi- detur
esse plana sententia
Averroys in hoc
quaesito, ut de
mente eius tenent praeclarissimi viri
et maxime, inter
alios, Subgerius, praecipuvis averroysta.
Et iste fuit
discipulus Alberti et
contem- poraneus Thomae, et
qui, in quodam
suo tractatu De
intellecttt adversus Thomam, opinatur,
in via Averro^'S
et philosophi, in- tellectum materialem esse
formam perpetuam ex
utroque latere. Dal modo
come si parla
qui di Sigieri,
è evidente che il
Taiapietra aveva presente
il trattato De
intellectu del Nifo che
era stato stampato
a Venezia nel
1503. Ma mentre
questi s'era già separato
dell'averroismo professato a
Padova nei suoi primi
anni d' insegnamento, il
giovane filosofo veneziano è
ancora perfettamente averroista,
e si direbbe
che dalle opere del
Nifo abbia attinto
soltanto quel che
gli serviva per
cono- scere il pensiero dell'averroista brabantino,
del quale si fa-
ceva difensore e propugnatore
dinanzi al capitolo
generale dei frati minori
a Roma, contro
le argomentazioni del
Nifo stesso ch'egli rintuzza. Il
secondo trattato del
secondo libro ha
per oggetto 1'
« ul- tima prosperitas et
beatitudo », ossia
1' £ÙSai!J.ovia aristotelica, intorno alla
quale dissertarono a
lungo gli averroisti.
Sigieri, a quanto riferisce
il Nifo, ne
aveva parlato in
un libretto De felicitate, ed
aveva sostenuto in
proposito forse le
sue più ardite tesi
40. Per Aristotele
il fine supremo
dell'uomo, in quanto uomo,
consiste nel pieno
appagamento del desiderio
che la 40 Nifo,
De intellectu, II,
tr. 2, e.
17; De beatitudine
animae, II, com- mento 21. Vedasi
il mio Sigieri,
cit., pp. 22-28,
e qui sopra,
pp. 215-16. 20 306 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI mente ha
di sapere, cioè
di conoscere la
realtà, non solo
nelle sue manifestazioni contingenti,
ma nelle sue
cause e ragioni eterne. Occorre
quindi che la
mente risalga, al
di là del
mondo sensibile e di
quel che nasce
e muore, all'eterno
e immuta- bile, al mondo
metafisico, al cui
centro è il
principio di ogni intelligibilità e
il fine ultimo
cui le cose
tutte tendono. Ma può
r intelligenza umana,
legata com' è
alla sfera della
sensibilità, giungere a conoscere
in se stessa
la pura realtà
ideale di Dio e
delle intelligenze motrici
intorno a lui
? Aristotele non dà
una soluzione chiara
di questo problema;
e perciò i
suoi com- mentatori greci ed
arabi l'avevano cercata
nel pensiero pla- tonico e
neoplatonico, elaborando quella
tipica dottrina della copiilatio della
mente umana con l'
intelletto agente, della quale
si fece un
necessario complemento dell'etica
aristote- lica. Se r intelletto
umano non fosse
capace d' innalzarsi a conoscere
in se stesse
le sostanze separate,
aveva detto Averroè nel
commento i al
secondo della Metafisica,
il desi- derio umano di
conoscere la verità
sarebbe vano, ed
inutile sarebbe l'esistenza di
tali sostanze che
noi non potremmo mai
arrivare a conoscere
nella loro vera
natura. È certo
in- teressante veder posto il
desiderio umano di
conoscere a fondamento dei
nostri giudizi intorno
alla realtà. Ma
a ciò non badarono
i pensatori medievali.
I quali si
sforzarono piut- tosto d'
intendere come la
conseguenza fosse dedotta
dalle premesse, contro S.
Tommaso che negava
la legittimità di questa
deduzione 4'. In
che modo giustificasse
la legittimità della deduzione
Sigieri, è fatto
conoscere dal Nifo,
al quale s' ispira anche
questa volta il
giovane patrizio veneziano
nel riecheggiare che fa
la dottrina sigieriana: Onod si
foret hominibus omnino
impossibile (conoscere in se stesse le
sostanze separate e
Dio)..., tane natura
ociose egisset; fecisset enim
id, qnod est in se
naturaliter intellectum, non
com- prehensum ab aliquo,
et sic esset
frustra, quemadmodum si fe-
cisset solem non comprehensum
ab aliquo visu.
Hanc sequellam diversi diversimode
deducunt; quidam enim
eam sic deducere consueverant. Supposito
primo quod omnis
intellectio, conve- niens intellectui
possibili, non conveniat
quin etiam homini competat, hoc
expresse sensit philosophus,
primo De anima, Lxiiii, quicquid
dicant alii; hoc
quippe supposito negato,
aufertur omnis via commentatori
ad probandum coelum
intelligere; quare 41 S. Tommaso, In
Metaphys., II, lect.
i. IL
SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA
307 si possibile est
substantias separatas intelligi
ab intellectu possibili, possibile est
quoque substantias separatas
intelligi ab hoc
homine. Quo stante, tunc
arguunt sic. Quandocumque
aliqua reperitur forma apta
non recipi in
maximo receptivo alicuius
generis, illa eadem non
est receptibilis in
minus receptivo eivisdem
generis. Sed intellectus
possibilis in genere
intelligentiarum est maxime receptivus, ut
constat iii. De anima
42. Igitur si
primam formam non est
possibile intellectum possibilem
recipere, ncque etiam est
possibile alium intellectum
primam ipsam recipere
formam. Unde omnes frustrarentur
intelligentiae mediae ab
hoc scilicet line, qui
est deum gloriosum
et sublimem intelligere.
\'erum quandocumque
intellectus abstractus non
potest intelligere su- periora, ipse non
potest intelligere inferiora;
sed nulla intelli- gentia media
potest primam intelligere,
ut iam deductum
est; igitur nulla intelligentia
media potest et
intelligentiam mediam intelligere ;
sed neque deus
" potest intelligentias medias
intelli- gere, ut Divinovum xii,
de mente Averroys
43 concluditur. Et neque
intellectus noster possibilis,
ut fatentur adversarii,
eas intelligere potest. Igitur
intellectus possibilis, naturaliter
in se intelligibilis, non
est ab aliquo
comprehensus; sic patet
ociositas maxima in natura.
Ex quo habetur
quod, nisi abstracta
intelli- gerentur a nobis,
essent utique ociosa.
Et haec fuit
deductio Subgerii 44, viri
in familia averroyca
non obscuri (Lib.
II, tr. 2, e.
3)- Ma il Taiapietra
sa che non
tutti gli averroisti
convengono nel modo di
argomentare di Sigieri;
dal quale dissente
in parti- colare Giovanni
di Jandun: Alii autem,
ut Ioannes Gandavensis
in Quaestionihus suis
de anima, quaestione trigesima
septima 45, aliter
deducunt. Et ipsi accipiunt primo
quod substantiae separatae
comparantur ad in- tellectum nostrum ut
formae natae intelligi;
intellectus vero noster comparatur
eis ut subiectum
natum recipere illas
comprehen- sive et spiritu aliter; quod
ex verbis Averro3^s
multis viis probari potest. Primo,
namque intellectus possibilis
ultimus est abstracto- rum; sed
semper infìmus intellectus
est materia superioris,
infima enim intelligentia perficitur
a superiori sicut
materia perficitur a forma,
ut dicunt philosophi.
Et confirmatur: quoniam
vilius est potentia respectu
nobilis, et nobile
est tanquam actus
respectu vilis; igitur, quemadmodum
substantiae separatae sunt
natae ntelligi secundum earum
naturas, ita noster
intellectus est natus 42
Arist., De anima,
III, t. e.
5 (e. 4,
^zgz, 21-24) e
14 (429b 30sgg.). 43
Poiché secondo Averroè,
Metaphys., XII, comm.
51, Dio conosce soltanto se
stesso e non
le cose inferiori
a sé. 44 Cfr.
NiFO, De intell.,
II, tr. 2, e. 11;
De beat, an.,
I, comm. 53. 45 O
meglio, « trigesima
sexta ». Ma
anche questa svista
è nel Nifo, De
intell., 1. e. 3o8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI perfici ab eis
secundum suani naturain.
Amplius, intellectus
pos- sibilis est materia
omnium abstractorum et
omnium intelligi- bilium; sed.
materia non corruptibilis
ab ipsis formis
est apta et potens
suscipere omnes formas;
intellectus igitur noster
potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur
prò constanti, quod intelligentiae sint
potentes intelligi ab
intellectu nostro potentia quidem
naturali; et similiter
intellectus noster potest intelligere illas
potentia naturali, sicut
et ipsa materia
potentia naturali potest omnes
suscipere formas. Quo
stante, arguit modo Ioannessic: intellectus
possibilis, corpori continuus,
est receptivus et passivus
intellectionis abstractarum [intelligentiarum] ; ergo
habet naturalem potentiam
recipiendi intellectiones earum,
per earum scilicet essentias;
ergo, si aliquando
per cognitionem non
at- tinget eas, tunc
natura egisset ociose,
quoniam fecisset illam
poten- tiam naturalem
intellectus nostri ad
illas capessendas, quae tamen
in actum nunquam
adduceretur. Et quod
haec sit Aver- roys
ratio, declarat ibidem
Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo
Ioannes deducit illam
sequellam, exponendo totam potentiam intelligendi
ex parte nostri
intellectus, et non
ex parte intelligentiarum, ut
fecit Subgerius, qui
totam intelligendi po- tentiam
ad substantias separatas
convertit {ib.). La stretta
dipendenza dell'averroista veneziano
dal Nife, si rivela
oltre che dai
testi citati, anche
da un particolare
ca- ratteristico, là dove s'accenna
(cap, 5) a
quell'esposizione del pensiero averroistico
che « veriores
averroyci.... exceperunt a filio
Averroys in tractatu
suo De intellectu
» 46. Ma comunque
interpretata, la dottrina
averroistica sulla « copulatio
» e sulla
« felicitas Averroistarum
», di cui
era solito beffarsi il
Perette, è evidentemente
contraria all' in- segnamento teologico. Perciò
il Taiapietra s'affretta
ad ag- giungere : Verum quicquid
dicatur principiis innitendo
naturalibus ad mentem philosophi
et commentatoris, nihilominus
secundum veram theologorum sententiam
dicimus nullam generi
humano in hac vita
contingere posse foelicitatem
et beatitudinem, sed
illam ei servari post
mortem in alio
statu. Viatori enim
non potest 46 NiFO,
De intell., I,
tr. 4, e.
12: «Amplius, filius
Averroys in tractatu de
intellectu»; II, tr.
2, e. 5:
« Declaravit has
tres demonstrationes filius Averroys
in tractatu de
intellectu», cfr. ib.,
e. ii; a anche nei Collectanea III,
ad t. e. 36: «et
hanc domonstrationem dedit
Alpheeh Averroys filius in
tractatu quem edidit
ad instantiam patris,
et eam multum laudavit
»; e più
oltre: « et
si inspicies librum
Alpheeh Averrois filij »;
e ancora più
giù: « Et
in commentariis, quos
scripsi in libro
feli- citatis Averroys et
eius filii ». IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 309 inesse foelicitas
nisi in patria,
nec etiam abstracta
ab eo cognosci possunt cognitione
matutina, sed tantum
vespertina, ut sacri nostri
recte sentiunt theologi
(cap. 5). Con siffatta
dichiarazione, egli ha
ottenuto il duplice
scopo, di rassicurare i
teologi sulle proprie
intenzioni, e di
poter di- scutere con tutta
libertà intorno al
vero pensiero del
filosofo e del commentatore.
E di questa
libertà, procacciata a
prezzo di quella dichiarazione, approfitta
nel modo piìi
ampio, atte- nendosi al famoso
commento 36 del
terzo libro del
De anima. Anzi tutto,
coll'esporre e criticare
la dottrina di
Alessandro intorno al modo
come l' intelletto umano
giunge ad unirsi con
r intelletto agente,
che per l'Afrodisio
è Dio (capp.
6-11), e quella di
Avenpace e di
Temistio (capp, 12-14);
poi con lo spiegare
e difendere la
tesi che ad
essi oppone Averroè,
« qui inter omnes
philosophos post Aristotelem
perfectior fuit et subtilior
» (cap. 15).
Nei capp. 17
e 18 il
Taiapietra combatte r interpretazione che
del pensiero d'Averroè
dava Giovanni di Jandun,
il quale «
opinatus est quod
foelicitas nostra con- sistat
in actu sapientiali,
et sit sapientia
quae habetur Divi- normn
xii, a textu
commenti xxix usque
in finem ».
Come si vede la
fehcità in siffatta
teoria era a
portata di mano:
per quanto astrusa, la
Metafisica aristotelica non
è poi inintelli- gibile, e sopra
tutto abbastanza facile
a capire è
la parte del XII
libro che parla
appunto delle sostanze
separate che muo- vono i
cieli, e della
pura mente di
Dio. Ma il
possesso delle scienze speculative
non basta alla
suprema felicità dell'
in- telletto umano, occorre l' inerenza
formale del primo
vero nella mente umana,
la cui potenza
resti così tutta
attuata. Il possesso delle
scienze speculative è
condizione per giungere a
questa beatitudine dell'
intelletto, non il
fine ultimo cui aspira
la mente umana,
che riposa solo
nel possesso del
vero eterno « fuor
del qual nessun
vero si spazia
». Ora a
questo possesso s'arriva soltanto
con la coptilatio
o continiiatio del- l' intelletto possibile
con l' intelletto agente,
sì che la
poten- zialità del primo sia
tutta sommersa e
assorbita nell'attualità del secondo
: Ipse (commentator) , commento
xxxvi (3ÌÌ De
anima) totiens allegato, inquit
quod in adeptione
illa nos intelligimus
omnia et sumus sicut
dii, et quod
ille modus intelligendi
non -currit cursu scientiarum cogitativarum, quae
habentur per discursum, sed 3IO l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI est per
substantiam intellectus agentis,
in quo omnia
intuitive cognoscimus.
Convincitur ergo ad
intentionem commentatoris, quod ea
in cognitione intuitiva
nos utique foelicitamur;
non autem in illa
quae in Metaphysica
per demonstrationem habetur {ib., cap.
i8). Del tutto aderente
all' interpretazione sigieriana
del pen- siero d'Averroè, quale
ci è nota
per l'esposizione che
ne fa il Nifo
47 e che
concorda con quanto
pensava Alessandro Achil- lini
48, è anche
l' interpretazione che della
« vera dottrina
» del commentatore ci
dà il Taiapietra: Superest modo
circa ambiguitatem hanc
magni commenta- toris
afferre sententiam, quam
omnes viri sublimes
in philosophia ac in
secta averroyca primarii
nobiscum integre et
perfecte sen- tiunt. Opinamur
enim itaque foelicitatem
esse deum. Nam
as- sumpta foelicitatis diffinitione
prò maiori, tunc
si addatur haec minor,
videlicet: sed deus
est ultimus finis,
optimus, propter se eligibilis,
ad nullum aliud
ordinabilis, cuius gratia
omnia eli- guntur, bonus
et perfectus, pulcherrimus,
delectabilissimus, per se sufficiens,
honorabilis, principium et
causa omnium bonorum; ex
his ergo optime
convincitur, quod deus
est foelicitas. Foeli- citas
enim, quia rationem
totius boni amplectitur,
omnem quietat voluntatem; quia
vero rationem totius
entis continet, universum saciat intellectum.
Sed
in nullo nisi
in deo verius
reperiuntur ratio totius boni
et totius entis.
Ergo etc 49.
Et hoc forte,
et sine forte, balbutiendo
intellexerunt vetustiores ; nec valet
quod dicunt quidam moderniores,
quod bene concluditur
deum esse foelicitatem simpliciter,
sed non homini
propriam.... Sed profecto hoc
nihil est, ut
piane ostendimus in
superiori capite: hanc
enim conclusionem habent Averroes
et Aristoteles expresse,
x. Nicho- machiae, capite
vii, scilicet quod
deus est foelicitas
sibi et aliis intelligentiis et
etiam homini 5°.
Solum enim ipse
est perfectis- siinum intelligibile
et appetibile propter
se; in eo
enim eminenter reperitur ratio
obiecti intellectus et
voluntatis, immo solum
ipse est eminenter omnia
bona continens. Et
confirmatur, quoniam id quo
foelicitantur dii omnes
est suprema hominis
et omnium foelici- tas; sed deus
est quo omnes
foelicitantur; omnes enim
intellectus foelicitantur
intelligendo deum; sed
intellectio qua ipse
deus intelligitur est ipse
deus; igitur omnia
deo foelicitantur. Et haec ratio tota
est philosophi, x.
Nichomachiae, cap. x. Quare conclu- ditur
quod deus, ipse
formaliter est foelicitas.
Amplius, quo foe- 47
Cfr. il mio
Sigieri, p. 24. 48
V. sopra, pp.
213-215. 49 Alla lettera
dal Nifo, De
intellectu, II, tr.
2, e. 2. 50
Allude forse al
passo àeWEtìi. Nicom.,
X, e. 7,
ii77b 30-32, forse meglio
al cap. 8,
ii78b 21-32, e
al cap. 9,
ii79a 23-32. IL SIGIERIANO GERONIMO
TAIAPIETRA 3II licitatur deus,
foelicitantur et alii
omnes intellectus, ut
expressa est sententia philosophi,
Divinorum xii, et
praecipue commen- tatoris, ibi,
comm. xxxviii. Sed
deus non foelicitatur
nisi dee, ut inquit
vii. Politicoruni :
' deus foelix
quidem est et
beatus, propter nullum autem
extrinsecorum bonorum, sed
propter seipsum ipse'51. Deo, ergo,
nedum homo, sed
omnia foelicitantur. Sed nihil
foelicitatur nisi foelicitate.
Deus igitur ipsa
est foelicitas. Et ex
hiis verifìcantur omnia
verba Aristotelis in
toto libro Ethi- coriim,
ubi de foelicitate
sermonem habet (cap.
ig). Giunto alla fine
del secondo trattato,
il giovane filosofo, rendendosi ben
conto che siffatta
felicità è irraggiungibile al- l'uomo in
questa vita, torna
ad avvertire il
lettore che tutto quello
che abbiamo udito
da lui su
questo argomento, ad
altro non mirava se
non a chiarire
qual è in
proposito il vero
pen- siero d'Aristotele e
d'Averroè: Hoc enim, in
explanandis auctoribus, expositoris
officium esse consuevit, ita
quod, quid ipse
velit auctor, et
determinet et ad verbum
interpretetur, etiam si
illud falsum sit,
ut auctorum integrae et
non manchae, fideles
et non depravatae
sententiae circa quaeque apud
omnes recipiantur5-. His
autem sacri nostri 51
Poi. (ediz. Immisch.
Leipzig, Teubner, 1929),
VII, e. i,
i323b 24 sgg. 52 Così
anche il Nifo
nella lettera all'
inquisitore Nicolò Grassetto, della quale
è stato fatto
cenno sopra p.
285, nota 12
: «in exponendis
enim auctoribus,
commentatoris officium solet
esse, quid ipse
auctor velit ac sentiat,
etiam si id
interdum minime verum
sit, interpretari ». Di questo che
è non solo
diritto ma dovere
di ogni interprete
onesto, si valsero tutti
gli averroisti per
esporre con la
massima libertà il
pensiero d'Ari- stotele e dei
suoi interpreti. Ma il Nifo,
per entrare nelle
buone grazie dell'inquisitore, aggiunge:
« Itaque ut in illis
quae ad philosophiam pertinebant, philosophi
ac interpretis munere
functi, ipsum auctorem exposuimus; ita
in his quae
fidei catholicae contraria
erant, ultra expo- sitoris terminos evagati
(quemadmodum hominem christianum
decebat), ipsi auctori contradicimus
eiusque opiniones ac
dieta omnia theolo- gorum
nostrorum auxilio confutavimus
» (quello che
il Taiapietra e in generale gli
averroisti non fanno).
Del che l'inquisitore
gli dà atto: « placetque mihi
quod in philosophia,
christianae fidei non
immemor, in plurimis philosophos
redargueris, nihilque in
toto opere invenerim quod castigatione
dignum censeam » (in fine
del volume che
contiene il commento del
Nifo alla Desfritctio
e il De
sensu agente, nell'ediz.
ve- neziana del 1497). Di
questo zelo nel
redarguire e confutare
le dottrine dei filosofi
ancora di più
che nel commento
alla Destriictio, il
Nifo fa mostra nel
De intellectit, riveduto
e corretto per
l'edizione del 1503, ove
è evidente il
proposito di rifarsi
una verginità filosofica
antiaver- roistica,
adoprandosi a far
credere che il
suo distacco dall'averroismo risalga al
1492 e preceda
quello del suo
maestro Nicoletto Vernia: «
Hec sunt que
preceptor defendit ad
mentem Platonis et
Aristotelis 312
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI theologi iuxta christianam
nostrani religionem multa
addunt, quae nos ex
testimonio prophetarum credimus;
et ideo ea
tantum asserta esse volumus,
non quaerentes ad
liaec aliquam rationem, sed
quantum ortodoxa ecclesia
praecipit, procul dubio
asseveramus. Itaque, ut philosophum
decet ac peripatheticum hoc
in tractatu quae ad
philosophiam pertinebant, more
phisici interpretis, declaravimus, ubi
non parum boni
fecisse arbitramur, quum multa
in naturali philosophia
obscura et latentia
iuxta senten- tiam philosophi
et eius magni
commentatoris Averroys in
lucem ediderimus et ea
bene dispositis aperte
propalavimus (cap. 21). A
questo secondo trattato
ne seguono altri
quattro, concer- nenti
rispettivamente quattro argomenti
di filosofia naturale fieramente controversi
tra gli aristotelici
delle varie tendenze, e
cioè : «
Utrum nec ne
apud philosophum plures
substantiales formae ad invicem
realiter distinctae in
substantiali composito sint ponendae
» (tr. Ili)
; « Utrum
ad intentionem philosophi dementa remaneant
formaliter in mixto
» (tr. IV)
; « Utrum simplex
elementum alterari possit
et a se
» (tr. V)
; « De
quo- rumcunque simplicium sive
mixtorum primo ac
proprie dicto elemento »
(tr. VI) ;
e su tutti
e quattro questi
argomenti il Taiapietra difende
con risolutezza ed
energia la dottrina d'Averroè come
quella che combacia
perfettamente coli' in- segnamento di «
quello glorioso filosofo
al quale la
natura più aperse li
suoi segreti», come
pensava Dante 53. Ma
di sif- fatti argomenti il
nostro palato, che ha assaporato
Hume e Kant, non
ha più il
gusto, che non
hanno perduto invece
i neotomisti, ai quali
è giusto che
queste pagine siano
segnalate. Tale il programma
che l'allievo dei
maestri padovani aveva preparato per
la solenne disputa
romana del 6
giugno 1506. A parte
l'accenno abbastanza vago
che Marin Sanudo
fa del- l'obiezione del cardinal
Gabrielli ad una
delle tesi sostenute dal
dottorando, perché «
l'era ereticha »,
non sappiamo a quali
altri assalti dovette
tener testa il
giovane averroista veneziano; sappiamo
soltanto che egli
giostrò da bravo
e che il giorno
appresso « il
papa lo dotoroe
». O tempora
! in eo libello
quem inscripsit De
animorum pluralitate, quem
confecit compluribus annis post
nostrum De intellectti
librum » (Nifo,
De anima, edizione del
1522, comm. al t. 5
verso la fine).
Eppure il Nifo
sapeva bene che il
Vernia, nella dedica
dell'opera al card.
Domenico Grimani, aveva dichiarato
di avere scritto
anch'egli il suo
trattato nel 1492. Cfr.
sopra, p. 108. 53
Conv., Ili, V.
7. XI UN' IMPORTANTE NOTIZIA
SU SCRITTI DI SIGIERI
A BOLOGNA E
A PADOVA ALLA FINE
DEL SEC. XV * Nel volume
su Sigieri di
Brabante nel pensiero
del Rinasci- mento italiano, ebbi
a riunire alcune
importanti testimonianze intorno a
due e forse
tre scritti dell'averroista brabantino,
che si leggevano ancora
a Bologna e
a Padova alla
fine del se- colo XV.
Queste testimonianze si
trovano per la
massima parte nel De
intellectn et daemonibiis
di Agostino Nifo,
il quale pre- tende d'avere scritto
quest'opera a Padova
nel 1492, quando già
s'era distaccato dall'averroismo sigieriano
cui egli aveva prima
aderito. E pare
che in quegli
anni, se non
proprio nel 1492, prima
certo del 1497,
egli avesse scritto
davvero una Quaestio de
intellectu in senso
sigieriano, e che
in seguito, fra il
1496-98, per evitare
la taccia di
eresia e guai
maggiori, rielaborasse
quella Quaestio, sino
a farne il
trattato De in- tellectu, stampato per
la prima volta
nel 1503, e
dedicato a Sebastiano Badoèr
morto appunto nel
1498: che di
edizioni anteriori non esistono
tracce (cfr. sopra,
p. 286). In
tal mo- do il Nifo
cercava di far
credere che egli
aveva preceduto il suo
maestro Nicoletto Vernia
nell'abbandono dell'averroismo (cfr. sopra,
p. 311, n.
52). Nel De intellectu
e nel commento
al De animae
beatitudine di Averroè, il
Nifo si riferiva
a due opere
di Sigieri o,
com'egU scriveva, « Sugerius
», « Suggerius
», « Subgerius,
vir gravis, secte Averro3^stice
fautor, etate Expositoris
[cioè di S.
Tom- maso] , discipulus Alberti
», « Subgerius
contemporaneus Tho- me ».
Queste due opere
sono un «
tractatus de intellectu, * Dal
«Giorh. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXV, 1956, pp.
204-209. 314
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tertio loco inscriptus,
qui fuit missus
Thome, prò responsione ad tractatum
suum contra Averroim
», e un
« liber de feli-
citate » che pare
identico col «
tractatus intelligentiarum et beatitudinis »,
ricordato dallo stesso
Nifo nei suoi
Colledanea sul De anima,
nell'edizione veneziana del
1503 e in
quella del 1522, nelle
quali « Subgerius
» è diventato
« Subiegius » (si
vedano le citazioni
nel mio volume,
pp. 18-30). Ma
nel suo trattatello De
primi motoris infinitate,
portato a termine
nel 1504, quando da
cinque anni aveva
lasciato Padova, il
Nifo sembra attribuire a
Sigieri un terzo
trattato « de
motore primo et materia
celi» (cfr. il mio voi.
cit. p. 41). L'espressione «
in tractatu suo de intellectu,
tertio loco inscripto »
potrebbe intendersi di un volume
di scritti sigie- riani,
ove il «
tractatus de intellectu
» si trovasse
trascritto al terzo posto
fra altre opere
dell'averroista belga. Delle varie
dottrine attribuite a
questo Sugerius o
Subgerius dal Nifo, due
giova qui ricordare:
quella che tende
a mettere in evidenza
il procedimento deduttivo
onde Averroè aveva concluso che,
se l' intelletto umano
non potesse intendere
le sostanze separate, queste
sarebbero inutili {ociosae.
Cfr, sopra, pp. 215-16)
; e l'altra
che afferma che
ogni intelligenza in- feriore «
intelligit sviperiorem per
essentiam superioris »,
ossia in quanto l' intelligenza superiore
l' informa di sé
intenzio- nalmente e
s'unisce ad essa
(v. sopra, pp.
195-198). Orbene: quanto alla
prima di queste
due tesi, sappiamo che
il domenicano Francesco
Silvestri da Ferrara,
nel suo commento alla
somma Contra gentiles
(III, cap. 45,
n. 5), l'attribuisce a
« Rugerius in
tractatu suo de
intellectu, misso Beato Thomae
prò responsione ad
tractatum suum contra Averroistas ».
In un primo
momento, avevo pensato
(vedasi il mio voi.
cit., p. 23)
che il Silvestri
dipendesse dal Nifo
e che « Rugerius
» fosse un
errore di stampa
per « Sugerius
». Però avevo aggiunto
: « ma
può darsi che
egli citi da un mano- scritto in cui
il nome di
Sugerus. era già
stato mutato in Rtigerius. Qualche luce
viene ora a
gettare su questa,
che non è
affatto una quisquiglia, l' importante
notizia nella quale
mi sono imbattuto scorrendo
il codice Marciano
(Lat., CI. VI,
271 = 2882), che
contiene le Annotationes
in jo UJjro
de anima lectae in
hoc anno qui
fuit 1521, die
vero iovis quae
fuit 2^ mensis ianuarij, ah
excellentissimo ac celeberrimo
domifio Ioanne de SCRITTI
DI SIGIERl ALLA
FINE DEL SEC.
XV 3I5 Mofìtedocha hyspano,
unum (sic) trium
sui temporis philoso- phoriim peritissimo,
trascritte fra il
1523 e il
1524 dal padovano Aurelio Tedoldi,
dottore nelle arti,
« ad laudem
dei — dic'egli
— et meae amicae
quam maxime amo
» (f. 256 v)
! i. Giovanni Montesdoch,
spagnolo, aveva studiato
a Bologna, e nello
studio bolognese aveva
insegnato filosofia naturale
in concorrenza col Pomponazzi
fino all'anno scolastico
1514-15, e per alcuni
anni aveva letto
anche la Metafisica.
Ma in seguito a
contrasti che ritengo
egli avesse col
Pomponazzi -, lasciò Bologna e
andò a insegnare
a Roma. Da
Roma appunto, per un
ingaggio vantaggioso propostogli
dall'ambasciatore veneto
Marco Minio, passò
a insegnare filosofia
naturale a Padova, verso
la fine del
1520, o i
primi di gennaio
dello stesso anno 1520
(secondo lo stile
veneziano; quindi 1521),
iniziando il corso delle
lezioni con la
lettura del commento
averroistico al De anima.
Nella lez. 43^,
sul t. e-.
14 del terzo
libro, egli venne a
porsi appunto il
dibattuto problema, come
un' intel- ligenza inferiore conosca
le intelligenze superiori
ad essa. Dopo aver
riferite varie opinioni,
egli accennava a
quella « moderna »
sostenuta dall'Achillini, che l'
intelligenza in- feriore conosce quella
superiore « per
essentiam superioris ». Siffatta
tesi, osservava il
Montesdoch, può dirsi
« moderna » solo
in quanto alcuni
moderni, come l'Achillini,
se la sono appropriata. Ma
prima di loro
e' è stato
Ruggiero : 1 Cosi
anche nel Marciano
lat., CI. VI,
273 = 2884,
che contiene le lezioni
dello stesso Montesdoch
sul primo e
il secondo della
Fisica, del 1523-24, il
Tedoldi che le
stava trascrivendo nel
1526, interrompe la 16*
lez. sul secondo
libro, con questa
informazione autobiografica (f. 365r)
: « Et
sic sit finis
huius lecturae nostrae
prò praesenti anno
1522, quae fuit die
mercuri] 8^ mensis
augusti et hora
ii'^ ad laudem
dei et beatae mariae
[atque amicae meae
quam maxime amo,
quia hodie] hora 19^
[habui eam in
brachiis meis.... 1».
Le parole tra
parentesi quadrate son coperte
d' inchiostro e solo
alcune appena leggibili.
Sotto è un quadrato
che doveva contenere
un motto o
un piccolo disegno.
Ma anch'esso è stato
coperto d' inchiostro nero.
E alla fine
della lezione 66» sul
primo libro del
De caelo, commentato
dal Montesdoch nel
1522 (Cod. Marciano lat.,
CI. VI, 272
= 2883), il
Tedoldi, che la
stava co- piando nella primavera
del 1524, annota
(f. 272V) :
« Sed quia hora est nimis
tarda, et quia
maxime crucior amore
meae amicae, ideo
valde fessus cogor non
amplius scribere ». 2
Tanto che, lasciata
Bologna da un
pezzo, il Montesdoch
conservava ancora del Peretto
un ricordo disgustoso.
Nel commento infatti
al proemio della Fisica
(lez. 6*, f.
i6r) fa menzione
di lui come
« nimis monstruosus »,
e troppo grossolani
ne dichiara i
ragionamenti: « dicit rationes nimis
grossas ». 3l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Alia positio
et opinio est
quae est opinio
non moderna, dato quod
moderni eam sibi
tribuant. Sed ante
eos fuit Rogerius; fuit magnus
vir, cuius opera
non habentur impressa,
nec vidi ea nisi
in bibliotheca sanati
dominici de bononia,
et ea etiam vidi
romae in sanato
Ioanne de viridario.
Fuit etiam opinio
Ioannis de ripa; tamen
Alexander Achillinus sibi
eam tribuit, quomodo
2^ intelligentia intelligat primam
(Ms. Maraiano cit.,
f. 138V) 3. Che
questo « Rogerius
» sia il
« Sugerius »
o « Subgerius
» di cui parla
il Nife non
v' è dubbio.
Ma l' importanza di
questa informazione del Montesdoch
consiste nell' averci egli
indicato dove aveva visto
le opere di
questo « Rogerius
» sostenitore della dottrina
che l'Achillini spacciava
per sua. Queste
opere non ancora stampate,
bensì manoscritte, erano
state viste da lui
a Bologna, nella
biblioteca del convento
domenicano di S. Domenico,
e dipoi a
Padova, nella biblioteca
del mona- stero di S.
Giovanni in Verdara
dei Canonici Lateranensi. Veramente nel
ms. Marciano si
legge : «
et ea etiam
vidi romae in sancto
Ioanne de viridario
w ; ma
è evidente che
al posto di «
romae » deve
leggersi « paduae
» (supponendo che
il nome di Padova
fosse scritto con l'
iniziale maiuscola, l'errore
di let- tura si spiega
facilmente) ; a meno che
non debba leggersi «
romae [et] in
sancto Ioanne de
viridario ». Quanto al
codice veduto a S. Domenico
di Bologna, par- rebbe trattarsi di
quello usato da
Francesco Silvestri che, come
abbiamo visto, ne
ritenne autore, anch'egli,
« Rogerius», che si
ha ragione di
ritenere identico a
« Sugerius ».
Questo codice non figura
affatto nei cataloghi
di S. Domenico
pubbli- cati dal p. M.-H.
Laurent [Fabio Vigili
et les hibliothèques
de Bologne au début
du xvie siede
d'après le ms.
Barb. latin 3185, 3
E nella lez.
30^ (f. q^v)
lo stesso Montesdoch
aveva detto: «Una est
opinio Ioannis de
ripa, cuius opera
sunt bononiae in
conventu sancti lacobi, qui
est fratrum Eremitarum.
Et ipse bene
intellexit opinionem averrois in
hoc loco, sicut
aliquis alius.... Omnia
autem [ab] Ioanne
de ripa accepit Alexander
Achilinus ». Come risulta
dall'opera del p. Laurent,
citata più oltre,
il commento al
primo delle Sentenze,
cui qui si allude,
era posseduto non
solo dalla biblioteca
del convento di
S. Gia- como (p. 132,
nn. 77 e
79), ma altresì
da quella di S. Domenico
(p. 27, n. 92)
e da quella
di S. Francesco
(p. no, n.
21). In questo
scritto (quaest. 2) non
solo Giovanni da
Ripatransone si dilunga
in ben quattro articoli sul
tema qui accennato,
ma ci offre
un'ampia esposizione del suo
modo d' intendere la
dottrina averroistica sulle
intelligenze sepa- rate e suir
intelletto umano, molto
vicina e spesso
identica a quella di
Sigieri. SCRITTI DI SIGIERI
ALLA FINE DEL
SEC. XV 317 in
«Studi e Testi»,
105. Città del
Vaticano, 1943). Dove è an- dato a
finire e come
è scomparso ?
Siccome esso fu
visto dal Silvestri, che
nel 1516, proprio
a Bologna nel
convento di S. Domenico,
aveva portato a
termine il suo
commento alla somma Cantra
gentiles, e dal
Montesdoch, si può
pensare che esso sia
stato fatto sparire
come opera d'averroista
inviso ai domenicani, che
l'averroismo ritenevano una
pericolosa eresia, a differenza
di altri, per
esempio degh eremitani
e dei carme- litani, assai meno
ligi al tomismo.
Tanto più che
nel 1494 Alessandro Achillini,
come ricorda il
Montesdoch, aveva fatte sue
le dottrine dell'averroista brabantino,
pur evitando di nominarlo,
nella pubblica disputa
tenuta al capitolo
generale dei frati minori,
nella primavera avanzata
di quell'anno (v. sopra,
pp. 195-98) 4. Quanto
all'esemplare che il
Montesdoch dichiara d'aver visto
nella biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara, a Padova, ho
avuto il sospetto
che esso potesse
essere una copia
di quello di Bologna,
ordinata da Giovanni
Marcanova, negli anni
che questi insegnava a
Bologna, e quindi
passata al monastero
di Verdara insieme alla
biblioteca di lui.
Ma dallo studio
di L. Si- ghinolfi,
che della biblioteca
del Marcanova ha
pubblicato r inventario (nei
« Collectanea variae
doctrinae » in
onore di Leone S.
Olschki, Monaco di
Baviera, 1921, pp.
187-222), non risulta. Questo
per altro non
vorrebbe dir molto,
perché spesso r inventario
è assai generico
e contiene non
pochi nu- meri di opere
anonime, fra le
quali potevano ben
trovarsi incastrate quelle di
Sigieri. Al notaio
premeva più di
elencare il numero dei
volumi che non
il loro effettivo
contenuto, con- tentandosi
d'un' ispezione molto
superficiale, che spesso rende difficile
riconoscere l'esatta natura
di opere appena accennate con
titoli piuttosto vaghi,
anche senza contare
i non pochi errori
di trascrizione commessi
dal Sighinolfi. Si potrebbe
pensare, è vero,
che gli scritti
di Sigieri fossero entrati per
altra via che
non fosse quella
del legato testamen- tario del Marcanova.
Ma è sicuro
che essi non
figurano nel- l'elenco che il
Tomasini redasse dei
manoscritti di Verdara nelle
Bibliothecae Patavinae maniiscriptae
puhlicae et privatae 4
Ma potrebbe anche
darsi che l'opera
di Sigieri restasse
scono- sciuta o fosse dimenticata
dal Vigili, poiché
il suo catalogo
è lungi dall'essere completo. 3l8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI (Udine, 1639),
^ nemmeno in
quello manoscritto della
Marciana (Ital., ci. XI,
323 = 7107);
sì che bisogna
rassegnarsi a pen- sare che, già
prima del secolo
XVII, gli scritti
di Sigieri fos- sero ormai spariti
anche dalla biblioteca
dei Canonici regolari Lateranensi di
Padova. In questa biblioteca,
ch'era assai ricca,
non mancavano com- menti ad
Aristotele e trattazioni
concepiti, queste e
quelli, secondo lo spirito
averroistico. V'era, fra
l'altro, l'ampia esposizione del
servita Urbano Averroista
sul commento d'Averroè alla
Fisica, che il
Marcano va aveva
fatto copiare a sue
spese a Bologna,
nel 1456, in
due grossi volumi
corretti e postillati di
sua mano. Quando,
nel 1492, a
Venezia, l'opera d' Urbano
fu data alle
stampe su un
vecchio codice bolognese per
volontà del priore
generale dei Serviti,
Antonio Alabanti, dietro suggerimento
di Nicoletto Vernia,
questi s'accorse e fece
notare che il
codice trovato dall 'Alabanti conteneva
la stessa esposizione alla
Fisica, che nella
copia di S.
Giovanni in Verdara era
attribuita al Marcanova
(cfr. sopra pp.
103-104). Ma l'osservazione del
Vernia passò inosservata;
e anche quan- do dal
monastero padovano il
codice passò alla
Marciana, nei cataloghi di
questa l'opera d' Urbano
restò attribuita al
Marca- nova, sebbene nelV explicit
sia detto (Lat.,
CI. VI, cod.
104, colloc. 2815, f.
58orv) che il
nome dell'autore non
si conosce: « cuius
nomen non habetur
« 5. Ed alla
stessa biblioteca di S. Giovanni
in Verdara e
ai Ca- nonici regolari Lateranensi,
che abitavano quel
monastero, era
particolarmente affezionato l'averroista
maestro Nicoletto Vernia, il
quale, gravemente ammalato,
il 2 novembre
1478, faceva testamento a
loro favore e,
qualche anno dopo,
faceva ad essi donazione
dei suoi libri
(vedasi sopra, p.
115). Per quella volta
la negra Parca
lo risparmiò, lasciandogli ancora più
d'un ventennio, per il piacere
dei suoi colleghi ed
alunni, per le
sue filosofiche speculazioni
e per diverse marachelle non
precisamente filosofiche. Ma
quando sentì ^ A
proposito dell'opera d'
Urbano, che nel
prologo dell'edizione del 1492
si dice cominciata
il primo d'aprile
1334 (cfr. sopra,
p. 103), gioverà avvertire
che il p. R. M.
Taucci, de' Serviti,
/ maestri della fac.
teolog. di Bologna,
in « Studi
stor. sull' Ord.
dei Servi di
Maria », I. 1933.
PP- 31-34. osservando
che l'unico maestro
servita di nome Urbano
fiorì nell'ultimo decennio
del sec. XIV
e nei primi
quattro decenni del sec.
XV, propone di
correggere la data
1334 in 1434. SCRITTI DI
SIGIERI ALLA FINE
DEL SEC. XV
3I9 che la morte
stava ormai per
ghermirlo, il 3
agosto 1499 dettava le
sue ultime volontà,
in Vicenza, lasciando
ancora tutti i suoi
libri, « omnes
libros graecos et
latinos », ai
Canonici re- golari
Lateranensi del monastero
di S. Bartolomeo
di quella città, perché
fossero posti nella
loro biblioteca, e
chiedeva altresì d'esser sepolto
nella loro chiesa
(v. sopra, pp.
108 e 126). Nella
biblioteca di S.
Giovanni in Verdara,
a Padova, par- rebbe dunque che
il Nifo, discepolo
del Vernia, avesse
letto le tre opere
da lui citate
e attribuite al
« grande averroista
» Sugerius o Subgerius,
ov'egli dichiara d'avere
attinta la dot- trina, un tempo
da lui seguita,
sul modo come
l'intelletto possibile,
unico per tutti
gli uomini, s'unisce
ai singoli e può dirsi vera
forma « dans
esse homini »
(v. sopra, pp.
208-10). Lo stesso Nifo,
nel commento alla
Destructio destructionum, apparso per
la stampa nel
gennaio 1497, accenna
ad una di- scussione avuta col
conte della Mirandola,
mentre « in
corbula » si recavano
a Bologna (I,
8 ; v.
sotto, p. 376).
Ritengo che questo viaggio avvenisse
gli ultimi giorni
di maggio 1494.
Per la Pente- coste di quell'anno,
in occasione del
capitolo generale dei
frati predicatori tenuto a
Ferrara, c'era stata
una solenne disputa pubblica alla
presenza del duca
Ercole I, e
il giovane dome- nicano Tommaso de
\'io, venuto apposta
da Padova ove
inse- gnava Metafisica,
s'era trovato di
fronte Giovanni Pico
della Mirandola, il quale
gli aveva mosso
niente meno che
cento obiezioni (cfr. Mortier,
Histoire des Maitres
Généraux de l'ordre des
fr. Precheurs. t.
V, Paris, 1911,
p. 143).
Pochi giorni dopo, verso
la fine del
mese di maggio,
anche i frati
minori aduna- rono a Bologna
il loro capitolo
generale e, secondo
il costume, diramarono inviti
ai maestri e ai dotti
delle città vicine
che avessero desiderato partecipare
alla disputa pubblica
che si sarebbe tenuta,
more solito, in
quell'occasione. A Bologna sarebbe sceso
in lizza uno
dei maestri dello
studio che già cominciava a
far parlare di sé per
la sua serrata
dialettica e per certa
nuova maniera d' intendere
l'averroismo. L' invito doveva solleticare
il battagliero conte
della Mirandola e il Nifo, che
verosimilmente era accorso
da Padova alla
disputa nella quale era
campione un suo
collega. E penso
che tutti e due
insieme sian partiti
da Ferrara per
trovarsi alla disputa che
il jo giugno,
seconda domenica dopo
Pentecoste, l'Achil- lini avrebbe
tenuto a S.
Francesco in Bologna. E
quale non dev'essere
stata la sua
sorpresa nel sentire
che 320 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI maestro Alessandro
Achillini discettava intorno
alle Intelli- genze, da quella
del Primo Motore
che è puro
atto, giù giù fino
air intelletto possibile
umano che è
pura potenza, e con grande risolutezza
e abilità dialettica
faceva sua la
dottrina averroistica di quel
« Sugerius »,
del quale anch'egli
aveva letto gli scritti
che a Padova
si conservavano in S. Giovanni di
Ver- dara, ove ritengo
li avesse visti
e letti anche
il Signore della Mirandola. Questa
risolutezza del collega
bolognese deve averlo tanto
più meravigliato, che
a Padova il
decreto vescovile del 1489
aveva assai limitato
la libertà di
giostrare sull'unità dell' intelletto
umano, ed egli e il
Vernia si vedevan
costretti a dissipare i
sospetti che si
nutrivano su loro
come averroisti. Nel trattato
De intellectii, scritto
dal Nifo col
proposito fin troppo palese
di rifarsi una
verginità antiaverroistica, in
gara con maestro Nicoletto,
si direbbe ch'egli
prendesse di mira i
Quolibeta de inielligentiis, pur
senza nominare l'autore
di essi, delle cui
dottrine svelava la
fonte negli scritti
di Sigieri, dal- l'Achillini taciuta. XII MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA: DUE FILOSOFI
GALATINESI DEL CINQUECENTO Il nome
di Marcantonio Zimara,
largamente diffuso nel
se- colo XVI, è strettamente
legato alla storia
dell'aristotelismo, e in particolare
di quella corrente
che fu l'averroismo,
anzi di uno speciale
indirizzo di questo
in contrasto con
altri indi- rizzi che si
reclamavano ugualmente da
Averroè, il Commen- tatore per eccellenza
d'Aristotele, l'arabo Averrois
di Cordova « che
il gran commento
feo ». Invece
il nome del
figlio di lui, Teofilo,
è rimasto presso
che sconosciuto, fra
gli storici della filosofia italiana.
Peggio : uno di questi
che di recente
ha dedi- cato al pensiero
italiano del Rinascimento
tre grossi volumi, Giuseppe Saitta,
essendogli accaduto di
metter la mano, senza
volerlo, sul massiccio
e diffuso commento
di Teofilo Zimara, «
Marci Antonii F. », al
De anima, ha
attribuito quest'opera al padre,
ignorando l'esistenza del
figlio. E fin qui
poco male. Ma
egli s' è
spinto assai più
in là ;
che non pare si
sia reso conto
che, mentre Marcantonio
è un averroista schietto e
tutto d'un pezzo,
il figlio al
contrario combatte apertamente l'averroismo
e propugna un
platonismo cristia- neggiato, che,
divenuto di moda
tra gli umanisti
dopo Marsilio Ficino, si
proponeva di conciliare
Aristotele, liberato dal- l'esegesi averroistica, con
Platone, con Plotino,
con Proclo e con
Simplicio. E questo
è il male
peggiore che poteva
capi- tare a Teofilo, che
cioè il grosso
volume dedicato al
cardinale Guglielmo Sirleto, e
dal quale s'attendeva
qualche fama, non solo
gli fosse tolto,
ma ne fosse
travisato il pensiero,
col ravvicinarlo all'averroismo.* Già
pubblicato negli «Atti
del IV Congresso
Storico Pugliese». («Archivio Storico
Pugliese», Vili, 1955).
Sono stati apportati
alcuni notevoli ritocchi. 21 322 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Ma anche intorno
a Marcantonio Zimara
accade di leggere nei
libri di storia
della filosofia grossi
spropositi, che mi
pro- pongo di correggere, raccogliendo
quello che di
certo si sa in-
torno a lui e
al figlio e
intorno alle loro
opere. Ben inteso, non
si tratta di
richiamare l'attenzione dello
storico su due astri
di prima grandezza
o, come si
direbbe oggi, su
due fi- gure di primo
piano nel complesso
panorama del nostro
Ri- nascimento: si tratta soltanto
di mettere nella
giusta luce due onesti
pensatori che, pur
senza elevarsi gran
che sulla coltura del
loro tempo, meritano
di non esser
dimenticati, perché di quella
coltura sono eminentemente
rappresentativi. I. - Marcantonio
Zimara. Di lui sappiamo
con certezza che
il 30 luglio
1501, a ore 13,
sosteneva a Padova
la discussione preliminare
al dottorato in artibus,
ossia fece il
tentativum nella chiesa
di S. Urbano, ove
da un cinquantennio
soleva riunirsi il
« Sacro Collegio degli
Artisti e Medici»;
e che una
settimana dopo, il venerdì
6 agosto, a
ore 20, nell'aula
solita d'esami in
Vesco- vato, sostenne il privatum
examen e conseguì
il grado di
dottore in artibus. Il
filosofo e medico
Pietro Trapolin gli
conferì le insegne del
grado a nome
del Sacro Collegio.
Tutto questo è perfettamente documentato
dagli atti del
Collegio stesso (voi. 319),
nell'Archivio antico dell'
Università di Padova, e
dagli Ada graduum
presso l'Archivio di
quella Curia vescovile (voi. 47,
f. i62r). Da
notare: presenti come
testimoni al giu- ramento e al
dottorato erano Pietro
Pomponazzi e Tiberio Bacilieri; il
primo ritornato da
poco a Padova,
ove insegnava filosofia naturale
come ordinario primo
loco, il secondo
ve- nuto via da Bologna
per contrasti coi
colleghi, e straordinario della stessa
materia. In questi
atti. Marcantonio è
detto figlio « quondam
Nicolai Zimara de
Sanctopetro de Galatina
terre Hydrunti ». Altra cosa
certa è ch'egli
potè fare gli
studi di filosofia
a Padova grazie all'aiuto
dello zio materno
Pietro Bonuso, prelato della
chiesa di S.
Pietro in Galatina,
al quale il
1° ot- tobre 15 13 dedicò
l'edizione dei Subtilissima
Hervei Natalis Britonis Quodlibeta
undecim cum odo
ipsius profundissimis tradatibus
, da
lui curata per
l'editore veneziano Giorgio
Arri- vabene. Anche nella
dedica della Quaestio
de primo cognito MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 323 (Venezia,
1508) a Marcantonio
Contarini, figlio di
Carlo, ac- cenna
espressamente a questo
zio : «
Petro Bonusio, pro- presuli, avunculo, qui
me semper eque
ac filium carum
habuit fovitque, cuique non
minus quam parenti
mee animam hanc debere
me libens profiteor
». Baldassar Papadia i
lo dice nato
da povera e
oscura gente intorno al
1470: e cita
in proposito un'
Epistola ms. di
Fran- cesco M. Vernaleone, che
esisteva a suo
tempo presso i
Signori Caroti. Sulla scorta
della Quaestio de
regressu E xcellen fissimi Domini Marci
Antonii Zimarea (nell'Ambrosiana di
Milano, Cod. S. Q.
+. II. 36,
ff. 232V-236V), fui
indotto, nella prima edizione di
questo saggio, a
supporre un primo
soggiorno pa- dovano,
anteriore al 1490,
perché l'autore di
quella Quaestio accenna più
volte a discussioni
avute con Maestro
frate Fran- cesco da Nardo,
che insegnava Metafisica
a Padova «in
via Tho- mae», mentre
frate Antonio Trombeta
insegnava la stessa
disci- plina « in via
Scoti », e
che morì il
17 luglio 1489
(cfr. A. G. Erotto
e G. Zonta,
La facoltà teologica
di Padova. Padova, 1922,
pp. 195-197): «Ad
argumenta praeceptoris magistri Francisci de
Nardo, dico...; sed
advertatis quod praeceptor meus antequam
ingrederetur ad scolas
ad legendum, allo- cutus
fui eum supra
hoc, ....et dixit
mihi » (f. 135V).
Ma pili
tardi, visto il
codice della Nazionale
di Napoli, Vili. E.
42, che contiene
il commento del
Pomponazzi ai primi due
libri del De
anima datato 1514,
ma certamente dell'anno scolastico 1508-1509,
e il commento
dello stesso Peretto
al terzo libro, del
1504, m'accorsi con
mia sorpresa che
quella Quaestio, attribuita allo
Zimara nel codice
Ambrosiano, non è affatto
di questo, sibbene
del suo maestro,
il mantovano Pietro Pomponazzi,
che più volte
ricorda d'essere stato
di- scepolo del tomista di
Nardo. Quindi cade
l' ipotesi di un
sog- giorno dello Zimara a
Padova, prima di
quello indicato dal Papadia,
il quale dice
che lo zio
materno, Pietro Bonuso, «
r inviò adulto
a Padova ».
Forse intorno al
1495 o poco
dopo. Fra i venticinque
e trent'anni, egli
poteva dirsi veramente adulto. E
se a Padova
giunse quando erano
già morti Fran- cesco da Nardo
e Pietro Roccabonella,
vi trovò tuttavia maestri provetti
che godevano già di gran
fama o giovani
che erano sulla via
di procurarsela: il
faceto Nicoletto Vernia, I
Memorie storiche della
città di Galatina,
Napoli 1792, pp.
57-58. 324
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI averroista
spregiudicato, finché il
vescovo di Padova,
Pietro Barozzi, col decreto
del 6 maggio
1489 non l'obbligò
a ravve- dersi, Pietro Trapolin,
anch'egli averroista, ma ben più
mo- derato e guardingo, gli
scotisti Antonio Trombeta
e Mau- rizio Ibernico, il
Peretto Mantovano che
già rivelava una spiccata
tendenza a ribellarsi
all'averroismo di moda,
il vi- centino Antonio Fracanziano,
concorrente del Pomponazzi, Tiberio Bacilieri
che a Padova
professava l'averroismo di marca
sigieriana del quale
a Bologna era
acerrimo propu- gnatore
Alessandro Achillini. Agostino
Nifo aveva lasciato con
gran disdegno lo
Studio patavino fin
dall'estate del 1499, non
sappiamo se malcontento
dello stipendio o
per dissensi coi colleghi.
E il 4
ottobre dello stesso
anno il Vernia
moriva, e la sua
cattedra venne appunto
coperta col richiamo
del Peretto, cui fu
dato a concorrente
il Fracanziano. Di questi
maestri, il Trapolin
fu primo promotore
del dot- torato in artihus
del « Sanpetrinate
», come lo
Zimara amava chiamarsi; ma
di lui non
ho trovato cenno,
né in bene
né in male, nelle
opere dell'alunno \ Del Pomponazzi
invece parla spesso; sebbene
il rispetto per il precettore
non gì' impedisca di combatterlo
su varie dottrine,
e di pigliarlo
di mira più volte
in modo assai
vivace nella Tabula
dihicidationum in dictis Aristotelis
et Averrois, e
particolarmente nella Quaestio de
immortalitate animae. Del
Bacilieri combatte la
tesi che identifica l' intelletto
agente con Dio,
che egli attribuisce, come fa
anche il Pomponazzi,
ai « bononienses
». Al Trom- beta accenna anche
alla fine delle
Annotiones sul settimo della
Metafìsica di Giovanni
di Jandun :
« in his
omnibus subtilissime
repraehenditur Ioannes a
praeceptore meo Ma- gistro
Antonio Trombeta nostre
aetatis in metaphysicae speculationibus viro
emeritissimo»; nei Theoremata,
iii: « An- tonius
Trombeta excellens in
scientia divina et
preceptor meus venerandus »
; e nella
Quaestio an gravia
et levia etc. del
ms. Magliabechiano, XI,
67, segnalatomi dall'amico
Eu- genio Garin: « quantumcumque, ut
dicebat magister meus Trombeta, Franciscus
de Neritono dixerit
» (f. 23r).
Che egli poi avesse
a maestro anche
Maurizio Ibernico è
attestato dal francescano Girolamo
Girelli sulla fine
del suo trattato De
speciebus intelUgibilibus diretto
contro lo Zimara:
« Ipse 3 Su
di lui, V.
sopra, il saggio
VII. MARCANTONIO E TEOFILO
ZIMARA 325 autem forte
erravit propter amorem
magistri sui, qui
fuit Mauritius Hibernicus ». Non
sappiamo con certezza
quand'egli cominciò a
insegnare come lettore pubblico;
poiché le lezioni
In primuni Posteriorum del Cod.
Ambros. D. log
inf., ff. i7r-29r,
potrebbero essere state tenute
privatamente o anche
pubblicamente in anni precedenti al
dottorato in filosofia,
come mi risulta
essere intervenuto a Padova
per il mantovano
Benedetto del Triaca (1494), per
Lorenzo dal Molino
di Rovigo (1499)
e per Fran- cesco Trapolin, figlio
di Piero (1501).
In fine della
nona le- zione sul primo
libro degli Analitici
Posteriori (f. 28r)
accade di leggere questo
curioso invito in
versi: Scire volunt onines,
niercedem solvere nemo: hoc
dixit noster qui
claret in orbe
Zimarra. In catedra manens,
dixit prò omnibus
una: solvite, precor, omnes,
si vultis doceri. In
domino testor, magnum
sumpsisse laborem; hac prò
doctrina, propriam vendidisse
casellam. E in margine
: « Quare
vobis dico :
si librum Posteriorum vultis ut
aperiam, solvite, praecor,
omnes ». Ma non
dovette passar molto
dalla laurea, che
fu assunto alla «
lettura » straordinaria
di filosofia naturale.
Intanto, per procacciarsi da
vivere e poter
continuare gli studi,
curò per gli eredi
di Ottaviano Scoto
l'edizione delle Quaestiones in duodecim
II. Metaphysicae di
Giovanni di Jandum,
arric- chendola di citazioni e
note marginali. L'
edizione scotina, licenziata il
1° di febbraio
1505, oltre alle
note marginali, recava in
appendice alcune opere
originali che possiamo
con- siderare tra le prime
del nostro, anteriori
a questa data. La
prima è una
diffusa Quaestio de
principio individua- tionis ad
intentionem Averrois et
Aristotelis, di ben
venti co- lonne. Essa è
dedicata « Magnifico
ac excellenti artium
Doctori domino Andreae Mocionigo
Patricio Veneto ». Questo (( M.cus
et Doctissimus vir,
D. Andreas Mocenico, natus M.ci
et Cl.mi D. Leonardi,
filli olim Serenissimi
prin- cipis Venetiarum D.
Jo. Mocenici »,
era stato proclamato dottore in
artihus, il sabato
12 agosto 1503,
nella cattedrale di Padova,
con grande solennità,
come s'addiceva al
suo alto rango, «
assistentibus M.cis et
Cl.mis dominis Thoma
Mo- cenigo praetore, patruo,
et Paulo Trivisano
equite praefecto 326 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI urbis [Paduae],
avunculo, et aliorum
praestantissimorum doctorum,
scholarium, civiiim et
praelatorum corona, per Rev.um
D. Episcopum [il
bellunese Pietro Barozzi],
eius domino Vicario recitante
». E ciò
dopo essere stato
esaminato « per Venerandum
Collegium artium et
medicinae Doctorum », e
« post longas
lucubrationes et scholasticos
labores et publicas disputationes ac
varia virtutis et
doctrinae suae experimenta
». Primo promotore del
dottorato era stato
Pietro Trapolin, che anche
questa volta conferì
al neo dottore
le insegne del grado.
Nella dedica lo
Zimara parla del
nodo d' indissolubile amicizia che
lo legava al
Mocenigo. In realtà
erano stati am- bedue alunni del
Trapolin e del
Pomponazzi, insieme al
« go- beto »
Lorenzo Venier, ad
Antonio Surian e
a Gaspare Con- tarini,
« artium scholares
», i quali
nel verbale del
dottorato del Mocenigo figurano
da testimoni (v.
sopra, p. i68). Nella
stessa dedica il
nostro accenna al
turbamento del suo animo
per le notizie
che gli giungevano
da S. Pietro
in Gala- tina, saccheggiata
dal ritorno nel
1504 delle milizie
spa- gnole per cacciarne le
francesi: « Pluribus
profecto quam pro- miseram
magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua
fortuna patriam meam
Sanctum Petrum de
Gala- tinis, hispanis militibus
populationi dedisset ». Alla
Quaestio de principio
individuationis tengon dietro
le Annotationes in Ioannem
Gandavensem super Quaestionihus Metaphysicae eleganter
discussae in via
Aristotelis et sui
magni commentatoris
Averrois, anch'esse dedicate
ad Andream Mo- cionigum.
Su molti punti
lo Zimara aveva
ripreso con sem- plici note marginali
il modo come
Giovanni di Jandun
espone il pensiero d'Averroè.
Ma su altri
punti le sue
riserve esige- vano maggiore spazio
che non fosse
quello d'una breve
nota; perciò aggiunse al
volume questa seconda
appendice, ove espone con
ben maggiore ampiezza
le ragioni del
suo dissenso dall'averroista di
Jandun, la cui
interpretazione della dottrina averroistica aveva
suscitato aspre critiche
da parte degli averroisti padovani
e bolognesi, tanto
che Giovanni Pico
della Mirandola giudicava che
egli, « ferme
in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam
Averrois corrupit omnino
et depra- vavit »
{Conclus. secundum Avenroem,
3). Intento di
queste Annotationes è dunque
quello di stabilire
qual è il
vero pen- siero del commentatore
di Cordova. Ma nel far
ciò, il filosofo di
Galatina si diffonde
talora sino a
riesaminare a fondo
l'ar- MARCANTONIO E TEOFILO
ZIMARA 327 gomento discusso
e a scrivere
un vero e
proprio trattato, come fa
a proposito della
questione 12^ del
terzo libro, in una
disquisizione di ben
oltre 26 colonne. Una
terza appendice è
formata dalla Quaestio
de triplici causalitate intelligentiae , concernente
la natura, la
dipendenza e la finalità
delle intelligenze celesti
« secundum Aristotelis
et sui Commentatoris Averrois
sententiam », problema
dibattu- tissimo dal secolo
XIII al XVI,
intorno al quale
lo Zimara, come già
Sigieri di Brabante,
difende la causalità
efficiente di Dio contro
quegli averroisti che,
come l'eremitano Gre- gorio da
Rimini, la negavano.
Una frase in
principio: «vidi plures tempore
meo, 1502, philosophantes »,
parrebbe indi- care che la
Quaestio fu scritta
in quest'anno. Con questo
volume, stampato nel
1505 e che
si diffuse ra- pidamente in tutta
Europa, Marcantonio Zimara
di San Pietro in
Galatina in terra
di Otranto si
presentava agli stu- diosi di
filosofia come un
interprete agguerrito e
acuto del pen- siero d'Aristotele e
del suo grande
e fedele commentatore Averroè, in
un momento quando
il suo maestro
e dipoi avver- sario, il mantovano
Pietro Pomponazzi, non
aveva ancora stampato una
sola riga. Non
tutti accettarono, si
capisce, l'esegesi
dell'Otrantino, com'era chiamato
a Padova, anzi molti
presero a impugnarla,
su questo o
quell'argomento; ma a nessuno
era consentito ignorarla. Nello stesso
anno in cui
curò l'edizione della
Metafisica dell'averroista
di Jandun, ne
preparò altresì quella
delle Quae- stiones super
Parvis Naturalibus, per lo stesso
editore vene- ziano,
dedicandola a Bartolomeo
Montagnana, iunior, pro- fessore di medicina
nello Studio patavino
e appartenente a una
celebre famiglia di
medici padovani. La
qual dedica m' indurrebbe quasi
a sospettare, che
egli si stesse
preparando al dottorato in
medicina, adulando con
lodi sperticate, come era
d'uso, un membro
del « Sacro
Collegio degli Artisti
e Medici », che
aveva il diritto
di farsi «
promotore » della
« gra- zia », del
« tentativo »
e infine dell'
« esame privato
», nonché quello di
conferire le insegne
dottorali al candidato. In
appendice a questo
volume, lo Zimara
stampò la Quaestio de
moventis identitate et
moti ad intentionem
peripateticorum subtiliter
et resolute Patavii
discussa, e la
dedicò al giovane «
Giovanni Cristoforo Capitani,
figlio del chiarissimo
medico Pietro», per riconoscenza
dell'appoggio che ne
aveva avuto: 328 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI « cui
denique quicquid dignitatis
in Patavino gymnasio
nuper assecutus sum, uni
acceptum refero ». Dello
stesso periodo, perché
ricordata nelle Solutiones
del 1508 {Super III
de anima, 1^
Contr. sul comm.
5) è anche
la Quaestio qua species
intelligihiles ad mentem
Averrois defen- duntur ad
Magnificum patritium Venetum
Anfonium Surianum, pubblicata s.
1. da Francesco
Storcila il 12
gennaio 1554, e incorporata
nel Tractatus adversus
quaestionem M. Ant.
Zi- marae de speciehus
intelligibilihus (Venezia, 1561)
del fran- cescano Girolamo Girelli
che era stato
alunno del Pompo- nazzi.
Lo Zimara prende
risolutamente posizione contro l'Achillini, il
quale aveva negato
le famose «
specie intelli- gibili », d'accordo
in ciò col
carmelitano inglese Giovanni
di Baconthorpe e con
Enrico di Gand.
Dell' Achillini dice anzi quel
che Averroè {De
caelo, III comm.
67) aveva detto
d'Avi- cenna, « quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et
bona confidentia in
proprio ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores
». L'argomento era
stato discusso a Padova
nel corso del
1505 dal Pomponazzi,
il quale non si
mostrò meno aspro
contro l'Achillini; e
proprio Antonio Surian ce
ne ha tramandata
la quaestio nel
codice ms. della Bibl.
Naz. di Napoh,
Vili. D. 81
(ff. 83r-84r). Un'altra
e pili ampia riportazione
si trova in
altro ms. della
stessa Bi- blioteca, Vili. E.
42, ft. I95r-20ir. Dalle controversie tra
i vari interpreti
d'Averroè, trassero vantaggio gli
avversari dell'averroismo, per
insinuare che il «
gran commento »
formicolava di contradizioni, e
che neppure Aristotele ne
era immune. Sebbene
il Pomponazzi non
ri- fuggisse dal dirsi talora
« averroista »
o « commentista
», nel senso che
egli, seguendo una
consuetudine di Padova
e di Bologna, leggeva
il testo d'Aristotele
e il commento
d'Averroè che lo accompagnava,
e sulla parafrasi
e discussione dell'uno e
dell'altro conduceva la
lezione, non di
meno, con tutto
il rispetto per l'uno
e per l'altro,
non esitava a
mettere in evi- denza le
incertezze e le
contradizioni del commentatore,
al quale non risparmiava
le sue critiche
e i suoi
sarcasmi. Di- scepolo del Peretto
mantovano, lo Zimara,
che per diversi anni,
dal 1500 al
1505, ne aveva
seguito le lezioni,
si propose di scolpare
tanto Averroè quanto
Aristotele dalle contradi- zioni ad essi
attribuite e di
mostrare che esse
potevano, con qualche sottile
distinzione, risolversi nel
modo più plausibile. MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 329 Nacquero
così, fra il
1505 e il
1508 le Solutiones
contra- dictionum in dictis
Averrois che nella
prima redazione uscirono, precedute dalla
Quaestio de primo
cognito, a Venezia,
il 1° luglio 1508,
con dedica al
patrizio veneziano, «
magnifico Marcoantonio
Contareno magnifici domini
Caroli filio », al quale il
Pomponazzi dedicherà nel 15
16 la
prima stampa del De
immortalitate animae, e
che nel 1508
era ancora un
« gio- vane », sebbene
versatissimo negli studi
della filosofia aristo- telica. Pochi giorni
prima gh aveva
dedicato i trattati
logici di Aristotele col
commento d'Averroè, da
lui curati per
gli eredi di Ottaviano
Scoto (Venezia, 1508,
20 giugno). La Quaestio
de primo cognito
si riallaccia alle
lezioni dello Zimara sul
prologo della Fisica
aristotehca (I, t.
e. 2-5, e. i, i84a 16
sgg.). L'autore di
essa discute ampiamente
e critica le interpretazioni che
del testo aristotelico
avevano dato il Burleo
e Gregorio da
Rimini, dalla parte
dei « nominales
», poi quelle di
Duns Scoto e
di S. Tommaso,
e infine oppone
ad esse quella che
giudica più conforme
al commento d'Averroè. Le
Solutiones sono opera
composta a tavolino,
« succisivis horis ac
tumultuarie ». Ma che lo
Zimara prendesse di
mira in particolare il
Peretto, del quale
si tace il
nome, è messo
in evidenza dalla lettera,
stampata al f.
46r del volume,
coli' in- testazione « Sylvius
Laurentius a portu
caballensis clarissimo artium et
medicine doctori Marco
Antonio sanctipetrinati et hidruntino, ere
publico in Gymnasio
patavino philosophiam profitenti »,
la quale porta
la data «
ex patavio, idibus
Junij a Natali cristiano
M. D. VII
». Questo ammiratore
e forse discepolo dell'otrantino ricorda
appunto, che «
Petrus man- tuanus noster
philosophantium nunc primi
fere nominis, pu- blico auditorio profiteri
solet, hoc Averroi
esse genuinum, ut, cum
implicita omnibus viribus
nervisque explicare contendit et
adnititur, maxime implicat,
eoque fertur, diffidente
con- scientia, quo denique
ipsum impetus errabunde
opinionis impellit ». Del
che egli pensa
fossero da incolpare
gli ama- nuensi e gli
stampatori del commento
averroistico, per incuria dei
quali circolava nelle
scuole pieno di
errori. Ma non soltanto
al Pomponazzi intendeva
opporsi lo Zi- mara, sì
anche a Giovanni
di Jandun, a
Gregorio da Rimini, al
Burleo, ad Alessandro
Achillini e al
Bacilieri, che, a suo avviso, con
errate interpretazioni, facevano
cadere in con- tradizione il commentatore
arabo. 330
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Il Pomponazzi, che
non condivideva con
lo Zimara e
l'Achil- lini la fiducia
nell' infallibilità d'Averroè,
scrollava le spalle ed
osava negare la
stessa fiducia perfino
ad Aristotele, pur ritenuto
da Dante «
maestro e duca
de l'umana ragione
», e dagli averroisti
« regula in
natura et exemplar
quod natura invenit ad
demonstrandum ultimam perfectionem
humanam ». Le contradizioni
di Averroè avevano
il loro fondamento
in non poche contradizioni
del testo aristotelico,
che si facevano sempre più
palesi con le
nuove traduzioni del
periodo uma- nistico. Perciò intorno
al 1530, lo
Zimara riprese in
mano il libretto, e
ne preparò un'edizione
più completa, con
l'aggiunta di nuove contradizioni
ch'egli s'adopra a
risolvere, associando nel titolo
alle contradizioni del
Commentatore quelle del
Filo- sofo: Solutiones
contradictionum in dictis
Aristotelis et Averrois. Dalla lettera
di Silvio Lorenzo
da Porto appare
che nel- l'anno scolastico 1506-1507
Marcantonio Zimara, dottore
non solo in artibus
ma anche in
medicina (non sono
però in grado di
dire in che
anno egli sostenesse
gli esami in
questa materia), professava pubblicamente
filosofia naturale nello
studio pa- tavino, occupando evidentemente
una delle due « letture
» straordinarie col modico
stipendio di 47
ducati d'argento, secondo il
Facciolati [Fasti gymn.
patav., p. II,
274), ed è naturale
che aspirasse ad
esser promosso alla
« lettura » or- dinaria.
Ora a
metà settembre 1508
era rimasta vacante
la « lettura »
ordinaria « secundo
loco » che
per due anni
aveva tenuto Alessandro Achillini,
richiamato sulla sua
cattedra a Bologna (v.
sopra, p. 259).
Se la cattedra
vacante fosse stata
as- segnata al « Sanpetrinate
», questi sarebbe
venuto ad essere
il «concorrente» diretto, cioè
l'antagonista, del Pomponazzi,
che oc- cupava la cattedra
ordinaria «primo loco»,
e da due
anni, seb- bene non fosse
cittadino padovano, era
stato aggregato al «
Sacro Collegio degli
Artisti e Medici
» della città.
Ma per riuscire ad
avere il posto
ambito lo Zimara
avrebbe dovuto vincere le
ostilità che si era creato
colle polemiche ingaggiate contro il
Peretto, il quale
godeva di grande
stima nello Studio patavino, e
contro l'Achillini, del
quale era ben
vivo il ricordo. Provvedere a
coprire la cattedra
ordinaria rimasta vacante era
compito del Senato
veneziano; e gli
aspiranti s'eran dati da
fare per procacciarsi
autorevoli appoggi fra
i membri di questo,
che ne discusse
nella riunione del
21 ottobre 1508. Le
proposte fatte furon
tre o quattro.
Marin Zorzi propose MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 33 1 Marco
Antonio della Torre,
« fiol dil
quondam missier maistro Hironimo da
Verona, qual à leto e
leze in philosophia.
Misier Alvise Pixani, savio
a terra ferma,
messe di condur
missier Marco da Otranto,
che etiam leze
in philosophia extraordi- narie ». Zorzi
Emo propose « il Sexa
che è a
Napoli, o ver il
Toseto », cioè
Ludovico Carensio, detto
il Toseto, padovano, ma
che da diversi
anni insegnava filosofia
a Ferrara, e che nel 15 17
ritornerà in patria
a ricoprire una
delle cattedre di medicina. È interessante
vedere che fra
gli aspiranti era
anche « il Sexa
», cioè Agostino
Nifo da Sessa,
il quale aveva
già coperto la cattedra
ordinaria di filosofia
« primo loco
» a Padova, fino
al 1499, e
n'era partito, a
quanto pare, per
litigi coi col- leghi. Ora egli
non cessava di
brigare per tornarvi,
ma preten- deva uno stipendio
che il senato
veneziano non era
disposto a pagargli. Leonardo
Anselmi, console di
Venezia a Napoli, informava di
lì a poco,
che il Sexa
« voj vegnir
a Padova a lezer
im philosophia. El
qual dice voi
ducati 500 e
non mancho, perché dice
è il primo
homo dil mondo,
e a Napoli
leze et medica; sì
che non havendo
ditti danari, non
voi vegnir» (M. Sanudo,
VII, col. 678).
Ma appena qualche
giorno dopo si dichiarava
disposto a venire
per 400 ducati
all'anno, con ferma di
tre anni. Queste
manovre del Nifo
dovettero esser note al
Pomponazzi, che nel
già citato commento
al De anima del
1508-9 prese ad
attaccarlo con rinnovata
virulenza. Dopo Zorzi Emo
parlò Polo Pisani.
Vista la difficoltà
di addivenire a un
accordo e di
far prevalere il
suo candidato, Alvise Pisani
ripiegò sulla proposta
« de indusiar
», e così «
fu presa la
indusia, di 8
ballote » (M.
Sanudo, Diarii, VII, col.
653), e lo
Zimara dovette rassegnarsi
a rimanere alla «
lettura » straordinaria. Né mi
consta che egli
fosse promosso nel
quinquennio immediatamente
successivo. La guerra
contro la lega
di Cam- bra! ebbe gravi
conseguenze per lo
studio padovano. Il 6 giugno 1509,
le truppe imperiali
al comando di
Leonardo Trissino entrarono in
città, e lo
stesso giornopare venisse a morte
Pietro Trapolin. Per
il momento, cioè
per qualche mese, il
turbamento dell'ordine pubblico
non fu grande;
si tennero ancora esami,
e il Pomponazzi,
per esempio, figura
ancora come promotore in
un dottorato del
2 luglio. Il peggio
venne dopo, quando
i veneziani il
18 luglio rioc- 332 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI cuparono il
castello, e cominciarono
i saccheggi e
le vendette contro coloro
che di buon
animo o contro
voglia s'eran com- promessi coi «
tedeschi ». Una
delle famiglie maggiormente colpite fu
quella dei Trapolin.
Alberto e Roberto,
fratelli del filosofo, furon
presi prigionieri nella
riconquista del castello. Ma
già due giorni
prima le loro
case e quella
di un altro
loro fratello, Nicolò, furono
saccheggiate. Ed anche
la casa di
Pietro, che era nella
contrada di san
Leonardo, non lontano
dai Car- mini, non fu
risparmiata, i suoi
scritti dispersi, e
il figlio Giulio il
14 agosto fatto
prigioniero e spedito
a Venezia con
altri compa- gni (v. sopra,
p. 172). Il
governo veneziano fu
abbastanza cle- mente con molti
di coloro che
s'erano sottomessi al
dominio im- periale su Padova;
ma fu implacabile
con quattro dei
maggiori responsabili di favoreggiamento, che
il sabato i^
dicembre 1509 mandò al
capestro: «Primo era
Alberto Trapolin, fo
fradello di misser Pietro
dotor excellentissimo, el
qual Alberto era di
XVI al governo
di Padoa, homo
di gran inzegno,
et anche suo avo
fo apichato a
Padoa a tempo
di la novità
di misier Marsilio di
Carrara dil 1437.
Il secondo era
Lodovico Conte.... Il terzo
Bertuzi Bagaroto, dotor,
qual lezeva puhlice
in iure canonico.... Il
quarto, Jacomo da
Lion, dotor, el
quale fé' la oration
a l' imperator, quando
se deteno i
padoani, ne la
qual dice gran mal
de' veneziani» (M.
Sanudo, IX, col.
358; v. sopra, p.
174). Fu in questo
periodo di rappresaglie
e specialmente quando alla
fine di settembre
le truppe imperiali
tornarono ad as- sediare la città,
che molti cittadini
si allontanarono da
Padova e insieme ad
essi molti maestri
dello Studio. Fra
questi cer- tamente anche il
Pomponazzi, il quale
sulla sua cattedra
di Padova non fece
più ritorno. E Marcantonio
Zimara ? Si
dice da alcuni
che lo Studio rimanesse chiuso
per otto anni,
fino al 1517.
Ciò non è del tutto esatto.
Dagli Ada graduum
presso l'Archivio esistente della Curia
Vescovile di Padova
(voi. 49), risulta,
per esempio, in modo
indubbio, che 1'
8 maggio 1510
Matteo Binno de Tomasis,
figlio del chirurgo
Mastro Giacomo, fece il
dottorato in artihus
(f. 4v), che
1' 11 febbraio
1511 fece il dottorato
in iure civili
Marco Mantova (f.
