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Monday, November 4, 2024

GRICE E FERRI Filosofo (Bologna 1826 - Roma 1895), professore (1865-71) all'Istituto superiore di Firenze, e quindi (1871-95) all'univ. di Roma; socio nazionale dei Lincei (1876). Amico di T. Mamiani, discusse in tre lettere (1857-59) le sue Confessioni di un metafisico ed elaborò poi le proprie concezioni in tre memorie (1885-88). Da ricordare, l'Essai sur l'histoire de la philosophie en Italie au dixneuvième siècle (2 voll., 1869). Pubblicò la Rivista italiana di filosofia dal 1885.

GRICE E FERRI

GRICE E ZUCCANTE

  9°  DOTTOR GIUSEPPE ZUOCANTE | os    PROFESSORE NEL R. LICEO M. D'AZEGLIO DI TORINO          .    SAGGI FILOSOFICI    i TORINO ;  ERMANNO LOESCHER    FIRENZE ME R'ONCA  Via Tornabuoni-20 ‘Via del Corso = 307 3    1892    ran ali          Aia  n) 2A                   PREFAZIONE    Ho raccolto sotto il nome di Saggi filosofici certi  studi a cui attendevo da qualche anno fra l'una e  l’altra occupazione del mio magistero, e che mi  parvero non affatto privi d’ interesse per chi s° oc- |  cupi di filosofia. |   Sono i più d’indole storica: credo anch'io con  molti altri che la filosofia non possa prescindere  dalla storia e dalla critica dei sistemi, e il metodo  suo debba essere essenzialmente storico critico.   Alcuni di essi furono pubblicati nella Rivista -&  diretta prima dal Mamiani, ed ora con nome ed  indirizzo più largo dal Ferri; e ricompaiono qui  con modificazioni ed aggiunte, a mio credere, im-  portanti. I più sono inediti.   Di essi uno, quello che ha per titolo «  determinismo di Iobn Stuart Mill »,ebbe già nel                NR: : |  tin po’ più di modestia, una fiducia meno    PREFAZIONE    Sono dolente a questo proposito che non mi  sia possibile comprendere in questo volume un  altro mio studio sullo Stuart Mill, che pure dal-  l'Accademia dei Lincei fu quest'anno onorato d’un  premio. i   Del resto il mio libro non riempie alcuna la-  cuna, non soddisfa ad alcun bisogno; nè io, scri-  vendolo e pubblicandolo, ho avuto questo pensiero  e questa pretesa. L’ unica cosa buona e nuova che    ‘a me pare d’aver fatto, si è d’avere scritto con    una certa chiarezza c una certa semplicità di cose  filosofiche. È così raro che ciò si faccia, scrivendo  di filosofia, ch'io mi terrò fortunato se mi si giu-  dicherà almeno non tanto oscuro quanto si suole  essere, in tale materia.   Non faccio una professione di fede filosofica;  le mie idee risultano abbastanza chiaramente dai  Saggi. Dirò solo che sono nemico di tutte le esa-  gerazioni, di tutte le esclusioni sistematiche, da  qualunque parte vengano: dirò anche -che sono  amico della critica cortese, della critica da persone  per bene; e che deploro, odio anzi, quel fare bur-  banzoso, altezzoso, con cui taluni dal tripode della  loro scienza « giudicano e mandano », bandendo dal  mondo scientifico i poveretti che hanno la sventura  di non pensarla come loro. Il mondo è tanto grande  che ci dovrebbe essere posto per tutti... per tutti  1 lavoratori serii ed onesti. Un po’ più di riserbo,    cieca nelle    Bir —— __ =    inno          - "e  cai ni ES       PREFAZIONE    i AL aiar cigeee catena sete AR i NANI PEETLI    proprie forze sarebbe tanto di guadagnato per la  scienza. Ci si avvezzerebbe così a essere un po” più  tolleranti, un po’ meno sgarbati, a non dare come  certo irrevocabilmente ‘e assolutamente quello che  invece è molto, ma molto problematico; ci sì av-  vezzerebbe sovratutto a dubitare .un po’ più e alal  affermare un po’ mena. i  Dicendo questo, non mi riferisco -a nessuna  in particolare delle varie scuole filosofiche; mi ri-  ferisco piuttosto a tutte, chè tutte hanno più ©  meno la pretesa di aver risoluto definitivamente i  problemi filosofici, tutte hanno lo stesso spirito  d’ intolleranza, lo stesso dogmatismo ad oltranza. |  - A me piace la libertà e la tolleranza, come in  tutto il resto, anche in filosofia: la libertà è con-  dizione di progresso mon soltanto nella vita civile  e politica, ma in quella più intima del pensiero e  delle idee. de | ì    Grancona (Vicenza), 18 settembre 1891                            Fino a Socrate la filosofia s'era tenuta a un livello  superiore alle intelligenze comuni, e in generale avea ben  poco giovato al migliore avviamento della società. S'era  proposto come oggetto d'esame la natura ed il cosmo;  ma ne avea considerato il rispetto fisico e metafisico  unicamente, vale a dire avea studiato la matura in se    stessa e nelle sue relazioni  affatto l’uomo, che è pure la    della natura. O se pure l’uomo fu preso a considerare,    poichè i grandi problemi che    poteano certo sfuggire agli acuti pensatori che prece-    dettero Socrate, non lo si fece    speciale ed a parte: chè anzi, siccome la morale e la fisica,  l’uomo e la natura erano confusi insieme, collo stesso    sistema, onde spiegavano la n    spiegare il fatto umano in generale. Così a tutti è noto    che i Pitagorici, come dicean    dei numeri!, anzi faceano dei numeri le cose stesse*,    1 Aristot. Metaph. 1. ©. 3.  2 Aristot. Metaph. 1. 6. 6.    coll’assoluto, trascurando  parte migliore e più nobile    interessano l'umanità, non    mai l’oggetto d’ uno studio    atura, pretendeano i filosofi    o le cose fatte ad imitazione             teca Be”       ml    è dle dé       FORRAIIET PIO AA       =L METODO  4 DEL M    spiegavano la morale e i rapporti morali pure per mezzo  dei numeri!. Ma questi erano tentativi PIÙ o meno  ingegnosi, più o meno fortunati; in realtà non faceano  procedere d'un passo lo studio dell’uomo € della sua  natura morale. Per istudiare l’uomo conveniva partire  dall'uomo stesso, conveniva sovratutto distaccarsi da  quel vago aggregato di parti disparate e contraddicentisi,  concepito allora sotto il nome di fisica, e dare al nuovo  studio un indirizzo suo proprio e indipendente. Come  Ippocrate nel suo trattato Dell’antica medicina ® co-  mincia dal respingere il tentativo fatto per congiungere  lo studio della medicina a un?’ ipotesi fisica od astrono-  mica; e mentre si scaglia contro gli scrittori medici, che  perdevano il loro tempo a stabilire ciò ch'era l’uomo nel  suo principio, in qual modo cominciò ad esistere e come  fu generato, tenta di fissare i limiti entro i quali la me-  dicina deve aggirarsi; nella stessa maniera Socrate, svin-  colandosi all'atto “dalla tradizione filosofica, reputando  pazzo chi sì occupasse di cose divine? (e tali erano per  lui le cose della natura e del cielo), perchè gli dei aveano    di queste riserv a se i i È ichi  q rvato a se stessi il segreto, richiamando    1 Aristot. Metaph. 1, 5? p. 985-986. 'Tò uèv cowivda Fay dol)  U ’ n 1) a  PZA ia diuziocnivi, 76 7° Torovdz duyà VAL volle Èxspoy NA ;   S o vi >  }  TIVOMEVZ, AI È, Lode E Sr AGI  DIAZ nuo, FL os TZ ZA èrindebpaza DIANA :  ,    Sn idea  e44oTO Ciponezta.  5 Xenoph. Mem. Socr. IV 7. 6    2 AI)  «DO ERLTTO)       I  |  ‘  |       -- e    DI FILOSOFARE DI SOCRATE 5    perciò i suoi famigliari alla conoscenza pura € semplice  di se stessi !, l’unica all'uomo accessibile; pose il fonda-  mento a quella scienza morale, che dovea poi trovare  in Aristotele il perfezionatore e il maestro. È per questo  motivo che Cicerone potea dire di Socrate, che richiamò  la filosofia dal cielo in terra e la collocò nelle città e la  introdusse nelle case, e la sforzò a ricerche intorno alla  vita, ai costumi, ai beni ed ai mali. Ed è notevole questa  popolarità che Cicerone attribuisce alla filosofia socratica,  poichè se Socrate fu il primo a studiare il fatto umano  indipendentemente dal fatto naturale, non si propose già  questo studio per soddisfare a un bisogno della sua na-  tura speculativa unicamente, e limitarne quindi a se stesso  i risultati, press’ a poco come farebbe uno qualunque dei  nostri filosofi moderni; ma studiò l’uomo anche collo  scopo di migliorarlo, anzi esclusivamente collo scopo di  migliorarlo; e di qui la necessità che la sua filosofia  prendesse Ja forma esteriore dell’insegnamento popolare.   Nell’ Apologia platonica ® è detto chiaramente; che  Socrate era persuaso che Dio gli avesse imposto di vi-  vere per la filosofia e nello studio diligente di sè e degli  altri; e questa sua persuasione avea Messo così profonde  radici nella sua anima, che Socrate affermava di voler  piuttosto morire che disobbedire al comando di Dio, €  smettere un. istante solo dal filosofare e dal fare esorta-  zioni e dimostrazioni a chiunque incontrasse. Altrove,  pur nella stessa Apologia ‘, Socrate dice esser posto dal  Dio a’ fianchi della città, quasi ella fosse un grande e  generoso cavallo dalla sua stessa grandezza fatto tardo    1 Cfr. Mem. Socr. passim; Dialog. plat. pass,  2 Cicer. Disput. Tuscul. L.'V e. I $ +  5 Apol. ci XVII p. Stef. 28E-29.    + Apol. c. XVIII. p. Stef. 30E-31.       4,  |  ‘          6 DEL METODO    Rn oseeGog eni guup sgn1essoassasopora sog atene    e bisognoso di qualche spronata per essere eccitato;  cittadini aver bisogno dell'opera sua, come di chi li desti  dal dormigliare, persuadendoli e rimprocciandoli.   Ad un uomo, come Socrate, in cui era profondo  il sentimento della giustizia e della morale, non potea  certo sfuggire la miseranda confusione che regnava al  tempo suo nei concetti regolatori della società e della  vita, e la totale depravazione dei costumi: e siccome  le grandi convinzioni della sua anima scambiava il più  delle volte colla voce d'un Dio; imposto: a se stesso  l’apostolato santissimo di richiamare sulla retta via la  società pericolante, e postosi all'opera coll'ardore del-  l’apostolo e la fede del martire, dovea naturalmente  reputare quella forza potente che lo trascinava, un  non so che di sovranaturale che Dio stesso in lui avesse  trasfuso.   Comunque sia, e noi non pretendiamo per nulla  entrare nella questione intricatissima dalla religiosità di  Socrate, questa convinzione religiosa speciale combinata  colla sua natura essenzialmente speculativa e dialettica,  fece di Socrate un Dio elenchiico, per adoperare la pa-  rola Si Platone 1, che esamina e convince i deboli in  È cea  I N O,   È i azione. Trascurava le cose  proprie, andava continuamente attorno per la città or:  al passeggi pubblici, ai ginnasi destinati na ittà, pai  corporali dei giovani, ora ai banchi dei RE  adunanze dei Sofisti, nelle botteghe degli a OE alle  perfino nelle case delle cortigiane? e dal rara   ) Ppertutto e con    ! Plat. Soph. c. l. p. Stef. 216.È 1° espressione che    pera rispetto all'ospite che ha la parte principale nel es E  È) Alea t GUAI ” OPpo.   Cfr. il singolare dialogo che ha Socrate (Mem a ) coll   ” 1.) colla    etera Teodota intorno all’arte di allettare gli uomini  I.       iii rratriiii_zznnnnttni tt    ili iti ii A    PRESE e PI    ii    A LI Se O    |    DÎ FILOSOFARE DI SOCRATE 7    chiunque il volesse, faceva ricerca di ciò che è giusto, di  ciò che è ingiusto, di ciò che è pio, di ciò che è empio,  di ciò che è bello, di ciò che è turpe, € in generale di  quante altre cose potessero interessare l’uomo ela so-  cietà 1. Ed è noto come nelle sue conversazioni ei non  facesse distinzione di persona, poichè s' intratteneva egual  mente coi politici e coi Sofisti, cogli uomini d’ arme e  cogli artigiani, coi giovani ambiziosi e cogli studiosi, e  con quanti altri ricercassero la sua conversazione, 0  stimasse dover ricercare egli stesso.   