45), che il
2 dicembre dello stesso
anno Girolamo Oldoini
fece anch'egli il
dottorato in artihus (f.
84V), e che
il 13 ottobre
1512 s'addottorò in ar-
tihus il magnifico Francesco
del fu Gabriele
Morosini (f. I2ir). MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 333 Sappiamo ugualmente
di altri conferimenti
di laurea sia in
arti e medicina,
come in diritto
e in teologia.
Lo Studio pa- tavino, dunque, anche
negli anni successivi
al 1509 e
ai fatti accennati, continuò
a funzionare; ma
evidentemente in modo ridotto,
e meno intensa
fu la sua
vita. Ciò si
constata in modo palpabile esaminando
gli stessi Ada
gradimm, e più
ancora gli Atti del
« Sacro Collegio
degli Artisti e
Medici » (Arch. deirUniv. di
Padova, presso quel
Rettorato, fase. 321),
ove tra il 1509
e il 1512
è un salto.
Di Marcantonio Zimara
nessuna traccia in questi
Atti, per questi
anni, se ho
ben veduto. Parrebbe, dunque,
che anche lui se ne
fosse andato. Dove ?
L'edizione dei Quodliheta
dell'Hervaeus che uscì
a Venezia, «per Georgium
Arrivabenum, 1513, die
primo octobris », ed è curata
e postillata dallo
Zimara, potrebbe far
pensare che questi nel
1512-1513 fosse a
Venezia. Ma la
lettera con la quale
dedica la sua
fatica allo zio
Pietro Bonuso mi
induce a dubitarne. Dice
infatti in essa
che già da
otto anni è lontano
dalla patria. E
aggiunge: «Ego enim,
postquam Patavium, bonarum artium
fontem, applicui, ita
impensam die noctuque philosophie studio
operam navavi, ut
hinc recesserim nun- quam....
Anno tamen elapso
sarcinulas collegeram, accin- xeram
me itineri ad
te advolaturus, quando,
preter spem, accademia nostra
ad dignissimam me
philosophie lectionem totis cervicibus
succollavit ». Ora se egli
si laureò in
artibus nell'agosto 1501, bisognerà
pensare che a
Padova fosse andato almeno
un quattro anni
prima, cioè al
più tardi nel
1497. La lettera dovrebbe
quindi essere del
1506. E i
conti infatti tornano: «anno
elapso», cioè nel
1505 egli dovette
essere chiamato, « preter
spem », alla
« lettura »
straordinaria di filosofia naturale.
Sebbene dunque l'edizione
dei Qiiodlibeta dell' Hervaeus
uscisse alla luce
il primo ottobre
1513, essa era già
stata preparata e
consegnata all'editore veneziano fin
dal 1506. Alla guerra
contro la lega
di Cambrai tenne
dietro quella della lega
sacra, e la
Lombardia, la Romagna
e 1' Emilia
furon corse da milizie
francesi, spagnole e
papali. Lasciata Padova, ove
aveva nutrito la
speranza di farsi
strada e di
accrescere lo splendore della
sua famiglia, non
fu facile al
povero filosofo trovarsi un'altra
cattedra a Ferrara
o a Bologna,
com'era stato facile al
Peretto mantovano. Perciò
egli dovette deci- dersi a
ritornare fra i
suoi a S.
Pietro in Galatina,
ove effetti- 334 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI vamente nel 15
14 lo
troviamo sindaco e
già ammogliato con una
tal Porzia, secondo
le notizie raccolte
da Alessandro Tomaso Arcudi
4 e da
Baldassar Papadia 5,
i quali prendono queste notizie
dalla Cronaca di S. Pietro
in Galatina lasciata manoscritta dal
medico filosofo e
letterato Silvio Arcudi, morto
a 72 anni
nel 1646. Prima di
rimetter piede nella
terra natale, o
appena vi fu arrivato,
egli dovette pensare
a propiziarsi Giovanni
Ca- strioto, duca di
Ferrandina, sotto la
cui giurisdizione, per disposizione del
governo spagnolo, si
trovava S. Pietro
in Galatina. A quest'uopo
mise insieme il
curioso trattatello dei Prohlemata e
lo dedicò al
principe. Non mi
consta che lo fa-
cesse stampare; io ne
conosco solo l'edizione
che ne fu
fatta a Venezia nel
1536 ed altre
posteriori. Nella dedica
appunto al duca di
Ferrandina egli dice
di ammirare in
lui sopratutto (( charitatem
qua literatos amplecteris,
hac tempestate qua oh
bellorum importunitates pax
una cum litteris
inferire visa est ».
Siamo dunque negli
anni che tengon
dietro al 1509.
E poiché Giovanni Castrioto
morì il 2
agosto 1514, il
libretto è certa- mente
anteriore a questa
data. Sindaco della piccola
sua città natale.
Marcantonio si tro- vava a
rappresentare quella comunità
nella cauta ma
energica difesa delle istituzioni
e dei privilegi
di essa contro
le soper- chierie di
Ferdinando Castrioto, successo
a Giovanni. In- tanto, un
anno dopo, nel 15
15, gli
nacque il figlio
Teofilo, del quale diremo
fra poco. L' Arcudi
(p. 186) parla
anche d'un altro figlio
avuto prima, Nicolò,
il quale fu
dottore in leggi a
Roma, ove testò
nel 1569. Altri
due figli dovettero
nascergli più tardi. Ma
le cure familiari
e quelle pubbliche
non lo di- stolsero del tutto
dagli studi. Fra il 1517
e il 1519,
uscirono a Venezia, curate
da lui, per
gli eredi di
Ottaviano Scoto, le seguenti
opere di Alberto
Magno « in
via peripathetica philo- sophi
theologique profundissimi »
: Naturalia ac
supernatu- ralia (cioè la
Fisica, il De
generatione et corrupfione,
il De metheoris, il
De mineralihus, il De anima,
il De intellectu
et intelligibili e la
Metafisica), accompagnati da
molte annota- zioni
marginali; i Parva
Naturalia e gli
Opuscula (nella dedica a
Marcantonio Venier del
fu Cristoforo, lo
Zimara parrebbe 4 Galatina
letterata, Genova 1709,
pp. 171-S1. 5 Op..
cit.. pp. 57-58. MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 335 dichiarare che
le sue «
castigationes et lucubrationes
» si li- mitano al
De causis, ma
verosimilmente sue sono
anche quelle apposte al
De natura locorum);
e le Due
partes Summe.... de quatuor
coèvis. Nell'edizione di
quest'ultima opera, apparsa
il 30 settembre 1519,
lo Zimara è
detto « philosophiam
Padue publice profitentem »,
espressione che forse
va intesa così «
dum philosophiam Padue
publice profitebatur ». Poiché
sembra poco probabile
che in quegli
anni egli fosse
tornato a Padova 6. Dov'era,
dunque ? Quasi
certamente a Salerno,
chiamatovi da quel principe
Ferdinando Sanseverino che
amava circon- darsi di uomini
dotti e dava
impulso al rifiorire
degli studi nella sua
città. Infatti nella
dedica allo stesso
Sanseverino dei Theoremata compiuti
e pubblicati a
Napoli nei primi
mesi del 1523, egli
dice: « Animadverti
hoc ipsum superioribus annis.... dum
philosophiam Theoricamque medicinae
publice in tua Salerno
profiterer ». A Salerno
aveva insegnato anche
il Nifo, dopo
ch'ebbe lasciato Padova. Lo
Zimara accenna ad
un insegnamento di più
anni in questa
città, e ci
fa sapere che,
oltre alla filosofìa, vi
avea professato anche
la medicina teorica.
Tuttavia il suo animo
era rivolto a
Padova. Dopo i fatti
del 1509, dei
quali abbiamo fatto
cenno, lo studio padovano
condusse per più
anni una vita
stentata. Gli scolari eran
molto diminuiti, non
essendo attratti da maestri di
grande rinomanza. La
città, che dall'affluenza della popolazione scolastica
traeva lustro e
vantaggio, reclamava a gran
voce che si
provvedesse sollecitamente al
bisogno, per il rifiorire
dell'università, perché «
sia ritorna il
Studio come era prima»
(M. Sanudo, XXIII,
527, 25 gennaio
1517). E agli oratori
padovani che questo
chiedevano con insistenza
fu risposto dal Principe
(?'&., 562, 7
febbraio 1517): «eramo contenti, e
si pratichi di
condur li dotori,
perché nostra inten- 6
Però riferisce M.
Sanudo (XXVII, col.
575, 23 agosto
1519), che Marcantonio Loredan,
capitanio a Padova,
venuto in Collegio
a Venezia, informò come
nello studio di
Padova erano a
quel momento « 22
dotori che leze
artisti e 26
giuristi, e portò
una letera per
certo dotor verìa a
lezer. Scrive ha
fato perteghe 21
mila 800 ».
Se per av- ventura questo «
dotor » fosse
lo Zimara, bisognerebbe
pensare che egli si
fosse sobbarcato nel 15
19 al
lungo viaggio a
Venezia, sia per
sorve- gliare la stampa di
Alberto Magno, sia
per condurre in
porto le trattative per la
« lettura »
a Padova. 336 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI zion è
di ritornar il
Studio » ;
la quale assicurazione
fu rinno- vata il 21
dello stesso mese
{Ih., 596). Anzi,
narra il Sanudo (XXIV,
214) che il
7 maggio 1517,
« dovendosi comenzar
il Studio a Padoa,
fo eletti tre
doctori, quali dovessero
praticar condur li doctori
a lezer che
fusseno excelienti; i
quali doctori sono questi:
sier Zorzi Pixani,
sier Marin Zorzi,
et sier Antonio Zustinian »
(cfr. Ib., 617,
29 agosto 1517,
e XXVII, 50
e 55, 14 marzo
1519). Il 15 settembre
15 17, furon «
ballotati » in
Collegio i «
rotuli » dei maestri
chiamati a leggere
sia nella facoltà
di legge come in
quella delle arti
e medicina (XXIV,
672). Pareva ormai che
le cose si
mettessero bene. Per
la filosofia «
al secondo loco »,
era stato chiamato
da Ferrara Nicolò
Prisciano ed era stato
promosso il veronese
Girolamo Bagolino. Ma
il duca estense sollecitava
nel marzo del
1520 il Prisciano
a tornare « a
lezer a Ferrara
» (XXVIII, 333,
9 marzo 1520)
; se non che
il maestro di
lì a poco
morì, e fu
necessario provvedere alla sua
successione. Il 14 settembre
1520, riferisce il
Sanudo, « fo
scrito a Roma a
rOrator nostro, come
de lì si
ritrova el Spagnolo
[cioè Gio- vanni
Montesdoch], qual leze
l'ordinaria di philosophia,
il qual alias desiderava
venir a lezer
a Padoa al
primo loco: per tanto,
havendo optima fama,
vedi si 'il
persevera in voler venir,
et concludi con
più avantazo el
poi etc. «
(XXIX, 181). Questo maestro,
ancor poco conosciuto,
era stato collega di
Alessandro Achillini e
più tardi del
Pomponazzi a Bologna, ma
aveva dovuto abbandonare
quella città nell'estate
del 1515. Non sapevamo
dove fosse andato.
Il Sanudo ora
ci fa sapere che
era andato lettore
di filosofia a
Roma, non essendo
stato accolto a Padova. Mentre si
cercava di avviar
pratiche per condurre
lo Spa- gnolo, pare si
fosse pensato anche
al « Mantoan
», cioè al
Pom- ponazzi che era a
Bologna; e il
consigliere Marco Minio
sug- geriva il nome di
Branda Porro, che
leggeva filosofia a
Pavia, ov'era stato alunno
di Tiberio Bacilieri
(M. Sanudo, XXIX, 268,
3 ottobre 1520).
Ma li studenti,
nell'incertezza di avere valenti
maestri, abbandonavano Padova
e anche quelli
che s'apparecchiavano al dottorato
andavano « a
conventar al- trove », in
barba alla legge,
quand'erano sudditi della
Sere- nissima [Ih., p. 313,
22 ottobre 1520).
Sicché i rettori
di Pa- dova, Marin
Zorzi, podestà, e
Alvise Contarini, capitanio, MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 337 il
3 novembre «
scriveno il Studio
va in mina,
per non vi
esser doctori che lezano,
e li scolari
forestieri vanno via,
e li nostri subditi, non
stimando le leze,
non voleno più
star, non avendo doctori da
i quali possano
udir.... » {Ib.,
348). L'allarme indusse i
Savi del Consiglio
e Terra ferma
a pren- dere una decisione
sulla proposta « di condurre
a lezer nil Studio
di Padoa.... domino
Zuan Montesdocha, Ispano,
leze a Roma, a
la lettura dil
primo locho di
Philosophia, cum sa- lario fiorini 600
a l'anno.... Et
domino Marco Antonio
Ziniara, San Petrinas, di
terra di Otranto,
leze a Salerno
a la ordinaria di
teorica overo praticha
di Medicina, con
salario fiorini 300 a
l'anno » [Ib.). Presa
la decisione, le
trattative col Montesdoch
furon portate sollecitamente a
termine (76.) ;
quelle invece con
lo Zimara andaron per
le lunghe. Con
l'andata a Padova
dello spagnolo, che godeva
di meritata fama,
lo Studio parve
rifiorire. Il che fece
piacere al governo
veneziano, che, il
13 maggio 1521, s'affrettò ad
informare i due
rettori di Padova
« come li
Rifor- matori dil Studio [che
erano allora Zorzi
Pisani, Francesco Bragadin, Antonio
Justinian, par habino
auto aviso domino Marco
di Otranto è
per venir, però
a visi li
scolari» [Ib., XXX, 181). Se
non che, a
questo punto, debbo
segnalare un' indicazione che trovo
nel già citato
cod. Ambros. S.
Q. -(-. II.
36, e che presenta
qualche difficoltà per
accordarsi con le
indicazioni precedenti. In questo
codice, prima della
Quaestio de regressu, attribuita allo
Zimara, ma che
invece è del
Pomponazzi, come ho detto,
v' è anche
(f. 229r) una
Quaestio de immorta- litate animae
domini Marci Antonii
Zimarae Venetiis discussa corani Duce
et Senatoribus, la
quale è cosa
diversa dalla Quaestio sullo stesso
argomento nel cod.
Parigino, Bibl. Nationale, ms. lat.
6450, di cui
dirò più giù.
La Quaestio Ambrosiana
è assai più succinta.
In essa son
ricordati il cardinale
di S. Do- menico, cioè il
Gaetano, « et
praeceptor meus »,
che è il Pom-
ponazzi (f. 23ir-v). Alla
fine (f. 232r)
si legge: «
Gratias itaque ago dominationibus vestris
quae dignatae sunt
nostrae lectioni adesse. Haec
dieta sufficiant de
ista difficillima quaestione, die ultimo
martii 1520, et
fuit punctus Pascatis
domini nostri yesu christi.
finis ». Orbene, nel
1520, la Pasqua
cadde non il
31 marzo, ma
1' 8 aprile. Invece
l'anno successivo 1521
la Pasqua cadde
proprio 22 338
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI l'ultimo di marzo.
Dunque nel manoscritto
Ambrosiano, che è una
copia di mano
di fra Zaccaria
da Milano, del
1553, v' è certamente
un errore di
trascrizione. Supponendo che per
la Pasqua del
152 1 lo Zimara
fosse venuto da Salerno
a Venezia, per
saggiare il terreno,
egli potrebbe avere avuto
abboccamenti coi Riformatori
della Studio, onde conoscere
meglio le condizioni
che il Consiglio era
disposto a fargh,
parendogli pochi 300
fiorini; e quindi, ripartito per
Salerno, in maggio
avrebbe fatto sapere
di esser disposto ad
accettarle e ad
assumere l' insegnamento a Pa- dova.
Tutto questo, ben
inteso, presupponendo che
la Quaestio veneziana de
immortalitate animae sia
davvero dello Zimara, Ma
ormai era tardi,
poiché, mentre al
primo luogo leggeva l'ordinaria di
filosofìa il Montesdoch,
al secondo luogo
era stato chiamato da
Pavia Branda Porro.
Per il momento
lo Zimara doveva rinunziare
a Padova e
restarsene a Salerno^ Ma
il 16 marzo
1523 lo troviamo
lettore di Metafisica
nelle scuole pubbliche di
S. Lorenzo a
Napoli, Ciò appare
dalla expiicit dei Theoremata
usciti a Napoli
a questa data,
con un epigramma di
Pietro Gravina: «Compievi
hoc opus Neapoli, anno
Domini Millesimo quingentesimo
vigesimo tertio, dum scientiam
divinam publico stipendio
legerem apud sanctum Laurentium, sub
regimine Reverendi patris
Fratris Antonini de Antorosa
de Neapoli cui
ego plurimum debeo
». A Napoli forse
egli era già
l'anno precedente, quando,
se- condo l'Arcudi 7 e
il Papadia, il
filosofo e il
suo conterraneo, il giurista
Pietro Vernaleone, sarebbero
stati inviati dalla
comu- nità di Galatina, per
protestare presso il
vice-re contro i so- prusi
di Fernando Castrioto,
e per chiedere
che fossero ri- spettati i suoi
antichi privilegi. L'Arcudi
anzi riferisce una lettera
dello Zimara «
Nobilibus Magnificisque viris
Sindico et Regimini Universitatis
S. Petri in
Galatina », del
29 set- tembre 1522, per
esortare i suoi
concittadini a mantenersi calmi ed
attendere con fiducia. Ma
anche da Napoli
il suo pensiero
doveva esser rivolto a
Padova; e l'occasione
di tornarvi si
presentò nell'estate del 1525,
quando il Montesdoch
chiese al Senato
veneziana licenza di andarsene,
e questo glie
l'accordò. Pietro Bembo in
due lettere a
Gian Batt. Rannusio,
del 17 7 Op.
cit., pp. ijb--j-j. MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 339 •Bgosto
e del 6
ottobre 1525 ^
ci fa sapere,
non senza amarezza, come le
cose andarono. Giovanni Montesdoch
a Padova era
tenuto in grande
consi- derazione ed era riuscito
a farsi un
nome, secondo la
testi- monianza del Bembo, quale
non aveva avuto
prima. Ma non debbono
essergli mancate accuse
per la sua
spregiudicatezza neir
interpretare Aristotele, sì
da parte degli
averroisti sì da parte
dei teologi, se
è vero quanto
egli stesso ci
fa sapere in una
lezione del 1525
sul terzo del
De anima (Parigi,
Bibl. Nation., ms.
lat. 6450, pp.
139-40): « Cum
isti fratres vident philosophum, dicunt:
haereticus est; ut mihi
olim accidit, dum disputarem
in capitulo generali
fratrum S. Dominici...; et quia
eos male tractabam,
dixerunt 3*^ die,
me esse haere- ticum
». Non
so se per
queste ragioni, oppure,
come insinua il
Bembo, nella lettera a
Gian Batt. Rannusio
del 17 agosto
di quel- l'anno, per ottenere
l'offerta d'un aumento
di stipendio, senza farne
aperta richiesta, il
maestro spagnolo chiese
li- cenza d'andarsene
altrove. Il Bembo,
che pure era
informato dei maneggi per
condurre il Montesdoch
a Pisa, ove
poi ef- fettivamente andò con
lo stipendio di 800 fiorini,
sperava che con l'offerta
di « cento
ducati d'aumento »
lo si potesse trattenere con
vantaggio dello Studio
padovano, poiché dopo la
morte del Pomponazzi
si prevedeva uno
spopolamento dello Studio bolognese
: « Se
lo Spagnolo resta,
questo anno averemo qui
la maggior parte
degli artisti dello
studio di Bologna. E
già il Sig.
Ercole Gonzaga, fratello
del Marchese, che è stato forse
tre anni o
più a Bologna
per udire il
Perette, fa cercar casa
qui, per venir
ad udir costui»
[Ib.). Ma le cose
non andarono secondo
il suggerimento e
il desi- derio del prelato,
che arrivava a cose fatte;
poiché Marin Sanudo (voi.
XL, col. 34) ci fa
sapere che il
16 luglio era
già stato « posto,
per li ditti
[Savii del Conscio
e Savii di
terra ferma], condur a
lezer in ditto
Studio [di Padoa]
in philo- sophia domino
Marco di Otranto,
qual ha lecto
in molti Studi, videlicet in
la lectione de
philosophia, per do
anni di fermo et
uno de rispetto
in libertà di
la Signoria nostra
con salario di fiorini
450 a l'anno
». La decisione rimasta
segreta dovette divulgarsi
alla fine 8 opere,
\enezia 1729, p.
Ili, p. 118. 340 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI di settembre, e
il Rannusio non
tardò a informarne
l'amico. Il quale gli
rispose da Padova
il 6 ottobre
esprimendogli il suo disappunto. Da questa
lettera si rileva
che responsabili del
negato au- mento al Montesdoch
e della chiamata
dello Zimara furono i
due patrizi veneziani
Marin Zorzi e
Francesco Bragadin, riformatori dello
studio di Padova,
i quali si
avvicendarono per molti anni
in questo ufficio
con altri patrizi
che avevano fatto gli
studi a Padova
e vi avevano
conseguito il titolo
di « dotor
». E il risentimento
del Bembo si
rivolge specialmente contro
il primo dei due
riformatori: « M.
Marino ha voluto
guastar questo bello ed
onorato Studio, di
cui egli è
guardiano; e gli è
molto ben venuto
fatto il pensiero.
Se le altre
sue imprese così bene
gli succederanno, sarà
felicissimo. Non parlo
di M. Francesco, percioché
io intendo da
ogni lato, che
il voler condur qui
codesto Otranto è solo invenzion
di M. Marino, e
non di lui.
Il quale Otranto
è già da
ora tanto in
odio di questi scolari
tutti dall'un capo
all'altro, che se
ne ridono con isdegno.
Perciocché dicono che
ha dottrina tutta
barbara e confusa, ed
è semplice Averroista;
il quale autore
a questi dì assai
si lascia da
parte da i
buoni dottori ed
attendesi alle sposizioni de'
commenti Greci, ed
a far progresso
ne' testi. E costui
pare che sia
tutto barbaro e
pieno di quella
feccia di dottrina, che
ora si fugge,
come la mala
ventura. Siate sicuro, che
questo povero studio
quest'anno, quanto alle
arti non avrà quattro
scolari oltrequelli del
nostro dominio, che ci
staranno mal lor
grado, e sarà
l'ultimo di tutti
gli studi ». E
più giù :
« Questi sono
i governi e
giudicii di M.
Marin Gior- gio, che pare
appunto, che porti
odio a tutti
quelli, che sanno le
belle e buone
lettere, o che
le vogliano apparare
e sapere ». Anche
di Sebastiano Foscarini,
che più volte
coprì la carica di
riformatore dello Studio
padovano e dimostrò
« rara dot- trina »
nello esporre a
Venezia, nelle scuole
di Rialto, «
le cose diffìcili di
Aristotile e di
Averrois il gran
commentatore » 9, il
Bembo pronunzia, in
una lettera allo
stesso Rannusio, del 7
luglio 1532 1", un
giudizio analogo: «il
qual Foscarini non so
come par che
sempre abbia avuto
in odio tutte
le buone lettere in
ogni facoltà ». '
A. ZhNO, in
«Giorn. de' Letterati
d'Italia», t. V,
1711, pp. 366-69. t" Opere,
III, p. 408. MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA 34I Bisogna
però riconoscere che,
l'una e l'altra
volta, il Bembo scriveva con
l'animo irritato, per le difficoltà
che, tanto lo Zorzi
quanto il Foscarini,
opponevano a due
suoi raccoman- dati. A questo
s'aggiunga che il
patriziato veneziano era
stato in gran parte
educato, per quanto
concerne la filosofia,
alla tradizione
aristotelico-averroistica, e che
a questa si
mostrava assai attaccato, come
provano numerosi documenti.
Il Bembo, invece, veniva
dalla scuola di
retorica ed era
insomma un « umanista
», e piuttosto
che sobbarcarsi allo
studio della filosofia aristotelico-averroistica, rinunziò
al titolo di
dottore i>i artihus, del
quale invece s'adornava
suo padre, Bernardo, «
dotor e cavalier
». In lui
l'avversione per l'aristotelismo e l'averroismo, ereditata
dal Petrarca, era,
potremmo dire, congenita. Come
gran parte degli
umanisti, egli non
ebbe mai il gusto
per i problemi
della filosofia e
della scienza che
appas- sionavano i maestri e
gli scolari della
facoltà delle «
arti ». Il suo
aspro giudizio su
« codesto Otranto
» è espressione
di un conflitto più
vasto, non ancora
risolto, nel pensiero
del Rina- scimento, che vide
coabitare tra le
mura della stessa
città Pietro Bembo e
Marcantonio Zimara. Titolare della
« lettura »
ordinaria di filosofia
[i.a poTrf) nxXq
Seuxépac? yoù acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig) 30,
è detta uscire
fuori di sé
{slq tÒ e^co Trpotcóv) 3', con
frase che curiosamente
ricorda un'analoga espressione hegeliana. La
mente che permane
in se stessa,
in un atto
con- templativo che dura eterno,
è identificata da
Simplicio con quello che
fu detto 1'
« intelletto agente
» che è atto sostan- ziale per sua
natura e « non intende
ora sì ora
no », come s'esprime Aristotele
32; invece la
mente in quanto
esce fuori -7 E.
Garin, Giovanni Pico
della Mirandola. Vita
e dottrina. « Pub-
blicazioni della R. Università
degli Studi di
Firenze. Facoltà di
Lettere e Filosofia». Ili
Serie, voi. V;
Firenze, 1937, P-
84; B. Nardi,
Sigieri di Brabante nel
pensiero del Rinascimento
italiano. Roma, Edizioni Italiane, 1945,
pp. 159-160; Id.,
Individualità e immortalità
nell'aver- roismo e nel tomismo,
in « Archivio
di Filosofia. Organo
dell' Istituto di Studi
Filosofici », voi.
dedicato al Probletna
dell' immortalità, Roma, 1946,
pp. 120-121. 28 Sigieri
di Brab., cit.,
pp. 160-169. -9 Simplicio,
p. 217, 27,
313, 2. 30 Simplicio,
p. 218, 33. 31
Simplicio, p. 229,
3. 32 Arist.,
De anima, III,
e. 5, 43oa 22. 376
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI di sé s' identifica
con l' intelletto in
potenza o intelletto
pos- sibile o passivo. Il
conoscere umano comincia
dall'esperienza sensibile, e consiste
in una liberazione
progressiva dalla pas- sività e
nel ritorno (àvaSpo^xv))
alla pura contemplazione del. mondo
ideale 33. Questo concetto
di un intelletto
che permane in
se stesso,, e, uscendo
da sé, s'unisce
al mondo della
sensibilità per ritor- nare a
sé, in un
circolo eterno, sedusse
il signore della
Miran- dola, intento a risolvere
il problema averroistico
della « co- pulatio
», ossia del
congiungimento dell'unico intelletto
col- r individuo, che
era stato il
problema di Sigieri,
anzi dello stesso Averroè
34. Questo problema doveva
essere assillante nel
suo animo. Il Nifo
narra a questo
proposito l'episodio d'un
incontro con lui e
di una discussione
che dev'essere avvenuta
nella prima- vera 1494. Il
giovane Suessano, che
professava filosofia a Pa- dova,
aveva avuto dal
suo alunno Girolamo
Bernardo, di famiglia patrizia
veneziana, un esemplare
della Destrttctio destructionum Algazelis
di Averroè, che
pochi conoscevano, e stava
preparandone un commento
che, iniziato nel
1494,, fu stampato a
Venezia nel 1497.
Un passo di
Algazele fermò a. lungo
l'attenzione di lui.
Diceva il filosofo
arabo; Forte aliquis diceret,
quod opinio Platonis
est vera, videlicet quod anima
est una et
antiqua, et dividitiir
divisione corponim, et in
corporea separatione redit
ad suam radicem
et unitur. Due cose
sono notevoli in
questo passo d'Algazele:
anzi- tutto, che la dottrina
dell'unità dell' intelletto
venga attri- buita a Platone;
indi, che vi
s'accenni alla possibilità,
intra- vista da alcuni, di
conciliare la tesi
dell'unità con quella
della molteplicità numerica e
individuale delle anime.
Ora il Nifo racconta
com'egli, abbattutosi nel
conte della Mirandola,
che insieme a lui
era diretto in
dihgenza alla volta
di Bologna, ebbe a
palesargli i suoi
dubbi su quest'argomento. E
il Mi- randolano, che
evidentemente la pensava
come di Platone riferisce Algazele,
cercò di far
capire il suo
pensiero al com- 33
Simplicio, p. 240
sgg. 34 B. Nardi,
Introduzione a S.
Tommaso d'Aquino, Trattato
sul- l'unità dell'intelletto
contro gli averroisti.
Firenze, Sansoni, 1938,, PP-
43-50- IL COMMENTO DI
SIMPLICIO AL «
DE ANIMA » 377 pagno di
viaggio con questo
curioso paragone. Come
per costruire una volta
o un arco
fa mestieri di
quella impalcatura di legno
che li sostenga
e che dicesi
centina; ma poi,
quando son costruiti, la
volta e l'arco
si reggon da
sé, senz'armatura; così una
sola idea di
tutte le anime
sorregge ed aiuta
ognuna di esse a
venire all'esistenza, via
via che per
virtù di genera- zione si formano
i loro corpi;
quando poi il
corpo vivente è già
formato, rimane in
esso un'ombra o
vestigio che dicesi anima.
Alla morte del
corpo, le anime
singole ritornano al loro
« semenzaio »,
che è quell'unica
idea della quale,
nella loro individualità particolare,
erano ombra, vestigio
e riflesso 35. Per
Platone dunque, quale
era inteso da
alcuni prima d'Aver- roè,
e quale piaceva
al Pico d' intenderlo, tutte
le anime singole sono
un'anima sola nella
loro «radice»; sono
invece molte, in quanto
suoi germogli nei
corpi, ossia in
quanto l'anima che è
una in sé
si comunica e
si propaga negl'
individui della specie umana,
uscendo, come diceva
Simplicio, fuori di sé.
Anche a
fare un po'
di tara sui
particolari' del racconto
del Nifo, la sostanza
del racconto sembra
conforme allo spirito della
filosofia pichiana, nel
momento in cui
il Mirandolano, senza rinnegare
il suo averroismo
del periodo padovano,
s' in- dustriava di
svolgerlo in senso
platonico. Non saprei se
dal Pico o
da altri il
Suessano abbia avuto notizia
del commento di
Simplicio al De
anima. Certo è che egli ricorda
più volte l' interpretazione simpliciana
della dot- trina
aristotelica in opere
composte a Padova
prima del 1498, prima
di lasciare quello
studio. Una di
queste sono i
Collectanea super lihros de
anima, che il
Nifo aveva approntato
per la pubblicazione, nel
1498, e mandato
a Baldassare Miliani, patrizio partenopeo,
coli' intento che ne accogliesse
la dedica, e all'abate
Roselo Salinatore, suo
concittadino, per averne il
giudizio 36. Nel
1503 essi furon
pubblicati, con dedica
del Nifo al Mihani,
dall'editore veneziano Alessandro
Calci- donio, mentre l'autore,
se la sua
asserzione merita fede,
aveva 35 Nifo, In
librum Destructio destructionum
Averrois commenta- ri!, disp.
I, dub. 8;
cfr. disp. IV,
dub. 7. V.
sopra, p. 319. 36
Come ho già
avvertito, i Collectanea
furono stampati dal
Nifo una prima volta
nel 1503, e
di nuovo nel
1522 insieme al
suo nuovo commento. L'ultimo
dei Collectanea, assai
prolisso, ma ricco
d' impor- tanti notizie, riguarda
il famoso t. 36 del
terzo libro del
De anima, e la
non meno famosa
digressione d'Averroè intorno
a questo testo. 378 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI stabilito di
non darli alla
luce prima che
fossero trascorsi i nove
anni oraziani dalla
loro composizione 37;
sì che si
può pensare che essi
siano una delle
prime fatiche del
suessano poco più che
ventenne. Ora in principio
di questi Collectanea
sul terzo libro,
il Nifo accenna alla
questione dibattuta fra
gli espositori, cui si
riferisce la seconda
delle « conclusiones
» del Pico
« secundum Simplicium »,
di quale intelletto
Aristotele intenda parlare in
questa terza parte
della sua opera: Verum
circa intentionem huius
tertii apud expositores
fuit difficultas non parva.
Primi enim expositores,
quos impugnare videtur lamblicus,
sentire [videntur] intentionem
huius esse de intellectu
imparticipabili, qui actu
est summus ac
vita essen- tialiter optima
et per se ab anima
separabihs. Ad quos
obiicit lambHcus et inquit:
« Quidnam et
qualis separabilis ab
anima intellectus, et quod
prima substantia et
impartibilis et optima vita
et summus actus
et idem intellegibile
et intellectio et
intel- lectus et eternitas et
perfectio et quies
et terminus et
causa omnium, 12. Metaphysice
dictum est»38. Non
ergo et hic
de Deo pertractan- dum. Sed
hoc lamblici argumentum
pace sua nihil
est.... Ideo
et aliter lamblicus
inquit: « Magis
vero nunc qualis
quis a nostra anima
participatus intellectus dicendum))39.
Sed quid velit
lamblicus, SimpHcius laborat
exponere. Ubi debes
scire, quod duplex est
intellectus: participatus et
imparticipatus. Omnis enim forma,
scilicet quae idea
dicitur, indivisibilis est
et terminus seipso; anima
autem est divisibilis,
ut reflexa ipsius
denotat actio: erit ergo
anima hominis vita
hominis secundum se
partibilis ac divisibilis. Verum,
prout intellectu participat,
in impartibilitatem cadit ac
in terminum et
indivisionem. Erit ergo anima
hominis vita hominis, cuius
intellectus est forma.
Anima enim ipsa
in-dividua est in corpore,
ut Stoici inquiunt.
Ut vero particeps
est intellectus,
impartibilis ac indivisibilis
redditur partitione et reditione.
Differt vero intellectus
participatus ab imparticipato
: ille enim non
manet in se,
sed alterius anime
est forma; impar- ticipatus autem in
se manet, ac per se
separatus est et
terminus. Et sic imaginatur
aliud esse animam,
et aliud intellectum,
lam- blicus; anima enim vita
est animalis humani;
intellectus vero forma erit
anime. Sed quoniam lamblicus
non videtur differre
a Plotino, ideo, ut
melius lamblici opinio
clarescat, Plotini sententiam
expedit enarrare.... Erit ergo
ordo: deus forma
est intellectus; intellectus 37 Ciò
è dichiarato dal
Nifo alla fine
della prefazione premessa
al- l'edizione del 1522 identica
a quella del
1503, a quanto
ho potuto vedere. V.
sopra, pp. 2'-6,
n. 13, 370,
n. 8. 38 Cfr.
Simplicio, p. 217,
23-27. 39 Simplicio, p.
217, 29. IL COMMENTO
DI SIMPLICIO AL
« DE ANIMA
» 379 vero anime;
anima rationalis vivi
humani. Erit ergo
intentio, apud lamblicum, huius
libri de intellectu
participato, qui forma est
anime rationalis, que
homo est, platonice
loquendo.... Alitar et post
hunc Simplicius. Intentionem
enim huius libri de
anima rationali dicit
esse. Imaginatur enim
aliud esse vitam hominis, et
aliud rationalem animam,
et aliud animam
totam ipsius. Vitam enim
appellat ipse cum
prioribus intentionem ho- minis, scilicet animalis
humani, que est
actus et perfectio
speci- lìcans hominem; rationalis
vero anima est
actus huius anime, sicut
lumen diaphani; ex
quibus duobus resultat
tota anima hominis. Erunt
ergo anime humane
partes due, scilicet
rationalis anima et vita
ipsa, qxie simul
totam hominis animam
constituunt. Est autem apud
ipsum duplex intellectus,
scilicet quo ad
divina copulatur anima, et
hic forte agens
est intellectus; alter
quo ad materialia, et
hic quandoque potestate
et imperfectus existit, non
quia in se
non intelligit, sed
quoniam ab alio
scientiam habet, ut a
primo, et respectu
hominis quandoque et
perfectus est et completus,
et hoc quando
perfecte toti homini
unitur. Erit ergo intentio huius
[libri] loqui de
parte, idest de
anima rationali, qua anima
scilicet hominis intelligit
et sapit; idest,
de rationali anima, que
pars est anime
hominis, scrutandum.... 4°. In
questo passo dei
Collecianea, a parte
l' interpretazione più o meno
esatta che il
Nife ci dà
del pensiero di
Simplicio, è certo che
vi sono frasi
prese alla lettera
dal commento di questo.
Ora, nel secondo
commento che il
Suessano recò a termine
nel 15 19, maestro
a Pisa, avendo
egli modificato il suo
modo d'intendere, ci
fa questa confessione: Animadverte, tamen
in Collectaneis nos
dixisse, de mente
Sim- plicii, intentionem Aristotelis
hic esse de
anima rationali que est
pars anime humane,
cum in greco
eum non viderim
tunc. At postquam eum
legi in proprio
fonte, reperi eum
opinari ut dictum est,
et non ut
in Collectaneis dixi
41. E non di
meno il commento
di Simplicio è
ricordato e di- scusso parecchie volte
negli stessi Collecianea,
nel corso del secondo
libro, con espressioni
le quali non
lasciano dubbio che l'opera
del commentatore greco
fosse familiare al
Nifo. Se questi pertanto
non la possedeva
in greco, vuol
direche la possedeva tradotta.
Questa traduzione, anteriore
d'un mezzo secolo a
quella di Giovanni
Fasolo, mi è
sconosciuta. Essa 40 Nifo,
De anima, Venezia,
1522, Collect. ad
t. e. i. 41
Nifo, ib., comm.
ad t. e. i.
380 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ad ogni
modo doveva essere
molto imperfetta, sì
da accrescere le oscurità
che sono già
nel testo greco.
Il Nifo poi
dovette affrontare la lettura
di Simplicio con
l'animo di trovarvi
una conferma alle proprie
idee sigieriane. Egli stesso
confessa di avere
per lungo tempo
aderito alla dottrina di
Averroè nell' interpretazione che
di questa dava Sigieri
nel Tractatus de
intellectu scritto in
risposta al Tractatus de
unitale intellecUis di
S. Tommaso 43.
I capisaldi di
questa dottrina, che il
Nifo dichiara d'avere
attinto al trattato
di Sigieri43, sono i
seguenti: i) l'intelletto
possibile è unico
per tutta la specie
umana; 2) esso,
per attuare tutta
la sua potenza, ha
bisogno di trovarsi
unito in ogni
momento a una
moltitu- dine d' individui
umani che gli
forniscono le specie
sensibili, senza delle quali
esso niente può
intendere; 3) l'unione
tra r intelletto possibile
e la «
cogitativa », che
è la più
alta fa- coltà dell'anima sensitiva,
è un'unione sostanziale,
e non sem- plicemente accidentale, come
pensavano altri averroisti,
sì che può dirsi
che l'uno e
l'altra son parti
ond' è costituita l'anima razionale
dell'uomo; 4) l'anima
razionale, costituita dall'unione della
cogitativa coli' intelletto,
che in sé
è unico, può dirsi
veramente « forma
informante », e
non soltanto « assistente
» dell'uomo, tale
cioè che dà
a questo il suo essere di
animale ragionevole, contrariamente a
quanto asserivano altri averroisti,
i quali sostenevano
che l'anima intellettiva è soltanto
forma assistente. Questa dottrina
sigieriana è presentata
dal Nifo come schietta
farina del sacco
averroistico, senza che
sia fatto il nome
di Sigieri né
quello di Simplicio,
nel commento che il
suessano scrisse a
Padova sul dodicesimo
della Metafìsica (ad t.
e. 17 e
38) e nell'esposizione della
Destructio destructio- num (disp.
I, dub. 23;
IV, 7; XIV,
i, quaestio 4)
pubblicata nel 1497. Invece
nel De intellectu
essa è esposta
due volte: nel lib.
I, tr. 3,
e. 16, è
presentata come dottrina
di Simplicio; nel cap.
18, come dottrina
di Sigieri tendente
a trovare una via
di mezzo «
inter latinos et
averroycos ». Siccome
m' è già accaduto
di richiamare l'attenzione
sulla dottrina che il
Nifo attribuisce a
Sigieri, non è
forse inutile che
con essa si raffronti
questo riassunto che
nella stessa opera
il suessano 43 Cfr.
B. Nardi, Sigieri
di Brab., cit.,
p. 14. 43 I
luoghi del Nifo
sono riuniti nel
mio volume ora
citato, pp. 13-21. IL
COMMENTO DI SIMPLICIO
AL « DE
ANIMA )) 381 ci
ammannisce, ancora una
volta, del pensiero
di Simplicio, prima di
averne conosciuto il
commento «in proprio
fonte»: Si rationales animae
erunt plures et
intellectus unus, sic
Sim- plicii erit positio.
Imaginatur enim Simplicius,
ex intellectu et omnibus
praecedentibus formis, in
corpore humano praeviis, constitui rationalem
animam, quae quidam
est totum quoddam constituens in
esse hominem. Et
quoniam cogitativa seu
sensitiva anima praecedens est
multiplicata, procul dubio
rationalis anima est numerata
per corpora. Quemadmodum
enim materia est
una privatione formarum in
se, et tamen
per formas partitur
et fit altera alteraque,
sicut altera atque
altera est forma;
sic intellectus unus potentiae
fit alius atque
alius, prout alteri
atque alteri sen- sitivae
unitur secundum esse;
et sic fiunt
plures animae ratio- nales
secundum corpora, licet
intellectus sit unus. Et
si dicas :
— Ergo rationalis
anima est corruptibilis, — con-
cedunt rationalem animam
esse corruptibilem totam
ratione partis, quae est
totum praecedens eam
in corpore humano;
tamen intellectus in se
incorruptibilis est. Est
enim una anima
numero unius hominis: cuius
una pars est
intellectus incorruptibilis, et altera
pars est totum
quod praecedit, scilicet
sensitiva et vege- tativa, quae est
unum faciens cum
intellectu. Et sic
totum id est corruptibile
ratione praecedentis partis;
intellectus autem sempiternus. Et
hoc sentire videtur
Aristoteles 12. Divmornm dicens: «
In quibusdam enim
nihil prohibet; ut
si est anima
tale; non omnis »,
idest tota, «
sed intellectus; omnem
namque impossi- bile est f orsan
» 44. Ecce quo
pacto Aristoteles dicit
totam animam esse corruptibilem, sed
intellectus permanet. Et si
dicis: — Quando
corrumpitur totum, ubi
remanet intel- lectus ? —
dicunt quidam quod
remanet in se,
sicut materia: quando enim
generatur homo, statim
accipit intellectum tanquam partem animae
suae; et quando
corrumpitur, perdit animam,
licet intellectus remaneat. Et apud
Simplicium salvatur multitudo
rationalium anima- rum, et
quomodo rationalis anima
dat esse homini,
et salvatur sempiternitas intellectus.... liane positionem
multi credunt esse
mentem Platonis, que- madmodum Algazel. Inquit
enim: «Et forte
aliquis diceret, quod opinio
Platonis est vera,
quod anima est
una et antiqua, et
dividitur divisione corporum;
et in corporea
separatione redit ad suam
radicem et unitur
». Haec ille in
libro Destructio destructio- nuììi, dubio
octavo primae disputationis. Ubi
Averroes, in so- lutione
illius dubii, inquit:
«Et ideo anima
Petri et anima
Gui- 44 Arist., Metaph.,
XII, t. e. 17, e. 3,
io7oa 25-27. Allo
stesso modo intende questo
luogo d'Aristotele il
Nifo, In duodecinmm
Metaphysices Arisf. et Aver....
ad Antoniiim lustinianum
Patritium Venetiim (Venetiis.... Die 30
lulii 1526; ma
la prima edizione
a spese di Al. Calcidonio
è del 1505), t.
e. 17. In
quest'opera degli ultimi
anni del suo
soggiorno pado- vano, il
Nifo è ancora
s sieriano, ma
non cita Simplicio. 382 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI lelmi quodammodo
possunt dici una et eadem,
ut puta ex
parte formae, et sunt
multae alio modo,
videlicet respectu subiecto- rum
». Et ibidem,
in solutione dubii
23. ait: «
Omnes communiter opinati sunt,
quod animae innovatio
est relativa, scilicet
quod haec innovatio est
eius adiunctio cum
corporeis possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo
modo quo praeparationes et po-
testates speculorum recipiunt
adiunctionem solis radiorum
». Ergo ex mente
Averrois p^ositio haec
videtur esse, et
non tantum Simplicii. Idem
etiam sentire videtur
Averroes comm. 38.
duo- decimi Divinorum. Inquit enim:
«Et ex hoc
quidem apparet bene, quod
Aristoteles opinatur quod
forma hominum, in eo quod sunt
homines, non est
nisi per continuationem eorum
cum intellectu, quod declaratur
in libro De
anima ». Ecce
quo pacto piane positionem
hanc Simplicii sentit
Averroes, occasione horum verborum et
multorum aliorum. Aliqui
credunt positionem hanc esse
intentionein Averrois, scilicet
quod rationalis anima
sit composita ex intellectu
potentiae et toto
praecedente, scilicet vegetativo sensitivoque
: ex quibus
terminatur ac conficitur
forma quaedam simplex, quae
actu est vegetativa,
sensitiva ac ratio- nalis; quae forma
sit hominis, secundum
esse multiplicata per homines
ac numerata, licet
intellectus sit unus
in se, ut
diximus. Questo il Nife
scriveva prima di
conoscere il testo
greco di Simplicio; ma
anche quando ebbe
tra mano l'esposizione simpliciana del
De anima nella
lingua originale, e
ne trasse vantaggio per
recare a termine
nel 1519, insegnante
a Pisa, il suo
ultimo commento sull'opera
d'Aristotele, stampato insieme ai
Collectanea nel 1522,
corresse, sì, molti
errori e inesattezze in
cui era incorso
nelle opere giovanili,
ma per quel che si
riferisce
all'interpretazione della dottrina
di Simplicio intorno all'unità
dell' intelletto possibile
e al modo
di unirsi di questo
coll'anima sensitiva, rimase
fermo nell'opinione che la
tesi del commentatore
greco fosse sostanzialmente identica con
quella d'Averroè45. E
sebbene fosse ormai
tra- scorso un ventennio da
che aveva lasciato
lo studio padovano, il
ricordo di quegli
anni lontani, in
cui gli pareva
d'aver tro- vato nella dottrina
di Sigieri un
modo plausibile di
risolvere gli argomenti tomistici,
e di Sigieri
discuteva con Pico
della Mirandola, sembra ad
un tratto ridestarsi,
sebbene in modo molto
confuso, nella sua
mente: Simplicius arbitratus est
omnium hominum intellectum
unum numero esse; rationales vero
(animas) prò hominum
numero 45 B. Nardi,
Sigieri di Brab.,
cit., pp. 43-44. IL
COMMENTO DI SIMPLICIO
AL « DE
ANIMA » 383 multiplicari. Non
desunt qui positionem
hanc Avverei tribuant, ut
Rogerius et Suggerius
uterque Bacconitanus, Thomaeque coetanei. Hi
enim in eorum
libellis, quos adversus
Thomam scrip- serunt prò
defensione Averrois, non
modo positionem hanc
Averroi, sed omnibus graecis
expositoribus attribuerunt 46. Questo
inestricabile garbuglio di
nomi e di
idee era tutto quello
che il Nifo,
divenuto ormai tomista
a modo suo
e conte palatino, col
privilegio di fregiarsi
del titolo di
« Medices », conferitogli da
Leone X nel
1520, ricordava del
suo insegna- mento a Padova;
ma era un
ricordo che diventava
di giorno in giorno
più sbiadito e
confuso nel suo
spirito abbagliato dallo sfarzo
delle aule principesche
e tutto preso
dalla brama di procacciarsi
privilegi ed onori,
senza celare le
tardive fiam- melle che accendeva
nel suo maturo
cuore il seducente
aspetto di qualche bella
cortigiana. 3. - Anche
quando il Nifo
ne fu partito,
a Padova si
con- tinuò per molto tempo
a studiare il
commento di Simplicio al
De anima e
ad interpretarne il
pensiero in senso
averroi- stico. Giulio Castellani
da Faenza, che
a Ferrara aveva
avuto per maestro il
bresciano Vincenzo Maggi
o Madio, alessan- drista, narra47
com'egli avesse trovato
il commento di
Sim- plicio oscuro ed involuto
nella maniera d'esprimersi,
e che anche dopo
la seconda e
la terza lettura
gli rimanevano pa- recchi dubbi. Ma
avendo avuto occasione
di recarsi a
Padova, fra il 1562
e il 1563,
trovò in questa
città uomini eminenti nello studio
della filosofia e
delle buone arti,
che gli chiari- rono appieno le
sue dubbiezze : e Ita
sane complura Simplicii tenebricosa dieta
illustrarunt claraque et
apertissima red- diderunt ». Quale
idea il Castellani
si fosse fatta
della dottrina di
Sim- plicio intorno alla mente
umana, dopo averne
discusso coi dotti padovani,
si può capire
da questa esposizione
che egli 46 76.,
p. 44. 47 luLii
Castellanii, Faventini, In
libvos Aristotelis de
humano intellectii
disputationes sive lucidissimi
commentarii ex doctrina
chri- stianorum auciorum ac
philosophorum antiquoriim descripti.
Ad Cosmum Medicem Florentinorum
ac Senensiuni ducem.
Venetiis, MDLXVII. Lib. I, cap.
2, fol. 5v-yr. 384 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ne fa
e che giova
conoscere: Simplicius
igitur, atque ii
qui illuni praecipue
sectantur et eius sententiam
explicant, humanam nientem
unani tantum numero esse
dicunt, istamque in
intelligentiarum ordinem col- locant;
tametsi eam longe
omnium infimam et
humano orbi assistere arbitrantur.
Quam etiam liomini
nequaquam dare esse affirmant
(ita loquuntur philosophi,
et saepe eorum
verbis facilioris doctrinae gratia
uti nos oportebit)
; sed aliud
statuunt genus animae, quam
Cogitativam vocant, a
quo informatur homo :
ex Cogitativa enim
et corpore organico,
tanquam ex materia et
forma, conflatur liomo;
ex mente et
homine, tanquam ex
nauta et navi, nobilius
quoddam atque divinum
compositum oritur, quippe quod
intellectus nobilissimam ac
divinam tantum homini operationem praebet. Come
già il Nifo,
dunque, anche questi
maestri padovani del tempo
del Castellani, facevano
risalire a Simplicio
la tesi averroistica dell'unità
dell' intelletto. Ma
mentre il suessano attribuiva a
Simplicio la tesi
sigieriana, un tempo
difesa da Paolo Veneto
e, piìi tardi,
da Alessandro Achillini,
da Ti- berio Bacilieri e
da Geronimo Taiapietra,
secondo la quale r
intelletto unico s'unisce
alla « cogitativa
» in modo
da for- mare con questa
una sola anima
individuale e razionale
che, tutta intera, è
forma dell'uomo e
dà a questo
il suo essere di
uomo, i padovani
cui accenna il
faentino ritenevano, al contrario,
che l' intelletto s'unisce
alla « cogitativa
» soltanto come «
forma assistente «
e non come
« forma informante
», ossia, secondo l'espressione
aristotelica, « sicut
nauta navi «, Continua
poi il Castellani,
sviluppando concetti accennati anche in
alcune delle stampata
a Parigi, in
« Officina Christiani
Wecheli », nel- l'anno 1543, ispirandosi
al Bessarione, osserva
molto giusta- mente, che coloro
che hanno bisogno
di confermare la
loro fede coH'autorità di
Aristotele, non sembrano
aver molta fiducia nella
parola di Cristo.
E poco più
di un ventennio dopo, esattamente
nel 1567, un
altro aristotelico italiano, ma
non averroista, bensì
alessandrista, Giulio Castellani
da Faenza, diceva che
coloro che esitano
a prender posizione
e a dichiarare il
loro pensiero per
ciò che riguarda
i problemi dello spirito
umano, per paura
di trovarsi in
contrasto colla fede, «
profecto huiusmodi homines
ignorare videntur, quam Christiana fìdes
et charitas a
philosophandi ratione distet, et
quam nullius sint
ponderis Aristotelis inventa
et argumen- tationes ad
sanctissimae religionis nostrae
decreta labe- factanda ».
E conclude con un linguaggio
da gran galantuomo, senza falsi
pudori: « Audacter
igitur etiam possumus
de animi nostri substantia
ac perpetuitate disserere,
perpendereque diligenter
quid de eo
discernendum voluerit Aristoteles.
Si quideni cum nos
philosophamus, ex aliorum
sententia loquimur, semperque, ut
christiani, Sacrarum Litterarum
preciosissima monumenta pie colenda
et observanda supponimus
». Ecco dunque a
che cosa si
riduce la così
detta « dottrina della doppia
verità », della
quale si sono
scandalizzati gli sto- rici moderni della
filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece 448 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI gl'inquisitori dell'eretica
pravità; ai c]uali
interessava medio- cremente
di sapere come
la pensasse Aristotele.
Ad essi ba- stava di
sapere che sia
gli averroisti che
gli alessandristi non ponevano
in discussione le
verità rivelate, bensì
la dottrina di Aristotele.
Che se poi
Aristotele non s'accordava
alla fede di Cristo,
tanto peggio per
lui; e tanto
peggio per chi
lasciava Cristo per Aristotele. S'oda, per
esempio, quest'avvertenza che
Polo Loredan, patrizio veneziano,
rivolge al lettore
nell'atto di congedare per
la stampa il
suo commento al
De anima condotto
secondo lo spirito alessandrista
del Pomponazzi, del
Porzio e del
Ca- stellani, e dedicato nel
1596 al serenissimo
duca d'Urbino, Francesco Maria
da Montefeltro: «Pie
lector, haec mea
com- mentarla pie legito, et
tantum mentem Philosophi
hic inter- pretari scito;
et me interpretem
christianum et Sanctae
Ro- manae Ecclesiae filium
esse advertito, et
prò Domino nostro lesu
et Ecclesia mori
paratum habeto; Aristotelem
christia- num non extitisse notato,
nec ipsum Christiane
scripsisse nec Christiane expositum
observato. Fidem Christi
Dei et Dei filli
tot tantisque miraculis
firmatam inspicito, auctori- tate
Aristotelis non indigeto,
et si quae
veritatem catholicam turbantia legeris,
tamquam falsa et ab Aristotele
impio prolata prò firmo
et indubitato habeto
tenetoque. Vale ». Perciò
le autorità ecclesiastiche, dai
primi anni del
se- colo XIV in poi,
avevano finito per
acquetarsi a siffatte
di- chiarazioni, e
lasciarono sia agli
averroisti che agli
alessandristi la più ampia
libertà di discussione
e di critica.
Le difficoltà che i
dantisti trovano ad
intendere come Dante
possa aver messo nel
suo Paradiso, a
fianco di S.
Tommaso, un averroista qual era
stato Sigieri di
Brabante, e farne
l'elogio che Dante fa
pronunciare allo stesso
Tommaso d'Aquino, derivano
da due cose: primo,
dal non aver
capito la particolare
natura della filosofia di
Dante; secondo, dal
non aver capito
che cosa è stato
l'averroismo. Questi
commentatori di Dante,
invece di guardare
alla figurazione dantesca in
se stessa e
in rapporto al
pensiero del poeta che
pone « Averrois
che '1 gran
commento feo » tra
gli spiriti magni
del nobile castello,
si son lasciati
for- viare dalle
raffigurazioni cui accennavo
in principio, e
nelle quali Averroè è
prostrato nella polvere
ai piedi di
S. Tom- maso. LA FINE
DFXL AVERROISMO 449 A
queste figurazioni d' ispirazione domenicana
e tomistica parrebbe opporsi
invece quella d' ispirazione agostiniana
che Giusto dipinse, poco
prima del 1370,
nella cappella dei
Cor- telieri annessa alla
chiesa degli Eremitani
a Padova, ove aveva
insegnato Gregorio da
Rimini. Dalle descrizioni
che un secolo dopo
ne lasciò Hermann
Schedel, in questo
affresco del Menabuoi Averroè
era dipinto a
fianco di Maestro
Alberto da Padova, teologo
eremitano morto nel
1328, e del
beato Giovanni della Lana
da Bologna, filosofo
e teologo ed an-
ch'esso eremitano, morto, a
quanto pare, intorno
al 1350. Questo affresco
deve avere impressionato
il giovane ere- mitano Paolo Veneto
che pochi decenni
dopo, reduce an- ch'egli,
al pari di
Gregorio da Rimini,
dalle scuole di
Oxford e di Parigi,
e salito sulla
cattedra di filosofia
nelle scuole an- nesse al
convento agostiniano di
Padova, ispirò il
suo insegna- mento alla dottrina
sigeriana, sforzandosi di
dimostrare in che modo
l' intelletto, unico per
tutta la specie
umana, riesce ad individualizzarsi nei
singoli. lAlla stessa
dottrina sige- riana s'
ispirano verso la
fine del secolo
XV, Pico della
Mi- randola, Alessandro
AchiUini, Agostino Nifo,
Tiberio Ba- cilieri e
altri. L'averroismo che ormai
pareva avere esaurita
la sua vi- talità a
Parigi ed a
Oxford, sopraffatto dallo
scotismo e dal- l'occamismo, s'era
ridotto ormai nelle
sue due ultime
fortezze di Padova e
di Bologna. Accade
ancora di trovare
qualche altro averroista altrove,
come Luca Prassicio
a Napoh, che già
vecchio intervenne nel
1521 nella polemica
fra il Pompo- nazzi
ed il Nifo.
Ma nel suo
rigido attaccamento al
testo aver- roistico, egli
parlava un linguaggio
che si faceva
di giorno in giorno
più incomprensibile. Anche a
Bologna, ove l'averroismo
sigeriano aveva trovato alla
fine del Quattrocento
nell'Achillini un difensore
ardito e destro, non
ebbe in Ludovico
Boccadiferro un successore degno di
tanto maestro. A
Padova invece l'averroismo
prese a rinnovarsi, sotto
la spinta del
Platonismo. Nel 1481 era
uscita a Treviso
la traduzione che
Ermolao Barbaro aveva fatto
delle Parafrasi di
Temistio. A questo interprete bizantino
e a Teofrasto,
Averroè stesso aveva
fatto risalire la dottrina
dell'unità dell' intelletto.
Non fa quindi meraviglia che
gli averroisti si
ponessero a studiare
con parti- colare interesse la
parafrasi temistiana del De anima,
nella 29 450
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI traduzione del Barbaro,
visto che la
traduzione medievale di Guglielmo
di Moerbeke era
diventata estremamente rara, e
del resto era
oltremodo ostica all'orecchio
degli umanisti. Ma assai
più della parafrasi
di Temistio, contribuì
al rinnova- mento
dell'averroismo padovano la
conoscenza del commento di
Simplicio al De
anima, rimasto sconosciuto
ai medievali. Il primo
che, a mio
parere, conobbe ed
usò il commento di
Simplicio al De
anima fu Pico
della Mirandola, il
quale ne estrasse ben
nove tesi delle
900 preparate nel
i486 per k disputa
da tenere a
Roma, che poi
non ebbe luogo.
Il com- mento di Simplicio
dovette attirare l'attenzione
del Pico, perché pareva
contenere un elemento
che poteva essere
pre— ^ zioso a risolvere
il problema centrale
dell'averroismo e che è
il problema centrale
di tutta la
filosofia, e cioè:
in che modo r
intelletto che è
un principio di
conoscenza universale e che nella sua
natura trascende l' individuo,
si comunica a
questo, puntualizzandosi
nello spazio e
nel tempo. Come
ho dimo- strato più volte,
il significato storico
ed il valore
filosofico dell'averroismo
consiste appunto nello
sforzo di risolvere questo problema,
che, posto dai
medievali in termini,
se vo- gliamo, contingenti e
per noi inconsueti,
è il problema
eterno della filosofia. Il
trattato di Sigieri
di Brabante, De
intellectu, scritto in risposta
al trattato di
S. Tommaso contro
gli aver- roisti, questo
trattato di Sigieri
che si leggeva
ancora a Pa- dova negli ultimi
decenni del sec.
XV, suggeriva al
signore della Mirandola, studente
a Padova ed
averroista, una solu- zione della quale
si ha l'accenno
in due delle
« conclusiones secundum Avenroem»:
da un lato,
l'anima intellettiva è una
sola in tutti
gli uomini; dall'altro,
sembra possibile al Pico,
da un punto
di vista strettamente
averroistico, che la mia
anima, così particolarmente mia da distinguersi
dall'anima di ogni altro
uomo, possa conservare
la sua individualità anche dopo
la morte. L'elemento prezioso
che il commento
di Simplicio forniva al
Pico, consiste nell'
idea, derivata da
Proclo e da
Giambhco, di un intelletto
che, uno in
sé, è capace
di parteciparsi, uscendo fuori
di sé, in
una discesa progressiva
verso le «seconde
vite», cioè la vita
vegetale e quella
animale, per poi
ritornare in sé, in
un circolo eterno
che ricorda, anche
nella curiosa coinci- denza dell'espressione verbale,
il processo hegeliano
dell' idea in sé
che, uscita fuori
di sé, ritorna
a sé come
spirito. LA FINE DELL
AVERROISMO 45 1 Non è
il caso d' indugiarmi
piìi oltre ;
ma non posso
non ricordare la curiosa
immagine che il
Pico suggeriva al Nifo,
professore a Padova,
durante il viaggio
che insieme eb- bero a
fare diretti entrambi
a Bologna. L'unità
dell' intelletto umano non
è altro che
l'unità dell' idea
platonica, che si co-
munica ai singoli rimanendo,
in se stessa,
una, indivisibile e immoltiplicabile. Ma,
nel comunicarsi ai
singoli, essa lascia in
questi un' impronta
e un vestigio
che permane e
costituisce r individuahtà dei
singoli. E, per
rendere il suo
concetto, il mirandolano ricorreva
a questo paragone.
Come per co- struire un arco
o una volta
è necessaria quell'
impalcatura che chiamano centina;
ma quando l'arco
o la volta
sono co- struiti, si reggono
da sé, senza
bisogno di sostegno;
così l'anima individuale è
una partecipazione dell'anima
universale, la quale nel
corpo di ogni
individuo umano' lascia un'impronta in cui
consiste l' individualità di
ogni uomo. In tal
modo il mirandolano
non ripudiava affatto
il suo averroismo del
periodo padovano; ma
anzi l'approfondiva e lo giustificava con
un concetto neoplatonico,
sì che il
problema, nel quale si
dibattevano senza via
d'uscita gli averroisti, pareva avviato
alla soluzione. Agostino Nifo,
professore a Padova
dal 1492 al
1499, uomo di vasta
erudizione, ma confusionario
e pretenzioso, credette in
un primo momento
di aver trovato
nel commento di
Sim- pUcio la piena
conferma alla tesi
sigeriana, che egli
ci attesta di aver
accolto nella sua
prima giovinezza e
poi con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità
chiassosa ed arrogante
che il Nifo
metteva nel difendere le
proprie idee e nel combattere
le altrui, contribuì ad
attirare l'attenzione sul
commento di Simphcio,
del quale frattanto fu
preparata l'edizione in
greco che uscì
a Venezia nel 1527,
presso i Manuzio.
Colui che pur
senza condividere le idee
del Nifo, anzi
combattendole apertamente, si
diede con ardore a
studiare il commento
di Simplicio al
De anima, fu Marcantonio
de' Passeri, detto
il Genua, professore
di filo- sofia nello studio
di Padova dal 15
17 all'anno della
sua morte nel 1563.
Di costui ci
resta un importante
commento al De anima,
pubblicato postumo nel
1576, a Venezia,
ad opera di fedeli
alhevi che si
giovarono dei manoscritti
lasciati dal maestro. Altre
due redazioni dello
stesso corso, tenuto
in anni diversi, ci
restano manoscritte nella
Biblioteca Vaticana. 452 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Averroista, il
Genua riteneva di
poter proclamare il
pieno accordo fra Averroè
e « il
divino Simplicio »,
sia sulla tesi
del- l'unità dell'
intelletto, sia su
quella che vuole,
contro la cor- rente sigeriana del
Nifo, l'anima razionale
forma assistente e non
inerente o «
informante » del
corpo umano. Inoltre,
egli constatava l'accordo tra
il commentatore greco
e quello arabo anche
su altri punti,
segnatamente sulla conoscenza.
Nel far ciò, egli
si ado prava a
sviluppare alcuni motivi
platonici che realmente erano
latenti nel pensiero
averroistico. Natu- ralmente
il Genua
fu uno dei
più risoluti avversari
dell'ales- sandrismo, e riprese
per proprio conto,
come altri averroisti, la polemica
contro il Pomponazzi
e il Porzio,
i quali, al
pari di Vincenzo Maggi,
di Bassiano Landò
e di Giulio
Castellani, s'erano
dichiarati per Alessandro
d'Afrodisia. L'avvicinamento
di Averroè a
Simplicio, mentre forniva nuove
armi agli averroisti,
sembrò per un
momento smus- sare
l'antagonismo tra la
filosofìa aristotelica e
quella pla- tonica, la quale
aveva avuto nel
Ficino un sagace
rinnova- tore. La scuola del
Genua pareva anzi
aver trovato nel
neo- platonismo la soluzione di
quelle difficoltà, che
furon lo scoglio contro il
quale l'averroismo doveva
naufragare. L'entusiasmo dei discepoli
incoraggiava ed assecondava l'opera del
maestro. Fra questi
merita di essere
segnalato Giovanni Fasolo, professore
di lettere umane
nello studio padovano. Era
da otto anni
allievo del Genua
e ben tre
volte aveva udito il
maestro esporre il
De anima, quando
condusse a termine la
traduzione in latino
del commento di
Simplicio sul trattato aristotelico,
stampata a Venezia
nel 1543. Nella lettera
indirizzata agli alunni
del Genua, e
premessa alla traduzione del
secondo libro di
Simplicio, il Fasolo,
dopo aver loro ricordato,
come il maestro
solesse a tutti
gli altri commen- tatori d'Aristotele anteporre
Averroè e Simplicio,
afferma che tutto quanto
v' è di
buono nei libri
dell'arabo, questi 1' ha appreso dal
commentatore greco. E
sebbene egli riconosca, che, su
alcuni punti, non
s'arriverebbe a capire
Aristotele senza il commento
averroistico, tuttavia ne
mette in rilievo lo
stile, più che
disadorno, irto, oscuro,
barbarico, mentre l'esposizione di
Simplicio è piana,
senza ambiguità, ed
ele- gante. Forte di questa
constatazione, e più
ancora dell'esempio del maestro,
che non si
stancava di lodare
la divina esposi- zione dell' interprete
greco, il Fasolo
rivolge una calda
esor- LA FINE DELL
AVERROISMO 453 tazione ai
suoi condiscepoli, perché
vogliano, ora che
il com- mento di Simplicio
è reso facilmente
accessibile a tutti,
ces- sare di logorarsi il
cervello sulle pagine
scabrose di Averroè, e
s'affidino invece all'espositore greco.
Si buttino pur
via tutti gli altri
commenti, quelli d'Alberto
Magno, d' Egidio
Romano, del Burleo, del
Suessano e d'altri
insieme a quello
d' Averroè, e si studi
invece di giorno
e di notte
soltanto Simphcio: «
alios negligite; Simplicium unum
vobis die noctuque
versandum proponite w. Questo vivace
appello rivolto dall'umanista
padovano a cacciar dalle
scuole Averroè, era
fatto, a dir
vero, più in nome
dell'eleganza e del
buon gusto letterario,
che non nel
nome della filosofìa; e
pochi l'accolsero. Sicché
Averroè continuò ad essere
stampato, letto e
discusso « in
utramque partem » nelle
scuole di filosofia
durante tutto il
Cinquecento. Ma quell'appello, ad
ogni modo, è
significativo del disgusto
che cominciava così apertamente
a manifestarsi per
l'averroismo ormai prossimo al
tramonto. Chi credesse che
a questo tramonto
abbiano contribuito lo spirito
della controriforma e
i divieti ecclesiastici, s' inganne- rebbe. Chiarito ormai
quello che era il significato
dell'averroismo come sistema interpretativo del
pensiero aristotelico, fu ri-
conosciuta tanto agli averroisti
quanto agh alessandristi
la più spregiudicata libertà
di discussione delle
loro dottrine « filosofiche
». Se qualche
tentativo fu fatto,
da parte di
qual- che zelante, di Hmitare
siffatta hbertà, si
tratta di zelo
ec- cessivo e di eccezioni
sporadiche. L'averroismo
volse al tramonto
sul finire del
secolo XVI e sul
cominciare del secolo
successivo, perché al
tramonto vol- geva ormai l'aristotelismo, del
quale l'averroismo pretendeva d'essere la
più fedele interpretazione. L'aristotelismo a sua volta finiva
per interna dissoluzione,
sotto i colpi
della critica occamistica, la
quale, svalutando la
conoscenza astrattiva, metteva in
evidenza lo pseudo
matematismo dei procedimenti gnoseologici che
sono alla base
del sistema aristotelico
della natura, e additava
nella conoscenza intuitiva
lo strumento della ricerca
scientifica. La stessa opposizione
tra ciò che
è vero per
fede e quello che
è da pensare
secondo la «filosofia»,
se pur in
qualche modo giovò a
rivendicare la Hbertà
della critica entro
i confini della filosofia aristotehca,
finì per rendere
sempre più estraneo
al 29 * 454 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI cristianesimo raristotelismo averroistico,
il quale si
rivelava incapace di sistemare
l'esperienza religiosa che
trae impulso dal Vangelo.
11 platonismo invece
era parso al
Ficino una specie di
propedeutica al cristianesimo, sì che sembrava
agevole sviluppare in senso
cristiano i motivi
religiosi che racchiudeva. S'aggiunga a
questo l'asperità di un linguaggio
che lacerava le orecchie
abituate dall'umanesimo all'armonia
e al numero della
retorica classica. Ma quello
che determinò il
crollo definitivo dell'aristoter- lismo e
dell'averroismo, fu il
nascere di una
nuova filosofia della natura,
fondata su un
nuovo metodo di
ricerca scienti- fica: la logica
dell'esperienza. Mentre i
precursori di Coper- nico, da Nicola
d'Oresme in poi,
avevano rimesso in
discussione l'antica ipotesi pitagorica
del moto della
terra, l'averroista bolo- gnese Alessandro Achillini
alla fine del
secolo XV e
nel primo de- cennio del XVI
combatteva perfino, come
troppo ardita, la
dot- trina tolemaica degli eccentrici
e degli epicicli,
per ritornare a quella
aristotelica delle sfere
concentriche alla terra,
considerata il centro immobile
dell'universo. E mentre
alcuni scolastici del sec.
XIV avevano dimostrato
la possibilità di
un universo infinito creato da
Dio, ed avevano
preparato la via
al Cardinal Cusano e
al Bruno, gli
averroisti del Quattrocento
e del Cinquecento continuavano ancora
a sostenere che il mondo
non si esten- desse al di
là dell'ottava sfera
o, tutt'al più,
del primo mobile,, che
Dio stesso, nella
sua onnipotenza, non
potesse creare altri mondi
diversi da questo,
e che il
moto del primo
mobile fosse un movimento
assoluto, come punti
di riferimento assoluti erano, per
loro, il centro
della terra e
la convessità della
prima sfera. Questa angusta
concezione dell'universo fisico
crollava come un castello
di carte, il
giorno in cui,
col dialogo della Cena
delle ceneri e
con quello Dell'universo
infinito e mondi, il
concetto dell' infinito
faceva irruzione nella
filosofia della natura e
conduceva alla scoperta
della relatività di
tutte le determinazioni spaziali
e temporali. L'averroismo
fu sepolto sotto le
rovine della fisica
aristotelica. Ed anche il
tentativo del Pico
e del Genua
di svolgere ta- luni motivi del
pensiero averroistico in
senso platonico, col- l'aiuto
del commento di
Temistio e di
Simplicio e sopratutto- col sussidio
di Plotino, non
valse a salvare
1' averroismo come sistema.
Per ciò che
si riferisce al
commento di Simplicio,
nel quale avevano riposto
le loro speranze
il Genua ed
i suoi pa- LA
FINE dell'averroismo 455 do
vani, non passarono
molti anni che
Francesco Piccolomini, il quale
dopo la morte
del Genua ne
occupò la cattedra
fino al suo ritiro
nel 1601, potè
dimostrare, con un
accurato esame dell'opera del
commentatore greco, che la dottrina
di Simplicio, al pari
di quella di
Proclo, di Giamblico
e di Prisciano
Lido, non s'accordava affatto,
come avevano preteso
il Genua e il Nifo, colla
teoria averroistica dell'unità
dell' intelletto. E se nell'averroismo v'erano
effettivamente quei motivi
platonici che ne svolse
Pico della Mirandola,
ciò che dell'averroismo sopravisse e,
mettiamo pure, sopravive
alla dissoluzione del sistema,
ha finito per
fondersi col pensiero
platonico successivo. Lo stesso
problema del rapporto
dell' intelletto coli'
indi- viduo, ossia del valore
universale dell' intendere
e dell' indi- vidualità dell'atto che
intende, che è il problema
centrale del- l'avveroismo medievale
e del Rinascimento,
s' è rivelato
mal posto, pei termini
nei quali era
enunciato, e conveniva
mutare i termini per
trovarne la soluzione. INDICE ONOMASTICO
E DOXOGRAFICO Abano (Pietro
d') : 1-74,
75, iii, 229, 241,
242, 247, 248,
343. Abbagnano N.: 277-78,
351. Abubacher: 144, 298
(v. Aven- pace). Accoramboni G.
: 164. Achillini A.:
106, 139, 142,
143, 166, 171, 179-279,
281, 282, 288, 301,
310, 315, 316, 317,
319, 320, 324, 328,
329, 330, 336, 342,
349, 352, 384.
409. 412, 418, 419,
439, 441, 449,
454. Achillini C: 225,
240. Achillini G. F.
: 226, 249,
251, 263, 271, 272. Aeternitni a
parte post, aeternum a
parte ante :
298. Agenti univoci e
sinonimi: v. Cause u.
e 5. Agostino (S.):
17, 53, 68,
192. Agostino Moravo: 160. Alabanti A.:
103, 318. Albategni o
Albattani: 170. Alberto G.
G.: 416. Alberto Magno:
29, 73, 78,
95, 96, 104, 105,
107, 108, 127,
128, 135, 136, 137,
138, 139, 143. 145,
146, 221, 247,
276, 294, 300, 395,
434, 439. Alberto di
Padova: 75, 449. Alberto
di Sassonia, o
Albertuccio: 103, 104, 107,
117, 239, 247,
262. Albumasar: 34. Alcocodem: 34. Alessandrismo: 59,
64, 97. Alessandristi: 413
(v. Averroisti). Alessandro d'Afrodisia:
4, 13, 14 19,
41, 49, 62,
64, 67, 69, 87
128, 129, 130,
131, 132, 134 144,
154, 204, 211,
236, 239 276, 297,
298, 309, 354,
365 368-72, 374, 391,
405, 406, 408 409,
424, 427, 436,
446, 452. Alessandro di
Hales: 145, 146. Alf arabi (Alpharabius), Abu
Na- sar) : 14,
41, 42, 128,
130, 131, 134, 137,
144, 298. Algazel (Al-Gazali)
: 9, 14,
41, 42, 88, 376,
381, 406, 430-31. Alnwich G.:
75. Alpheeh, Averrois
filius: 308. Alvise da Brescia:
172. Ammonio: 354. Anassagora: 3,
4, 14, 16,
40, 59, 68, 182. Anatomia: 249-50,
271-73. Angeli: 202-203. Anima razionale
0 intellettiva (v. anche
Intellectus e Uomo):
3-18, 59-69, 70, 78,
80, 83-85, 87,
108. 109, 180, 181,
208, 218, 233, 242-46, 276,
298-302, 349, 354. 378-79, 381-82,
407, 417-21, 430- 433-35.
439- Animarum descensus et
indivi- duano: 436, 438-39, 449-51- Anima umana
{Immortai . dell') : 68,
156, 219-20, 297,
298-301, 354, 357-59, 369-72,
381, 393- 94, 408,
429, 446. Anima delle
piante e degli
animali: 11, 78, 79,
80. Anima mundi: 430. Annibale
Camillo da Coreggio:
272. Anselmi L. :
123, 331. Antonio Andrès:
105. Antonio da Faenza,
v. Cittadini A. Antonio
da Rimini: 157. Antorosa (Antonino
de) : 338. Apollonio di
Tiana: 134. Aquila (Sebastiano
dell'): 152. Aquilano (de
Aquila) G. :
124-26. 151-53. 159, 162-63,
168-69. Aquinate, Aquino, v.
Tommaso d'Aq. Arcamona A.: 123. 458 L
ARISTOTELISMO PADOVANO DAL
SECOLO XIV AL
XVI Arcudi A. :
363. Arcudi S. : 334.
Arcudi T.: 334.347.355.356,302. Argelati F.
: 404. Aristotele: 3-6,
7, 11, 14-16,
19, 30, 40-43, 55,
60, 63-65, 67,
70, 72, 80, 84-88,
90, 91, 95-97, 99,
104-108, 127-30, 132-33,
135, 140, 182, 184,
186-90, 192, 201, 207,
213-14, 220, 230,
234, 237, 242, 243,
262, 263, 298-300,
357, 374. 405. 407.
408, 429. Aristotele (Infallibilità d')
: 255, 330. Aristotele (Contradizioni d') : 230.
Aristotele concordato con
Plato- ne: 359-62, 363, 401,
425-26, 440-41. Aristotele
(Pseudo) : 239. Aristotelismo: 255-57
(v- Averroi- smo). Asìn Palacios
M. : 42. Astrologia Giudiziaria:
27, 29-37, 73- Aulo Gellio:
70. Avanzo G. :
159-61, 167. Avenpace (v.
anche Abubacher) : 128,
130-31, 134, 298,
309. Averroè (Averroys, il
Commenta- tore per
eccellenza di Arist.)
: V, 2-5, 11-13,
16, 19, 30,
40-47, 61-68, 72, 75,
79, 80, 82-88,
90, 91, 99, 104-108,
127-132, 134- 136, 138,
140, 144, 145,
155, 184, 185, 187-189,
192, 201, 203-207, 211,
213, 214, 218,
230, 232, 233, 237,
242, 244, 254, 292-94,
298, 299, 304,
305, 307, 308, 328,
344, 350-59, 356-57, 366,
368-71, 381-82, 390,
391, 397-98, 399, 403-405.
408, 411- 12, 427,
429, 430-31, 443-44, 452-53- Averroè (Contradizioni d')
: 330. Averrois filius,
v. Alpheeh. Averroismo: V,
59, 75, 97,
127 sgg., 153-55. 255-57,
276, 291-94, 343. 349,
413-14. 443-46, 449, 453-54- Avicenna: 3,
6, 11, 12,
14, 16, 17, 19,
22, 37, 41,
42, 46, 61,
63,65, 72, 88, 89,
128, 130, 134,
136, 137, 144, 148,
156, 177, 178,
203, 223, 234, 241,
250, 254, 273
298, 328, 412, 445. Bacilieri T.,
106, 165, 166,
180, 226-27, 231, 252,
254, 257, 281, 288,
291, 322, 324,
329, 336, 346. 349.
384. 412. 449- Baconthorpe (Giovanni
di): 154, 185, 187,
233, 294, 328,
349, 353-54. 408, 444-45- Badoèr S.
: 101, 102,
103, 115, 116, 285,
286, 313. Baeumker C.
: 203. Bagaroto B.
: 172, 174,
175, 332, 400. Bagolino Gir.:
160, 167, 336. Baldassarre da
Chiusi: 112. Barbarigo A.:
108, 110, iii,
124. Barbarigo G. :
167, 290. Barbaro E.:
343, 350, 366-68, 374. 388,
449-50. Barozzi P. :
93, 98-102, 108,
153, 155. 156, 160-61,
169, 179, 228, 285,
290, 324, 326. Barzon
A.: 150, 162. Basilio
Troiano: 231. Bate E.:
78, 137, 366,
373, 390, 437- Baumgartner M.
: 70. Beatitudo, v.
Copulatio, Felicitas, Perfectio.
Bembo P.
: 167, 338-41.
344. 355- Benavides, Bonavites,
G. P. : 152. Benavides Marco,
detto Marco Mantova, 152,
332.Benedetto del Tiriaca
o del Triaca
: 147, 170, 325. Benedettucci C.
: 118. Benozzo Gozzoli:
444. Benzi Fr. :
151. Bernardi A., Mirandolano: 281, 412. Bernardino da
Feltre: 113-14. Bernardo Gir.:
285-87, 376. Bernieri da
Nivelles: 98, 444. Bertela
M. : 390. Bertoldo di
Mosburg: 137. Bessarione: 298-99,
407-10, 412, 436, 446-47- Betoni Gir.:
263. Bettini S.: 75. Biagio
Pelacani, v. Pelacani
B. Bin o Binno
Jacopo de' Tornasi: 173. 332. Bin
o Binno Matteo
de' Tomasi: 173, 291.
332. Boccadiferro L. :
241, 412, 449. Boezio: 51,
425. Boezio di Dacia:
444. INDICE ONOMASTICO E
DOXOGRAFICO 459 Bolderio G. :
104, 177. Bonamico L.
: 173, 341,
388. Bonaventura (San): 31,
146. Bonaventura F. :
368. Bonet N. :
180. Bonus o de
Bono Gir.: 263. Bonuso
P. : 322-23,
333. Bovio (Dal Bò)
Gir.: 421-22. Bradwardine T.
: 262. Bragadin Fr.
: 286, 337,
340. Bragadin L. :
168, 289. Branca V.:
374. Branda Porro: 336,
338. Brenzio A.: 148. Bres.san B.
: 175. Brotto G.:
115, 149, 323. Brunacci
G. : 150,
289. Bruno G. :
96, 186, 192,
454. Bruns I. :
369-70. Burana G. F.
: 166. Buridano G.
: 247, 263.Burleo
(Burley) Gualt. :
103, 106, 115, 232,
239, 329, 395- Buzacarini D.:
175. Buzacarini G. :
175. Calcaterra C. :
266-67. Calcidio: 421. Calcidonio A.:
286, 370, 377,
381. Calcidationes (v. anche
Latitudo formarum) : 220,
262. Calculator, v. Suisset. Calfurnio
G. : 388. Campano G.
: 262. Camillo da
Coreggio: 272. Campeggi A.:
398. Campeggi G. B.
: 394, 398. Campeggi G.
Z.: 148, 251. Campeggi L.
: 251, 398. Campeggi
T. : 147. Campesano A.:
285. Campesano P. :
285. Caninio A. :
371. Cantimori D.: 411. Capitani
G. C. :
327. Capitani P. : 327.
Capparoni P. :
258, 271, 272,
273. Capuano Fr. :
169. Caravegi G. Ben.:
231. Carensio L., detto
il Toseto Pa- dovano:
331. Caro A. : 420.
Carpi (Iacopo Berengario da) : 125,
250. Carrano A.: 169. Carrati B.
: 225. Casio Gir.
de' Medici: 267. Casserio G.
: 250. Castellani G.:
372, 383-86, 389, 424,
437, 440, 447,
448, 452. Castrioto F.
: 334, 338. Castrioto G.
: 334, 343. Causa
Prima: 44-45, 49-52.
188- 92, 194-95. 294. Causalità efficiente
e e. finale:
188- 92, 193-94. 294.
327. 353- Cause intermedie:
45, 188. Cause univoche
esinanirne: 45, 47. Cavalcanti G.
: 80. Cavalli (de
Caballis, ab Equis)
Fr. : 169, 290. Champier Cr.
: 29. Champier Sin.:
27-39. Charpentier G. : 410.
Chirurgia : 249-50. Cicerone: 70,
405. Cicogna E. A.:
410, 415. Cieli :
numero, 201 ;
ordine, 200- 204; dipendenza
dal primo Mo- tore, 255; animazione,
235, 254; sfere celesti,
228-29, 234-36; v. Motori
celesti, Eccentrica ed
epi- cicli, Influenze celesti. Cielo, se
finito o infinito:
236. Circolazioni cosmiche: 46,
236-37. Cittadini A. da
Faenza: 76, 169, 290. Clough
Cecil H.: 17S. Coclite
B. : 239. Cogitativa (o
Intellectus passivus, Imaginativa) :
65, 66, 79-80,
83, 8^, 180-81, 206,
209, 230, 243- 46,
300, 380, 384,
391. Colchodea: 241. Commentatore, v.
Averroè. Complexio (v. anche
Mixtio) : 8, 50,
54- Concorrenza (Istituto padovano della): 123-24. Contarini A.
: 336. Contarini G.
: 167, 168,
173, 288, 326. Contarini L.
: 174. Contarini M.
A.: 173, 323,
329. Conte L. :
172, 174, 332. Contingenza: 238. Copernico N.
: 169, 170,
454. Capulatio o Continuatio
intellectus possibilis cum intellectu
agente (v. anche Intellectus
adeptus, Fe- licitas) :
99, 106, 128-29,
132 sgg-, 135. 136,
140. 142-43. 181-82, 460 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI 212-20, 255,
288, 306-11, 357, 370,
371, 439-41- Corner G.
: 168. Corner M.
: 285, 288. Corradino da
Bergamo: 153. Corrado d'Oria
O. M. :
355. Coxe H. O.
: 76, 119. Creazione: 14,
16, 37-39, 41-45, 49. 193-94.
235-36, 353. Cristo «
primogenitus omnis crea- turàe
»: 123-24. Cristoforo da
Recanati: 115, 117- 19,
122-24, 153. 158. Croce
B. : 284. Cusano
N. : 454. Dalais
F. : 29. Dalbò
M.: 373. Da Lion
G. : 172,
174, 332. Dallari U.:
413. Dalla Scrofa, famiglia
vicentina; 122. Dal Molino L.
: 166, 325. Damaselo
: 432. Dandolo M.
: 285. Dante: 5,
19, 30. 3^.
33. 5i. 54. 61,
64, 72, 74,
78, 86, 90,
199, 203, 214, 235,
243, 264, 312, 330,
448. Da Porto L.
: 174. D'Arco C.
: 413. De caitsis
(Liber) : 45,
51. De Corte M.
: 373. Degli Agostini,
G. : 289. De
Ketam G.: 271-72. Del
Bene A.: 160. Della
Pozza A.: 122. Democrito: 14,
40. Demolins L., 402. Demoni:
24, 229. Denifle H.
e Chàtelain Ch. : 185, 187,
237. De Renzi S.
: 271. De Wulf
M.: 8. Dimensiones interminatae
: 254. Diede A.
: 426. Diedo P.
: 426. Diedo V.:
291, 399. Dio (v.
anche Causa prima
o Motore primo) :
causa efficiente e finale,
49-51. 181-93, 234,
353; forma del primo
cielo, 189, 201, 234;
Motore primo, 187-93; Infinità e
onnipotenza di D., 236,
294; se conosca
«alia a se»: 187-88. Dionigi Areopagita
(Pseudo): 192, 203. Dionisotti C.
: 160, 291,
148, 400. Domenico Indiano:
248. Donato A.: 174. Donato
G. : 368,
371, 372. Donato L.
: 124, 162,
285. Donato P. :
174. Dondi dall'Orologio C.
: 171, 288. Dondi
dall' Orologio Fr.
: 171, 288. Dorighello Fr.
: 152. Dotti D.:
387. Dotti G.: 387. Du
Chastel P. : 405.
Duhem P.
: 42, 48,
54, 76. Duns Scoto
G.: 17, 26,
44,-72, 96, 145, 146,
154, 186, 294,
329, 358. 395, 403,
428, 439- Duns Scoto
G. (Pseudo): 16,
43 (v. Vitale du
Four). Duodo P. :
174. Eccardo di Hochheim:
137. Eccentrici ed epicicli:
228, 442, 454 (v.
anche Cieli). Egidio Romano:
83, 89, 96,
103, 104, 117, 206,
395. Egnazio G. B.
: 170. Elementi (v.
anche Complexio e Mixtio):
241; proprietà, 247. Elia
del Medigo: 186. Emo
A.: 174. Emo Z.:
331. Empedocle: 14, 15,
40. Enrico di Gand:
17, 44, 232,
233, 328. Enrico di Harclay,
444, 446. Entisbery (cioè
G. di Heytesbury) 112, 246,
262. Eternità del mondo:
45-48, 156, 353. 436. Eucliph
G., V. Wyclif.
G. Eudemo: 354. Endosso: 201. Eustachio Rudio:
250. Facciolati lac: 117,
119, 169, 175, 287,
288, 330, 413. Faenza
(Antonio da E.),
v. Cit- tadini. Fantuzzi G.
: 260, 271,
413. Faseolo o Fasolo
G. : 343,
379, 394-99, 423, 452. Favaro
A. : 20. Federico
Romano: 152. Felici (Gir.
de'): 168. INDICE ONOMASTICO E
DOXOGRAFICO 461 Felicitas
(v. anche CopMlaiio)
'.106, 139-40, 142-44, 181,
212-220, 305-311. 371- Ferrari L.
: 383. Ferrari S.:
1-3, 8, lo-ii,
17, 20- 21, 23-25,
27-28, 32, 35,
36, 38- 43, 45-53.
55-57. 59-70. 248. Ferrarini C.
: 413. Ficino M.:
145, 146, 234,
321, 360, 362, 432,
437, 452. Fidentius Petruslunctarius: 387. Filippo
de Thoriaco, 29. Filopono
(Philoponus, Ioannes Grammaticus) :
40, 44, 276, 354.
372-73. 374. 388,
403, 405. 424- Filosofia. La
F. pei medievali,
445; F. e teologia,
17, 44, 53,
55-56, 58, 70, 71-74
(v. anche Verità)
; F. e cultura,
VI-VII; F. e Me- dicina,
158; migrazione della
F., 344; rinnovamento della
F. in Italia: 296. Filosofo (II)
per eccellenza: v. Aristotele. Fiorentino Fr.
: 147, 206,
266, 274, 275, 276,
277, 393, 413,
415. Fogolari G. :
152. Fontana O.: 152. Forma
sostanziale : successione delle forme,
7-8 ; produzione
o generazione delle forme,
14-18; « dator formarum
», 14-18, 45, 80,
241; «forma corporeitatis
», 241; «forma mixtionis
», 242; « formarum
intensio ac remis- sio
», 242-43 (v.
anche Calcu- lationes) ;
« forma constuens
» e « forma
constituta », 302,
390. Formativa, v. Informativa. Foscarini M.
A.: 167, 290. Foscarini Seb.
: 168, 274,
290, 340, 341- Fracanziano o
Fracanzano A. : 125,
162, 164-66, 254,
288, 290, 292, 324. Franceschetti Fr.
: 288. Francesco Securo
da Nardo: 112, 323.
324. 424- Francia Fr.
: 226. Frati L.
: 260, 268. Gabrielli G.
: 283, 312. Gaeta
F. : 99. Gaetano
(Card.), v. Tommaso
de Vio. Gaetano da Thiene:
99, iii, 116, 117,
119, 124, 153,
158. Galeno (Galenus, Galienus)
: 3, 4, 5,
19, 59. 61,
72, 250, 273,
357. Galil^ei G. :
105, 273, 442. Gambalunga F.
: 264. Gand, v.
Enrico di G. Gandavo
(de), Gandavensis, v. Jandun
(Giov. di). Garin E.:
28, 103, 141,
142, 143, 266-67, 278,
285-86, 324, 347, 375- Gaspare da
Perugia: 390. Gaurico L.
: 225, 226,
228. Gazzoni M. :
161. Generazione [cause della)
: 86. Generazione univoca:
v. Cause uni- voche. Gentile G.
: 70. Gentile da
Foligno: 54. Genua (De
lanua) C.: 169. Genua
(De lanua, de'
Passeri) L. : 387. Genua
(De lanua, de'
Passeri) N. : 173.
178. 341. 387- Genua
M. A., figlio
del preced.: 173, 178,
291, 341, 342,
343, 344. 352. 362,
386-94, 396-97, 398, 399.
401. 403. 411.
412, 413, 416, 417,
420, 424, 426, 428,
435, 437, 440-51,
454-55. Genuli C. F.
: 253. Gerardo da
Bologna: 353, 444, 446. Gerardo da
Cremona: 239. Gesuati: 257. Ghero
R. : 267. Giacobiti, V.
lacobitae. Giamblico
(lamblicus) : 362,
375, 378, 400, 412,
432, 435, 455. Gian
Michele de Bredepalea:
120. Gian Pietro de
Cararijs: 120. Giason dal
Maino: 153. Gilson E.:
95, 130, 223. Giordano
B., v. Bruno
G. Giordano de Nemore:
262. Giorgio da Trebisonda,
407, 446- 47- Giorgione: 170. Giovanni Grammatico,
v. Filo- pono. Giovanni della
Lana: 75, 449. Giovanni del
Pian del Carpine: 246. Giovanni da
Ripatransone : 316. Giovanni
da Schio: 152,
165. 462
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Giovio P. :
171, 257-58, 267,
274, 342. Girelli G.: 233-34,
328. Girolamo da Monopoli:
2S8, 290. Girolamo dal
Muro Nuovo: 159. Girolamo (Pseudo
S.) : 105. Girolamo da
Verona, v. Torre (G.
della T.). Giulio II:
253, 260, 282. Giustinian A.:
159, 285, 286, 336,
337- Giustinian G. :
174. Giusto de' Menabuoi:
75, 449. Gonzaga E.:
339. Gosvin de la
Chapelle: 98, 444. Grabmann
M. : 373. Gradenigo M.
: 167. Graiff C. A.: 193, 195. Grassetto N.:
285-86, 311. Grassi P.
: 282. Gravia et
levia: 247. Gravina P.
: 338, 348. Graziadio da
Venezia: 120. Gregorio Magno
(S.) : 203. Gregorio da
Rimini: 96, 154,
186, 294. 327. 329,
346, 349, 353. 354.
449- Grimani D.: 99,
109, 148, 153, 159,
252, 253, 281-84,
287, 291, 312. Gritti A.
: 390. Grutero G.
: 267. Guglielmo di
Moerbeke, v. Moer- beke. Guido da
Pesaro: 251. Guinizelli G.
: loi. Hain Lud.
: 228, 263. Haly
ben Rodoam: 3,
4, 5, 19. Halyabbas: 22,
61. Hauréau B. : 20. Hayduck M.
: 373, 374,
419, 436. Helias
Cretensis, v. Elia
del Me- digo. Hervaeus Natalis:
332. Hervetus G.
: 373. Heytesbury W.,
v. Entisbery. Hirsch
Aug. : 271,
273. Homo significai coniposituni
ex corpore et intellectu:
206, 300, 384, 391.
Honiinis dignitas: 141 ; Homo, microcosmus,
nexus supe- rioruni cuni
inferioribus : 141- 142. Horen, v. Oresme
(Nic. d'). H vie eh:
34. lacobitae (Giacobiti) :
3, 5, 19,
21, 58, 59, 60,
61. Iacopo da S.
Martino, o I.
da Napoli: 183. Iacopo da
Venezia: 120. Ibernico, v.
Maurizio I. Ideae, ideales
rationes: 343, 360- 62,
385, 391, 423,
428, 432. Imaginativa, v.
Cogitativa. Imagines
astrologicae: 25-26, 37. Impetus: 247. Individiiationis
principiitìn: 8, 436- 37- Informativa [Vis):
3-6, 59, 60. Intellectus (talora
Mens). I. voca- tiis,
3, 19, 61;
/. assimilativus, 136; /.
accomodatus, 11, 12,
63; /. acqitisitus, adeptus
(v. Co- pìtlatio),
91, 106, 129,
130, 134, 136. 369,
370. 384-85; I-
pos- sibilis, potentialis, materialis,
3, 4, IO, II,
62, 63, 64,
66, 68, 80-84, 87-89,
91-99, 100, 109, 128-32,
134, 136, 137,
155-56. 180-82, 187, 204-10,
217, 401- 02; /.
possibilis unitas, 87,
155, 204-07, 230, 233-34,
350-52, 356, 358, 375.
380, 382-84, 391,
400- 02, 405, 406,
417, 429, 435-37. 446,
449, 450, 451;
/. poss. pura potentia
in genere intelligibilium , 207, 230,
307; 7. poss.
unio ad corpus, 82-84,
86, 180-81, 208, 210,
243-46, 299-302, 303-305, 343. 349.
380, 384-85. 389-93. 400, 405-06,
418, 420, 423,
433- 36, 438-39. 449;
^- agens, 3, 11,
12, 42,
62-64, 88-91, 129-32, 134-35, 181,
267, 208-11, 217, 234,
243, 351-52, 360-61,
369. 401, 402, 409-10,
427-28, 433; /. perfectionis,
in actu, in
habitii, speculativus, 11, 63,
345; /. pro- grediens
ad secundas vitas,
I. de- scensus, 343,
360, 375-76. 39i- 93.
401. 404. 417-23.
430. 433- 35. 438,
450; /. ascensus, 439; I.
tviplex in homine,
385-86; /. impartecipabilis, partecipabi- lis, pariicipatus,
378, 416, 430, 432,
435; /. forma
animae, 378; /. passivus
(v. Imaginativa, Co- gitativa), 62. Intellectum (Intelligibile, species intigibilis. Idea)
: 205-06, 230- 33-
328. INDICE ONOMASTICO E
DOXOGRAFICO 463 Jntellectiis
et voluntas: 214. Intelligentia prima
(v. Dio, Motore primo
immobile) : 234. Intelligentiae separatae
(v. anche Sustantiae separatae):
91, 127 sgg., 131
sgg., 138, 140,
181, 182, 188, 193-204;
Intelligen- tiariim
individuatio, 206, 301, 436;
Int. motrici (v.
anche Cieli), 202, 229,
230, 295; In- telligentia inferior cognoscit
su- periorem per essentiam
superio- ris, 195-199,; Se
e come la
mente umana conosca le
Int. separate, 216-20, 306-308,
314; Intelli- gentiae
propinquae uni puro
et longique ab ipso,
200-203, 221; Intelligentiae an
dent esse caelo, 234;
dipendenza dal Primo
mo- tore, 353-54. Intentiones imaginatae,
phanta- smata: 83. Intentiones priinae
et seciindae : 107. Ioannes Canonicus:
105. Ippocrate: 147-48. Isacco IsraeHta:
137, 203. Jandun (Giovani
di). Io. de
Gan- davo, Gandavensis: 81,
83, 92, 105, 139,
140, 185-86, 188,
200, 216, 293-94, 307,
309, 324-26, 391, 405.
41^. 444. 445.
447- Kant I., 82,
230. Keeler L. W.
: 57, 222. Kibre Pearl:
373, 390. Krebs E.:
203. Kristeller P. O.:
147, 289, 292, 297.
299, 303- Lana (Domenico
della) : 250. Lancellotti (P.
D. Secondo) : 344.
Landò B.
: 372, 415-16,
452. Languardo E.: 103,
117. Latitudo formarum (v.
anche For- niarum intensio
et remissio) : 183.
Latituto intellectintiir. 182-83,
186, 192, 220. Latomus I.
Berganus: 267. Laurent M.-H.:
222-23, 3i6, 393, 393,
445- Lemay R. :
346. Leone X: 251,
263, 383. Libertà e
contingenza: 238. Libertà e
necessità: 189-92. Liceto F.
: 105. Lippi Filippino:
444. Lodovico o Luiz
A.: 27. Lodovico da
Varthema; 248. Longo E.:
394. Longo G. B.:
426. Loredan G. :
174. Loredan L. :
180. Loredan M. A.:
174, 335. Loredan P.
: 372, 416,
448. Lucano, 34. Luigi da
Porto: 149. Lullo R.
: 20, 74. Luogo
naturale: 247. Lorenzo da
Noale: 124, 151,
153, 159, 162. Madio, v.
Maggi. Madruzzo Cr. :
394-95. Maggi o Madio
V.: 344, 372,
383, 387, 421, 426,
429, 452. Maier A.:
75, 98, 107,
183, 221, 247, 262,
409. Malchiavello G. :
102, 153. Malipiero V.:
169. Mandonnet P. :
181, 193, 194,
196, 207, 209, 241,
391, 443. Mantova Marco,
v. Benavides. Manupello N.
: 115, 116,
162. Manuzio Aldo, il
giovane, 410. Manuzio P.
: 387, 410. Marco
Polo: 247, 248. Marino:
424. Marliani G. :
262-63. Marsilio da Carrara:
172, 174, 332. MarsiUo
di Inghem: 103,
117, 247. Martino da
Lendinara (Fra) : 98, loi, 155. Martinotti G.
: 249. Materia prima:
241, 432. Matteo da
Ripalta: 77. Maurizio Ibernico
(C Fihely, detto M.
I.) : 169,
290, 324, 325. Mazzetti
S.: 225, 226. Mazzuchelli G.
M. : 271. Medici
M. : 264,
271, 273. Medicinae prae stantia: 105-106. Memo G.
B.: 168. Memoria e
Reminiscenza: 80. Mente [Mens),
v. Intelletto, Ani- ma intellettiva. Mente prima
(v. anche Dio,
Intel- ligentia prima):
182, 199, 430. Mercati
G. : 390. Mercuri
(Biagio de') :
250. Merhno V.: 108. 464 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Michalski C,
408. Michiel T.: 285. Michiel
N.: 285, 291. Microcasmus: v.
Homo. Miliani B.: 370,
377. Miliavacca B.: 374. Minio
M. : 315,
336. Minio-Palnello L. : 409.
Miracoli: 21-23, 52-54,
70, 134, 229. Mistica averroistica:
127 sgg., 134, 439- Mixtio elementaris
(v. anche Coni- plexio): 8,
241. Mocenigo A.; 167-68,
288-90, 303, 325- Mocenigo G.
: 168, 325. Mocenigo
L. : 168,
325. Mocenigo M. A.
: 291, 399-402,
403. Mocenigo T. :
168, 325. Moerbeke (Gugl.
di) : 23,
365, 373, 450. Mohler L.
: 407. Moisò Maimonide:
134, 137, 203. Molin
A.: 169. Momigliano F.
: 77. Mondi (Impossibilità di
pili) : 236. Mondini
Fr. : 271,
273. Mondino de' Liuzzi:
249, 250, 272, 273- Mondo intelligibile [Reminiscenza del): 343.
360. Monopsichismo, o Panpsichismo: 12, 127. Montagnana (Bartol. da):
168, 327 (iunior). Montagnana L.
: 173. Montagnana P.
: 173. Montecatino A.:
420-24, 426, 440. Montesdoch G.
: 137, 315-17,
336- 40, 345, 412. Monti
Panf. : 183,
229, 272-74. Moog W.,
V. Ueberweg. Moro S.:
167, 169, 286-87,
289- 90. Morosini A. :
161. Morosini F. :
173, 332. Morosini G.
: 173, 332. Mortier
P. : 319. Moto
naturale: 65, 247. Moto
violento: 247. Moto celeste
(Eternità del) :
236. Motore immobile (Primo):
182,; se muova con
vigore infinito, 184- 86,
294; forma dell'universo, 188-192, 229. Aloiori
celesti (v. anche
Intelli- genze separate e Cieli):
182, 188, 200, 229;
rapporto coli' am- piezza e la
velocità dei cieli: 200-204. Mùller G.,
v. Regiomontano. Miindus qualibet
aetate perfectus: 344- Munk S.:
131. Mùnster L. :
252, 260, 264-66,
268, 274- Mussato G. F.
: 176. Musuro M.:
367. Nallino A.: 241. Napoli,
V. Iacopo da N. Nardi B.
: 5-7, 17,
33, 42, 54,
55, 62, 67, 78,
90, 95, 96,
97, 116, 130, 138,
142, 166, 199,
219, 223, 375. 376. Natura
umana (Decadenza della)
: 343- Necromanzia: 23-26. Nemesio: 434. Nicoletto Vernia,
v. Vernia N. Nicolò
di S. Sofia:
120. Nifo (Niphus) A.
da Sessa (Sues- sanus)
: 86, loi,
102, 109-11, 114. 123,
130, 138, 139,
143, 149, 160-66, 179-81,
185-86, 189-90, 195, 197,
206-07, 210- 16, 218,
227, 228, 246,
281, 284- 86, 301,
305, 307-08, 310-11, 313-14, 316,
310-20, 324, 331, 345,
342, 370-72, 376-84,
388- 89, 391. 395,
403. 412, 416-18, 420-21, 435,
437, 449, 451. Nobili
F. : 420-21,
426. Nogarola L. :
367-68. Numenio: 430. Occam G.
: 446. Odi o
Oddi (Rin. degli):
169. Odoni R. :
410. Oldoino G. :
173, 332. Oleari G.
: 288. Oliva C.:
114, 288. Omero: 137. Oratio astronomica: 28,
37. Oresme (Nicolò d')
: 133, 221,
247, 262, 454. Orestano Fr.
: 97. Orlandi P.
A.: 266, 26S. Pagallo
G. F. : 76. Paganini P.
: 420. INDICE ONOMASTICO E
DOXOGRAFICO 465 Panpsichismo,
v. Monopsichismo. Panizza L.
: 177-78. Paolo Apostolo:
188. Paolo dal Fiume:
151, 153, 158. Paolo
dalla Pergola: 99,
103, ii5. Paolo Veneto
(P. Nicoletti da Udine):
75-93> HQ, i53.
228, 262, 275, 349,
384, 403, 449. Paolo
Francesco Veneto: 75. Papadia
B.: 323, 334,
335. Papadopoli N. C.
: 176. Pardi G.
: 421. Particolari (Conoscenza
dei) : 428. Pascal
C. : 411. Pasolini
P. D. : 420.
Paschini P. : 281.
Pasquale A. :
342. Pasquali-Alidosi G. N.
: 250, 265, 268. Pasqualigo L.
: 228, 289. Pasqualigo P.
: 228, 285,
289. Passeri (De'), v.
Genua. Pazzini A., 249,
272. Peckam (fra G.)
: 78. Pelacani B.
: 98, 247,
262, 358. Pelli Negre
(G. F. delle):
167. Pendasio F. :
413-17, 419, 224, 426,
427. Peretto, v. Pomponazzi. Perfecfio: 106,
132 (v. anche Forma
e Copnlatio). Pernumia G.
P. : 388,
402-04. Pernumia Tr. : 402.
Persiani R.:
122-24. Peurbach G. :
169. Philosophus, V. Aristotele.
Piccolomini Fr. :
V, 344, 403,
411, 412-15, 417, 424-42,
455. Pico della Mirandola
G. : 20,
28, 140-46, 180, 227-20,
275, 281, 284, 304,
319-20, 326, 342,
362, 368-70, 372-77. 384.
390. 392- 94. 399,
423. 425. 426,
431, 437. 441, 450-51,
454-55- Pico della Mirandola
G. Fr. : 20, 23-25, 27-28,
53. Pietro de Cruce:
290. Pietro da Mantova:
246. Pietro da Reggio:
21. Pietro Veneto: 30. Pinelli
V.: 387. Pio A.:
163. Pisani A.: 331. Pisani
G.: 285, 336,
337. Pisani P. :
290, 331. Pitagora: 86,
87, 299. Pitagorici: 299. Platone: V,
23, 25, 37,
69, 96, 98, 106-07,
111-14, 123-25, 147, 150-52,
156, 158-59, 161-63, 165-67, 169-73,
176-78, 220, 222, 229,
231-32, 246-47, 254-58,
263- 64, 279, 281,
284, 287-90, 292, 296-97,
308, 315, 322-23,
421. Tentativi di accordare
P. con Aristotele: 359-63,
377, 381, 425-27, 429-30,
434, 440-41. Platonici: 13,
40, 144, 422,
436. Plotino: 140, 300,
305, 362, 375, 378,
400, 421, 430,
435, 437, 454- Plumazio B.:
166, 287. Plutarco d'Atene:
371, 412-15, 424, 428. Podestà
B.: 259. Polcastro G.
: 152-53. Polcastro o
Porcastro S.: 148,
152. Poliziano A.: 405. Polo
A.: 372, 402-03,
416. Pomponazzi P. da
Mantova, detto il Peretto
Mantovano: V, 23, 25,
37, 69, 96,
98, 106-07, III- 14,
123, 124-25, 147,
150-52, 156, 158-59, 161-63,
165-67. 169- 73, 176-78,
220, 222, 229,
231- 32, 246-47, 254-58,
263-64, 279, 281, 284,
287-90, 292, 296-97, 308,
315, 322-24, 327-31-
333. 336-37. 339, 341-42,
345-46,' 350. 354. 358-59.
372, 403, 412. 416,
424, 428, 439,
448-49, 452. Ponte (Gir.
da) : 426. Porfirio: 9,
84, 294, 362. Portenari A.:
176. Portenari B. :
290. Porto V. :
239-40. Porzio S.: 372,
424, 429, 448. Praecantatio: 2.j,
36, 37, 38. Prassicio L.
: 412, 449. Fratelli
G.: 387. Prisciano N.
: 336. Prisciano Lido:
362, 412, 424,
427, 432, 455- . Probabilia: 46-47. Proclo: 14,
221, 362, 375,
421, 435-37, 455- Profezia: 140. Prospero
da Reggio: 239. Querengo F.
: 165. Querini A_.,
415. Quétif-Echard: 290. 466 L ARISTOTELISMO PADOVANO
DAL SECOLO XIV
AL XVI Quirini L.
: 119. Quirini e
Querini V.: 125,
162, 167, 284-87, 291,
399, 400. Ragnisco P.
: 99-100, 102-04,
log, 122, 162, 417,
424. Raguseo M. : 348.
Rangoni A.: 180,
248. Rannusio G. B.
: 338-40. Rappi Cristoforo, v.
Crist. da Recanati. Rasis: 22. Regiomontano (Miiller
G. da Kò- nigsberg) : 169. Reminiscenza, v.
Memoria. Renan E.: 39,
266, 277-78, 250- 51,
443- Ricco A.: 347. Risurrezione dei
morti: 22-25. Ritter H.,
277. Roberto Kilwardby: 81. Robortello Fr.
: 388. Roccabonella P.
: 151-53, 158,
171, 323- Rochelle (fr. Giov.
de la) : 78.
Roselli A.: 151,
157. Roselli Fr. :
157, 175. Roselli Trapolin
Maria: 151, 157. Rugerijs (Lod.
de): 168. Rugerius, per
Sugerius: 314, 315, 316,
383. Ruggiero G. :
291. Sabellico M. A.:
170. Saitta G.: 277,
321, 348, 351. Salinatore R.
: 377. Salomonius I.
: 119, 176. Salvato
da Cagli: 366. Sambin
P. : 115,
122, 149. Sanseverino F.
: 335. Sansone F.
: 179. Sanudo o
Sanuto M. :
102, 123, 125, 163,
165-68, 170-71, 173- 74,
282-83, 285, 287,
289,312, 331. 335-37. 339,
400. Saraceno G. C.
: 387. Savorgnan A.:
175. Scaligero G. C. : 176. Scardeone B.
: 21, 23. Schedel
H.: 75, 429. Schegkius I.:
411. Schlosser (J. von) : 75.
Scienza umana: 70-73
(v. anche Intellectus, Intellectum,
Ideae). Scoto Ottaviano Secondo:
347, 355- Segarizzi A.: 116. Securo, v.
Francesco da Nardo. Sepulveda G.
Genesio: 105. Serapione: 13. Sermoneta A.:
103, 151, 164. Serrano P.
: 105. Sessa, Suessano,
Sexa, v. Nifo. Sighinolfì L.
: 317. Sigieri di
Brabante: 57, 67,
72- 73, 75-76, 80-81,
83- 86, 88,
90, 92, 98, 107,
127, 138-40, 142, 145,
155, 180, 181,
185, 189- 90, 193-98,
200, 205-09, 212-15, 218-19, 222-23,
241, 246, 275, 284,
294, 305-07, 313-20,
327, 380, 382-83, 390-91,
439, 444- 45, 447,
450. Silvestri (Frane, de'
S., detto il Ferrariensis) :
215, 223, 314, 316-17. Silvestro (Padre)
da Valsansibio: 116. Simeoni L.
: 261-62. Simone o
Simeone d' Este:
168. Simoni Simone: 410-12. Simpliciani: 343,
384, 386 ,413. Simplicio: 304,
342-43, 354, 360, 362,
365, 371, 373-442.
450-55- Sirleto G. :
321, 355. Sisto IV:
366. Socrate: 105, 123. Solerti
A.: 421. Solino: 343. Sostanze separate
(v. anche Intel- ligenze sep.): 127
sgg. Se ab- biano una
causa efficiente, 253- 54.
Se e come
la mente umana conosce
le 5. 5.,
138, 181, 215-20, 306-08,
314. Sparaini (Assalone de')
da Ce- sena: 152. Species
intelligibile s, v.
Intelle- ctum. Speroni B. :
156, 168, 169,
174. Speroni Sperone: 156,
341. B. : 222. Spinelli G.
B. : 173,
286. Spinola G. : 252.
Starniti (? maestro
de'): 165. Steenhawer J.,
v. Latomus. Stefano d'Alessandria: 373. Stegmùller
F. : 181,
196, 207. Steinschneider M.
: 155. Steuco A. Eugubino:
172. Storcila Fr. :
328. Suessano, v. Nifo. INDICE ONOMASTICO E
DOXOGRAFICO 467 Suisset,
cioè R. Swineshead,
detto il « Calculator
», 112, 246,
262. Surian A., Patriarca
di Venezia: 290, 292-93. Surian A.,
nip. del prec:
168-69, 231, 233, 288-91,
326. Suriano G. : 77. Suriano I.:
77. Sylvius Laurentius a
Portu Ca- ballensis: 329. Swineshead, v.
Suisset. Taddeo da Parma:
92. Taiapietra G. :
167, 180, 252-53, 281-312, 349,
384. Taiapietra Q. :
281. Tasso T. : 420.
Taucci R. M.:
318. Tavole Alfonsine: 170. Tedoldi
A.: 315. Teodorico di
Vriberg: 137, 203. Temistio: 11-15,
67, 131-32, 211, 220,
299, 302, 304-05,
309, 343, 350-52, 356,
365-68, 371, 392, 395.
398, 400-01, 403,
405-07, 409, 411, 412,
424, 429, 441, 449,
450, 454. Teofrasto: 299,
343, 366, 371, 403.
405-07. 409, 411-13.
449- Teologia, v. Filosofia
e Teol. e Verità
{Pretesa dottrina delia- doppia) . Terra,
se dovunque abitabile:
247. Théry G.
: 368. Thorndike L.
: 29, 264,
270. Tiepolo
N. : 167. Tiraboschi Gir.:
39, 240, 421. Tiriaca,
v. Benedetto del T.
Tolomeo: 20, 31,
48, 170, 201. Tomasini G.
F. : 317. Tommaso
(S.) d'Aquino: 4-7,
12, 17, 26, 31,
43-45, 47, 49.
50, 5^. 57, 61-62,
64, 70-74, 77-78, 86,
89, 91, 96,
104-05, 127-28, 130, 135.
138, 140, 154.
184, 185, 195, 198-99.
204-07, 214, 219, 222,
232, 242, 294,
306, 329, 352, 365-66,
374, 395, 405, 408,
436, 439, 443-45.
447-48. Tommaso di Strasburgo: 21-23, 27.
52. Tommaso de Vio,
detto il Cardi- nal
Gaetano: 186, 209,
223, 319, 337, 358,
393. 429- Tommaso di
Wilton: 75, 81,
155, 275. 353. 408-10,
412, 447. Torre (Gir.
dalla T. da
Verona) : 124-26, 153,
159, 162-63, 131- Torre
(M. A. dalla):
331. Tosetto, V. Carensio. Tostado A.:
105. Traini Fr. : 443.
Trapolin Alba: 157,
172, 175. Tropolin Alberto:
148-49, 171-72, 174-75. 332. Trapolin Aless.:
157, 172, 175-76. Trapolin Antonio:
157, i6g, 175. Trapolin Fr.,
senior: 149-51. Trapolin Fr.,
iunior: 157, 166-67, 172, 176,
325. Trapolin Gir.: 148. Trapolin Giulio:
157, 172-76, 332. Trapolin
Lanzaroto: 149. Trapolin Maria:
151, 157, 172,. 175-76. Trapolin Marina
in De Lazzara: 176. Trapolin M.
A.: 176. Trapolin Nicolò:
150, 172, 175, 332. Trapolin Pietro,
senior: 101, 147- 78,
288, 290, 322,
324, 326, 331, 332,
350. Trapolin Pietro, iunior:
176. Trapolin R. :
150, 172, 174-75, 332. Trapolin Trapolin:
175. Trapolin Ubaldo: 149. Trevisan A.:
169. Trevisan P. :
168, 325. Trincavelli V.:
373. Trionfo A.: 239. Trissino L.
: 131. Trombeta o
Tubeta A.: loS,
169, 179, 288, 290,
323, 324. Tumminelli G.
: 267. Turchi N.
: 426. Ueberweg F.
: 70, 351. Ueberweg F.-Moog
W. : 277-78. Ugo
Benzi da Siena:
250, 273. Ulrico da
Strasburgo: 137. Universale (v.
anche Intellectus) : 9,
IO, 66, 83-85;
universalia physica, realia: 107. Universo aristotelico
(v. anche Dio, Causa
prima. Motore pri- mo): 184, 188-92,
454; se finito o
infinito, 236, 454;
eternità e necessità dell'u.:
190-92. Valentinelli G. :
76, 77. l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Valier A.:
402. Vanni-Rovighi S. : 92. Van Steenberghen
F. : 127,
189, 193, 196, 237,
294, 443. Vedova G.
: 170, 387. Venier
C. : 334. Venier
L. : 167-68,
180, 326. Venier M.
A.: 334. Venier P.
: 174. Verbeke G.
: 365. Verci G.
B.; 285. Verini Fr.
Secondo: 426^ Verità (Pretesa
dottrina della dop- pia): 55-58, 71-75,
95-98, 143. 223, 275-79,
295, 297, 308-09, 311-12, 349-50,
354-55, 431. 447-48, 453-54- Vernaleone F.
M. : 323. Vernaleone P.
: 338. Vernia A.:
115. Vernia Nicoletto da
Chieti : V, 95-
14, 115-126, 151,
153, 156, 158- 62,
164-65, 179, 284-85,
287, 311, 313, 318-20,
323-24. 350- Vimercate (Frane,
da): 404-10, 426, 447. Virgilio: 264. Virtus
sancta (v. Intellectus
assi- milativus): 136. Visione beatifica:
198, 371. Vitale dii
Four: 16, 43. Vitale
G. : 267. Vittori
B.: 164, 263. Volta
L. C. : 413. Voluntas et
intellectus: 214. Wadding L.
: 113, 179. Wyclif
G.: 89. Xiberta B.
: 445. Zabarella G. : V, 208-09,
387, 391 403, 417-21,
424, 427. Zaccaria da
Milano: 338. Zane B.
: 290. Zeno A.:
340. Zimara M. A.:
167, 173, 186,
187 188, 231, 233,
277-78, 288, 303 321-63,
387, 412. Zimara Nicolò,
padre di M.
A. Z2Z . Zimara Nicolò, figlio
di M. A. 334.
355- Zimara Porzia: 334,
348. Zimara Teofilo: 321,
334, 347 355-63- Zerbo G.
: 125, 126,
157-59, 163 166. Zerbo P.
: 168. Zonta G.:
115, 149, 323- Zorzi
M. : 69-70,
167-68, 285, 289 330.
336. 340. 341- Finito
di stampare nello Stabilimento
Tipografico Soc. p. Az.
già G. Civelli
- Firenze il i8
Settembre igsS Bruno Nardi.
Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo, Pomponazzi, Virgilio, Enea,
inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana nel secolo d’augusto – il
secolo d’oro della filosofia romana – il secolo augusteo, pico, abano. Refs.:
H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate,” The Swimming-Pool
Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il paradiso filosofico” --.
Grice e Nasta: la
ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di Pitagora.”
Grice: “Cicerone
argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.
Grice e Natoli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’uomo tragico – origini dell’antropologia romana -- filosofia
siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Patti).
Filosofo italiano. Grice: “I like Natoli. He
philosophises on the ‘uomo tragico’ at the source of western civilisation, and
also the experience of ‘pain’ at the source of it.” Si
laurea a Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna
a Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche
dell'Università degli Studi di Milano. Attualmente è Professore di
Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione
dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Attività accademica In
particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica neopagana che,
riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico),
riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti
dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito, in contrapposizione
con la tradizione cristiana. Filosofia del dolore Una particolare e
approfondita analisi sul tema del dolore è stata condotta da Natoli in diverse
sue opere. Il dolore è parte essenziale della vita e per gli antichi
filosofi greci era l'altra faccia della felicità: «I greci si sentono
parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina,
si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è
differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge nella
gioia e la gioia nel dolore» La natura infatti dava la vita e nello
stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita
ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre
percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per
chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente
importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è
importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte. Secondo Natoli
l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento
in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo
patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè
come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è
interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa
parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece,
è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene
associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa
sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore
diverso. Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore
causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione
del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe
quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il
tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo
scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo
dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo
sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva
sconfitta. Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita
ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece,
ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi
ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando
diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la
fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo
distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra
due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza
del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché
«il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il
corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle
possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.» Sebbene il
dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso
inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la
tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non
annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola
per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune
sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua
singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha
alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita
tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia,
creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza
della morte: «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso
dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del
progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il
peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha
conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è
nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali
modificandone i cicli…» Una soluzione all'inevitabilità del dolore può
essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca
dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo. «Il
cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo
senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede
che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un
sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole
che ci sia.» Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma
non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il
cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione
della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna
di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos,
che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio
eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale
fragilità umana. Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi su Aristotele e
Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio” (Venezia, Marsilio); “Ermeneutica
e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano, Feltrinelli); “L'esperienza del
dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli); “Gentile” (Torino, Boringhieri);
“Vita buona vita felice -- scritti di etica e politica” (Milano, Feltrinelli);
“Teatro filosofico -- gli scenari del sapere tra linguaggio e storia” (Milano,
Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia, espressione, verità” (Milano,
Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria degli affetti” (Milano, Feltrinelli);
“I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario dei vizi e delle virtù”
(Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma, EL); “Soggetto e
fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della filosofia” (Milano,
Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori); “Natura, poesia,
filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche della
modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana); “La
politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza
del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o
della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente”
(Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano,
Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al
mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della
filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco”
(Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana);
“Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana);
“I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano,
Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa,
Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla
felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso”
(Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il
crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione
di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso
del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure
d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia”
(Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli);
“Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I
comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del
corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le
virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli);
“Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore. In L'esperienza del dolore. L'esperienza del dolore nell'età della
tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa, I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Intervista per Il Rasoio di Occam, Video
intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta
minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli.
Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora
di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nausito: la
ragione conversazionale della scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di Pitagora.” He rescues Eubulo di Messina, another
Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone argues: Nausito speaks Greek; he
is, therefore, no Roman!” – Nausito.
Grice e Nearco: la
ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, he plays host
to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures Taranto from the
Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek,
Catone refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded
an interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.
Grice e Nicoletti: la
ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano – Grice: “His diagramme for
‘arbor porphyriana’ is also brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.”” --
Grice: “I especially like his squaring the square of opposition!” -- Grice: “A
veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! -- paolo di venezia:
philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli Venezia
Giulia, a hermit of Saint Augustine O.E.S.A., he spent three years as a student
at St. John’s, where the order of St. Augustine had a ‘studium generale,’ at
Oxford and taught at Padova, where he became a doctor of arts. Paolo also held
appointments at the universities of Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active
in the administration of his order, holding various high offices. He composed
ommentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle. His
name is connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150
manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were
made, His huge sequel, “Logica magna,” was a flop. These
Oxford-influenced tracts contributed to the favorable climate enjoyed by
Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My favourite of
Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a philosopher to die
while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de
plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da Venezia Nota disambigua.svg
Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo
scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita. Paolo da
Venezia in una stampa ProfessorePaolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N.
(Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a Padova ove ebbe
tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la
corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, due anni
dopo, gli fu consentito di tornare a Padova. Fu seguace di Guglielmo di
Ockham e Sigieri di Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti
ad Aristotele. Il suo trattato Logica magna fu utilizzato come testo di
insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera
di logica formale prodotta dal Medioevo. Opere: “Logica,” “Commenti alle
opere di Aristotele” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio
super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super
libros De generatione et corruptione” “Lectura super librum De Anima”
“Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum” “Expositio super
Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or
Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre
opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,”
“Summa philosophiae naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus
Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in.
Vedi «Paolo Della Pergola» in Dizionario di Filosofia Treccani. Eugenio
Garin, Storia della filosofia italiana, terza ed., Edizione CDE su licenza
della Giulio Einaudi editore, Milano, «Paolo Veneto», in Enciclopedia Dantesca,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, «Paolo Veneto», in Dizionario di
Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Alessandro D.
Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Alessandro D. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale
in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, A. R. Perreiah: "A
Biographical Introduction to Paul of Venice". In: Augustiniana.
Paolo Veneto, Logica, Venetiis, Bartolomeo Imperatore, Francesco
Imperatore, Enrico Gori, dal sito Filosofico.net (Alessandro Conti, Paul
of Venice, in E. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study
of Language and Information, Stanford.Filosofia. LOGICA PAVLI rectam
atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon
Tabulao figuris. VENETI HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira
quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab
eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes
EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long
COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti
Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in
animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re
est annexa doctrina. Ideo volens
cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium
utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus,
Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit,
solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait
t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum , ideo Dislot tractatus
primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et
eius divisione quide. i. II suppositionum declarat mareriam. III
consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V
ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam.
VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST
SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars
propinquae iusdem , ut: “homo” ,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur
propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di
2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo.
Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et
remotas, propinquatop.c. 2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui
per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,”
“quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda
significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter
si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd
RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD
PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est
re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui
apud nosft. B Paul. sin significat
‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci
(“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3
S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia
particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et
coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS
Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est
ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet
proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio
divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac
SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus
nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”,
“nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et
coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant
distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes.
Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis.
Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter
D“homo, significat sor. & pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus
autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum
A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium,
propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus
significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel
scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin
complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut:
lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est]
albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter
considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN
est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid
significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur
terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua
verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt
nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”,
et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ
significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant
separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo
er.c.c2 Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam
secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe.in
ficans non terminum -- ut “homo”, et “animal” in voce vel in
scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo
ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset
extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c
vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad
eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg
autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus
significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia
hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus”
deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum
partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et
col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO
AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est
ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum
sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ
quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est
oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio
optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est
terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine
tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium
quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo,
ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut:
“Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa.
quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec
optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales
orationes. Cortes potest , plato in PS pro qui alia categorica
alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum
prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est
animal.” l o ,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum
uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum.
Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in
resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens,
et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”.
Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum
substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De
quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum & C
differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint
indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini
cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas
sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est
propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ
non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa.
Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale
affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in
qua er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S.
Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio
categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum
signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es
vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi
her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic
substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non
dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius
primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia
contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum
significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa
cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et
voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel
falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia
nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est
universalis, particularis, 2.in pri, indefinita, vel singularis. Propositio
universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali
determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti
nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista:
“omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet,
quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur
terminus comunis igno 4. diui afol.158 significatum primarium et
adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel
coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.” ,
diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.”
Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis.
Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum
significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et
adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est
impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne
cella larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum
singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ
est caregorica nullius quantitatis. Et
dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita,
nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet,
“Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo
est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u.
Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de
propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda
autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua
vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan
tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm
exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus.
Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum
categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa
in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari
determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt
ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi.
Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis
SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis
est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum
107. col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi.
sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum
discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel
ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in
qua non ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e
r e .Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium,
contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso
et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua
modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem
possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua
modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est
necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus
originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de
sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda
cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de
currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne,
subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie
reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit .
Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee
curitie . Modalis de sensu diviso. 6 sub-contraric Modalis de sensu composito.
Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne
dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito 3 : Fig. Loncra . dictonic
Contingens et por, non currere 2. Figura Que libet ho minepole? currere . Pole
for currtre , A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric
Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut:
“Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et
particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis,
supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut:
“Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa
et particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis
affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus.
precisepro eodem vel pro cisdem , fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ
primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est
determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi 8.
De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ
PERSONALITER De propositione hy. 8 De ampliatiõibus 28 po. disiuncti. 15 De praedicabilibus
Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione
norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib
De converfionetibus supponis et de diuisio De suppositione per de natur
appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum De duabus alös diui De
supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de
relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens
C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem
prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus
est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc
consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus
consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De
gradu comparati De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert
positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter
sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De ly
incipit et defi : impertinentes nir nens. De officialibus pro De
defini libus. po. de reg. eius. inferius De regulis poncs pro De
exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly
totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter
obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper
De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et
di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi milibus
propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs
.hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos
mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic
Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De
obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et
diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re
minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo
figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus
Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari
vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in
maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis
con car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs
ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta.
Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto
tracta Antonñ Iunte Florentini Registrum illaiquaiferi predicaturde
terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ
Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi’pzedicaturdein
quareficpdicaturdeilliseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini
dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila
Acchrétēmin’vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere
fpeciezpria qualeaccắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo
Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi
rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul’generaliffimúébic
dedriazidiuiduodicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė
mi? coup”.subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato
a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est
piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua carioterminoxdiuerfozpze foztesz plato.bzunellus
fa dicamentorumvthomoéale uellus. Secundum predicame bus.Termin superioradre tu
est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui'generalisfimúeftquäti.
tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aialrespectuisti'terminihó
alternaärnulluestsuperius qz fignificat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di
bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur
effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus
locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini
bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties.
f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő
ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma
nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius quaterna
rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium
piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus
insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale
nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p
potentiavelimpotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza.pzi mortalis
Jmmortalis mumesthabitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi
generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogicazrhetorica
dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu
matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo.albunigruz cozrupere equáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uidua funtficgenerareboiez cum.quarúidiuiduasuntheç
ficcorruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau.
bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut
tum. quozumindiuiduafffic circulustriangulusquadra auger eilögumficdiminuer
gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt
cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. quaridiuiduafuntficcalefa
Quartiipredicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene.
Neris speciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. Súmo ueredeorsumquaruin
liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita,zsup2
ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz
cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition
primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue
modus mediatiteractumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte
vtfoztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu
nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i
taliter pcedirveifinaliter16 terrogationedepłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa
facta gquerespondeturcar rium.Impoflibileébominė tbegozicavelipothetica. Se
effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibus origináturtresfigure
rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne
damodalisofenfudiuisore gatiua.seditertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione
factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata
qua particularis indefinita velfin ruideclaratóesbes ierobic gularis.
hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones
duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere
Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie
currer. -- Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non
currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile
eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit.
Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria
Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere
ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé
dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala
zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup
bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp
proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero'
bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua
tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur
propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp
alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo
ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars
negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö
fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa.Quilibzboè
tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt
iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo
curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla
eftpoffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim
culari saffirmatia. Etviuer, vera.Patetparsprima ifin salisnegatiuaa particularis
gulisdiscurrendo.fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi
2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit16
bus. Aliquis bononeftalby
alterneinfigura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar
aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė
mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio
eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba.Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral
definitio,sebutcomienicu damagnitudiez caritus eftilequipermitesperjeigranasoatione.
Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya
tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarioneperforsales
aliornimia; breuitatez.gbɔ eftilequiperfefumptusni,beit perqúemymim nulla fereeftaneradoctrina.
Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere
7files.Secundadiuifioeft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi,
ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati,
citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés
traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú
declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po ad placitu fignificanséil
Quartusterminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu,
representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto
isolubiliafoluendidarartem apud nos fignificatboiem.via. Septimusatraprimú
apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibilfignificatvtf untgreci:
fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertiadiffinitoéifta fodificarpróem
argunitati, Qterminokquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun,
gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum
füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideotractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum
mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi?
Gential uitdiferenmis.ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj.
Lorical minátdistributiverparticu! complerus eftozó vthomo
lariaparticulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu
2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere
terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur
ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil
tentiois.7quidábeitencois reftat diffinitionesaffignare Terminuspeintentóniseft
Homéest terminus fignift terminusmentalis fignificaf catiu? Fineté pozecuiusnulla
nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó
ratavthomo.In iadiffinite fignificatsoztem zplatoné.å poifterminuslocogencris.
ruinulluspoteffeterminus. q2ocnomen estterminus.e Lerminusaütbe itentóisé
nóego. diciturfignificatinis terminusmentalisfignificát quia termininó fignificatui
solimoterminilppofitone nófuntnoia apudlogicilicz ptiliterminimentalesnon bi apud
grāmaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di,
zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfietemporeaddiffere, est istag terminozquidãcst
tiñverbiaparticipüafignis peimpofitionisquidife.ter ficantcumtempore. Duar
minuspeimpositois estteri toponit cuiusnullaparsali nusvocaťvèlscriptusfigni
quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni,
liaialivoceveliscripto.ter ficät.(Uerbúeftterminato min’autéfe impofitioniseft
požaliter figificatiu?zertre terminusvocalisvelfcript? monvnitiuuscuiusnullap8
fignificas solúīmodoterminu aliquid fignificat separatave
velpropositionevtilitermi currit vel disputato icifpria
nirocalesvelfcriptinomen mo temporaliter fignificati, verbtiparticipitizhuiumói
uusad differentiam nominis Sertadiuifioeftifta.Termi quodfignificat finetempore
nonquidifuntincópleri29 Secundodicitur ertremo damcompleri.Terminusin rumvnitiuusaddifferentia
complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií
lilapislilignum.Izterminus tempože. sednonvnitfuppo fituscum appofitoficurvero
quenonfuntppofitionesno · bum.cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i
nuiturficur toenois. fignificantverumnecfalsuz . P
Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito
catbegozicaet"prodicaria,madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier
parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu
fenfi catucopula generat animo auditous. partes
tanöspzincipaler,peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i),
Etfidicarurbomo currite Horá dumotresfuntspe propofitiocatbegozicaznon
Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali
quidfignificat.vtboalb?de uz effe. Ulria particula poni
turaddifferentianominis? Propofitionu zaliacaibego verbi.grumpartesnonfigni
rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica
Diarioimperfectaestilla tum verolianimal.7copula aiperfectuzfenly;generari
illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato.
busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5
cies orationis perfecte Drationuzperfectar.alia indicatiuavthomo currit babz
predicatum dicitur qa babz implicicumpredicatuz v z li currens quod patzinreroí
alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu
uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad
fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copulafempererspularerreigitpilianca.
currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeseltveteteaiomm
neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius.
tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola
diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim
particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz
Secundaoiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuzcabegozi, tiones
foztespór. platoicipit car.Aliaaffirmatiuaaliane facit,
egineris,matiuaeftilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane
kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo
diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitionecefariaeftilacuius
artean = uaeftillai qobiipricipalene primariumzadequarumfigi gáf.vtbónocurrit.
Tertia ficatumeft neceffariumvtoe diuifio eft iappofitouzcatheus
est.popofitiocontingens goricaralia veraaliafalsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi,
Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni
tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n.
Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi
esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca!
fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie
illius. vn ' titatis alia nullius.P2opo ca deteeffeboiem velqotues
'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar
uza de quatúilliustuesbó ticularisindefinitavelfingu
ceteraåtsignificatavtteeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul,
ilainquafubijciturerminosnasdistri mõisuntfignificatasecuidaria comunis figno vniuersalides
gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep
povera terminatusvtomnisbócursliepy. necfalla.Propocathegorica rit.
Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz
adequatü fignificatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa
vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali
vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi
poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua
uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris
particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat.
Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus
terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie
feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi
gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti
lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif
realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä
fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo
vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar.Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé
ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy
Scromodi ftratiuúfingularisnumerivt autem funtferscilicet porsi, ifteiftaistud.
Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ
contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi
laanoévniuersalisnecpar onum modaliumquedamcst ticularisnecidefinitanecfin
infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue
vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter
actumca tur.Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte
vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip.qualif Propofitio modatisisenfu*
nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i
taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeénecessa
facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileébominė tbegozicavelipothetica.Se
effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure
rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne
damodalisofenfudiuisore gatiua.seditertiadenotat habensadmoduprime.ter, qad interrogatione
factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata
qua particularis indefinitavelfin ruideclaratóesbes ierobic gularis.
hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure.
uifionesduealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft
currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie
currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit
Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile
eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit.
Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria
Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere
ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie.
Disbócurrit2gda tita.Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala
zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup
bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp
proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur
provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et
pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib
?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib?
pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě
duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars
negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et
ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis
fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó
albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft
quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui
Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla
eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim
cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin
salisnegatiuaaparticularis gulisdiscurrendo.fecunda. negatiuade pfitib lbiectis
probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal
sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó
Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo
lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó
effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta
reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar
primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera
fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde
modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui
gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez
modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobeveraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur
hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóépoffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei
possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft
eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio
EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet
equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur
nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo
currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató
leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete
contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3quare7c. bomo noncurritequipollet
SDnuerfioeitcranspofi uftinullusbomo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar
lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibethomocurrit.
animalanimalébomo.Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditurinconuersionefimi rio prepofitazpostpositatai
plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim
no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci
curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul:
Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz
letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra,
acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca
gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz.
curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó
estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo
fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui
fubstätianon tiirecóuerfomanéteeadem énonrosaq2 suutradictori
qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisiterminosi
tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon
pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē
puerhonib? puertatponun falfanullamulierébóigif, furistiosus, Fecifimpliciter
Secuidobecéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul
traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio
ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz
éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia
firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš
effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i.plisnega teripuersa.Ad63picogi
tiua7 pticularisaffirmatiua fitdesbiectopdicatu.qziicft
puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis
ens.ióficpuertiéšnullüvi affirmatiuapuertufp accñs densensécecii.Ad tertium
Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane
ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom?
Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa
recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar
ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri
nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen
fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione
p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet
Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica,
litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero
vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó
funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi
poffibilis.Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun
fitcótigens.iftereguledicte gun&plurescatbegoziceper
suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial.
Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua
eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared
afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis
cemcõitictas.vttuesboiz negatiuaestillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu
eshotuesafinus 7brempp batperaffirmatiua.Adveri ratezcóditional affirmatiue
requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumaliaaffirmatiuaa
lianegatiua. Affirmatiuae illainquanotacopulationis affirmatur eremplumpofitu
eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt
fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi veraeftquistarepugnanttu nus.
csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim
turperaffirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis:
cófeques veroeftalta. afirmatiuerequiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad
eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati,
matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor
oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom
cumancedentevifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd
possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiriturqualibetpar
itaconditionaliseftfalfa. técepossibiléznll'äaltériiz tatomagis welalijs
Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe
pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdifunctionis;
adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco
Propositionúdifuciuarú tingentezznullaalterirepu alia affirmatiuaalia negatia
gnarenecét cótradictoriail; Difiuctiuaaffirmatiuaéil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe
a inquaaffirmaturnotadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit.
negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó
ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ
aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc
firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca
tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes
aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates
difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam
difiunctionis. tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus.
Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem
possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul
partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alteriicopoisibilez.eremplu
Mdposibilitatemdifüctie-figutcomkepartesplenepost primivttu curris. 7tuésafi,
affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu
temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes.Adneceffitatez.copla
eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed
adimpoffibilitateeius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet
partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri.
husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt
Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez neceidéicópofi
affirmatiuefufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé
pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser}
Ad veritatezoifiuctiueaf, feimpoffibilez. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario
afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud
effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon
coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke
porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños
vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine & filace
prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique fignificatia'sseéincóueniensa
Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom
conigat&difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles
in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaéestimat arhdheof magister bisin
coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide
itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo
neltuesani bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris .
q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura
fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis
géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin,
duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus.
risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis.
mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. priePredicabilecóiterfup
túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói
dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe
ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo
dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee
ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod
rib?pzedicari.ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter
autpofit?diciturpzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2
essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus
Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi
species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde
boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác
Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil
qodiciturterminusfimpler ercluduttermini3pofiti.fed fignificanspla ercluditter
minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu
iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő
Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna
Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu
rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina
cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale
vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri
lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt
bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin?
uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe
plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai
piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter
termin?vniuoc?predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero
quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti,
làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe
přib?orritib?nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica
paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur
cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri.veliqualeacclitaleno
qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2illudéaccñs.er qualisest fortesrespódetur
predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er
Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod
tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo
rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin
illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo.
sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7totaratio
quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofzquod
éppziapafsioilliustermini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur.
Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod
caturde generefpeciezpria qualeaccắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo
Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi
rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic
dedriazidiuiduodicafl'me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė
mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať
dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpesspecialissimahoľ
dicatioautaccicaťeftpiedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminoxdiuerfozpze
foztesz plato. bzunellusfa dicamentorumvthomoéale uellus.Secúdupredicame bus. Termin
superioradre túeftpdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalisfimúeftquäti.
tinerillúznecóuerfoficutli tasfubýfuntduogenera aialrespectuisti'terminihó
alternaär nulluestsuperius qzfignificat quicgdile?cuz adreliquúvzcontinuuz?di
bocaliquid vltra. Lermin’in scretu.primigenerisiftefür
feriozadreliquúdicitureffe fpetieslineasuperficiescoz illequi cótineturabeo. nnó
pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi
iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea
infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinariopluriuztermi,
qualitas.Quartuzestforma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitasfigura
us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz indiuidua vero funt hicbina
Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu
iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale.
tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates
Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentiavelimpotentia.Ier Substantia tia
fecundum sub z fupza.pzi mortalis Jmmortalis mumesthabitusveldispofi, Domo
cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintumpredicamétoem
grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå
rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. nulluėsuperiusadreliquum
Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz
?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez
cum.quarúidiuiduasuntheç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal
quarti generis(pessuntau. bumhocnigpbuiusmodi. gereinlongudiminuereila
Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulustriangulusquadra
augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua
funt.biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa
Quartiipredicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris
fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmoueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera(
diuidua funtficmo uerefurfu alterailebita, 16zsupa ficmoueredeorfum. Sertus
Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė
paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene
tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt.
zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo
fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi
tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis
fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic
gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funtficaugeriilogu fic cumouči.
primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi
generisspėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua
diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener --
b Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da Harborne, and Paolo da
Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi
Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Negri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Mercato).
Filosofo italiano. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a
Napoli prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo
maestro Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.
L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è
concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo
poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile
educatore.” Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo
hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni
hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come
“La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.” A queste traduzioni si
aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e
sociologico. Ha ricevuto il Premio San Gerolamo. A N. si deve
anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana,
come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola. La sua carriera lo ha
visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti
università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università
degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico
universitario. Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato
impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle
più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il «Giornale
Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I Problemi
della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle»,
«L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic
Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il
giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e
«il Giornale». Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per
la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam («Filosofi
italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani («La
storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione» della
Armando Editore. Gli è stato assegnato, a Palermo, dall'Associazione
internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da Fallica, il «Premio
Nietzsche». Saggista sempre molto prolifico, ha continuato a pubblicare
opere originali non solo nella scelta degli argomenti ma anche dei contenuti:
il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il De persona.
L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e molteplicità
culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia dell'integralità,
Edizioni di Ethica, Forlì. Collegamenti esterni «Négri, Antimo», la
voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno fa di un utente
anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico Sciacca filosofo
italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia nella
prima metà del XX secolo Antimo Negri.
Grice e Negri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Padova). Filosofo
italiano. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on Pinocchio!” -- Grice:
“I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if he uses the
extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’. He has a
gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify Leopardi’s
ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!” Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, fu uno dei
maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni ottanta in poi, si dedicò
invece allo studio del pensiero politico di Baruch Spinoza, contribuendo,
insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua riscoperta teorica. In
collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri molto influenti nella
Teoria politica contemporanea. Accanto alla sua attività teorica, ha
svolto una intensa attività di militanza politica, come co-fondatore e teorico
militante delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio
e Autonomia Operaia. A causa della sua attività politica è stato incarcerato e
processato, all'interno del processo 7 aprile, con l'accusa di aver partecipato
ad atti terroristici e d'insurrezione armata. Venne, tuttavia, assolto da
queste imputazioni, per poi venire condannato a XII anni di carcere per
associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato
e diritto -- la genesi illuministica della filosofia giuridica e politica”
(Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano, Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova,
Milani); “Flosofia del diritto” (Bari, Laterza); “Il concetto di partito
politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano e il comune” (Milano, Feltrinelli);
“Il concetto d’integrazione nella storia di Italia” (Milano, Giuffrè); “Il
concetto di stato” (Milano); “Il
capitale e lo stato”, “Della ragionevole ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza
di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia Feltrinelli Fischer); Scienze politiche,
(Stato e politica), Milano, Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano,
Feltrinelli); Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N.,
“Crisi e organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari
e Stato. L’autonomia operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La
fabbrica della strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti
di Padova, Collettivo editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica
dell'economia politica della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema
dello stato e sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano,
Unicopli-Cuem, “Il dominio e il sabotaggio: sul metodo marxista della
trasformazione sociale,” Milano, Feltrinelli,
“Manifattura, società borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura
e la sovra-struttura,” Roma, Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre
Grice”]. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio
massa all'operaio sociale. sull'operaismo, Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,”
Milano, Feltrinelli, Politica di classe: il motore e la forma. Le cinque
campagne oggi. Milano, Machina Libri, “Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica,
“L'anomalia selvaggia: potere e potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina
tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line.
Lettere da Rebibbia, Torino, Einaudi, Boutang, Diario di un'evasione, Cremona,
Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma, Pellicani); “Fabbriche
del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi,
sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico, in
"XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta ginestra:
l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto per l'operaio
sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il lavoro di
Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano, Milano, Sugar);
“Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno, Carnago, Sugar, Spinoza
sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso, o lo stato
postmoderno” (Roma, Manifestolibri); L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione
negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito
operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione
materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e
liberazione comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene:
S Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni.
Politica e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La
sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni
impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo
al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto,
Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli, Europa politica. [Ragioni di una necessità],
a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo
ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma,
Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente,
Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni”
(Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano,
Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero.
Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma,
Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma,
Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica,
Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews, Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre
Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti
della governance” (Verona, Ombre Corte, Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice:
“Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli, Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il
comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo
non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine,
Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e
multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle
Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea,
Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano,
Ponte alle Grazie. Che l'Europa politica sia
necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno determinato l'attuale
processo costitutivo: la ricerca della pace fra le nazioni che la compongono,
lo spazio economico comu-ne, la comune determinazione culturale, ecc. Ma che
l'Europa sia necessaria sembra evidenziarsi con molta forza anche da altre
ragioni, non più semplicemente statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma
politiche ed attuali. La necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa
in forma del mercato globale, cioè dal confronto con il processo di
costituzione imperiale che sta realizzandosi. Nell'impero, essendo
impensabile una democrazia assoluta (un uomo uguale un voto); essendo del pari
assai dubbia, quando non si tratti di pura mistificazione o illusione,
l'immagine di una società civile globale, sarà infatti necessario delimitare
uno spazio che consenta l'espressione e la decisione democratiche della
molti-tudine, nonché la sua organizzazione politica. Ora, lo spazio
politico europeo (costituito su una continuità culturale lunga e singolare e
una dinamica costituzionale specifica) sembra corrispondere a quella
necessaria delimitazione. lo non so se in questo spazio sia possibile pensare
un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero. Quel che è certo è
che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato, non c'è più
democrazia per l'Europa. Se queste sono le condizioni nelle quali
dobbiamo muoverci, interroghiamoci qui di seguito. È possibile
costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un soggetto
politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si confronti
con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una unione
politica che ne valza la pena? A noi non sembra che si possa dare
risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi
sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni
appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico
sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si
pongono fra gli estremi di questa alternativa: 1,1 La Comunità curopes
come pura area di mercato e regolazione di questa: 12 la Cawumira euroyea
cme Confederazione ti Stati-nazio- È chiaro che in eninambi questi casi
la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come
una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso
l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività
all'interno dell'Impero. Si obierta tuttavis, da qualche voce, che
assumendo la «deter- minante mititares come pil importante di quelia
cconomica si potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui
l'Impero la destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione,
manifesta- mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi,
nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente
la determinazione militare è separata, gestita dai singoli Sti-narione.
Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter- munante
militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario ne o ruelo
decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare
forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione
nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione
verrebbe del tutto meno. Un'altra altemativa si disegna quando si
considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione:
2.1 L'Unione politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata
come un Super Stato giuridico-amministrativo (msomna, un Impera nell
Impero); 22 in altra foma l'Unione europea può anche enere
immaginata (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una
Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da
numerosi Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro
sovrano. Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale
sparia orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono,
queste ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico
pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura
buroeritica che produce le istituzioni come con- seguenza di una dinamica
fonzionalista. In 22 | Unione curopea e consenata a macchinazioni
pelitico-giuridiche piuttosto similt a quelle che reggevano
l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla
combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione
reazionaria del romanticismo. Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si
dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea
esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere
costituente» di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio»
può essere, a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale
intera (le Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle
istituzioni europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla
comunità divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit
costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano
credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente,
difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal
deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da
pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali, americane,
russe, ecc. In ogni caso, qualora la discussione politica e costituente
continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma non ne
varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente
subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in
una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di
repressione. A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa
politica che ne valga la pena? Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione
e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono
concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni
dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la
pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla
costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali
potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di
strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel
mondo. Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che
dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la
costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far
uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa
politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione,
lotta, decisione di valori di libertà. Ci sia permessa una breve
parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a
metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e
riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa
decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta
contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca,
di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti
europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre
prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva
la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe
sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un
demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro
questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle
profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni
caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali)
perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente,
eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non
risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non
fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo
negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è
cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione
dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca
pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato,
nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee
guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc.,
ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il
riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà
attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di
opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue,
sarà difficile procedere nel dibattito europeo... Chi ha dunque interesse
all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e
quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello
di impero. Che si propongono come contro-Impero. Insomma, si tratta di
quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per
ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono:
uno statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia
mobilità per sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la possibilità
materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella produzione di
ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune dei mezzi di
produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti il lavoratore
intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro, cioè del
cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si vuole
dunque la libertà. C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal nuovo
modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella postmodemità, si
aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi - infatti, ogni attività
è diventata un luogo da quando la localizzazione capitalista della produzione è
diventata un non-luogo, da quando la fabbrica for-dista si è dissolta nella
società postfordista. E un esodo permanente ed alternativo, dove un
proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra, dentro il quadro
della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a questo
proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma, porlo
contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana, un
super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o gialle,
nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente intelligente
e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di potere
costituito. Può cominciare attraverso l'Europa una marcia zapatista della
forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle Nazioni, Europa
provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo a parlare
dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero? Vale la pena di
sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma nella
costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico
«biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della
citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la
precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della
libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il
politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che
essere ritenuto fondamentale ed irreversibile. Per concludere
provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire: un soggetto europeo
(e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da
una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e
quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche. Il nuovo
soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce
l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione,
nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come
contropotere rispetto all'egemo- nia capitalistica nell'Impero. Per
ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del «potere
costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa come
«anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la costituzione
unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra civile»
all'interno dell'Impero. Al fine di dare realistica base a queste
ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna
ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle
nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione. Questo
rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del capitale
globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana e nel
pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non è
solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande
metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza
politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale
collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un
tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su
condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo
punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti
non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la
rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni
dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo
voglio- no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste
alternative e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di
trasformazioni radicali. Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e,
diventando reale, presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale
e quindi possibilità di nuova libertà per le moltitudini. Ma ritorniamo
al centro politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. I)
All'obiezione che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un
Europa sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione,
possa darsi qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli
Stati-nazione), II) si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più
possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito
nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta
nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della
ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi
nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla
costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di
rottura. III) Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una
sinistra (nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo.
Sulla via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo
investire il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva. IV)
All'obiezione che l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che
ha una finanza ed una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che
non ha la bomba né la capacità di decidere della guerra, ecc.. V) si deve
rispondere che l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella
depossessione di materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella
estrema impotenza militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà
antica (demotica) che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione
biopolitica che, nel rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei
poveri e la mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla
miseria delle forme economiche e politiche della modernità. VI) Ciò
detto, è necessario sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio
degli anni 70, l'Europa ha cercato di operare un passaggio istituzionale
decisivo, sempre si sono tempestivamente determinate acute situazioni di crisi.
Esse hanno avuto origine nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente
dove si forma il prezzo di uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e
dove dominano i governi più reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può
non essere presa in considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver
coscienza che costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro
che fanno il prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del Medio
Oriente, contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. POST
SCRIPTUM Per approfondire l'intera argomentazione fin qui condotta e
rafforzare le conclusioni (l'Europa politica unita non dovrà essere tanto una
nuova figura della sovranità quanto una «macchina da guerra» per l'estensione
dei nuovi diritti fondamentali ai soggetti dell'Impero) vale la pena di
aggiungere qualche riflessione sulmodello europeo di solidarietà sociale ovvero
sul rapporto che si stende, nella tradizione e nell'avvenire, tra il diritto
del lavoro e la costituzione europea. Per trattare di questo tema penso
che dovremo, prima di tutto, ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un
modello europeo di solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue
origini nell'Obrigkeitstaat bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III
Republique, si è sempre caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella
forma della subordinazione, (dal punto di vista economico) nel calcolo del
costo di riproduzione della forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto
di vista politico) in funzione della pace sociale e del consolidamento
dell'autorità statale - ed è stato spesso tradotto in solidarietà imperialista
o bellica... Gli Istituti Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato
gran parte delle guerre del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina
biopolitica dello Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional
socialismo. Ciò detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello
europeo di Welfare ed il diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono
venuti man mano registrando i movimenti antagonisti della forza lavo-
TO. È sulla base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del
lavoro si sono man mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni
corporative, populiste, colonialiste, imperialiste che li avevano
percorsi. È così che siamo arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel
quale ci siamo illusi che il modello europeo si fosse liberato dalle sue
iniziali condizioni, che dunque Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del
modello europeo di solidarietà potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire
- la democrazia. Non è stato così... A partire dagli anni 70, le conquiste
democratiche del Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i
loro effetti spesso neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato
forze altrimenti irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del
mercato globale, politicamente riconosciuto come potenza autonoma:
D'altra parte l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai
disturbata, quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché
infatti, se il suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto
forza-lavoro (che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo
soggetto (il sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura
istituzionale, rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di
esistenza, Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato
ontologico (classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto
industriale non esistono più come attore centrale. Che cosa significa
più, nel postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di
solidarietà sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo
omogeneità) le condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi?
Che cosa significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni
ormai definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza
lavoro produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala
continentale? E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa
accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si
dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un
nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare:
ma come è immaginabile oggi un tale disegno? Ad accrescere le difficoltà
di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello
dell'immigrazione. Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo
problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione
(giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario,
«con-sustanziale» sia dal punto di vista dell'economia industriale
(disponibi- lità indefinita e costo «limite zero» del lavoro) - sia
dal punto di vista delle politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali,
scolastiche e formative, sociali in genere...) Sarebbe interessante qui
riferirsi a, ed insieme forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei
suoi ultimissimi scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E
comunque sparare a zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su
spazi ormai derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di
lavorare... Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal
problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa
prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico
sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?