E questa ricerca della conversazione e dell'esame,  questo commercio incessante cogli altri, per un uomo  come Socrate in cui la conoscenza e la volontà, l'in-  telletto e l'affetto si confondevano, non era solamente  un bisogno intellettuale; ma nel tempo stesso un bisogno  personale e morale: l'abitudine del filosofare s' identifi-  cava in lui con la comunità della vita, il desiderio della  scienza era pure il desiderio dell'amicizia; e sta, come  osserva acutamente lo Zeller ?, nella fusione di questi  due ordini di bisogni il carattere originale dell’ Eros  socratico. L'amore socratico non aveva soltanto un alto  valore pratico e morale, ma anche, e più specialmente,  un valore intellettivo e didattico.   Abbiamo detto più sopra che Socrate era dotato di  natura speculativa e dialettica; Platone ci conserva in  proposito un molto singolare racconto. Narra nel Par-  menide che Socrate ancora giovinetto ebbe con Parmenide  e Zenone una disputa intorno alla dottrina dell’ 20, che  i due filosofi Eleati sostencano. A un certo punto am-  mirando il fervore che Socrate mettea nella disputa, si    1 Mem. Socr. I 1. 16. ;  2 Geschichte der Philosophie der Griechen t. 3 p. 118 della    ‘ traduzione francese, c       .  è             x DEL METODO    guardarono l’ in l’altro sorridendo 1 e più Innanzi Par-  menide, vedendo l'imbarazzo di Socrate a procedere oltre  disputando, sì provò a dargli alcuni consigli intorno al-  l’arte del disputare: « Troppo per tempo, o Socrate,  « innanzichè tu ti eserciti a parlare, ti sforzi a definire  « ciò che sia il bello, il giusto, il buono, e qualunque  « delle altre specie. .... Per certo, mi credi, è bello e  « divino il fervore col quale muovi alle ragioni: metti  « fuori adunque te stesso ed esercitati, finchè sei giovane,  « in questa facoltà che sembra inutile e si chiama dal  « volgo garrulità; altrimenti ti sfuggirà la verità ». E  poichè Socrate domandava a Parmenide qual fosse la  maniera di questo esercizio « questa, rispose il filosofo,  «.che hai udito da Zenone.... Conviene non solo, se è  « qualche cosa, supponendo che la sia, considerare quello  « che dalla supposizione deriva —- ma anche se non è  ‘ questa stessa cosa, supporre che la sia —se pur vuoi  “ esercitarti 505 I più ignorano che senza questo vagare  « e discorrere per tutte le cose è impossibile aver  « mente che s'imbatta nella verità ».   Dal quale racconto apparisce che Socrate natural-  mente portato fin da' suoi più giovani anni a correr  come un cane Lacone, di qua e di là dietro ai dis È)  e a seguirne le orme è, ebbe a correttori e a pa ra  natori di questa sua facoltà d’ investigazione da È PRI  Eleati, e specialmente Zenone, che fu il prim > Paoli  care alle questioni filosofiche |a di prMO ad appli-  a quel tempo in Atene, vi godeva |    e una    a massima rinoma nza!.    ! Parmen. p. Stef. 130.  2 Parmen. p. Stef. p. 135-130.  5 Parmen. p. Stef. 128 C 247  cò perabeis 2ì iyvedere tà VeyBivra,  4 Cfr, Alcibiad. magg. c. 14 pi    DI GITZO va vi \4  meo ve vl Adani FIN LAI    alettica, e che, venuto:    119 A e Plutarc. Vita di Pericle c,.3, »    ‘    DI FILOSOFARE DI SOCRATE 9    Per tal modo la dialettica che avea incominciato a fare  le sue prove con Zenone, e avea messo în giuoco con  lui quella sua forza aggressiva 0 negativa, colla quale  rilevava gli assurdi e le contraddizioni che derivavano  dall’ipotesi contraria alla dottrina dell’ uno, senza curarsi  più che tanto delle ragioni positive che militassero in  favore di essa dottrina!, pur a questa mirando positiva-  mente, passava nelle’ mani di Socrate, che dovea farla  mirabilmente servire allo studio dell’uomo e della so-  cietà. Se non che fa d’uopo avvertire collo Zeller® che  se Zenone, per difendere la filosofia Eleatica, ha potuto  adoperare un metodo dialettico, e fu per questo chiamato  da Aristotele l’inventore della dialettica, non per questo  la filosofia Eleatica nel suo complesso può chiamarsi un  sistema dialettico. Perchè si potesse chiamare così con-  verrebbe che fosse dominata da un’ idea precisa intorno  all'oggetto e al metodo della conoscenza scientifica, con-  verrebbe che facesse precedere le sue ricerche fisiche e  metafisiche da una teorica della conoscenza, € nella con-  cezione medesima del mondo cercasse il suo principio  regolatore nella definizione e nella distinzione dei con-  cetti. Questo doppio carattere che fa difetto alla filosofia    Eleatica è invece la nota distintiva della filosofia di So-    crate e del suo grande discepolo; e solo questa perciò  si può chiamare un sistema essenzialmente dialettico.    x    1 Gfr. il passo del Parmenide p. Stef. 128 B, ©, D, dove Zenone    =    parla de’ suoi scritti.  2 Zeller-Geschichte der philosophie der Griechen tom. 2. della    trad. franc. p. 96.             DEL METODO    Il.    Una delle dottrine che nell’ antichità ha avuto mag-  giore fortuna e che in generale ha esercitato un’ azione  molto benefica sugli spiriti, è la dottrina della preesi-  stenza dell'anima al corpo e poi della trasmigrazione  dell'anima da corpo a corpo. Venuta a quanto pare  dall’ Egitto! sul suolo greco, fu primieramente accettata  dagli Orfici; da questi, secondo ogni probabilità, passò  fra i Pitagorici®, i quali alla loro volta doveano tra-  smetterla a-Platone. Se non che mentre gli Orfici e i  Pitagorici fecero servire questa dottrina ad uno scopo  essenzialmente morale, poichè dallo stato felice del-  l’anima prima della sua unione col corpo, e dalla unione  dell'anima col corpo avvenuta in seguito ad alcune sue  colpe, coglievano occasione a predicare la virtù e l'e-  spiazione; Platone, oltre che a questo medesimo Scopo,  la fece servire eziandio alla spiegazione d'uno de’ più  VER che lo spirito umano si proponga, il   ma della conoscenza. L’ani imi Aa  ‘unione col corpo a RISI dela sue  e, dopo la sua unione col cor È Sete GIO,  po, trasmigrando da questo  a quello, ebbe a vedere tutte cose e tutte c ]  prendere ®; sicchè i tipi di , areale  queste cose essendo in lei  ! Cîr. Bertini, Filosofia presocratica p. 202.  2 Giacchè non è per nulla accettabile ii o    dai Pitagorici si sia trasmessa agli Orfici.  3 Cfr.    Pinione opposta che    Menon. plat. p. Stef. 81 in fine c. XIV-XV Cfr, anche    il Fedro plat. p. Stef. 246-249 e il Fedon. p. Stef. 84 e seg. Nel Fed  . ro    però e sel pedone le ragioni che si adducono a spiegazione del fat  della reminiscenza sono alquanto diverse che nel Menone e             DI FILOSOFARE DI SOCRATE II    cescrsurseresevenzeazionesansenaon nre ne Fonntenseenisenovosagsaregsonevasga erbopronstessacaaeneostae    contenuti e l’universa natura essendo stretta in con-  giunzione, all'anima non è difficile, richiamata una sola  notizia, ciò che gli uomini dicono apprendere, richiamare  eziandio tutte le altre, purchè abbia coraggio e non si  ritragga dalla ricerca!. Per modo che quello che si dice  dagli uomini conoscenza, non sia in realtà che la ricor-  danza di quello che già si sapeva, cd ignoranza non  esista veramente, ma soltanto dimenticanza.   Questa dottrina, detta della reminiscenza (2v4uvnsto),  che Platone metteva innanzi a ribattere |’ obbiezione  sofistica ed eristica, che sia impossibile l’apprendere e  il ricercare qualunque cosa che non ci fosse già nota  antecedentemente?, serviva mirabilmente a spiegare anche  il metodo dell’insegnamento e della disputa di Socrate.  Poichè ogni uomo possiede virtualmente tutte le nozioni,  sicchè per possederle coscientemente non ha che a ri-  chiamarsele alla memoria, l’ ufficio del maestro è per ciò  stesso limitato a ridestare queste nozioni, a trarle fuori  da quello stato d’ oscurità e di latenza, in cui erano in-  volute nell'anima. Perciò nulla di suo insegna il maestro,  anzi non insegna veramente, solamente per mezzo d’in-0  terrogazioni adatte aiuta il discepolo a ricordare quello  che ha dimenticato. Quindi è che Socrate non appella  se stesso maestro nè in Senofonte, nè in Platone; anzi  ‘in Platone? dichiara esplicitamente che mai non si fece  maestro ad alcuno; e quindi è ancora che nel Teeteto  paragona l’arte sua all'arte della levatrice, e dice d'aver  attinta quest'arte dalla sua stessa madre Fenarete. Come  le levatrici aiutano a partorire le donne, così egli gli    1 Cfr. Menon. ibid.   2 Gir, Menon. platon, p. Stef. $o in fine ed Eutidem. platon.  p. Stef. 276-277. 3   5 Apol. platon. p. Stef. 33.       bo, 17. CONE    DEL METODO       i iffer ‘è ch'egli non ostetrica i loro  $ uomini, colla differenza pero ch'egli i    |  |  f corpi, sibbene le loro anime; e di più he IERI  i simo vantaggio la sua arte sopra di que (3; RO Tra  | ogni modo esaminare se sia falsità o verita E Gero |  l’anima partorisce; mentre non accade alle leva È so !  distinguere se sia uomo od ombra d uomo que o) 1 |  la donna partorisce; non essendosi mai dato il paso Ì |  un parto di donna che non sia parto reale. Del resto |  come le levatrici sono per età infeconde,, alla maniera !  stessa che è infeconda Diana che presiede ai parti, So- ;  crate pure è infecondo, e il rimprovero che molti mi |  fecero, egli osserva, d’interrogare sempre gli altri e di !  non risponder nulla io stesso, ha in questo la sua ragione  che Dio m’impose di osfelricare, ma mi tolse di poter |  generare !. |  La quale ultima osservazione, fatta per burla cer-  tamente, contiene però il secreto del metodo negativo  di Socrate. Socrate muoveva una facile interrogazione, i |  alla quale veniva data una risposta altrettanto facile; ‘  questa offriva il destro a una seconda interrogazione e    bs quindi a una seconda risposta; dalla quale poi deriva-  *. vano altre interrogazioni ed altre risposte, finchè si  Pri    giungeva al punto che l'interlocutore veniva a porsi da  se stesso fuor di questione, o contraddicendosi, o ve-  nendo a riconoscere che non era verità quella che pur  aveva preteso fosse tale. E allora Socrate non veniva a  risolvere la questione, come s'aspettava l'interlocutore,  mettendo egli stesso innanzi una sua propria opinione,  che potesse surrogare quella di cui era stata riconosciuta  la falsità: invece abbandonava nel dubbio e nella con-  + fusione il suo avversario; il qu    S ale, se presuntuoso dap-,  prima, venia ora fatto og    getto di scherno alla moltitudine.    1 Cfr. Teetet. plat, p. Stef. 149-151.          DI FILOSOFARE DI SOCRATE 19    Senofonte non comprende a mio credere questo lato  scettico della disputa di Socrate. E bensì vero che in  un luogo dei Memorabili !, ad ‘Ippia che lo rimprovera  di deridere gli altri, interrogando e convincendo tutti,  senza voler egli stesso dichiarare la propria sentenza,  Socrate risponde che non gli è bisogno dichiarare quali  cose ei reputi giuste, perchè lo dimostra:col fatto ogni  giorno; sicchè verrebbe quasi a dire — la mia sentenza  è la mia vita stessa, traete dalla mia vita le conseguenze  positive del mio insegnamento. — Ma questo non basta,  e se potè esser vero in certi casi e in certi rispetti par-  ticolari, a torto lo applicheremmo generalmente a spiegare  la forma scettica delle conversazioni socratiche. Però fa  d’uopo notare che Senofonte non dà questo esempio come  regola generale; quantunque è anche a notare che non  si trova in tutti i Memorabili alcun'altra spiegazione  in proposito.   