E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea) determinare
un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio- politico e la
gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio Negri. Keywords: implicature,
potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana, grammatica politica,
assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Negri," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Neri: l’implicatura conversazionale dell’aporia
della realizazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano.
Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of the aporia of the
realization, which is intriguing, and considers that ‘objectivism’ started with
Galileo, which is realistic!” Professore
a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta una delle ultime sintesi della
Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei temi portanti: ricerca
fenomenologica, analisi storico-politica, studi estetici. Rispetto ai suoi
maestri, del cui pensiero è stato uno dei maggiori interpreti, sviluppa un
percorso di ricerca originale, caratterizzato da una critica delle ideologie
del Novecento e dei loro fallimenti, e da una lettura non dogmatica della
storia contemporanea, volta a metterne in luce discontinuità e aporie. Forte di
un'indole scettica e fedele al principio dell'epoché fenomenologica, Neri ha
ripercorso le vicende della dialettica marxista, focalizzando in particolare la
sua attenzione sull'Europa centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta
e dissenso che, a partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel
contesto storico. I suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e
Lukács, Kosík e Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca
teoretica e storica che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali
monografie, ai saggi su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito
conservato presso l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università
degli Studi di Milano. Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia
e Milano, Neri ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai
lontano dalla fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo
umanesimo di stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli
stessi anni di dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti
della ricerca husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle
scienze europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato
fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di
acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi
delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie
pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e
politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e
l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli
insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi
a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky
(della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio,
e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica. Agli anni di
studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a
Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito,
negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga,
Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che,
in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal
suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e
della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di
Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri
l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza
americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi
inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di
Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di
Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli
scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato
in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale
incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea
filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali
progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie
della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo
realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta,
al maestro Banfi. In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti
dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia.
In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è
decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando
quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della
fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della
vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si
presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si
raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di
riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale
e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in
generale, contro l'impronta culturale del PCI. Neri rientra in questa
nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi
studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un
altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare
i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale
e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a
tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è
seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile
nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti
della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione
di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo
conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue
distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno
del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano. Come si evince
dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di
filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da
una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch.
Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia
e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà
periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi
dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del
libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della
dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza
futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e
della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le
aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la
malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e
al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti,
al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su
Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si
confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini
del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali,
oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica.
Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli
anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria
banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la
svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno
spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei
particolarismi delle filosofie nazionali. L'Archivio N. -- è stato creato
presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano
l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali
inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni
di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista
di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le
riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte.
Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in
corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di
Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal
Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su
alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione
sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo
reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società,
sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle
scosse della storia. Saggi: : “La fenomenologia della prassi (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista
italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli,
Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su
Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della
Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente,
Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut
aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la
Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone,
Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano,
UNICOPLI,. L.Frigerio e E. Mazzolani,
Iin Sistema Università, A. Vigorelli,
Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein, F. Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi.
Fondo librario. Grice: Mussolini
used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the
‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile
paziente e bastonato. Grice: “Neri made
a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own
Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan?
Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on
Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he
gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice:
“Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the
commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled,
bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass –
when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when
‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la
sensazione, il Galileo di Husserl. Guido Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo
dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Nerone:
il melodramma di Boito -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo epicureo e imperatore romano.
Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to Nerone, making it extremely
like that Nerone was himself a follower of the doctrines of The Garden. ao
ss TN Bo ZA SI gia SE er ES
7 VIS \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud
o, e G. RICORDI € C. EDITORI-MILANO 1( Printed in Italy ) @ISERI
(mpradigeile) POS \ DI Li ‘A DG DI 8 li 7 LALA Ss INI (EL fn
ra SI ; CS ‘ pi” x "n ': lr” t DS Ù Ì N ? Ò FINE
Nine {UMBERTO PIZZI BULOGNA - Via Zamboni, 1 Proprietà per
tutti i paesi. Deposto a norma di legge e dei trattati internazionali.
Tutti i diritti di esecuzione, rappresentazione,
riproduzione, traduzione e trascrizione sono riservati. Aiîl rights of execution,
representation, reproduction, translation and transcription are strictly
reserved. (Copyright by G. Ricordi & Co.)
(Printed in Italy) (Imprimé en Italie ) BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI .—
AUMENTO COMPRESO G. RICORDI & C. EDITORI MILANO -
ROMA - NAPOLI - PALERMO - LONDRA LIPSIA - BUENOS AIRES PARIS - SOC. ANON.
DES EÉDITIONS RICORDI NEW-YORK - G. RICORDI & C., INC.LE PERSONE DELLA
TRAGEDIA: NERONE SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA
TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE CERINTO
IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO
SCHIAVO AMMONITORE I VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje -
Fanciulle Gaditane - Acclamatori - Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori
di parte frasina - Fautori di parte azzurra - Popolo - Schiavi - Plebe -
Senatori - Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre decurie di Guardie
Germane - Eneatori - Sacerdoti del Tempio di Simon Mago - Matrone -
Classarii - Pretoriani - Cristiani - Aurighi della fazione verde -
Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI:
Una puella Gaditana - L’ Arcigallo - Un venditore d’idoli - Un venditore
di tavole votive - Un mercante orientale - Un flamine - L’auriga
vincitore - L’ auriga vinto - Un lanista - Due Mercurii - Due Caronti -
Alcuni Etiopi - Viandanti - Lettigarii - Clienti - Servi - Danzatrici
Gaditane - Corrieri Mauritani - I due Consoli - Littori - Preconi - Due
Tribuni della plebe - Legionarii - Galli - Greci - Rheti – Indiani, Armeni, Egiziani,
Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii,
Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre
Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori,
Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai % VA Il bh
NI E fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a SOR MN LIERE
T #1"Ri NERONE TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE
E MUSICA DI BOITO(Proprietà G, RicoRDI & C.) PRIMA ESECUZIONE: MILANO, TEATRO
ALLA SCALA (ENTE AUTONOMO). PERSONAGGI NERONE. Sig. Aureliano
Pertile; SIMON MAGO, Journet E e, » Carlo Galeffi MORERTA SC del 5
Se RosasRaisa MERA e, » Luisa Bertana ME UCINO n e e Sig, Ezio
Pinza BIRBRIAST: i ii, » Giuseppe Nessi O i a Carlo)Walter
BERSIDE N. 000.0. Sig Mita Vasari MINT ne, » Maria Doria
BERLEMPIERENS e, i Sig, Emilio Venturini PRIMO VIANDANTE. . . . »
Alfredo Tedeschi SECONDO VIANDANTE . . » Giuseppe Menni LO SCHIAVO
AMMONITORE .Baracchi MIS SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E
CONCERTATORE TOSCANINI Maestri
sostituti: CALUSIO - CLAUSETTI -FORNARINI FRIGERIO - RAGNI - ROSSI -
VITTORIO RUFFO - ANTONINO VOTTO Maestro del Coro: VITTORE VENEZIANI -
Maestro della Banda: MORRONE Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE
Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: CIA FORNAROLI
Direttore della messa in scena: FORZANO Direttore dell’allestimento
scenico: CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi su bozzetti di
POGLIAGHI Scenografo: MARCHIORO colla collaborazione di MAGNONI
Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci Primo dei secondi Violini:
Odoardo Peretti - Prima Viola: Guglielmo Koch Primo Violoncello: Arfozio
Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi Primo Flauto; Arrigo Tassinari -
Ottavino: Alberto Trevisan Primo Oboe: Gusmano Trapani Corno
Inglese: At/ippo Ghignatti - Primo Clarinetto: Luigi Cancellieri Clarone:
Arturo Capredoni - Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri Sarrussofono:
Giuseppe Regarbagnati - Primo Corno: Michele Allegri Prima Tromba:
Edriondo Botti Primo Trombone; UVsberto Montanari Basso Tuba:
Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina Sormani Organo e Pianoforte:
Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini Xilofono, Sistro e Batteria:
Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti: Arancesco Veronesi - Timpani:
Luigi Barilli ispettori del Palcoscenico: Domenico Duma e Enzio
Cellini Vice ispettore: EmziZio Rocchi Direttori del macchinario:
Giovanni e Pericle Ansaldo Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa
Attrezzi della Ditta Aancazi & C. di Sormani Tragella & C.
Gioielleria della Ditta Angelo Corbella Parrucchieri: Rodolfo Biffi
e Rocco Sartorio Piume e Fiori della Ditta Virginia Ranzini
Istrumenti musicali della Ditta Strumenti Musicali Bottali
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AVALETCAUIT ATE PAIA RO (0) i. È un campo situato (per chi va da
Roma ad Albano) lungo il lato destro dell'Appia, alla sesta pietra
milliaria. La via segue una linea obliqua fra questo e gli altri campi
che si estendono dall’altro lato. La notte è nuvolosa. La luna pènetra a stento
le dense nubi che la nascondono. Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità
è appena diradata da un barlume cinereo che non projetta ombre ; il campo
nereggia più cupo. Sul lato destro della via, dalla parte di Roma,
s’innalza un grande sepolcro che si prolunga nell’erba; gli si allinea
d’accanto, progredendo verso Albano, una tomba recente su cui sta per
estinguersi una lampa funeraria. Tra questa tomba e il milliario lo spazio è
libero; poi segue una pietra sepolcrale quadrata e, poco discosto da
questa, un vasto tumulo erboso che porta sul suo vertice le vestigia d’un’ara.
Altre tombe si schierano sulla fronte sinistra della via. Molti rottami
d’antichi mo- numenti sono sparsi intorno al grande sepolcro ed
ingombrano anche il breve spa- zio che lo divide dalla tomba recente.
Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando una fossa. È
Simon Mago. Sul margine della via un altro uomo guarda, immobile come in
vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio della lacerna sul
capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono dalla vasta campagna,
dalle lontananze dell'Appia; frammenti di canzoni portati dal vento,
dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore Vola col vento,
a SIMON MAGO Torna col vento... i? E lui: Passa un
viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle ed un
bastone. No. LA GUARDIA DEGLI ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima
Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo
ancor, là... verso via Latina. SIMON MAGO Pur ch’ei non
l’oda! TIGELLINO È profonda la fossa? |
SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte d’Albano
s'è udito un urlo di spavento: Tigellino sbalza sul- la via
e incontra Nerone fuggente,rav- volto in una toga funebre e che
porta un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO ‘ accorrendo al
grido Mio Signor!... N. ansando di terrore ed
accennando die- tro di sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO
dopo aver osservato È il tuo delirio. N.
No. La vidi...surse... Cinta di serpi... squassava una face...
Poi la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge,
lo fa sedere sulla pietra sepolcrale che sta fra il milliario ed il
tumulo. Qui ti posa. TIGELLINO Dove lasciasti il
corteggio ? N. A Boville. VOCE FERALE NEL
LONTANO Nerone-Oreste ! ll Matricida! Ancor più nel
lontano risuona il canto di "prima : Canto d’amore Vola
col vento, Torna col vento... Ricominciano le canzoni della
notte. Volano per l’aria le parole d’una stro- fa amatoria di
Petronio : Dolce ridente Lalage. Giunge sull’Appia da Roma
un’alle- gra comitiva al lume d’una torcia. Vanno a passo vivo
verso Albano. Risuona una voce con questo epigramma : ;
Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO sottovoce, come
parlando : Balza il vento e ne porta le canzoni Or dai
monti, or dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi Ancor
quel grido! TIGELLINO È la canzon d’un ebbro; porgi.
Fa per prendere l’urna che Nerone stringe fra le braccia.
N. No. lo l’urna porterò sino alla méta.
Nerone entra nel campo coll’urna fra le braccia. Tigellino al suo
fianco lo guiderà fra le tenebre, lentamente. Giunti alla fossa si
arrestano. N. Simon. Mago dov'è? Nerone
depone l’urna sul suolo, presso la fossa. SIMON MAGO
che non s’è mosso dal campo Qui supplicante I Mani
d’Agrippina. VOCI LONTANE ...trasfondeva col bacio il iabro al
[labro... l’anima errante.... . progenie nova dal ciel...
. ave, anima... Una voce lugubre si sparge nella not-
te; s'odono queste parole: Voce dall'Oriente! Voce
dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso d’una atellana:
Torna Onesimo dai campi... e dal grido ferale:
Nerone-Oreste ! Il Matricida! N. subitamente, atterrito
AN! tu mi salva! Lava il mio matricidio! Orrenda vita Vivo,
pe’ gioghi di Campania in fuga, Meco traendo il delirio, le Eumenidi
Flagellatrici e lo spettro materno! SIMON MAGO
Dagli insepolti corpi emanan larve. Pronta è l’inferie.
TIGELLINO Finchè il rito dura, Vigilerò. i Poi
s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da Nerone,
sommessamente gli dice : Spingilo a Roma, incìta L’audacia in lui;
s’ei teme siam perduti. Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la
colonna milliaria. N. prono sulla fossa ed immobile,
incomincia come chi proferisce parole preparate con arte:
Queste ad un lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove
stende Roma sue tombe ; Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria.
S’inginocchia. Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso.
Se dei defunti lo spirto penètri Nell’alme nostre, il mio
contempla, madre, Interno orror. quasi senza suono,
inorridito e coprendosi il volto colle mani lo son l’ultimo vivo
Di tua tragica stirpe, in me il Destino Tutte aduna sue forze e le
consuma. M’invade il Nume antico! È l’opra mia L’opra del Fato!
ergendosi fieramente E ben dicea quel grido :
Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO E
tua Tauride... N. intuendo con gioja il pensiero di
Simon Mago ..è Roma! Passa una famiglia di gladiatori; la
precede il lanista, riconoscibile alla lunga ferula che impugna;
gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno
silenziosi verso Roma. dall’Appia, sommessamente ma energico
Zitti! Vien gente. | sottovoce, ma concitato Presto.
N. a Simon Mago, con ansia T'affretta. Si
sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. Nerone esita ad
afferrare l’urna. Paventi ? NERONE No.
SIMON MAGO Presto. N. angoscioso
M’ajuta. | Simon Mago lo ajuta a calar l’ urna nella
fossa. grescreazbiapiz indenni DO SIMON MAGO
N. Più profondo. Più profondo ancora.
Simon Mago comprime l’urna nella buca; poi, con la vanga la copre
di terra finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È
fatto? SIMON MAGO È fatto. N.
Nascondi la vanga. Simon Mago va a nascondere la vanga
fra i ruderi, poi ritorna, prende dal- l’acerra alcuni grani
d’incenso, li spar- ge sull’ara thuraria, immerge l’asper-
sorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende.
SIMON MAGO copre la testa e il viso di Nerone col
velo, insino al petto. Ti copra l’atro vel. N.
Ajuta! Ajuta L’anima mia! SIMON MAGO
tracciando con l’aspersorio dei segni arcani nell’aria
Redimo te! Ti prostra. Amen rispondi. N.
tutto prosteso, toccando con la fronte la terra, ripete:
Amen. | Dalla via Latina giungono col vento gli antichi
anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide ciglia lo stral che riapre
l’antica ferita d’amor... Passano sull’Appia due giovani vian-
danti; quello che canta poggia il brac- cio sulle spalle
dell’aliro. Vanno ver- so Roma. Ancora dalla via Latina
s’odono gli anapesti: ...ed io fremo siccome l’ardente
corsier che ritorna alle gare del Circo...| ì H ì
s dI | ì i | i fl È
I ANI IOTTZION LE SIMON MAGO Ti rialza. Lo
ajuta a sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso.
Spargi i libami. La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a
porgere a Nerone la tazza libatoria. NERONE h I
E sangue? SIMON MAGO È sangue; innaffiane la
fossa, E nel versar torci il volto. N. Ho paura.
La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a versare
il sangue sulla fossa. SIMON MAGO Versa. Coraggio !
N. inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che
lo copre, scorge dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una
figura spettrale sorta da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il
collo avviluppato — da serpi come un’Erinni. A quella vista egli
balza în piedi inorridito e corre a ripararsi dietro il tumulo,
gettando un grido: Orror! SIMON MAGO (NANO Dopo un attimo di
sorpresa va a prosternarsi ai piedi dell'apparizione. TIGELLINO che
ha udito le grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama:
D’onde uscì ? UN VIANDANTE Qual grido ? | UN ALTRO
VIANDANTE Olà! chi grida? TIG ELLINO Via di qua!
IL PRIMO VIANDANTE Chi è costui ? IL SECONDO VIANDANTE
Chi è costui? IL PRIMO VIANDANTE È Tigellino.
N. come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo
guarda: A sè m'attira. TIGELLINO afferra Nerone al
braccio sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del tumulo.
Vieni ! Il velo, che copre il capo di Nerone, cade. Appena
il volto di Nerone. si scopre, L’ ERINNI drizza il
braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina: Neron !
N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo
per inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti fra le
tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im- pietrita,
col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati e fissi sul
tuinulo da dove è scomparso Nerone. La campagna è ancora immersa
nelle tenebre; solo la face dell’Erinni sparge un circuito di luce.
SIMON MAGO sempre genuflesso, a capo chino, osserva
celatamente, girando in basso gli sguardi, se il campo e la via sono
rimasti deserti; accerta- tosene, si rialza, afferra ai braccio quella
figura atteggiata a stupore catalettico e le dice, calmo: Sei colta.
ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA) senza scuotersi, con voce incolore, come irasognata
Chi ama la morte Toccar mi può. SIMON MAGO abbandonando il
braccio d’Asteria, ma badando sempre ad impedirle la via Non sperar
ch’io paventi. L’idre al tuo collo attorte O son morte o morenti.
ASTERIA appoggia la face al sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi e
con gesto lento di minaccia risponde: Sperder potrei la malìa che le
assonna E avventartele. Simon Mago prende la face e la solleva per
rischiarare la persona d’Asteria. Asteria veste una specie di
kalasiris egizia, a tinte fosche; ha le braccia nude, i capelli nerissimi
sparsi in molte trecce sottiti SIMON MAGO Donna
Strana ed audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa
facella Medusa, Ecate, Sfinge, Fumenide o dimòne. Chi sei?
Chi cerchi? Qual forza ti spinge ? Perchè insegui Nerone ?
ASTERIA È il mio Nume e lo adoro! A notte cupa, Quando
negli antri del funereo suolo Vagolo al pari di piagata lupa
Ululando il mio duolo, lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel
Che popola di spettri le tenèbre, Che scuote sulle plebi infami ed
ebre Il sublime flagel. il mio Nume e lo adoro. Sotto un vel
ora apparve a me davante.... Poi..... sparve là..... Con un
impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO
trattenendola a forza, l’arresta di colpo. Ferma! o il tuo Dio ti
sfugge. ASTERIA dibattendosi dolorosamente fra le mani di
Simon Mago Vo’ seguirlo.... pietà! L’orror m’attira Come un
amante.... e nell’estasi vivo De’ violenti sogni.... ebbra di pianto.
E son dell’idre incanto E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge
E il petto mi rinserra E stringe.... e lambe.... bduerra.ra
E nell’amplesso della viva spira Sento ancora quel Dio che mi
martira ! SIMON MAGO Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA
Sulle rive D’Anxur, tre notti son. SIMON MAGO
Ed ei nel viso [ha&scorta”? ASTERIA Oh! come mi
guardava fiso ! Ma il suo corsier impaurito il trasse Lontan,
fuggendo, al lume della luna. Rimane ancora un poco assorta in ciò che
descrisse. Ma tu chi sei che dell’anime lasse Tenti il facil
segreto e il facil pianto ? SIMON MAGO Son tal che
rialzar può il volo infranto Del sogno tuo. ASTERIA
Tu?! SIMON MAGO Sì. Nessun mai sappia Chi sei, nè ciò
ch'io dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO
raccoglie l’acerra. S’ asconda Quest’ acerra.
ASTERIA indica a Simon Mago il posto da dov’essa è apparsa: Qui.
SIMON MAGO Dove? Asteria prende la face e conduce
Simon Mago fra le due tombe ove i rottami nascondono un forame del suolo
da cui si discende in una cripta. ASTERIA €
Qui, sotterra, E un antro oscuro d’ avelli cristiani Che si
riapre dietro a quei delùbri. Dicendo queste ultime parole accenna ad una
località oltre il tumulo, verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso
l'apertura della cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo
nero e l’idria in cui pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove
discende; lascia cadere gli oggetti nel forame della cripta, salvo
l’acerra e il velo. SIMON MAGO Dammi la face.
Asteria porge la face a Simon Mago che sta per discendere nel sot-
terraneo. SIMON MAGO Qui sarai domani Col sol morente.
Scende due gradini e s’arresta. Ascondi quei colùbri.
Così dicendo porge il velo nero ad Asteria che lo prende e lo bacia e
se ne avvolge il collo e il petto. Simon Mago, coll'acerra e la face, è
sceso nella cripta fino alla cintola. S’arresta ancora una volta per dire
ad Asteria: Ma pensa al fato che invochi su te. Bada! il tuo
Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor che non uccide Amor non è!
E s’abbandona sulla tomba che le sta dietro; quivi, giacente, rimane.
Simon Mago scende tre gradini della ‘cripta con la face in pugno e
scompare sotterra. Incominciano a diffondersi le prime
trasparenze dell’alba. Il cielo si rasserena. La profonda quiete dell’ora
s’estende su tutta la campagna romana. Una donna in bianca
stola, Rubria, viene dalla parte di Roma, s’arre- sta davanti alla tomba
recente, estrae un’ampolla e la vuota nella lampa funeraria; il lumignolo
si ravviva e riarde. La donna s’ingi- nocchia, inclina il capo sulla
tomba, congiunge le mani e, nell’alto \ silenzio che la circonda, prega
così: RUBRIA Padre nostro che sei ne’ cieli, sia
Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente pia, Sia
fatto il tuo voler in terra, come Nell’ Empiro immortale. li
nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa ch'io riveda
quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA che
giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole come
un sospiro O soave preghiera! RUBRIA si alza,
guarda dalla parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che
sospiri, sorgi e spera. ASTERIA lentamente sorgendo
O divine parole! RUBRIA appressandosi ad Asteria colle
mani sporte e offrendole fiori Spargiam insiem le rose e le viole
Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT ASTERIA
Il dono pio Porgi.... E prende, con movenze estatiche da
sogno, i fiori e ne cosparge la tontba, insieme a Rubria, e le zolle
d’intorno; ma, giunta all’ultimo fiore, esita, s’arresta, lotta un
istante contro un impulso interno, poi dice: No.... no.... stuggir
devo gl'incanti Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio ! E fugge
impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla tomba a pregare.
Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la
vede, s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA
solleva il capo, volge il viso, lo vede e lo nomina: ‘ Fanuél!
FANUÈEL Non t’alzar. Il nostro addio Sia questa prece
che sale al Signore Fra i bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare
con intenso fervore. Fanuèl continua a guardarla fissamente.
RUBRIA levando gli occhi pieni di lagrime al cielo In te
sperai! FANUEL con voce commossa Piangi ?
Perchè ? RUBRIA Ho un peccato nel core. FANUEL Lust?
RUBRIA Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai? FANUÈL Seguo
mia stella verso ignoti porti. guardandola fiso negli occhi Confessa
il tuo peccato. RUBRIA Perdonar mi saprai se tutta
dico La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere,
s’avvede che l'apertura del sot- terraneo si rischiara e che un uomo, con
una face in mano, viene salendo lentamente dalla cripta.
FANUÈL sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un
agguato ! V’è un uom fra i nostri morti. . Fa qualche passo
nel campo per ravvisario. (E Simon di Sebàste. RUBRIA tutta
sgomenta e a bassa voce Il gran Nemico! FANUÈL
Corri dai nostri, va, narra gli avelli Spiati. x RUBRIA
guardandolo con ansia btu ‘ FANUEL Poichè un
periglio incombe lo resto coi fratelli.) Rubria si vela il
viso e s’avvia rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite
ancora e senza raggi, a grado a grado discopre le cose remote, gli
edifici sparsi qua e là nel fondo della campagna, gli archi del doppio
acquedotto dell’aqua tepula e Marcia, qualche fastigio dei monumenti
sepolcrali della via Latina. Molto lontano, forse dall’ottavo milliario,
s’odono squillare, nel puro silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe.
Simon Mago, senza accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto,
si dirige verso il tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta-
mente dal lato donde giungono gli squilli. FANUÈL che ha
seguîto collo sguardo ogni passo di Simon Mago, s’inoltra nel campo e lo
chiama: Simon. SIMON MAGO dal tumulo, volgendosi
Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio dall’ alto Di queste tombe!
Vieni e vedi. | Fanuèl. esita sorpreso, poi sale anch’ esso sul
tumulo ov’ è Simon Mago. Le trombe continuano a squillare.
SIMON MAGO S' avanza una gran nube Di turbe. Echeggian
trionfali tube. È il matricida, ei vien col suo corteo D' istrioni
e d’ Eumenidi all’ assalto Del mondo reo, Poi, con un gesto largo
che abbraccia tutto l’orizzonte : Pensa: i Reami, i popoli, le. Glorie,
Le corone, gli scettri, le Vittorie, Tutti i raggi di Roma e di
Nerone Non son che luci moribonde e torbe D’ innanzi al sogno mio,
d’innanzi a te: Sui sette colli un Tempio (o Visione !), Un Tempio
eterno che soggioghi l Orbe, MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re.
. Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe Vapora, immensa nuvola, al
tuo piè! Guarda quaggiù. Pel sangue che l’inonda L’arca
d’oro di Cesare sprofonda, Furibonda ruìna e precipizio. Plebi
nefande confuse nel vizio Plaudono a Roma che canta e che crolla.
Tremano tutti: Cesare, la folla, Le coorti. Fischiò dagli
angiporti Già il greculo rubel. Cadono i morti Nel Circo e cadon
nel triclinio i vivi E i Numi in ciel! Ma tu su quei captivi Del
fango e della porpora distendi Le tue mani, la tua virtù mi vendi;
Due Sovraumani vedrà il mondo allor! Vendi il miracolo, t’ offro
dell’ or. FANUÈL scende dal tumulo e terribilmente esclama:
Anàtema .su te! Maledizione! L’oro tuo piombi teco in perdizione! saran
to” di è ide SIMON MAGO L’ira tua scagli invan contro
il mio scherno, Povero nunziator d’ un Regno eterno Senz’ oro e
senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e forte Or su te confermi il
ciel: colla massima veemenza lo t'estirpo da Israel!
SIMON MAGO Fra noi due c’è guerra a morte! Si sfidano
collo sguardo come due fieri nemici prendendo due vie opposte. Fanuèl
ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon Mago scende dal tumulo e
s’allontana dalla parte di Albano. Nerone e Tigellino ritornano
‘da un sentiero dei campi e s’arrestano al tumulo. La toga di Nerone,
tutta scomposta, lascia vedere una mi- rabile tunica oloserica tinta di
porpora jacintina e sparsa di palme d’oro. Nerone porta al braccio
sinistro un’armilla di pelle di serpe chiusa da una borchia di gemme. Ha,
come Tigellino, un focale di seta annodato intorno al collo, sul petto
una collana d’ambra mista a molti amuleti: dalla cintola gli pende un
largo smeraldo ovale attac- i cato ad una catenella di perle. N.
Nessun ci segue? TIGELLINO osserva il sentiero donde
sono venuti. No. Sosta il corteo Lungo i campi di Persio.
N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria.
TIGELLINO Ebbene ? Sparve. N. sempre cogli occhi
rivolti al sepolcro, cupamente S’ergea fra Roma e me!
TIGELLINO Andiam. Che guardi ? -— A. Oli ren N. volge
gli sguardi inquieti sul posto dove ha sotterrato l’urna ed È esclama
atterrito: Si scorge il labbro della fossa! Tigellino va a
calpestare quelle zolle per disperdere le tracce del
seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla parte di Roma dei
clamori lontani. TIGELLINO prendendo per mano Nerone Andiamo.
N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione TIGELLINO
Fuggir? Dove? N. Non so. Dove migra il cantor trova
una patria E sola gloria è 1° Arte! TIGELLINO E di che temi?
Crede il Senato al tuo messaggio, crede Colta Agrippina ordendo la
tua morte, Poi da sè stessa uccisa. NERONE Alla
menzogna Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova.
NERONE Se rivarco le mura a chi mi volgo? Al
Senato?.... alla plebe? TIGELLINO che da qualche
istante porge l'orec- chio alle grida che s’avvicinano, corre sul
tumulo, guarda verso Roma e risponde : E luna e l’altro
Per te dall’ Urbe accorrono. NERONE atterrito e con
sùbita ira Qual folgore Sparse a Roma il clamor del mio [ritorno ?
TIGELLINO arditamente dal tumulo lo. N.
con maggior ira e minaccia Tu, ribaldo? Violenza porti Sui
dubbii miei? TIGELLINO Si. Per salvarti. Mira! Si slega dal collo
îl focale di seta rossa e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge :
A questo cenno il corteo s’ incammina. Mentre Tigellino sventola
ancora îl fo- cale, s’ode squillare non lontano una chiamata di
bùccine come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i clamori
aumentano. TIGELLINO scendendo dal tumulo Ecco
i corrieri Mauritani. Mira! N. Da ogni parte m’assalgono !
TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE che
si appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il
[clamor, ALTRE VOCI Ecco i Numidici corsieri.. Gioja!
Il Popolo irrompe in scena, restando pur sempre sull’Appia e
correndo ver- so Albano. ALTRE ANCORA Ei viene! ei
viene! egli è là! egli [è salvo! Corri! s'ode il clamor! ei viene!
è là! Tre Precursori Mori, a cavallo, passa- no di galoppo
sull’ Appia, risplendenti . d’armille e di falère. Ser IOGE
N. invaso da terrore si rannicchia fra il gran sepolcro e i
ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO avvicinandosi a N
erone Ecco le schiere. con grande concitazione Se
indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le tombe
Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il
cappuccio della lacerna sugli occhi e s’avvicina alla via,
ripartendo la sua vigilanza ora sul corteo, ora su Nerone. POPOLO È
salvo! Gioja!mALTRE VOCI Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI
Largo, la via sgombrate ! POPOLO Avanti, olà!
ALTRI Corri! là! Corri! là! Vengono gli Eneatori colle
loro squil- lanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI Udite!
Udite! Segue un vasto carro tratto da cavalli, pomposamente
ornato, dove stanno ag- gruppate, gittando fiori e cantando, le
Ambubaje cinte il capo di mitre siria- che. Le fanciulle Gaditane
seguono la teoria del corteo danzando e gettando fiori. Portano
incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE Apollo torna. Nubi
di fior volino ai zeffiri, |’ lri [baleni nell’ etere. Apollo
torna, e con esso Tutto un esercito in danza. Il corteo s’arresta
fra fluttuazioni cou- trarie. POPOLO Avanti!
Avanti, olà! Apollo torna. Avanti! GOBRIAS Torna
Onesimo dai campi. POPOLO Largo alle schiere, largo!
Gioja! Gioja! TIGELLINO L’exaforo s’appressa, ivi ti crede
Il popolo clamante. Odi le grida, scuotiti. PRETORIANI Largo!
Largo! Sgombrate ! Si ristabilisce l’ordine di marcia del
corteo. AMBUBAJE AI colle! al collel AI colle!
La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi, olà! ALTRI
Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE Largo ! Largo al
corteo ! Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augu-
[stani ! Giunge l’exaforo. La via sgombrate! ll corteo si
rimette în marcia. Prece- duto dalle fanciulle Gaditane, passa un
gruppo di Phalangarii. Poriano sulle spalle un fèrcolo su cui si
innalza una statua di rame, rappresentante una Amazzone.
TUTTI Apollo ! GOBRIAS L’orco già da’ piè
mi tira. Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE
Eilwieny® E giunto là! Avanti! Gioja! nia e
NERONE Mi lascia. TIGELLINO L’eneator
t'annuncia. NERONE Ecco, rinasco Libero e
forte. Andiam! DOSITÈO É là! B là! S’appressa!
Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS Fi torna, è salvo
il Dio del Circo! PLEBE ‘ È 1a! È salvo il Dio
dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta l’ordine di
marcia del corieo. Passa una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi,
d’Indiani, di Greci, d’Egiziani. Passa- no alcune schiere di soldati
ausiliarii coi braconi alla barbara e passano dei Rheti e dei
Galli. GOBRIAS Roscio risorto ! Novello Turpione!
DOSITÈO Tu snidi il Nilo, fendi l’Istmo, instauri La terra e
il mar. î GOBRIAS Trionfator d’ Armenia! POPOLO
Trionfator ! Eccelso ! Bello ! Forte ! Silenzio!
È sacro il coro. Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E
AUGUSTANI Ave, Nerone, voce di Ciel, Beata Roma che t’ode!
Canta, Apollo, Canta l’ode d’amor non prima udita [dal
mondo! TUTTI Ave, Neron! Canta lode d’amor! TIGELLINO
Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.
TIGELLINO Or su. N. fa per avviarsi ardito verso
l’Appia, s’accorge di passare sulle zolle dov'è sepolta l’urna e
indietreggia. Ah! dove passo! TIGELLINO
Corri dritto alla mèta. N. Cantano i versi miei. Passano tre
decurie di Guardie Ger- maniche.Fra le file dei soldati circola- no
parecchie Ambubaje 0 camminano appajate ai soldati giojosamente. Frat-
tanto si avanza un carro, tirato a ma- | no da quattro
schiavi, dove sono ac- catastati degli attrezzi teatrali. Dietro
al carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che
indossano le lo- ro vesti teatrali. DIONISIACI
L’ebra Mimàllone già diè fiato alla [Bacchica tromba,
Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti
«Evion!» gridano ed «Evion!» Peco [remota ripete. TUTH Evion!
Evion! Evion! Evion! Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I
littori che lo precedono, coi fasci laureati, respingono la folla.
L’exaforo è portato da sei schia- vi Etiopi, una corona di giovinetti
Asiatici lo circonda e una torma di Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI
E DIONISIACI Ave, Neron, tua lieta stella splende.
TIGELLINO spinge Nerone verso la folla plaudente, poi corre
sull’Appia e coman- da ai littori: V’arrestate.
VOCI Chi è là? CATE BELEN e) ANTI GOBRIAS
Apri il velario. ALCUNE VOCI Chi è là?
ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA
È Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo!
NERONE în tunica di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del
sole No! Fortuna in fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla
folla. TUTTI Evion! Evion! Ah! Gioja! Gioja!
Almo Sol! Alma Roma! Ave, Nerone ! i giovinetti Asiatici schiudono
le cortine della lettiga, mentre d’in- torno a Nerone piovono
fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande, fra le grida e gli squilli
del trionfo. Tutta la scena è irradiata dal sole. REA
REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR
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TRISEA NT PRI D arde IERLELIEVI SRI RIITTOTINE AMRITA TA
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fai Rea PETE condi d; tI VP Ù ci SESIZ: Dre rana “ o repo nes
ton oe erirzomee ERA <A Mirra 7 d SARI CIRIE PI DAPIIA
PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER
SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI vi " | È
nica = È un tempio sotterraneo; visto
nel senso longitudinale appare diviso in due parti. Un'ampia cortina,
tesa fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale, separa
il sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano
i fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone
adorne di ric- chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od
altre acconciature sfarzose; schiavi in rozza tunica, e, fra questi,
alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei fuggitivarii; qualche
liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali, gli
sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’
ingresso un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano
la loro merce. Un tempiere sta presso al vassojo delle offerte.
DITE DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano
D’un tratto la cortina si spalanca e si scopre agli occhi dei fedeli il
sacrario. Tutti coloro che stanno nella cella s'inginocchiano. Simon Mago,
in manto e tiara d’argento, col petto scintillante di gemme, sta sulla
gradinata dell’altare e fra le mani, coperte d’un drappo prezioso, tiene
alto levato un calice d’oro. Un raggio fulgidissimo scende dalla volta
del tempio e illumina tutta la persona del Taumaturgo. Due sacerdoti situati
più basso sostengono, sotto il calice, un bacino d’oro. Altri otto
sacerdoti sono scaglionati sugli altri gradini fra le statue policrome, e
la loro immobilità è tale che si confondono con queste. Quattro fiabelliferi
ergono dietro il Mago i loro flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi
reggono, colle braccia alzate al disopra del capo, due urne d’oro da cui
vaporano degli aromati fumanti. Un altro innalza un vaso di bronzo su cui
arde una fiammella turchina, un altro tiene aperto davanti al petto un
dittico dove sono tracciati dei simboli. Ai piedi della gradinata stanno
schierati alcuni giovanetti con delle grandi arpe e delle cetre e dei
sistri. Presso i pilastri dell'arco sono appostati due tempieri, e nel
centro dell’arcata Gobrias. (giovane discepolo di Simon Mago) e Dositèo,
vecchio sacerdote, stanno rivolti verso la folla. Nella cella i
devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione, il calice raggiante.
D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca spumeggiando dal calice e
cade nel bacino sottoposto. Nello stesso momento sorge dal braciere
ardente una densa colonna di fumo che invade il sacrario e nasconde Simon
Mago alla vista dei credenti. La cortina si chiude; Dositèo e Gobrias
sono rimasti al di là della cortina, sul limitare della cella.
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A PIVA CELIO DRITTO TETI PIT AA ID LS ae 17 PrO {EDILI IDRICA IEEE I
SORIA II TIA DITA terreni: 0 IRR DIGO IE III
NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS
AA TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO) SIMON MAGO
a Gobrias, mentre î fedeli continuano a cantare il loro salmo.
Odi il fedel gregge mugghiar L’incomprensibil càbbala al
ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e con piglio ilare
appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro brillar!
Sul lettisternio profuso è il vin! Tempra il falernio succo la neve;
Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una
tazza già piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo lo segue e lo
imita. PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I
MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R IRE VAT
PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI
IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA) | I FEDELI
| inginocchiati | \Stupor! Portento! 3 |
GOBRIAS e DOSITÈO | È compiuto il Mister. I FEDELI ! alzandosi
disordinatamente ‘| Miracolo ! Simon al ciel volò! | GOBRIAS
i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat-
! to per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI Proùrche, Bythos,
Sigeh, Logos, [ Anthropos, | Zoè, Noùs, Ecclesia, Eccelsa
Og- | [doade; | Gobrias entra nel sacrario seguito da
Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI
FEDELI | Profondo Abisso, imperscrutata [origine
i Degli Enti primi e immenso mar [degli Esseri;
| TUTTII Noi t'adoriamo. 2a reo anti lar
— 36 — FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT
SCA TETI i FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI
INDIZI IE ETA TMTIRET RSI Ma pria dal vergine labro si deve |
un Dio propizio la prima asper- [gine.... con comica
ipocrisia (Pio sacrifizio che il suolo irrora) |
Inclina leggermente il labro della taz- za verso terra în atto di
burlesca devo. | zione e sparge qualche poi ripiglia con Dositèo e
Cerinto: occia di vino, | | | | !
| Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure
beve dietro l’altar. Tracanna tutto il vino d’un fiato.
SIMON MAGO Zitto! GOBRIAS Siam ilari, si. beva! Ribeve,
DOSITÈO e CERINTO Zitto | SIMON MAGO
Zitto ! GOBRIAS S'esilari l’alma! Si beva!
SIMON MAGO S'ode ancor l’inno. cortina.
Gobrias è corso a spiare aitraverso la | SIMON MAGO a
Gobrias Che tenti? GOBRIAS RATORI MOIS
NET ZITTA TEA O Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se
ALCUNI FEDELI Per te preghiam, per te che gemi [e
sanguini Nell’ombra eterna, agitabonda [Prunikos !
ALCUNI FEDELI In te speriam, in te, Divin Paràklito, Disceso
in terra col celeste Pneuma. TUTTI In te speriamo. ALCUNI
FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel [calice
Cruento che in tua man fervendo [imporpora. TUTTI
In te crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI
ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI
APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà
GOBRIAS | Alcuni fedeli, nella cella, appendono ; degli ex-voto
alle ginocchia dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel
piat- to delle offerte che sarà portato in giro dal tempiere. Un
vecchio col capo co- perto da un palliolum che gli ripara anche
le spalle, e sorretto dauno schia- vo, sale sul basamento dell’idolo.
Guarda! Essi appendono votive [tavole. S’ode un tintinno d’argento
e d’oro. SIMON MAGO Favole attendono, vendiam lor
favole. GOBRIAS Presso la statua, sul plinto sacro
Del Nume un vecchio parla. I I |
RIZZI METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA
TI SIMON MAGO IL TEMPIERE Che chiede ? | Date le offerte.
rase nes Miane i SRD GOBRIAS
Parla all'orecchio del simulacro. SIMON MAGO | ALCUNI
FEDELI Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato Nume il bronzo
o l’è- Paura e speme e il Tempio impera. | [bure | Per te
cammina, profetizza e palpita. GOBRIAS e CERINTO
Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO
Nostro è chi teme, nostro è chi spera. | DEI i Tutti al miracolo
che li conquide | Noi t'adoriamo! i. Drizzano i volti, l’animo e il
canto. | Pregate, stolti! Pregate! Intanto L’àugure ride dietro
l’altar. SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI
DEI ELIAA Gobrias beve presso il lettisternio. |
GOBRIAS e DOSITÈO alternatamente No, senza riso non
posson gli àuguri Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi
corre al desco e s’incorona comicamente brillo con una ghirlanda di
fiori gialli. CERINTO a Gobrias Ah! Ah! AN!
Bevi! |! i SIMON MAGO | ALCUNI FEDELI No,
no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo! Pronto a celiar. ! GOBRIAS
Vo’ ber! Mio dritto quest'è ! Vo’ ber! interrompendosi
| CERINTO No, non déi ber! I SACERDOTI Zitto
laggiù! Zitto! Lo scempio cessiam! GOBRIAS
Mio dritto Quest’ è. ALCUNI FEDELI Mo MAGO i
Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos,
Zoè, Noùs, Ecclesia, eccelsa Og- [doade : SIMON
MAGO | I SACERDOTI Zitto! | | Un gruppo di
sacerdoti circonda Go- | TUTTI i brias, tentando strappargli la tazza di
mano; egli colle braccia alteladifende.| Noi t'adoriamo ! Cerinto,
Simon Mago e Dositèo non | È | fanno parte del gruppo che assedia\ Il
salmo nella cella è cessato; ritorna i | i Gobrias.
la calma anche nel sacrario. | AUF IESE CARS MSA IMI DS
LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E PINI
A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA CRI To ce een eee Li
e ee ene ai arri) VIII SALZA È PO
i LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA AIIEIIZZ IA LEDA TIA
EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg SIMON MAGO a Gobrias
Non cantan più. Tu scaccia quelle genti Pria che giunga Nerone.
Gobrias corre allegramente verso la cortina che divide la cella.
A Dosîtèo Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A Cerinto,
indicando il manto e la tiara Riponi quella spoglia.
GOBRIAS sul limitare della cella, rivolto alla folla
Ite, credenti, e nel varcar la soglia Inchinatevi al Genio
dell’Impero. I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di Nerone,
alcuni van- no a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo
davanti la co- lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a
sinistra. Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i
lumi, accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi
della gradinata. SIMON MAGO a Dositèo
Dositèo, | Precedimi nell’antro ond’io riempio D’oracoli la
cella. Sovra l’altare, iridescente stella, Scintilli il prisma.
Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a spiare dalla porta del
fondo. Ai citaredi ed ai sistrati E voi dall’ipogeo
Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti costoro
escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS accorrendo nel
sacrario Giunge Nerone. Simon Mago sale l’altare mentre
Gobrias vuota un simpulum di vino. Gobrias ripone il simpulum nel recipiente
del vino e sale a salti la gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E
TRIED DTA LINZ MIE € RATE, SID RITI SIMON MAGO
Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto e indica a Gobrias
il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba
Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi L’altar nella sua tomba.
Gobrias penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio
segreto su Gobrias, poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum.
Ritorna subito dopo tenendo Asteria per mano. La porta laterale della
cella si spalanca e discopre un'ala sontuosa ove si scorgono Nerone,
Tigellino, Terpnos, e dietro d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di
Guardie Germane. Nerone e Terpnos entrano nella cella, la cui porta
subito si richiude. SIMON MAGO ad Asteria Su
quell’altar tu déi salir. ASTERIA Travolta Son ne’
misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO Nerone qui
t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA Oh, sogno mio supremo! Oh,
so- NERONE [gno mio! accompagnato sulla cetra da Terpnos, i canta:
Un supplicante attende e prega SIMON MAGO Che il sacro vel per lui
si schiuda. Lo ascolta! Ei già t'implora. ASTERIA
Ma sull’altar perchè Tu aderger vuoi queste membra [mortali
? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a
forza Asteria riluttante insino all’al- tare Non
indagar. Sali al tuo sogno! Sali! ASTERIA Pietà !
SIMON MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA
Fi m’ha nomata! SIMON MAGO sottovoce Egli
la Dea ti crede Che sulla notte e sui terrori ha [ regno.
Bada a te! Se ti sfugge solo un [segno Di tua mortalità, se
scosti il piede Da quest’ara e dal raggio che t’indìa, Tutto
crolla. PRAIA II ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO
LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI NERONE | Placata alfin
Ramnusia, in terra, i Indulga; arrida Asteria in ciel. |
Nerone, con un gesto appena accen- i nato, congeda Terpnos che esce tosto
‘dalla porta d’onde è entrato. Nerone ‘rimane ginocchioni ad
aspettare a ca- po chino, toccando amuleti appesi al petto e
applicandoli alla fronte. ASTERIA Mi danni alla
tortura ! SIMON MAGO dopo aver cercato con un gesto
di far tacere Asteria, le chiude colla palma la bocca. Nell’antro
ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia, Ravviva in
lui la speme o la paura E tuo schiavo sarà chi ha schiavo il mondo.
Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata dalle
parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. ! | I
} | î ge frenate rs È DIPANA N
DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI
UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2
Simon Mago schiude un poco la cortina e passa nella cella. Non ri-
mane altra luce che quella del cero e del braciere ardente; anche la
fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO a Nerone, dopo
socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia.
Nerone s’incammina, arriva sino al limite del sacrario e fa per entra-
re, ma Simon Mago lo arresta. SIMON MAGO
affrettatamente Erri. Col destro pie’ Nerone
s’arresta sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora la soglia.
T'inchina. Nerone s’inchina. Passa.
Nerone varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi
abbassa. Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino,
eseguisce tutti i comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo
per mano, davanti allo specchio magîco. La fioca luce del sacrario non
arriva a illuminare Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in
cui rifrange Sua luce astrale l’infinito Abisso. Solo uno sguardo
intensamente fisso Giunge a discerner la spirtal falange. Qui la
vedrai, se tieni gli occhi intenti, In quel baglior di porpora e
d’elettro. Poscia, indicando lo scudo appeso accanto allo specchio
e la mazza di ferro, soggiunge: E se uno spettro appar che
ti spaventi, Batti quel bronzo e sparirà lo spettro.
Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed esce dalla
porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente
scende dalla volta del Tempio e illumina Aste- ria la cui immagine si
riflette nello specchio. A N. Ah! sparisci! Atterrito
impugna il maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo, ma subito
s’arresta. No.... No. Sei del miraglio L’illusion. i Avvicina
lo smeraldo all'occhio. Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par
specchiato sembiante. | S’avvicina, con intensa curiosità, allo specchio
e lo tocca; abbandona i lo smeraldo. Ah! qual pallor sul suo
volto.... e sul mio! Vediam. Si volge e vede Asteria sull’altare.
Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto a quello dello specchio e
si copre gli occhi colle mani. Non m’accecar! Porta la mano
destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare d’alzare gli
sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo gradino.
Tremenda Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri Tu promettesti
pace a un matricida. La stessa grazia imploro; | inginocchiato su
d’un ginocchio solo al par d’Oreste Io non senza cagion la madre
uccisi. Dal suo spettro mi salva ! Ripiomba col volto sulla
gradinata dell’altare.ASTERIA sempre immota, fissandolo, con un accento
languido di sogno Sorgi e spera. N. sollevando
la testa e gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come
viene a errar presso il mio core La voce tua! Al par d’un bronzo echèo
Risponde il core. Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie
dal collo il monile di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria
con eguale lentezza: e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le
serpi avvolte e le lascia cadere nella cista mystica che le sta
d’accanto. PON ET NETTA MOVE IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI
VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I TANARRE DETTATI ATTI AES
INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET
MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT PATRIA NERONE
Tu dal sen disnodi La vivente lorica, io surgo e getto
L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul
tripode dell’altare, alla portato deîla iano d’Asteria. Poi, seguendo con
lo sguardo le movenze d’Asteria. prosegue: Ecco; la Dea si
china. Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella Fra i lividi
smeraldi ! ! Scendi ! Scendi! Sul sognator de’ prodigiosi imeni !
Come sciolta dal ciel cade una stella Scendi vèér me, Selène!
Ecate! Asteria |! Vago Eòne lunar! Magica Iddia Dai mille nomi,
scendi! Ognun di quelli Sarà un nome d’amor ! Ma immota resti,
Dea degli alti silenzi, al par dell’astro D’onde tu migri nell’ore
incantate. No... nel tuo cor... sangue umano non pulsa Ma il freddo
icore de’ Celesti. Guarda ! lo... rapito dal senso, amor spirante,
T'imploro.... S'è gettato sui gradini dell’altare sempre
cogli occhi fissi in Asteria e colle braccia tese verso di lei. Essa
rimane immobile presso all’ara, colla testa arrovesciata; come irrigidita
dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei ! Donna ti
voglio e anelante nei fremiti Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica
La tua Divinità! Già il sacrilegio Portai su Vesta, allor che a
forza avvinsi Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara.....
Asteria si lascia sfuggire un breve grido. Nerone s'è rialzato €
prosegue: Ma delitto più nuovo e assai più forte Consumerò
! Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per afferrare
Asteria. Scoppia un fragore spaventoso come di bronzo terribilmente
percosso e s'ode dalla bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie
dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO Nerone-Oreste !
N. Asteria ! È Nello stesso tempo s'è
spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa; crario ripiomba
nell'oscurità. Nerone ricade come fulminato sulla gradinata. Asteria,
lentament$ scende qualche gradino, s’avvicina a Nerone, chinandosi a poco
a poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata, mezzo seduta; î
due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le tenebre, la livida
luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N.. — i
come sognando | lentamente fra le parole di Asteria i Passa
una bieca ora di febbre... un Cieca la salma nell’orror
ripiomba... | [sogno... 6) ? 19 L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo)
| Sento..nell’aura cieca..in fondo i i SI [all’ebbre a le larve SA
non | Parvenze il lento incubo nero. orbe....m’invade il ciel... |
[Oscilla : Al par delle spiranti anime il cero. i Lungo
l’altar bagliori erranti volano. LA VOCE DELL’ORACOLO Nerone, fuggi ! N. Mugola
un tetro suono entro il sacrario. L’aura s'annugola ed ulula il tuono.
Ma tu il nefario orror distruggi, Asteria ; Fida guardia tu se’.
LA VOCE DELL’ORACOLO Nerone, fuggi ! N. senza sgomento, ad Asteria, con
lentezza estatica L’oracol grida invan su me, non temo. sorridendo
sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando Sotto i tuoi
piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio Blando... lento... che muor col
sogno e bea L’alma... e dissonna il senso...‘ Oh! Amore...
BEI BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI
PARTI IM I RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA
EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I
NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA
Oh! Amor! Si baciano. LA VOCE DELL’ ORACOLO
sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP PR ESSERE
Fuggi, Neron! N. balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente
Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare.
POF DI DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO ENTETANZA ASIA TATA Fuggi,
Neron! N., in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI
ITA Prcietruee N. sottovoce, origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’
ORACOLO Fuggi, Neron! N. scendendo dalla gradinata, rivolto verso
l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra il cero e corre a cacciarlo violentemente,
dalla parte della fiamma, nella bocca dell’Oracolo. DOSITEO
Aìta! i: N. ridendo È colto! Dietro
la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con- fondeva
cogli altri marmi, traspare un grande chiarore. PIMOPI LAICO YIIEV
A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA ERETTA
SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE GRATTTRT
EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL NERONE
Traspar la vampa! Il chiostro insidioso Crolli!
Impugna la mazza di ferro e con un colpo violento spezza la lastra
di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo squarcio della parete si
scorge Dositèo, svenuto sul pavimento dell’antrum, colla barba e
le / i vesti în fiamme. Ah! An! An! È Dositèo che arde!
Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e
con grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a
destra. NERONE corre mella cella, ne spalanca la porta
centrale, chiamando : Pretoriani! Entrano tosto
Tigellino, i Pretoriani, la decuria della Guardia Ger- mana, Terpnos e i
servi colle faci. N. strappando le cortine del sacrario e
gridando, invaso da un gajo furore; Accorrete! Ecco! Mirate!
Squarcia il velo del sacrario. Squarciato è il vel del Tempio! Ah!
AN! si rida! Non vi sfugga Simon, ei là s’asconde. Indica l’antrum.
Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì dallo squarcio del muro.
Terpnos ha deposta una face accanto allo specchio. Nerone resta solo nel
sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano continua allegramente
l’opera di distruzione. Si scaglia per primo contro l’idolo-automa.
N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco! Vediam che n’esce!
Vediam, vediam! E con un colpo di maglio io decapita e lo atterra.
L’idolo cadendo agita le braccia dinoccolate, si rompe e n’escono i
congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena! Intanto
Gobrias è uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e barcollante,
contempla con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato,
la ruina del sacrario, mentre Nerone atterra un’altra statua. GOBRIAS
Eh! son briachi.... (incespica) i Numi! NERONE D’onde
sbuca costui? d ; sa wcmerra sana ce iran» — rst Le o
RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO
IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE RIESI __n fl s / SIIT TTI
ILI IIE O MTERI VITE TL FI rare FIA DERE MA
RE BIDET SR: SAT £ / RICE TIT I RR
ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS
Da quest’altare, Come il sorcio ridicolo del monte. NERONE
Ebbrioso compar, tu assai mi piaci; T'ascrivo al mio Teatro.
Gobrias s’inchina e scende incespicando. GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume!
Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar-
die Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia
legate. NERONE | a Simon Mago, deridendolo O Gran Verbo
di Dio! al Decurione Libero ei sia; Costor dai ceppi han
gloria. a Simon Mago O Paracleto! Già udii narrar di te che
t'ergi a volo Nell’aria. (ride) Ebben, ah! ah! tu volerai Nel Circo
il dì delle Lucarie. SIMON MAGO sciolto dai ceppi
SÌ. | Purchè il sangue Cristian scorra in quel giorno. N. Tutto,
purchè tu voli. al Decurione, indicando Asteria che s’è riavuta:
Decurione ! Questa, degli angui amor, falsarda Erinni, Incubo
dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei serpi! Il Decurione e due
Guardie afferrano Asteria.ASTERIA dibattendosi angosciosamente
Invan mi danni ! E mentre la trascinano fuori dal Tempio ripete con
accento disperato : Non morirò. Ma deh! per grazia, uccidimi!
lo non son che una povera errabonda Sposa di serpi; alla mia razza
il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte. Liberati da me,
perchè, se vivo, Ti seguirò così, sempre, rapita Dal volo del tuo
turbine, travolta Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei, Perchè
t’adoro ! NERONE Vedremo! Al vivario! Asteria è
trascinata dai Pretoriani e dalle Guardie Germane fuori dal Tempio. Il
coro la insegue minaccioso. CORO AI vivario! al
vivario! a morte! a morte! N. piglia la cetra dalle mani di Terpnos, sale
sull’altare ed esclama: Or che 1 Numi son vinti, a me la cetra,
A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona d’alloro
e gliela porge. Ne- rone s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i
Pretoriani si schierano davanti all’altare. lo canto.
S'atteggia come l Apollo Musagete e incomincia a preludiare.
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na i RA: ALI i 44 Ò (4 LAN ( IRSA PIL] GRITTI i i i ig Hut [eLt 1%
f U PARA | y i I i A, » = vec saio cen |
“ L’orto dove s’adunano i Cristiani, nel suburbio di Roma, è
illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto. A sinistra v'è un casolare
con un vasto pergolato sostenuto da quattro colonne. A destra v’è una
fonte rustica sul cui margine di pietra è deposta una ciotola e un’idria.
Poco discosto v’è un sedile di rozzo legno. Dietro alla fonte, e
d’intorno, le zolle fiorite formano una leggera prominenza. Nel fondo s'estende
un uliveto. Sotto la pergola vi sono due tavole; una di queste ha la
forma d’un sigma lunare e porta i resti d’una cena frugale, l’altra è di
quelle che servono ai coronari per intessere ghirlande ed è piena di
fiori e di fronde. Intorno I a questa tavola stanno sedute parecchie
donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato alcuni Cristiani circondano
Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte. Un’aura di soave pace
è diffusa su questa umile gente e sull’ orto. Un’immensa attesa riempie
le anime. FANUÈL în atto di chi continua una narrazione
udir pronte E vedendo le turbe ad Salì sul
monte, Le benedisse E disse: Beati i mansueti, Perchè
saranno della terra i Re. LE DONNE CRISTIANE ripetono
sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL
Beati quei che piangono, perchè Saranno lieti. | LE DONNE
Beati quei che piangono. FANUÈL Beati
quei che vivono in desìo, Perchè li udrà il Signore. GLI
UOMINI Beati | FANUÈL Beati quelli che hanno
puro il cuore, Perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI
Beati ! FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli,
Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi, Perchè per essi
È il Reame de’ Cieli. TUTE Beati! Rubriîa esce dal casolare
con una lampa in mano; è seguita da Perside e da fanciulle che portano in
grembo dei fiori sciolti e lì depongono sulla tavola insieme agli altri.
Tutte le donne si radunano intorno ai fiori. Alcuni uomini vanno accanto
alle donne, altri entrano nel caso- lare, altri si disperdono nell'orto.
Fanuèl, appoggiato ad una colonna della vite, guarda Rubria. Incominciano
a spargersi le prime ombre . della notte. RUBRIA
Vigiliamo. È la sera. Arde la face. D’intorno ad essa ci
aduniamo in pace. Viene il Signore ma nessun sa quando; Beati quei
che troverà vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare
ghirlande ed a can- tare con essi una canzone.
RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE alternatamente — A me
i ligustri, A te l’allor. — Tuffiam le industri Mani nei
fior. A me il ciclame E l’asfodel, — L'’aulente stame E il
tenue stel. — Avrem corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi,
Ghirlande e serti. A me il viburno E l’amaranto. Rigira il canto
Mutando turno. Sua gioja espanda La cantilena Viva e serena
Come ghirlanda. — OR! date a piene Mani le rose |! —
Vigili spose, Lo sposo viene. — Spogliate i clivi, Le valli e
gli orti! Fiori sui vivi ! Fiori sui morti | — Fiori silvani
Gialli e vermigli ! OR! date gigli A piene mani! Casto
segreto D’amor ci leghi. — Canti chi è lieto, Chi è triste
preghi — Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore! CISA Fede !
— Amore! Amore! i — Speranza! i | i i
. | i i ci pritaza erica nr
srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE LIV NE PISA POR
TINI ESTATI NOIA negro — ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI IE AMET
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MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL
ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo Pace. ALCUNI CRISTIANI
sommessamente cTsrEATI e en Risponde il ciel !
(IbEEINDI chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli
alberi dell’uliveto si scorge una figura nera che s’avvicina lentamente.
È Asteria. ALCUNE DONNE Un fantasima ! E fuggono
tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza come persona
esausta e dolorosa. Giunta sul limite dell’uliveto s’appoggia al tronco
d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono lacere, non porta più le
serbi intorno al collo; mor- mora, gemendo, parole interrotte.
ASTERIA Di pace.... una dolente.... a lor favella....
Crudeli.... ed essi fuggono. RUBRIA ode i
fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge pietosamente e la
conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella, Che hai?
tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi! ASTERIA
vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce
Nazzarena! SÌ.... tu se’ quella che il mio duol lenivi Sull’Appia,
orando, un dì, nella quiete Dell’alba....T'ho cercata tanto!....Ho sete. Rubria
fa cenno a Fanubl, il quale s’affretta a riempire la ciotola col- l’acqua
del fonte e gliela porge. A ORTO Co ee vee te en e ee e ea
ASTERIA sorridendo a Rubria ed estraendo un fiore dal seno Quest'è
un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina la tazza alle labbra dell’assetata.
Asteria beve avidamente. Arsa languivi. Mentre Asteria alza le mani per
sorreggere la tazza, si vedono le sue braccia ferite e sanguinanti.
Tu spargi sangue !! ASTERIA dopo un lungo sorso, senza
por mente all’osservazione di Rubria Oh, il fresco umor dei rivi!
sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl; a Rubria:
Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi... Per salvarti.
Per te mi svincolai Dall’amplesso dell’idre. mostrando le
cicatrici Ecco i lor baci. Rubria fa per bendare la ferita
di Asteria. Non m’ajutar. con parola sempre più concitata e
ravvivandosi rapidamente Questi attimi fugaci Serba per te,
te stessa ajuta, fuggi! alzandosi Fuggite tutti! sulla
vostra traccia Vien Simon Mago. RUBRIA'
Spavento |! cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI
MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA
ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN TT DA TTT TL LT e rene
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PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO
TIZIA INIZIATI SEP AIA I Ù s | | ASTERIA i
I I var tenanionIE Distruggi Ogni altra speme
che non sia la fuga. Tremendo egli è ! Bene udii la minaccia: Ei
vuol sangue Cristiano. RUBRIA a Fanubl, atterrita Il
tuo! Asteria si è già allontanata dalla parte dell’uliveto.
RUBRIA ad Asteria T'arresta ! ASTERIA
con subita veemenza e come spinta da un impeto invincibile
Il riacceso mio dimon mi fuga ! Scompare tra gli alberi del
fondo. RUBRIA s’avvicina a Fanuèl che è rimasto
presso al fonte e la guarda, immo- bile; dopo un momento d’ansioso
silenzio : 4 t ; | | |) Î
Fanuèl!.... Fanuèl!... Parla.... ti desta. ” Salvati, per pietà! Tu
indugi ancora? | Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora | E dia
le vele al vento! L’infinita Via del vol s'apre a noi, corri alla vita! |
Vieni! mi suscita un Dio quest’alato FANUÈL
fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo un
silenzio Non parli più? L’alato impeto muore AI solo
rammentarne ? Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore.
SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII REISER LTT. RUBRIA
interrompendolo Ed or te ne rammenti ? FANUÈEL
A tutte l’ore M’è quel tribolo fitto entro la carne !
Confessa. RUBRIA No. Pria fuggiam.... poi
dirò.... Come potresti or tu quest’affannata Anima
interrogar sì che risponda ? Sàtana è là.... Nel tenebrore,
Vuol la tua morte.... FANUÈL Tutto ignoro di te, tutto,
anche il nome. Quando t’accolsi nella fe’ novella Non te lo chiesi,
ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva
Tu ne abbandoni; l’orma fuggitiva Ove ten porti? ove? e perchè
celarla ? Forse allor corri al tuo peccato ? Parla ! Parla!
Consenti alfin (ti pregai tanto) L’alto abbandon del lagrimato errore !
E un’estasi soave in fondo al pianto ! GOBRIAS
con voce artefatta, nasale, dal timbro bieco (dal folto
dell’uliveto) Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del
charisma Cristian ! RUBRIA inorridita Sàtana è qui!
Corre disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda
intorno, spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl.
L'orto è immerso in una densa penombra. S’intravvedono nel fondo
Simon Mago e Gobrias poveramentie vestiti. Simon Mago ha il capo coperto
da una calàutica î cui lembi sciolti gli mascherano tutto il viso.
S'arrestano là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias
(Va guardingo, attento esplora; guidami per mano.
GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e risponde sottovoce :
Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano.
SIMON MAGO Ricomincia il tuo lamento.) GOBRIAS Ah!
Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON MAGO sommessamente e
con grande ansia a sempre sottovoce Fanuèl che non si scuote
(Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento,
cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar ! 1
DI st avvicina [nando meco. GOBRIAS con
Simon Mago al casola- re e gira intorno gli sguardi.
Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse
Cuore il mio grido e non ti vuoi Odo un suon di voci arcane, di
sin- [salvar !) SIMON MAGO {in bruno ammanto.
SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a Gobrias e
sottovoce (Sigi mi raffigura, S'ei mi
s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar
novella Ed agitar, coi nostri, la congiura Dell’incendio. Se
ajuto qui m'è tolto, L’ultima audacia disperata è quella.)
ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR
PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT VE UE
EIUS LAI RI MD RUBRIA | disperatamente, ma
convocesommessa | (Mi guardi e taci? Che pensi? |
FANUÈL I amaramente > | SIMON MAGO Che penso ? | (Va
quando vedi ch’io mi scopro È peccato d’amor ? | [il volto.) RUBRIA
D’amore immenso ! | FANUÈL Questa fu
l’ora della grande ango- | [scia !) | S’avvicina, calmo, a
Simon Mago, Ru- | bria rimane presso la fonte. | FANUÉL
ad alta voce Che vuole il cieco ? SIMON MAGO a
Gobrias (Parla tu.) GOBRIAS | a Fanuèl | La luce I Del
charisma Cristian. FANUÈL terribilmente Così non sia!
Mago Simon, cieco e de’ ciechi Duce! dj È Ù
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SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI
ME TECA IENA RETTA EPOCA LA Ende SERA ILE STATUE AL | . SIMON MAGO
atterrito si scopre il volto e si getta ai piedi di Fanuèl.
Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è allontanato
dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco dopo n’esce con alcuni
Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un Centurione. SIMON
MAGO sempre ai piedi di Fanuèl continua: Furar tentai ciò
che negasti, or prego. La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi
salvar, morte m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende Neron
m’impone, Non si sfugge a Nerone! Dove ch’io mova un Centurion mi
spia. Ma tu, Profeta del novello Eòne, Tu, coi portenti della tua
magìa, Tu sol mi puoi salvar. FANUÈL Così non sia!
Si vedono comparire dall’uliveto due decurie di Guardie Germane col
loro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati da portatori di
fiaccole. SIMON MAGO rialzandosi di colpo e indicando Fanuèl ai
Pretoriani A voi l’uom. I CRISTIANI si slanciano contro Simon
Mago, gridando :. Morte ! SIMON MAGO chiedendo ajuto alle
guardie Olà! I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone !
PERE e De FANUÈL interponendosi, con un gesto pacato,
libera Simon Mago dall’assalto; poi dice ai Cristiani: Non
resistete al malvagio. L’esempio Ne diè il Signore. Il Signor sia con
voi. Nessun chieda ragione Se piace a Dio di far possente un empio
Per infrangerlo poi. Simon Mago s’allontana. Fanuèl ripiglia
dolcemente : Vivete in pace, e in concento soave D'amore, mani
aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave E
l’allegrezza. La giornata è compìta Pel fratel vostro e il suo
carco depone. Voi camminate in novità di vita Ed in pienezza di
Benedizione. oscurandosi Quando torna la sera, Col mesto
incanto delle rimembranze, Unite anche il mio nome alla preghiera,
Unite anche il mio nome alle speranze. trattenendo la commozione
V’amai dal dì che il cuor vostro ho raccolto, Non so quale
m’attenda ora crudel.... Ma so che più non vedrete il mio volto. I
CRISTIANI donne e uomini, gemendo Fanuèl! Fanuè! !
FANUÈL s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or,
fratelli, io tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi.
I CRISTIANI inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl
Amen! RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO TINA E SRI IATA
ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL
entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con
un bacio santo. Bacia alcuni uomini ed alcune donne. Seguitemi
cantando un lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per
darsi in mano alle guardie. RUBRIA mettendosi davanti a,
Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci sulla mia pupilla
La lagrima cocente dell’addio ? FANUÈL Donna, ho le
labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che
Rubria rimane in disparte, lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge:
Qui sola resti? RUBRIA subito, con voce appena sensibile
SÌ. FANUÈL rivolto ai Cristiani che lo accompagnano
Cantate a Dio! Le donne hanno raccolti tutti i fiori e li spargono
davanti i passi di Fanuèl, cantando e allontanandosi fra gli alberi
dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il fervore dell'anima,
spargendo fiori davanti i passi di Fanuèl Oh! date a piene
Mani le rose! interrompendosi con un singulto di dolore
I CRISTIANI Vigili spose! ANSA DITTA IRE FUSTI
ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6
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EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE IE E RETE I RT MENA
TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE Spogliate i clivi,
Le valli e gli orti! Fiori sui vivi! I CRISTIANI
allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A
piene mani! Casto segreto D’amor ci leghi. Canti chi è lieto,
Chi è triste preghi. Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore
! Fede! Amore !... LA CANZONE LONTANA Rubria è
rimasta sola nell'orto. Il can- to s’affievolisce allontanandosi.
RUBRIA dopo aver seguito collo sguardo il i cammino dì Fanuèl
Sì, per salvarti. Ma il mio sogno [è infranto. S’accosta al
margine del fonte e bacia il posto della pietra toccato da lui. Si
| rialza. Tende l’orecchio verso la can- zone cristiana che si
sperde sempre più nella lontananza. Un sogno santo!
un dolce sogno fu! Laggiù, lontan, nella canzon che [muore,
L’odo ancor. RUBRIA L’odo ancor e canta: [amore ! Amore. sforzandosi
d’afferrare gli ultimisuoni L’odo ancor.| dopo un lungo silenzio,
angosciosa- mente Non l’odo più !!! E cade
ginocchioni. Ma RIM AA 7 NI
VAIO QAVTI MALLINMA VO:
IT 4 RICA OS NT e tane carl ieri ian
] a MITA LIETI } Ì i 18 tino.
19 a 0; dI iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È
STATO LANE SAI LZ ATI Si vede l'interno dell’Offidum fra i
suoi grand’archi centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e
quello della f0r/a dompae, a sinistra, che s’apre verso il Foro Boario.
In questo grande atrio ha sua foce un criptoportico che si prolunga nel
fondo se- guendo la lieve curva della fronte del circo; è chiuso, alla
diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la sua parete a mano
manca è popolata di botteghe e di taverne. Nella stessa parete,
leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala interna che
ascende alle precinzioni più alte. Presso all’arco che sbocca nel Circo
si vede internarsi nel muro, di prospetto, il primo ramo d’una scala che
sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae, accoglie la
famosa scultura Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in atto
d’avvincere Dirce alle corna d’un . toro inferocito. La viva luce
diurna entra dall’arco esterno nell’Oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso
l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La
maggior calca ferve intorno ad una quadriga; quivi le fazioni del Circo
si affrontano levando grida di trionfo e d’ira, i agitando toghe e
cappelli e pezzuole verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli stili,
altri minacciano colle pugna gli avversarii. L’ Auriga, che ritorna vittorioso
dalla gara, porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro
la schiena e i cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna
un coltello per difendersi | de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O
MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni FELICIA vano cavia nta PO TAZTI
ARE TATE dagli assalitori. I VERDI
Gloria! Vittoria! GLI AZZURRI Morte! Morte! Infamia!
I VERDI . Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GLI
AZZURRI Furasti con perfida frode, Furasti con perfida gara
La palma cruenta! I VERDI Vittoria! Vittoria! La
folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon
Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias che viene
dall’arena. GOBRIAS a Simon Mago, scherzosamente,
coll’inflessione particolare di chi parla ridendo I Verdi
han vinto, è salva Roma. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias
Ebben?? GOBRIAS sottovoce, dopo essersi
appressato a Simon Mago, e rapidamente Siam pronti. La fune incendiaria
Scoppierà verso il Celio. SIMON MAGO sottovoce
E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria,
SIMON MAGO con accento di grandz sorpresa Asteria ?
GOBRIAS Sì. Viva la trassi Dal baratro de’
serpi ed or ti giova. SIMON MAGO . M’odia, mi tradirà.
TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt ri I i nevi ia
ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO
PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE IIN ; ; i
$ i GOBRIAS con accento di chi rassicura
Ama i Cristiani, Vorrà salvarli e te salva con essi. SIMON
MAGO dopo un momento di riflessione Sai l’ordine de’ giuochi?
GOBRIAS indicando l’editto affisso ai pilastri della
porta pompae ed avviandosi a leggerlo È là, si legge. Dal
fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per combattere
e disposti în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti da
quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista e da un
servo, entrano nel Circo. GOBRIAS «1 gladiatori di
Preneste » - Passano. «Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i
veitri e colla morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO interrompendo
A mesi deve. GOBRIAS continuando la lettura Laurèolo
in croce sbranato dagli orsi. » SIMON MAGO È Fanuèl.
Continua. GOBRIAS ferminando la lettura « Il volo
d’Icaro. » con un gesto d’addio canzonatorio a Simon Mago Buon ti
sia! Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico.
Dal Circo giungono grida di « Euoè! Euoè! Euge! Euge! Macte!
Macte!» mentre un’ondata di folla entra correndo dall’esterno nel-
l’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso una lettiga pomposissima
portata da quattro lettigarii. Una puella Gaditana esce dalla taverna
con alcuni suoi corteggiatori e si mette a danzare in mezzo al croc-
chio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e lieve, al suono
di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un giovanetto, colla
doppia tibia alle labbra, l’accompagna. Nerone e Tigellino
scendono la scala del podio e s’arrestano presso all’arco del Circo. N.
Che vuoi dir? TIGELLINO sommessamente
Una congiura... N. Contro me?
TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti Di Simon Mago, per
sottrarlo a morte, Pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa
Slanciarsi a volo, incendieranno l’Urbe... La puella Gaditana
col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si eclissano
nella curva del criptoportico. LS % N. attento ai clamori del Circo ed
interrompendo Tigellino Taci. Le grida del Circo
giungono nell’Oppidum da varie altezze e distanze, seguite da risate e da
urli, frammiste a squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO
Non vuol morir! Pollice verso! — 72 — Ot,
So E ibiza ea resin det ——mmm&m& VNDERITE
ATTI TERZA RIAITZI SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN ALTRE VOCI
Basta! Vogliam le Dirci! MOLTE GRIDA Uccidi! A morte!
Segue un momento di tregua; Tigellino se ne vale per ripigliare il
racconto. TIGELLINO Seguo lor traccia. N. imperiosamente,
interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il tumulto del
Circo; s’odono a diverse distanze le griì- da: « Age jam! - Evax! - Ahè!
- Ahè! - Euge! - Eho! - Eho! -Vogliam le Dirci! ». TIGELLINO
I Pretoriani Chiedono un cenno mio per afferrarli.
NERONE ascoltando le grida del Circo ACK
VOCI DEL CIRCO No! no! no! Basta!
TIGELLINO risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida
lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di
« Basta! Le Dirci! La Tragedia! Basta! » N. în uno
scoppio di collera Taci! Non odi la plebe che rugge? Voglion
le Dirci! S’aggira concitato verso il criptoportico. Sono entrati dalla
taverna Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro esclama:
Olà! Presto! Alitùro! S'affretti la tragedia, Alitùro esce
correndo. A Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E =
REIT FE DIET TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST
AT ONTO ET CR ITA AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna
Dal fondo del criptoportico accorrono moltissimi pantomimi colle
maschere sul viso, portando grosse funi. Ad alcune guardie che
sopraggiungono: E voi scacciate Quei gladiatori. Allo
spoliario i morti! Date le Dirci al popolo! Affaccendato
come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a Terpnos con
grande concitazione: Son pronti i tori? e le funi? e le rocce Del
Citerone? e i veltri? e i sagittarii? chiamando com forte voce
I personaggi d’Anfione e Zeto! I due personaggi si
presentano: Zeto porta una clava e delle funi, Anfione una cetra.
Ecco l’effige del supplizio. Guarda! Tebe una Dirce ed io ne uccido
cento. Cento aspetti ha la scena! In scena! ISTRIONI
In scena! Tutti s'ingolfano nel criptoportico e scompajono.
N. conduce da parte Tigellino e gli dice sommessamente, con calma
ironica: Astuto Agrigentino, e non t’avvedi Ch’'io già tutto
sapea? Guai se all’incendio Che m’offre il ciel t'opponi. Ciò ch’io
struggo Risorge. Il mondo è mio! Pria di Nerone Nessun sapea
quant’'osar può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina
lentamente un corteo strano ed atro- ce. Le donne Cristiane, precedute da
Fanuèl, vestite come la Dirce del marmo Rodiano, inghirlandate di
verbene, colle mani legate e fra le mani un tirso od altri emblemi
bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii che le percuotono a
colpi di flagelli se quelle s’arresta- no. Seguono alcuni Sagittarii in
completo assetto di caccia con archi, faretre e saette. Una frotta di
pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo.
Simon Mago ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo in-
sultano mentre egli passa. Frattanto la più sordida plebe
del Circo s'è riversata nell’Oppidum. Nerone, presso la. porta
pompae, attende cupidamente il passaggio delle vittime. i 2) TIRI
ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI BILIA RSI NA IRINA
PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE LEE:
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TAG TOTI I SIIT AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E
DE Li LA PLEBE Morte! Morte! SIMON MAGO
mostrando Fanuèl alla Plebe Ecco il capo delia torma!
Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso
l’arena. SIMONIACI Latra i tuoi salmi! Abbaja! Abbaja!
LA PLEBE $ | i ! TOGATI
Raca! SIMON MAGO Raca! Il suo vino è
sangue. LA PLEBE Abbaja! A morte! FANUÈL
con voce alta e serena Credo in un Dio solo ed eterno.
I cristiani e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl.
SIMONIACI E- PLEBE Abbaja! Abbaja! Latra! Latra! Sulla scala del
podio è comparsa una Vestale. Ha il capo coperto dal- l’infula e il viso
nascosto da un velo; ogni suo vestimento è bianco. Un littore co’
fasci abbassati la precede, un Flàmine la segue. Giunta all’ultimo
gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano verso Fanuèl.
La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una
Vestale! ALCUNE VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi! Sien
salvi! SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—IhÈ*È*ÉÈI*O*èZIè@-@èEQIà Nei
ste Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI PIREO REMI
II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA
SORIA TTD MADAME DE I LI PETER AT SIETE PAD IOE SIT
IO APZIOT NTTSIT IA DAR TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE
CE e terribile e nelle prime parole un po’ ansimante per ira
Chi là dov’'io mi son osò parlar di clemenza? LA VESTALE
sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile Stende Vesta con me
la man che riscatta le vite. N. lentamente, studiando ogni
parola, mentre guarda a Vestale velata collo smeraldo Ave, 0
Vergine sacra, scopri il volto, poi giura (Legge è di Numa) che in questi
rei non qui ad arte [t'imbatti. LA VESTALE con voce di
persona atterrita Una Vestale a giurar non s’astringe. N. comuno
scoppio di collera Per Giove! Chi le strappa quel vel?
SIMON MAGO Io. Il littore tenta
d’interporsi co’ fasci,ma Simon Mago s’è già slanciato sulla Vestale e le
strappa il velo. ALCUNI Sacrilegio ! FANUÈL la
riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed esclama: Sorella!
RUBRIA Fanuè!! Sviene fra le braccia di Fanuèl.
SIMON MAGO È una cristiana. Re I ATI
OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE È una cristiana, N.
ravvisandola, la nomina Rubria! irridendo Ben tu
svieni. SIMON MAGO Morte! LA PLEBE A
Porta Collina! Muoja! N. freneticamente Muoja
Nel branco delle Dirci! LA PLEBE Sì. NERONE
con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima
sospensio- ne riprende solenne e tranquillo Dal capo
L’infula sacra il Flàmine le svelga! Il Flàmine strappa dal
capo di Rubria l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani.
FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano
su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato daî
sagittarii. La plebe s’accalca intorno, mentre due bdbe- stiarii
sollevano Rubria sulle teste della folla ruggente e la traspor- tano
nell’arena dove è spinto anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani
che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI e CRISTIANE
Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI
PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN I VIIITUE RI
TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER |
| LA PLEBE | | A morte! | Abbaja! abbaja! Raca! Raca! Morte!
N. con esaltazione Mano alle funi, alle belve,
alle donne! Tutte un Eroe denudator le abbranchi, | Le avvinca nude
in groppa al furiale | Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate Dai
veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al
sol, nel raggio Del concavo smeraldo agonizzanti. Nerone si
avvia al podio. Tutti i pantomimi sono entrati nel Circo. Scorgendo Simon
Mago o E tu non voli? Ah! AN! La plebe sghignazza.
| N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla torre
dell’Oppido sia tosto Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi all’etere,
Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname
che sta a sinistra del criptoportico. GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE
I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La
guardia Germana, afferrato Simon Mago, lo trascina rapidamente ! I
Se sai volar! Icaro, vola! i SIMON MAGO si
difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama in soccorso:
Gobrias! GOBRIAS | Va! non temer! prolunga la difesa. mo
Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. | DELIO
NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI
TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO
implorando ajuto da Tigellino Mi salva!
TIGELLINO rigidamente, ai Pretoriani Sguainate l’armi!
SIMON MAGO alcolmo dello spavento Tregua! La guardia
Germanica colle armi in pugno caccia Simon Mago, pun- gendolo e
minacciandolo, sui gradini della torre dell’Oppidum. N. Icaro, vola! Vola!
Vola al sol! Nerone ridendo sempre più eccitato, entra nel Circo. Nel
Circo non cessano i clamori: si odono le grida feroci « A morte le Dirci!
Vogliamo la Tragedia! Non vuol morir! Pollice verso! ». Ad un
tratto s’odono degli urli di spavento che vengono dal fondo del
criptoportico e dalle parti più alte dell’edificio dove s’incomincia a
scorgere qualche cirro di fumo. Le grida di terrore aumentano e
s’avvicinano. Il fumo penetra nel- l’Oppidum e s’ode Gobrias che grida:
L’incendio è nelle fornici! Altre voci gridano: « Soccorso! Il circo divampa! -
Salvate le donne! Fuggi! fuggi! - Di qua! - No! Fermi! Ajuto! Attraverso
le nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade.
- Una fiumana di popolo irruente invade il cripto- portico, spinta verso
lo sbocco della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di
fumo. PA LED AZ SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL
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UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del Circo dove
si depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada
a poco a poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una porta e la
rampa d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad
intervalli uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino.
Asteria, con una fiaccola in mano, discende la scala; giunta alla soglia del
sotter- raneo s’arresta per illuminare chi la segue, ASTERIA
Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme.
Cerchiam fra i morti. FANUÈL Orror di tomba Emana lo
spoliario. S'ode ancor da quest’antro funerario La gran vampa che
romba. ASTERIA Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi lentamente
guardando a terra lungo la parete centrale. Al lume della torcia che
tiene in mano s’intravvede, là dove passa, la struttura irregolare del
sotterraneo. Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la
parete di destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII
PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe FANUÈL
Cadde la prima, ASTERIA vivamente Allor
qui giace. Tardi per lei scoppiò da questa face Il folgore incendiario!
Fanuèl s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al
tatto le fasce crurali d’un auriga. Va oltre. Ecco là dei cadaveri.
Indica un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete
sini- stra. Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL
Un reziario, due sanniti, un trace. ASTERIA atterrita
Simon Mago! FANUÈL Ove? ASTERIA
indicando con ribrezzo, senza accostarsi, iv cadavere di Simon
Mago gittato un po’ più lontano, in un’insenatura del muro 5
Là. FANUÈL dopo averlo guardato fissamente Da
Dio fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del
sotterraneo. Il suolo è ingombro d'armi gladiatorie.
ASTERIA Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un letto
funebre, giacente come una morta, una donna în veste bianca.
FANUÈL chiamando con voce agitata :. Accorri. i BZ —
—IiMRANZIAR TINA TIE I A d ASTERIA accorre colia
face. È lei? FANUÈL cade în ginocchio, posando
la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia!
Gieltz, Respira!..... Vivrà! Asteria appoggia la face ad una
pietra vicina, poi corre dal lato sini- stro del corpo di Rubria per
ajutarila. Squarciale i panni..... Salvala ! Asteria, mentre
Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta.
Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta Sanguinar nuda nel nembo
infernale! Salvala! Cerca.... cerca sotto il core.... Là.... sotto
il core la ferì lo strale D'un sagittario. aspettando ansiosamente
Ebben? ASTERIA guardando la ferita di Rubria
attraverso lo squarcio delle vesti Spavento!! Muore.
FANUÈL Muore!.... Non muoja qui.... non nell’orrore Di
quest’antro. Fa per sollevarla e portarla altrove. ASTERIA
opponendosi con impeto La getti nella strage! Divampa
il Celio, arde il Velabro, è l’odio D’un Dio su Roma. Il Circo è un mar
di brage. Se la tocchi l’uccidi! Scoppia un fragore
terribile sulla volta del sotterraneo. Crolla il podio!
Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio sulla scala d’onde scese
e la risale correndo e scompare mentre Rubria apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah!
FANUÈL tutto chino ‘presso di lei Non temer, son con te.
RUBRIA trasognata Fanuèl. Dove son?.... dove
fui?.... Tu.... salvo!.... Io.... viva! L’anima mia fuggiva......
M’offusca un vel..... Colta da una reminiscenza d’orrore,
getta un grido, si sforza di solle- vare il capo. FANUÈL ‘ con
grande dolcezza No. Una mano pia Ti ricoperse con la bianca
stola. Riposa. Oblia. RUBRIA Chinar....
dovrei.... le mie ginocchia.... a terra D’innanzi a te.....
Tenta di sollevarsi, ricade. Son ferita..... non posso.
FANUÈL Rubria! RUBRIA Pietà! l’orror mi riafferra!
Il Mostro..... il turbin rosso. Viscere e carni!! Ascondimi! M’ajuta!
FANUÈL inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha
perduta! (o [4 sd RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I
RIINA TOR ILE TI i i Ì !
| i | | Ki | Ì i |
| 4 i i | RUBRIA
D’amor? lo t'amo tanto. dopo una breve pausa Fanuèl....
morirò? FANUÈL seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote
dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte
PISTE STE SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI sc
Vivrai. RUBRIA dolcemente SISI Oh!
com'è buona e calda la carezza Della tua man.... Bacia la mano di
Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL
Più accanto a me.... più accanto. Così..... COSÌ. Tu
m’insegnasti questa gran dolcezza Di sorrider nel pianto. M’odi....
la morte A ogni attimo mi strugge.... Non pianger, Fanuèl,
stringimi forte, Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O
ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed un silenzio di raccoglimento,
soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere Venìa' coll’ idria del
mio tempio... al fonte Dell’orto santo e dopo le preghiere Tornavo
all’atrio antico, a piè del monte. Tentai confonder nella stessa vampa
L’ara ardente di Vesta e la pia lampa Della vergine saggia. Ecco il
peccata. Or tutto è confessato, Attendo il tuo perdono.
Tutta or mi sai, sorridimi.... Monda e beata or sono. ERMETICA
A FANUÈL alzandosi e ponendole le mani sulla fronte e
baciandola, con soavis- simo fervore , .. Benedizion d’
immenso amore accensa Sul capo tuo col mio bacio si posa. i
iituitiolititiiceste netti rie ss n ur si n PRETI LTL DATI IE VIII
RUBRIA sottovoce Fanuèl! Fanuèl! Estasi
immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa sul petto di
Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, L’egra mia sposa che sul cor
mi giace. RUBRIA Dimmi.... ove siamo? FANUÈL
In un asil di pace. Dormi quieta. RUBRIA
con voce sempre più fievole Sento Che ascende l’ombra
d’un vespero strano. Dammi... Fa degli sforzi per continuare
a parlare; non può. FANUÈL Che vuoi? RUBRIA
con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la mano.
Narrami ancora, mentre m’addormento, Del mar di Tiberiade, tranquilla
Onda che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola Laggiù,Fra
i giunchi di Genèsareth, oscilla Ancor la barca ove pregò Gesù.
Raccoglie Rubria sul suo petto. Quella cadenza languida di cuna
Invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi tranquilla, dormi. Meo: AIUTO
SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce
Ancòra.... ancòra.. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna,
Era quell’ora in cui sorgon gl’ incanti. RUBRIA come un soffio,
spegnendosi Ancòra.... ancòra. FANUÈL colle mani giunte e gli occhi
rivolti al cielo Escian le turbe oranti Per la lunare
aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria. Asteria
ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl conti- nua a
ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge! Ogni
scampo Di là n'è tolto. Divampan le torri, Crollano gli archi. Vede
un uscio sprangato nella parete sinistra. Un lampo Di
speranza! ‘ Si slancia affannosa attraverso gli ingombri del suolo verso la
porta d’uscita, leva la spranga, apre. Sei salvo! Ecco una porta.
Esce un istante per esplorare; rientra. Libero è il passo. sulla
soglia d’onde è entrata Accorri! Accorri! FANUÈL sul cadavere di
Rubria Morta! Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino
all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI
EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE FANUÈL
dalla soglia, con un ultimo sguardoRubria! - Addio! Scompare dalla
porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla
morta. ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu?
Quella che il mio truce Iddio Ghermì sull’ara? - Tu? Rispondi! Tace. Lo
spoliarium incomincia ad essere invaso dal fumo. Dimmi Pardor del suo bacio
vorace Verso cui tende spasimando il mio! Poi, d’un tratto,
con immensa pietà Martire santa | S'inginocchia, estrae dol
seno il fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo :
Pace! Pace! Pace! Si sprofonda una parte della volta.
Asteria si salva fuggendo da dove è uscito Fanubl. DEAR er a
i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I
HU LA n PRI ARENA QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id vi
NABLAPOTNO DO MUPh il [18] ti : UA NI N
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PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Nerone.
Grice e Nesi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono dalle celeste sphere Venere:
perche amore inspiro: dagl’elementi fuoco: perché d’amore accendo
da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché col mio ardore della GRAZIA
della salute viso degni -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I once had a
fight with Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a
moralist; I told him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio
di Francesco di Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente
agli studi filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti
fiorentini dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato
dall'operato di Savonarola, ricopre anche diverse cariche politiche. Altri
saggi: “Adulescentuli oratiuncula”; “Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione
de Eucharestia” “ Orazione sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De
charitate”; “Oraculum de novo saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Obviously, Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in
identifying GRAZIA with CHARITA, ‘greco vocabull” – this is an etymological
blunder. The charities were indeed three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they
danced mainly to eroticse Mars, or more frequently Giove and Mars together --.
Of course the expression ‘gratia’ is not cognate! – For Davidson, charity is
what the Italians refer to ‘carità’, formed out of ‘carus’ – the spelling with
‘ch’ is a French corruption! So to be charitable, in Davidson’s interpretation,
is to be kind, caro. Not graceful! --. Grice: “If Davidson doesn’t know his
Greek mythology, that’s not my fault --. Instead of his singular principle of
charities, I will take the liberty to sub-divide it into three maxims – The
first maxim refers to the first charity, Aglae: splendour; thes second maxim
refers to the second charity, Eufrosina, mirth; the third maxim refers to the
third charity, Talia, cheer. In Kantian format, these counsels of prudence
become: be splendorous – or try to make your conversational move one that is
splendorous; be merry – or try to make your conversational move one that will
carry mirth to your co-conversationalist; and ‘be cheerful’, try to make your
conversational move one as if it was spawned by Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi.
Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle of charity, Davidson on charity
on Grice. Who was the first Englishman to use ‘charity’ as a hermeneutic
principle? Butler. Grice speaks of self-love and benevolence. Benevolence – and
charity? Grice is not so much concerned with Beneficenza or Malificenza, but
with Benevolenza, and Malevolenza – where does charity fit? What was Ciceronian
for charity. What is pre-Christian about charity? Charisma, charitas, folk etymological confusion here
– caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico conubio” “tre carità”.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nicolao: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with
Cleopatra. He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.
Grice e Nifo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale ludicra – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Filosofo italiano.
Grice: “I like Nifo; first, because he wrote a treatise he called
‘ludicrous rhetoric;’ second, because he tried to refute Pomponazzi against the
mortality of the soul – surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia
Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una
fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo
di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato
con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa,
Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria
visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione
delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova
posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi
di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo
materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa
dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte
dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X
si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri,
ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso,
Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue
dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene
protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia”
(la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il
Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e
conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli
eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca,
della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate
animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro,
infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi
peritia.” Furono poi più volte
ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su
Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et
corruptione liber N. philosopho Suessano interprete & expositore”; “Expositiones
in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros
de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione
animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano
Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros
Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium
metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros
metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica
ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros
Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca
del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et
corruptione interpretationes et commentaria.
G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi
Atellani, Sant'Arpino, C. De Lellis,
Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco,
I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano,
Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G.
Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno,
Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis,
Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis, Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di
Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s
rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct
perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo –
echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case,
it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like
solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation.
The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some
virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He
relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS,
HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to
find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or
that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo
is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious
influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his
soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica”
is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to
attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course
there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if
not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a
principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual
problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is
not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for.
It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians
were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic
assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for
the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this! PORTET
primum colituere quid Abri materia: nomen Co quid uerbum: deinde
quid eji negatio, quidue effirmatio: atque enuntiatio or oratio.
MISSIS ventofis exor- dijs: breuibus Ariftoteles quid
pertractare vult pro- ponit.Nam rei intentio:& fubictum apud gracos
ide funt:differunta; ratione. Vt enim fubiectumhabet rationem finis, intentio nuncupatur, ve
vero habet rationem materia : in qua propria infunt accidentia, fu-bieêtum, fue
materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum,
fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes conftitutiva, que integrales
di- cuntur, fünt nomen & verbum. Prima vero &e prima-riz pecies
funt affirmatio de negatio • genus autem enuntiationis eft oratio.Hanc igitur
intentionem pro-ponit, & inquit{ Primum oportet conflituere}hoc eft
definire{quid nome & quid verbum,ve integrales par tes enuntiationis,
verbum illudf oportet} non dicitne-cefsitatem fimpliciter, fed conditione. nam
fi de enun- tiatione pertractaturus eft, opus eft ve primo de
nomi-ne,deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio,
quidue affirmatio? tanquam pri- maria enuntationis fpecies atque, tertio
quid/enun- tiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio,
fubie tum, ac materia: oratio vero vt genus fubicâi. Multa graci, vt
Ammonius, Philoponus: & latini, vt Boetius, & Thomas contendunt.
circa feriem verbo-rom: qua, quia ventofa funt, ad commodumé; non multum
accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie- iedle. ctum,materiam ac
intentionem libri ait efle interpre- tationem. Nam infcriptio libri ab
cius intentioneficri obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo
Priorum. Obij- ire Dertrum. ciunt côtra quidem viri clarifimi, qui
fubtiles perhi- bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro voce
arti-culata cum intentione quicquam fignificandi prolata, vel pro voce
articulata prolata ad figniticádum elle vel non effe, primum quidem non. nam
tunc effet nimis commune, effet enim compofitis & fimplicibus com-mune
quoddam. Hoc autem falfum eft, quia hber hic eit de medijs. Necfecundum, quia liberhic non eit
de Secunda põ. voce, fed de intentione voces. Propter ha
enuntia- Confutatie. tionem in mente fubie@tum efle fingunt. Hacpueri.
lia funt, nec digna noftra dilputatione. Verum fipfi chuntiationem mentalem
fubiectum efle fatentur, ad quem de vocali, vel feripta inquirere attinebit?
Pro- enie quid. pter hac quod grace ermenia appellatur, latine fiue
enuntiatio, fiue interpretatio dicatur, ide eft. Et de hac eft liber prafens,
de mentali quidem ve quod, de vocali vel fcripta, vt fignum, de re vero vt
caula. Nam veritas in voce eft ve lignum, in mente vt fubicêtum, in re vt in
caufi, vt dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua
quia facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia
fimbrias dilatant, circa vero ardua & occulta voces fummittunt. Tu
vero a nobis contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri
poteft. Sunt quidomigitur ea que in uoce, carum, que in anima
pa/sionum,note. Et que feribuntur, corum que in noce. Et рета луна
quemadmodum nec littere omnibus cadem, fie nee noces cedem. diete
foriptura med nico Denomine, dedi verbo, chuntiatione, ac
oratione. pertractare propofuit, ante tamen quam de his prole- Cản
de veche quatur, quadam communia de vocibus, fcripturis, ac TI
ferime anima pafsionibus intercipit, fed de caufa intercepti
babetsr. ambigunt expofitores. Herminius necesitatem illus ny-
Canfa Hervnd modi intercepti fuifleautumat, vt propofita rei com-
modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft.na vtili-tatis commodiue narratio
prohemij pais eft, vt Ari. in Rhetoricis tradit. fumus autem nuncipfo in
tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius interpofitz rei Confa
Perply caulam propter veterum difienfus circa vocum figni-
ry• ficationes,inquit. nam veterum quida voces, formas, fue ideas
fignificare credidere, alij conceptiones, alij fenfus fenfation
esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur Ariftoteles de nomine deá,
verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa impedimenta
eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit. Sed nec hoc
itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio. partem ad quamlibet
definita, que difturus eft de no mine & verbo, non impedit. Secundo hac res
eit gra- uis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina prafen-tis
voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat. Melius igitur cum
Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve
genus Expofitie cane definiendarum rerum colligat. Tum differentiam có-, Fa)ecunda ve
fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum ignificent. Tum
differentiam difcretiuam, vidclicet, vt nomen fine vero & fallo,
enuntiatio, & ora tio cum vero vel falfo.Hac enim Arift. animaduertens
quedam communia de vocibus,fcripturis,ac pasioni- bus preaccipit.
Affumitigitur quatuor ad pralentem Que Arite. pertractationem
conferentia,res videlicet, conceptio- nes, voces, atque litteras. Oportet
autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem propterfi-nem.fiquidem
neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo petimus horum quatuor,
duo effena- tura lefe habentia, vt res conceptionesá; duo vero po-
Prima Petitio. fitione, vt voces & littera. Veigitur fcias qua horum
Secunde. natura fe habeant, quaue politione, ponit praceptum
Preceptum, ciufinodi, e qua aque omnes cadem funt, hac natura fe habent,
qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefehabent. Huius precepti prima
pars co patet, @ natura in cunétis niformis eft & fimilis.Pofitio
ve-ro cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist, natura
fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione habentur.
Arguitigi- Syllogi frang lit tur, quecung; funtalorum figna
velnote, politionefe habent: voces, & fcripta funt nota vel figna
aliorum. nam voces funt notz conceptionum, cum.igitur voces & fcripta
funt politione.praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce
cuiufmodi funt nomina & verba-fearum quin anima palsionum notz, &
que feribuntur] Sút notz fiue figna: {corú que in voce} Hec vt minor
quali concludit, & inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid
graci fen tiất, vim habet lape illativam apud Ariftotelem. quafi dicat. {Igitur
quemadmodum nec littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in
verbis gra cis non eft, fed ex vi conftructionis fubaudiendum. Se-cuda igitur
pracepti pars perficua, videlicet, ep ea que in voce, & que icribuntur,
politione fe habent. Aliter intelligi poteft, vt dicemus. Queritur verbum
illud, Dulintio:2• figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait
dixiffe igur, quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine
deé; v erbo pertractandum, no-mina & verba voces funt. igitur de vocibus
pertraêtan dum.Greci omnes verbum illud eflenotim executio-nis, de non
illationis, affirmant, quod mihi conuenien- Secanda dula tius eft.
Quarit fecundo Ammonius cur primo è vo-cibus, quamè rebus fermocinari capit.
Dicendum de eis primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus, Tertia
dubs quicquid Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem
igitur ca que in voce}& non, {funt quide igitur voces.;-Itéd cur no dixit
litter vti, REsPanpb fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg
nomen & verbum funt partes orationis. prolatz eft enim oratio
prolata totum quoddam integrale ex nomine &verbo conftitutum.nomen
vero & verbum fcripta partes ora tionis fcripta, & qí partes funt in
toto magis quam contra, totum in partibus, nam cótinet totum partes,
& no econtra. Idcircoinquitffunt quide igitur ea, qua funt in voce}
hoc eft nomé & verbum, que funt in yo ce, hoc elt oratione prolata vt
partes fearum que funt in anima paísionú note, &e ea que feribuntur f
videli... cet nomen & verbum infcripta oratione {corum quie
Confitatio. funtin voce.} Sed hacexpolitio ridenda eft. Tum pri mo, quia
cum ditficultate intelligitur partes eilein to-to, elle in enim non competit
partibus nill improprie quarto Phylica aulcultationis, clt autem loquendum
veplures. fecundo Topicorum. Tum quia in tam exi-guo fermone aquiuocaret de
eflein. Nam dum dicit ¿corú qua funtin anima} fumit effein. vna ratione,
dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui volunt effe in
capi vt inferius continetur in กล้อนี เพี fuo fuperiori. Nam primo in verbo effe
in, acciperetur proprie lecundo vero improprie. Quare melius effe in, in vtrog; codem modo accipiendum eft.
Nam nomen & verbumfuntin voce vt in fubielto, vti resar-tificialis in re
naturali. erit igitur lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen &
verbum, qua in vo cebarent, vt in materia & fubiecto, note carú palsio-num,
que in anima funt, etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune
Ariftotelem non aquiuocaffe verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur
Arift. Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio
aurem affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam
Ariftoteles intelligit. Dicendumgtria.videlicet fimilitudo,conceptio,&
palsio idem Salstio funt, alia tamen ratione conceptio enim & intelletio vt
intelligédi principium, eft ratio: ve veroà reipla de-rivatur, fimilitudo fiue
fpecies, vt intellectum ipfum perficit, pafsio.vnde & intelligere &
fentirein quodam pati faltem perfectiue confiftit, ve dicit in his qua
de-anima. vnde qui verbum gracum naBorar in lati-num conüertunt affectuum, nee
grieciliant, nec gra-cam conftructionem (entiunt. Quinto quarunt, mul
2uinte duMk taefiein voce,qua non funt palsionum note, vgraui tas,
acuitas, & accentus, & id genus. Dicendum propo-fitionem Ariftotelis
indefinite effe legendam, non au-tem vniuerlaliter. Sextopetijt. vtrum yt ea,
quein vo Sexta duba. ce note funt corum que in anima, ita ca que
feribun-tur, corum qua in voce. Refpondet Alexander go lic,
wleeRGie & tunclittera eft legéda fie{ funt quidem igitur ca qua in
vece, earum que in ánima pafsionum note, quem- admodum qua
icibuntur,corum qua in voce. Nam verbum illud sa grecum, quod latine
frequentilsi-mein & conuertitur. Interdum Alexander vult apud gracos accipi
pro nota fimilitudinis, ve proficut, vel quemadmodum, &id genus. Hec
Alexan. diceret. Huic obijcit Porphyrius. Primo, quia ad fimplicem
obiedia Pore fenfum nihil addi oportet.Secundo, quia in tam breui flore.
ordine, tamque breui oratione non eft partitio inter-cidenda. Tertio, fita
lehabent que fcribuntur ad vo-ces, ve voces ad ea, que in anima, tune ve voces
varijs litteris permutantur, fie palsiones varijs vocibus cua-riabuntur. Mibi
videtur cum Alexandro & Alpaxio, Lupi proprie &ita fecundo modo exponi
potelt, vt Ariftoteles pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat inter vo
ces & fcripta couenientias. fecundo inter res & paísio nes. Voces
igitur & Icripta conueniunt primo guam-bo funt ve figna, voces quidem
conceptionum, feripta vero vocum. Secundo o vt voces non funt omnibus ezdem,ita
fcripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, pafsionum
note. &e qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces &e cripta có
ueniunt in hoc q ambo funt vt note fiue figna. Ethec ell prima conucnientia.
Deinde fubfcribit fecundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus,
fieneg; voces exdem.fHac eit fecunda conue-nientia. Dixit autem fin anima} quod
grece elt plyche, & non in intelleêtu, quoniam intellectus etiam ad
di-uinum refertur, aut pincellectus nouas paisiones non fufcipit,fed de his in
libro noftro de intellectu, & deani ma. Ea ergo, qua funt in voce & ca
qua funt in feriptis conteniunt primo e ambo nota acfigna funt. Secundo omnibus
cadem non funt. Tune ad obiedta con- Defryle _fle. tra
Alexandrum. Ad primum dicendum illum limpli-cem fenfum efle potentia &e
virtute amplum & com-pofituim. Similiter fi oratio eft breuis, compendio
efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no efle in toto fimilitudinem,
fed in parte efe potelt, vt Alexander fentit. Quorum tamen be
note primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac
fimilitudines, res iam ecdem. Debis quidem igiur: dietum ef in his que de
Anima, altes vius enim bec funt negocif. Capit Ariftotcles, vt Alexander dicebat,
ponere Cim.j. differentiam inter ca que pofitione talia funt, &
ca que natura talia. Ea qua in voce & ca qua fcribuntur, po-fitione talia
funt. Nune vero quanima pafsiones & resfint natura tales, declarat. Poteft
autétextus effe pra-milla, & por effe fimplex narratio. Siquidem
pramif- f, fyllogifnus erit, que eadem apud oes: funt per na-turam
talia-natura.n. vt Ammonius inquit, eft vnifor- mis femper. Palsiones &
res ezdem apud omnes.igitur natura tales crunt Defyllogilmo accepit
minorem เท้า in textu. Si vero eft narratio tín,
elt tune fecunda pars differentia, & inquit. {Quorum ti he nota primo:fune
palsiones anima oibus eadem: & quorum ha limilitu-dinestres iam eadem }
funt. igitur pafsiones & res funt omnibus erdem: 8e ita tales per naturam.
Hac fortaf-fe expotitione Arifto, verba examinádo : argumentum Herminij
contra Alexandrum imbecille eft. Noenim Alexã. vult o apud omnes fint
paísiones eademiapud quos voces, (ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel
par- 2iPeply. tem differentiz fecundam perficiat. Animaduerfione dignum
Porphyrium in defendendo Alexandrum: af. firmare guca quorum voces apud
omnes cadem: 8e ipfa funt cadem.& hoc generatim tam vniuucis
ipfis, quamaquuocis. Devaiwocis quidem cxipforum no minum ratione
conflat. De a quiuocis vero, quoniam animus audientis femper fibi nomen ad
fignificatio-nem debitam, adquamúe à proferente emittitur, ac- Confutatis
cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam enim aqui uoca propolitio ellet
diftinguenda, nam animus au- [cultantis lemper cam conformiter animo
proferentis Вкуб Нас. acciperet. Hermenius aliter fermones
Ariftote, intelli Nam voces fignificant paísio- nes primo, &
fecundo res, pafsiones autem, tantum Crufidatio. res decernunt. Sed hoc
ftare non poteft, primo quod Arittote. dixithac, non igitur lapide efiet
hic repe- tendum . Secundo verbum illud eadem ad quid adde-
retur?Ellet enim inutile,nifi Arift.com munepafsioni- Dubitais: bus
&e rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primojadditurAlexander
vuleno mina ligniticare palsiones, ac res, vt nomen iftud homo 8e naturam ipfam
hominis exiftentem, & eius con- ceptionem fignificet. verum quia
nomen num aque primo duo fignificare non poteft, idcirco Arift. adijcit
¿primo., Nã ea nomina, qua in voce funt, primo paf- Cantre Alex.
fones bignibcant, fecundo vero res. Recentiores obii ciunt nam ordo
lignificationum eft iuxta ordinem con ceptionum. Sed res prius intelligitur,
quam cius paf- fio.igitur prius voce fignificatur. Ad hac nomen
fem- per predicatur de fua lignificatione. Nomen illud ho. mo non
pradicatur de hominis conceptione. igitur il- Difesie Ale lam
nonfignificat. Dici potell pro Alexandro ep no- men in voce primo
primitate (vrita dicam) fubordina tionis paísiones primo fignificabit.
Primitate auré ap- Tradraiale prebélions, res primo, Quaretextus debet
flare/Quo rum tamen ha primo} non autem {primorum.} Nam gracus codex habet
protos, & non proton. Vbi enim proton legerctur, vt fortalle Boctius nofter
habebat in latinum primorum eifet conuertendum . Colligeigiturinter
hzequatuor ordinem : quz leri- buntur fignificant ea que in voce, qua in
voce, eas pal fiones qua in anima qua in anima, ea que in re con-
A.D,Th. fiftunt. Licetnon fit ordo effentialis,nam qua feribun tur, &
in voce funt, poflunt eque primo palsiones fi-gnificare, quum cripture pro
fupplemento vocum fint adinuente. Verum quia res hac admodum eft laborio-
fa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima.Eft autem quemadmodum in
anima aliquotiens quidem intelleãus fine uero falfoue , aliquotiens autem
iam cuire. celfe eft horum alteran incife fie c in noce.
Cirea compofitionem enim er dinifionem e/t neritas atque falfitas.
Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit, vt nomina & verba
efle in voce & ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum
vt com-munem habeat differentiam illorum, cú quibus & ora- tio &
enuntiatio ipfa conueniunt. Eft enini oratio &e enuntiatio in
voce. & ex impofitione aut placito figni-fcantes. & per eiufmodi genus
communemé; différen tiam differt à rebus ipfis conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa
lignificare fine vero & falfo declarat, vt vide- licet fecundam
colligat illorum differentiam,aut (Ale- xandro placet) oftendit
enuntiationem fignificarecú vero fallog, vt per hoc etiam &
enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit
mul tipliciter ad formam fyllogifmireduci, ve facilius res in
telligatur littere (yllogilmus non eft aliter formandus, nifi
veiacet.Ideo inquit. Eft autem quemadmodumin Sylingl/was. th
anima aliquotiens quidem intellectus fine vero & fat- fo, aliquotiens
autem cui neceffe eft horum altcrum in- effe, hoc elt aut verum aut
falfum, fic & in voce:hac eft maior. Addit & ipfam minorem dicens,
circa compofi tionem enim & diuifioné intelle@uales eft veritas atg:
falfitas. Sed circa fimplicium intelligentiam, neg; veri- tas neg;
falfitas. Igiturin voce etiam circa compofi- tionem vel diuifionem
crit veritas aut falfitas.circa fim plicitatem neg; fic neg; fic. Et fic
habetur totus fyllogif mus, per quem habebitur (vt dicemus in textu
proxi- mo) gy nomina ipfa & verba ab enútiatione differút.na nomina
8e verba fimplicia funt, & fic crunt fine vero & fallo, enútiatio
compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus &
differentiz nominum & verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma
grace, latine eft, tum intellectus, cum conceptus, & gativa.Simplex
vt hominis autequi. Et
difcurfiuus vt fyllogilmus. Modo patet verum vel falfum effe in com
politione. Simplicia vero effe abfq; vero & falfo . Hac quo ad
verba. cus fità fimili tín, velà fimili & caufa. Refondet expo
fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef Le non tín à fimili,
fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intelle@tus caufs, qua
vero in voce effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio
non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla- tenus funt aliquid
vocum,nec corum que in vocenec vt fnis,nam finis vult effe vitimum, vt
fecundo aufcul. shafin tationis phyfica dicitur. Modo conceptus eft
prior & voce & vocum veritate. Nec vtagens, nam ab co gires
eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla, vtab agen-te,vt dicitur in
predicamentis. Ideo vt frequenter di- Selotie proprie ximus verü
& falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce aut fcriptis, vt in
figno, in rebus vt in caula. Vis igitur arguendi non eit demontratiua,
fed dialectica à fimili tantum. Multa adijci pollunt, que ab expolitori
bus tum gracis, tum latinis perquire. Hac cnim ra- ptim fcribimus.
Nomina quidem igitur ipfa aut verba confimilia furt fi-ne compofitione co
diuifione intellectui: ut bomo uel album wwFajd quando non additur
aliquid; nam nondum falum aut стт eff. Huius autem fignum hoc eft.
hircoceruus er enim figni» ficat aliquid quidem fed nondum verum aliquid
ant falfum, mifi efje aut non effe addatur aut fimpliciter, wel fecune
dum tempus, Hac litera poteft introduci vno modo vt fit conclu fio,
quomodo expofitor induxit, innilus forfitan ver- bo illatiuo igitur ,
Alio modo poteit inducis vt fit minor fyllogifmi, fub accepti fub
fyllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in intellectu funt
cum vero & fallo, intellectus line compofitio-ne & diuilione nec font
cum vero nec cum fallo, ex quo voluit habere hanc conclufionem, in
vocefunt quedam cum vero vel fallo, quadam non cum ve.. ro aut falfo. modo
addit minorem dicens, nomina ipfa verba fimilia funt intelle@tui, qui elt line
compo- fitione & diuilione. hoc eft nomina & verba funt vo.
ces fimplices : fubaudi conclufionem. igitur fignifi- cantabiq vero
defalfo. Illa itaque particula illativa igitur, addita elt vt notaretur
conclulionem contine- ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens:
vthoc nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito,
nondum corum, ali- Sigum, qued falfum, aut verum eft. Rem
hane Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari.
fi aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet
hircoceruus. Tunc dat oppofitum confequentis di. cens: fed nondum
verum aliquid aut falfum: nifi elle aut non efle addatur. & hocaut
fimpliciter, aut fecun- dum tempus. Sicigitur patet nomina & verba
feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo.
Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft no- mine
compofito, & non entis, Huius caufe poflunt ef- Prima confa
feplures:vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo. quia nomina ciulmodi
videntur potifsimum falfitaté lignificare: propter partium
incompofsibilitatem. Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia
ad veritatem fignificandam egere verbo, fed etiam noni Tatia naipfa
compofita. Tertio vutur exemplo in filtis, vt innueret veritarem non
folum reperiri in rebus, fed in Secida duba, his qua funt ab intellectu
folo. Secundo quarunt cur ait compolitionem fignificare cum vero vel
falfo: & non lignificare verum vel falfum . Similiter & nomi-na lignificare
fine vero & fallo, & non ait nomina non Significate ch
fignincare verum aut fallum. Dici potelt e difterunt di fignificare
verum, & fignificare cum vero. Nam hoc nomen verum fignificat verum,
vt hoc nomen falfum fignificat fallum. quia fignificant fe: non tamen cum vero:
quia fuum lignificatum non fignificant cum ve- Tertiedubi, ro, aut fallo
: nili addatur verbum. Tertio quarunt quid Ariftoteles vult per
limpliciter, aut iccudum tem Primarifie pus? Reipondent guidam primo o
verbum prafens interdum dicit efle fimpliciter vt fubitantiam, ut
cum dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics elt. Dixit
igitur aut fimpliciter, aut fecundum tempus pro-pter hac. Sed hac expolitio non
placet. Nam Arilto-teles loquitur de elle & non effe generatim vt funt
note extremorum: que abftrahunt ab his. Expofitor aliterait tempus
pratens elie limpliciter. Catera ut pra- teritum ac futurum elle fecundum
quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte non valeto quia Confutaie quelibet
differêtia temporis eft tempus fecundü quid. Quoniam per aliquid differt
ab alijs differentijs. Aliter Ammonius , quod verbum
porcitaccipidu- pliciter. vno modo abfolute, ve eft, fuit, vel
erit,alio Prepria falatie modo cum aduerbijs temporis: eft nunc,
fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur fimpliciter. Secundo modo
dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater. Sed contra hac
dubitant nonnulli recentiores. vi- 2wste detur enim nomen vel
verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo, quia ad placitum fignificant.
Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad lignificandum idem q deus elt. Sed
cafu pofito illa fignificat cum ve ro vel falfo igitur nomen vipote A.aut
a.Secundo hac eft vna copulatiua vera, omnis homo eft rifibilis 8e econtra.Modo
hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra fignificet cú vero vel falfo.
Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum voluerunt
ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo, &
confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant. quia
concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt
concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda pifio enuntiationes.
Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, & ita negant a. efle
propolitionem. vel ve-rum, aut falfum fignificare vt per verba Ariftotelis
vi-detur, & per rationem:quia funt implicia: qua nun-quam cum vero,aut
fallo fignificant, nili addatur effe vel son efle. Sed hac folutio
ftare non potelt: quia vbig; Ari-ftoteles accepit litteras pro enuntiationibus
: vt in do priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus, quod videlicet. s. vel.a,
poffunt, fignificare cum vero vel fallo: fed dicunt ciulmodi non effe
enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per
modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio
fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio fignificandi
com- plexa, criam & modus debebitur. Propter hec videtur
Refepreprie. mihi elle dicendum nomina & verba quo ad primam corum
impofitionem non fignificare nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falfo.
Quo vero ad nouam impofitionem, cum fint ad placitum polfunt fignificare cum
vero vel falfo, nunguam tamen erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea
non va-let. A fignificat cum verovel falfo, igitur eft propofitio aut
enuntiatio. Oportet enim addere in antecedente g fignificet ex prima
impolitione, &e non ex noua inftitu-tione. Etper hac verba Ariftotelis
& Alexandri ratio-nes poflunt moderari. DE NOMINE: Quad fit
npe usJrparata Cum interpoluit communia quedam, e quibus de genus
& differétias nominis nancifci pollet, núc de no mineipfo
aggreditur. Sed videtur ordinem cuertif- fe, nam in lbro priorum
egit de propofitione antequá deter-determino, modo ita fe habet nomen ad
enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem. Secuido, do- Etrina
debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in phyfica traditur
aufcultatione, igitur prius ab enuntiatione, que eft totum, quam è nomine
&e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo prius quam de
enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid (velint
veteres graci ) Ariftotelem in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è
compolitis procesit. Nune vero compofitorie, ideo è partibus. Ad
fecundum Efculanus fingit nomen elleve materiam, verbum verovt formam.
fed quia materia precedit formam,ideo è nomine. Sed hoeftare non poteft:
quoniam materia non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vtin
aufculta- tione phyfica di tum eft. Igitur èformaipfa, & con-
Saunde An fequenter è verbo procedendum effet. Ammonius ait nomen ipfum
fubftantiz modum detinere, verbum Confilatio. vero accidentis. Modo
fubitantia efo prior acciden-te. Necimihi placet hoci quia lubitantia non
nifiper cognitionem accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo
effeprius tradandum, quia facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine
co-gnolci non poteft. Significat enim effe: quod fine extremis non eft
intelligere. At nomen iptüm cum fit abfolutum quoddam: intelligi potelt abíque
verbo. Quantum
autem ad verba dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco
ergo. &e rationabiliter profecto, ve videlicetannotaret definitionem
ciulmod ex diuifione proxime factacol lectam effe. Hacenimelt regula
definitionum inue-niendarü, vt Sexto Topicorum traditur.& fecundo po
Iteriorum, vt poft dinifionem fiat partium compofitio. vti coclufio. Qua ratione
procefsit hic. Diximus enim voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina
pal fonesilliumodi delignent: voces crunt fignificatiur. Vode genus ipfüm
Ariftoteles naCtus eft. Dechiratum eft etiam omne fignificans expolitione,
& non natura, fignificare ad placitum. Quod grece eft fythece
lati- na fedus, pactum, inflitutio, aut placitum. Sed cum
conftet nomina fignificare expofitione, iuread placi-tum fignificant. Rurfum
declaratum eft nomen figni ficare fine vero & falfo: omneautem fic fignificans
eft finetempore fignificatiuum: 8e quius nulla pars feor- fum fignificat.
Ariftoteles itaque hac omnia confide-rant, per modum confequentis definitionem
nominis deduxit. Multa alia hic recentiores addunt, que (quia patent
omittimus.) Pater In nomine nim, quod et equiferus: equas ipfe
nühil mis ferefien ac erple mibel fio per fe fignificat,
quemadmodum in hac oratione, equus Eficant. e Jerus. Erat
vitima definitionis pars, e nulla nominis par-ticula feorfum feparata aliquid
lignificet.nuncillam exponit. Et manifeltat hanc vitimam definitionis
par-ticulam in nominibus compofitis. in quibus (vt inquit Ammonius )
minus videtur, vt quafi fyllogizet è ma-iori ad minus. Nam in hocnomine, quod
eft equife- rus, pars hac ferus, aut equus feorfum nihil fignifi-cat:
quemadmodum in hac oratione equus eft ferus, aut equus ferus.
Quantum ad graca verba attinet, verbum equife- •rus grace elt calippus, à
calos, quod latina eft bonus:& hippus, equus, fed quia minus fonat equibonus,
ve-equiferus, Boetius & alij tranftulerunt equiferus, Et vbi Boctius
tranfulit ferus ipfüm nibil per fe fignificat. Grecelegitur equus,led non
refert. Amplius verbum illud quemadmodum in bac oratione equus ferus: po-teft
legi cum verbo, fic equus eft ferus: & abíq; verbo equus ferus.Solum enim
vülthabere quod pars nomi-nis & fi fignificet feorfuminon ita fignificat,
ficut quan do crat in oratione. Incapit autem particulam de-
finitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac particula eft
vt caterarum finis, & om-nibus principalior. Modo finis elt intentione
primus, de ctiam cognitione. Verum non quemadmodum in fimplicibus
nominibus, fie fe habet etiam incompofitis. In illis enim millo modo
Neminir coi + liet part frar pars eft fignificatina, in bis nero
unt quidem, fed mullius feparata sut in eo nomine, quod eft equiferus,
particu- La ferus. Sed dices igirur nomina fimplicia &e nomina com- Cảm.
8. polica non differunt. Ideo refpondet, quod differunt: quiain
fimplicbus nominibus parsnullo modocit fi- gnificativa neque fecundum
veritatem, nequelecun-dum apparentiam: at in compofitis videtur quidem
ali hil feorfum fignificat. Quantum ad gracam litteram attinet verbum
illud vuir, grace eft vouleta.Melius ta-men(vt mihi videtur) fonat apparet, aut
videtur. nam nomina compolita, ex quo impofita funtà conceptio-ne compofita,
videtur quod illorum partes feorfum aliquid fignificent. Nomina vero implicia,
cum in. ftituta fint à conceptione fimplici, partes corum feor-fum nec
fignificant, nec fignificare videntur. iEx his poteit fyliogilmus
fic componi. nullius nominis implicis nulius nominis compofiti pars
fignificatie-parata: omne nomen aut fimplex, aut compolitum: igitur nullius
nominis pars fignificat feparata. Minor fupponitur. Prima pars maioris &
fecunda declarate funt in textu. Sed querit vtrum alicuius nominis pars
fignificet fe parata ? Et videtur quodfic: quia cuiuflibet com. nis feparata
fie pofiti ex pluribus nominibus pars fignificat fepara- дерест. ta. Sed aliqua nomina componuntur
ex pluribus no-minibus vt equiferus, de id genus. Omnesad qua-ftionem &
graci & latini conueniunt partes nominis comparari pofle ad totius
compofiti intelle tum,aut in ter fe. Primo modo nulla fignilicat feparata, nif
in ora tione homo eft bonus. Seorfum enim illud idem partes ha fignificant,
quod in oratione tota fignificabant. Ethocmodo intelligit Ariftoteles.
Nam licet equus & ferus forfum aliquid fignificét, nontamen ad intelle-Eum
totius.Propterea inquit Ammonius, nullum no-men componi pluribus ènominibus,
quatenus nomi • na funt, fed quatenus tranfeunt in vim fyllabarum. E-quus cnim &
ferus in hoc nomine equiferus, fyllaba-rum vices detinent. Auerroes autem in
paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs verbis, quéd partes nominis
nun-quam per fe fignificant feparata, fed per accidens: quod eft dicere: non
quatenus funt partes nominis, fed quatenus fcorfum funt, tranfeunt in
'vim nonม num. At in oratione partes feorfum idem fignifi-cant,
quod in oratione, quia vtrobique quatenus no- mina funt. Xamine fint Ad placition
uero: quoniam mullum nomen eft fus natue Pady fo,ud ra ann
ed eun fo Jignificantnang or illieratifoni, ue qui ferarum:
quorum tamen nullum eit nomen. Nune tertiam explanat definitionis partem.
Nam primam, quod nomen fit vox : & gnificativa ex his, que
communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam vero, quod finetempore ex
definitione verbideclara- bit. reftat igitur vt tertiam exponat.
Quantum ve- ro ad greca verba attinct, animaduerte, quod. ver-bum
verbotransferendo littera Ariftotelis eft, fecun-dum placitum vero: quoniam
natura nominum nihil elt, fed cum fit nota,nota cnim grace eft fymbolum, latine
etiam fignum Sed cum hac litera ad ver-bum tranflata minimefonet, ideo
tranftuli ad placi-rum vero: quoniam nullum nomen eit lua natura li-gnum, fed
cum fit ex infituto. Hoc enim differt &à rebus, de ab anime pasionibus, vt
diximus. Et quod natura fignificans non fit nomen exemploà fonisani-malium
perluadet, de inquit. Significant nanque fua natura &
illiterati font, ve qui ferarum : quorum ta-men proprer fignificationem, quam
babent naturat lem y nullum eft nomen. Igitur nomen ab initituto fi-gnum effe debet:
8 hae ratio valet, fue fit locus à findliun/ contrario, fiue fit locus è
fimil, fiue aliter. Ani- minomme son maduerte quod animalium tom dicuntur
agramma- toi, hoc elt illiterati: quoniam fcribi non poffunt: de à natura
fignificant: quia codem modo eft in omni-bus animalibus. Habet enimà natura
animal ipfum per fuz vocis fonum fignificare affeêtum. Quare pro-pter duo
ciufmodifoninomen eifenon pofiunt.rum quia illiterati, tum quia è natura. Recte
igitur diêtum eft ad placidum. Mouent qualtionem ex Alexan- dro
talem. verba funt voces, voces funt nomina, igi-tur verba funt nomina,
conclufio falfa:& non pro maiori, igitur pro minori. Refpondet Ammonius,
quòd nomen & verbum lunt voces fecundum mate-riam, vt archa eft hgnum
fecundum materiam. Ma-teria enim nominis & verbià natura eft, vz vox. Forma
autem nominis ab arte atque intitutione, ve archa . quo quidem ad materiam a
natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad
ma-teriam eft res naturalis, quo ad formam elt res ab ar-teevtigitur non valet,
hgnum eftànatura, ianua eft lignum, igitur ianua eftà natura. Obijcit autem huie
Ammonius: quoniam fi nomen elt ab inftitutio-ne, de nonà natura: tune fignum
aptius in nominis definitione caderet quam vox. Refpondet ipfe hoc
efle factum: quia in definitioneaccidentis in concre-to debet poni fubicêtum
loco generis, &e accidens pro differentia. At cum nomen accidens fit voci,
ideo di citur nomen eft vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen effet forma
artificialis, tunc effet quid additum voci. Hoe autem fallum elt. Nam aut
erit fubitantia, aut accidens i non fubitantia vt patet. fi accidens: non
abfolutum, ve patet. nec relatiuum: quia tunc effet relatio realis. nam
funda-mentum reale eft ve vox ‹ terminus realis vt res fignifi-cata •
Amplius nomen videtur abftra@tum. igitur indefinitione debct cadere fubieétum
in obliquo. Selatio apris, Videturigitur mihi nomenipfum nihilaliud
effeni-li vocem articulatam cum intentione lignificandi ali-quid prolata.
Vtenim vrina eft lignum fanitatis nullo addito fibi: fed quatenus ab intelle tu
efficitur fignum fanitatis :ficvox eft nomen nullo addito: fed quate- nus
ab intellectu infticuitur ad fignificandum. Sin-dapfus enim non nomen elt. Sed
fi ad fignificandum inflituitur: fiet nota fiue fignum: qua rationenomen fet vt
Boctius inquit, &e hoc inquit Ariftoteles cum ait: quoniam naturaliter
nomen mhil eft: fedi quando fitnota, & ita nomen eft vox fecundum materiam
8e formam fic initituta velignums Tunc ad argumen- tum Alexandri
dicerem ibi elie deceptionem propter accidens: vt non fequitur homo elt animal,
animal cit dictio.igitur homo eft diêtio: aut non fequitar. homo eft animal,
animal eft gemis, Igitur homo eft genus. Variatur enim veforticola
fentuntlippofitio. nam in prima animal fupponit formaliter, in fecunda
materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci . nam Aritotcies
ait nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum lignificatio non eft
naturalis. Plato vero
& Soctates in cratilo volunt nomina è natura ip-fa effe. Etita ifti font
contranj: quod apud gracosha- beturremotum. Circa hane dubitationem
quidam (vt Ammonius Pelitiones. narrat) volucrunt nomina
effetimpliciter de omnino ab initicutione: & nullatcnus è natura,
cuius opinio- nis fuerunt Hermogenes: & difcretus Diodorus.
Alay diserunt nomina elle fimpliciter à natura, qua-tenus funt rerum naturales
fimilitudines. Cuius pofi- tionis fuerunt Cratillus haredeus: atque
Heraclitus ephelius. Ammonius voluit nomina ipla effe natu-
ralia quantim ad cthymologiam . nam omne nomen vult elle impolitum è
proprietate repertainre. vt la - pis quali pedemledens: & petra quafi
pedetrita. Quantum vero ad fignificationem ipfam ab infti-tutione funt,
Et ficinter hos duos confultat. Etfidi- citur viam rem naturalem
plura nomina habere. Refpondet, quia à diuerfis proprietatibus
nomina diuerla nancilcitur. Sed pacchorum hoc ftarenon
poteft. Primo, quia tunc nullum effet aquiuocumà calui, nam omnenomen
fignificaret à proprietate rei, & ficcanis effet analogum, & non
aquiuocum cafu. Secúdo vtin natura accidunt cafus, quorum nulla caula
potett darinili per accidens, ita & in arte. de per confequens poffunt dari
nominaà calu, nullaque rerum proprietate. Er videtur hac fententia
Ariltotelisani primo elen-chorum voi inquit. nomina quidem finita funt, &e
ora tionum multitudo, res autem numero infinita: necef- fe cit igitur
plura eandem orationem & vnum nomen fignificare. Propter quod mihi
videtur elie dicen- Solitie proprie dum in vniuocis & fpeciebus
nomina effe omniaim- polita fint, «* quineca nen 2 mologia: licer
in multis illa nos lateat. In aquiuocis vero & fingularibus nomina effe
cafu affero • Vnde Boetius in pradicamentis. commento primo. inquit.
aquiuocorum alia funt cafa, alia confilio: calu ve Alexander Priami
filius : 8 Alexander magnus. Au-gultinus Aurelius: 8 Auguitinus Niphus. Cafus enim
id egitvt idem trilque nomen imponcretur. Du- fint in mente, bitant
forticole : vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per
Ariftotelis definitionem.namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala
parte eft quod nomen prima & fecunda (vt di-cunt) intentionis eft in mente.
Amplius in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine &
verbo. Igitur in mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud
Boetium in pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle
orationem, & per con- lequens nec enuntiationem. Id autem, cui
fubordi- natur oratio fiue enuntiatio graceefologus, latine in-
terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc
eit exterior ratio. Apud
enim gracos logus eft communis rationi & orationi. Apud nos vero interior
ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero oratio. Tunc dico in
mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba, fed bene
conceptiones compofitas &e fimpli- ces. Compotitas quidem quibus
orationes fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus
nomina & verba: & ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed
fignificationes, quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen
prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut
fecun-da/impolitionis. Onine enim nonien cit ab im-politione : Ad
lecundum patet folutio in mente eitratio, in voce oratio fue enuntiatio,
qua ratio- nilubordinatur. Ipfion vero non bomo, non nomenet, , fed
nel neque Nenfe onbi nomen pofitum ift, quo ipfum appellare
opertet. Nes в finE не que enim e/t oratio, neque negatio, fed
nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod
+/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, & id genus, Catonis & id genus ef- fentnomina. Nam
his competit definitio data. Refpondet Ariftoteles de excludit duo à
ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: & lic
definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta,
vr di- Accipit igitur duo - primum quod non homo & catera id genus
non funt nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum
nomen. & hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum ,fed
vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft
fecundum. Hec perordinem declarat, & primo quod nonfit el nomen
impofitum. Videturenim cum duobus con - uenire. cum oratione propter
complexionem : & cum negatione propter particulam negatiuam. ideo probans
fecundum inquit. Neque enim eft oratio, seque negatio. Deinde probat
primum: & fingit il- li nomen, quo nunc appellari liceat & inquit.
fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt dicit,
& quod eft, & quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo
lignificat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod
elt: o co quod non et. Hircoceruus enim non homo eft, Becquus ctiam nonhomo. Quantum vero ad gra ca verba
attinet ambiguum grece eft aorilton: quod latine non eft infinitum. Nomina cim
greca fune di- uerfa. Graci enim infinitum dicunt apeiron. Am- biguum
quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala
parte eft quod nomen prima & fecunda (vt di-cunt) intentionis eft in mente.
Amplius in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine &
verbo. Igitur in mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud
Boetium in pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle
orationem, & per con- lequens nec enuntiationem. Id autem, cui
fubordi- natur oratio fiue enuntiatio graceefologus, latine in-
terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc
eit exterior ratio. Apud
enim gracos logus eft communis rationi & orationi. Apud nos vero interior
ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero oratio. Tunc dico in
mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba, fed bene
conceptiones compofitas &e fimpli- ces. Compotitas quidem quibus
orationes fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus
nomina & verba: & ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed
fignificationes, quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen
prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut
fecun-da/impolitionis. Onine enim nonien cit ab im-politione : Ad
lecundum patet folutio in mente eitratio, in voce oratio fue enuntiatio,
qua ratio- nilubordinatur. Ipfion vero non bomo, non nomenet, , fed
nel neque Nenfe onbi nomen pofitum ift, quo ipfum appellare
opertet. Nes в finE не que enim e/t oratio, neque negatio, fed
nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod
+/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, & id genus, Catonis & id genus ef- fentnomina. Nam
his competit definitio data. Refpondet Ariftoteles de excludit duo à
ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: & lic
definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta,
vr di- Accipit igitur duo - primum quod non homo & catera id genus
non funt nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum
nomen. & hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum ,fed
vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft
fecundum. Hec perordinem declarat, & primo quod nonfit el nomen
impofitum. Videturenim cum duobus con - uenire. cum oratione propter
complexionem : & cum negatione propter particulam negatiuam. ideo probans
fecundum inquit. Neque enim eft oratio, seque negatio. Deinde probat
primum: & fingit il- li nomen, quo nunc appellari liceat & inquit.
fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt dicit,
& quod eft, & quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo
lignificat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod
elt: o co quod non et. Hircoceruus enim non homo eft, Becquus ctiam nonhomo. Quantum vero ad gra ca verba
attinet ambiguum grece eft aorilton: quod latine non eft infinitum. Nomina cim
greca fune di- uerfa. Graci enim infinitum dicunt apeiron. Am- biguum
quod indifferens cft ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad
id quod eft & ad id quod non eft: & per hoc differtà nomine
communi i quod licet fit indifferens, non ni- fi is que funt fub eo
indifferens eft. Differt
tamen aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini predicamentalis:
quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa pradicamentalis
fimpliciter, vt didum eft. Echadubitatio. Querunt ctiam,
vtrum enuntiatio pofsit aori- ftari? Iamblicus Platonicus orationem fiue
enun - tiationem aoriftari polle contendit propter aorilta- tionem
fubieti aut predicati fue nominis aut ver- Viram aratio bi, motus
fortalle, quia quod parti contingit inef- valea infni• fe, toti quoque
accidit: ve quinto Phyficorum ha- fari. betur, vbi enim capiti
crifpitudo ineft, & homini ineffe necefle eft.
Confatatio, Sed hoc fare non poteft. ait enim neque enim oratio neque
negatio eft: fed omnis finita. Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e
vetbum aoriftari afferit, nullbi tamen orationem . Balutio sprie.
Tenendum igitur nullam orationemi nollamque cnuntiationem aoriftari poffe. Tuno
ad rationem pro iamblico dico quod omne quod parti ineft ne- Oratienen pir
cefle eft toti inefle. Non tamen quicquid partem infuir. de
nomina, neceffe eft totum ipfum denominare: nam albedo dentes denominat
athiopis, nequa - quam athiopem . Dubitant & adhuc
forticola : quia videtur nomen ambiguum effe nomen : ดูแร่ม valet eft nomen ambiguum tigitur
nomenabinfe- riori ad fuum fuperius. Refpondendum non valere: ficut non valct,
eft homo mortuus: igitur homo .itemque nec valet, eft albus dentes : igitur albus. Non enim argui - tur ab inferiori ad fuperius, fed à fecundum quid ad fimpliciter. olioul cafir a nomicie rine Ipfum nero philonis, aut philoni, co
catera id genus non minima fant, fed nominis cafus. ratio au* tem cius in alits quidem eft cadem, quancuam diffe » runt. Nam eft, aut fuit, aut crit addideris,
neque we= rum neque / falfum eft. nomen uero ipfun
femper ," philonis eft, aut non eft, nondum ucrum ant falfum
dices. Quidam,
vtftoici, cafus effe nomina, & reclum effe cafum concedunt.
Reêtum quidem cafum, quia è menteipfà cadit: & ab ipfo cateri cafus.
obliqua vero nomina, quoniam voces funt fignificati- un ad placitum fine
tempore. Excludit igitur cafus ipfos è nominis ratione, & inquit, ipfum
vero Phi- lonis aut Philoni non nomina funt: fed nominis ca-fus.
Addir tamen conuenientiam inter ca fus &‹ no-mina, & differentiam:
& inquit, ratio quidem cius, hoc eft nominis: qua pauloante generatim
afsi-gnata eft, in aljs quidem eadem eft: quafi dicat, quod ratio
generalis nominis , qua proxime afsi- gnata eft, vna eit nomini ipfi,
atquecafibus quan-quam differant. nam cum ipfis cafibus eft, aut fuit sut crit
addideris, neque verum negue falfum eit, nomini vero ipfi, cum fupple
addideris, femper ve-rum aut falfum dices. ve Philonis ipf eft, aut non eft cum
addes, nondum enim verum aut falfüm di- ces. Nomen igitur & cafus
nominum conueniunt in ratione nominis generali, differunt autem = quo-niam
nomen addieum verbo cit., femper reddit ora-tionem aut veram aut falfam.
Ex his vult habere Definitie Ariftote, hanc effe nominis definitionem.
nomen eft pajada. voxlignificatiua ad placitum : cuius nulla pars
figni-ficat feparata, determinata, atque recta: per hanc rationem habeturtota
nominis eflentia. Per hac patetfolutio ad rationem ftoicorum. li-cet enim
rectus cadatè mente, non propter hoe di-citur cafus. dicetur enim etiam verbum
habere ca-fus : fed id dicitur cafus, qui ab alio cadit per inflexio-nem, vt
Boctius& Ammonius addüt. Curvero vfus Dubiationes eft verbo fubftantivo,
curúc gencralem pramifit no-minis rationem, Ammonius, è quo expofitor no-Iter
accepit, facile declarat: nam fubftantiuo vius eft, quia cum cateris verbis
cafus faciunt nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem genera-lem,
quia doarina incipit ab vniuerfaliori, adiecit fpecialiorem, vt generalem
compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphra-fe buius capituli
velle videtur quod tam nomina am-bigua, qua vocat infinita, quam cafus nominum,
fint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne autem
diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver bis
Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina
abfoluta, nam propter ex-cellentiam videtur retum nomen: & determina-tum
nomen efle nomina: quia videlicet in illis no-minis ratio praftantius faluatur:
& ita vule hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum
nomen profertur de potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, &
fubitantia eft ens: verum ens abfolute intelligitur principaliter de
fubftantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis & determinatis fiue
finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa
captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia fint, pratereunda elle
diludico. Multa quoque de nominis dittinatio - ne Ammonius addit:
que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de
nomine. Ratio uero eft nox fignificatina, cuius partium alis qua
feparata fignificatina eft, ut didio: fed non ut «ffirmatio, uelati homo
fignificat quidem aliquid, non autem quoniam fie, aut non fit: fed crit
affirmatio aut negatio fi quicquam fibi adideris ana uero hominis fllaba
mullatenus fignificat, non enim in hac dictioneforex, rex/i» grificat fed
tantum nune uox efl:in compofitis uero fignifia cat aliquid fed ut diximus non
pro fc. Сет.18. Illud (vt diximus) quod principal hic perquiritur, elt
enuntiatio: huius partes &e materia nomen, videlicet. & verbum
declarata funt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declaratur.cur vero(vt
Ammonius dubitat) non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas
licebatur,diCtum eft. Animaducrtendumigitur,
gno mini & verbo & ofoni cóia funt vox, fignificare, & no per
naturam, fed ad placitum, vtrum vero catera parti cula, vt fine t pe, vel cum
tpe, an rete & determinate fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut
oño ab vtro-que: qm illius pars fignificativa elt ve dictio, nois vero de verbi
non nili per accis (vt diximus) in definitione praterijt anà natura fit ofo
ipfa fignificatiua, an ad pla citum,quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit
ait illa duo vt q fit vos & fignificativa, vt habeat genus.
proximum,adiecit cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio
vthabeat differentiam: qua differt è nomine & verbo. Prime
dubs. Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin- An oratio
fit gulis.Et primo, vtrum ofo fitvox:& videtur o nó:ofo Refonio fer
non eft una uoxsigitur non eft vos. Antecedens argui- tur:oratio eit
muita uoces, multa uoces non funt una uox sigitur oratio non eft una vox.
Rident forticula concedédo e oratio elt muita uoces, de ulterius p plu res fue
multe noces funt uox fucuna fola uox, quem-admodum plures hoies funt unus folus
hó, &e oita fit probant:quoniamhacuox eft una fola uox, &e illa uox eft
una fola uox. Igitur hacuox, & illa uox funt una lo la uox. Sed hacuox
& illa uox funt plures uoces. Igi-tur plures uoces funt una fola vox:
& fie concedút plu res uoces effe unam folam uocem divifiue, utdiêum elt.
Sed dices contra hos, quia li plures uoces funt una fola uox, igitur per
couerlionem in parte una fola uox effet plures uoces. Amplius plures uoces non funthae una fola
uos, nec illa una fola uox, igitur nulla una fola vox: & per confequens
plures voces non funt vna fola Definio, vox.. Reipondêt
forticola & defendunt partem fuam 9 pradicatum illius propolitionis, plures
voces funt vna fola vox, confunditur propter vim copulationis, qua includitur
in verbo illo plures. Refoluitur.n.pla-res lie, & illa 8e illa vt diximus.
mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negãt conuerlioné, quia
variatur fuppofitio. In
prima illa particula vox fappo-nit confufe, in fecunda determinate. Et fi
dicatur quo-modo conuertitur, quare ipfos, quia eft extra propoli-tum. Ad fedam
dicunt, eplares voces nulla vna fola vox funt, qí nec illa nec hae. cum quo ti
flatg plu-res voces fint vna fola vox, qí in hac, ifteterminus vox ftat
confufetín, in illa determinate aut diferete: pP quod ha non contradicunt
plures voces funt vna fola vox,& plures voces nulla vna fola vox funt, cum
termi-ni non codem modo fupponant. Quanquam hac fint acute dicta, &
non poflantimprobari, fcasno effepe- ripatetice di (ta, nec necellaria,
nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi.n. vtlogicam feruêtad vaguem
amittunt philofophiam, & mora in his impe-dithominem feire veritatem. Peripatetici igitur di-
cerent op oratio eft vna vox vnitate verbi, de ficpôt di-ci plures voces
timplices, na vero copolita ex ilis pro-prer vnitatem verbi. Aliqui dubitant
fecundo cur di » - Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium aliquid
fignificant Contra The. leparatim, & non dixit cuius pars aliqua
ligniticat lepa rata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia gracorú verborum In
graca.n.ingua pars, que gracemeros di citur,neutri elt gencris,ideo ad nos
debetvenire, cuius partium aliqua feparata fignificats &rita poderatio
ex-pofitoris friuola eft, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie dubi.
Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit definitum, cui
non competit definitio. Na hypothctica eft oratio, 8e tó partes cius
fignificant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic efle diffinitam folá orationem
fimplicem, co quia prior in omnibus repe- ritur:cui relponfioni etiam
Alpafium confentire ferüt. Obijcit huic(vtmihi videtur) Boetius:on
definitum nó debetelle in plufquam dehnitio, Igitur cum oratio fit
communis fimplici & compolita:dehnitio etiam di cit effe communis. Sed
hacrônon cogit: dicerent.n. gy licetortio quatenus oratio fit
coistimplici & com- pofite, ta quatenus hic defcibitur non conuerit
nifi fimplici perle, quia cotrafte & no coiter hic defcribit.
Miliusigif contradico eis: quia Arift. poftea diuidet oionem in
enintiatiua , & no enuntiatiua,& enuntiati uam rurfus diuidet per
fimplicem & côpofitam: & nul-libi iam ipfam compofitam definit alia
definitione, igi tur vult cam effehic definitam. Secundo oño comper
sinato titvniuoca, fimplici, & cópofita: igitur debet dari vna
definitio communis vniuoca, & nullibi dedit llamsigi turefiet mancus.
Alex, vero & Ammonius refpondét Refienfie.s. p hac definitio
eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt oratio compolita haber partes que
lignificant, vt diêtio. Huic opponuntalij ve Philoponus & Sy-
rianus, quia Arift.ait vt ditio:& non vtalfirmatio.mo ofo compofita habet
partes qua fignificantut affir-matio:8 ita male adiecifiet, & non
utaffirmatio. Alij foluunt o dietum philofophi debet intelligi luppiendo
fic, ut dictio neceffario, & no necellario ut affirmatio, & fic
competit omnibus. Ego aût dico pace tátorum fe/priepre dixerim o Arift. dixit ut dictio:
qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non ut orationes, fed
ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát Quarte dubie quarto, curadiecit ut
dictio & non ut aftirmatio, fatis chim fuifet dicere ut diêtio,
nunquam enim dictio elt afirmatio. Repondent quidamiquia Arilt.folitus
eft nonnunquam dictionem pro affirmatione accipere: ne igitur ufus
impediat, fuppleuit & non ut aftirmatio: & fignanter ait,& non
uraffirmatio, quia negatio ad-dit ad affirmationem, propterca fi non ut
affirmatio fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac refponlio fic
dia,f el alicuius expolitoris graci, tacco, gán ipli yerbaverba Arift.melius
intelligút, & verecundú eft pugnare contra gracos de verbis gracis. Hoeti
non tace- botg vbig; Arift.di diftione vocat - gracce phafim
vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me legitie,no ti nego
cataphalim cópon ex ca- Nie apria ta & phalis. Ideo dico @›
fuppleuit nó vt aftirmatio, ad denotandú partes ofonis vtdixi poffe
lignificare vt af-firmatio:fed Arift, vult no licintelligere led quatenus
habent vim dictionis. Hoc.n.fuppleuit propter ora-tiones copofitas: cuius
partes funt affirmationes : fed nó vraffirmationes: fed vt dictiones
fignificant. Viti mo
quarit Philoponus: vtrú hc definitio côpetat fo lum orationi perfetta? Ridito
foli perfeta hec có-petitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú:
totum aût & perfectú ide: & cú oratio hie definiatur in relatione ad
partes, videf rationabiliterhie dehnin vt perfecta. Sed contra
obijcit Boetius primo: quia omne copolitü haber partes, cum aúttam
pertecta g impertecta habeat partes:rationabiliter qualibet crit totú
&e perfecti. Secundo tune partes oracionis & cu iufg
compoliti no ellent partes nifi in fine copolitio-nis:quia tunc folum
compofitum dicitur effe copofitú. Mihi videf orationes ha non militent :
quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter forma & materia, cú orationi
imperfetta defit aut forma aut materia, ali-ter effet pfecta, rationabiliter no
dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes dico: ep oratio imperfecta no eft
totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel verbo principali:8 p confequens
caret forma: 8e ficnec eit cópolitum nec totá,fed quadá vocú multitudo.
Ad fecundú dico, partés no funt partes nifipofti eft ip-fum tot,ante enim
dicunt partes in potétia mlngitur intelleCtus altu cóponat fubiectú &
pradicatü củ ver- bo.nô erit adtu totü:& ficnce actu partes, &e
fic cóce-do id ad quod deducit, Melius igit cótra illos poteft obijci, gin
ftatim oratione hic definitam fubdiuidit per pfeCtam & imperfecta:qui
rem incogrue egillet, nifi Definitio ena» vtrig; hãc definitioné
elle coem voluiflet. Colligeigi innis abfoluta tur definitioné
oratio vero elt vox lignificatiua, cuius partiú aliqua fignificativa eft
feparata:vt di tio, &e non staffirmatio:hoc eft fignificatione fimplici,
non co-polita, aut dinilia. Ori aût aliquid fignificare vt pars pot effe
duplicitersaur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve fyllaba, vt in voce
compofita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars
co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec velyllaba. De
primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut
nó eft, fed crit affirmatio aut negatio fi fibi quici addideris, hoc eit
verbufolu. Et ficperexéplu patet prima pars. De-inde declarat fecunda, &
inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod probat p exemplú &
locú à maiori:& inquit. No.n.in hac diétione forex, rex fi gnificat, fed
tín vox eit fola, no habens vim fignifican- Cotra, tu dices: quia in
copolitis ve in hircoceru ignificat pars. Ridet in copoftis noibus fignificat
ali quid ipla pars feorium, fed (vt diximus) non pro fe ad intellectú totius,
cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec fignificat vt pars
côpolita,nec vt fyllaba Oratio igitur eft vox ligni- ficatiua:cuius
partiú propin quarú aliqua eft fignifica tiua feparata per fe quidem vt diêtio,
non autem fem- per vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од
E/t auten oratio onnis fignificatina quidem, non tamenut inferanientam, fed
quemadmiodom dietum eft fecundum imturaxin inftitutionem.
Syllogizabat Plato in co libro, qui Cratilus inferibi Cámag. tur, ofoné
efle natura, & noinflitutione fic.oro eftin- frumentú virtutis
interptativa naturaliter nobis ine- xiltétis.Per ipfam.n.fignificamus aia
affectiones, ceu Pitevais, per inftrumêtum.omne aüt inftrumétú virtutis
natu-ralis eft natura: veluti virtutis viGuz oculi, auditiua au res:&eid
genus.igif ofo natura, fed no inflitutione eft. hic erat Platonis fyllogifmus.
Huicridet Arif.& con ปริกสยุจี fentit maiori.negat tá minore.nam virtutis interpreta tiug primü inftrumentú & propriú eft pulmo, guttur,
dentes,lingua,& id genus:qua naturalia funt.ofo vero elt effectus illius
virtutis mediátibus illis inftrumétis & ita minor falla eft. Inquit. Eft
aút ofo ois fignificati- ua quidé, non tamen ve inftrumentú, fed
quéadmodá di etü eft )fm infitutione, & ita Platonis minor filfa eft.
Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult Boetius effe pofitú pro
natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam ipfari
artiú cófiltere ponebat: & ita crit fenfus o ofo fignificat no ve
inftrumentum.hoc eft naturo Jed/vt diatü eft in ca pitulo de noie) fm
fynthecen,hoc eft Pm inititutione, Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait
Arilto-teles organon no pro natura pofuit, fed pro inftrumen to:quia perhoc(vt
Ammonius & Alex.aiunt) Arifto-teles minorem Platonis negareintendit. Sed
adhucfo lutio Ariftotelis non videtur tuta.Platonici.n.quidam Hermippus
& Numenius obijciút.na idem videtur de effectu. Oratio.n.effectus eft
virtutis naturalis per in - oratio ipfa natura crit. Secundo, ofo eft
inftrumentú intelle tus, qui eft virtus naturalis. nam intelleêtus ora
tionefignificat,fyllogifmo, qui ofo elt, ratiocinatur: definitione, que
rurfus oratio eft, definir.Sed vefupra. omne virtutis naturalis in trumenté eft
natura. igitur oro natura erit, non aut inititutione. Ad hac
Ammo niustolutioneinnuit o quéadmodú in tripudio mo-tus ipfea natura eft,
modificatio illius (vtita dicã) ab inflitutione & artificio, ita in
oratione voces fiue foni natura funt, modificationes vero inftitutione : &
ita quatenus voces fue foni ofones natura funt, quatenus tales voces
inflitutione formanf. Tuncad rationépri mam maior falla eft. poteft
enim aliquis effe effettus virtutis naturalis per inftrumenta naturalia ve
tripudia & effe inftitutione. Adfecundú ait Ammonius (p in-
tellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus eft:fed quafi fupra
naturá:& fic nihil prohibet virtutis fupra naturam elle eflectú inftitutione.
Sedhzcre- fponfio ftare non pot: quia faltem intelleêtus eft vir-tus
naturalis:diftinguendo naturale contra arté. Igitur effectus fuus debet effe
naturalis: vt diftinguitur côtra artê. Propterea dicédum o artificialiú principiú im- soltio peria
mediarú eil voluntas. He enim eft immediata caufa inftitutionum, &
propterea gg concurrant intelledus & naturalia intrumenta virtutis
interpretatiuz, quia tamen ola fubiacent volütati, ideo inflitutione funt
& non natura.& hoc nefcivitexplicare Ammonius,licet forte hoc voluerit
balbutiri. Alexander aphrodifius R5 Ales. enititur probare
orationem effe inflitutione: quia cu-jus qualibet pars eft inftitutione, totum
inftitutione oft, led orationis partes vt nome & verbú inftitutionefunt:
igie tota oratio. Hac ratio pace fua petere vide-tur, quia Plato & Socra in
lib. Cratili. voluere ctiá nomina & verba naturaliter fignificare.
Ampliusfimilis qualtio eft de noie & verbo:qn ipfa fint effectus
virtu Ri melier. tis naturalis pinitruméta naturalia. Ideo
melius à fi- gno idé probari pót: que apud diuerfos funt diuería
inftitutione efle vident.id.n.quod naturale eft femper eft vniforme, fed orones
apud diuerías linguas diuer-fie fpectantur, gaide ligniticent, itur no
natura, fed Dubitationes infritutione funt: & hac eft fua mel
forratio. Sed cir- ca hac recentiores ambigunt, trú nomé, quod
figni-ficat aliquid, fiimponatur de nouo ad fignificandum aliud, remancat idem
nomé, verbi caufa, ifud nomen homo fignificat Socratem & Platonem, verü
fipona tur ad fignificandum idem quod equus remancat idé nomen. Secunda
dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur ad fignificádá aliud g primo
lignifica-bat, vt hc oratio,homo eit animal: dato prina rideatnonnulli
recentiorum g nomen impo fitum de nouo aliter ad fignificandum &
fignificabat non eft idem nomen,hoe probát exéplo: quia ficut ex variatione
forma artificialis refultat alia arg; alia res artificialis,ita ex variatione
fignification refultabút Confutatis. alia atg; alia nomina. Sed hac
pofitio flare no pót. primaquia ad variationem cius quod de foris de per
accidens accedit nihil debet variari: led nomen & ver bum fignificant ex
volútate,ita go fignificatio deforis accidit nomini & verbo,igitur nomen
per illius varia-tionem non variabitur. Amplius li ad variationé
fi- gnification varientur nomina, ad conuenientia crit eadé. Igitur homo &
Anthropus erunt vnum nomen: Selatio pra quod nemo dixit. Ideo dicendú, ey nullatenus
varia-pris tur nomen:licet varietur fignificatio cú illa fit accidés ipli
nomini. Pót tamen dici variatum extrinicce, qué-admodum colúna fit dextra vel
finiitra iplo animali va riato.nec valet: fignificatio formalis variatur, igif
no-men, quia illa eft fibi extrinfeca, ficut colúna dextrei-tas. Ad rationédico
e variata forma artificialis in. trinfece variatur res artificialis:modo non
fic eft in no minibus. Ad fecundam midentidem o oratio de no uo impofita,
fignificandum nou cóplexú, vimhabet dictionis. Hoc abfolute dietum eft falfum,
quia volo homo fignificet mihi equi bos animal, & facio hác
propolitioné:homo eft bos:patet o qualibet dictio & pars lignificat ve
diétio, igif tota non lignificar ve di Etio. Amplius hac oratio
de nouofic fignificans eft oratiosigitur partes cius fignificát ve ditiones per
dif. finitionem datam. Propterea
dico q oratio pôt im-poniad fignificandum aliquod coplexum de nono dupliciter.