La vera spiegazione ci è data da Platone. Abbiamo  già accennato più addietro. come Socrate appellasse se  stesso infecondo di sapienza; ebbene non è soltanto per  ironia che s'appella così. Socrate interroga gli altri per  comando del Dio, com’egli dice ?, ma non già per re-  darguirli in questo o quel discorso, o perch’egli abbia  pronta una soluzione della proposta questione: è l’anima  degli altri che vuole chiarire a loro medesimi, nel tempo  stesso che vuole chiarire la sua a se stesso; è la qualità  dei concetti altrui che è risoluto pel bene comune di  mettere a prova, nel tempo stesso che i suoi pure, 0  indefiniti, o incompleti, sente il bisogno di concretare  e di rettificare. Quindi è che giunto col ragionamento  a fare una disamina attenta, acutissima dell’ opinione    I L.IV 4 g-10.  2 Apolog. plat. p. Stef. 23 c. IX.          DEL METODO    ii | PETITITLILILICALMIAR:I  altrui e della sua, riuscito a togliere certi pregiudizi,  3 certi errori che poteano essere comuni e @ lui e agli  . altri, non sa poi all’ abbattuto edificio sostituirne uno    nuovo, e tronca, quando meno si crede, la disputa. « E  « sopratutto l'opinione in se stessa quello ch'io esploro;  « ma accade forse che ci si esplori amendue, me che  « interrogo e chi risponde » osserva Socrate nel Prota-  gora!; e nel Menone®:« non è già ch’ io essendo pie-  « namente certo, faccia dubitare gli altri, ma anzi,  «essendo io stesso sopra modo dubbioso, i’ fo dubitare  « anche gli altri ».   Socrate in verità non possedeva teorie completa-  mente svolte intorno a checchessia, non possedeva alcuna  dottrina dogmatica positiva. Egli aveva bensì il sentimento  { pieno e profondo della necessità della scienza fondata sui   ‘ concetti; ma essendo stato il primo a mettere in luce  questa necessità e spendendo per così dire il suo tempo  a convincerne altrui, non avea acquistato conoscenze  determinate che costituissero la materia di questa scienza.  Insomma « l’idea della scienza non si presentava ancora  a lui che come un problema indeterminato, in faccia  al quale egli non poteva che riconoscere la sua igno-  ranza? ».   Socrate adunque partendo dal dubbio ch'era in lui  intorno alla verità delle opinioni altrui, o delle sue, ar-  rivava a comunicar questo dubbio anche agli altri. Nel    Pa “7a  \L    illomne «na       PS  i 7    E  È    1 Prot. plat. p. Stef. 333 c. XX trad. Bonghi.   2 Menon, plat. p. Stef. 80 c. XIII trad. Ferrai.   Cfr. anche quello che Aristotele dice negli Elenchi Sofistici 34,183,  bi 7: Sne nai dd edito Nozpdrns pura, dI ob Omespivaro.  Ouoroyer do obz sidiva.   9 H. Zeller-Geschichte der Philosophie der Griechen tom. 3. della  trad. francese p. 115.          i    - ‘’‘0.6 —‘*cmosetttittitenittntietteienticannea    DI FILOSOFARE DI SOCRATE I5    che consiste veramente la grande efficacia del suo me-  todo; poichè giunti un momento a. dubitare di quello  che già si credeva sapere, naturalmente abbiamo fatto  un gran passo nella via della scienza: se non fosse altro  abbiamo imparato ad esser meno presuntuosi e a non far  troppo a fidanza colle forze del nostro intelletto. Ma c'è  di più. Il dubbio è uno stato assai molesto dell’ anima  e « suscita le doglie e fa passare giorni e notti nelle  « ansie » come osserva Socrate nel Teeteto!; sicchè ten-  tiamo naturalmente di liberarcene, ricercando la solu-  zione vera del problema, e non arrestandoci un momento  fino a che non l'abbiamo ritrovata, « Credi tu », dice  Socrate a Menone a proposito dello schiavo che vavea  preso a catechizzare, « ch’ e’ si sarebbe messo a cercare  « ed imparare ciò che si credeva di sapere pur nol sa-  « pendo, se prima non fosse caduto nel dubbio, accor-  « gendosi di non sapere e sentendo desiderio di saper  « veramente ?.... Pon mente adesso com’ egli movendo  « da questo dubbio, e con me la ricerca facendo e' ri-  « troverà il vero, non altro ch'io l’interroghi non già  « che gl’insegni® ». i   E questo dubbio, ch’ era l’ ultima conseguenza della  conversazione socratica, si accompagnava naturalmente a  quel senso di stupore e di meraviglia, che dovea suscitare  nell'anima degl interlocutori di Socrate l' arte finissima,  ond’egli riusciva a imbarazzarli e a convincerli sovratutto  dei loro errori. Già Senofonte nei Memorabili ® ci parla  di certe malie e di certe cantilene, che Socrate consigliava  a’ suoi famigliari per persuadere e farsi amici gli altri; e  Platone nel Teeteto mette in bocca a Socrate le singolari    A Teet. p, Stef. 151.  9 Menon. c. XVIII p. Stef. 84 trad. Ferrai,  5 L.HIc. VI $ 10.                > fingono ren deg} =    16 - DEI. METODO    riti o sara rear agesieoteorrenizentarivenzietto    parole che come « le levatrici apprestando farmachi  « e canterellando certe lor cantilene, sanno eccitare 1  « dolori del parto, ed a chi vogliono mitigarli, ed aiutare  « i parti malagevoli » così è proprio dell’arte sua eccitare  “ ecalmare ad un tempo i travagli del dubbio nelle anime!.  Nel Carmide® Socrate si dice in possesso d'una certa  incantagione che ha appreso da Abari l’iperborco, C che  ha egualmente efficacia sul corpo e sull’anima, e Invita  il giovinetto Carmide a farne esperienza; e finalmente  nel Menone?, Menone stesso dichiara d’ esser affascinato  dalle incantagioni di Socrate e in tuon di burla gli dice,  che gli sembra rassomigli affatto e per la figura e pel resto  alla torpedine di mare; chè com’ essa chiunque le si ac-  costi e la tocchi fa cader nel torpore, così egli gli ha  intorpidito l'anima e la bocca per modo da non sapere  che cosa rispondergli.  Suscitando adunque nell'anima de’ suoi interlocutori  il dubbio e la meraviglia, due sentimenti essenzialmente  filosofici, poichè furono sempre cagione che gli uomini  cominciassero a filosofare4, Socrate esercitava in realtà  maggiore efficacia che non con un vero € proprio inse-  gnamento positivo. ;  | Una siffatta maniera di disputare tutta negativa este-  riormente, ma pur così feconda di conseguenze positive,  dovea necessariamente assumere la forma dell’ ironia. In  generale è l'ironia uno dei tratti caratteristici del popolo  ateniese: il vano diletto di far pompa di sottigliezza e  agilità d’ingegno e di volubilità di lingua, di far sentire    1 Teet. p. Stef. 149-151 trad. Buroni.  2 Carmid. p. Stef. 155-156.  3 Menon. p. Stef. 8o.    * Cfr. Aristotele Metaphysica 1. 2. s e Platone Teeteto p  Stef. 155.          puliti ici inizino ini e    = nuit ie    DI FILOSOFARE DI SOCRATE 17    altrui la propria superiorità di spirito possedeva in grado  eminente gli Ateniesi. Di qui quella inimitabile sfronta-  tezza di guardatura e di sorriso, che Aristofane chiama  Grvuoy Biéroc, quell’accento dileggiatore-tosto che si fos-  sero accorti che altri non fosse del loro parere, quella  tendenza allo scherno, alla beffa, alla derisione, e le mille  altre finezze e amabilità che si sentono, ma non sì pos-  sono esprimere. Pel qual loro carattere fine ed arguto  gli Ateniesi diceano volentieri il contrario di quello che  pure avrebbero voluto dire, pareano lodare biasimando  e biasimare lodando, faceano le viste di non intendere il  pensiero altrui, e intanto gli davano un significato par-  ticolare per contraddirgli, e più spesso anche per metterlo  in beffa.   Questa specie di motteggevole doppiezza era pro-  priamente quella che gli Ateniesi chiamavano ironia, e  se la lanciavano l'un contro l’altro nei simposii fra le  brigate festose, nei pubblici passeggi, e dappertutto dove  il vino e la luce accendessero le loro. mobili fantasie ed  eccitassero il loro buon umore. Socrate che tutta la an-  tichità ci descrive come un misto di saviezza e di schiet-  tezza, di gravità e di petulanza, di equabilità di animo e di  bizzarria di spirito, d’ orgoglio e di modestia, d’ ingenuità  e di causticità, dovea naturalmente e più d’ogni altro  adoperare questa specie d’ironia ch'era nell’indole del  popolo suo; ma quest ironia egli sapeva condire di tanta  leggerezza c finezza, sovratutto di tanta benevolenza e  bonarietà, che nell'atto stesso di pungere non offendeva,  e quegli stesso che n’era l'oggetto o sorrideva con lui del    n    Ndr    suo bel motto, o lo scambiava con un vero € proprio com- >    plimento. In generale questa specie d' ironia avea lo scopo  o di raddolcire la punta alle correzioni, che di quando  in quando rivolgeva a’ suoi. famigliari, o di attirare ì  suoi famigliari nella sua conversazione, e ne’ suoi lacci.    G. ZUCCANTE 2    5°       IC peg T    — Ges gr e a Beni SEA s> - 7 ci       18 DEL METODO    Senofonte! ci conserva una disputa di Socrate con Eutide-  mo, dove appunto questa specie d' ironia benevola è adope-  rata da Socrate e a pungere la vanità d’ un giovane che si  professava durodidzzror, e ad invogliarlo a disputare con lui.  Ma questa specie d’ironia Socrate avea comune con  tutti gli Ateniesi; quella che gli si può esclusivamente  attribuire, come una sua particolare maniera di disputare,  differiva da questa e nei modi e nell'oggetto. Essa con-  sisteva in questo, che quando s'incontrava con uomini  che godessero fama di sapienza, come i Sofisti, o tenes-  sero un alto posto nella Repubblica, o fossero comec-  chessia superiori ad altri in dignità od in ricchezze;  sprovvisto com'era di conoscenze positive e spinto dal  bisogno di sapere, credendo di poter apprendere qualche  cosa da loro, e volendo in ogni caso accertarsi se il loro  era un vero sapere o un sapere soltanto imaginario, li  sottoponeva ad un esame in tutta regola; e in quest e-  same fingendosi anche più ignorante di quello che fosse  in realtà, secondato mirabilmente nel sostenere questo  carattere dagli stessi tratti del viso, coll'apparente inge-  nuità delle sue domande, e con l’ingegnosissima maniera  con cui si facca nascere dalle loro risposte interrogazioni  sempre nuove e incalzanti, li riduceva in fine‘al punto  o di trovarsi avviluppati in manifesti assurdi, o di dover  ritrattare quanto prima aveano asserito. GOSÙ suoi i  terlocutori vedeano svanire la loro pretesa scienza ni  nientata dall'analisi dialettica, a cui erano sotto Ro  loro opinioni. L ironia era pertanto, dice lo Zeller 3  momento dialettico o critico del metodo di Socrate, SE    seguenza inevitabile dell’ignoranza personale di chi  citava così la dialettica ®. Sosta    1 Memor. IV 2. 1-6. 1  2 Cfr. Zeller op. cit. p. 118-119 della trad. francese       nn tei iene    DI FILOSOFARE DI SOCRATE 19    ADOSOSELINISOTTTeGIGTLIReRANP Pont enaseosonedanzesSnTani cose eeI Teo peer VIVA eIeceg vo pesci svopase stare anne esse be Veavesisdisene teen    Con ciò è spiegata la grande potenza della parola  di Socrate, e il timore che aveano di lui i suoi nemici,  così da avvertire i giudici, nel tempo memorabile della  sua condanna, di guardarsi bene di non esser tratti  in inganno da’ suoi discorsi ?. S' impadroniva di tutto  l’uomo, frugava le più riposte pieghe della sua anima, e  non lo lasciava, se prima non gli avesse aperto tutto se  stesso. Chiunque si trovi a discorrere con’ Socrate, dice  Nicia nel Lachete platonico, gli è inevitabile necessità,  ancorchè d'altro abbia cominciato a trattare, di non farla  prima finita se non condotto da’ ragionamenti suoi ei  venga « a dare pieno conto di sè e del modo in che vive  « ed ha vissuto la vita per lo passato; e una volta ch'e’  « sia caduto in questo discorso, Socrate non lo lascia più  « andare fino a che di tutto non abbia fatto esame ri-  « goroso cd intero »°. Di ciò è anche discorso nel Teeteto,  dove Teodoro afferma-che non è possibile chi segga al-  lato a Socrate possa liberarsi dal rendergli la parola, e  che non lascia chi gli si accosti se prima non l'abbia  sforzato « ad entrar nudo in lotta di discorsi » con lui.    