Vno modo ponédo o partes fignificent, ex quarum fignificatione refultet
fignificatio totius, « hoc modo fignificat vt oratio, veargumenta cogunt. alio
modo ponendo q oratio lignificet, primo illud cóplexum de novo nihil de
partibus afteredo, hoc eit non p hoc e lignificatio cius refultet ex
lignificatio-ne noua partiú. Et hoc modo bene dicunt g› ligniti-cat vt dictio,
quoniam fua lignificatio non refultat ex fignificatione partium:quo in cafu non
erit oratio, li-cet partes lint noia:nec propfitio, licet lignificet cople
xú,fed diCtio erit tín,de hac refupra difputatum eit. Everationibus
Enuntiatina uero non omnis, fedilla, in qua nerum aut falfum eft, non ait in
omnibus el:ucluti deprecatina oratioquidem e/ft, fedneg, neraneg; falfacetere
quide igitur relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis cöfide
ratio attinet: cnuntiativa uero prefentis cotemplationis ed. Diuilio
enútiationis, vt Boetius eft autor, hac ra- Cim ao. tione fit fumpta oratione pro
genere, ofonum alia im períecta, vt Plato in lycio: Alia vero pfecta -
perfeita vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enútiatiua, alia nó
enútiatiua qua e; diuifio, ideo p alterú membrum negativum dat, oi fubdiuidentibus
mêbris genus cõe nomé non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve
adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia
interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt
o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa Faree
mane vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie. {pecies expofitor
reducit adtres. on illa quinqueor- dinata lunt ve vnus ex intellectu
alterius dirigaf:quod quidem in tribus fit modis. Primo adattédendü men te,& ad hoc
oratio deferuit vocatiua. Secundo ad re-fondendum voce, & ad hoc facit
interrogativa. Ter tio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex
prefsionem defiderij,&e ad hoc facit optatiua, vel refpa Etu
fuperioris, & ad hoc facit depcativa: autrelpediu inferioris, & ad hoc
facit imperatiua. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré, qua res cú non
multum côferat, fit hoc fatis. Arifto.itaq; mirabile bre uitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit
fere infimul. orationem diuidit, enunciativá definit: intentionéad fpēm
altringit. Diuidés ofonem ait. enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú
aliá elle enuntiatiui,alia non enuntiatiá. Deinde innuens definitioné
inquit. fed illa in qua verum velfallum eft. eft igit enuntiatio oratio
in qua vel verum vel fallum eft. Ve vero clarior effet hac definitio fubfcribit
difierétiá, qua differtà ca teris. Qua in definitione pofita eft, & inquit.
nó aútin cibus eft veri, videlicet vel falfum, veluti depracativa oratio &
cretera id genus oro quidé elt, fed neqi vera, nco; falfa. Deinde abijciés à
contideratione piti ora- tiones nó enútiatiuas aftringit intentione in
fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: & de cólipfa ora tione
locutus eft. Et inquit. catera quidé igitur relin-quantur, ná ad oratoriá fiue
rhetoricã, aut poefim fiue poeticam magis illarum confideratio attinet.
Enuntia-tia vero pátis côtemplationis eft, qua {pés eft ofonis potionhuius vero
ipecies funt affirmatio & negatio. Hac igitur funt que Ariltoteles
breuibus cóplexus eft. Quantum vero ad verba greca attinet verum vel
fal Y mum Cfal fum in enuntiatione funt, in intelle@tu,atq:
rebus.Inre film, bus quidem vt in caufa, gn ab eo quodreseft vel
non eft enuntiatio fitaut vera aut falla. Inintelle@tu vero, quia
intellectus fubie tú oium verorum, & ita in intel leêtu funt vti in
fubiecto.In enútiatione vero ipfa funt vt in figno,ceu fanitas in vrina. Sed
lupradictis emer gút dubitationes, Prima, videf o Arifto.male definie-
rit enútiationé per verú vel falfum: qi verú vel falfum aur funt dfia, aut
propria fiquidé propria nó crit bona definitio.fi dria, túc coftituit
ipés: 8cita pfuasfpésde- finiflet. Secuda cur folú de enuntiatione
eft colidera- tio.Logica.n.eft (cia cois,igit de oibus. T'ertia
depro pofitione tra @af in lib.priori,& in lib.polteriori. git nố hic
de enuntiatione:cuidem fint. Ad primá rádet Ammonius, g enútiationé fignáter
definit p verú vel falfum:quia lunt fines clus:& definitio dat p finé
mul- totiens.totiens. Vel dici pot, g funt ve propria, qua ponuntur loco
differétiz, qua nobis latet, etiá fi fint differentia & confituunt
/pês-genus definiri per pés tieri poteft, vt dicit Alexan. quando vel
differentia latent: aut ge-nusnon fit penitus vniuocum. Ad fecundam
ridet Theophraltus philolophus o omnis oratio aut initi-tuta ordinatad;
elt ad aufcultationé auditionege: aut res ipfas.fi ad aufcultationes ato;
auditiones, fic perti- net ad rhetorem atq poctã, vt Plato ofidit in
phedro. & Socrates plilebo.Si vero ad res, fie enútiatio inflita ta
eft ad librum pofteriorú & ad feiam: & ita crit pro - pria huic
confiderationi. Ad tertiá dici pot, genun- tiatio differta propolitionesm
propolitio ordinatur ad fyllogifmú, & quatenus ordinaé ad fyliogifmú
di-citur propofitio,qua fi ordinaf ad demonfirationem, ca.fed fi ad
lyllogilmum limpir vocat propolitio ab-folute. Enuntiatio vero dicit quatenus
fubordinat in- telleêtui p voces exprimétis de rebus verú falfumúe.
Et ita diffèrunt quia enútiatio eft extra menté ti in vo ce autfcripro:
ppofitio extra & intra menté, Enútiatio etia dici pot propofitio,
& cóclulio, & probicma:pro-blema in dialeêtico fyllogilmo, cóclulio in
demôltra- tione,itêá; dici põt qualtio:& id genus:propolitio nó nili
premifla. Hac ti latius explicabuntur in libro prio rum & pofteriorú
Quarút rurlus forticola, an ciuf-modi propolitiones, tonat, corufcat, lego
& id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere, ego lego,
ego Augultinus [cribo,& dicerelego,icnbo. Ad pri- mam rident nonnulli
forticole quilliulmodi propoli- tiones,necfunt orationes, nec
enútiationes: benetn funt cóplexa quedá in virtute. Mouentur aurem ar- gumento pillarú
vna pars vipote fubicêti eft in men te, videlicet,ego. Alia vero in voce,
vipote pradicatá. enutatio at de ois ofo eft penitus in voce vel
fcripto &c ita ciufmodi effe non poffint orones vel enttiatio-
Cofittio nes. Sedifti delirt penitus. Nã ciufmodi funt in voce aut feripto:
& in eis eft verum vel falfum: igitur enun- tiationes.Hac.n.fuit
Ariftotelis definitio. Neccon- perfe pres tra cos alter arguo:fünt. n.hac
defe derifibilia. Ani- maduerte igit g› ciulmodi funt enuntiationes, qui
verba funt fubiedtü & predicatú & copula, in ilta distione lego, aut
ambulas: eft fubicêtum vi prima vel fecunda: pfone verbi, qua fua natura
illá importat. Elt pradica- qua funt pronomina & prima & fecúda pfona,deno
tatur affectio aliqua fiue pracilio quadá, verbi caufa cú dicit ego
Auguftinus Icribo,denotatur quaut folus fcribo, aut nullusita
benefcribit. Ettúc iuxta hác re bit. Tenet captiúcula perregulá.
Secunda,non valet. ego Augultinus curro-igié ego fum. Ef.n.antecedens
verum vi ego folus curreré: côlequens vero falfums sit deus ego fum qui
fumqi alia a deo vel non funt, vel nonita bene. Bene tamé
concedent hasfum, es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in
pueriles fabulas.Hac.n.rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his
volunt effe intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua
cnuntia-tio pfeêta, &e nó cú fubieto. Si vero volunt effe fubie-Ea
intelligenda.fed intelle@tus pót explicare voce om ne quod cócipit: & non
aliter pót, ( dicêdo ego füm: vel tu es.igitur ez equiualét fum : & ego fum
: es & tu es. Secundo, tunchec effet nugatoria tin deus eft: tín ego
feribo:& id genus, Propterca vide mihi lilliulmo-di ofones non differre
quátum ad ré: fed folú qua ad vium thetoricum atq: ornatum.
quo.n.adveritatem idem eft dicere tu es, & es, ego fcribo: &
fcribo. Ad-dunttamen rhetores pronomina ipfà prima &e fecun de perfo na
nónung emphaticos : veluti illud Maro-nis: Me ne incapto defiftere viêta? fub
illo pronomine me,intellexit reginam deorum,& fororé, & Iouis con
iugem. Similiter Cicero . Ego omni officio ac potius pietate erga te catenis
latisfacio. lub illo pronoie ego: feillum talem qui cum Ientulo familiarifsime
vixit, 8 qui tot beneficia ab eo acceperat intellexit. Addunt igitur rhetores
eiufmodi ad amplitudiné. licet quoad propofitionum veritatem, quam
logicus conliderat, nuila fit differentia. Et hoc modo intelligendum eft
illud Prifciani grammatici.Hae fatis. Ef autem una prima oratio
cnuntiatina,affirmatio, dea Enuncidiona inceps negatio: cater e
ucro omnes coniuncione funt und. aliu eft voafim alie con. Nece/fe
et autem omnem orationem enuntiatiuam efe ex alia vere cam uerbo,
dut cafu verbiquando o hominis ratio nif refm pes ee. e/t, aut fuit, aut crit,
aut tale aliquid adyciatur nequag oras per afpr. tio crantistina fi
Qgaobren an quoddam fe or nonmul ta animal,gre/sibile, bipes ? Neque enim
quis propinque di» Pie: 7. Mete. C- 8. Mar. cuntur: una
crit. Erit alterius boc trafare negoay. Cóucniunt expofitores & graci
& latini,g› definitá Сетьат» enuntiationé nunc dinidat
Ariftoteles: & volút gi Ari-(toteles breuibus duas divitiones enuntiationis
expli-cet:quarum vna eft o enútiationú quedã eft vna lim plex, quedã vná
coniunctione. Quá expofitor eo ap-probarge etiá in rebus aliquid eft vnú
fimplex, vt indi uifibile,aut cotinuu,alteri colligationc,
aurcopofitio ne,aut urdine, Secúda vero vt expofitor ait fubdioi-fio eft
enútiationis vniusin affirmationé, & negatio-nem./Vnderecétiores volút diuifiones
effe hunfmodi enuntiationú qua dá eft cathegorica, quadá hypothe tica.
Cathegoricarú alia eft affirmatiua, alia negativa: Mouct Boetius
dubitatione/vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit pofterior
negatio, An id quodait prima ad limplicé retulerit orationem : vt fe-cúda fit
que ex ofonibus iungif. Hac Boctij quaftio refoluit in tres. Prima verú diuifio
enútiationis p vná & coniunctione vna fit prior diuifione p affirmatio-nem
& negationé. Secúda verú afhirmatio fit prior ne gatione. Tertia vtrú
fimplex litprior côiuncta.Ridet Andivltemi expofitor,è quo accepcrút
recétiores:g prima diuifio. ciatie in visena enútiationis eit per
cathegoricá fiue vnã limplice:& hy ne vnom fit gri potheticam fue
coniunctione vná. Huius ratio ab ex-pofitore colligit, quia prima entis diuifio
eft per vnum &e multa Igiê prima enuntiationis diuifio effe debet
fi-militer. Alia vero diuifio eft potius fubdiuifio enuntia tionis fimplicis.
Sed pace horú dixerim hoc ftare nô pôt, gi eriá hy pothetica fiue cóiunctione vna
eft affir matiua vel negatiua.I giê no diuifio fecunda fiue fub-diifo alerius
uel.P erit, guat fit per firm tiun-&negationem.Secundo errant recentiores
qivolunt hane diuifionem effe per cathegorica & hypotheticá: qi tune
fola conditionalis ellet côiunctione vna. Am mo.n.& Boet.volunt
hypotheticam no effenili duo-bus modis saut conditionalé, aut difiunetam qua ét
pecies conditionalis elt vt dicemus. Vñ & gracehy-pothelis conditio cit.
Igit hypothetica conditionalis eft tm. Ideo dicendú ad primão hac dua
diuiliones enuntiationis aquales couertibiles cú ipla funt. Vt.n.
ens diuiditur per vú &e multa: 8e per adiú Se potétiá & id genus.
Qu oe ens aut eft vnum,aut multa. Similr o€ ens aut adtu aut potétia. Sicois cúciatio aut vina fim-plex
aut coniundta. Et ois etiam aut affirmativa aut ne gativa. Etita equales
funt diuttones euimodito non vna fubdigilio alterius. Dico lecundo hae diulio p
vnam & coniunctione voi no eft diuifio per cathego-ricam & hypothetica,
Nô.n.vt Boct.& Ammo, aiút: cathegoricum opponi hypothetico:fed
côiunêtione vni. Eit aút coniunctio non vno ma:fedinterdi copu latione,
interdüt pe,interdum leco, &e id genus.Ha.n. funtconiunGtione vnz, pn
fol exoritur, diescit : quia coniunguntur coninctione tpis He hmilr, vbi
tu di - fputas, Socraiacet,& aliz eiufmodi. Que ti non funt
hypothetica. Recte igitur Arifto.verbo côiori vtens, dicit catera vero
oes côiunctione fune vna:& non di- ateet secteasoes se apoiteacas Ad
ed am sepondet Animo.g afirmatio lolum ex parte vocis eit prior
Additie expo negatione quia eft limplicior. Nam negatiua enútia. tio
affirmatiua addit particulam negatiua. Expolitor aûradiecit duas alias rones, @
affirmatio eit prior ex parte intellectus, om affirmatiua fignificat
compoli-tionem intellectus,negativa lignificar diuifione. mỡ compofitio eft
prior dinifióne, cú non fit divifio niti compolitori. Sedo ex parte rei:qi
affirmatio lignifi cát efie, negatio non eile modo cile &e vir habitus
na- esfuttio addi turali prior eft priuatione.Sed hacadditiono
placet Prima quidem non: om a pari diuto elet piorcom
politioneginon cit compofitio nili diuiforum. Am plus vt diot Ammo,affirmatio
& negatio quo ad có- politioné & vitatem non difterurit: qu
veragi eli có-polta ex verbo de noie. Lacetilla dicatur divifio reri.
Secunda vero minimesgi privationaturatrpracedic habitü, vt de in
Predacamentis Prius.nicatulus cocus elta viders, & ita fatis
citrelponio Amo.( Boctius เช้นSimplee stiam approbat. Ad tertiai rádet Boctios gi enúcia- enantiatie fie tio implex eit naturatlis/At coniuneta pon eit vna nili pofitióne & quali ab extrinieco. Sed quod
elbra-turale prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé tiationis
limpiscis voitas eltà natura, etiá ipla crita na tura.eadem.n.ratio.eft
entis,&evnius:proponitionis& voius: ve di in elenchis. Sed
Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio
contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compolitione agitur,
limplex enunciatio prior eit, via vero analicica hoc eit refolutoria copolita
eit priortim plici.sed qi Arilto.inilto lib.eltinuentiuus, iurelim
Litera exp. plicem praponit. Inquit igitur, elt aút vna prima ora-tio
enuntiatiua affirmatio. & midens ad particuli, pri ma (ubicribit, deinceps
negatio:gaipla negatio voce polterior eft. Ad particulam illam vna,midens
aitalia vero coniunctione funt vna. ve hypothetica &id ge- Duli Mexi,
nus.Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum di-uifio enuntiationis per
affirmationem &e negationem fit generis in fpecies. Secúda elt dubitatio
Ammonij: Scle tran vtrum hec fiue enunciatio fue propofitio fol
exilten tefuper terram dies eft, fit fimplex, aut coniunctione vna. efpondet
Alexáder qudiuifio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non
ellet generis in ipe cies : qinin generenon eltordo, in enunciatione
elt ordo.Refpondet Ammonius, & Boctius,& expofitor o bene vna
poreft effe altera prior cóparatione facta inter fe vt in numeris patet. Sed
coparatione adter- tin:vtporead coc genus nulluselt ordogi aqualter
funtorones veri vel falli participes, qua eit definitio enuntiationis.& hec
refponfio potelt ftare, Scias tá q Boetius & Ammonius inter afiarmationem
& nega-tionem nullum alium volüt ordinem, nili prolationis &e vocum.
Expolitoralios affert, quos deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Fecundam dici por
quod illa elt coniiGione vna : สุก ablatiuus abfolutus refoluitur per côiunctionem alig, vt dicunt grámatici. Hee de diulionibus colliguné. Expõ fecunda Deinde vt Ammo.& Boctiusintroducút.
Arifto,vo- partisprime lens dilputare de afarmatione & negatione: que funt
{pecies enunciationis.pramititquoddam vulead fer monem de illis, videlicet,
pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, prefentis t pistaut cafu verbi: q'
eft preteriti aut futurt. Tacuit verbum infinitum, ve ait Ammo. Tú
quia principaliter de afhrmatione loque-tur:tum vel maxime, quia coordinatur
cum negativo. haber.hictim co fere cádem vim.Sed dubitat Ammo. curpreteriit nomen.pót.n.imo
conftat enúciatio ex nomine de recto, vt fol oritur:& cafu cius, yt me
tedet fcribere.K efpondet primo hoc efle pratermilium: ga potett effe
enuntiatio, de non ex noie vel cafu nois: vt Kire tum nihil eft: vbi verbum eft
fubicctum. Nul-la ri enunciatio elle põe line verbo, aut verbi cafu. Hec
refponfio non valet: em vérba illa in chuntiatione no mina funt. Propterea
Porhp philofoph", qué Boet.etia (equit, volie pratermififeipfum nomen:
quía verbú eft principalior pars, cum fit pars formalis, quafito-tius enuntiationis
cópictiua Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o eft verbum nomen
mancilcitur. dicitur.n.cathegorica, hoceit predicatiua. Hac eit Exp5
propria. vna expolítio, qua ftare pór.Mihi tá videtur o Afift. refondeat
quattioni tacite, dixit.n.efic enuntiationú alteram limplicé,alteram
comunctione vnam. Lo quis abifciet.ois enunciatio coltat,ex verbo,verbü aut im
portar compolitionem, j fine extremis non efintelli-gere.Igitur ois enuntiatio
di cópofita. Cuirídet q ois enútiatio eft cópofita ex noie &e verbo.Sed di
fimplex quia non ex pluribus enuntiationibus conftat. Veluti hacfi
folesoritr, dies efliqua pluribus conltatoro- nibus.Et tunc
continucilitera fic : licet enuntiationú fitédam fimplex,necefle efi tá oem
oroné enúciatiuá effe ex verbo, aut cafu verbigitur dé fimplex
fimpli-citate oppofita compofitioni ex pluribus enúciatio-nibus. Et hac elt
expórectior.Primo, ga illa particula Apprebatio ex aduerfatiua (ait) poni non
tolet fic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas. Sedo, quia
interpotitio fuif- fetnimis cafualis & nopetinens.
Tacuicautnomen: dú à maion liciga fiqua oro cét enüciatiua line verbo
maxime ellet detinitio.Mo ingt, on & hois to, nitripm eft,aut fui,auv
erit:aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enúciatiua fit. Igié ois enunciativa
ofo ex verbo côltare debet. Sed qni de definitione locutuselt, &
qualtio de vitate cius elt alterius negocij,ideo fe excufat, in-terponit
tamen cólutationé cuiufda falf ráfionis. Di cebant enim quiddã, ep
definitio elt vna, quia partes propinquius iacent.Inquit. quamobre vnum fit
& nó multa animal, grefsibile, bipes. Interponit folutionem
fallam:& inquit,negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Túc redit ad
excufationem, quali dicés, quare Natabile. vnú fit definitio crit
alterius hoc tractar negocij.Aiad-uerfione dignú, vt declarat Boctius &
Ammonius ad vnitatem definitionis elle neceffariá partiú propinqui tatem, quia
bi partes longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit
credat hanc elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad feptimú
&e octauum meta. Etlicet de vnitate definitionis Arift.
Dubitatio. Rifie T bre. tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant
expofitores graci que eit caula vnitatis definitionis Ridet Theo phratus in
libro de affirmatione & negatione, e defi nitio eft una ratione fubicati:
quod definit. Secundo propter partium proximam conftitutionem. Obij-ciunt
contra Theophraft, quia tunc definitio no effet vna per fe, qín ellet vna
ratione fubie ti, & ita ratione extrinfeca Secúdo, quia tuc oia accidentia
effent, vnú effentialiter, quia funtin vno fubicêto, vel faltéca, qua
effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas caulas- Prima elt partiú
vicinitas, Sccunda vero eft, quia in re eft aliquid loco materia, aliquid loco
forma. & cú inter hac nihil medvet , rationabiliter faciunt
dcfni- tionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in,
g-mera. com.4a.dehnitio vno mo- do poteft fumi vtinfirmenum, quo
inteflectus in-ducitur ad intelligendas effentias rerum, de cú infiru-mentum
fumat vnitatem afine. Finis aút eft definiti effentia, iure ab vitate definiti
definitio crit vna. Et fic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt
etipfarei eilentia, que cum refultet ex vitima diffe- rentia liue vitima
forma, que cil vtmusaCtus,ficbe- Dubitatin The ne Ammonius ait.
Sedle res non eft hic tractanda, vi bene Arift. Dubitatetia Themitius primo
pofte. quia videtur @ definitio litenuntiatio,quia eft ipecies pónis immediatz,
vtait Ariftoibi.hic autem vult non elle chuntiationem. Hanc qualtionem
multi fol uere enituntur, quosin pripo polte.confutamus, núc vero
Philoponi expolitioné afferimus, g› definitio pa-teft colderari vt premilla,
&e lic eit propolitio &enun tiatio, vt Arilt.vultibi.Alo modovt
terminus, & lic loquitur Arift.hiciquia vt ficnon eft enuntiativa
ora- tio,fed terminus vt dicit. Elait una oratio enuntiatina, dutes
que unm fignifi cat, aut es que cõiunione eft uns. Plures vero effe que plu ra
co non un fignifieät. Aut ee que fine coniuntione funt. Cim.as.
Expolitores fere ois volunt Arift. diuifionem pre-politam nunc exponere,
quod(vt mihi videtur) (tare non poteft Addit-n,mónulla mébra que non
pdiuilit Primarupt. Confutatin, Ideo Arift.diuifione
enútiationis rurfus núc alio mo do ordit, qua hac formareducit. Enútiationú, alia eft vna. Alia
plures, yna bifaria dicit, hac quidé fimplici- ter,illa vero Fm quid vr
dicemus. Plures rurfus biari: en quide plures, ga piura & no
vnúfignificat, illeplu res, ga line coiunctione multe funt. Huius fecüda di-uilionis prima
pars prima parti prima divilionis ad- Prime duba. uerfat. Secunda
vero pars ciude, fecunda illiufmodi. Referfie Ambigút que diuifo
fit hac? Ridet & lane fapidegpeltdiuifioziquinociinfigaificata/ve i
hodiniderdt in verum, &e marmore, nã lola cnútiatio vna eft
cnun tiatio, plures vero fune vna platione, & metaphorica.
Secundo dubitant quid Arift, velit p enuntiationem vnamlimpir, & vnam fm
qd: quidg; p plures imptir: Secunda dabi. & plures fm
quid. Ad hac Boc.& Ammo.cocorditer rident:& volut eo vnitas &
multitudo referan ad enú Referacãs. tiationis fignantiam. Simplicitas
vero & compo ad vo ces. Ex his fiunt lex côiugationes: quarum dua funt
impolsibiles, quatuor pofsibiles: vt figura declarat. Eninciations
coniugationes fer: quatuor poffibiles, o due impolibiles. Vna
Polis Simplex sgod Lmpof Impolibilis Polis
Cópofita Polis Plures Erita vna fimplex elt, felt vna fimpir,
vt ho eft ro- nale.cit.o.na quo ad lignantiam.Simplex vero quo ad voces
yna vero copolita eit vna Pm gd, vt lifol vritur: dies
eli.Socn.difputat:& Plato legit:& id genus.Hec.n. de vna fm gd, quia
colutione vna. Plures etia bifaria funt:plures copofitz contra primú
mébrú, vt g incon-lucta funt tales, vt Socr.legit, Plato difputat, Arilt.mo
uef.funt.n.plures & copolite fm voces. Plures vero fim plices, ve canis
latrat. cit quide plures lignatu, vocibus vero limplex.Simil mo hec alax
pugnauit cú hectore. Multin.fuere aiaces. Hec quo opponit ad fam mem-brú.
Sedhuic obiicit
expofitor. Frimo, quia p difun- Ctione:qua interponit vi diltinguere
inter oration€, 9 hignificatvni, & gelt voa coniunGione.
Secuco,quia fupra dixit, gp elt vnú quoddá:& nó multa aial
grefsibi- le bipes:qd vero elt cóiunctione vnúo eft vnũ, & nõ
multa, fed eit vnù ex multis.Sed ifterones friuole funt. Prima qdem, ga
non difigit inter vna, & coiunctione vna:led inter vnatimplicé, g
tubintellexit in primomé- bro, & vná coniúctione. Adicam dico upenes
aliud accipif vaitas enútiationis, &edefinitionis hic & ibi. Qía
hic fumit vnitas à fignificatu:multitudo etia. Ibi aliter vdisimus, Terio
dubitantois homo vel equus cur- rit, eft vna fimplex, aut vna copofita.
Similt Plato athe-nielslapiés achademic citin lycioreftvna limplex, vel
vna copolita. Silr ois homo lieft bos mugit, & Soc. & Plato difputant.
funt nevna fimplices ? an vna cópoli-tel Quiced velnt Boctius, Porphyrius,
Ammonius: & alij.dico g glibet harum eft vna fimplex. Nã verbum elt
vnu,a quio lumit vnitas enutiandi. Prima gdem vna de fubiedto
difundto,iccúda yna de fubicto copofito. Tertia vna de fubicito conditionato,
quarta vero vna20 PERI HER de fubicito copulato, & ita qualibet
eft vna fimplex. Quantum vero ad verba attinet adiccit (& no
vnü} quali dicatpropolitio fine cnuntiatio eft vnalimplex, deplures
plures qua fignificaneplura, & nen vnum. Q in vt Ammonius
inquit, funt enútiationes plures de aliquo vuiuerfali, vt aial grefsibile bipes
eit homo. Po teft enim refolui hac in plures, fed quia continent fub aiali,
funt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enun-tiationes. Aut dici potvt
Porphyrius philofophus ait hoc effe di tú ad differentiá enuntiation, qua fumüt
definitione profubieêto,aut pro pradicato. Na viden- tur multa lignificare:fed
in re vera vnum lignificant. Esenciatio fi Nomen quidem igitur aut
uerbum didio fit folum. Cum non contingat utis, qui noce aliquid fignificet,
fie dicat, ut cauntier: fue interrogante aliquo, fiue non, fedipfe
profert. Videtur o Arifto inferat ve per particulam illariua defignar.
Videtur vero gy dubitationé excludat, vé per Icriem verborü haberi pot.
Eft.n.dubitatio talis, quia dietum eft enuntiationem effe nã ab vnitate
fignifi- catus, fed nomêaut verbú vaú fignificat. Igitur enun-
tiatio vna crit nomen vnum, aut verbum vnum. Sol-uit de volt ‹pis, qui profert
nomen aut verbum vnum, vum dicit,& is ctiam qui protert enuntiationem
vna, vuû dicitiled non codem modo. Nã dicens nomê vel verbú,dicit
nú prolatite, & non enútiatiue, at is qui enuntiatione vá dicit, vnú
dicit enuntiatiue. quatc- nus enuntiat voú de vno,aut remouet vnú ab vno.
Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbú dictio fitlo- ในกระcu non contingat vtis qui voce aliquid igniticat fic dicat vt
enuntict, led contingit ve lic dicat vt profe rat tifadiecit fue interrogante
aliquo, fue non inter- rogante aliquo,g qui aliquid nomine aut verbo fi- gnificat poteft
dicere vt enuntict aliquo interrogan- te, vt fiquis
petat quis hodie venenum bibit, & refpon deatur Socrates. Patet e is qui
dixit Socrates : enuntia uit:8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla
pretuiffet interrogatio,dicens Socrates em,no enuntia uit,fed protulit ditaxat.
Igitur enuntiatio
differtà verbo hue noie: gi enuntiatio fem p fignificat viium de vno
enuntistive, live precedat, liue non precedatin-terrogatio. At nomen vel verbú
pót enútiare nú de vno folú precedente interrogatione. Propterca air củ non
contingat vis qui voce aliquid lignificat, fic di. cat vt enuntict, line
interrogate aliquo, fite nullo, hoc eft vt cnuntict in omni cafu. ham no
nifivbi prace-filet interrogatio, fed ipfeita dicit ve in omni cafu pro ferat
nû. Er lie differt enuntiatio a verbo & nomine, Harum ucro hee qui lem eft
fimplex enütiatio, sclut que Tutto imples, aliquid de aliquo, aut aliquid
ab aliquo enantiat, illa ucro ex his copofita: acluti ca oratio quedã que (ane
coponitur. Ammonius vule vt Ariftoteles fubdiuidat eas enun tiationes, quas dicimus
aut interrogante aliquo, aut quas volumes dicere pernos iplos. Sed hoc eft
repcte-reidem pluries:quod non conucnit Ariltoreli. Melius igitur divilionis
pradicte membra exponit per exem pia. Er inquit, harum vero hac quide eft
fimplex enun-fiatio, velut per exempla ca, que aliquid de aliquo, aut aliquid
ab aliquo fubaudi cnuntiat. Hoc eft ve affirma -tio:Socrates elt
academicus,aut negatio, ve Socrates non eft timidus. Illa vero cit qua ex his
componitur, quod trifariam ft,vt Ammonius ait, videlicer, aut ex
ambabusaffirmationibus,aut ambabus negationibus, ved exalter afirmatione,
altra negatione. Cuius ext-pltim fabdit, &cinquiti veluti es oratio
quizdam, quz fane coponitur, fupple ex duabus affirmationibus, ve Aiax
pugnauit, de Vlyxes fürit. Ex duabos negationi-bus, ve Plato non eft crudelis: & Socrates
non eft aua-rus.Aut ex vna affirmatione, 8e altera negatione, vt Pla to eit in
lycio,& Socrates non in academia: Et ita per exempla paret divilio, &
membra diuifionis. Eft antem fimplex enuntiatio nox, que fignificat
aliquid Iniciato quid «/Je de aliquo, aut non e/Je, modo quo tempora
diftinguitur. Alexander aphrodifius exponit Ariftotelem núnc Cin
35- definire fimplicem enuntiationem, qua ait definifle p Ipecies.
Argumento, › enuntiatio no genus cit illari, led veluti aquivocum quodda. Hac
Afpalius ratio- ne hac confirmat:quia eo modo hic Ariftoteles enun-
tiationem definit, quo primo priorum deferipfit pro- pofitionem: ed illic
fic propolitionem defcriplit, pro-pofitio eft oratio affirmativa vel negativa
alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquotigitur de timiliter enun-
tiationem defcribere debet. Obijcit autem Ammo- nius (vt fumit
expofitor) quia ftatim Ariftoteles defi- niens affirmationem &
negationem ponit enuntiatio - nem, & non vt differentiamigitur vt genus. Et
ita non a quitocum, fed genus crit illarum, & per confequens non definiendú
per ipecies. Porphyrius philofophus cum Alexandro volens Ariftotelem definire
enuntia-tionem fimplicem,ait non per ipecies dehnifle, led per virtutes
affirmationis de negationis, efie enim &e non ,elle non funt pecies
enuntiationis, fed virtutes affir mationis & negationis. Sed obijcit expofitor, quoniá
ficut in definitione generis non debent poni ipecies; ita neg; ea qua
funt propria /pecierum: modo lignili-care effe, proprium elt affirmationi,
fignificare no ef-fenegationi. Igitur non debent poni in definitione ge
neris. Boetius autem quafihacmifcens vult Ariftote Espibe. lemfimul
diuidere enuntiationem fimplicem, &e defi nire, vt intelligenti pateti&
longis verbis exponit. Sed hoc expofitor refellit, quia fi enuntiatio
fimul de finiretur & diuideretur, cum mon videatur definiri ni- fiatt
perfpccics, aut per virtutes fpecierum, necella- rio cum dicere oportebit
vel vt Alexander, vel vt Por-phyrius. Com Ammonio vero expofitor fentit,
&enos quod; fentimus, videlicet, gi Ariffoteles enuntiatione fimplicem
in duas differétias diuidit, vtinde definitio- nes pécicrum näcifcatur.
Etinquiteft autem fimplex enúriatio, lupple omnis,aur que fignificat aliquid
ef- le de aliquo,quod ad affirmationem atunet, aut que fignificat aliquid
non eile de aliquo, quod ad negatio-nende ne intelligatur folum de prafenti
tempore, fub-fcribit modo quo tempora diflinguuntur, quafi dicat; etiam
in aljs verbitemporibus. Hac vero diuilio vt expolitor fentit non
eft enuntiationis in /pecies, led in differentias pecificas, non enim ait quod
enuntia-tio eft affirmatio vel negatio, fed vox lignificativa cius quod eft
effe, qua eft dificrentia affirmationis fpe cifica, vel eius quod eft non effe,
que tangitur diffe- rentia pecifica negationis. Propter hac ex his
diffe- rentijs lubfcribet fpecierum defcriptiones. Hac eft
optima expofitio. Verum illa Alexandri non eft de-rifibilis? Propterea primo
debes fcire Alexandrum voluifle enuntiationem, non effefimpliciter aqui-
uocum, fed analogum, quafi analogia genus dicitur analogum fpeciebus
Septimo phyfica aufcultationis. Hac enim analogia perfecti ad imperfectum ratio-ni generis
non repugnat. Viterius animaduertendú enuntiationem pofle bifariam definiti a
prioris, &e fic in pracedentibns definit Ariftoteles nullas in eius
de-finitione addendo (pecies:aut à poiteriori. Ethoc du-pliciter.vel per ea que
intellectui cópetunt: & ita per §pecies acceptas à vero & falfo,
fuperius deferipfit,aut per ea que rebus conueniunt, &e ita delcribit
hicicú di cit enútiatio fimplex vox eft qua fignificat aliquid de aliquo
elle,yel non elie. Vox enim loco generis accipi tur.Significans efle vel non
efle loco differentir à po- Ateriori accepta Et hac elt mens Alexandri:
que mul. cum confonat littera. Tuncad argumentum con- tra
Alexandrum patet folutio. Non enim negat enun tiationem eflegenus:fed ait
efle analogum etiam. Per hac patetrefponfio ad illud contra
Porphyriú. Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no
quidé in definitione propter quid, fed in de- Defenfin Bar,
finitione quia:& à pofteriori. Similiterad illud con- tra
Boetiú, fimul.n. definit vt notat illud genus vox, & diuidit ve notat
differentia acceptaà virtutibus, hoc De bypatbetis elt proprijs
fpecierum. Credunt forticola Ariftote- củ. lem per fimplicé
intelligere categoricam, & per com Prima pofiria. ciatio fit
catbe garica, velbye que in, gua a pluril categorias confans
con.- etetica. sunctione vna eit: de quonia plures categorica, pof-funt
coniungi pluribus modis, {queda enim per notá caula, vt quia Socrates bibit
venenú, fuit fortis: Aliz moritur, fepelitur. Et pofiunt etiam
coniung: plures categorica innumeris fere modis; Ideohypothetice fecundum iltos
funt fera innumera. Quare ois enun- tiatio, qua expliribus
conflatenutiationibus el hy- pothetica.Et fic induêtio, exemplum, &
enthimema: atgi fyllogilmus:&e catera id genus cum fint
enuntia-tiones cóiunte per notá illationis, omnes funt hypo- Secundapõ,
thetica. Alij ponunthypotheticarum, fex fpecies li- ue modos.vt
conditionialem,copulatiua, difiunGiua. Tertia põ. caufalé,
téporalem; demú & locale. Sorticole côiter aiunt tres elle
fpecies vt conditionalem: difiunctivá: & copulatiuá. Nam cateras ad has
reduci contendút. Theophraftus vero & Eudemus volunt hypotheti cam
oêm efle condicionalé:& nullá alia nifi conditio-nalem. Huic Boetius
affentit in primo Topicorú fuo-rum.vbi air conditionales propolitiones efle,
quas gra ci hypotheticas vocant. Amplius in libro de fyllogif-mis hypotheticis
ait conditionalem enuntiatione for-tiri lpeciem & nomen ab hypothefi grace,
latine con ditio, fue fuppofitio.R urfus Ariftoteles in libro prio- rum
vult ex hypotheticis enútiationibus coftitui fyllo gilmos hypotheticos. Conftat autem per ipfum non nifi
ex conditionalibus. Conditionalium vero graci duas tradunt fpecies
altera eltquam continua vocat. Velifol exoritur:dies eft fuper nos.
Altera eft: qua di-continuá nuncupant, ve vel tu es, vel tu non es. Oua
conditionalis difcontinua appellatur, quia pofita con ditione ep non fis,
fequitur te non efle, cumitag; nihil ponat inefle, conditionalis eriticum inter
partes difun Al formi que Etio fignetur difcontinua appellatur.
Haceit mês om Riends, nnium gracorü:& Bocti) vbigi.Qua ratione
fit vehy pethetica 6t lpés enútiationis coiunta. Nec cathego rica dividit
côtra hypotheticam,fed potius cótra conjuntã. Confequéter videridá de pebus
conditiona: De peba con lis cótinue. Et dicendum vt Ammonius & Boctius fen
tiunt péspofie enumerari aut penes qualitaté cathego ricarum è quibus conftat,
aut penes formá, que habe-tur ex vi notz conditionis. Si penes qualitaté
partiú: tunc funt quatuor (pecies. Prima ex categoricis am-babus
afirmatiuis:velutifi fol lucet, dies cit. Sccunda ex ambabus negatiuis, vt fi
non eft animal, non eftho mo. Tertia ex prima affirmativa, &e fecúda
negativa,: vt fi dies eft, nox non eft.Quarta ex prima negativa &e fecunda
afirmatiua, vtfi dies non eft, nox cit. pecies colligantur ex nota conditionis.
{Ouonihac nota fi.poteft trifariam fumi.aut pure códitionaliter. vt fi haberé
homeri, fuderé: Autpermißiua, vofiad me veneris, mille bafia dabotaut illative,
vt fi dies eft, fol lucet harum trium tertia eft in viu gracorum: & proprie
conditionalis continua. Confequenter quaramus penes quid atréditur
af-firmatio vel negatio códitionalis côtinuz. Refpon-dent recentiores o nota
conditionis eft tanqui forma conditionalis: quoniam è forma qualitas profici
fcif ficut è materia ipfa quantitastiure ea dicitur negati ua, cuius
conditionis nota negatur. Contra vero aftir-mativa, cuius conditionis nota
affirmatur. Qua ratio- nefievequalibetharum fitnegatiuanon fi dies
eft, follucet.Itemá; non dies eft,fifol lucet. Rurfus, dies cit:non
filo/lucet. In his.n.oibus/emper condicionis nota negatur. Boctius vero in
libro de hypotheticis PiBu. affirmatione vel negatione nacifcitur ex
qualitate con fequentis. Vult enim códitionalé effe negatius etiam fi folum
confequens negatur. Hac enim eft negativa. ficit.a.nonel.s.Hac affirmativa.f
nonel.A.c.s. Hec
politio perfuaderi pot, qín vis tota hypothetica eft in illatione
cófequétis.Hypothetica enim nihil po nitinefle, fed folum afferit illationem. Igitur negatio
debet effe fupra confequens, vbi vis illationis habetur. Sed dices quales
crunt ha, non fi dies eft, foleft or tus.& foleftortus nófi dies eft. Videtur mihi ep etia
Dulltitie. ciulinodi funtnegatiug gm in omhnibus ijs vis negatio-
Contra Boe. nis exercetur fupra colequente ipfo. Et pro tanto funt
negative pro quanto colequens negatur. No perhoe quia conditionis nota negatur,
fed quia côfequens ne gatur lequi ex antecedente. Quare apud Boctium po-telt
conditionalis effe negatiua trifariam, aut per códi tionis negationem, aut per
negationis prepolitioné: aut per negationem confequentis. Et de
quantitate agamus Sorticola tenent conditionale continua nul- lius
effequantitatis , gri quantitas eft conditio fubie- ei. Modo illa non elt
ex fubicto, & pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter teneri
potelt omné Conditionalem continuam efle quanta Ex hoca quan titate
cólequentis. Vocat coim Ariltoteles fyllogilmo rum hos vniuerfales,hos
particulares. & hocà quanti-tate conclufionis.Igitur cum conditionalis
cotiuua fit vti enthimema poteft dici quanta ab cius cófequentis quantitate. E
tita hac vniuerialis, cuius confequens eft vniuerfale, illa particularis fimili
ratione. Hac qui-dem erit vniuerfalis, fi ois homo currit. ois homo mo-
roes feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem
effe veram, cuius an tecedens & confequens funt imposibilia: aliquã effe
fallam, cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem
diuidi per verum & falfum. Pro hac politione arguút recétiores,
cotradictoria diuidunt omnem enuntiatione fm verum & falium. vt
dicit Ariftotcles primo priorum: fed conditionalis continua habet
contraditorium quia poteft negari & affirmari Igitur eft vera vel
falfa. Secundo cuiufli-bet côtraditorij altera pars eft vera &e altera
falla. Hec funt contradictoria, fi dies ett, fol lucet. Etnon fi dics elt, fol
lucet. Igitur altera vera: & altera falla. &e gdguid dicatur, equitur
conditionalem effe veram velfallam c Confitatio. Sed hac pofitio
ftare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit vel no
eit, oratio di- citur vera aut falla. Sed hypothetica nibil ponit in eile,
aut in non effe. Igitur non poteft dici vera vel falfa. Propria ph.
Propter hac videtur mihi faluo meliori iudicio q nulla hypothetica debet dici
vera vel falla, fed bene ne ceflaria vel contingens, quam quidam vocant bonam
aut mala.Reêtius necellariam aut contingente, fiue impofsibilem. Et hac eft
intentio Boeuj vbigi- Tune ad rationes dico. Ad primum, e
contradiêto riu in hypotheticis non cadem ratione accipit veluti in
Simplicibus,na in fimphcibus deltruit veritatevel tal- fitaté, hoc elt id
quod eft in re, vel quod non eft in re. In hypotheticis vero deftruit
necesitatem vel impolsi bilitatem illationis. Etita contradicere eft fereequivo
ce. Tuncad formam dico, g› contraditoria diuidunt verú & falfum in
cathegoricis, in hypotheticis necef faria aut impofsibile. Et hoc fatis.
Similiterad fe- cundá.contraditoriorü enim denecesitate alterum eft
verum,alterum fallum in cathegoricist in hypothe ticis vero alterum
necellarium, alterú impoisibile, vel cotingens, hoc eft non
neceffarium. Et
de conditio- nali difcôtinua agamus, quag; difiuntiua dicif. Et pri mo
dicamus o qualibet pars difiunêtiua pot elle con fequens, ve dicédo tu es, vel
tu non es. Quâqua Boctius veatur vig; duabus difiúctionis notis, veveltu
es, vel tu non es. Et hoc ve notetur nihil poni ineffe, nec in pri ma nec in
fecunda. Dico igitur o quelibet poteft effe confequens. Nam vel mouctur vel
quiefcit, pot habere confequens altera indifferenter, quia fi non mouctur
De fimuis quiefit, & fi non quiefit, mouetur." Tune dicendum
e difiuntiva folú eft negativa vel affirmatiua per ne- gationem
propofitam. Caufa eft, quia quicquid renea- tur pro côlequente,
intelligetur negatum, quod nó eft De quantite, ita in ipfa conditionali
continua. Secúdo dico gali- qua eft vniuerlalis, &caliqua
particularis. Sed nonà quititate alterius enuntiationissled quoties amba funt
ciuldem quantitatis. Caula elt, quia quelibet pot elie
conlequens,vigitur lenuetur quantitas confcquentis, Dabitatis. oportet
ambas elle ciulde rationis Sed dies velom.
ne.n.eft:velquoddam.a.efe quanta elt ifta. Dici potelt go hac eft alcuius
quantitatis in fe, quonia ilius cuius quantitatis eft ab ea cathegorica, que
fumetur pro con lequéte: Actu vero eft difiunêtia yniuerfalis, de
difiua Etiuz particularis. Nechae côtradicunt. Pôtenim vna met
difiúctiva effe vniuerfalis & particularis hac ratio- ne, videlicet,
difiunctiva vniueríalis, & difia ctia par- De sariste,
ticularis. De
veritate vero & fallitate ita fentienda, veluti de coditionali
côtinua. Cum.n.difiúCiuafitcon ditionalis, & conditionalis nihil ponat
ineffe, in re nulla erit vera, 8e nulla falla, fed qualibet difiútiua crit aus
necellaria, aut impo/sibilis, liue pofsibilis fue contin-gens. Et
deaquipollentijs negatiuarum dicamus. Et quamquá recentiores mula dica,
mihi videur, e negatio prapofita toti coditionali aut nota conditionis, aut
côfequenti, facit aquipollere copulatiue coltitut ex antecedente côditionalis
& oppofito confequentis verbi caufa, fi homo eftanimal eft. Siquis praponés
ne gationem dixerit non fihomo citanimal eft. Hác vult fignificare homo
eft,& non eft animal. Similiter hac, non fi dies eft, lol lucet, equipollet
huie, &e dies oft: & fol nó lucet. Huius caufa elt, ga coditio non
ponit inel-fe, copulatio vero ponit, quare cum particula negativa neget
conditionem, ponit copulationé, & cum neget confequens, vi elt vis omnis,
ponct etiam oppofitum confequentis. Simil ratione no vel mouetur vel quie-feit,a
quipoliet copulativa conflitutz ex oppofitis am barum cathegoricari, videlicer,
& no mouetur, &e nó quiefcit. Caula vero quare negatio prepofite
difüdi-ua facit aquipollere vel ponit copulationem, ele quia copulatio ponit
ineffe. Verú ponit contradictoriú am barum partium, quiain cifcontinua
qualibet pars pot effe confequens, ideo cuiuflibet partis oppolitú debet
ponere. In continua
vero eit confequens determinaté ideo ponit folum oppofitú confequentis.
Hacdeliy-potheticis ad mentem grecorum expofitorim volui dixille. Nam ab
Ariltotele pauca habemus. Sorticola vero, cum itudiorum fuorum finis fit
oftétatio,nó cf-de, muita dicunt in confuhone veritatis, que pretereun da
funticum in illis non fit felicitas, neqad falicitaté praparent
Deenuntiationibus vero coniun Ctis grure gula funtinnumerg, non cit núc
prefens pertractatio, verum fi ocium dabitur, ad importunitates forticola-
rumatg: captiunculatorum interdum occurremus:ac quid
peripateticeficientiendun circa corum captine culas & cauillos
exponemus. Nunc vero de his lit di Ctum intantum.Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus, animo
intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus
agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious
about dialectis?– Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”, Grice, “Dreaming” – Malcolm,
“Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nigidio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of
Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is on the
wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare, and
Cesare sends him into exile. He is particularly interested in Pythagoreanism
and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises in the mystical
side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma –
Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio
Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo
consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella
guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo
vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama
notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei
romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di
cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di
Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come
Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di
Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita
al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che
permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di
fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su
filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane,
etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale
dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al
padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il
mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii
grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una
monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un
tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera
simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche.
E dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e
astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale
etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia
l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. Uno
scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri. Si cita di lui
il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De
hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che
sembra fosse un’opera di geografia astrologica. La "Sphaera" di
lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera
graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una
"sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri
popoli. Probabilmente conteneva predizioni astrologiche. Le tendenze
mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in
tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo.
Nigidio
Grice e Ninone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua causa -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo
italiano. One of the leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He
claims that the Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to
have a knowledge of their secret teachings and published it in an essay.
However, according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his
essay is ‘a work of pure invention.’
Grice e Nisio: la
ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Samnium). Filosofo
italiano. A pupil of Panezio. Nisio.
Grice e Nizolio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Brescello).
Filosofo italiano. Grice: “I read Nizolio and it’s like reading myself!” –
Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico “Observationes in M. Tullium
Ciceronem” (Brescia), il Thesaurus Ciceronianus” (Venezia, Facciolati) e il
“Lexicon ciceronianum” (Venezia, Facciolati). Ha una lunga polemica con MAIORAGIO
per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata con la
Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'Antapologia e si conclude con i
“De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos”
(Parma), scritto contro gli scholastici, che interessarono Leibniz al punto che
questi li fa ristampare premettendogli il titolo “Anti-barbarus Philosophicus,
sive philosophia scholasticorum impugnata” con una prefazione ed una lettera a
Thomasius sulla dottrina di Aristotele, Francofurti (Roma, Bocca). E chiamato
da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle critiche di Ramo alla logica
dei lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza di quella logica un
pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo scopo la strada
maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente nella struttura
grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare della buona
filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona filosofia
consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi quei saggi
filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti che si
trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la
grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa,
dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza
occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il terzo
principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL CENSORE,
o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con il quale
il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza – Grice:
‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è il
libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque argomento,
in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non devono essere
dunque CICERONE o ANTONINO nostril maestri, ma i cinque sensi,
l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle cose.
Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la chiarezza
della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel discorso
oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid unnecessary
prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che non hanno
realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la idea
platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è costituito
soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non attraverso la
loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e continua
successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una singola
realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma
comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una
vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare
di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione
intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il
singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione
dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare
dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla
dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo
i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace
e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, “Testi umanistici su la retorica”;
“Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano,
Bocca N. in M.T. Ciceronem observationes Caelii Secundi Curionis labore
et industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae.
Ejusdem libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam
Ciceronis consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus &
auctus”. Dizionario Biografico degli Italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano,
Cosmo, Battistella, umanista e filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento
scientifico moderno, Como, Meroni, Rossi, “La celebrazione della
rettorica e la polemica anti-metafisica del "De Principiis" in La
crisi dell'uso dogmatico della ragione, A. Banfi, Milano, Bocca); Fink, Logica
aristotelica Universale Idea. Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. G. Calogero, Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Grice: “I was
slightly disappointed when I got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece,
the “Lexicon Ciceronianum;” while Urmson liked it, I found it more to be a
common-or-garden dictionary. I did not care for philosophical concepts, seeing
that he starts wih “A”, ‘the first letter of the alphabet,’ as N. defines it.
So, I went straight to the third tome – heavy as they are, and reprinted in
London for use at public schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As
for his advice as to deal with the longitudinal unity of philosophy and his
rhetorical, ‘Plato is my friend but a better friend is truth,’ I can’t believe
it coming from one who dedicated his life to TRACE every little ‘diom’ (slogans
as the London edition has it) uttered by Cicero! WhileI would expect praise
against the barbarian scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical
coming from Leibniz. By N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The
scholastics actually saved the books from the flames of the Longobards and the
Eastern Goths (earlier on) Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et convalUbus,
ccenacolis sublata atque suspensa.1. de Div.. Certahant, Urbem
Romam Uemamne vocdrent, Post led. in Sen.
Roma arx omnium terrarum. De
Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu constituta. 1. de Onu. Roma
domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum imperii et gloris. Roma
luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul sexennioj post
Veios captos a GaUis capta.
Rome et reges augnres, et postea privati eodem sacerdotio prsediti, lem
pub. regionum autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate
libertas, tam infinita hominum centia. Redu Romam Fonteu cansa
.Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani.
Pro Leg.Man. Romani
pn»ter ctiteras gentes laudis et glori» avidi. Romani cives facti Siculi lege Antoni
L9. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani
serius quam GffKci poeticam acceperant 1. Di.
Romaia nihU in bello sineextis agebant nihU d<»B& sine auspiciis.
Off. Romani Toscoianos, Equos, Volscos, Sabinos, Hemicos, victoria parta non
modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem acceperant Pro Mur. Romani tempora
voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc. Tus. Romani omnia aut invenerant per
se sapientius, quam Greciaut accepta ab illis fcicerant meUora. Div. Romani
omnibut rebus agendis, quod bonnm, faustum, felix, fortunatnmque esset prefabantur.
Pro Cnc . Romani eos vendere solebant, qui mUites facti non essent 3. de Ora. Romani minos qoam liitm
Utteris stndebant Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis Carthagienses
vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet consuetudo. de Or. Romanoram
ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium prsstiterunt
Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc. Apod
priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor
est Cato in Originibos, ut
deincepi, qui aocobaient, canerent ad
tibiam virorom daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. 1. de
Nat Romana RO
JaiioteIbBoa«t,<f«aUs8oif2li« $.S.Fo^ paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin
anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn
pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo
Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae
oommendare. Romano more feqni.1. de Orat et Ver. Romani ladL Att. Nu Bc Romanas
res aedpe. Romilla, iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam
esse £se-tnram. I^,Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos immortales benerolentia famaqae sastulimas.de
L.
Roawhis post exoessum suum dixit Proculo Jolio, se
deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia eo
loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos lopiais inhiantem fuisse meministis.
OfF. Peccavit igitar, paoe vel Qoirini toI Bomali
du Eerim.1. de D. Romuhis puldier. Ih, Romulus urbm auspicato
oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam optimos augur feit
de N. Romnlos auspicBs, Numa sacris
constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii. Off.
Romjlus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem
interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S.
Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et
Remus ambo augures fberant Roorali stataa decoelo taeta. Som.
Ronmlo moriente deficere sd bommibas eatingaiqao visus est.
Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque
philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum
et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva,
adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia,
nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra
pseudophilosophos. De nominibus propriis et appellativis, tam cole&li vis
quam simplicibus non cola Letivis, ac decorum proprietatibus et diferentis,
contra philosophastros. s.De us)0(sem (falsis. De denominativis reliquis
capitibus Ante predicamentora, vel supervalaneis vel. Universalia realia etiam
five raese concedantur, tamen non fuisse facienda quin. Que numeross ed
velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura quam quinque hoc est, septem veloflo,
adiecto communi, simils, contrario, arque substantia. De nominibus substantivis
et adiectivis. De eorum proprietatibus ac diferentis, contra pseudo-philosopos.
De generaliomnium rerum divifione oratoria pera & deila
pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce universi anni versalis et in summa
de falsirate universaslium realium ut vocant. Universalia realia nec propter
scientias artes quetradendas, nec propter syllogismos eocateras argumentations
formandas, nec propler predications superiorum de inferioribus faciendas
necessario ese ponenda contra pseudo-philosophos. Universalia realta vere in
rerum naturaese non posse. Co propter canone c, uirea Etiffime dicunt
nominales. Cintra sultam illam realium opinionem de universalibus realibus,
quorum rationes omnes plusquam in aneslabefaltaneur. um suffi.ientia ,quamvocant.
De toris,& corum divisionibus, compositionibus quepere, contra falsissimam
dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere philosophico e oratorio genere
et de vera eius definitione. Contra falsum genus dialecticum et falsam cius
definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus definitione, contra falsam
speciem dialecticam & falfam illius definitionem. De vera diferentia et
vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem adversariorum vel
falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin constanter definite et
simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis questionibus in
universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris et dialecticis
falis. De homonymis et synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus
eoru mufus, contra ftultaila aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo
unum et summum et verum á generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum
sex autem s a transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia Aristotelis et
tria Laurentii Vallaele falsa. Quam ob levem causam Aristoteles CATEGORIAS fore
predicamenta decemponenda ex iftima verii et quam non re et tetriatantum
Vallusta rucrit, fimul quopactonosar borem generica ma Porphyri analonge
diversam, faciendam arbitramur. GENUS rerum vere in duasrantum species divide
in s ubstantias et qualitates, omnia alia accidentium dialecticorum
pradicamenta sub qualitate generalitan quamo verascius specie sper econtineri.
Simul de falsa universali. De o sem. De qualitale generali et omnibus e iustam
comparata quam absoluta speciebus, praferrimquede qualitate speciali, quantum
different a speciebus accidentium dialectic corum ,& fingillarim quærario
de causa diversitatis. De nominibusscientia“ arris quid APUD LATINOS communite
rad proprie significe ne, u quormo dis virum que corum accipiatur et deniq;
quibus differentis attes elit entia mnter sediftinguantur, contra falas
scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generalı scientiarum do
atrium divisionenoftrarera, et pseudo-philosophorum. De errales Peripateticorum
in generalı philosophia divisione admflis. Dialectica minter scientias
ariesnecut universalem nec ut particularem ul lumomninolo cum habere pose sed
tanquam non modo falsams ed etiaminutslem de sua pervacuam ex omni artinm do
scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias Cartesnecut
universalem nec ut parricularem ul lumomninolo, um habere pofe, sed tanquam
partim falsam, parliminutlım, partim super vacnam ab omni artium scientiarum
numero removendam. De comprehensione universo rufmingularium vere philosophica
de oratoria et simul de abstractınoe universalium pseudo-philodophia et BARBARA
contrafallam Ardostotelis doctrinam falsode ceniis, abstrahentiam non
efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem, grammaticam sub se
primo, deinde reliqua somnesarl es fcrentias vere continentem, iumpartese jusmajores
breviter ex ponuntur omnes, ở cidem, quaà Pseudophilosophis unique fuerunt ablatare
stituuntur. De sophisticis Elenchis ab Anstoelein Rhetoricam non recte
introductis et delio brofophifticorum elenchorum quid senciendum, Que et quot
fintea, quarequiruntur cascientise artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum
dividio definition o distinclıo, contra falfam de eisdem rebus
Pjendophialosophorum doctrinam. De utilibus & veris argumentis de que utılı
vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum modo, conira partım fulumpurtom
inutilem ipsorum doctrinam ab Aristotele traduam in libro Topicorum. De
definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum veris.
Pseudo-philosophorum falfis, códealis, queab Aristorele falso vel inutiliter in
libro Sepiépenveids traduntur. Dentılıbus et veris argumeniationibus, de
queutilido verocarumufu, contrainu tolemdo vanā Aristotelis decudem rebus
doctrmam traditam in libris Analyticorum. De falfa demonftratione &
falfafcientia & falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili
falsoque posteriorum analyticorum libro. De vanitate eorum, quaà recentioribus
dialedicis appellantur parva logicalia. Libros qushodiefub Arif. Nomine
leguntur plerosque non vere eflesri Roselicos, sed subdititioscon adulterinos,
contra communem pseudo-philosophorum opinionem. De Platone, Aristotele, Galeno,
Porphyrio. Deomnibus Arifterelis interpretibus Grucis, LATINIS e Arabibus:
reviter quid fentiendum re&te philosophaturis. De ratione philosophandi o
de corrigendis instaurandisq; Philosophia studis, qua nunc maxima exparte
perveriae corruptfaunt. Marius Nizolius stammt aus
Brescello in der Provinz Reggio d'Emilia.^)
Als
Geburtsjahr wird allgemein das Jahr 1498
und als Todesjahr 1576 angegeben. Indes
ist diese Be- rechnung nach der
Untersuchung Batistellas auf Grund in-
schriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu
spät ange- setzt. Demzufolge lebte Nizolius
in der Zeit von 1488 bis 1566.2)
Ueber seine ersten Lebensjahre und Studien
ist nichts bekannt. Im Jahre 1522
finden wir ihn am Hofe des Grafen
Gambarra, eines eifrigen Beschützers und
Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete
auch Nizolius seine erste, im Jahre
1535 abgefasste Schrift, die Observa-
tiones in M. Tullium Ciceronem". Nachdem
er eine lange Zeit als Hauslehrer in
der gräflichen Familie tätig gewesen, kam
er im Jahre 1547 als Professor an die
Universität zu Parma. Im Jahre 1562
wurde er, bereits 74 Jahre alt, als
Leiter an die von dem Herzog
Vespasiano Gonzaga neu- errichtete Universität zu
Sabbioneta berufen. Nizolius war damals ein weithin
berühmter Gelehrter : „un vecehio consu-
raato negli studi delP eloquenza e
della filosofia, chiaro per molte opere,
vittorioso neue concertazioni letterarie e
per lungo usu di leggere suUe
cattedre delle cittä piü cospicue
praticissimo . . ., di cui la
memoria nei fasti dell' italica
letteratura, non perirä giammai."^) Altersschwäche
und ein sich immer mehr verschlimmerndes
Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in
dem schweren Berufe, den er auf sich
geladen hatte. Schon nach 4 Jahren
(1566) ereilte ihn der Tod, ob zu
Sabbioneta, oder in seiner Heimat
Brescello, lässt sich nicht bestimmen.*)
1) Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub
Nizolio III. 962 xl V. 760—61
(Suppl.), der sehr ung'enau ist. Ausführl.
biographische Notizen bringt Ruggero Batistella :
Mario Nizolio op. cit. '61 ff. 2)
Batist 31. 3) Bat. 36. 4)
Bat. 33. — 29 — Die
Tätigkeit des Nizolius erstreckte sich zunächst
nur auf das Gebiet der klassischen
Sprachen. Er beschäftigte sich mit der
Interpretation griechischer und lateinischer
Autoren, vor allem des Cicero. i) Mit
rastlosem Fleiss ver- band er einen
kritischen und vor allem natürlichen Sinn.
2) Aus dem letzterem Umstand erklärt
sich auch wohl der realistische Standpunkt,
den er in philosophischer Hin- sicht
verfocht. Zu eigentlich philosophischen Spekula-
tionen kam Nizolius erst spät und zwar
durch einen mehr äusseren Umstand. Während
seines Aufenhaltes zu Parma geriet er
in einen heftigen Streit mit Marco
Antonio Majoragio, Professorder Eloquenz an
der Universität zu Mailand.^) Es handelte
sich in der Hauptsache um zwei Fragen
: Lateinischer Stil und Philosophie, Cicero
und Aristoteles. Majoragio war wie Nizolius
ein grosser Verehrer Ciceros, jedoch zog
er der eklektischen Philosophie desselben
die reine Lehre des Aristo- teles vor
und vertrat die Ansicht, dass man die
Philosophie Ciceros mit der des Aristoteles
in Einklang bringen könne. Nizolius dagegen
strebte dahin, den Aristoteles für immer
zu verbannen, indem er mit Ueberzeugung
den Standpunkt von der falschen und
unnützlichen aristotelischen Doktrin vertrat.*)
Diesem Streit, der auf beiden Seitem
unerbittlich und un- würdig geführt wurde,
machte schliesslich der Tod Majo- ragios
(1555) ein Ende.^) 1) Bat. 37 ff.
Le opere ei giudizi dei eritici.
2) Bat. 1. c. 37. 3) Bat.
La polemica con M. Antonio Majoragio
33 ff. vergl. femer Gerh. Phil.
IV. 135 und Nizolius in seiner
Vorrede zum An- tibarbarus : Ad Lectores
contra Majoragium. 4) Bat. 34.
5) Bat 35. Nizolius soll in
zehn Jahren nicht recht haben schlafen
können ! (Jöcher a. a, 0.) ,,nou
solum calamo et chartis ve- nenatisimis,
sed etiam putrido et foetenti illo
ore suo contra vitam et mores nostros
usque in hunc diem deblateravit et
deblaterat" (Nizolius ad lectores in
De veris principiis). „ipse (Maj.) qui licet,
de magnis et obscuris Philosophiae rebus
loqui conetur, tarnen vere est acocfoc,
et tantum seit de Philosophia, quantum
asinus de Musica" (Vorrede).
— 30 - Majoraj^io hatte auf die
Angriffe des Nizolius eine ,,Apologia"
erscheinen lassen, die Nizolius mit einer
,,Anti- apologia" erwiderte. Es folgte
nun seitens Majoragios „Re- prehensionum
libri duo contra M. Nizoliura", worauf
Nizolius mit seinem Antibarbarus Philosophicus
antwortete. Seine AngriflFe fasste Nizolius
dann noch einmal zusammen in seiner Schrift
: De veris principiis et vera ratione
philosophandi contra Pseudophilosophos In
der Hauptsache war Nizolius mehr gelehrter
Hu- manist als philosophischer Denker oder
Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer
für die Beförderung der klassischen
Latinität veranlasste ihn zur Abfassung
einer Reihe von Werken, die uns ein
Bild geben von seiner bewunderungs- würdigen
Arbeitskraft. Nur die wichtigsten
seien genannt. i) Als sein Hauptwerk
ist wohl anzusehen ein Thesaurus sive
Latinae linguae Lexicon, das, wie auch
die meisten der anderen Werke, zahlreiche
Neuauflagen erlebte. Das ge- nannte Werk
war bereits 1535 unter dem Titel Observa-
tiones in M. TuUium Ciceronem, dann
als Apparatus latinae locutionis und
endlich als Thesaurus Ciceronianus in Vene-
dig 1538 und 1551, und erweitert von
Basilio Zanchi 1570 gedruckt wonien, 1613
erschien es zu Frankfurt und 1734 zu
Padua mit beigedruckten Ciceronianischen Phrasen,
die nicht von Nizolius stammen. 2) Ausserdem
verfasste er die bereits erwähnte
,,Antiapo- logia pro M. Tullio Cicerone
et Oratoribus" contra M. An- tonium
Majoragium Ciceromastigen'', ferner ,,Defensiones
locorum aliquot Ciceronis contra disquisitiones
Coelii Calcag- nini" (Venedig 1557)
und übersetzte aus dem Griechischen ins
Lateinische „Galeni explanatio obsoletarum vocum
Hippocratis*. In das Jahr 1553 fällt
die Herausgabe des Werkes, welches das
vollständige philosophische System des Nizolius
enthält und mit vollem Titel lautet :
De veris prin- cipiis et vera ratione
philosophandi contra Pseudophilosophos libri IV,
in quibus statuuntur ferme omnia vera
verarum ar- 1) Bat. 37 ff.
2) Bat. 3a — 31 —
tium et scientiarura principia, refutatis
et rejectis prope Om- nibus Dialecticorum
et Metaphysicorura principiis falsis, et
praeterea refutantur fere omnes Marci Antonii
Majoragii ob- jectationes contra eundem Nizoliura
usque in hanc diem editae. Parmae
apud Septimium Viottum 1553 in
4to.^) Schon die Titel der Werke
beweisen, dass die Tätig- keit des Nizolius
eine mehr philologische als philosophische
gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft
hat er daher auch stets warme
Anerkennung gefunden. Caelius Secundus, ein
späterer Herausgeber seiner Observationes, nennt
ihn im Prooemium einen gelehrten Mann,
der sich unstreitiges Verdienst um die
lateinische Sprache erworben: Nizolius quasi Deus
aliquis linguae Latinae tanquam universitatem
quandam fabricatus est, quam postea
hominibus non solum ntendam, verum etiam
excolendam tradidit Aehnlich äussert sich
Simon Grynacus in der Vorrede zum
Thesaurus Ciceronia- nus des Nizolius :
Videtur hie vir in hoc uuo opere,
post- quam delectum Latinae dictionis, ne
promiscue hauriremus, puritatemve linguae
confunderemus, optimum egit, simul et viam
loquendi certam posthac et expeditam monstrasse
et vim ac copiam sermonis Latii
totius omnem effudisse et Ciceronis libros
nunc deum legendos omnibus exhibuisse.
Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt
das Lob des italienischen Humanisten
begeistert in dem Ruhmespoem : ,, Nizolius
quem thesaurum congessit in unum,
,,Ex Latiae linguae fönte, labore
gravi: ,,Tro)anas longe gazas superare
memento, jjFortunas Crassi, divitiasque
Midae." Für die Philosophie ist
Nizolius hauptsächlich von Be- deutung, weil
er der einzige Grammatiker ist, der
Schule ge- macht hat in der Philosophie
und ferner als erster unter den „filosofi
razionali" in Italien ausführhch gehandelt
hat Ton der ,,Dottrina metodica".^)
Um indes den Philosophen Nizolius
ganz nach Verdienst würdigen zu können,
muss man die Zeit, in der er
lebte, in Rechnung ziehen. 1) G.
IV^. 136. Bat. 39. Daselbst
auch die übrigen kleineren Schriften.
2) Siehe Bat 41. - 32 -
Die Renaissance ist in philosophischer
Hinsicht charak- terisiert durch die grosse
Armut selbständiger philosophischer Spekulation und
durch vorläufiges Fortwuchern der schola-
stischen Philosophie. Daneben kommen als positive
Momente einerseits die Erneuerung antiker
Systeme — vor allem ein von den
humanistischen Philologen in engster Anlehnung
an Cicero gezüchteter Eklekticismus —
andererseits eine mit der letzten
Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Be-
handlung der Philosophie, speziell der Logik
in Betracht. Die neologischen Humanisten
mussten den Schriften Ciceros wegen der
Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber
dem ent- stellten und verwilderten Aristotelismus
der spätscholastischen Philosophie mit ihrer
dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den
Vorzug geben. Daher sehen wir alle
„Philosophen"^ der Renaissance in dem
Streben, durch Beseitigung der sinn- losen
Auswüchse den reinen und ursprünglichen
Aristoteles für den literarischen Betrieb
der Logik wiederherzustellen und schliesslich
die logische Disziplin zu einer
rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt
der Scholastik Aristoteles^ der philosophus
xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder
strittigen Sache, so bekämpfen die
Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben, 80
vor allem die Ausschliesslichkeit, mit
welcher man über- haupt nur dem Aristoteles,
den man noch dazu in entstellter Form
in Händen habe, Wert beilege. Als
Massstab und Norm will man vielmehr
den eigenen gesunden Menschen- verstand und
die fünf Sinne gelten lassen. Und in
diesem Ge- sichtspunkte haben wir die
Brücke zu der sensualistisch-no- minalistischen
Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger
die Philosophen der Renaissance insgesamt
beherrscht. Neben dem Italiener Nizolius
kommen hier als bedeu- tende Vertreter der
Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer
Laurentius Valla, der Deutsche Rudolph
Agri- cola und der Spanier Ludovicus
Vives. Nizolius bringt die Bestrebungen
seiner Vorgänger zu einem gewissen
systematischen Abschluss, sich grösstenteils an
sie anschliessend, vielfach dieselben aber
auch kri- tisierend. - 33 —
Von seinen Werken mass er selbst
dem Antibarbarus Philosophicus die Hauptbedeutung
zu, da er in ihm eine Re- formatio
Philosophiae bewirkt zu haben meinte. Aber
den- noch erntete er gerade durch seinen
Index Ciceronianus seine Berühmtheit, während
seine Philosophie schon beim Entstehen kaum
dem „Ersticken" entging: „Philosophia Nizo-
liana prope in ipso partu suffocationem
aegre effugit."^) Das Geschick des „in
tenui labor, at tenuis non gloria"
bei Nizo- lius begründet Leibniz^) durch
den Umstand, dass Nizolius in Italien
schrieb, wo damals Aristoteles und die
Scholastiker in allzu tyrannischer Weise
herrschten. Leibniz ist der Ansicht,
dass nunmehr seine Zeit, wo man
wenigstens zugebe, dass auch ein
Aristoteles irren könne, auch den
Verdiensten eines Nizolius gerecht werden
könne. ^) Welche Wertschätzung
Leibniz selbst dem italienischen Philosophen
entgegenbrachte, beweisen ausser der von
ihm besorgten zweimaligen Herausgabe des
Antibarbarus die zahlreichen Anmerkungen, die
er in den Text hineinsetzte, sowie
die Abhandlungen, die er im Anschluss
an die Edition des Nizolischen Werkes
erscheinen liess. Unter ihnen ist die
ausführlichste und wichtigste die sogenannte
Disser- tation über den philosophischen Stil:
Dissertatio Prae- liminaris de alienorum
operum editione, de Philosophica dicti-
one, de lapsibus Nizolii, wie Leibniz
sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst
einer Widmung an den Baron von
Boineburg, ausserdem einen Brief an
Thomasius „über die Versöhnung des Aristoteles
mit der neuen Philosophie" — De
Aristotele recentioribus reconciliabili — sowie
Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad
Editorem (Leibniz) der eigentlichen Ab- handlung
des Nizolius voraus. 1) G. IV.
134 f. 2) Q. IV. 137. 3)
„vel hoc saltem in confesso est,
Aristotelem errare posse" (G. a.
a. 0). Renhissanoe and Philosophie,
Heft V. - 34 - b) Leibniz'
üebereinstiramung mit Nizolius. a)
Die philosophische Diktion. Gerade
die Schrift des Nizolius musste Leibniz
beson- ders anziehen; war doch desselben
Massstab in der Beur- teilung und
Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres
Leibniz so durchaus ähnlich. „Auch Nizolius
knüpfte an die Scholastik, die Alten
— vor allem Aristoteles — an,
übernahm das viele Gute , das sich
bei ihnen fand und besserte und
reinigte, wo es ihm gut und notwendig
schien" ^). In dieser Behandlungsweise
fremder Autoren sieht Leibniz ein
Hauptverdienst des Nizolius; er hält ihn
daher den Philosophen seiner Zeit entgegen
2), die nur darauf be- dacht seien, sich
ausschliesslich mit ihren eigenen Gedanken-
erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass
von Uebereinstimmung mit Nizolius bekundet
Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr
Verur- teilung der Scholastik. Mit Recht
musste seiner Ansicht nach Nizolius nach
dem Studium des stofflich vielseitigen und
stilistisch glänzenden Cicero die scholastische
Behand- lungsweise, „die mit ihren Finsternissen
und ihrem geringen Gehalt an Nützlichem
irgendwelcher Art jeglicher elegantia
entbehrte", verachten. Zwar sucht Leibniz,
die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre
Fehler und Schwächen zu ent- schuldigen mit
den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen.
Welchen Wert er aber im Innersten
seines Herzens der Scholastik beimisst,
beweisen die zornigen Vorwürfe, die er
denen macht, ,,die noch jetzt, nachdem
die Früchte gefun- den, lieber die Eicheln
essen wollen und mehr sich versün- digen
durch ihren Eigensinn als durch
Unwissenheit."') Ihnen 1) Gerh.
IV. 135. Ritter 446. 2) G. IV.
151 vgl. auch 135. 3) G. IV.
156. 157. — 35 — hält er
entgegen den unvergleichlichen Verulamius und
die übrigen ausgezeichneten Männer unter
den Neueren, die die Philosophie „ex
aereis divagationibus aut etiam spatio ima-
ginario ad terram hanc nostram et
usum vitae revocave- runt"i). Im
Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften,
so behauptet Leibniz^), hat es viele
Gelehrte gegeben, die gegen die barbarische
Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde
zogen, aber es war bei ihnen mehr ein
,,Carpere" als ein „Emendare". Die
einen jammerten, andere mahnten und gaben
Ratschläge, wieder andere donnerten gegen
die scho- lastischen Philosophen und nannten
sich im Gegensatz zu ihnen ,, Reales",
aber sie unterliessen es, die Sache
selbst in die Hand zu nehmen.
Da sei es nun Nizolius gewesen, der
mit Eifer und Fleiss und, wenn man
ihn läse, mit solcher ,,efficacia" wie
kein anderer Schriftsteller sich wirklich
damit befasst habe, den Boden der
Philosophie von jenen „spinae verborum''
von Grund aus zu säubern. Er verdiene
es daher als ,,exem- plum dictionis
philosophicae reformatae" und zwar, soweit
es für die Logik, das Vestibulum
Philosophiae, gelte, angesehen zu werden.
Leibniz knüpft hieran den Wunsch, dass
in seiner an Talenten so reichen Zeit
sich Männer fin- den möchten, das Werk
des Nizolius für die übrigen Teile
der Philosophie fortzusetzen. Er selbst
würde, wie er hinzu- fügt, sich dieser
Aufgabe unterziehen, wenn er sich nicht
teils durch andere Studien daran verhindert
sähe, teils aber fürchten müsse, anderen,
die dieselbe Sache besser leisten möchten,
vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn
jedoch nicht ab, auf die Nizolianischen
Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen
und ihnen Neues hinzuzufügen.
Rühmend hebt 1) G, IV.
193. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur
Scho- lastik siehe: Josef Jasper, „Leibniz
und die Scholastik* Leipzig- 1898/99,
ferner Rintelen „Leibnizens Beziehungren zur
Scholastik" München 1903, besonders pg.
4 ff. 2) G. IV. 151. —
3« — Leibniz hervor, wie Nizolius
überall nicht nur fordere, son- dern auch
selbst in Anwendung bringe eine ,,dicendi
ratio naturalis et propria, simplex et
perspicua, et ab omni de- torsione et
fuco libera, et facilis et popularis
et e media sumta, et congrua rebus,
et luce sua juvans potius memo- riam
quam Judicium inani acumine confundens".
^) Nizolius stellt fünf allgemeine
Prinzipien des rechten Philosophierens auf
2), die aber, wie Leibniz bemerkt,
mehr auf die Rede als auf das
Denken Bezug nehmen. Als erste Bedingung
fordert er die Kenntnis des Griechischen
und des Lateinischen, als zweites das
Vertrautsein mit den Vor- schriften und
Lehren, die sich bei den Grammatikern
und Rhetoren finden, ferner drittens eine
umfassende und an- dauernde Lektüre der
besten griechischen und lateinischen Au- toren
und die Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs
so- wohl, soweit es die obigen betriflft,
als auch des Volkes, das nach Horaz
die Gewalt und Bestimmung hat über
die Norm der Redeweise. 3) Ein
viertes Prinzip ist die Freiheit und
wahre Willkür im Denken und Urteilen
über alle Dinge. Jeder, der richtig
philosophieren will, darf keiner bestimmten
philosophischen Sekte anhängen, sondern soll
vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen, seiner
Intelligenz und der Erfahrung als seinen
alleinigen Lehrern und Autoritäten folgen. End-
lich fordert Nizolius als letzte und fünfte
Bedingung, dass man nicht abweiche
von der gewöhnlichen und bei allen
1) G. IV. 138. 2) N. 1. I.
C. I. p^. 6. 3) Siehe auch
N. II. IL pg'. 126 „nemini
fas est, ut Graeci
dieunt, ovofAaxoTto-.sIv, hoc est. nova
nornina tingere, nisi populo Atque
ideo Dialectici non recte faciunt sed
maximum committunt Vitium, qui primum
impudenter et barbare nominant res a
se non inventas et ab aliis ante
nominatas, ut exempli gratia, quae Gram-
niatici et Oratores jam inde a
principio vocaverunt nomina, verba, adjectiva,
substantiva, supposita, apposita, propositiones,
assump- tiones et pluriina alia huiusmodi,
ipsi praetermissis et rejectis pe- nitus
nominibus antiquis et rectis. appellant
terminos, copulas, i'oncreta, abstracta,
subjecta, praedicata, maiores, luinores et
alia id genus sexcenta". - 37
- Gelehrten üblichen Redeweise, nicht
za kurz oder dunkel schreibe oder
lese, keine ,,quaestione3 inconsistentes",
nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches oder
Neues in die Philo- sophie einführe, falls
letzteres nicht unbedingt nötig ist.