ILL    Noi abbiamo finora esaminato, come a dire, le forme  esteriori del metodo di Socrate; ora dobbiamo esaminarlo  nella sua intimità e porne in luce le conseguenze in ri  spetto alla formazione della scienza.    I Plat. Apolog. p. Stef. 17.  2 Lachet. platon, p. Stef. 187-188 trad. Ferrai.  3 Teetet. plat. p. Stef. 169.          i 20 DEI. METODO    E prima di tutto è d’ uopo togliere una prevenzione:  Socrate, pur adoperando un metodo negativo, credeva  in realtà nella scienza, o non piuttosto era uno scettico,  che tendeva a comunicare altrui il suo scetticismo €  nulla più? Cicerone negli Academici posteriori * e nel-  l’opera De finibus® sembra credere che Arcesilao e la  nuova Academia seguissero la maniera di filosofare di  Socrate, perchè negavano vi fosse cosa che si potesse  sapere, e perchè si aveano proposto come sistema, di  avere in ogni caso contro argomenti positivi una forza  uguale di argomenti negativi da opporre: sicchè il  filosofo romano scambia il dubbio metodico di Socrate  con un vero e proprio scetticismo, e la sua maniera di  filosofare con una disputa cristica, in cui ciascuna parte  disputasse coll’ unico scopo di disputare, non essendo  possibile raggiungere un risultato positivo a chi per  V oscurità delle cose® neghi si possa qualche cosa co-  noscere.   E però notevole come in altri luoghi lo stesso Ci-  cerone disdica questa sua prima sentenza ed affermi anzi  che il metodo di Socrate, lungi dal condurre a uno scet-  ticismo universale, conduceva a veri e propri risultati  positivi; poichè la sua conversazione, egli dice, consiste   P. Dutta nel lodare la virtù e nell’esortare in sd)  "a l’amore di essa‘, ed aiutava mirabilmente a trovare ciò    1 Accad. post. 1, 12, 44. Cfr. anche Ac SR  t Ù ad. Ino  Nat. Deor. 1, 5; 11. prior. II, 23,74 e De  2 De finibus II, 1. Cfr. anche un altro luogo degli Academici  e    =“) ( U/ ”, Do  post. (1, 4, 17) dove Varrone è introdotto a parlare di Il  « Socraticam dubitationem de omnibus rebus cone  è)    adhibita, consuetudinem disserendi ».  > 5 Cfr. Academ. post. 1, 12, 44.    et nulla affirmatione    + Academ. post. 1, 4, 15.       _ vo -——.--_rca leslie    DI FILOSOFARE DI SOCRATE ZI    che fosse conforme a verità! Ma se la conversazione  socratica conduceva a trovare la verità, e se Socrate  stesso credeva di potervi arrivare per questa via, come  afferma Cicerone ?, è naturale ch’ ei dovesse aver fede  nella verità stessa e nella scienza; poichè non si può  nemmeno concepire vi sia chi ricerchi una cosa, senza  credere che la cosa stessa esista. Di questa fede di So-  crate nella verità e nella scienza abbiamo prova in quasi  tutti i dialoghi, che Senofonte e Platone mettono in  bocca al loro maestro; giacchè attraverso il dubbio  metodico e le domande incessanti che Socrate rivolge  a’ suoi interlocutori per iscrutarne gl’ intimi pensamenti,  s'intravvede, per così dire, una luce misteriosa, alla quale  tendono tutti gli sforzi di Socrate, e la quale illumina  quel caos apparente di domande e di risposte, che i più  credono fatte a capriccio e per passatempo. Ma v'ha di  più. Nel Menone platonico Socrate dichiara esplicita-  mente la sua fede nella scienza. « Tra l’apporsi al vero  i (000 d6cz, egli dice, c il sapere che sia divario, questo ì  è parmi non affatto conghietturarlo, ma, s'io dicessi mai  « di sapere una cosa, e sarebbe invero rarissimo il caso  « che lo dicessi, questa pur sarebbe nel numero delle cose  « ch'io ammetterei di sapere »î. Il qual luogo è anche  notevole, perchè contiene l importantissima distinzione JA  tra il sapere volgare € il sapere reale od assoluto, del  quale Socrate presentiva tutto il valore pur senza averlo  raggiunto, e il quale stimava solamente proprio di Dio:    I Tuscul. Disput. 1, 4,9 «vetus et Socratica ratio contra alterius  opinionem disserendi; nam ita facillime, quid verisimillimum esset  inveniri posse Socrates arbitrabatur.».    2 Tuscul. Disput. Ibid. )   3 Menon. platon. p. Stef. 98 trad. Ferrai.- siad:   + Apol. platon.-p. Stef. 23. È via  È                22 DEL METODO    sicchè quando affermava di sapere ‘questa sola cosa  di non saper niente, egli traduceva in parole la sua  coscienza dell’ immensa distanza che separa il sapere  umano dal sapere divino.   Ancora, siccome il suo metodo era massimamente  rivolto alla ricerca delle verità morali, Socrate dovea  ammettere un principio assoluto di moralità, dal quale  dipendesse tutto quel complesso di nozioni morali, sulle  quali poggia l’edificio dell'umana società. Che questo  principio supremo di moralità Socrate ammettesse risulta  dal Gorgia platonico, dove dichiara contro l’ opinione  popolare che è « cosa peggiore fare ingiustizia che non  « patirla, e della ingiustizia fatta non pagare il fio che  « pagarlo »!; e più innanzi? che chi non paghi il fio  delle ingiustizie commesse è più misero di chi lo paghi,  giacchè il non scontare il male' non è soltanto perseve-  vare nel male, ma è anche il male primo e più grande.  Di più, quando si tratti di fissare recisamente la distin-  zione radicale del bene dal male, mentre per solito So-  crate è condiscendente nel dialogo, e finge di accettare  quello che dice l'avversario, per poi ribatterlo di fianco  col suo terribile elencho, qui invece adopera forme ri  solute che non ammettono replica. « L’ adulazi 500  « penso la sia la gran brutta cosa, o Polo RA  « così parlo), ch’ella vada sempre dietro al dilet a  « curarsi affatto del buono »; così Soc SA:   Le quali affermazioni Todi Sr De  alle verità morali troviamo S9R CRISI  rabili di Senofonte, dove FARI TO   ) , come mi pare d'aver    n rispetto  ci Memo-    accennato  1 Gorg. platon. p. Stef. 476.  2 Gorg. platon. p. Stef. 479.  3 Gorg. platon, p. Stef. 465 c. XIX i  o 5 trad. Ferrai, Cfr, anche Gorg.    Gorgia 9.    fi —_——> n    MALE Le       _—-—-—— ’_r_oe+us esiti cò ici    DI FILOSOFARE DI SOCRATE 3 23    arreroe    più sopra, il Socrate dialettico e speculatore ci sfugge  quasi, e ci si presenta invece nella sua piena luce il  Socrate pratico, essenzialmente positivo. Sicchè io non  arrivo a comprendere come il Tennemann! abbia cer-  cato di stabilire una considerevole analogia fra Socrate  e lo scettico Pirrone. Analogia fra i due non esiste, se  non in quanto s' accordavano nel ripudiare ogni studio  che non si riferisse alla morale; ma, quanto alla morale  stessa, differivano essenzialmente; Socrate sosteneva che la  morale fosse oggetto di speculazione e di scienza, e l’unica  degna di studio; Pirrone sembra aver.pensato che la  scienza fosse impossibile ad attingere nella morale del  pari che nella fisica, e che non si dovesse fare attenzione  che ai sentimenti e alle buone disposizioni dell'animo ?.   In questo Socrate era scettico che, avendo i filosofi  fisici anteriori dato al problema della natura risposte di-  verse non solo, ma contradditorie, ne aveva concluso che  questi aveano nelle loro ricerche oltrepassati i limiti im-  posti alla scienza umana, € che la verità non si potea  conoscere in riguardo alla natura. In questo era scettico,  e in due altri punti ancora, intorno ai quali massima-  mente s’ aggirava la sua disputa. Egli negava prima di  tutto che gli uomini potessero sapere ciò, a cui non  avessero mai applicato il pensiero riflesso, € in secondo  luogo che potessero praticare quello che non sapeano,  vale.a dire che fossero temperanti, giusti, forti ecc. Senza  sapere che fosse la temperanza, la giustizia, la fortezza  ecc. Mettere nell'animo de’ suoi interlocutori questa sua  convinzione negativa, persuaderli una volta che senza    | can I Tennemann Gesch. der Philosophie vol. Il p. 169-175.  i k 2 Cfr. Grote op. cit. p. 338 in nota, Anche lo Zeller op. cit. tom. 3.  p. 114-115 della trad. franc. sostiene che Socrate non può ritenersi uno e    . scettico.             MIT    ri ET Pata    relazioni tra uomo e uomo, tra uomo e       DEL METODO    i uverenneresaraenioosesev ato aressorsesaeses ana suenosionieveeee ereese    esaminare attentamente sè stessi era impossibile e sapere  ed essere virtuosi, era questo effettivamente lo scopo  dell’insegnamento di Socrate. Ma questo ben luagi dal-  l'essere lo scetticismo nemico della scienza, è Invece lo  scetticismo che la favorisce, senza del quale anzi non  si potrebbe una vera scienza fondare.  Non v'ha cosa che l’uomo si creda più facilmente  conoscere di sè stesso e del fatto umano in generale;  ed è naturale, poichè nel primo caso non ha che a ri-  volgere lo spirito su sè medesimo, e nel secondo su  quello che lo attornia, sicuro di vedervi riflessa l’imagine  sua. Ma a rivolgere lo spirito su sè medesimi è raro che  si pensi, e a studiare il fatto umano ancor meno; son  cose nostre l'una e l’altra e non serve occuparcene; 0,  dirò meglio, si crede occuparcene abbastanza, dal mo-  mento che ogni giorno se ne parla e se ne disputa. E  intanto si crede effettivamente sapere ciò che non si sa;  Vaia À o)  sì risc : SR.  RO nel ERROR cervello certe persuasioni pro-  radicatissin i ri i o  ERRO si me, le si riscontrano in altri egualmente  È proprie SA SR PS a IR ndicon vere  ioni, e no s ì  n o0 Dl n cl passa neppure pel capo di  spiegare a noi stessi come si siano intr i A  vi risiedano, e non dubiti i RI OTO ein noige  u nata  i no, e Ittamo un Istante del loro effettivo  valore. Di qui una quantità di errori, di pregiudizii  ga . SE k è)  nozioni accettate più per azione del i 3  9 sentimento che per  consenso della ragione; errori, pregiudizi; P  5 3 » Pregiudizii e nozioni che  penetrate a poco a poco nella fibra e nel!san ,  . . : (eg  generazioni, consacrate, per così dire, dal BNS dele  a da tempo, acqui-    rn O 5 legge e come tali governano il mond  e e notevole c . e  ome prevalgano mass    Imamente nelle  ReÈ SSR. Città e ittà   e città, e tanto più facilmente, quanto più tra città  in gioco gl’interessi individuali 9 PIÙ sono messi  De To g ressi Individuali e generali; s'; si  sino del v i, sì «SER > S mpo n  ocaboli, si aggruppino intorno all’ A   . E) 6    s di    ’  Let CÒ    -    Dì FILOSOFARE DI SOCRATE 25    riesce poi difficilissimo a discernere il vero significato dei  vocaboli e spogliare l’idec di rutto il fattizio e l’appic-  caticcio. Questa condizione di cose, questa cieca fidanza  di sapere ciò che realmente non si sa, questa prevalenza  delle nozioni rozze e affastellate del senso comune sulle  vere e proprie cognizioni, come è propria di ogni società  e di ogni tempo, così era massimamente il carattere di-  stintivo della società e del tempo di Socrate. « In morale,  «in politica, in economia politica, su tutti i soggetti rela-  « tivi all'uomo e alla società, prevaleva allora, come oggi,  « la medesima confidente persuasione di possedere il  « sapere, senza che l’effetto corrispondesse; la medesima  « generazione € propagazione, per via dell'autorità €  « dell’ esempio, di convinzioni non messe a sindacato,  « appoggiate sopra un sentimento vigoroso, senza alcuna  « conoscenza dei gradi o delle condizioni del loro svi-  « luppo; il medesimo atteggiarsi della ragione alla difesa  « esclusiva d'un sentimento prestabilito: la medesima  « illusione che, perchè ognuno è famigliare colla lingua,  « sia anche in possesso dei fatti, dei giudizii c degli  « indirizzi complessi, implicati nel senso dei vocaboli;  «e atto del pari ad usare parole d’ un significato  « comprensivo ec a sostenere la verità o la menzogna  « di vaste proposizioni, senza analisi nè studio spe--  « ciale »!.   