Besonderen Nachdruck legt Nizolius darauf,
dass ja nicht die „mos scribendi et
loquendi a populi ac vulgarium lo- 7
2) N. IV. VI. 334 ff. ■a) N. IV. VII. 345. — 78 — allem den dialektischen, und metaphysischen und wo immer er handele von seinen
mehr als monströsen genera, species,
secumlae substantiae. universalia realia,abstractio,
demonstratio u. s. w., verdiene er
den höchsten Tadel. In summa be- hauptet
er von Aristoteles : ubi bene dicit
nihil melius, ubi male nihil peius
posse excogitari,^) Auch diese Ansicht
des Nizolius teilt Leibniz durchaus nicht.
Er behauptet im Gegenteil, dass er
fest überzeugt sei von der genuitas
operum Aristoteleorum, was auch sagen mögen
Nizolius, Picus, Petrus, Ramus u. a.
Die Gründe, die Nizolius angibt, sind
ihm nicht durchschlagend. Cicero, auf den
sich Nizolius in erster Linie als
Gewährsmann stütze, könne nicht als solcher
gelten. Denn es sei nicht verwunderlich,
dass ein Mann wie Cicero als
Politiker und Vielbeschäftigter (infinitis curis
obrutus) die Gedanken gerade der
feinsinnig- sten Philosophen (subtilissimi cuiusdam
Philosophi) flüchtig gelesen und daher
nicht genügend verstanden habe. ,, Cicero
(hie) duo dicit, primum communem esse
sententiam quod sint Aristotelis, deinde
non negat esse Aristotelis, sed saltem
con- icit, posse fortasse esse filii. Haec vero a
possibili coniectura communi illorum quoque
temporum sententiae nihil praeju- dicare
debet".^) Ihm (Leibniz) selbst ist die
Echtheit der Aristotelischen Schriften
vollständig verbürgt durch jene „perfecta
hypothe- sium inter se Harmonia et
aequalis ubique methodus velo- cissiraae
subtilitatis". In seinem Briefe an
Thomasius') „De Aristotele recentioribus
reconciliabili" schreibt Leibniz: ,,Quae
Aristoteles de materia, forma, privatione, natura,
loco infinito tempore, motu, ratiocinatur,
pleraque certa et demonstrata sunt, hoc
uno fere demto, quae de impossibilitate
vacui et motus in vacuo asserit. .
. De cetero reliqua pleraque Ari- stotelis
Disputata nemo fere sanus in dubium
vocabit." 1) N. 1. c. 346.
2) N. IV. VI. Adnotatio. 3)
Q. IV. 164. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords:
Cicerone, lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.:
Luigi Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Noce: l’implicatura conversazionale
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo
italino. Grice: “Only in Italy,
philosophy and history are so connected; it would be as if we at Oxford after
the war would be only concerned with understanding Churchill!” Grice: “For us,
to do linguistic philosophy was to get away from post-tramautic stress disorder
acquired during what Winthrop stupidly called the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s
not difficult to understand why Noce’s notes on Gentile were only published
posthumously!” -- essential Italian philosopher. «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare
alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui
pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima
crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.» (Risposte alla
scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di "Storia delle
dottrine politiche" all'Università La Sapienza di Roma. Studioso del
razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel, Marx), analizzò le
radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità, ricostruendo con
cura le contraddizioni interne dell'immanentismo. Argomentò
l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di pensiero che
propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina cristiana
(affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne tenacemente,
per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e comunisti e
previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del fascismo,
sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il comunismo e
fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità. Sostenne,
inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il pensiero dei
sessantottini. Filosofo della politica, preconizzò la crisi del
socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello
mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la
filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in
quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra
dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di
verità e di moralità. Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia
Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la
madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra
mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la
sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni
dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della
nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università
degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi,
Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia
quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì),
mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni
all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain,
che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al
fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla
carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli
dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e
altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di conciliazione
di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve tempo
affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un istituto
superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna all'insegnamento
un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi periodici, tra cui
Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare Giuseppe Dossetti. Scrive
e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che ripubblicherà vent'anni dopo
nella sua opera maggiore (Il problema dell'ateismo) e nel quale fissa i termini
complessivi della sua interpretazione del marxismo. Nello stesso anno cura
l'edizione italiana di Concupiscentia irresistibilis di Šestov. Inizia la
collaborazione alla Enciclopedia filosofica del Centro Studi Filosofici di
Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato a Bologna presso il centro di
documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel capoluogo emiliano frequenta
Matteucci e collabora stabilmente al neonato periodico «Il Mulino». Scrive su
Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e altri alcuni saggi, uno dei quali,
«Idee per l'interpretazione del fascismo», sarà all'origine delle future
revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa al convegno organizzato
dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure con una relazione
intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella presente situazione
italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un rapporto difficile con
il partito cattolico (altri interventi nei convegni di San Pellegrino e di
Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non ottiene il posto. Pubblica
Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma cattolica e filosofia
moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con una relazione intitolata
Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero l'autocritica dell'ateismo
negativo in Rensi, nella quale espone la sua fondamentale fenomenologia del
pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso anno vince il concorso per una
cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea a Trieste, dove
divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca della secolarizzazione, che
raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni sessanta. Si realizza
il tanto atteso trasferimento a Roma, dove, all'Università "La
Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine politiche e poi dal
Filosofia della politica. Si infittisce la sua collaborazione a riviste e
periodici, sui quali interviene anche riguardo all'attualità politica e
culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura moderna», dell'editore
torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al pubblico italiano
autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin. Partecipa
vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni settanta inizia
il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione partecipando a
convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il saggio Il
suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione del
marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di Rodano
(che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della
conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione
continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della
rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno
viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il
Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito
della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale
Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di
Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini.
Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce
“Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo
e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e
rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a
Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta,
diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e
Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia
della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico
che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che
tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la
postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici
e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere
dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla
Scolastica. La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è
-come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come
«necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e
necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da
qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro
way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi
innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo
positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di
un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico
(«notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine
l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e
particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della
filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier. Posta questa
propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico
moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da
pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia
epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà
l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica
medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che
proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece
colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni
metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre
una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista
del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con
la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Cartesio, nel suo
sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana
riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le idee
dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio,
quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà
ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale
realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la
quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione
dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il
tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha
come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del
reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a
quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il
rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico
all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso
della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in
tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non
contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire
necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni
perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi
come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei,
già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel
Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge
inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel
suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico
nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato
appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi
sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva
davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del
Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a
prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale
fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla
Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il
Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo
un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga
presenta la definizione kantiana di illuminismo). Da Cartesio in poi sono
comunque due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti
compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte
infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito
propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra
invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi
del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra
ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla
Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione
in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei
filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del
problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di
Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile
condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male
metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il
Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè
senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con
l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo
laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli
nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta
cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel
Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi
complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del
mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione.
Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione
Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della
rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in
quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee
filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella
storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di
trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo,
materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra
problematica della civiltà postmoderna. La giustificazione epistemologica
di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento
inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in
azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la
«non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche
necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo
portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca
a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della
cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il
marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da
parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio
dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione
gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di
Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto
superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in
modo universale. Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo
gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano
oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto
dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno
dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra
rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore
dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase
dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore,
ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il
punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente
filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo
pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo
aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e
aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera,
mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica
(sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario
pur se negativo della storia universale. In questo senso N. ha potuto
mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in
Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e
hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il
momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella
formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo culmine.
Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del secondo
sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo
rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di
ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo
aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita
della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare
questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica
tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo,
non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo
mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi
anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che
ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della
rivoluzione politica. In Germania invece la dialettica fra kantismo e
hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la
riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di
Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento
storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur
nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla
corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più
peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che
solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle
generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita
l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione. Per questo N.
afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima
funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del
socialismo utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti
dell'illuminismo settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso
dialettico), nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una
voltauna forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa
dettagliata analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale
appunto si configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel
attraverso la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono
le marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la
politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo scientifico
rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di Saint-Simon o di
Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi ad esso Marx
applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe potuto analizzare
il capitalismo e prevederne così il necessario fallimento. A tal punto
però l'analisi marxiana di come potrà nascere la società comunista introduce
l'elemento di distacco non solo dall'idealismo hegeliano ma anche dalla
filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il pensiero analitico in
azione politica e di affidare alla storia invece che alla ragione il compito di
dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si riallaccia a una
lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti è per esempio
Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra filosofia di Marx e
di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza concedere alcuna differenza
né alcuna opposizione fra socialismo reale e socialismo ideale (quasi a guisa
di giustificazione storica). Il fattore fondamentale di continuità fra Marx e
Lenin è infatti quella struttura tipicamente gnostica che equalizza il male
all'ignoranza e il bene alla conoscenza e quindi divide il genere umano fra la
massa degli ignoranti e la ristretta cerchia degl’lluminati, che nella
riflessione leniniana erano gli intellettuali borghesi che per una non spiegata
differenza dal resto della borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la
rivoluzione; in questo senso la politica leniniana, poi proseguita coerentemente
nella politica staliniana, sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica
incarnazione possibile della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di
una certa apologetica socialista- un tradimento di Marx. Ancora una volta
si rifà a una lunga storiografia critica nel considerare il marxismo non come
una filosofia ma come una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione
non del suo carattere di religione civile bensì di religione gnostica: in tal
modo il marxismo leninista sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove
quest'ultimo è inteso come gnosticismo laico, religione non di Dio ma
dell'Idea/ideale che non ha bisogno dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto
l'uomo stesso avrebbe potuto e dovuto far incarnare tale Idea nel mondo
attraverso la sua azione. Questo è il senso dell'appellativo delnociano di
«non-filosofia» per il marxismo, giacché la contemplazione metafisica in
esso viene interamente assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la
politica è la vera metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la
morale. Eppure è proprio questo punto a costituire secondo N. la
contraddizione fondamentale interna al marxismo e quindi la causa prima del suo
fallimento storico: se infatti la «riconciliazione con la realtà» iniziata da
Hegel, proseguita da Feurbach a portata a compimento da Marx deve rivoltare
l'intera comprensione del mondo in trasformazione del mondo, cioè in
rivoluzione, allora in ciò non rimane giustificato il riferimento ideologico
all'avvenire come sede immaginifica della società comunista, ovvero non rimane
giustificato il carattere ancora religioso del marxismo per cui esso ha
sostituito il futuro all'eternità e il lavoro dell'uomo alla redenzione del
dio-uomo. Il fallimento storico del comunismo, quindi, sarebbe stato non
solo la dimostrazione sperimentale della falsità delle teorie marxiane ma anche
il coerente compimento del marxismo come auto-distruggersi nella sua forma di
religione. Con ciò si spiegherebbe per N. l'attivismo comunista nonché la
graduale decadenza del socialismo nel mondo fino alla sua profetizzata fine,
simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino. È propria di lui infatti la
teoria secondo cui il compimento e la dissoluzione del marxismo non siano due
momenti separati o addirittura opposti, ma siano bensì il medesimo momento
dispiegato coerentemente nel tempo. L'interpretazione del fascismo Sul
fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo dedicato
gran parte dei suoi studi e delle sue opere, partendo appunto dalle opinioni
comuni e molte volte ideologiche degli storici nei confronti del fascismo e
delineando una struttura paradigmatica tanto controversa quanto precisa e
fondata. È a partire dalla definizione data dallo storico tedesco Nolte di ogni
movimento fascista come «resistenza contro la trascendenza», intesa come
trascendenza storica e non metafisica, che N. sottolinea la continuità fra
questo serio giudizio e la communis opinio del fascismo come movimento
reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista, e per converso di ogni
forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando implicito e forse
inconscio al fascismo. Di questo fa una critica serrata, facendo notare
innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del fascismo, cioè Gentile
e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di politica reazionaria,
tradizionalista e nazionalista e come invece affini rispetto al socialismo, del
quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si noti che l'obiettivo che N.
intende colpire e abbattere è quella generale concezione del fascismo come
momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia moderna, dalla
rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è la continuità
quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come
tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi
dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione culturale,
notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel
socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista
del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» che pone
l'accento, essendo questo un concetto base del marxismo che però,
attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia dello Spirito»
risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e portarsi dal livello
sociale della «classe» a quello personale del «soggetto». È insomma l'incontro
intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad aver reso necessaria
la trasformazione della rivoluzione in un senso non più finalistico o
escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto la società
comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu solipsistico,
in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può connettere la
psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico del fascismo,
il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma proclamava bensì una
forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto
sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti
persino quella marxistica. Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene
in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo
andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione
deve necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla
riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è
stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma
(indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello
di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo
gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come
eresia dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia);
“La solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla
politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna,
Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma
cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano,
UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il
partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario”
(Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica
della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della
modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA
del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di
filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov,
Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi,
italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano,
Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri,
Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,” Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo:
errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e
vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia
contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità
e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca
Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia
contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo.
N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del
fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto. premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.
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Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti,
Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e
politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e
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dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo.
L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara,
il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea
Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella
riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier
Tilliette, Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, traduzione di
Sansonetti, Brescia, Morcelliana, Natascia Villani, Marxismo ateismo
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Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi
Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da
Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune
dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi.
«Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini
dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa»
da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma
europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri
cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di
porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna
del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni
dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba,
non un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione
(Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto
gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato.
«Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto]
da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"»
dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il
Sabato. «Le connessioni tra filosofia e politica»[collegamento interrotto] da
Il Tempo. «Pci, l'impossibile conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice: “Unfortunately, Noce is a philosopher, like
me. We
cannot lay word on history. Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s
Play Group. Being Italian, Noce thinks different. He thinks history is guided
by philosophical principes. It wasn’t Mussolini’s charisma that led the
populace, but Gentile’s attualismo puro. He makes a good point about the
distinction between Hitler and Mussolini. Hitler is a Protestant, Mussolini
ain’t! Most in Mussolini’s circle were just as heathen as those in Hitler’s
circle – different heathenism, though. No Odin, but Giove. Not Siegrfied, but
Enea! Noce does not know the first thing about this. He never socialized with
any of the people he is philosophizing about. In any case, there’s Garibaldi,
which is a stain to Italian history. Italians, and a Ligurian friend of mine
can testify to this, never wanted the UNITY. It was forced ON them. So it’s
only natural that Gentile and Noce regard the UNITY brought by Risorgimento
(alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that was furthered by
Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that his movement was
‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a little thing about
Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di flosofia’!” Non si può dire che a Del Noce sia
mancato il coraggio di proporre ipotesi interpretative del pensiero
contemporaneo anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e
con gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante.
Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del giudizio
critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto ad attenuazioni,
nemmeno nel caso di una vicinanza amicale con i suoi interlocutori.
Nel caso dell’interpretazione del fascismo Del Noce esprime un
simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta (ma brevi testi
dell’immediato dopoguerra documentano già la stessa lucidità)!
un’interpretazione originale, solidamente argomentata e assolutamente
controcorrente. Anche in questo caso, come in quello del marxismo, Del
Noce procede da una considerazione attenta del fascismo che ne
faccia emergere le specificità culturali, lo renda identificabile e ne
faccia perciò comprendere le ascendenze più o meno evidenti.
Quest'opera di studio e di approfondimento dei contenuti del
fascismo è già un aspetto rilevante dell’interpretazione, dal momento
che, ancora oggi — ma assai più negli anni Sessanta e Settanta — il
fascismo è stato 171 rappresentato da una parte come
una sorta di barbarie irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della
coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di
interessi particolari. In questa prospettiva il fascismo viene
identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, caratterizzato
come male assoluto, mitizzato come un abisso di negatività al di fuori di
qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo, trasformato in una sorta
di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale ricondurre tutti
gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema
dell’autorità ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare
la tradizione senza essere nel contempo, almeno incoattivamente,
fascisti e repressivi. AI contrario, per Del Noce il fascismo è un
momento di quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli
precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e che può essere
designato più opportunamente come secolarizzazione, per intendere quel
tentativo di creare una società nella quale non ci sia più traccia
dell’idea di Dio. Il fascismo ha perciò una radice culturale precisa,
situabile in quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha
inizio con il marxismo. È questo il punto più incandescente
dell’analisi di Del Noce: il fascismo si presenta come un tentativo
rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo viene corretto
per essere inverato, cioè per essere effettivamente realizzato. In altre
parole, tra marxismo e fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel
percorso del razionalismo che porta a una progressiva
secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad assumere il
ruolo sociale occupato precedentemente dalla L72
religione. In questo quadro, secondo Del Noce, la rivoluzione può
assumere due forme: quella marxista, che si fonda, come si è visto, sul
materialismo e sulla sua opera decostruttiva; oppure quella attualista,
che è una interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di
vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche di una
filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il materialismo
marxista.” La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò
in Giovanni Gentile una figura centrale, attraverso la quale Del
Noce mette in evidenza il nesso storico e teorico tra idealismo e
fascismo. Per comprendere questo nesso, però, occorre che venga
pienamente riconosciuta la complessità e profondità di pensiero di
Gentile, più spesso relegato a personaggio di propaganda e di apparato. Del
Noce non solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero
italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale, quella del
tentato inveramento del marxismo: perciò in esso egli vede il compiersi
per l'Occidente del percorso razionalistico del pensiero che così
fortemente ha determinato le sorti dell’epoca contemporanea.
Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e connetterlo con
l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò dal quel presupposto
naturalismo e materialismo che rappresentavano ai suoi occhi un limite
nella comprensione del vero spirito idealistico. È in questa temperie
culturale che avviene l’incontro con Mussolini. Del Noce è
certo attento nel precisare che i fenomeni storici si verificano per una
complessa serie di fattori che non possono essere ridotti a uno schema
concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di «incontro»
175 intende evidenziare non solo l’incrociarsi di
percorsi biografici e storici, ma anche il congiungersi, si
potrebbe dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e
necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel caso del
rapporto tra Gentile e il fascismo come regime Del Noce parla, per
esempio, di armonia prestabilita, quasi a evidenziare una sorta di
attrazione fatale che ha compenetrato traiettorie di pensiero che avevano
origini distinte. Mussolini infatti era anch’egli
incamminato verso una revisione del marxismo, a partire dalla critica al
socialismo riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai
più sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene
perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello spirito
rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la tradizione risorgimentale
italiana. All’interno di questa struttura significativa, certamente gioca
poi un ruolo determinante la personalità di Mussolini, che se è
senz'altro molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è
tuttavia perfetta espressione esistenziale-politica di quell’ansia
rivoluzionaria che si traduce in attivismo come pura affermazione di
potenza e in solipsismo, inteso come soggettivismo assoluto, incapace di
cogliere la realtà esterna in sé sussistente se non in funzione del
proprio processo di autoaffermazione. Si comprende dunque
perché Del Noce abbia parlato spesso di fascismo come errore della
cultura e non errore contro la cultura (interpretazione, come si è visto,
dominante nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come
fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della società italiana
succube di forze oscurantiste, ma segna un 174 passo
decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che contraddistingue
l'evoluzione ultima del razionalismo moderno e che, secondo Del Noce, ha
il suo inizio con l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha
più coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia
secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra l’altro, si
comprende perché sia senz’altro errato interpretare il fascismo come
fenomeno reazionario e conservatore; in esso agisce la volontà di
interpretazione dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per
il quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri
strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che sarà perciò
inevitabilmente violenta e inesorabile. Ma in Italia, negli stessi
anni in cui andava formandosi il fascismo, vi è un altro pensatore che
lavora alla revisione del marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria
capace di realizzare effettivamente una nuova società: è Antonio Gramsci.
Anche in questo caso Del Noce dimostra un’acutezza interpretativa unica,
nonché coraggio nel presentare le sue ipotesi. Egli infatti, proprio sul
finire degli anni Settanta, mette a punto una serie di studi che
confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della rivoluzione,
nel quale Gramsci è presentato come colui che, nel tentativo di riformare
il marxismo, incontra in realtà l’attualismo e trasforma l'ideale
rivoluzionario marxista in una filosofia della prassi perfettamente
funzionale e coerente con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò,
identificato in quegli anni come il vero punto di riferimento
dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi del marxismo
nei paesi occidentali, viene presentato da Del Noce come un autore
gentiliano. Che cosa è infatti la 175 revisione
gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo materialismo e del suo
economicismo, per fondare una filosofia della prassi che porti a
realizzare la rivoluzione prospettata dal marxismo a partire da una lotta
per l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali
militanti? Secondo Del Noce non è più marxismo, ma filosofia della prassi
con tutti i caratteri dell’attualismo. In che senso allora Del
Noce parla di suicidio della rivoluzione? Precisamente nel senso per cui,
nel proseguire il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia
della prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a
ideologia strumentale per l’affermazione del potere, svincolandolo da
qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero senza verità, pura
affermazione di potenza, e perciò nichilismo, approdo coerente di
quell’impeto rivoluzionario che però ottiene il suo opposto proprio
attraverso il costituirsi del predominio sociale di una classe
borghese cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il
paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e del marxismo
che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto, nel compiersi realizza
l'opposto di quanto si era proposto. Il primo testo del capitolo è
una conferenza del 1969 confluita in L’epoca della secolarizzazione, che
propone una definizione storica generale del fascismo e consente
uno sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di Del Noce
delle figure di Gentile e di Mussolini. Il secondo testo è il
capitolo secondo de I/ suzcidio della rivoluzione, che imposta l’assunto
fondamentale del libro, soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica
tra Gentile e 176 Gramsci. AM.
3.1 Appunti per una definizione storica del fascismo Il
fondamento del progressismo, così nella sua forma di illuminismo laico
come in quella di modernismo religioso, è un giudizio sulla storia
contemporanea; per dir meglio, su una zona della storia contemporanea,
quella dell'Europa fra le due guerre. * Ora, l'attitudine contraddittoria
a cui ha dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine
di millenarismo negativistico, porta al problema della sua
revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di mutare il giudizio
assiologicamente negativo sul fascismo; si tratta, invece, di vedere
quali posizioni ideali siano state coinvolte nella sua catastrofe.
È del 1963 il primo libro che abbia tentato un’esaustiva
comprensione storico-filosofica del fascismo come «fenomeno epocale»,
quello di Ernst’ Nolte? Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato
espressione rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti:
quella secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti
sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo aspetto
più profondo, come fenomeno transpolitico, il fascismo sarebbe per Nolte
una disposizione di «resistenza contro la trascendenza», termine con cui
intende non la trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol
chiamare «trascendenza orizzontale», trascendimento storico,
insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue
177 forme, è il nemico, deve essere «individuato» nella
«libertà verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale
nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e
si ama». Sul piano più strettamente politico questa «resistenza contro la
trascendenza» si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti
che la rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là
dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe
perciò parlare di un’essenza comune che si sarebbe specificata in diverse
forme nei vari paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni
politiche, economiche, culturali. Le principali di queste forme
costituirebbero altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea
unitaria di sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato
dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo dal
nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde
alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti
sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore
venendo assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni
atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più
inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità
fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è che questo giudizio
non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare
essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la
sua importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio
corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.
Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di un’«epoca del
fascismo»? Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito
all’arretramento e al chiudersi in se stesse 178
delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo
americano, socialismo in un solo Paese per cui la Russia «ridivenne una
terra incognita ai limiti del mondo») l'Europa, pur dopo quell’anno 1917,
in cui la prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un
conflitto di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se
stessa come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli
avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare un’epoca, caratterizzata
decisamente da contese politiche, sulla scorta di quello che, nel punto
culminante degli avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più
nuovo, ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle
guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta il vantaggio
di non esibire alcun contenuto concreto, e di non presentarsi al pari
della parola tedesca “nazionalsocialismo” con una pretesa contenutistica
non però giustificata».4 Col dare una tale definizione
dell’epoca, Nolte non pretende affatto a una particolare originalità. Ha
cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da
rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di brevi anni
l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata affermazione di
Mussolini, spesso ripetuta negli anni del massimo suo potere, 1930-1935.
Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano trovati d’accordo,
con opposto accento valutativo. Così Thomas Mann nel 1938 aveva
definito il fascismo come «una malattia del nostro tempo, che è di casa
dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune». Così, nella
nota opera La distruzione della ragione Lukacs ha indicato «nello
sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione
più saliente 179 di un processo internazionale che si
svolge nell’ambito del mondo capitalistico» È Bastano già
queste citazioni per vedere il posto che l’opera di Nolte occupa tra le
interpretazioni del fascismo. Essa si situa dopo quella, diciamo in largo
senso «liberale», della «malattia morale» e dopo quella marxista.
Luk4cs aveva parlato di una linea unitaria di processo verso
l’irrazionalismo «da Schelling a Hitler», includendovi tutti i pensatori
tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel. Da questa tesi, in
cui riconosce però un aspetto di verità, Nolte dissente soprattutto per
quel che riguarda il prefascismo di Max Weber, e naturalmente il dissenso
su questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che
riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho verificato
quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito come un rifacimento per
l'Europa intera di quello che Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario
tedesco, operato però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza
di Weber. Ora, nello stesso giro di tempo in cui
Nolte scriveva il suo libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema
— di una definizione del fascismo in sede trascendentale —
arrivando però a prospettive diverse. Nel 1964, infatti, nel mio libro
I/ problema dell’ateismo, definii la peculiarità della storia
contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio punto di
vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era semplice: se si riconosce
un carattere genuinamente filosofico all'opera di Marx, bisogna
prendere alla lettera la sua frase secondo cui la sua concezione è quella
di una filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella
realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica)
180 opposta a quella di un mondo che diventa filosofia
nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può essere
compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, essa acquisisce un
carattere nuovo, diverso da tutta la storia precedente, soprattutto dal
Rinascimento in poi. Non soltanto una storia che può essere compresa dal
filosofo; una storia fatta dal filosofo, perché il valore del
pensiero è per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione
efficace a trasformare la società e il mondo; e per riferimento al
carattere precipuo della filosofia di Marx, mi parve di doverla definire
come l’età dell’espansione dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la
stessa cosa, parlare di «epoca della secolarizzazione», servendomi di
un termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e
dr O ateismo sono certamente le due facce della stessa
moneta; ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che
questa età vuol essere — processo verso una situazione in cui si
possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e siccome qui si
tratta di un’analisi interna di quest'epoca, prima che di un giudizio
valutativo, qui è la ragione della mia preferenza. Ora se
l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir definita come epoca della
secolarizzazione, l’inizio non può essere cercato che nell’opera di
Lenin; quindi, davanti a una rivoluzione che nell’intenzione è mondiale,
non mi sembra possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente
europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà invece parlare
del «momento fascista» dell’epoca della secolarizzazione.
Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti come
necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi 181
possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in relazione al
fenomeno delle religioni secolari, che accomunano comunismo, nazismo e
fascismo) e un periodo profano; a un dipresso, e con l’approssimazione
necessaria delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la
morte di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al
periodo «sacrale»; fenomeno nuovo che caratterizza in maniera precipua il
periodo «profano» è la società opulenta. Anche qui azzardando
un'ipotesi, mi pare si possa dire che Nolte sia stato sviato
dall’analogia tra la posizione dell’Action francaise rispetto al
radicalismo e quella del nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare
che la simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è
infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo la
continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che nel comunismo lo
svolgimento del radicalismo. Di più, mi sembra che lo stesso Nolte si
trovi in imbarazzo quando deve trattare del termine medio tra Action
francaise e nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel
considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i tratti segnati
da un persistente influsso marxista, e le curiose affinità tra Mussolini
e Lenin. Si avrebbe dunque, nel momento mediano, un elemento che è del
tutto assente nel momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare
nel momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è almeno
singolare definire l’intera epoca con il termine di fascismo?
Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si possano
sussumere sotto il comune concetto di controrivoluzione (o di reazione, o
di resistenza contro la trascendenza, ecc.) così i movimenti
tradizionalisti e 182 nazionalisti, che più o meno si
richiamano tutti all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come
il fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una
stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda delle
condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si era realizzata, o
se invece l’attenzione debba prevalentemente venir portata sulle
differenze. Se ci si mette in questa seconda via si delineano poi due
diverse possibilità interpretative: 1) Si devono distinguere qualitativamente
i movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo, riconoscendo
però una stessa essenza a questi due ultimi fenomeni? 2) Si deve invece
parlare di fascismo e di nazismo, come di fenomeni per essenza diversi?
Come si vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di
affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al fascismo
italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre altri sono proclivi a
considerarlo come una semplice variante dei regimi autoritari.
La distinzione così di fascismo come di nazismo dal nazionalismo
propriamente detto può essere stabilita facilmente. Il nazionalismo,
infatti, si presenta come un tradizionalismo, come uno sforzo per
perpetuare un'eredità, quest’eredità essendo per lo più legittimata per
rapporto a valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a
vederli soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò
si può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta idea
della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la nazione non più
come un'eredità di valori, ma come un divenire di potenza. A diversità
del nazionalismo, la storia non è concepita come una fedeltà, ma come una
creazione continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto
ciò 183 che le si può opporre. Si tratta, del resto,
di una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels,
che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il
primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un punto di
vista non reazionario; * sta in ciò la ragione della devozione
indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini.
Assai più che i tratti comuni importano però le differenze. In
quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere storicamente
definito come la piena realizzazione e il completo scacco di quel
socialismo rivoluzionario che ha accolto la critica idealistica del
materialismo naturalistico e dello scientismo, senza supporre la reale
posizione di Marx (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito
rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di Mussolini è il
miglior documento per lo studio dell’idea di rivoluzione totale sganciata
dal materialismo marxista e connessa invece col clima di pensiero
dominante in Europa nei primi decenni del Novecento. La successiva
biografia di De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee
che avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma.
Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi sembrano essere i
fatti essenziali su cui deve venir portata l’attenzione: 1) che fu
fondato da colui che giustamente può essere considerato come
l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale, del comunismo europeo; 2)
che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente coinciso con quella
della cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso
con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è una
corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e dell’altra; 3) che
questa cultura idealistica italiana prende 184 inizio
da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, 1895-1900, che segnò
l’europeizzarsi della cultura italiana. Non si può, insomma, intendere
Mussolini al di fuori della «misteriosa vicinanza e lontananza insieme
che lo collegava alla figura di Lenin», punto ben visto da Nolte, ma
non sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza
viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella distinzione tra «il
vivo e il morto in Marx» che la cultura idealistica italiana aveva
definito, che Mussolini aveva di fatto accettato, e Lenin, nella sua
riaffermazione dell’unità inscindibile tra materialismo radicale e
azione rivoluzionaria, rifiutato. La vicinanza a Lenin è
stata assai bene illustrata da Nolte: «Se per comunismo si intende l’ala
intransigente staccatasi da quella riformistica, disposta alla
collaborazione, del partito socialista, Mussolini può essere a ragione
definito il primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista
europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei la
scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del bolscevismo russo,
formatosi, tanto nel 1902 quanto nel 1914, nei limiti di una situazione
affatto diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo
le basi del comunismo italiano postbellico... egli fu anche il
promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta
intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria
fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è tentato di contrapporre
alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua
intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente
contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto
analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del
185 “decorso spontaneo”».2 Dove è giusto parlare di
analogia, non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di
Mussolini non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del
materialismo marxista, in relazione alla generale critica allora corrente
del materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista.
Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa l'atteggiamento
rivoluzionario — inteso nel suo senso più rigoroso, come sostituzione
della politica alla religione nella liberazione dell’uomo — quando venga
totalmente sganciato dal momento materialistico e dall’utopistico?
L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è stata
detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi della filosofia»
di Lenin, autentico definitore su questo punto del significato del
pensiero marxista, è, oggi, assai chiara. Sotto un primo riguardo il
momento materialistico significa la sconsacrazione dell’ordine che si
deve abbattere; sotto il secondo assai più importante — che implica
la conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero
utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla finalità
rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di una nuova
idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni traccia
del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva
umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre
la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale
materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo.* Separato dal
materialismo, lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di
mistica dell’azione, in quel che si suol dire con un termine diventato
logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»;
tensione verso un’azione che è voluta per sé, come semplice
186 trasformazione della realtà, e non finalizzata a un
ordine, con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di
dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti
che possono promuoverla. Ma non basta: la logica che gli è intrinseca lo
porta anche alla negazione della personalità degli altri, alla loro
riduzione a oggetti; dato il conferimento del valore alla pura azione,
gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per diventare
puri strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra cosa
dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del disconoscimento morale
si tratta di un rifiuto pratico di eseguire quel che la legge morale
comanda; nel caso, invece, dell’attivismo si tratta di una prospettiva
totale per cui gli altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più
senso parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come
definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di solipsismo, e
personalmente sarei portato a credere che l’unico senso preciso che si
possa dare alla nozione di solipsismo sia questo; insostenibile come
posizione teoretica, il solipsismo è possibile come atteggiamento
vissuto. La totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta
a togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra
che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che proietto
davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà discutere; ma è comunque
certo che all’azione di Mussolini non si addicono la qualificazione di
anarchica, perché resta sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del
potere, e invece Mussolini la sua conquista, né quella di
reazionaria, perché non si può rintracciare la tradizione che
Mussolini abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e
di comunista. 187 A me pare che partendo da una
fenomenologia dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti
contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha giustamente
notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini.! Perfettamente De
Felice ha parlato di un miscuglio di personalismo, di scetticismo, di
diffidenza, di sicurezza in se medesimo e al tempo stesso di sfiducia
nell’intrinseco valore di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare
all’azione un significato morale, un valore che non fosse
provvisorio, strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal
personalismo. Bene Cantimori lo ha delineato, nel 1935: «Questo
senso della potenza, questa volontà di predominio che lo fa
identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo
protagonismo politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per
un’affermazione della propria volontà, consapevolezza e affermazione
della propria individualità... e questa consapevolezza di sé, questo
esser continuamente presente, cosciente della propria volontà e della
propria individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea
con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale
consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio, in
compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute». Per sé,
l’identificazione con la causa del proprio popolo caratterizza ogni
politico ed è da essa che questi trae la propria forza; ma in Mussolini
si compie in una volontà di predominio, in un protagonismo politico che
è consapevolezza e affermazione della propria personalità; che
altro può significare questo se non un’identificazione che si opera a rovescio
di quella dei grandi politici attraverso una specie di assorbimento, per
così dire, del popolo in sé? Di qui quei caratteri che sconcertarono
quegli uomini della 188 vecchia generazione politica
che furono in rapporto con lui: l'esclusivo e feroce culto di se
medesimo, l'eccezionale energia volitiva, la nessuna discriminazione fra
il bene e il male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui
è da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di Mussolini
a questo semplice immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo
successo. In realtà, nella disposizione attivistica abbiamo una singolare
coincidenza di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di
autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento
della personalità morale degli altri. Qui è anche la radice ultima
dell’antiliberalismo fascista, se il liberalismo è caratterizzato dal
rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui
particolarmente aveva insistito Gobetti, del suo tatticismo e
trasformismo: l’assenza della finalità ultima dell’azione gli concedeva
infatti una disponibilità massima per ogni tatticismo e
trasformismo, ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un
valore che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra
contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che come creatore,
mentre di fatto la sua azione non poteva esplicarsi che come
distruttrice. Per la radicalità di questa azione distruttiva, pensiamo
infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche decennio, nei manuali di
storia: c'era una realtà storica nuova, il Regno d’Italia, fondato nel
1861, e fu Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto
questo rapporto, veramente l’antiCavour. Si intende anche
l’osservazione acuta di Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un
«capo»; ciò, però, non già perché vi si debba vedere quel che Gramsci
pensava, «il tipo concentrato del piccolo borghese italiano», ma in
ragione 189 proprio della sua disposizione
attivistica. Costretto da essa a trattare gli altri come forze, veniva a
sua volta visto dagli altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche
la continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui si
alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze con altre; onde
la sua continua politica di compromessi e di contrappesi, anche se si
trattava di compromessi che non si davano per tali. Onde perfettamente De
Felice ha scritto che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non
si accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo margine di
autonomia si riduceva sempre più e che la logica delle cose, dei problemi
di fondo rimasti senza soluzione, lo soffocava progressivamente, e lo
riduceva a un piccolo Laocoonte che appariva forte solo perché poteva
gonfiare i muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio
di spire che lentamente lo avrebbero soffocato».® Si intende
pure la sua sfiducia negli uomini, la sua incapacità di comunicazione
umana e di amicizia, e quindi il ricorso al pessimismo di Machiavelli per
sentire questa solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio
al Machiavelli, del 1924, è tra le pagine che meglio illuminano la
sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come potessero combinarsi
in lui una straordinaria attitudine di parlare al popolo e di trascinarlo
in quanto massa, e l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto
singoli, e di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura
della Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi
che determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella
tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi interventi.”
Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e
190 di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché
questi uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro
volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo essere le
coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho addotto
per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico,
in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con
l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei tratti
psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di
Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta
per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col
materialismo; dalla irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della
posizione rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser
posto il problema del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca.
Bisogna però guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea
della cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e
ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario
ritratto che lo rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con
qualità, in questo genere non comuni; o nell’altro che vi vede
l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento,
a seconda della possibilità di successo; di cui poi è specificazione
quello del traditore o del transfuga, o rispetto al socialismo o
all’interventismo democratico. Certo, non poté incontrare i problemi
culturali che da politico; e pensò contro certe idee che trovava
incarnate in posizioni politiche, e aderì a certe vedute culturali
piuttosto che ad altre, in relazione a questa polemica politica. Una
volta che si è detto questo, si deve vedere quali pensatori abbia
dovuto IS incontrare e domandarsi se abbia verificato
nella pratica, e quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di
pensiero. Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta
del socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava; del
marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine Ottocento, e
diventato un consiglio di prudenza ai rivoluzionari. * Perciò «anch’egli
fu detto e si disse volentieri “idealista”» perché «aperto come giovane
che era alle correnti contemporanee, procurò a infondere al
socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della violenza di Sorel,
l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto
il volontarismo che da più anni era nell’aria intellettuale e che pareva
a molti, idealismo». È il noto giudizio di Croce, * non inesatto, ma
tuttavia generico, e che per questa genericità rischia di sviare.
Maggior significato si deve dare alla rievocazione, singolarmente
istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustrò nell'ottobre 1939 a De
Begnac il processo che l’aveva portato più di vent'anni prima alla
fondazione dei Fasci di combattimento: «Le guide spirituali erano rimaste
indietro di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza
della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una
sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un libro per noi
combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi erano
culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli economisti
riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita. De Viti, De
Marco, Einaudi, Ricci e, soprattutto, Pantaleoni e Pareto. Sorel
sembrava appartenere ad altra età, ormai. Gentile preparava la
strada a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa».®
Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è
22 difficile pensare che nei primi mesi del 1919 Mussolini
abbia guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo
Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce
però una veduta importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si
devono dare all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il
Mussolini «fascista» succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei
protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, Croce e
Sorel, non gli parlavano più; mentre invece la sua veduta sul
momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la veduta
affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun
modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che
non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia
penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista
come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo
perciò passare qui a definire il senso dell'incontro di Gentile e
Mussolini. Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva
provato interesse per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile
soltanto per il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di
un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che possono aver
esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon.
Genericamente possiamo dire che fu un incontro per negazioni: per un
verso l’attualismo gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso
l’azione, mentre per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare,
a modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel
riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni
che pure pronunziava il fascismo. Mentre il 193
fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno di una
legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò al pensiero di
un'illusione del filosofo, accortamente captata dal politico. In questo
discorso la premessa è insufficiente e la conclusione inesatta.
Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come Gentile
possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è strettamente simile.
È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che fu dedicato, nel
mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx,
1899) non è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può
infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato dal
materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il senso
dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve
venir vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti
fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile
che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra
storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo
diciannovista. Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza
atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo
costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace
di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che
pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini del novembre 1943, che decise
la sua adesione alla repubblica sociale, «O l’Italia si salva con lui, o
è perduta per parecchi secoli», debbano venir intese nel senso più
letterale, come conferma ultima di questa sua interpretazione. Anche
quando tutto indicava che il fascismo stava per concludersi in una
catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza
194 intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar
fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento
della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso converrà
prender le mosse dallo scritto dell’agosto 1927 su Origini e dottrina del
fascismo. La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo
aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che
Croce non soltanto si era messo all'opposizione, ma dopo che aveva
ragionato i motivi di questa nella Storsa d’Italia dal 1871 al 1915,
dello stesso anno. Il primo paragrafo si intitola «Le due
anime del popolo italiano prima della guerra» e contiene
un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e
della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla
vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde perché
«c'erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due
anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si
contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione
che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale
col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto,
quel che è conservabile». La partecipazione italiana alla prima guerra
mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo
strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non
risorgimentale: «...entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la
nazione, dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e
la Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e
militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero potuto
arrecare... In guerra bisognava entrare per 195
cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi più per fortuna
che per valore dei suoi figli... Cementare la Nazione, come può fare
soltanto la guerra, creando a tutti i cittadini un solo pensiero, un solo
sentire, una stessa passione, una comune speranza... Cementarla,
questa Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di
muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed entrare
insomma nella storia, con una sua personalità, con una sua fisionomia,
con un suo carattere, con una nota sua originale, senza più vivere
d’accatto sulle civiltà altrui, e al’ombra dei grandi popoli fattori
della storia. Crearla dunque davvero questa Nazione, come soltanto è
possibile che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso
il sacrifizio». Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione
democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la libertà delle
Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme del saggio è estremamente
interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico
e l’interventismo fascista; insomma, tra il fascismo e quello che
successivamente prenderà nuova forma come Partito d’azione.
Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti stavano per il
tornaconto e gli interventisti per una ragione morale, non tangibile, non
palpabile, non pesabile sulla bilancia». La prima parte era per Gentile
quella dell’Italia giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è
appunto nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile
il suo incontro con Mussolini: «Mazziniano (quest’ultimo) di quella
tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua Romagna, egli aveva
già superato, prima per istinto e poi per riflessione, attraverso una
giovinezza travagliata e pensosa, 196 ricca di
esperienza e di meditazione, nutrita della più recente cultura italiana,
tutta l’ideologia socialista». Particolarmente importante è quanto
vi è detto sulla separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che
per il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la volontà
e la personalità dell'individuo, perché concepita come obiettivamente
esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche
se questi non lavorino a farla esistere, a crearla. [...] L'individuo nel
nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il
suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o
condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve
morire; mentre per il fascismo lo stato e l'individuo si immedesimano, o
meglio sono termini inseparabili di una sintesi necessaria». In breve,
quel che caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal
nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui
proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori.
Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce nello sviluppo
del fascismo per contenderlo a conservatori, nazionalisti e
tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene da lui assunto nei
riguardi della monarchia; nel nazionalismo essa era un presupposto in
quanto faceva parte del processo di formazione storica della nazione
italiana. E viceversa per Gentile «tutto che pareva già in essere, e
quasi un legato ereditario, si trasfigura in una nostra personale
conquista, che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne
siamo gli autori». Sarebbe totalmente errato ridurre questo
saggio a un puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del
Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta
24 con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi
scritti, espressa già nella prefazione a Rosmini e Gioberti (1898); e
Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx sono due libri inseparabili.
* Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo
in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma della
dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato, ecc.; ma il
termine di riforma significava per lui non già rettificazione di un
ordine costituito, ma nuova forma attraverso cui il passato deve essere
restituito a nuova vita; è più prossimo cioè a quello di rivoluzione che
a quello di riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è
veramente inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica,
continuazione in certo senso di quella riforma cattolica giobertiana in
cui già si trovano tutti i motivi del modernismo; né ha senso per lui
come puro sistema speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli
è l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una
linea che va da Bruno a Gioberti, né del resto egli presentò la sua
filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir detto l’ultimo
dei risorgimentali. Gentile aveva curiosamente ritrovato la figura
del filosofo politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini
e Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere
espresso nella formula che segue: il marxismo separato dal materialismo e
il giobertismo separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si
identificano. Da ciò era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento
che si ricollegava a quella di Gioberti nella forma di
continuazione e di approfondimento; di un giobertismo particolare,
però, per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva
198 affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si
stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si può dire che
come Marx pensa alla rivoluzione francese come rivoluzione compiuta, così
Gentile pensa al Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto.
Dal mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di
religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva,
oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso nazionalismo.
Procedendo per accenni, è importante osservare quale scossa avesse
rappresentato per lui la Prima guerra mondiale, e particolarmente
Caporetto che gli parve segnare il crollo dell’Italia post-risorgimentale,
e quel che seguì, in cui egli ravvisò la rinascita dello spirito
risorgimentale. Ebbe allora l'impressione che le cose venissero a lui,
confermando la sua veduta filosofica e permettendone la
realizzazione, onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e
la marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e Dopo
la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi di religione,
in cui l'accento cade sull’impostazione di una politica religiosa.
Possiamo così renderci conto della necessità dell'incontro. Era
naturale che Gentile pensasse che come egli, a partire dalla critica
teorica di Marx, aveva incontrato il pensiero risorgimentale, lo stesso
dovesse avvenire per Mussolini a partire dalla critica politico-pratica
del marxismo.” Si vede dunque come, in sede di un giudizio
storico e non moralistico e polemico sul fascismo, la questione
delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba
esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso
199 di come viene presentato dalla consueta pubblicistica,
se portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il
maggior filosofo italiano del tempo. D'altra parte non può non
essere senza significato il fatto che le stesse critiche fondamentali
mosse contro l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano
come criteri storici essenziali per intendere la natura del
fascismo. Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea
che Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini si
formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato ancora trattato da
alcuno, che io sappia. Certamente si può pensare che egli non abbia
troppo gradito di venir considerato come lo strumento di una riforma
religioso- politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava
i termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie.
Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da parte; così
ricorse a lui per la stesura della Dottrina del Fascismo; così mi è
sembrato molto significativo quell’accenno nella conversazione con De
Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non era certo troppo in
auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.
Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il fascismo,
secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione rivoluzionaria, di
origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati
di quella critica del marxismo teorico che fu svolta in Italia negli
ultimi anni dell’Ottocento e di cui l’attualismo può essere considerato
la conclusione filosofica. Naturalmente, questa definizione non
concerne che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare
la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si
200 sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la
guerra mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la
trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito della vittoria
mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc. Come
si inserisce in quella che prima si è chiamata l’epoca della
secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve essere definito come
alternativa al leninismo (al leninismo, si badi, non allo stalinismo;
anche se lo stalinismo e il richiudersi della Russia in se stessa
potevano sembrar confermare la validità della soluzione fascista). Ma il
termine alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due
sensi: quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in
una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla
russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare, intorno
al 1930, a una prossima fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in
questo secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la
differenza tra fascismo e nazismo. Intorno al 1920, due uomini si
contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la vera figura del
rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve riconoscere che in questa pretesa
Mussolini fu veramente sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la
sua giustificazione storica, nel senso di condizione della sua
possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto realizzarsi
come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto arrestarsi davanti alla realtà
delle nazioni. Il constatare però che il fascismo sia fallito come
rivoluzione non equivale a dire che debba esser considerato come
fenomeno reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui
Mussolini avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi,
201 servendosi come copertura di una fraseologia
rivoluzionaria. Ma la considerazione dell’esito non può servire
come criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio,
dice che il comunismo è fallito perché ha portato a una « nuova
classe», più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente dire con
questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione reazionaria.
Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il
giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali tradizionali
in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio, il secondo, carico
delle più gravi conseguenze pratiche. Quel che, a mio modo di vedere, il
crollo del fascismo propriamente detto coinvolge, è la linea dei
riformatori religioso-politici italiani, linea unitaria che è
insieme antiprotestante e in posizione eretica rispetto al
cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile, al tentativo
di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si risponderà
che nessuno pretende realmente affermare che la caduta del fascismo
coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma questo significa
soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che
l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica
fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso
livello, non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la
sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo
mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato
come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e
«fascismo» è fatto sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare
a simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono ben
certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto
202 che la formula di «resistenza contro la trascendenza»
facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di
repressività». Per il significato di quanto ho detto, valga un esempio.
Comunemente si pensa che il fascismo abbia trovato un sostegno valido in
quella parte del mondo cattolico che più era avversa al modernismo; e in
realtà, si può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei
suoi componenti; obbedienti a quella visione cattolica
dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna globale tutti gli
aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò la critica del modernismo,
e che effettivamente era prevalente tra il 1920 e il 1930 (come
dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro
il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e
il socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,
lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se questo è
vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di
un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi
a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo
sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto
facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che
abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi
nessuna figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si
sia, per un momento almeno, illusa su di lu (anche Salvemini e Gramsci,
al tempo dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece
l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere
considerato come il più coerente dei modernisti (in polemica con altri
modernisti per questa sua coerenza)? sia stata intellettualmente
obbligata. 203 È per un singolare travolgimento che
si pensa oggi come interiormente obbligata l'adesione dei
tradizionalisti, di qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata
da illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E
proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come abitudine mentale,
che il presente discorso è diretto. Alla base di questo
travolgimento sta l’idea che novità sia sempre sinonimo di poszzività.
Idea, se ben si osserva, che è intrinseca all’epoca della
secolarizzazione, perché questa conferisce un significato magico, di
parola-forza, al termine rivoluzione; oggi quasi sempre, come
perfettamente osserva Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne
part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca».® 3.2
Gentile e Gramsci Alcune premesse sono necessarie. In
che senso dico — prego intendere quanto scrivo alla lettera — che il
pensiero di Gentile rappresenta una svolta di capitale importanza nella
storia della filosofia, in un senso la più importante del Novecento, e lo
dico senza essere per nulla gentiliano? In quello che ha
portato all'estremo non soltanto, come normalmente si dice, l’idealismo o
la sua forma soggettivistica, © ma /a filosofia del primato del
divenire, chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che
si trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del
pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, :/ rapporto di
necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della filosofia del
divenire, e la più radicale negazione della metafisica. Parlare perciò di
una «svolta gentiliana della 204 storia della
filosofia» significa questo: la sua considerazione ci permette di
giudicare tutte le forme di pensiero antimetafisico anteriori o
successive, e di motivare le ragioni per cui non possono venire affermate
dopo l’attualismo. Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente
entro la filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa
concluda in uno scacco, permette anche di definire, facendola almeno
intravedere controluce, quella sola linea in cui il pensiero metafisico
può venire ripresentato! O, in altre parole: la sua grandezza resta
identica, per la svolta che condiziona, sia che si parli di successo come
di scacco. Che la mia persuasione sia la seconda, non ha ora
importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un
lungo periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero
appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime opere che,
per la loro data (1898 e 1899), possono essere considerate come i due
ultimi grandi libri di filosofia apparsi nell'Ottocento, e in cui tutto
il suo pensiero successivo si trova già virtualmente precontenuto,
Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta
come la sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista
nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica giobertiana
resa coerente attraverso lo hegelismo», rappresenti il punto ultimo,
soltanto ora raggiunto da coloro che si definiscono nuovi teologi, del
modernismo religioso.* Per quel che riguarda la seconda ho già accennato
— ma devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era
ancora, al tempo in cui ne scrissi (1964), sufficientemente chiaro — alla
sua definizione come punto ultimo a cui deve giungere lo svolgimento
dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi; quindi come un
oltre-marxismo 205 rispetto a cui il marxismo non si
trova nella possibilità di rispondere. Si dirà che, dal 1930
a oggi, la sua fortuna anche qui in Italia — e si era trattato, del
resto, di un successo che aveva avuto scarsa eco oltre frontiera — è
andata costantemente declinando rispetto a quella di Heidegger, e
che l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo, di
cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È vero, ma, se
ben si guarda, la visione heideggeriana della storia della filosofia,
quale emerge dal libro su Nietzsche, coincide singolarmente con quella
proposta da Gentile, ma con segno rovesciato: è, cioè, letta come
processo verso il nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire
che la filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di
Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la
filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di
Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua eccezionale
importanza attuale; è attraverso il suo studio che possiamo renderci
conto della profondità della crisi del pensiero teologico-metafisico e
delle sue radici. D'altra parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci)
nello hegelo- marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.
Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di Heidegger come versione
del suo pensiero in forma di filosofia speculativa; per sottrarsi deve
tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua
opera principale Storia e coscienza di classe, al materialismo
dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero nella cui
critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei convergenti punti di
partenza dell’ attualismo.@ 206 liga
Tratterò in questa occasione della questione seguente: se la
proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo dello
svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia della prassi», sia
suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo per affrontarla in una posizione
privilegiata in ragione dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la
filosofia dello Spirito», Antonio Gramsci. Uso il termine «filosofia
dello Spirito», invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo,
eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle negazioni che lo
specificano. Quella filosofia italiana che genericamente viene detta
idealistica, e che è la prima filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo
facendo inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir
caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»: contro la metafisica
per la negazione dell’intuizione intellettuale, contro il positivismo,
per la sua subordinazione alla metafisica, che lo costringe a esprimersi
come naturalismo. In questo senso generale la «filosofia dello
Spirito» abbraccia così l’opera di Croce come quella di Gentile. Il
rapporto col marxismo è patente: al modo del Marx filosofo, Croce e
Gentile rifiutano così Platone come Democrito, così l’idealismo
metafisico come il materialismo naturalistico. Per raggiungere la piena
coerenza in questo assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il
successo del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello
Spirito» non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è
la riapertura di un problema interno al suo processo di
costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere
la 207 riaffermazione di Marx dopo la «filosofia
dello Spirito», correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale
si rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di
vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello hegelismo. Vuole
portare cioè il marxismo al massimo rigore critico, liberandolo da tutte
le incrostazioni positivistico- naturalistiche, o paleomaterialistiche o
giusnaturalistiche o neokantiane. Il suo problema è rigorosamente
filosofico, dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla
prova della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera
fanno per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei
termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché totale, è
possibile? È noto come su questo neomarxismo circolino due
giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa che il
marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che possa dar luogo a una
prassi politica capace di portare al successo i partiti comunisti
occidentali. Per il secondo sarebbe una sorta di marxismo diminuito,
accompagnante il processo di dissoluzione della rivoluzione come
sua involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della nuova
classe borghese quale che possa essere il successo del suo partito,
giudizio che fu portato alle conseguenze estreme da un comunista non
secondo a nessuno per integrità morale, Amadeo Bordiga. Entrambe le
vedute sono vere; ma quel che può sembrare paradossale e curioso (ma
si dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non
marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e comunisti
autentici. Per anticipare brevemente quel che è il mio punto di vista,
dirò che vedo nel gramscismo non già il marxismo contagiato da influenze
filosofiche estranee, ma la 208 sola forma in cui
esso può riaffermarsi dopo la «filosofia dello Spirito»; questa posizione
non può però venire assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà
storica a cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel
«principio speranza»; ma, d’altra parte, è inutile cercare dopo Gramsci
un «miglior» marxismo, a cui corrisponda una più adeguata politica.
Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo antigramsciano.
Esse hanno a punto di partenza i giudizi di chi prende posto nella storia
contemporanea come il più intransigente moralista in nome del marxismo
letterale e del comunismo nella sua versione ideale, Amadeo Bordiga, e
hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno dei migliori
libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, quello del marxista
tedesco eterodosso Christian Riechers.* Riechers, che pure non mostra di
avere una conoscenza approfondita del pensiero gentiliamo (al punto
di accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del marxismo a
quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano teorico critica Gramsci
per aver sostituito al materialismo marxiano un idealismo soggettivo di
stampo kantiano- fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui
corrisponderebbe sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo
di sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra [...] la
maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio fascista nel
socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da sostituire l'attributo
fascista con quello di democratico, socialista o comunista, per scoprire
negli scritti di Gramsci una posizione analoga alla loro». Tolto il tono
polemico, la frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo
di Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo,
209 di cui fascismo e postfascismo sono momenti che
si avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo stesso
vedere nel fascismo un delitto, proprio degli antifascisti, è posizione
di chi deve chiamare delitto un errore perché partecipa dello stesso
errore. Orbene, uno studio approfondito di Gentile può perfezionare la
tesi del Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge
la critica anche dell’eterodossia marxista. La questione che
ho proposto mi porta a una serie di tesi la cui enunciazione può sembrare
sconcertante, anzi stupefacente: 1) Soltanto la discussione
del tema Gentile-Gramsci ci mette in grado di formulare adeguatamente le
categorie interpretative della storia contemporanea. 2) Con
la sua discussione giungiamo al momento conclusivo di quella che suol
venir detta interpretazione transpolitica della storia contemporanea,
cioè quella che privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il
momento filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e
politica come tratto nuovo che la specifica. 3) Possiamo parlare
in questo senso di un «paradigma italiano», decisivo per una lettura
veramente adeguata di detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono
trovare spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano).
Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il
carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di essere,
entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso della filosofia della
prassi. Di questi svolgimenti, quale il più 210
rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe le filosofie,
e che è guidato dalla più ferma intenzione di riaffermare il marxismo, ci
dà la possibilità di una soluzione rigorosa della questione.
Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative della storia
contemporanea, e della possibilità di graduare, nella sterminata
letteratura sull’argomento, il momento di verità delle varie tesi, solo a
partire dalla soluzione di tale problema? Nel suo aspetto rivoluzionario
la storia contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di
queste due filosofie della prassi. La rivoluzione marxleninista e le sue
eresie, per un verso; per l’altro, l’idea di una rivoluzione occidentale
ulteriore alla rivoluzione russa,© in quanto adeguata a Paesi superiori
per civiltà e cultura, o per essere più esatti, per grado di
modernizzazione. Non a caso questa idea maturò soprattutto in Italia in
relazione così al tentativo di riforma dello hegelismo come
all’interventismo rivoluzionario (la guerra come rivoluzione, o per la
rivoluzione) e incontrò la filosofia di Gentile, anche se assunse poi
forme opposte fino alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza
pure le forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo).
Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi propongo — che
il neomarxismo di Gramsci non è più marxismo nella misura in cui cede
all’attualismo. Avremo che la politica che esso promuove prende posto in
una rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che
Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente lavorò (da ciò il
suo dissenso con lo stalinismo), perché il modello russo non può essere
trasportato identico nei Paesi occidentali, ma perché 07 più marxista. La
domanda che 211 sorge è se, nonostante l'opposizione
mortale, non si debba vedere una continuità tra il periodo fascista e il
postfascista, come continuità di un processo di dissoluzione. In
termini filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo
aver elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo
punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di processo verso
il nichilismo.” Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale.
Se l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della filosofia
della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, nel senso di
strumento di potenza (ossia, Lenin ha trasformato il marxismo in
ideologia). Perciò la rivoluzione che esso ha promosso ha dato luogo alla
forma estrema dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico,
con cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo
sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la forma
filosoficamente più rigorosa, non realizza la rivoluzione, ma il suo
opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve
però produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si
osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della prassi, come
termine ultimo della filosofia del primato del divenire, non può
esplicarsi che storicamente e praticamente. È In dipendenza
delle considerazioni sinora svolte, la trattazione presente deve
articolarsi in tre punti: 1) Gramsci pensa di poter risalire da
Croce a Marx, perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito,
di ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa.
Ossia, egli pensa di aver compreso «il segreto di Croce».
212 Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva,
ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante, o anzi,
come il «genere» filosofia senz'altro (con la proposta della sostituzione
della metodologia alla filosofia), ora come l’irrazionalismo: Gramsci
dice che è serzpre soprattutto il marxismo, e che quello di Croce è
l’unico tentativo serio di vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il
marxismo emergerebbe nella sua forma più rigorosa. In questa
asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia di Croce è una
«ritraduzione in forma di filosofia speculativa di un’altra filosofia».
Ma quest'altra filosofia è la filosofia della prassi di Marx o invece quella
di Gentile? Si può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci
dunque, nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra
Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx. 2)
Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le novità del pensiero
di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a Lenin — novità che nessuno può
negare — non possono trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o
del marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma
gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il cedimento
rispetto a essa). 3) Come può dunque Gramsci essersi illuso di
aver ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal
marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche dalle
formulazioni criticamente elaborate? Occorre distinguere la filosofia
della prassi’ gentiliana, dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne
aveva dato e dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente
anche un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta
quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più 213
precisamente nella veduta attualista della storia della filosofia,
ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il risorgimentale
Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al rivoluzionario Gramsci. Si
tratta, tuttavia, di una rivoluzione che si rovescia in dissoluzione: il
nome di questa rivoluzione che si rovescia in dissoluzione è:
«contestazione». Non è un caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo
marxista la cui fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme
anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata.® Lal
Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la filosofia del
Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia
di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia»,
ha poi storicamente torto nell’identificare col marxismo la filosofia
della prassi che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto
nell’idea dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario
sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione quasi sempre
sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario- marxista era stata
accesa in Croce da Labriola, e poi criticata senza troppa difficoltà in
questa forma labrioliana, e i motivi della critica rivoluzionaria si
erano rovesciati nella critica della mentalità radicale, e nell'accordo,
su questo punto, con Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse
riportato allo Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al
moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un purismo etico,
giovevole come «un’armatura, onde egli mi rivestiva contro il
disfacimento dell’etica operato dall’associazionismo, dallo psicologismo
e 214 dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che
stava sempre nel fondo di questi tentativi», ma al filosofo che aveva
sentito l’importanza della distinzione; e affermato una linea che
porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del momento
economico alla hegeliana riconciliazione con la realtà. Intenzione —
sinora, per quel che so, non segnalata, ma che la corrispondenza rende
chiara — del Gentile de La filosofia di Marx è di portarlo al suo
pensiero attraverso una considerazione del marxismo più profonda di
quella di Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella
di Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di
quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si atteneva. Si
sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle esigenze spirituali,
che portarono Croce alla filosofia, tali da spiegare perché questo
tentativo doveva andare fallito; separando Croce le accettate critica
dell’intuito metafisico e affermazione del formalismo — che rendono
possibile anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un
tempo dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della
prassi. In quegli anni tra il 1895 e il 1900, Labriola e Gentile si
contendono Croce, senza riuscire completamente né l’uno né l’altro nel
loro intento; e senza intendere appieno, né l’uno né l’altro, le ragioni
della resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche
se rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce e
di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe
dovuto ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo,
dato che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di
filosofia speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile.
Avrebbe dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto
215 non è ancora una prova sufficiente del suo
attualismo. Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto
un parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando la
superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere questa ricerca
con la dimostrazione che il ripensamento italiano dello hegelismo doveva
logicamente concludere con la riaffermazione del marxismo. Le due
ricerche potrebbero essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso
della seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non è
tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama marxismo è il
risultato coerente della ritraduzione di Croce, così coerente da
ricostruire dopo il crocianesimo l’attualismo, come se procedesse dalla
traduzione al testo originale. Possiamo convincercene attraverso varie
vie. La prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana
dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la formulazione
nuova che in Gramsci trova il concetto marxiano di società civile, con le
sue implicazioni, tra cui quella dell'abbandono dell’economismo e del
materialismo marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola,
# inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire che
l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece recepito da
Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il blocco storico. La quinta
è il giudizio sulla funzione capitale accordata alla filosofia italiana
nel processo di modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza
da Lenin rispetto alla nozione di egemonia. Per gli ultimi
cinque di questi punti, se ne trova la miglior conferma in uno scritto
che Norberto Bobbio ha dedicato a Gramsci e la concezione della società
civile e che è il più penetrante nella linea, per dir così,
gramsciano-azionista, 216 che è anche accettata,
sostanzialmente, in quanto riforma del marxismo e del leninismo che è
insieme loro sviluppo, dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui
è nota la scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti
la domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda
innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista» possa
essere considerata uno sviluppo del pensiero marxiano, o risulti invece
dall’accettazione della critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria,
dato l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero
speculativo di Croce. È piccante osservare come le precisazioni
testualmente esatte del filosofo italiano più avverso a Gentile
rappresentino le tappe per la dimostrazione rigorosa del cedimento in
Gramsci della filosofia della prassi marxiana rispetto alla
gentiliana. Cominciamo con l’osservare come la critica
gramsciana dello storicismo crociano coincida puntualmente con
quella svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al
divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che questa
sostituzione coincide con quella del divenire reale con un divenire
dipinto; che la «non definitività» della filosofia ricopre di fatto la
«definitività» della società liberale, apparentemente aperta allo
sviluppo, in realtà chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che,
insomma, per usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente
sostituito all’apologetica «diretta» dell'ordine esistente un’apologetica
«indiretta». Che lo storicismo di Croce, come storicismo separato dalla
filosofia della prassi e dall’unità di pensiero e di azione, è uno
storicismo chiuso al futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui
Gentile nel 1942 conclude definitivamente i suoi conti con Croce,
217 Storicismo e Storicismo,* riscontriamo una
corrispondenza perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano
come appoggiato a «fondamenta semplicemente dipinte», perché
all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti; così da
essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il futuro preveduto o
comunque pensato come un qualunque possibile futuro, è logicamente un
passato rispetto al pensiero che lo raffigura nel sistema necessario
della logica». Passiamo ora all’«innovazione profonda» che
Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in
questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società civile
vista come appartenente non al momento della struttura, ma a quello della
sovrastruttura; cioè per Marx la società civile, intesa come «il vero
focolare, il teatro di ogni storia», comprende secondo la definizione
dell’Ideologia tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica,
«tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui
all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive».& Affermazioni che sono la premessa della celebre
definizione della Critica dell'economia politica: «L'insieme di questi
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società,
ossia la base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e
politica e alla quale corrispondono forze determinanti della coscienza
sociale». Nella scuola marxista si può trattare dell’azione
reciproca tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato
della struttura, con la teoria materialistica del «riflesso» (le
idee come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per
«società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico- culturali
della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla testa, sia pure in
modo diverso da quello che aveva fatto 218 Hegel. La
storia non è più, in primo luogo, storia economica, ma storia delle
concezioni del mondo, storia della filosofia. È quel che attesta il passo
gramsciano così frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della
prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma
intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare
e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante più Rivoluzione
francese; è una filosofia che è anche una politica e una politica che è
anche filosofia».& Detto questo, le altre novità gramsciane che
Bobbio mette in luce con tanta precisione non possono servire ad altro
che a illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci
da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua, certamente non
voluta né consapevole, subordinazione all’attualismo. Sembra
che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di Gentile da La filosofia
di Marx alla prolusione palermitana del 1907 sul concetto di storia della
filosofia, in cui la storia, in obbedienza, per così dire, al mondo
rimesso sulla testa nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella
storia della filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il
concetto «borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione
rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base della
«modernità» si ha poi l’incontro tipicamente gramsciano tra la borghesia
progressiva e il comunismo, quell’incontro così severamente giudicato da
Bordiga, ma non da Bordiga soltanto. La novità rispetto
all’idea della società civile è correlativa all’abbandono
dell’oggettivismo di Labriola, come pure Bobbio acutamente avverte, senza
però osservare che avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava.
Per 219 Labriola la tesi che «le idee non nascono dal
cielo» era equivalente alla loro spiegazione a partire dalla
struttura economica, secondo la notissima sua frase per cui «la
struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i modi di
regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini (il diritto, la
morale, lo Stato), 1 secondo luogo e per indiretto gli obiettivi della
fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della
scienza». Le idee non nascono dal cielo neanche per Gentile e per
Gramsci; ma le concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni
una funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un
potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era appunto il
senso del congedo del materialismo marxiano — dell’ antDibring in nome
dell’elemento più positivo e rigorosamente critico delle Tesi — proposto
dal Gentile anti- Labriola. La concezione gramsciana della società civile
porta alla critica dell’economismo a cui consegue quella del
materialismo.* Marxismo dissociato da materialismo e da economismo; ma
non è una definizione che vale esattamente per l’attualismo? Con un
paradosso soltanto apparente si potrebbe giungere a dire che il
rimprovero mosso a Croce da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni,
ascoltato Gentile... Passiamo a un quarto punto, a
quella nozione di «blocco storico», in cui, benché gli accenni contenuti
negli scritti gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il
«nucleo fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi
pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali sono il
contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui Gramsci pensa di
dover immediatamente aggiungere che «la distinzione di forma e di
contenuto è meramente 220 didascalica, perché le
forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le
ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze
materiali»; così che l’unità-distinzione tra la struttura e la
sovrastruttura viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.®
Frasi di cui è inutile sottolineare l'accento attualistico.
Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul primato italiano
nella promozione della rivoluzione comunista a rivoluzione mondiale. Per
lui, la missione del popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo
romano e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non in
quella nazionalistica rivolta al passato.® Quanto a dire è nella
continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia dello Spirito
italiana, vista da lui come il punto più alto sinora raggiunto dal
pensiero, che il marxismo si eleva alla sua forma rigorosamente critica,
condizione del carattere mondiale della rivoluzione. Anche
se non mi sembra si possano addurre passi precisi al riguardo, ho
l’impressione che il nuovo concetto di società civile ha tra l’altro la funzione
di permettere, attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione
in linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la
nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come strumento
rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva parlato dell’egemonia come
«direzione politica», andando in ciò oltre al marxismo nella direzione
volontaristica e partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa
direzione politica alla «direzione culturale». Si potrebbe dire che
il progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente per
Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può trovare il suo
fondamento solo nel passaggio dalla prima alla 221
seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto che
meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione. Anche se non si
possono trovare citazioni precise, credo si possa considerare pensiero
centrale di Gramsci quello che la riforma teorica del marxismo conseguente
alla riforma italiana del pensiero classico tedesco rende anche
possibile la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti —
non sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si va
fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella di Stalin e
quella di Trockij. Perché si può dire che in entrambe egli dovesse vedere
la conseguenza del non risolto problema leninista; nello stalinismo
prendeva la forma della subordinazione della teoria alla pratica, con la
conseguenza della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere
che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo. Quanto
al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il processo
rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione sino a che non si fosse
elaborata una filosofia rivoluzionaria con significato veramente
mondiale. La priorità della direzione politica poteva cioè portare
alla formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà
universale, solo a condizione che fosse subordinata a una concezione del
mondo, non più usata strumentalmente, ma valida perché vera, tale da
imporsi agli intellettuali. Ciò aveva portato alla delusione degli stessi
intellettuali marxisti occidentali rispetto al comunismo russo, e alla
loro solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici
nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse fenomeno russo e
non inizio della rivoluzione mondiale.* Come reazione di Gramsci a questa
impressione deve essere inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione
del popolo 222 italiano. La rivoluzione mondiale
deve, cioè, procedere dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione
veramente critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera
fr ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta
politica e a cui lavora negli anni del carcere. Lal
Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole, alle ipotesi
pronunziate all’inizio. È frequente il discorso sull’insuperabilità della
crisi che il marxismo non può confessare, e che non può confessare perché
è insuperabile. Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto
a Gentile ci permette di definire questa insuperabilità. Davanti
alla «filosofia dello Spirito» italiana non ci sono per il marxismo
filosofico che due vie: o respingere assolutamente tale filosofia dalla
storia del pensiero,@ o trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si
porti l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci
può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere sostenuta: il suo
è uno dei vari modi in cui può essere sostenuta entro il marxismo la tesi
dell’unità di struttura e di soprastruttura; il gramscismo può anzi
essere visto come la forma più liberale che il marxismo sia suscettibile
di assumere. Le cose cambiano completamente, come si è visto,
quando si ponga il problema del rapporto con l’attualismo. D'altra parte
evitare questi conti è impossibile perché sia marxismo che attualismo si
presentano come l’esito della filosofia classica tedesca.
Bisognerebbe dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove
ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del 225
modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero
marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso sull’involuzione
attualistica dello hegelismo nel giobertismo, nell’«ideologia italiana»,
eccetera; tutti i discorsi del «cattaneismo» oggi corrente.
A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche definito il
limite del marxismo di sinistra antigramsciano. Ha ragione quando afferma
che il neomarxismo di Gramsci non è effettivamente più marxismo; non però
perché contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche modo
passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il modo di pensare del
suo autore non sia stato rigoroso: si deve invece dire che rappresenta
esattamente quel che il marxismo deve diventare quando vuol prendere
posizione rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio
ancora: come già si è visto, l’originalità incontestabile del
pensiero gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti
filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a Labriola,
ha posto il problema dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché
la rivoluzione non venga riassorbita nel «vecchio mondo»; da ciò
l’eccezionale importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La
critica di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del
nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di fatto
abbisogna di una diversa giustificazione teorica. Questo marxismo di
sinistra respinge il Diazzat come ideologia, e respinge insieme il
gramscismo e, senza dubbio, le sue osservazioni sono molto pertinenti per
quel che riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo.
Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che possa venir
sostituita alla posizione di Gramsci; ed è 224
dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel senso del
marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare tutte le forme in cui
sinora si è realizzata o si propone. Quanto si è detto porta al non
piccolo risultato del riconoscimento di un’impotenza non
superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile
del marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto
nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco- fallimento,
ma come scacco-occasione di una svolta nella storia del pensiero. Ogni
altra critica appare esterna rispetto a questa: che mostra come,
percorrendo lo svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia
della prassi, non si possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di
quale portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come
quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del marxismo
nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione, nel senso marxiano
del termine, in dissoluzione. Non è senza significato che oggi si affacci
l’idea che la contestazione (definibile appunto come rovesciamento
della rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera
selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo Gramsci come
elaboratore dell’unica strategia capace di render possibile il passaggio
al comunismo nei Paesi occidentali.® Ma come spiegare le
opposte disposizioni politiche di Gentile e di Gramsci? Analizzare così
il particolare fascismo di Gentile come il comunismo di Gramsci può
portare a una visione della storia contemporanea diversa dalle
abituali. Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una
certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si trattasse
di un tema su cui fosse preferibile non insistere. 225
Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella
funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini, nessuno fu
fascista come Gentile. Come spiegare dunque, data la prossimità di
posizioni filosofiche, il fascismo di Gentile e l’antifascismo di
Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le
possibilità politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al
riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la risorgimentale” e la
rivoluzionaria. La prima si imparenta alla sua interpretazione in termini
di «filosofia cristiana». La grande cesura nella storia sarebbe
rappresentata dal cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo
al soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,
in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da questo e in
relazione alla sua critica del materialismo marxiano, da lui associato con
l’idea rivoluzionaria, Gentile può pensare a un Marx oltrepassato in
Gioberti, e all’idea di rivoluzione oltrepassata in quella di
Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica. Risorgimento
che viene conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle
posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti al
materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e amoralismo, spirito
rivoluzionario, negazione della tradizione. Da ciò lo sganciamento totale
del Risorgimento dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione
francese e la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di
vera restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non come
semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa e affinamento di una
tradizione, dopo che essa era stata messa in crisi, così che potremmo
complessivamente dire che per Gentile spirito risorgimentale ha il
significato di 226 riaffermata religione dello
Spirito, come spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo e
di soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo per lui,
per così dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo
però l’attualismo dal suo carattere «cattolico» o dall’interpretazione
religiosa che il suo autore gli aveva dato, esso assume un carattere
rivoluzionario, per quel che riguarda la sua posizione nella storia della
filosofia (particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione
pisana del 1914 L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia: tutte le
concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono mosse nell'orizzonte
di una realtà e di una verità presupposte; certamente la storia del
pensiero è quella di un processo di erosione della concezione
oggettivistica e trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei
tempi»; ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso
immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo di un
processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo ricordato del giovane
Gramsci mostra come egli vi vedesse questo; la rivoluzione filosofica attualista,
perfezionamento del marxismo, poteva ben congiungersi con la
rivoluzione comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o
evoluzionistiche del marxismo. Finora abbiamo parlato
dell’attualismo interpretato da Gramsci in senso rivoluzionario.
Proponiamoci ora la domanda inversa: l’interpretazione in termini di
attualismo, di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al
rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di dissoluzione? Cioè al
nichilismo che è il termine esatto per indicare questo rovesciamento? A
parlare del nichilismo non può non venire in mente la diagnosi di
Nietzsche: 227 l'avventura della «rivoluzione a
contatto con l’attualismo» può servire a mostrare che l’idea
rivoluzionaria non riesce a sormontare il nichilismo. È qui che si
manifesta massimamente quell’enorme «potere di negatività», che è
il proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che
l’attualismo è oggi «attuale», o torna a esserlo, proprio per questo
motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette in primo piano la
figura dell’intellettuale; e si sa quanta importanza la sua definizione
abbia assunto per Gramsci. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana
nell’ultimo quarto del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a
quella della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di
intellettuale che oggi prevalgono sono quello del «dissacratore» o
«demistificatore» e quello dell’«esperto» o del «tecnico»; quale rapporto
hanno con la figura gramsciana dell’intellettuale «organico»? Rispondo
che sono il frutto della sua decomposizione. All’intellettuale era
assegnata da Gramsci una funzione un po’ simile a quella che Marx
assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso, libera il
mondo. La decomposizione lo trasforma in funzionario dell’industria
culturale, dipendente da una classe di potere che ha bisogno così
dell’intellettuale dissacratore (quale «custode del nichilismo»)
come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è
del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si configura,
infatti, questo intellettuale? Messo da parte l’economismo, l'opposizione
diventerà quella tra intellettuali tradizionali e intellettuali
progressivi. Come storicisti, questi non potranno più parlare in nome di
un socialismo utopistico; neppure però di un socialismo scientifico,
dato l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico,
228 oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome
della storia come processo di autotrascendimento.
L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica porterà a
una sorta di «illuminismo dopo il marxismo», dunque a un illuminismo
«senza diritto naturale», con la conseguenza che l’intellettuale progressivo
prenderà la figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore
dei valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione per
erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra di posizione»
sostenuta da Gramsci, come tecnica rivoluzionaria, alla «guerra di
movimento», si risolve in una dissoluzione «entro l'ordine dato», che
viene privato dei valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la
via a una loro riaffermazione purificata. Gramsci,
naturalmente, non ha il minimo sospetto di questo possibile esito del suo
pensiero. Si può garantire che avrebbe detestato gli intellettuali
profittatori dei connubi tra marxismo, psicanalisi di sinistra e
decadentismo sadico. Ci si può render conto di questa assenza di
previsione, se si pensa alle circostanze politiche che furono l’occasione
della sua riflessione filosofica. Nel Gramsci ordinovista c’è la
persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la
rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto attuarsi in
Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto imprevisto del
fascismo che attrae a sé il consenso della maggior parte di questa
cultura; in diversi gradi, ma praticamente è sufficiente il giudizio
della sua minore pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo.
Per il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare
all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso l’unica
via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo 229
coerente del suo motivo più originale deve portarla all'incontro col
marxismo autentico, o, per dir meglio, alla sua scoperta. Ugo Spirito ha
detto che Gentile è stato il creatore del fascismo: si tratta di una
frase forse un po’ a punta, ma che è vera, quando venga bene intesa;
senza la cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender
forma. Ebbene, si deve dire che Gramsci fu il creatore dell’antifascismo,
quando lo si distingua dall’opposizione mossa in nome del prefascismo
(quella di Croce, per esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine
del fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi
naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo non
sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che come fenomeno
dissolutivo. Per esprimere tutto in una rapida formula, direi che, visti
nella loro radice filosofica, fascismo e antifascismo sono i due aspetti
in cui quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel
«farsi mondo». Ritorniamo al punto già accennato, sul
vincolo necessario che unisce, nel marxismo, materialismo e idea
della rivoluzione totale. Il pensiero di Gramsci, in quanto vuole
assegnare al termine «materialismo» un significato soltanto metaforico
(al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la completa riprova: la
funzione primaria data agli intellettuali come all'elemento attivo e
unificante e al partito «moderno Principe» come intellettuale collettivo
porta in realtà alla captazione borghese-illuministico-modernista.
Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli
intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle verità
eterne, svolgenti perciò una critica che include quella dell'aspetto
escatologico del marxismo. Il momento 230 negativo
del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal positivo e si fa
negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, dei valori ideali che lo
legittimavano. Esercita un’azione dissolutiva che non distrugge le
classi, ma porta al dominio di una nuova classe, che tratta ogni idea
come strumento di potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro,
più razionalmente organizzato, del dominio di classe. Si
trova una precisa conferma a questa tesi se si porta attenzione alle cose
più pertinenti che siano state scritte negli ultimi anni, così su Gramsci
come su Gentile. Così, è stato giustamente osservato da Riechers come il
socialismo si riduca fondamentalmente per Gramsci a un modo di
produzione capitalistica separato dalla figura dell’imprenditore e in cui
il funzionamento del piano è controllato dagli «intellettuali organici»
(la «nuova classe»); e che per lui sembra esistere un’economia
indifferente alle classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova
impedito da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione
è «scissione completa col vecchio mondo», e tutto il suo lavoro è
svolto a definire l’idea, in questo significato scissionistico; di fatto,
questa purificata idea rivoluzionaria è destinata a rovesciarsi nel senso
che si è detto. [sal Si potrebbe dire che negli
atteggiamenti storico-politici opposti di Gentile e di Gramsci si
conclude la polemica tra Mazzini e Marx. Si conclude però nel modo più
singolare, estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico
come per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra
filosofia della prassi, rivoluzione totale e materialismo;
231 l’approfondimento gentiliano della filosofia della
prassi porta alla cancellazione del materialismo; Gramsci tenta
vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale dopo la
riforma gentiliana della filosofia della prassi. Croce pensava che
nelle discussioni italiane del 1895- 1900 il marxismo teorico avesse
subito la sua critica decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al
pensiero italiano di portarsi al livello più alto del pensiero
mondiale. È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere;
a parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano potuto
averne, il protagonista della grande e insolubile crisi del marxismo
teorico è Gentile. E la crisi avviene effettivamente in Italia attraverso
la rottura non conciliabile tra l’opera rigorosamente teorica di Gramsci
e quella di Bordiga, che è costretta al marxismo letterale, e non
può raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché non
ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò sufficiente per mettere in
rilievo il non marxismo di Gramsci. O, per concludere: l’attualismo è
l’autocritica, all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel,
dell’idea marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si
esprime nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di
Gramsci ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva che ho
enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo, secondo cui il
razionalismo, inteso come negazione senza prove del soprannaturale, deve
concludere sull’idea della rivoluzione totale, l’attualismo è la prova
del suo scacco. In ciò il senso della «svolta decisiva» che la filosofia
di Gentile rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords:
saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi,
Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Noferi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della setta di Firenze – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Important Italian philosopher,
especially influential at what Grice called Italy’s Oxford, i. e. Firenze“Palla
Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I would consider him both a
Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi
Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio
dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza
accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far
istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne
di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto,
commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica
di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto
irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la
sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a
Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da
Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari
e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione
strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di
fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con uomini
chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a lui solo
due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato o lo
scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura, e a
capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile,
Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima
l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate,
cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo
comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della
“liberta”. In questo e diverso d’Albizi.
Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che
avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei
gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli
avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito
anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi conquistare.
Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di filosofi, nel
periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali più notevoli
della penisola italiana, per certi risultati artistici più importante della
stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due fiorentini come
Giotto o Donatello. Lascia la sua
raccolta di libri rari, arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno
padovano, al monastero di Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso
il Prato della Valle. Sepolto nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere
dello Speron d'oro nastrino per uniforme ordinaria cavaliere dello speron
d'oro Marcello Vannucci, Le grandi
famiglie di Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to
philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He
loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in
Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather
philosophers, since what’s the good of knowing the classics if you cannot
converse? He never touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi.
Noferi. Keywords: “Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very
Italian in an exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi
Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Nola: la ragione conversazionale
e l’implicatura conversazionale dell’urina -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. Gice: “At Oxford, we are
proud of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of
their physicians, as they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di
Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto
per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem
speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli,
Elementi dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S. Renzi, “Storia della medicina” (Napoli,
Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio
storico di Crotone. 1, quem ad modum
Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm
iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor,
& scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore. Med. Doctore
scientias ac artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia
muerè scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso
contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror,
impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere
scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, &
unicuique sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam
fit quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i , qui uel omnino inertes
fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non
est fidgeipfierrent, & alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret
(utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere,
fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et
bique fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam
quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria,
ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint,
pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa
Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent.
Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores
patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos
animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut
discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ
fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint.
Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem,
nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector,
liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon
foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum
Plusquam commentatoris, tum etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz
whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile, longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM
ægrorumý; corp. biqueconsentire, e nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto
ses utipfeait. quod sita fieretnequehic incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse
taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus
pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus male eruditusac impulsus,
eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas. Quas omnes
passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor, quod
huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque reliquiin
posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. uirisindies utilia, Artisg; medicæ apprimè
necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim dicam, universam pene
medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem, uteaquæa doctissimoac
Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta sunttuear,
sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et reliquaomniaque
hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et rationibus comprobata,
ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis etiam aliorum do
tiffimorum, fi quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea; primus omnium quosuiderim,
propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo iudicio, ueritate mattigerint,
et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores calumniasset, quorumnca
quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret cunéta
quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam desedimentosentit,
quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et Gal. sententia
demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag. conscriptos,
manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis modă.
Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords:
Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig,
brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ –
universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e
Nola” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Noto: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di IVPITER – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Filosofo italiano.
Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there – are
obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack thereof
for God – the part concerining the refutation for those who deny evidence is
fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows down his
research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly existed!”Fa
gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del Bosco ai
Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e
professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo,
Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato
sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e
il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi
superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma
di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel
periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia"
(Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove
insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in
Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si
trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse
alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in
Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per
infermieri dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un
laboratorio linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle
lingue. Deceduto nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da
miocardite in diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male
nella notte dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva
tenuto lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi.
Alle 18 andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua
inglese per adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico
cardiologo che ordinò il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata
stroncata da un complesso attacco cardiaco polmonare. Ai funerali, presieduti dal Padre Provinciale
nella Chiesa di San Francesco in Figline erano presenti tanti religiosi e
sacerdoti, i parenti, molte suore oltre che un grande pubblico di studenti e
popolo che riempiva la chiesa. È stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento
di Giaccherino Convento del Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di
Sargiano Montemurlo L'evidenza di Dio
nella filosofia del secolo XIII. Grice: “Noto is playing with his surname. There’s no
‘significare’ in Italian. They use ‘notare’ – Now, how is God signified? When
Cicero said ‘god’ he meant Jupiter. Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede
was killed in self-inflicted accidental with a boomerang. Her mother said: “His
corpse is here, but he was raped by Giove --. Taking this narrative literally –
Ganymede was RAPED, so the rape is the way the god gets ‘noted’. Noto.
Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Novaro: la ragione conversazionale e implicatura
conversazionale ligure -- l’infinito del ponente – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Diano Maria). Filosofo italiano. Grice:
“Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice:
“Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept
which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente
agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la
laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito
socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i
fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina
Sasso. Pur dedito all'attività
imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del
Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua
cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata,
Jahier, Boine e Sbarbaro. Scrisse saggi
di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema
principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed
echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di
Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico. Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro
ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna
del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra
Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali.
Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel
sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il
concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno
degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva
soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che
straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a
priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il
regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro
che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere
l’infinito. Hobbes, De
corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano);
Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume,
Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons,
Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la
posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra involgerla. Già tutti i
concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti
ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir trattati
in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si
ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare
applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo,
l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle
difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame
degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti
secoli prima della ripresa della questione per Locke, trattarono il
problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la
loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di
Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello
spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i
tropi dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der
That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht
werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut,
und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen
Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge,
welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart
bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati della
estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti
ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a
confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le
esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a
riconoscere evidentemente per tali. E più d’uno nel confutarli à seguito,
come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu
infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche
Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire
che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa & i
matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni svelate dai veliani
avevano dovuto per forza rinunciare a far uso del concetto di “infinito” e
lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono
a lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza
delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai
esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo
che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi cosi
fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non avere l’autore
stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo,
nè dargli un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione
che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi come se la
critica del velino non valesse indifferentemente tanto per il continuo
dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst
das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in
endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit
unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul
concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo, I, 5.
Aristotele dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre
0 spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti.
Inoltre è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non
accetta che l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la
nostra immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta
l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza nè à
parti così, come il suono è per sò invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non
esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la
contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il concetto
dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo.
Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver
superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur
la quadrature du eercìe. Paris, Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi
Alterthum und Mitelaltcr.] juersi sulla sua nozione in modo affatto
contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti
riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di aiutarsi con un
esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal
canto loro si sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza
sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali
hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità
o contraddizioni dell infinito tranquillamente si rimettevano Leibniz,
anche quando si esprime più razionalmente intorno ai concetti
infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente ambiguità sulla
natura generale del concetto di “infinito”. Lascia infatti alla ontologia,
senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano propriamente
degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per indifferente
considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per arbitrariamente piccoli. Leibniz
inclina però più a tenere l’infinito rigoroso per una finzione. Leibniz,
Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e Schriften,
Gerhardt I' , dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi
come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli
parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto
incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo ivi. Infatti dopo
l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di
Berlino, presieduta da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva
un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On
demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en
mathcmati jue. On sait que la
haute geometrie fait un usage continuel des infiniment grands et des
infiniinent petits. Cependant les geomètres et meme les analystes
anciens, ont eviti* soicneusement tòut ce qui approche de l’infini, et
des grands analystes modernes avouent que les termes grawleur infmie sont
contradictoires. L’Acad^mie sou- haitc donc qu’ on explique comment on a
déduit tant de theorèmes vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad. des Sciences.
Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo
dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche dilucidazione definitiva,
Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una
cosi bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale,
non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe
bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale
prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi
che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si direbbè che lo fa
in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato li suo
metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è
qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto
della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di Locke, oltre aver
risolto l’infinitamente piccolo e grande nel processo formale dell’animo,
l’aver dimostrato come un tale concetto sia solo propriamente applicabile
a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni nebuloso
abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua
applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi
da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura
dell’infinitesimo, il Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione
di [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histoire des
mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia può sollevare sul
concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne s en pas plus
embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke,
On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring
costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi
filosofici. Soltanto- nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad
una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo.
La sua dimostrazione è però geometrica, e non insieme algebraica. Manca
quindi di generalità. Cosi si spiega come Diihring ritenga ancor ora
inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à
assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel
passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito non viene dapprima
reso chiaro e incontradittorio nella matematica, la rocca in apparenza
più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La
nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto
d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno
comuni le radici o i principi e la matematica e la logica.
La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa,
ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si
cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*,
sia che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non [Nat Uri
iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione
è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo,
malgrado il viro desiderio di molti suoi ammiratori, quali per un esempio
v. Gizicky e Riebl. Vedi specialmente dello stesso, nei “ Xeue
Grundmitteln u. Erfindungen zur Analysis, ecc. „ il capitolo terzo.
L’analisi critica dell’infinitesimo ivi data riassumiamo noi brevemente
nel numero seguente, modificandola però nel senso della corretta legge
del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und
KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia,
da quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal
seicento in poi. 2. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”,
le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale
nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito*
stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima l’indisivibile di CAVALIERI, e
pensato assurdamente quale risultato di una infinita divisione, o come l’elemento
più piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra ogni
grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità data e pensato
l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni data grandezza l’infinitamente
grande, arrivando anche qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile
per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque
piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di intermedio. Questa
ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata
quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore
d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo
irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero (1).
Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di
“momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il
fondamento della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di
qualsiasi assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca
definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo
un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti a essenziale
relatività. V. De Corpore. Delimemus CONATUM
esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn bile è però soltanto
lo zero (1); una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile
grandezza. Tra la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda
finzione. A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod
datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur ìaest
per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet per
punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod nulla
ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura) sed id
cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque
pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non habeatur prò
IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO
non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita mtelhgendus est, ut sit
quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt neque lineai per quam
fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis
vel line cuius ipsa est pars. Quanquam sicut punctum cura puncto, ita conatus
cum Canata comparaci potest et unus altero maior vel minor
reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto
dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur
moindre que toute grandcur donnée de la meme nature. On est conduit
naturellement a ridde des infiniment petits, lorsqu’on considère les
variations successives d’une grandeur soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des
degrés mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque
petit quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un
corps croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne
peut fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les
positions intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance,
aussi petite qu on voudrn, entre deux positions successives. Les
infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement
un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione
non pochi matematici, quali Bernouille
“oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo.
Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il continuo esteso
in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar poi il modo di farlo
generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi
Lasswitz, Galileis Thieorie der Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph.
XIII, a riferirsi non a qualcosa di
effettivo o di dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione
della infinita divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più
piccola di ogni qualunque piccola quantità data. Come nella serie dei
numeri noi possiamo (prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento
di unità a unità, cosi possiamo farcene uno della possibile divisione
dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che
il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai
compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai
senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto
oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già
compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente
quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito
come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO
IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso
dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni
possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur
sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge
formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der
bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn. edizione Kirchmann. Sohald
etwas als quantum discretum angenommen wird, so ist die Menge der
Einheiten darin bestimmt, daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring
però, e qui sta il grave errore della sua teoria dell’infinito, à
tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come
diciamo noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come
totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una
qualunque data comunque già piccola per sè. La illimitatezza riposa sul
concetto della infinita possibilità della ripetizione, non è dunque un
concetto di effettività, ma di mera possibilità. Il moto nevi realizza
come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità
di parti nel finito. Moto non è che il concetto di ciò che la
stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un
altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di
posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la
cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro
concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo,
ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere
senza limite alcuno. Ma effettivamente nè la natura nè noi possiamo
fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un
punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro punto
fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento
assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente,
se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di
infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo
una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente
aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o
coincidono, o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata
distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque
noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare
unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa
illusione è nel dire che una quantità cresce per gradi minori
di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m matematica le
quantità continue crescono per gradi e che ogni nuovo incremento
elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più
piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà
bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che è solo della
facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le quantità non constano di
elementi per sè esistenti, e che invece noi solo distinguiamo in esse
delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il
concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude
solo la possibilità di un infinito porre di limiti, ma non una infinità
di limiti posti. Esso è quindi come quello dell’infiuitamente piccolo un
concetto di pura posibilità. La illimitatezza nella scomponibilità
in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una
qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di razionale s’ à a
sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene
evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di
azione del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è
inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di ogni altra
assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma
pur reale di una infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo
o infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento.
1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza
finita relativamente piccola, la quale- nel complesso delle operazioni
può e deve rappresentare ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta
per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come
infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un milionesimo di
millimetro ovvero una distanza solare. L’essenziale non istà in queste
eventuali determinazioni, ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza,
scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano
nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite alcuno sempre
più piccole verso lo zero. L’ infinito o la illimitatezza non è dunque
ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa
grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo.
Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del calcolo, non à più
ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per
quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente
piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma
si noti bene- non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione
infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità insignificanti che
loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti più acuti procederebbero del
pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che
nelle [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr.
Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte:
Cours de philosophie positive , I, 263. loro funzioni darebbero in ultimo per
risultato una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza
alcuna. Accanto a quantità finite si trascura nel risultato e con
ragione, un infinitamente piccolo, poiché è nella sna natura di poter
venire senza fine rimpicciolito verso lo zero. Idealmente c’ è dunque un
abisso tra l’infinitesimo e lo zero. Non quello ma questo è il limite
dell’ infinito rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono
che quantità in realtà sempre finite, comunque possano secondo il bisogno
venir supposte sempre più piccole verso di esso. D’altra parte nella
direzione opposta dell’ infiniitamente grande si à analogamente a distinguere
tra [Non altro significa il luminoso concetto di Carnot delle
equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non arriva a dar l’ultima chiarezza
alla nozione dell’infinitesimo. Infatti non avrebbe altrimenti creduto vi
fosse bisogno (per dimostrare come i risultati del calcolo in apparenza
soltanto approssimativi, siano in realtà esatti) oltre che della considerazione
dell’arbitrarietà del differenziale, anche di una dimostrazione della
compensazione degli errori. Comte poi frantese affatto ciò che di
veramente importante e duraturo conteneva lo scritto di Carnot, e ravvisa
così il merito di lui appunto nella dimostrazione della compensazione degli
errori (V. Cours de philosophie positive), la teoria invece
dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile che solida (id.
2(57). l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne
definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però non venne
schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli dispute a cui
diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che
avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo.
Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta
strada nelle menti dei matematici. Ma non basta questo a razionalizzare
l’infinitesimo. Dove colla relatività di esso si ammette però ancora (v.
ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni
quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.
questo e 1’ infinito assoluto o transfinito (1). Qui cometa si à una differenza
qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro
il concetto proprio di grandezza è scomparso. Il non aver distinto
questi due concetti non à forse meno contribuito della contraddizione di
un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del
differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili
difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde
perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza
fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi i casi ci è data
la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come
compiuta, poiché essa deve rispondere alla illimitata possibilità di
ripetizione- del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per
quanto piccola o grande di cui non si possa sempre raggiungere un’altra
ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto
di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già
grande, può senza fine venir considerata ancor sempre più grande secondo
il bisogno. In ogni aso non sarà però ella mai altro che finite. Come
la nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può --
Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione
dell't/t/unVo relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring
dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui
Wundt e Lasswitz chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del
resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce
di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”,
lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore
specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente
grande è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è
quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie
progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro
esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare ad un
ultimo membro delle serie, perchè la possibilità di aggiungerne altri
riman sempre la medesima. E nella natura dell’infinitamente grande di non
poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data
oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande
può rappresentare ad arbitrio una grandezza sempre maggiore oltre la
sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente grande non è
un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo.
L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente
grande è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto
(1) Locke, On bum. Underst, pag.
148. [O]ur idea of infinity being, as I tbink, an endless growing idea,
biit the idea of any quantity our soul kas being at that tirae terminated in
tbat idea (l'or be it as great as it will, it can be no greater than it
is), to join infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk.
We can bave no more the positive idea of a body infinitely little than we have
thè idea of a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as
I may so say, a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless
progression that can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return
at least to that of number always to be added. But thereby never amounts
to any distinct idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a
clear idea of division, as often as we will think of it. But thereby we
have no more a clear idea of infinite parts in matter than we have a
clear idea of an infinite number, by being able still to add numbers to
any assigned nember we have. E chiaro
concetto di quest’ultimo a rifiutare risolutamente il primo, dopo averlo
trovato incompatibile colla nozione di quello. Mentre l’infinitamente
grande esprime una illimitata possibilità, il transfinito o trasfinito esprime
invece una effettività compiuta cui l’infinitamente grande non arriva
mai. Nel transfinito o trasfinito ogni grado di ingrandimento è già
anticipatamente dato. Esso è realmente maggiore di ogni assegnabile
grandezza, e dal finito non c’è modo di farlo originare, sebbene ogni finito
sia in esso. La facile obbiezione che nessuna grandezza è la più grande
perchè le possono sempre venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito
assoluto, ma solo una NOZIONE IRRAZIONALE dell’infinitamente grande, partendo ella da un
falso concetto del transfinito o tras-finito, secondo il quale si avrebbe
questo a lasciar pensare come un tutto, ossia, contrariamente
all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato al transfinito
o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il transfinito o
tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir esaurito
dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione per
rifiutarne il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in
ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito
per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue
parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio
conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da
un capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto tale,
ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility
giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts
than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea
of an actually infinite number, both being only in a power stili of
increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le
proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre
nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è quella
che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni
ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo
abbia raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il
numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I
know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso
e con ciò di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito
non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè
diminuibile. Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario
dell’infinitamente grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come
all’infinitamente piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più
possibilità di rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel
transfinito o tras-finito. Questo è la negazione della grandezza misurata
nel grande, e lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò
della grandezza nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo
zero come l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto
per qualità diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande
sono in un continuo flusso, lo zero e il transfinito sono invece forme
fisse ; il prin¬ cipio generativo dei primi non è applicabile ai
secondi. Dall’infìnitamente piccolo allo zero e dall’infinitamente
grande all’infinito assoluto c’è, a dir proprio, un salto. Duhring: Neue
Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito assoluto o trasfinito si fanno dunque
riscontro. Ed erra «quindi Lasswitz che nega esserci qualcosa di corrispondente
a que- Nel primo caso il passaggio
sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la quantità
piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto risolutivo
col quale si sottrae interamente il resto stesso. Nell’un caso si riman
sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta
propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene
mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del
sempre nuovo resto. Bsogna togliere in ima volta l’intero resto
altrimenti si avrà una convergenza continua verso l’irraggiungibile
zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe
veramente esaurita la grandezza. Non bisogna prender per esaustione reale
una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un
infinitamente piccolo. Ma questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione
non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero passaggio. La
inter-polabilità infinita di posizioni tra punto e punto non toglie che
da posizione a posizione il passaggio debba rimanere E come v’è un salto
da un punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al punto
ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col st’ultimo.
(Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats - hcfte); come
pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza
essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische
Antinomien u. das Problem der Unendlichke.it Philos. Studien II, 527:
(che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich
zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits
vollzogenen Processes- dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt niimlich ein wesen- tlichcr
Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio
allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto
per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato
qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente
grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero
dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso
delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo,
e si pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo.
In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi
delle due rette al parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che
questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della
linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo
le farebbe finite. Ed à luogo allora quella illimitatezza od infinità
assoluta della retta, la quale è la negazione della grandezza misurata
nel grande, come lo zero è la negazione della grandezza in
generale. Un indubitabile significato si lascia dare al transfinito
o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei
processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma
dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della
realtà, poiché esso trova e suppone necessariamente come dati sempre piu
membri della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a
pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione
reale del nostro conti) Diihring , luogo citato. «etto ; ma rimanendo insolubile la
questione se la natura o L’UNIVERSO o il numero dei stelle sia o no
infinita, non si à che l’applicazione di esso allo spazio puro. Ed ecco
la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce appunto
la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La tangente di un
angolo che differisce da 90° di una infinitamente piccola differenza, è
come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di
riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della
tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si
tagliano si fa sempre più lontano. Rimane però sempre dato un incontro
reale delle linee fin che sia data una per quanto piccola
divergenza da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia
se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più propriamente una SECANTE nè
una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano
più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la CO-SECANTE
e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna grandezza, allo stesso modo
che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già
una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione
quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte corrisponde dall'altra
l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso
dell’infinitamente grande si distingue da quello dell’infinito assoluto
per questo, che la possibilità (della illimitata estensibilità) non
figura come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra
attività. Vedi sotto n. 5. Di pio quest’ultima possibilità vien
sempre rappresentata coinè dipendente di un’altra, in modo che
dall’infinito rimpicciolimento e dal grado di questo dipende
l’infinito ingrandimento e rispettivo grado costantemente corrispondente
Una distinzione simile a quella di Diihring à fatto in riguardo
all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene con
qualche riserva, da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto
quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di
Diihring. Crede Cantor che la serie dei numeri si lasci pensare non solo
come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che
si lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo.
L’aver sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o
tras-finito è la cagione dell’assurda nozione che s’è fatto Cantor di
questo. Infatti perciò à e Cantor potuto credere che il transfinito o
trasfinito pnssa trovarsi nel finito stesso quasi come suo sostrato, e
servire cosi alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma
qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede
egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito
assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento
della reale serie dei numeri intieri Duhrinq. Logik. Cantor:
Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre; Zur Lehre vom Transfinite.] oltre
l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico numero intiero
infinito, si bene una infinita serie di tali numeri come benissimo tra
loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe
sarebbe la serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe
dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine
determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla 3 a e alla 4 a classe e cosi
all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das eigentlicbe
Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire Unendliche”)
o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal guisa non si
arriverà mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur
soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo è
un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito,
quantunque determinato e maggiore d'ogni finito, avrebbe assurdamente
comune col finito il carattere della illimitata aumentabilità. Cantor dà
per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti,
confessa però non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei
numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito non poter venir
concepito, quantunque necessariamente postulato. Qui dunque ritorna la
difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla
sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della
sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in
fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur
Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie
Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari numeri della nuova serie
al DI là DELL INFINITO. Cosi il
non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) è una evidente ASSURDITà che rivela una
inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente
in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere,
come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad
esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità.
Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché
invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur
essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito
assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza
precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa
assai più facilmente rannodarsi a quella del Locke e di Ivant da una
parte, e dall’altra a quella di Carnot, che non si lasci questa sua nuova
distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci) Cantor:
Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come espone
Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische”
und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende
hat.” Syn-kathetisch” unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine
endliche Gròsse giebt und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder
Eines gròsser als jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb
fiinde, welckes den Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine
Gròsse, aber nickt wenn es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe- tisck
Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite ‘mente l’INFINITO
POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che
tradisce un’origine quasi del tutto- ancora scolastica. L’infinito inteso
coinè attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e
mostra chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso
non ha in BRUNO questa sola origine ‘divino’ (1). unserer
neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit,
welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd das “synkathetisch”
Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der
endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa- chsen hervorgelit. BRUNO capovolge
la dottrina di Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo
ne’ minimi onde liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA,
come farà poi anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande:
gli atomi e la infinità del mondo. (V. Acrotismus, art. XLII, citato dal TOCCO,
Le opere di BRUNO, p. liti: De Minimo).
Devcsi però avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei
pensa giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo.
Il progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità dell’animo,
mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a
distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito,
-- dum non promere subiectae credat con- formia rei. — Intìnitae
progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus
usus ARTI-FICIALIS obsecundat. De Min. Tuttavia anche alla matematica
vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del
corpo matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo
anzi non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale
ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo
strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili o
atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni
del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì
à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d. Griech. Philosoph.
dove ne è anche data la traduzione, p. 271 e seg.) Della dottrina
atomistica di BRUNO riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die
Atomistik”, Viertelsjahrsschift f. icissensch. Tuttavia alcune importanti
considerazioni sono comuni al Cusano e a quest’ultimo sulla natura
dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico infinito in riguardo al
quale non possa esservi divisione possibile uè disuguaglianza se misurato
immaginariamente da misure differenti. L’infinito assoluto considera poi
Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei quali è dentro all’altro e
che non si toccano nè sono concentrici, esempio ricavato da Cartesio
(Principii) e da Spinoza medesimo già illustrato nella esposizione dei
principii cartesiani della filosofia. Ma come è impossibile che la
materia mossa tra due cerchi possa realmente dividersi all’infinito, cosi è
impossibile farsi un concetto di una infinità assoluta di disuguaglianze
come effettuata dalla relazione di quelli. Poiché data questa infinità
non è nè può essere. Altrimenti la potremmo anche pensare effettuata
in un qualunque segmento di linea da’suoi punti infiniti. Una tale
infinità non può cosi che venir riferita alla facoltà della nostra mente
quale suo fondamento ; non può esser che un caso di infinita possibilità
come lo è quello dell'infinitamente grande. Philos. Vili, 33): “BRUNO hat
darci» (lcn erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das
bleibendc Verdienst erworben, den Atombegriff klar und wiederpruchslos
dargestellt zu haben. So lange
das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf
ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass es ein Krfordcrniss dcs
Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung zn liaben, macht den
Atombegriff za einem nothwendigen. Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per
inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne
aveva rifiutato il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia
ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo
non può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i
termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi però mai esaurire da
successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola
d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di
queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun
numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio
pensare come raggiunto il risultato d’una operazione infinita ossia da
ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito
relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in
realtà l’infinito assoluto. Esso è soltanto lo stesso infinito relativo
nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo.
Ammette inoltre Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser
suscettibile di più e di meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito?
(2) e non dice egli altrove che SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel
trova la distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da
quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo
fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni
determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo
stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso
questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono
suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti
che ei dice avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La
infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi
non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo notato del
transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari
esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il
complesso della serie dei numeri intieri positivi. Etica, I, prop.
XV. è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di un
altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano
potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual
razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa
tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e
divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una
grande acutezza soltanto le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito,
non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke
ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO
coll’illimitato progresso, riempiva tanto l’infinito del tempo che quello
dello spazio (1). Ed è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva
di infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra
(2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke nell’esame
dello spazio (3), e fissa l’idealità di questo. Una idealità che se è
conseguenza delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai
veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga
superiore. Ma quanto al concetto proprio di infinito Kant non fa un passo
oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di
quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella
trattazione lockiana dell’infinito, in cui la funzione SINTETICA dell’animo
trovava una cosi Locke : Essay on Human Under ai. giusta e
importante bencliè non del tutto consapevole applicazione. Hume, senza
esaminare particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a
considerare l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza
il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della
infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser
diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo,
confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come
composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”)
; e il tempo della somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si
domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli non dare una
grandezza infinitamente grande? o, come può un tal numero esser compreso
allo stesso modo in una data grandezza che in una doppia di quella?
Come può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di
parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse
contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone
conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO
senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il
non aver più acutamente esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono
la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è
insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World
Library. Exsai/s (4; Hume: Essai/s. meno sino a Diiliring, che
segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di
infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla
natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot, e con Cauchy,
in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur
sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici
dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è
ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss poi, e dietro a lui
con Riemann e con Steiner e con tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia
che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi
quale indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale non
sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza che cosi grande
aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti
per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il
notato carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al
secolo precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove
l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si
stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata
di tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo mo¬ derno
la questione della reale estensione dell’universo si è fatta
essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio
non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si
lascia dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo; È
chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo
della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La
nostra rappresentazione dello spazio il la sua spiegazione nella costante
unità della coscienza e nella sua libertà del porre e dell’oltrepassare
continuamente il posto. Ora a questa funzione de nostro ANIMO non si deve
attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino
infinito il mondo appunto perchè è infinito lo spazio, ritenendo che la
materia stia allo spazio come questo a quella: “ e se non v’ha differenza
tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto
occupato dal nostro sistema planetario sia pieno e tutto il resto
dell’immenso spazio vuoto. „ Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.).
il quale commenta gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe
farli servire a dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il
finito noi non possiamo raggiungere e non possiamo mai giudicare se altro
non vi sia più oltre da raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o
no dei limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito
COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per
la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta
inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo
comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi
costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da
noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della forza
non basta, come crede Rielil (1), a dimostrare la finitezza della massa
dell'universo. Seia massa si fa infinita, dice Riehl, verrebbe a mancarle
con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col
concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe
però naturalmente se considerata solo nella sua
trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di
masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande principio della
costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera
e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente
l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il
principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza
della materia infinita come tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella
del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del
finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus. non è (lata analiticamente
colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è
toccato da addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita
la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza
contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo
sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od
empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al
tempo concorrono invece necessità dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo
nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à
tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto
principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il
tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come può
senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il
cangiamento abbia una volta cominciato è, per il principio di causalità,
impossibile ammettere. La ausa di un cangiamento deve cercarsi a priori
in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento assoluto
è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono nell’essere
ultime ragioni dei processi, ma non ultime cause. In ogni punto del tempo
è esistita la serie delle variazioni. Non che nel concetto di
sostanza si trovi unita necessariamente coll’esistenza l’azione,
come crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi disgiungere il
fare dell’essere dalla sua esistenza, venga ad esser perciò inconcepibile
la sostanza scompagnata dal cangiaménto. Inconcepibile sarebbe solo una
esistenza vuota, ossia scompagnata dalla essenza. La forza potrebbe
però concepirsi ovunque come in equilibrio stabile, e con ciò l’universo
come privo di ogni mutamento. Vi è una condizione del divenire cbe non
entra mai come membro nella serie causale -- è questa il fondamento
ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un tal
fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO, senza
origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei
dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice
dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe mai prodotto un
effetto cbe si origina solo nel tempo; auche quello deve dunque aver
avuto una causa, e cosi all’infinito. Delle cause non ve ne può essere
una cbe da sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangia¬
mento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò un’altra causa, un
altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio
assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga
qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a connettersi
coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una
causa che la faccia cessare è un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe
una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non possiamo
accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la
legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto),
cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono
soltanto la sostanza e le sue qualità originarie, ossia in generale gli
elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è
applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa di un
cangiamento non può mai esser che un altro can¬ giamento, non una cosa
come tale. E quindi unicamente l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO
che non à nè causa nè ragione, se non quella almeno che
con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione dell’essere, o di
identita. La medesimezza con sè stesso è infatti la ragione della sua
eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché
causa non è che la ragion reale del cangiamento. Una variazione che
non procedesse in base a qualcosa di stabile è un assurdo. Degli elementi
non si dà quindi nè generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa;
le cause che la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono
la uniformità e costanza del loro succedersi. Tanto l’essere
universale quanto la materia e la forza sono fuori della catena causale.
Nn sono per sè causa, si bene la ragione della connessione stessa
causale. E cosi l’essere non si può porre quale ultimo anello della
causalità. Tanto il più remoto fenomeno immaginabile quanto il
presente presupponendo l’essere, il fare dell’essere. Un sistema
dinamico non può mai per sè stesso originarsi da un sistema STATICO, come
neminanco può a questo passare. Sempre le forze si son misurate a
vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed altri ànno
prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e lavoro sono
sempre stati necessari da una parte per conservare i cangiamenti lenti
concretatisi, ossia in generale le forme durevoli, e d’altra parte per
alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il voler dunque trovare
un principio della mutazione sarebbe lo stesso che credere che la materia
una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a un dato momento
nell'universo, che il momento innanzi noi possiamo immaginare come
affatto privo di vita conscia, non è uua creazione assoluta, nè rappresenta una
infrazione alle nostre leggi della conoscenza dell’animo. Perchè
quell’apparizione della vita conscia noi non l’abbiamo a pensare che come
una combinazione di elementi, nè di elementi v'è creazione, poiché essi
esistono eterni. Pensare la combinazione come occasionata dallo svolgersi
delle variazioni non à nulla di sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua
natura generale non à causa; ad essa come agli elementi ultimi
d’ogni realtà è applicabile soltanto ciò che s’è detta la ragione
dell’essere. Altra è però la questione della sua fenomenologia- In questa come
nella fenomenologia generale la causalità à il suo regno. Se la coscienza
al pensiero si presenta come originata dal NULLA, gli è perchè le
sue cause, nella loro natura oggettiva materiale, non possono in
essa evidentemente comparire. Gli elementi di coscienza, o meglio le
disposizioni alla coscienza nella realtà inconscia sono ora come latenti
o neutralizzate: una data combinazione materiale ecco ne suscita la luce
subitanea. Il sorgere del cangiamento in generale implicherebbe
invece una derogazione alla legge fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo
in modo alcuno concepire, e la realtà empirica ci costringe ad ammettere
il contrario. Il variabile non è per sè stesso intelligibile senza un
identico a sostrato. La identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi
la dà a quella del cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono
farsi contenuto della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una
totalità identica. Ammesso che cangiamenti potessero avvenire senza
conseguire ad altri, verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni
secondo leggi costanti. Il concetto di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA
con ciò ogni fondamento. Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle
della realtà. È chiaro che come l’animo è la condizione inevitabile
della esperienza, e con ciò del nostro mondo fenomenico, cosi le sue
leggi o funzioni generali devono anche di quello esser leggi a priori, o
assolutamente valide indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie
tuttavia che coteste leggi possano venir trovate, come vengono in realtà,
consone alla natura propria delle cose, ossia non imposte loro direi
quasi arbitrariamente, perchè nelle cose sono le stesse leggi quantunque
impensate. Che anzi in riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo
alla unità sistematica dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi
necessario di veder nelle leggi che la coscienza applica a priori alle
cose nuli’altro che un riverbero o meglio null’altro che l’espressione
soggettiva delle determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo
un principio del tempo reale e con ciò un cominciamento delle causalità
non si sfugge d’ altronde alla domanda. E perchè non prima? Se il primo
cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto
solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non
si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco
si dice che qualche cosa l’abhia impedito di nascere prima. Per questo,
per quanto lo si allontani dal presente, esso riesce sempre troppo
vicino. Richiamarsi alla originarietà dell'essere come fa Duliring,
alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni
ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero
non può mai ricevere completamente in sè stesso, mai fondare in senso
assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto
alla stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente
si contraddice. Si contraddice, dico, poiché, lasciando da parte
l'analogia del pensiero che ammesso il cangiamento non sa vedere come
esso possa originarsi in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà
conoscenza alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni
cangiamento che apparentemente si presenta come tale — il nuovo
nell’evoluzione — noi lo riduciamo è vero alle forze o forme, agli
elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il
perchè della loro manifestazione appunto in un tale momento e non
in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto
a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della
realtà, che nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi,
quando diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del perchè
quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia già stato in passato o non
abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo
suo essere Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza
stessa universale : dacché come questa non à inai avuta fuori di sè la
ragione del suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire
interno. In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,
non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal
suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non
c’ è un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno in cui
esso non abbia un suo stato determinato. E cosi che del divenire v’ è
sempre la ragione in un divenire anteriore, ma del divenire in senso
assoluto, v’è tanto poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi.
In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò che à
esistito la ragione di ciò che esiste. Nella origina¬ ria nebulosa è la
ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri
processi cosmici ebbe essa stessa la sua origine, i quali se la scienza
non può oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile che
un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il
cangiamento non à dunque avuto principio. Ed ecco appunto dove sorgono
specialmente gravi, e a molti filosofi son parse insormontabili, le
difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato,
e Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si enim numerare
possumus decem revolutiones praeteritas, et centum, et mille, et omnes. Si
quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed practeriisse infinitas, et
dixerit imam futuram revolutionem in futuro anno, essent igitur tunc
infinitae et una, quod est impossibile. Bacone, Novum Organimi , odi/.. Fcllow, Ne- Kant
è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che ponendo la
mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene
conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una
infinità di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice
al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma
anche, tra gli altri, il più acuto forse dei filosofi post-kantiani,
Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a
stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi
casualmente senza ragione alcuna avuto un assoluto principio nell’essere,
cosa evi- quc.cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit
ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit
infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia
inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut
consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale dichiara
insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema
cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel
passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore
di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a
momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar
l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella
supposta contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex
co quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse
conclu- deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est
pares et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus
in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un
principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo
facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o,
secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella
sua dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa
assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di
Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma
anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie,
Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è
sur un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che
la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza
contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente,
assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto
possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi alla
infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale
applicazione sia necessaria, egli à fatto invece quella ingiustificata
della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me
superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato sin’ora.
I cangiamenti infiniti di cui si discorre non involgono contraddizione
perchè essi non sono nè furono mai dati come totalità, ossia come
complesso di una serie infinita. Acciò la contraddizione esistesse,
bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un principio del cangiamento.
Di fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni principio come si può dire.
Ora, in questo momento si è esaurita uua serie infinita di cangiamenti ? Ma da
quando dunque? Si pensa con un tratto indefinito di tempo di avvicinarsi
di più all’ infinito del passato, mentre in- -- Questa soluzione è
gù brevemente enunciata nella mia “Lettera filosofica” a I Simirenko” (Torino,
Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena: Wenn cin erster Anfang
nicht gewesen wure, so tornite die jetzige reale Gegenwart nicht erst,
jetzt seyn, sondern wiire schou liingst gewesen, dcnn zwischen ihr und
dem ersten Anfange miisscn mir irgend einen. jedoch bestimmten und
begriinzten Zeitraum annehmen, der min aber, wenn wir den Anfung
liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic hinaufruckén, mit hinaufriickt, ecc.
ecc. E vece noi ne rimangbiaino sempre alla medesima distanza.
Qualunque punto del tempo si scelga, anche milioni di milioni di secoli
addietro nel passato, noi siamo sempre tanto vicini lo stesso all’infinito di
prima. Come noi per quanto risalghiatno addietro non possiamo
esaurire l’infinito che fu, cosi non dobbiamo inavvertentemente
ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti partito da un punto per
quanto distante da noi. Poiché in realtà ogni e qualunque suo cangiamento
ne à sempre avuti dietro a sè una stessa infinità di altri. Non è che
l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in senso inverso di quello che
noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò ad aver esaurito una
infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata bisogna considerarlo
analogamente a una retta che in una direzione è assolutamente infinita e
nell’altra in ogni momento terminata, ma prolungabile a piacere all’infinito.
Come non implica contraddizione far terminare a un punto una linea
assolutamente infinita, cosi non la implica il passato assolutamente infinito
che si termina nel presente e può prolungarsi senza limite nel
futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri sta nel
credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò una totalità
infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto, e non ammette
quindi alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè ogni
numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring, l'assurdo di una
contata (o percorsa , come direbbe Kant) serie infinita (“den Widerspruch
einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe una tal
serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò egli ammette già
quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo reale? In
verità è quella serie non contata, ma innumerata e innumcrabile, ciò
che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto non à
principio nel tempo, e: sino a un punto qualunque del tempo è trascorsa
una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente. Con è
trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò che è impossibile a
darsi. Di fatti la contraddizione scompare subito che si dice: la serie
dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra rinchiudere l’idea
di un punto iniziale della serie, dove (die i cangiamenti non si possono
considerare un tutto o come serie completa senza contraddire al concetto
di ogni assenza di principio. Una infinità di cangiamenti, una infinità
di momenti del tempo non è trascorsa, sibbene l’infinito trascorre
sempre, e in ogni momento è esistita la serie dei processi. La
successione perpetua è appunto la forma della infinità del tempo. Se si
dice che l’infinito è trascorso si scambia, a jiarlar esattamente, il suo
concetto, ponendo in vece sua quello del finito, o almeno si combinano
insieme due concetti incongruenti. Poiché ammettendo che una infinità di
movimenti è trascorsa o s’è esaurita nel passato, noi raduniamo in un
tutto ciò che per sua natura non può mai venir radunato. Il concetto di
infinito e quello di totalità sono incommensurabili.Una totalità è sempre
raggiungibile con una sintesi successiva delle sue parti, non cosi l’infinito.
Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti del passato è infinita — quale
contraddizione nel pensare che ogni cangiamento avvenuto è stato preceduto da
un altro? Dov’è qui l’assurdo di un tatto infinito che avrebbe dietro a
sè ogni momento del tempo? I fenomeni per sè non suppongono se non i
fenomeni che immediatamente li precedono ; e come non c’è qui contraddizione,
cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro nel tempo, mai la troveremo. Come
à fatto il tempo reale a giungere all’ora presente dall’infinito? È
potuto giungere dall’ infinito perchè non è mai partito. Se fosse a un
dato punto partito non sarebbe potuto giungere. E tanto concepibile l’infinito
verso il quale tende la serie che quello dal quale essa procede. Nell’un
caso e nell’altro si deve solo avvertire di non fare un insieme o un
complesso di ciò che non è mai dato come tale, ossia un insieme in
cui ogni momento dell’ infinito fosse anticipatamente compreso. Kant nella
prima ANTINOMIA spiega dapprima egli stesso che l’infinità di una serie consiste
nel non poter questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi
successiva e che il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi)
Schopenhauer crede di sciogliere il sofisma Kantiano con un altro
sofisma, distinguendo tra assenza di principio e infinità del tempo. Schopenhauer
cosi infatti obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das
Sophisma darin, dass statt der Anfangslosigkeit der Reihe der Zustànde,
ivovon zuerst die Rede, plutzlich die Endlosigkeit (Unendliclikeit)
derselben untergeschoben und nun bewiesen wird, was Xiemand bezweifelt,
dass dieser das Vollendetsein logisch widerspreclie und dennocb jede
Gegenwart das Ende de Vergangenheit sei. Das Ende einer anfangslosen
Reilic làsst sich aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok
zu tbun : wic sich aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken
làsst. “Die Welt als
Wille” ecc. “Kritik der reinen Venunft”, ed. Kirchmann
p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G sentanone della sintesi completa delle sue
parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il concetto di totalità non
esser applicabile ad una serie infinita. Tuttavia per dimostrare che le
cose coesistenti non possono essere infinite, alla loro infinita sostituisce
egli appunto il concetto contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel
giuoco nel rigettare quindi un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione .
un tutto infinito per venir pensato tale dovrebbe lasciarsi esaurire per
mezzo di una sintesi successive. Ma l ’infinito non può mai venir cosi
esaurito, dunque una totalità infinita di cose coesistenti non può
considerarsi come data. Insomma dice Kant : una infinità non potrebbe
venir numerata ossia non potrebbe esser finita, dunque non può esser
data; vien rigettato l’infinito semplicemente perchè è altra cosa che il
finito. Non l’nfinito per sè, solo l’infinito nel finito è realmente un
assurdo, poiché come tale dovrebbe esser necessariamente dato tutto. Ogni
insieme di cose deve perciò con¬ tenere soltanto un numero finito di
elementi numerabili. Ma quanto al temilo non c’è ragione di negarne la
infinità ; numerabili sono i processi da un punto a un altro della
serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè ella non è mai data
come un tutto, Is eli infinito assoluto o transfinito che è proprio
del tempo, non abbiamo più veramente una grandezza ma 1 assenza di
essa, poiché è data la necessità della man¬ canza di un limite nel
regrèsso, ed una tale mancanza è oggettivamente mallevata come nello
schema spaziale della mente essa lo è soggettivamente. La ragione
della infinità dello schema spaziale, come di quella della serie dei
numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della serie causale à la sua
ragione nell’ oggetto o nella realtà estramentale. E appunto solo nell’infinito
del tempo passato che si lascia necessariamente attuare un significato
reale del transfinito. Poiché una simile illimitatezza assoluta è bensi anche
dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale o matematico, in quanto questo
viene ogget- tivato e lo possibilità che realmente è solo nella
funzione mentale vien naturalmente considerata come oggettiva e per
sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità del passato non à, come
tale, determinazione alcuna quantitativa, non si lascia esprimere col numero ;
in essa è invece ogni numero e può porsi ogni determinazione rimanendo
ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per
quanto grande la si immagini, se si à riguardo alla sua relazione
all’infinito del tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto
che l’infinito assoluto essendo propriamente la negazione di ogni
grandezza nel grande non può venir posto in relazione con altre
grandezze. La nostra fantasia non può correre che all’ infinitamente grande
del passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità assoluta. Della
seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda totalità ; per padroneggiare
quella bisogna uscire dal cangiamento e volgersi al fondamento della
infinità temporale, ossia all’essere come presente in ogni momento e come
fonte d’ogni possibile. Meravigliarsi che la più grande grandezza
immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto che la più piccola,
è analogo al meravigliarsi che la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi
più vicino alla cosa in sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si
tratta di una differenza qualitativa che nou si lascia esaurire pei
aiiazioni di quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande
grandezza non s’è mai più vicini che con altra infinitamente minore al
transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite
a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma consideiandolo
invece come una quantità determinata; nel qual caso sarebbe veramente un
assurdo dire che da esso disti ugualmente un dato punto e un altro che
fosse prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato non
c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo;
dunque tutte le grandezze sono per riguardo ad esso insignificanti.
Parimenti è un assurdo credere di poter addizionare una unità al
transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento
esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in
riguardo alla retta stessa nella sua infinità. In una retta infinita
nelle due direzioni è indifferente il far la divisione più in un punto
che in un altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti
sono sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella
retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B ossia ( co’A-H AB ) — B oo
uguale cioè (A oo — AB). Si vede cosi contrariamente alla dottrina di
Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als bestimmt
und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu- gelugt und
mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine Aufhebung der
letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die llinzufugung einer
unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J—
1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da
essendo co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro
infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la serie dei
cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli fa, quanto se esso
continui all’infinito a trascorrere an¬ cora. Il passato si può misurare
tanto a minuti che a secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così
esprimersi, a numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli;
non pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè meno. E la
ragione di ciò è che la quantità transfinita non è misurabile. La
immensità supera ogni numero, come direbbe Spinoza. Nella
infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può
chiamarsi), maggiore di ogni numero assegnabile ; oltre ogni
raggiungibile anello la natura ne offre costantemente altri ulteriori.
Nella na¬ tura la contraddizione non può esistere ella non ef¬
fettua il passaggio che da un momento a un altro ; e questo passaggio non
può farsi attraverso l’infinito. Per quanto noi risalghiamo all’indietro
nella serie causale, come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi
non la troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un
ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass
eine Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre:
“Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man: 1+01=10,
dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene
Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale
inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe
per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e
pari e dispari insieme o anche nè pari nè dispari. . 5dato
cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la
totalità della serie delle cause anteriori, si bene soltanto la causa
immediatamente antecedente; e il principio di ragione domanda uni¬ camente
la immediata condizione e non una totalità di condizioni. In quanto la
stessa richiesta si rivolge suc¬ cessivamente alla causa della causa e
cosi via all’infi. nito, si viene a domandare costantemente una nuova
con¬ dizione e questa è un nuovo membro della serie e niente di
più. Al tempo è essenziale la posizione in atto di un solo momento.
Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere affatto
immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo poniamo però sempre in
qualunque punto del tempo ideale che noi fissiamo ; la sua esistenza la
poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere la
contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti pensiamo invece
l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un
tutto infinito, quale non può qui esser dato, poiché la successione
perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo qui una serie
che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno
è infinitamente grande, e per sé è transfinita come la tangente
dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s
kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione
de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico del
tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è e cosi
gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1
eternità del processo della natura. Il concetto limite del in.
Kant crede che la sua dottrina della idealità del tempo e dello
spazio o della transcendentalità in generale, spiegasse la supposta
antinomia del problema cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la
ricerca di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo spazio
al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione se questo, che Kant
non può a meno di accettare, si abbia a pensai’e come fondamento di un
mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere che
la serie regressiva delle percezioni nostre non può essere realmente
infinita perchè come tale impossibile, e neppure finita perchè nessun
limite dei fenomeni può venir concepito come assoluto, e dichiarare con
ciò insolubile la questione. Dacché l’oggetto trascendentale condiziona
realmente, come egli ammette un determinato regresso empirico, per un
esempio nell’ordine dei corpi celesti ; doveva Kant pur ammettere che
rimaneva sempre a ve- regresso infinito (o a dir proprio infinitamente
grande) non è già un concetto trascendente della creazione quale
dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della natura (v.
Wundt, “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.); quel
suo concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito
assoluto del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro
infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità
del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito
regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto
non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per
cui Wundt concepì il tempo passato sotto il concetto dell’infinitamente
grande concordando in fondo col Kant, come il Lasswitz si trova in questo
d’accordo con lui. (Ein Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der
reinen Vermnft. dere se l’oggetto trascendentale determinasse un
possibile regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii
processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la
possibilità deirallungamento della catena dell’esperienza dalla
percezione attuale indietro alle condizioni che la determinano nel tempo;
pure egli, per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile
regresso delle nostre percezioni secondo le sogget¬ tive leggi della
mente, non supponga un regresso ogget¬ tivo determinato dalla realtà
inconscia indipendente¬ mente da ogni esperienza. Trasportati a
indefinita distanza dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre
ancora nuove percezioni? E cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo
vedremmo noi necessariamente sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra
necessaria produzione dello schema dello spazio e del tempo, non
potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni dove l’oggetto
trascendentale non le condizionasse e si mostrasse con ciò finito. Lo
spazio e il tempo ideali non sono per sè garanti di una corrispondente
possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del
tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità della serie
regressiva dei cangiamenti. Poiché non si può conchiudere la mancanza di
un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge
der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg
gegeben ; sie sind aber ftir mieli nur Gegenstànde und in der vergangenen
Zeit wicklich, sofern als ich ecc.). Saranno però dunque sempre non
null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della
possibilità dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente
percezione indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da
questo, che ogni limite è necessariamente da noi pensato come relativo.
La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e
oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale
cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in
cui comprendiamo il reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in
sè della cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e
limitante non può evidentemente mettere nella realtà il suo secondo
termine se nella realtà non è dato. Questo secondo termine, il limitante,
rimane, se si astrae da ogni altra considerazione, un puro complemento
ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa
contraddizione che Kant e Dtihring, per non dir che di loro, credettero
inchiusa nella concezione di una serie regressiva infinita di
cangiamenti. Visto che la contraddizione stava nel concetto di una
infinità la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente
[Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue
Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo
all’infinito del tempo e dello spazio, che se la ragione non ci fa
piegare necessariamente nè da una parte nè dall’altra, pure in realtà il
tempo e lo spazio dehban essere o finiti o infiniti. (Cfr. del resto
l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL). Ho
Spencer poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto
e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il
maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del
tempo e dello spazio che quella della divisibilità della materia e altre
ancora. Egli pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di
moto, di materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e
ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First
Principles”, la quale io stimo certo l’opera più infelice del filosofo
inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare la
numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle
cause e delle variazioni. Numerabili, dice egli, sono le cose, non i
processi. In quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,
deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come legge del numero
determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione
non vale per i processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per
sé stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione
mentale che essi ottengono una tale determina¬ tezza. Un argomento dunque
che vale per il numero non può senz’altro venir applicato al tempo,
poiché mancano in questo per sé considerato e non riferito allo
spazio, degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dal¬
l’altro, o posti insomma come numerabili. Noi possiamo distinguere dei
processi nel tempo soltanto in determi¬ nato numero finito, nessun
processo è però indipendente [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus)
inclinava dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del
cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato
dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo
abbia fatto notare egli stesso esplicitamente); ma per uscire dalla
presunta contraddizione dell’ infinito regresso, pensò, al contrario di
prima, i processi come assolutamente, e con ciò assurdamente continui. Si
vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato di parere,
non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teo¬ ria; poiché la
tratta troppo brevemente e troppo alla larga, come se gli scottasse di
dover render più minuto conto di ragioni che a lui stesso non possono
parere troppo convincenti Ciononostante l'opera sua e specialmente la seconda
parte del secondo tomo è un lavoro filosofico non solo di grande valore,
ma anche molto attraente, il che è una cosa assai rara. 1C e distinto da quello che immediatamente lo
precede o segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta
contraddizione à dunque rinunciato a concetti di cui l’esatto pensiero
scientifico non sa nè può lare a meno, senza che ciò del resto gli abbia
giovato per la elimi¬ nazione della temuta assurdità come più innanzi
vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che lo
spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza loro ideale ; cioè
il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi
solo pensare lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale
dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché estensione reale
è coesistenza, e la continuità assoluta non può essere reale ma soltanto
ideale ; altrimenti essa inchioderebbe la contraddizione dell’infinito
compiuto nel finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione.
Porre la continuità assoluta come effettiva è non spiegar nulla e mettere
il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo
dobbiamo soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del
tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo
che contro quello dello spazio; non meno contro lo spazio percorso da un
pendolo in una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In
parti ultime non si può dividere il tempo nè lo spazio ideale, perchè essi
nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti non
possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi semplici, e
sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi
del tempo e dello spazio leali, dove la natura viene necessariamente
aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone
l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo per ciò ci
appaiono indipendenti, che partono da cose spaziali e si trasmettono ad
altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può aver indipendenza
solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo
unicamente. Ma è naturale che tutti i processi siano nel mondo materiale
(e non vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello
spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della realtà spaziale,
e unicamente i processi della coscienza in sè considerati possono venir
riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa
ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente continua
come lo spazio mentale, ossia non costituita da atomi ? Anche della
materia allora si dovrebbe dire che gli elementi distinti solo la nostra
mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la
riferenza dei processi temporali allo spazio ci faccia considerar
questi come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità
nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe al contrario anche secondo
il Riehl esser lo stesso che negare nello spazio gli atomi o le cose
ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi. Ogni grandezza nella
realtà à parti elementari, non esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di
cangiamento è una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il
pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo
temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di
nebuloso E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e
per cui la mente non avverte o avverte assai meno la inin¬
telligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo o minimo, la natura
non più oltre scrutabile del tempo si affaccia bruscamente
all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente strettamente
continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta
ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla natura della
coscienza, la quale tra due processi per quanto infinitamente vicini
interpola pur sempre la sua unità. Non c’è un minimo concettuale del
tempo come c’è invece e si richiede il minimo reale. I n minimo
nella rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso, e
considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe quanto rendere
impossibile il concetto di questa. Non deve più urtarci l’accettar
gli atomi, o meglio la concessione atomistica, per la materia, che
accettarla in riguardo alla forza e al cangiamento. Non crediamo
siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli del divenire.
La facoltà nostra mentale di pensare gli Schopenhauer trattando nella quadruplice
radice del principio di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena
e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità
assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso presso Aristotele. “
Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli, così tra due
ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo del cangiamento ; esso
è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento
percorre in esso un numero infinito di gradi per i quali dal primo stato
nasce a poco a poco il secondo. Egli conchiude con Aristotele dalla
infinita divisibilità del tempo, che ogni contenuto di esso e con ciò
ogni cangiamento, o il passaggio da uno stato all’altro deve essere
infinitamente divisibile, e che dunque tutto- ciò che diviene s’origina
in fatti da punti infiniti. atomi come ulteriormente divisibili vale per
tutti e due gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la
mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio clic par
darci questa necessità, non è in fondo che ca¬ gionato da quella nostra
come ripugnanza a riconoscere che l’analisi mentale della realtà deve a
un dato punto arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad
elementi i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il
reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale non porta
con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale può venir diviso a
piacere all' infinito, e non à quindi elementi numerabili, ma il tempo
reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque
noi, come ci accade per gli atomi della materia, non arriviamo
direttamente a’ suoi elementi. Non meno delle cose o degli elementi delle
cose sono anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la
grandezza non à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir
esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica
d’uno stesso identico. L’assenza di elementi reali è solo nel nostro
pensiero che può a- strarre da ogni divisione nel considerare una
grandezza, ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’
infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura
che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e
interpolare ; ma ne’ loro prodotti non possono dare che il determinato :
l’infinito si riferisce solo al loro operare, non al loro
operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo reale
sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché
empiricamente un tal continuo noi non lo incontreremmo mai. Il fatto che
noi della sintesi della natura (come dice Diihring in qualche luogo
della “Dialettica”), non abbiamo altro che rappresentazioni di
effettività, non ci dà il diritto di fare delle possibilità del nostro
pensiero la misura della realtà. Come in sé sia fatto il passaggio da un
punto del tempo all’ altro, non può venir inteso. Tanto varrebbe
domandare perché esiste il tempo o magari l’essere stesso nella sua
-effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere
la natura del pensiero ; noi non li possiamo ridurre ad altro perchè il
tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi dell’esperienza, e
non à una natura puramente logica. Il passaggio è una determinazione
della realtà che noi non possiamo che riflettere. Sarebbe lo stesso voler
spiegare gli atomi della materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli;
una pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la
realtà, ma vien confinato da qualcosa che se pò dare ad esso un contenuto
formale, non può però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del
cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬ mento stesso ci si
mostra come fatto compiuto. Noi non dobbiamo quindi illuderci col
concetto misterioso del continuo assoluto di penetrare più addentro nel
fare della natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai
altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro possiamo. E cosi
in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è
fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la
serie dei cangiamenti assolutamente continua sfugge egli, secondo crede,
alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1'
errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità
del tempo si mostrerebbe esaurita se si dovesse pensare ad un suo fine
nel futuro. Ei crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione,
si dovrebbe ammettere un principio assoluto del tempo. E così fa
dipendere, cosa enorme, la infinità del regresso dalla infinità del
progresso nel futuro. Ma la fine del tempo non è invece punto
contradditoria. É questa una questione di natura empirica; e cosi secondo
lui non dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un
principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero date le condizioni di un
equilibrio universale, potrebbe finire ad ogni momento senza assurdità
alcuna. Poiché ad ogni modo nella natura ogni fine non è della
serie infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure,
ammettiamo che i processi non siano per sé distinti e numerabili, ma
siano invece assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un
pendolo sono senza dubbio determinate numericamente. Ora come
risponderebbe egli alla domanda — nè vi può in modo alcuno sfuggire — se
si debba pensare che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che
possono dall’eternità esser mai esistiti in infiniti mondi, possano
venir compresi da un numero finito ? E se no sotto quale concetto una
tale somma o regola di somma dovrà venir pensata? A ciò non à egli
risposta. E più ancora come risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il
numero delle terre dall'eternità ad ora nate e morte è egli infinito o
finito ? Poiché qui manifestamente abbiamo delle esistenze separate,
indipendenti, numerabili anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che
un tal numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito.
Nel corso perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è
necessario che un infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie
cosmiche siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto
nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu
una prima terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile
solo alla serie regressiva dei cangiamenti, non alla progressiva. La
natura di questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro
non può cadere, se infinita, che sotto il concetto
dell’infinitamenfe grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del
futuro non si sarà compiuta, a partire da un punto qualunque del
tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà
solo la continua possibilità di sempre nuove mutazioni. La questione però
se realmente nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito
futuro è affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna
difficoltà che a priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni
cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé
non ci dà alcuna soluzione; la questione è puramente di fatto. La
soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non
porta seco necessariamente un infinito riscontro nella esistenza
materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale
porta con sè quella del tempo reale ossia una serie infinita di reali
cangiamenti. Essa non ci impedisce in modo alcuno di considerare come
possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un
tempo vuoto non è però il pensiero di esso che gli dà un contenuto reale
in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è
del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane mai nel nostro
pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere,
indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare
di farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza tra la
rappresentazione dello spazio e quella del tempo. Mentre a niun punto
arbitrario del tempo viene a mancare il contenuto materiale, non così
necessaria¬ mente ad ogni punto dello spazio. A parte i cangiamenti
in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad. esso venir
applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre quello che
è, cosi il tempo non à a suo riguardo significato alcuno. In un
qualunque momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è tutto
ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse realmente a
mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo impropriamente
venir considerato come nel tempo; la durata dal punto in cui il
cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso perchè noi la immaginiamo
misurata da quella piena di cangiamenti della nostra coscienza.
Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità del passaggio di
un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il tempo futuro è
indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza fine – V.
anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le due
infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale inchiude la
realtà eterna, la realtà che fu e che sarà. La pienezza dell’essere
non ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita sua
fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è elemento di cui
possa dirsi che sia stato o che abbia a originarsi. Certamente
l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo ci si svela
la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che per la coscienza
l’essere immoto in una rigida inerzia non avrebbe valore alcuno. Tuttavia
la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in un
qualunque punto matematico del tempo. E cosi T importanza del tempo
finito non si perde di contro alla infinità passata e futura del
processso: ogni momento del tempo ci dà l’essere sub specie aeternitacis,
nè altra mai è stata la esistenza della realtà che quella del
momento. Solo in questa considerazione della permanenza eterna del
reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura
sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far
considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che
l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi.
Giova quindi, per la concezione universale dell’esistenza, oltre che
aver riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel tempo
considerare gli altri sistemi parziali del cosmo nel loro coesistente
diverso grado di svolgimento, per cui si lascia forse quasi pensare come
in ogni momento attuata nello spazio la evoluzione temporale dei
singoli mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da
processo a processo, per il filo della causalità materiale spiega
l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva
unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella
rappresentazione non basterebbero per sè a escludere una radicale
disparità nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente
forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà non possa dare
origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si
riconosce che l’unità stessa del reale è che crea quella dello spazio e
del tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬ tura
meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della natura esprimersi in
relazioni di spazio ; nelle necessità spaziali è la logica immanente
delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo
avuto riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà
materiale. Il pensiero per sè non trova alcun impedimento a riunire ogni
spazio in uno spazio unico nel vuoto schema spaziale e non può trovar
quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi la
pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di esseri. Ora una tale
pluralità non solo non può mai venir oggetto del nostro pensiero e per
noi non può quindi assolutamente esistere, ma è dalla realtà
smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della
materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle distanze nello
spazio reale non sono che rapporti di forza. Ogni elemento dell’
esistenza materiale è quindi nello stesso unico spazio. Non esistendo
cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del
tempo reale ; la sua unità suppone quella dello spazio materiale e
dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente
omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento è uno anche
il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono
presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa
dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché
la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il
campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una
eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non
à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale;
rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici
coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la unità della
coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma rispondentisi. Albana e
all’altra sta a base e direi quasi a tergo quella che noi non possiamo
concepire che col concetto formale di ragione o di fondamento unitivo
e subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile l’una unità
dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale
oggettiva. Infatti che cosà di meno oltre analizzabile dell’unità
radicale che con la mutazione si appalesa esistere negli elementi
dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il
fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro stato di un
altro? Queste riflessioni ci richiamano alla infondata originarietà delle
cose, e alla natura per così dire superficiale della conoscenza e del
pensiero. Quelli sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già
per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del
conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta
dal pensiero. La analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno
però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in cui falsamente
per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia
pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è
incondizionatamente applicabile al reale il principio di ragione, tanto
meno lo sono altri concetti essenzialmente relativi quali quelli di
grandezza e di scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente
per ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito è vero
però che in relazione ad una sua parte esso à una grandezza determinata,
sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo
quindi dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente
superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo infinitamente
piccolo in relazione all’infinito assoluto dello spazio ideale. Ma in sè
non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso
non vi è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari è
affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile perciò in modo
incondizionato all’essere. Questo non dura nè tanto nè poco; e la ragione
di ciò è che esso non è nel tempo. Considerando però la serie dei
cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio, lo schema
ideale del tempo riceve necessariamente un contenuto reale perfettamente
corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi
è parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto che come
per mezzo del tempo si fa possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe
contraddittorio, cosi per il cangiamento trova una necessaria
applicazione alla realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario
Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice
echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth,
Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature
ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure.
Grice e Novato: la
ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Seneca’s
brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates two of his
philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that if Novato
was not a follower of the Porch, he was a the very least a sympathiser. Lucio
Anneo Novato. Novato.
Grice e Numa: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la logica del regno –
Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Etruria) The
second king of Rome. A book was
discovered. It wasn’t written by Numa, but the Romans said it was. It was very
philosophical. The Roman senate ordered that it should be burned. It was! But
most Italians can recite by heart all the indiscriminate teachings it
contained. The big polemic came from Cicero. He didn’t want Roman philosophy to
have a start other than in Rome, so he denied the school of Crotone and much
more any Etrurian influence via Numa. Still… Numa Pompilio Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera.Pompilio Numa Pompilio dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume
Rouillé 2º Re di Roma PredecessoreRomolo SuccessoreTullo Ostilio NascitaCures DinastiaRe
latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia Numa Pompilio, Cures Sabini, -- è
stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di
origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie
soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era
noto per la sua pietà religiosa e regna
dal 715 a.C. fino alla sua morte, ottantenne, dopo quarantatré anni di regno, succedendo,
come re di Roma, a Romolo. Numa e un re pio, e in tutto il suo regno non
combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di Numa non avvenne immediatamente
dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori governarono Roma a
rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di sostituire la
monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento
popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità
di governo, dopo un anno, i senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La
scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori romani
che proponevano il senatore Proculo ed i senatori sabini che proponevano il
senatore Velesio. Per trovare un accordo si decise che i senatori romani
avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i
senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio,
appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella a Cures ed era sposato con
Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che Numa fosse nato nello stesso giorno in
cui Romolo fondò Roma. Numa, concittadino di Tazio, e noto a Roma come uomo di
provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da
meritare l'appellativo di ‘pio.’ I
Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome. Furono
dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i due senatori più influenti rispettivamente
fra i Romani ed i Sabini, per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad
accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, Numa
vi acconsente solo dopo aver preso gl’auspici degli dei, che gli si
dimostrarono favorevoli. Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del
popolo. La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di
Roma attuato da Numa fu a lui dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai
vedovo, soleva passeggiare nei boschi e che si innamorò di lui al punto da
renderlo suo sposo. A Numa viene attribuito il merito di aver creato una serie
di riforme tese a consolidare le istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle
religiose, raccolte per iscritto nei commentarii Numae o libri Numae, che
andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla base di queste norme di
carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini
religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i
Feziali e i Pontefici. Numa stabilì di unificare ed armonizzare tutti i culti e
le tradizioni dei Romani per eliminare le divisioni e le tensioni, riducendo
l'importanza delle tribù e creando nuove associazioni basate sui mestieri. Appena
divenuto re nomina, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello
dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio
Quirino, gli dei più importanti dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre
sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui
diede precise regole ed istruzioni. Numa proibe ai Romani di venerare immagini
divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con
tali immagini. Durante il regno di Numa non furono costruite statue
raffiguranti gli dei. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti
dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito
di vigilare sulle vestal, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione
di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Istituì poi il collegio delle
vergini Vestali assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui
era custodito il fuoco sacro della città. Le prime furono Gegania, Verenia,
Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio ne aggiunse altre due. Istituì anche il
collegio dei Feziali, i guardiani della pace, che erano magistrati-sacerdoti
con il compito di tentare di appianare i conflitti e di proporre la guerra una
volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno
istituì il collegio dei salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il
tempo di pace e di guerra -- per i romani il periodo per le guerre anda da
marzo ad ottobre. Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti di Roma,
perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini
soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a
milites -- militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e
dediti alle esercitazioni militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado
di combattere. Numa migliora anche le condizioni di vita degli schiavi, per
esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i
Saturnalia assieme ai loro padroni. La tradizione romana rimanda a Numa
Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste
e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica
dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei
Terminalia. Nel Foro, fa costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece
costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le
cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per
tutti i quarantatré anni del suo regno -- Secondo Marco Verrio Flacco,
riportato da Sesto Pompeo Festo, il re Numa, ordinando la costruzione del
tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè
della stessa forma del mondo, in quanto Numa e un convinto sostenitore della
sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani
tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re Numa poi incluse a Roma il
Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura. A Numa e
ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò
da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo divise in 10 mesi,
mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con l'aggiunta di gennaio,
dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo
dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la persistenza dei
nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre,
dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e ne-fasti,
durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in
questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta
che il re N. segue i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il
carattere sacrale di queste decisioni. Atque omnium primum ad cursus lunae in
duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna
non explet, desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe,
intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam
eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis, dies congruerent.
Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil cum populo agi utile
futurum erat. Anzitutto divise l'anno in dodici mesi secondo il corso della
luna, ma poiché i mesi lunari non arrivano a trenta giorni, e complessivamente
mancano alcuni giorni per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole,
inserì nel calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti
anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde
era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli fissò pure i giorni fasti
e nefasti, ritenendo cosa utile che in qualche giorno non si potessero
discutere le questioni politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe
condita) L'anno così suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo
lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio,
composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei
pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di
convenienze politiche. Floro racconta che Numa insegna i sacrifici, le
cerimonie ed il culto del sacro ai Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri
ed i salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la
festa di Quirino e la festa di Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio.
La festa dedicata a Marte si celebra a marzo, e venne officiata dai salii. Numa
partecipa di persona a tutte le feste religiose, durante le quali e proibito
lavorare. A queste riforme di carattere religioso corrispose anche un
periodo di prosperità e di pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi,
tanto che durante tutto il regno di Numa le porte del tempio di Giano non
furono mai aperte. Numa muore ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto
dagl’anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco
Marzio, ha solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche
per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla
processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini
ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un
mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, Numa
Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente
città. Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio
Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente
sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti di filosofia. Per
decreto del senato, i primi furono conservati con cura. I secondi furono
pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia
Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e si
lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio e
nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di
un secondo matrimonio di N. Pompilio con una certa Lucrezia da cui sarebbero
nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto
origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci. L’esistenza
di Numa Pompilio, come accade per quella di Romolo, è discussa. Per alcuni
studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà
filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso
di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo
predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni
Numa viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito
sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura. Strabone,
Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio: Ab Urbe condita. Qui
cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi
cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis
essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. Floro,
Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito, Annali, Livio, Periochae
ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione.
Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Periochae ab Urbe
condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio Massimo,
Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di Numa Antonio Brancati,
Civiltà a confronto, Vol. I, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino), I .
Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino) ; Periochae (testo latino) .
Plutarco, Vita di Numa. Fonti storiografiche moderne A.A. V.V., Storia Einaudi
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Brizzi, Storia di Roma. 1.Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron, 1997. Andrea
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Augustus, Londra & New York, Thames and Hudson, Mommsen, Storia di Roma
antica, Firenze, Sansoni, 1972. Massimo
Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le
conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del
mondo romano, Milano, Rizzoli, Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie
Età regia di Roma Rex (storia romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia
romana) Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Numa Pompilio Collegamenti esterni Numa Pompìlio, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Gaetano De Sanctis., NUMA POMPILIO, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1935. Modifica su Wikidata Numa
Pompilio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
Modifica su Wikidata Numa Pompìlio, su sapere.it, De Agostini. Numa Pompilius,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Numa Pompilio, su
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dell'VIII secolo a.C.Sovrani del VII secolo a.C.Romani Nati a Cures
SabiniPersonaggi della mitologia romanaRe di RomaOracoli classici[altre]
Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in quarto libro tradit Cneum
Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua Numa, qui Romae
regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse libros a rege Numa
scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta Numae libros
Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam tradit
libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a scriba
senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos,
permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim
eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros
mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos
non tetigerant. Tamen, lectis libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica
philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt. Hoc idem tradit Piso quoque in
libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris pontificii, totidem
Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus
consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico autore di annali,
nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio avesse disseppellito
nel Gianicolo il sarcofago, nel quale Numa, che aveva regnato a Roma, era stato
sepolto. Aggiunge inoltre che nel
sarcofago erano stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta
anni prima. Cassio scrive anche che i
libri di Numa erano di carta, pieni di molte cose misteriose. Cassio tramanda anche che i libri nel
sarcofago fossero stati trovati integri con grande stupore di tutti e che
fossero stati portati dallo scrivano al senato.
Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti
integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione. Dice, in effetti, che questi libri erano
stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti
integri. Inoltre, poiché i libri erano
stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano
toccati. Tuttavia, letti i libri, furono
trovati molti scritti sulla filosofia pitagorica e per questo furono bruciati
dal pretore. Questa stessa notizia la
tramanda anche Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette
libri del diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio inoltre nella sua opera
tramanda anche la consultazione del senato nella quale fu ordinato che essi
fossero bruciati. The “original
Romans” were the ones who did the choosing part. They didn’t select anyone from
the Sabine senators but found a man in the Sabine city of Cures, the birthplace
of the former king Titus Tatius, famous for his justice, wisdom, and piety. His
name was Numa Pompilius. The people, happy with this choice, accepted their new
king quickly. Only one small problem now occurred – the man who was chosen to
rule after so much effort and such a lengthy and difficult process was not
really keen on reigning at all. When a delegation from Rome approached him, he
humbly refused. It required much much persuasion from his father and brothers
with arguments about honour too great to refuse, but in the end, Numa finally
agreed and became the king of Rome. Numa.
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