La quale condizione dî cose cra tanto più grave  quanto più l'antico costume era depravato; sicchè il  pregiudizio e l’ errore trovava il suo naturale alimento,  oltre che nell'ignoranza, nella corruzione, la quale era  giunta a tal segno al tempo di Socrate, da disfare affatto  anche quell’ultimo vincolo che annodava fra loro gli  uomini, voglio dire quel complesso di verità morali e    I Grote op. cit. vol. cit. p. 278.                DEL METODO       sociali universalmente consentite e aventi forza di legge,    perchè scritte nei cuori !: 0  Ora una scienza qualunque non ha maggiore nemico  delle nozioni rozze e affastellate del senso comune; pe  modo che chi si proponga di fondarla su principii saldi  e incrollabili, abbia anzitutto bisogno di combattere e  di disperdere affatto quest eterno nemico. Per quello  che. attiene alle nozioni prime. dell’ intelletto, osserva  Bacone nel Nuovo Organo ?, niente v' ha di quanto  l’ intelletto abbandonato a sè stesso raccolse, che non ci  sia sospetto, e che possa accettarsi, se non abbia retto  alla prova d'un nuovo giudizio e secondo questo non sia  stato pronunziato; e più innanzi 3, che assai difficilmente  si riesce a purgare la mente, quando dalla quotidiana  consuetudine della vita, dalle cose udite e da plebee  dottrine sia stata occupata, e assediata da vanissime ap-  parenze; e che in questo caso resta‘ unica salvezza rifare  l’opera universa della mente, e la mente non abban-    donare in alcun modo a sè stessa, ma perpetuamente  frenare.    { ve Mi . =  Nap: #yg4901 chiama Socrate queste verità in un suo dialogo  con Ippia (Memor. lib. IV c. 4).  SM 7 i  x Distributio operis, messa in capo al N. O. p. 168 dell'edizione  ontagu, « Quod vero attinet ad notiones primas intellectus, nihil est  È ; ma . È  SUA quae intellectus sibi permissus congessit, quin nobis pro suspecto  Si sr AREA Tar:  , nec ullo modo ratum nisi novo judicio restiterit, et secundum illud  pronuntiatum fuerit ».  5 Ibid, i  d. Praefatio p. 186. « Serum sane rebus perditis adhibetur    remedium 5 idi ;   pene i Pesaro mens et quotidiana vitae consuetudine, et audi-  Uonibus, et doctrinis inquinatis occupata  fuerit....    - integro    et vanissimis idolis obsessa   . Fes i ì   Ere unica salus ac sanitas, ut opus mentis universum de  Matur; ac mens, iam ab ipso principio,    i nullo ibi  permittatur, sed perpetuo regatur ». modo sibi             DI FILOSOFARE DI SOCRATE 27    Rifare l’opera universa della mente, abolire le teorie  e le nozioni comuni, apparecchiarsi ad accettare la ve-  rità, anche quando si contrapponga ai nostri più cari  pregiudizii, ecco quanto si richiede a chi imprenda  uno studio veramente scientifico. E questo che Bacone  consigliava doversi fare per la ricerca delle verità fisi-  che, Socrate imponeva a sè stesso per la ricerca delle  verità morali e sociali; sicchè fra i due grandi filosofi  si stabilisce una considerevole analogia che deriva da  comunanza di sentimenti e di propositi. E come Bacone  considerava essenzialissimo alla purgazione dell’ intel-  letto, per metterlo in istato di arrivare alla verità, il  redarguire la ragione umana nativa !, egualmente  Socrate mirava per via d’instanziae negativae e d'esempii  negativi e a far capire c abbandonare l’ errore e a far  intravvedere il cammino ‘che menasse alla verità. Di qui  l’'elencho socratico, o esame contraddittorio dei concetti,  insinuatisi a casaccio nelle menti, senza che colui stesso  che gli aveva se ne potesse rendere ragione; di qui quella  specie di fermento, onde la parola socratica penetrava  quel grumo d’associazioni vaghe e indefinite, che s'erano  aggruppate intorno a un vocabolo, sforzandole a divi-  dersi, a chiarirsi, a porsi a luogo ed a tempo; di qui  infine tutti gli sforzi generosi, per convincere altrui che  non si sa se non quello soltanto a cui s'abbia applicato  il pensiero riflesso; smascherare l'ignoranza presuntuosa  ed inconscia e presentarla in tutta la sua nudità.   Questa maniera di disputare se procurava a Socrate  molti nemici, com’'egli accenna con accento doloroso    1 Itaque doctrina ista de expurgatione intellectus, ut ipse ad ve-  ritatem abilis sit, tribus redarguitionibus absolvitur; redarguitione phi-  losophiarum, redarguitione demonstrationum et redarguitione rationis  humanae nativae (Nov. Org. Distributio operis p. 170 ed. Montagu).       Ra SI           va       e e    PPT    28 DEL METODO    nella sua Apologia !, non per questo non esercitava una  azione assai benefica sui giovani, a cui erano massima-  mente dirette le sue cure, e che in generale lo seguivano  con affetto di figli. Le loro anime veniano dall’ elencho  socratico, come a dire, purificate, giacchè spogliati affatto  di quell’ammasso informe di nozioni, su cui poggiava  tutto il loro sapere imaginario, si avviavano in realtà  al vero sapere, riacquistando l'abitudine e ‘il potere di  esaminare, abitudine e potere che aveano perduto nella  illusione in cui erano vissuti fino allora. E per Socrate  questa purificazione dell'intelletto teneva nella scala del  sapere un altissimo luogo, a segno da chiamare filosofo  l’uomo appunto che arrivi a conoscere di non sapere  quello che non sa, poichè chi non sa e si crede sapere,  per ciò stesso non ama il sapere, mentre invece chi non  sa e sa questo di non sapere, ama per ciò stesso la sa-  pienza e brama addivenire sapiente. Per la qual cosa  avea ragione Platone di far nel Sofista le altissime lodi  dell'efencho « come della grande e sovrana purificazione,    , « senza la quale ogni uomo, sia pure il gran re stesso,    «è tutto pieno d'impurità; e ignorante e turpe in ri-  « spetto a quelle cose, nelle quali e purissimo e bellissimo  « conviene sia chi voglia esser veramente felice »3,   La conoscenza di sè stesso, ecco il punto a cui So-  crate volea condurre il suo interlocutore, e a cui erano  consacrate tutte le forze del suo ingegno speculatore.    °4 Apol. platon. p. Stef. 21.    A ReoREe ceh  È Cfr.il Liside platon. p. Stef. 218 eil Convito platon. p. Stef. 204.  *. Plat. Sofista p. 230 E 421 76v Sheyyovhez  LI , de 2A  VILLA ff i) «, Valiani - v  ” pere rav zallizozon tari, vai .    di astenersene. « Bisogna ch i  * e tu È  « da’ calzolai, da’ f; bbri IRE ARICOga, 0 Socrate,  î .01a1, da fabbri e da’ fonditori » così Critia nei  23% . ae C  Memorabili, « poichè io credo costoro oramai essere sec  « cati da te, menati attorno în tanti discorsi tuoi »3 Alla  quale imposizione superba è notevole |  diede Socrate, che adunque dovea aste  quelle cose, che da quegli esempii    a risposta che  nersi anche da  conseguono, la    ! Cfr. massimamente Memorab, III 3  e dialoghi platonici passim. È   2:Memorab. IV 4, 6.   5 Memorab. I 2, 37.    9 e poi Memorabili passim       iena     perocchè ti sei già  « tracciata poc'anzi la via egregiamente; € imitando la    I Menon. p. Stef. 77. È   2 Teetet. p. Stef. 146 trad. Buroni.   5 Top. 1. 5 p. 1024 2 "Osa Î. Gronody dvonari TAV dodo  mowovizi, DR Nov Ds DÙA irodidi zar odo mdv TOD To%p:A4795 pprop.bv,  mein ie Sprayds X0Y05 giz ot.  4 Tectet, p. Stef. 140.   8 Teetet. p. Stef. 147.          A4 o DEL METODO    « risposta che desti intorno alle potenze, siccome queste  « essendo molte comprendesti in una sola specie, così  « adoprati di ridurre anche le molte scienze sotto una  « sola ragione »!. 3 ;  Ma la generalizzazione non basta ancora a chi voglia  definire scientificamente le cose. « Conviene, chi si studii  « di abbracciare scientificamente un intero, dividere il  .« genere nelle sue forme individue » dice Asistotele negli  Analitici posteriori?, e la divisione appunto è come il  processo che completa e sorregge la generalizzazione. I  due processi della generalizzazione e della divisione sono  chiaramente enunciati in quel luogo del Fedro platonico,  che abbiamo anche citato più sopra: Conviene « ricon-  « durre ad una sola idea ciò che è sparso e diverso,  « affinchè data la definizione di cadauna cosa, sì metta  «in aperto di che si tratti.... e poi poterlo dividere  ‘ secondo le idee quasi nelle membra di cui consta na-  « turalmente »3, Nel Filebo il doppio processo si trova  ‘esposto con tutta la profondità che appartiene alla ma-  turità dell'età e del talento di chi scriveva: nel So-  fista_ poi ‘e nel Politico è così frequente l’uso della  divisione massimamente, che pare vi si debba scorgere  il desiderio di Platone di avvezzare gli uditori a quello  ch'era allora una novità; tante sono le occasioni in-  dirette ch'egli sceglie per porlo in piena luce, special-  mente mettendo in bocca a’ suoi interlocutori risposte,    che implicano una completa indifferenza su questo  punto.    =    ! Teetet, p. Stef. 1,48.    2 Aristot. Analit. post. II 965 1  +’  TEUNTZI F13, desdetv Td XY )    A Ei N  Cvos Sis Ta vronz o tider T% TIOTZ, giov  { .    prov cis mpuida at Svdda. ;    5 Plat. Fed, p. 265 trad. Ferrai,                                      =    DI FIL.OSOFARE DI SOCRATE 45    .    Socrate adoperò il processo della divisione; come ado-  però quello della generalizzazione? Il Brandiss e l’Heyder  credono che la divisione incominci propriamente con  Platone, in prova di che fanno osservare che nel Sofista  e nel Politico, dove questo processo è più abbondan-  temente adoperato, Socrate non dirige punto la conver-  sazione. Se non che io osservo col Grote « che non  « bisogna di troppo insistere su questa circostanza: i  « termini coi quali Senofonte descrive il metodo di So-  « crate (dezdepovizo 227% yiva 74 roduzez Mem. IV 5, 12)  « sembrano implicare tanto un processo che l'altro;  « in. effetti, non era possibile tenerli separati con un  « disputatore così abbondante come Socrate. Platone  « senza dubbio ingrandì e insieme ridusse a sistema il  « metodo, ce sopratutto fece un grande uso del processo  « di divisione, perchè spinse il dialogo in una ricerca  « scientifica positiva più lungi di Socrate »!.   Più della divisione però che in fondo resta sempre  dubbio se Socrate abbia veramente adoperato, egli ha  adoperato il processo della dimostrazione, il cui punto  capitale è sempre la formazione dei concetti. Quando  Socrate voleva rendersi conto dell’esattezza d' una de-  finizione, o della necessità di operare in una certa  maniera, risaliva al concetto della cosa in discorso, e ne  traeva per via di deduzione ciò che faceva al caso dato.  Senonfonte ci avverte che quando alcuno in qualche cosa  contraddiceva a’ Socrate senza dire nulla di chiaro e  senz'alcuna dimostrazione, questi cercava di fissare il  concetto, per esempio del buon cittadino, se tale era la  questione, e poi applicando questo concetto alle due  persone su cui cadeva la questione stessa, ne deduceva  quale. delle due poteva essere posta nel numero dei    1 Grote op. cit. vol. cit. p. 267 in nota.    ‘    CO a  sb    tata    LA    46 DEL METODO    buoni cittadini: in questa maniera, conclude Senofonte,  agli stessi contradditori si faceva chiara la verità”. Per  convincere Lamprocle suo figliuolo ch'egli era ingrato  verso la madre mostrandosi con lei adirato, Socrate gli  domandava che cosa fosse l’ ingratitudine, e avutane la  definizione gli mostrava in appresso che, operando in  quel modo, egli era veramente nel numero degl’ingrati*.  E così egualmente per far discernere a un generale di  cavalleria tutti i suoi doveri, cominciava dal definirne  l’ufficio*; e per mostrare l’esistenza della divinità, poneva  come principio che tutto ciò che serve ad uno scopo deve  avere una causa intelligente 4.   Non è da credere però che Socrate abbia dato la  teoria del :metodo dimostrativo, o distinto le diverse ma-  niere di dimostrazione. Ciò che v'ha d’essenziale qui,  come osserva lo Zeller5, è pur sempre questo, che il  concetto è il termine di paragone,.a cui bisogna ricon-  durre ogni questione e il criterio con cui si deve risol-  vere: mentre i procedimenti per giungervi sono più che    _altro il risultato delle abitudini dialettiche individuali    del filosofo.    Per tutto quello che abbiamo detto adunque So-  crate, senza avere predecessori a copiare, praticò quello  che Aristotele descrive come il doppio processo della dia-  lettica, fare della pluralità l’unità e dell’unità la pluralità.  Se non che come fu il primo che si mise per questa    1 Mem, IV 6. 13€ seg..   2 Mem. Il 2.   3 Mem. III 3.   4 Mem. I 4   6 Op, cit., tom. 3. p. 123.  © Aristot._To    e pic. VIII 14 p. 164, 6, 2... &y rrotetv 4 d  EY TONE... 4, 0, 2... v rorelv a Tmietw... 7Ò    -                DI FILOSOFARE DI SOCRATE 47    via, ed anche senza averne una chiara coscienza, dovette  naturalmente cadere in alcuni errori, derivanti massima-  mente dal difetto della sua induzione. L' induzione so-  cratica avea senza dubbio un valore scientifico, poichè  moveva dalla revisione del senso volgare: ma nel suo  processo non era sempre rigorosa. Come egli non voleva  mettere innanzi nulla di suo a persuadere, ma da quello  che gli avea concesso il suo interlocutore trarre conse-  guenze che, per ciò che gli avea concesso, era impossibile  al suo interlocutore non approvare, naturalmente poneva  a fondamento dell’esame d’un’opinione un’altra opinione,  quanto la prima malsicura ed incerta: sicchè una indu-  zione di tal fatta doveva avere molto d’accidentale e di  non dimostrato, e tutte le conclusioni e le definizioni  che ne derivavano, poggiavano sur una base assai sdruc-  ciolevole!. Inoltre per il fatto stesso che non svolgeva il  suo pensiero che in una conversazione famigliare, Socrate  era costretto a non perdere mai di vista i casi particolari  in questione e le esigenze e i bisogni de’ suoi interlocutori :    I La deficienza del metodo socratico risulta molto chiaramente  dalla descrizione che danno Cicerone e Quintiliano dell’induzione di  Socrate, la base del suo metodo: « Inductio est oratio quae rebus non  dubiis captat assensionem eius, quicum instituta est; quibus assensio-  nibus facit, ut illi dubia quaedam res, propter similitudinem ‘earum  rerum, quibus assentit, probetur.... Hoc modo sermonis plurimum So-  crates usus est, propterea quod nihil ipse afferre ad persuadendum  volebat, sed ex eo, quod sibi ille dederat, quicum disputabat, aliquid  conficere malebat quod ille ex co quod iam concessisset, necessario  approbare deberet ». Cic. De invent. 1, 31, 32.°   « Illa (sc. inductio) qua plurimum Socrates est usus, hanc habuit ‘  viam, cum plura interrogasset, quae fateri adversario necesse esset,  novissime id de quo quaerebatur, inferebat cui simile concessisset ».  Quint. Orat. V 11.    }       46 DEI. METODO    non erano dunque osservazioni complete e passate al  cribro d’una critica severa quelle da cui Socrate traeva  i concetti, ma esperienze personali ristrette, opinioni  isolate, e in ogni caso non mai tali che i suoi interlo-  cutori non lo potessero seguire. Non neghiamo ch’ egli  cercasse di correggere tutto ciò che. c'era di contin-  gente nei principii ottenuti in questa maniera, confron-  tando casi opposti e completando e rettificando esperienze  differenti l'una per mezzo dell'altra, come risulta dalla  definizione del concetto dell’ingiustizia e del concetto  del sovrano nei Memorabili"; a cui potrebbe aggiun-  gersi la determinazione delle qualità d’una buona ar-  matura che pure troviamo nei Memorabili*?: ma non si  può pure negare che il più delle volte la sua induzione  consistesse in una semplice enumerazione di casi e di  fatti, udi non reperitur, come direbbe Bacone, instantia  contradictoria. Ora i casi conosciuti in cui apparisce vera  una certa legge, non danno spesso il diritto di concludere  universalmente; bisogna in/errogare la natura, bisogna  non contentarsi d’un’osservazione passiva, e vedere Se  nessun caso opposto a quelli conosciuti si presenti. Per  essere in diritto, osserva lo Stuart Mill 3, di concludere  che una cosa è vera universalmente perchè non abbiamo  visto mai esempi contrari, bisognerebbe che fossimo anche  in diritto di credere che se questi esempi contrari esi-  stessero, li conosceremmo; e questa sicurezza, nella  maggior parte dei casi, non la possiamo avere che a un  debolissimo grado, o non la possiamo avere affatto.   A tutto questo aggiungasi il concetto unilaterale  ed esclusivo che Socrate s'era fatto della filosofia, per    1 Mem. IV 2, 11 e Seg.;  2 Mem. IV 10,9e seg,  3 Logique déductive ed inductive v    III 9, 10 e seg.    ol. I p. 353.    BRIO       porei;    . i)  w          IC              DI FILOSOFARE” DI SOCRATE © 49    cui questa non deve in alcun modo occuparsi del fatto  naturale; e si rammenti che l’induzione trova la sua  più completa applicazione nello studio del fatto naturale  appunto. Per ultimo si osservi collo Zeller! che se So-  crate comprendeva e formulava nettamente la necessità  di ricondurre ogni cosa al suo concetto, e il principio  della conoscenza per concetti era per lui come un po-  stulato, quanto al modo però e alla forma di questa  riduzione, e ai procedimenti logici che esige, non li,  elaborò mai in modo: da farne una dottrina, e « non li  « troviamo ancora presso di lui che allo stato d'applica-  « zione immediata. d’ un'attitudine personale».  Comunque sia, noi dobbiamo riconoscere in Socrate  il primo autore di quella tendenza all’ analisi e alla  generalizzazione, che rendeva, gli uomini atti a rendersi  conto di quanto faceano o dicevano; e il precursore di  Platone e di Aristotele, il quale ultimo massimamente  col suo sistema comprensivo di logica formale, non  solo ebbe ùn valore straordinario pei procedimenti e  le controversie del tempo suo, ma ancora, penetrando  a poco a poco negli spiriti di tutti gli uomini colti  ) e perfezionandone le facoltà ragionatrici, contribuì a  ‘formare quello che ha di esatto e di eminentemente  scientifico il pensiero moderno, sicchè; secondo la sen-  tenza del Grote, « la distanza tra la miglior logica  « moderna e quella d’Aristotele è appena tanto grande,  « quanto quella che esiste fra Aristotele e quelli che lo  « precedettero d’un secolo, Empedocle, Anassagora € Ì  « Pitagorici »?.    1 Op. cit. tom, 3. p. 112.  2 Grote op. cit. vol.icit. p. 268.    G. ZUCCANTE 4          È    i  :  3  sa    x    Li LaTet  CORE RIOT  ua 1) 4    i  sed    Lr da  FRI    50 DEL METODO    IV.    Risulta da quanto s'è detto nel capitolo precedente  che Socrate dev’ essere considerato non soltanto come un  moralista, ma anche come uno scienziato, o, se pare  troppo superba la parola applicata a Socrate; come un    . ricercatore entusiasta del sapere. Chi se lo rappresenta    anzi tutto e sovra tutto come un' moralista, non vede  che una parte soltanto di questa grande figura, la più  attraente, se vogliamo, la più simpatica sicuramente, ma  anche la meno profonda e la meno originale. Osserva  acutamente lo Zeller che quando Socrate fosse stato,  quale in gran parte ce lo presenta Senofonte, un sem-  plice predicatore di morale, non si capirebbe l'immensa  efficacia ch'egli ha esercitato non soltanto sugli spiriti  senza originalità e intelligenza filosofica, ma sugli uomini    più illustri e più versati nelle scienze del tempo suo: ‘    non si capirebbe sovra tutto come Pl  dotto nei dialoghi ad attribuir  filosofiche, e da Platone stesso e da Aristotele e da tutta  la filosofia posteriore fino agli Stoici e ai Neoplatonici  sia stato considerato come il fondatore d’una filosofia    nuova, e l’iniziatore di quel moto fecondo d’ idee, a cui  clascuno confessa di metter capo!.    C'è anzi in Socrate stess  rebbe potersi concludere che  lui al di sopra dell’ interesse p  essere il fine del sapere, non    in quanto deriva dal s  damentale dell    atone si fosse in-  e a lui le più ardue ricerche    o qualche cosa da cui par-  l'interesse teoretico sta in  ratico, che l’azione anzichè   ha essa stessa valore che  apere, e che perciò il motivo fon-  a sua attività è l'interesse della scienza.    1 Zeller Op. cit. tom.    3: P. 99.          ceci       " ., enni nnt RA    DI FILOSOFARE DI SOCRATE DI    vs    Le conversazioni ch'egli tiene col pittore Parrasio, collo  scultore Clitone, coll’armaiuolo Pistia!, e in cui cerca di  far scoprire a ciascuno dei tre il concetto dell’arte sua,  non hanno evidentemente uno scopo morale, ma uno  scopo teoretico, fare che ognuno acquisti un giusto con-  cetto della propria attività e se ne renda conto; quando  non si voglia ammettere con Senofonte che lo scopo mo-  rale c'era pur sempre, poichè Socrate si rendeva wuzile  con queste conversazioni agli artisti medesimi. Nessuno  scopo morale però si vorrà vedere sicuramente nello  strano dialogo ch'egli ha colla cortigiana Teodota *, nel 3  quale cerca di condurla a formulare nettamente |’ idea e i  il metodo del suo mestiere. Quivi è indubitatamente il i  sapere per il sapere che si cerca, quando non si vo-  glia sostenere il paradosso che, insegnandole l’arte di  meglio sedurre gli uomini, la metteva in grado di fare  maggiori guadagni e. perciò le procurava pur sempre  del bene.   Il ricercatore del sapere si deve adunque in Socrate  collocare accanto al moralista, non già subordinare al  moralista. Chi considerasse la scienza dal punto di vista:  della morale e a questa la subordinasse, chi non vedesse  in essa che un mezzo per raggiungere uu fine ulteriore,  chi non si sentisse ad essa attratto da un’inclinazione  naturale irresistibile, non potrebbe avere per essa l’ en-  tusiasmo che avea Socrate, non potrebbe sovra tutto  coll’ energia costante ch'egli mostrò ricercarne il metodo  e farsene il riformatore. Nella stessa morale Socrate non  avrebbe lasciato traccie così profonde, nè avrebbe eser-  citato un'azione così decisiva e durevole, qualora si fosse  preoccupato d’interessìi puramente pratici, Il suo merito,       i Memor. II 10.  2 Memor. II 11.       =  r  v)       52 , DEL METODO    come moralista, osserva lo Zeller !, non consiste nell’ aver  voluto una riforma della vita morale; anche Aristofane  e altri ancora la volevano egualmente; consiste piuttosto  nell'aver riconosciuto che per ottenerla è necessario fon-  dare le convinzioni morali sulla scienza, che perciò il  sapere solo deve determinare e soddisfare i doveri pratici,  vale a dire deve non solo essere utile all’azione, ma di-  rigerla e dominarla. Ora nessuno, continua il grande  storico della filosofia greca, « ha accettata mai questa  « maniera di vedere senza riconoscere alla scienza un  « valore proprio, che sta immediatamente in lei stessa»:   L'idea della scienza è perciò il punto di partenza  della filosofia di Socrate*; la stessa morale è scienza; la  trasformazione e la restaurazione della morale non può  ottenersi che dandole per base la scienza. Socrate non  può in nessun modo separare la moralità dalla scienza  e concepire una. virtù senza sapere.   D’ altra parte però non sa neanche concepire un sa-  E senza virtù; e ciò Te che il risveglio scientifico,  ch'era incominciato € i noli :  non già ai fini e e ne  ralità, come per la Sofistica appunto era avve 2 pa   È avvenuto, ma  a porre su basi nuove e incrollabili stabilite dal Xi  la moralità stessa. LIE   E in questa maniera che Socrate si può considerare  ad un tempo come il riformatore della scienza e della  morale. « Il suo grande pensiero fu di trasformare e di  « restaurare la vita morale dandole la scienza per base  «e questi due elementi erano così indissolubilmente    4 Op. cit. tom. 3. p. 101-102.    2 Cfr. Zeller op. cit. tom. 3. p. 103. Lo Schleiermacher Werke III  2,300 e il Ritter Geschichte der philo i x i =  E philosophie II 50 sostengono questo          DI FILOSOFARE DI SOCRATE 53    « legati nel suo spirito che non seppe dave alla scienza  « altro oggetto che la vita umana, c inversamente, nella  « vita, non vide salute al di fuori della scienza »!.   Ciò posto facciamo ancora alcune considerazioni  specialmente intorno alle relazioni di Socrate coi Sofisti  e alla differenza del suo insegnamento dal loro.   Prima di tutto è d’ uopo togliere una prevenzione.  Spesso l’operosità di Socrate viene limitata alle sue dispute  coi Sofisti, e queste dispute ci si rappresentano non Scette  affatto d'una certa animosità da parte di Socrate. Nel  primo caso c'è deficienza nella concezione del Socrate  storico, nel secondo ingiustizia; in tutti e due rimpic-  ciolimento della grande personalità socratica. Imperocchè,  se le dispute coi Sofisti e in generale cogli uomini più  eminenti d’Atene sono la parte più importante della vita  filosofica di Socrate, e per la impopolarità che gli gua-  dagnarono ®, c per l'altezza delle dottrine che vi si svol-  sero, Nor per questo ne costituiscono tutta la vita. Socrate,  come abbiamo notato più sopra, avea la convinzione di  esercitare una vera e propria missione religiosa col suo  sistema di conversazione € d’interrogazione; non dovea  quindi limitarsi a una classe particolare di persone.  D'altra parte il difetto intellettuale che si proponeva di  combattere, non era soltanto comune ai Sofisti, ai politici,  ai poeti, agli artefici e in generale ai personaggi più emi-  nenti d'Atene, ma era proprio di tutti glì uomini indi-  stintamente; poichè tutti si credeano sapere quello che  si riferisce ai doveri, ai fini e alle condizioni della vita  umana, e non dubitavano un istante della propria capacità  a discorrerne ‘sempre e dovunque. Sicchè la disputa di  Socrate doveva essere universale, come era universale    1 Zeller op. cit. tom. 3. P. 107-108.  2 Apol. platon. p. Stef. 21-22.       PT 0 MALA)    Der ni       RR RT PT    n  D*  |  &       54 DEL METODO    l'illusione di sapere, senza che l'effetto corrispondesse;  e se era più specialmente rivolta a combattere 1 Sofisti,  i politici, i poeti ecc., ciò dipendeva da questo che il  sentimento generale della estimazione di sè, e la credenza  di sapere era tarito maggiore in loro, in quanto realmente  s'innalzavano considerevolmente sulla massa del popolo  e per finezza d’ingegno e per abilità a disputare.   La universalità della disputa socratica ci è confermata  da quel luogo dell’Apologia, in cui Socrate afferma che  risvegliando, persuadendo e rimprocciando cadauno degli  Ateniesi, non cessava dall’ assisterli dappertutto l’ intero  giorno!; e da quell'altro, pure dell’Apologia, che, se i suoi  giudici gli proponessero di rimandarlo libero dall'accusa  di Anito, a condizione che non passasse la vita nelle sue  ricerche e nel filosofare, non accetterebbe a questi patti,  e, finchè gli rimanesse il respiro, non si starebbe dal  fare esortazioni e dimostrazioni a chiuugue incontrasse  in quel suo solito modo ?. Il qual ultimo luogo è anche  importante, în quanto che mi pare serva mirabilmente  a dissipare ogni sospetto che la disputa socratic  animata da un sentimento di avversione e di malevolenza.  Un uomo che si offre pronto a morire piuttosto che non  adempiere quello ch'egli reputa suo dovere  e esaminare gli altri, per renderli capaci di virtà e ri-  oe le facoltà intellettive, senz’ altra ricompensa  Sa eee zione di aver compiuto un’ opera   uona; com È possibile che nell'adempimento di questo   suo dovere sia animato da altri sentimenti che n  siano di benevolenza e di affetto? Ben è vero di 1  same contradditorio e l’ ironia di Socratè si È È  molto facilmente ad essere scambiat Ae  ata con vera e propria    a fosse    ; il correggere    | Apol. plat. p. Stef. 30-31.        -    DI FILOSOFARE DI SOCRATE OI    Nell’unac nell'altra è adoperato il dialogo come mezzo  d'insegnamento, ma nell’una l'indole del dialogo è affatto  diversa che nell'altra. Gli Eristi formulano le loro do-  mande per modo che sieno ben poco determinate in sè  stesse, anzi, secondo l'intenzione di chi interroga, am-  mettano due risposte in contraddizione fra loro; Socrate  invece non vuole che una sola risposta, e questa ben .  chiara e determinata; per la qual cosa formula ben  chiara e determinata anche la domanda. Che se. gli  sembri la domanda sia troppo generale, e non corra  subito alla mente il concetto che vuole far intendere,  la sminuzza in domande particolari tutte implicanti  lo stesso concetto, per modo che finalmente gli venga  data quella risposta che vuole e non altre. Per tal  maniera, mentre per le domande a doppia risposta il  discepolo degli Eristi si avvezza a non dare. alcuna  importanza alla verità, giacchè, qualunque risposta egli  dia, viene redarguito !; e più spesso, vedendo man  mano risolversi in nulla tutte le nozioni che possiede,  e per opera di quello stesso che prima gliele avea ap-  prese, si smarrisce d'animo e si sconforta è; il discepolo  di Socrate invece, acquistando nozioni chiare e deter-  minate di ciò ch2 deve apprendere, ed è incoraggiato  nella ricerca ed è messo in grado di proseguirla da sè.  Di che ci offre uno splendido esempio il giovinetto Clinia  dell’ Eutidemo, il quale, avviato da Socrate alla ricerca  di quella scienza che forma la felicità dell’uomo, mentre    i Eutidem. platon. c. V p. Stef. 275, dove Dionisodoro dice a  Socrate che, qualunque risposta dia Clinia alla dimanda « se appren-  dano i sapienti o gl'ignoranti » verrà redarguito.   2 Cfr. Eutidem.-platon. c. VII p. Stef. 277, dove il giovinetto  Cinia assalito ad un tempo dai due Ervisti Eutidemo e Dionisidoro  sta per smarrirsi d'animo, se Socrate non lo sovviene,          62 DEL METODO DI FILOSOFARE DI SOCRATE    MRTTTETZE TETI T TRA A tania nen ina pan ene ani a nana tra rari on aniane    dapprima non aveva nozione di ciò che si ricercasse, a  poco a poco, seguendo le interrogazioni di Socrate, è  giunto a intendere per modo le condizioni della scienza  richiesta, che da sè medesimo, togliendo la parola a  Socrate, spiega come non possa l’arte militare formare  la felicità dell’uomo, e perchè non lo possa; mostrando  per tal modo col fatto come Socrate col suo metodo gli  abbia mirabilmente fecondato la mente!. Ma v'ha ancora  di più. L’arte degli Eristi, come quella che consiste in  alcuni giochi di parole, in sofismi puerili il più delle  volte, in artificii tutt affatto esteriori e che balzano im-  mediatamente agli occhi, molto facilmente: viene rubata  dagli ascoltatori; sicchè venga poi rivolta contro i suoi  medesimi autori, e non produca altro effetto che di di-  struggere sè stessa, Il Ctesippo dell’ Eutidemo ne offre  una prova. Il giovane audace, abile disputatore, ma senza  serietà di proposito, s° APpropria l’arte d’ Eutidemo e  Dionisodoro, e se ne serve a confutarli e a canzonarli  ad un tempo ?; sicchè Socrate, in sul finire del dialogo  osserva agli Eristi con felicissima ironia, che non solo  cuciscono la bocca alla sente, ma colle loro mani stesse  anche la loro, e che, gran cosa invero! La loro abilità è  di tal fatta e l'hanno ritrovata con tanta arte, che in  molto poco tempo chi si sia la potrebbe imparare 3,    1 Eutidem, platon. c. XVII P. Stef. 290.  2 Eutidem. platon. c. XXV-XXVI p. Stef,    TIRI 299-300.  9 Eutidem, platon. c. XXIX p. Stef, 303.       RI  î    a        .    listini ini ili iii        Sire ee REP RLIIAVO,  _ = drei g             x  Ù       DEL DETERMIN    c    MI       i    JOHN STUART    DI    -                     Fu notato molto giustamente! che nella lotta che  in riguardo alla morale si combatte da tempo fra le  due scuole intuitiva e induttiva o, ciò che è lo stesso,  aprioristica e sperimentale, lo Stuart Mill ha portato  uno spirito di conciliazione così spiccato che per lui s'è  andato restringendo il campo della lotta e il contrasto  s'è fatto meno stridente. Utilitarista appassionato e se-  guace convinto della scuola del Bentham, ha però evitato  tutte le asprezze del maestro, che urtavano di più le  suscettività della scuola contraria: si direbbe che lo  spaventino le conseguenze che logicamente derivano dalla  sua dottrina e dinanzi alle quali non s'era punto arre-  trato il Bentham, e perciò tenti o di attenuarle e pre-  sentarle sotto un aspetto vorrei dire più conciliante e  più mite, o di rifiutirle addirittura, poco curandosi che  si possa dire di lui che non è conseguente a sè stesso.   Spesso assume il linguaggio e i criterii della scuola  contraria, e se non si sapésse che è lui, che è Stuart Mill,    1 Guyau, La morale anglaise contemporaine, specialmente a  pagine 82-84, 88-80, 98-99, 102-103, 112.    PETI    (3. ZUCCANTE       %    È,  î  È  3  |    £             66 DEL DETERMINISMO    che è un seguace del Bentham, si direbbe quasi un  Kantiano!: sebbene quel linguaggio e quel criteri egli  si creda, quanto altri, in diritto di adoperare, perocchè,  secondo lui, non ripugnano alla sua dottrina. Talora  rimprovera la sua stessa scuola d'intendere le dottrine  che professa in una maniera erronea che giustifica le  accuse che le vengono dagli avversarii®, e non teme di  dichiarare apertamente che questi hanno non di rado  un sentimento pratico molto più prossimo alla verità,  e perfino un sentimento più vivo dell'educazione e della  cultura personale®. Il Bentham stesso non può sottrarsi  qua e là alle critiche del suo poco fedele discepolo, come  per esempio quando è rimproverato d’aver riposto il  criterio della morale unicamente nella quantità dei pia-  ceri, e d'aver trascurato affatto il criterio della qualità.  « In generale, dice il Mill, gli scrittori utilitarii, hanno  fatto consistere la superiorità dei piaceri dello spirito su  quelli del corpo sovratutto in ciò che sono più durevoli,  più sicuri ecc. dei primi; vale a dire piuttosto nei loro  vantaggi particolari che nella loro natura intrinseca... Gli  utilitarii però avrebbero potuto collocarsi sovra un ter-  reno più elevato, e con altrettanta sicurezza... Sarebbe    1 Vedi per esempio quanto dice il nostro autore nella sua opera  l’ Utilitarismo (p. 60 della trad. francese del Le Monnier) in riguardo  al sentimento del dovere « Se deve esservi qualche sentimento innato,  non vedo la ragione per cui questo non sarebbe il nostro sentimento  simpatico. Se v' ha un principio di morale che sia istintivamente ob-  bligatorio, dev'essere quello che detta questo sentimento. Se è così,  questa obbligazione intuitiva coincide col principio utilitario e noù  deve esservi questione fra loro ».    2 Logique déductive et inductive, traduite p    ar Louis Peisse;  tome second, p. 418-419.    5 Logique ecc. tome second, p. 425-426,    ea C bi header ie, see       n)  ti  NI  $    =                        RDZ  Nim    ERRE AE POPS STANZE d %,,       DI JOHN STUART MILL 67    assurdo che mentre nel valutare le altre cose si tien conto  della qualità così come della quantità, non si consideri che  la quantità allorquando si tratta di valutare i piaceri a:   In poche parole e per venire a qualche cosa di con-  creto, lo Stuart Mill ha rotto per così dire il cerchio di  ferro in cui la morale induttiva s' era volontariamente  rinchiusa, e che le impediva di farsi abbastanza popolare,  e l'ha allargata accostandola più e più alla morale in-  tuitiva per modo che la distanza pur sempre grande che  ancora le separa, non sia però così grande come potrebbe  sembrare a chi s' arresti a considerarne i principii, Mentre  il Bentham, preso per guida il principio d’ utilità, si  propone di seguirlo dovunque esso lo conduca e di non  badare ad alcun pregiudizio che tenti distoglierlo dalla  sua via?, per modo che viene a sopprimere a poco a  poco la virtù, l'obbligazione, il dovere, e riduce tutta la  moralità a un calcolo d’ interessi, essendo nient’ altro che  un calcolo d’ interessi lo stesso disinteresse da lui tanto  strombazzato; lo Stuart Mill invece vuole rinsanguare  l’utilitarismo con un gran numero d’elementi stoici e cri-  stiani, comedice egli stesso?. Quindi non soltanto fa uscire  dall’egoismo l’ altruismo o dall’ interesse il disinteresse,  ‘come aveva fatto il Bentham, ma vuole che questo di-  sinteresse non sia una finzione priva di valore reale,  come pel Bentham, una cosa tutta esteriore; ma una  cosa interiore e subbiettiva e d’un effettivo valore4; e    1 Utilitaris. cap. II, p. 15-16, trad. francese del Le Monnier.  2 Deontologie II, pref. p. 3 (trad. francese). « J'ai adopté pour  guide le principe de l'utilità; je le suivrai partout où il me conduira.  " Point de préjugés qui m'obligent a quitter ma voie ».  5 Utilitaris. cap. II, p. 15 della trad. citata.  + « Presso Bentham, l'unione degli interessi che produceva l'ap-  parenza del disinteresse era tutta esteriore ed estranea all'essere: io          6S DEL DETERMINISMO    parla di virtù, di coscienza morale, di merito morale, di  dignità morale, di dovere, precisamente come fosse un  moralista della scuola contraria.   Fino allora gli utilitaristi aveano inteso unicamente  dalla bocca dei loro avversarii queste parole; si direbbe  che lo Stuart Mill invidii loro questo privilegio, e voglia  pronunciarle a sua volta. E bensì vero che queste parole  assumono per lui un significato e un valore ben diffe-  rente dall’ ordinario; ad esempio la coscienza morale è  spiegata come il risultato dell’ associazione nell’ umano  pensiero della felicità individuale e della felicità generale,  sicchè è in fondo una facoltà acquisita che trae sua ori-  gine dall’egoismo: tuttavia l’averle introdotte nel suo  sistema, pur alterate, prova l’intima convinzione dello  Stuart Mill che dei concetti, o meglio delle cose corri-  spondenti a quelle parole, non si può assolutamente  fare a meno. E perciò insiste a far capire che, sebbene  utilitarista, non per questo egli vuole distruggere in  morale ciò che forma come il caposaldo della vita so-  ciale, e sì sdegna e protesta energicamente quando non  viene inteso a dovere o non lo si vuole intendere a do-  vere. « Gli avversarii dell’ utilitarismo, egli dice, hanno  raramente la giustizia di riconoscere che la felicità che  è il principio di morale conduttore della vita umana,    voleva il mio piacere, c si trovava, per un concorso di circostanze  quasi indipendenti dalla mia volontà, che questo piacere era nel me  desimo tempo il piacer i altri ill, i   î Sub pi: si degli altri... Stuart Mill, in morale come in  psicologia, va dal di fuori al di dentro; egli associa i piaceri nel seno    stesso dell'anima; egli non ammette solamente delle azioni aventi per    risultato la felicità sociale, ma delle intenzioni aventi per fine questa    felicità e terminanti anche col tenerle dietro indipendentemente dalla    felicità personale « come per istinto » (Guyau, La Morale anglaise  contemp. p. 82-83). Sa       è i.’ 1— to o00ttrcottormtetitt@òtoesttiòeotonttet-"’ uti aerei Lean een i Tar.    DI JOHN STUART MILL 69    non è solamente la felicità d'un solo agente, ma quella  di tutti. Fra la sua propria felicità e quella degli altri,  l’ utilitarismo consiglia all'individuo d'essere tanto stret-  tamente imparziale quanto uno spettatore disinteressato.  Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth noi troviamo  lo spirito completo della morale dell'utilità. Fare agli  altri ciò che si vorrebbe che gli altri facessero per voi,  amare il suo prossimo come se>stesso, ecco le due re-  gole di perfezione ideale ‘della morale utilitaria »!.   Non cercheremo con qual diritto lo Stuart Mill,  utilitarista, abbia parlato di perfezione ideale, di co-  scienza: morale, di virtù, di merito morale, di dovere  ecc., e neppure se le spiegazioni che ne ha date siano  sempre conformi al principio utilitario da cui è partito:  noi vogliamo soltanto insistere sul fatto, già accennato  qua e là, che lo Stuart Mill nella sua morale s'è andato  mano mano accostando alla scuola stessa che intendeva  combattere, sia per spirito nobilissimo di conciliazione,  o sia anche perchè in fondo era forse meno utilitarista  di quanto si credeva egli stesso ?. L’ utilitarismo per lui  ha subìto un cambiamento non soltanto nella forma, ma  anche nella sostanza, e s'è spinto tanto innanzi quanto  si poteva desiderare che si spingesse senza vederlo con-  fondersi colla dottrina avversa.   Ma ogni'sistema di morale ha per suo fondamento  e presupposto inevitabile una questione di psicologia,  la questione della libertà o della determinazione neces-  saria delle nostre azioni.    I Utilitaris. Cap. II, p. 33.:   2 Non è questa un'affermazione priva di fondamento e azzardata;  nelle Memorie dello Stuart Mill si legge una pagina donde risulta  che in pratica alineno egli non era utilitarista (Stuart Mill, Memoires  ch. V. trad. Cazelles).       Lî LP          Vera e ie + o ar rac    La morale intuitiva ha fondato il suo sistema sul-  l'ipotesi della libertà delle nostre azioni; | induttiva  invece sulla negazione-della libertà; € in questo l'una  e l’altra scuola si mostrarono conseguenti a loro stesse.  Lo Stuart Mill come ha fondamentalmente mutato il  concetto e l'indirizzo della morale induttiva, e l’ha  più e più accostata alla intuitiva’ per modo che in  fondo ha lasciato all’ uomo, se non una moralità com-  pleta, una semi-moralità senza dubbio; così anche per  quanto riguarda la questione della libertà o necessità  delle nostre azioni, ha introdotto tante e così essenziali  modificazioni nella dottrina della sua scuola, e s' è andato  accostando per modo alle vedute de'suoi avversari, che  non sapresti dire a rigore s’egli sia un sostenitore del  determinismo o non piuttosto della libertà. Per verità  si professa esplicitamente determinista, ma il suo è un  determinismo che non è determinismo, è un determi-  nismo che non impedisce all'uomo di modificare e per-  fino di formare il suo carattere quando lo voglia, di  sottrarsi all’ azione di certe circostanze e di mettersi sotto  E azione di certe altre, di sentirsi non già lo schiavo,  ma il padrone delle sue abitudini e delle sue tentazioni,  di sentire che, se Da SE a queste abitudini e a   ueste tentazioni, egli sa ch IA GISTEn  a s'egli desiderasse nn SR ee  3 RIE atto, non gli sarebbe  per questo Re desiderio più energico ch'egli: non  si senta capace di provare; è i soa  che non LE la ben SA pa csicmiano  3 | non toglie che se  ne abbia coscienza!. ù.   Lo Stuart Mill impertanto anche in questa  occupa come una posizione intermedia; ce lo di BREE  l'anello di congiunzione tra la sua sc stona   a scuola e la scuola    1 Vedi per tutto questo Logique ecc, vol. 2, Pi 423-425       ue n  ba * IZ ZOO RR CO, TT  _ gut 4    DI JOHN STUART MILL 71    PORRE S OR SOS RARA OO RIZZI OI RIA I MII LO    contraria. Giammai uno spirito più nobile e più caval-  leresco e con più onesti intendimenti è sceso in lotta coi  suoi avversarii; giammai furono riconosciuti con altret-  tanta lealtà i proprii torti e le benemerenze degli avver-  sarii e giammai il desiderio della conciliazione condusse  a modificazioni così importanti e radicali della propria  dottrina. Ma quando si parte da certi principii si ha il  diritto di arrivare a certe conseguenze? voglio dire, nel  caso nostro, quando si parte dal determinismo si ha il  dritto di arrivare a stabilire, se non una libertà completa,  una semi-libertà? Spingere fino a questo punto lo spirito  di conciliazione non mi pare conveniente, sovratutto ad  un filosofo: quando si ha il coraggio delle premesse si  “deve avere anche il coraggio delle conseguenze; e per  parte nostra, pur apprezzando gli altissimi intendimenti  del Mill, non possiamo non riconoscerlo in contraddi-  zione con sè stesso.   Noi ci siamo proposti di studiare il determinismo  del Mill: comincieremo dal farne un'esposizione per  quanto ci è possibile esatta ed imparziale, riservandoci  qua e là quelle considerazioni e osservazioni critiche  che ci parranno più opportune.          II.    La volontà è un potere autonomo € indipendente  che trova in se stesso il principio delle proprie volizioni,  e che può in ogni caso determinarsi da se stesso, senza  la coazione di motivi che non sono lui e che non sono  posti da lui? oppure anche la volontà rientra nel do-  minio della causalità universale, c ben lungi dall’ esser    1       causa diretta ed efficiente delle proprie volizioni, non ne  è che causa indiretta, dipendente dai motivi e determi  nata dai motivi:  Lo Stuart Mill non dubita di rispondere che anche  il fatto della volizione appartiene ‘alla categoria di tutti  gli altri fatti del mondo fisico che sono determinati da  una causa: non può esistere in natura l'anomalia d'un  cominciamento assoluto, d’un principio d'azione che  non abbia altra causa che se stesso; non si può am-  mettere questo strappo alla legge di causalità che. ab-  braccia tutti quanti i fenomeni dell'universo. La volontà  è causa delle nostre azioni in quella maniera stessa che  il freddo è causa del ghiaccio e la scintilla dell’ esplosione  della polvere !; vale a dire è causa fisica, fenomenica, è  un semplice antecedente che determina un conseguente,  e che è esso stesso determinato da un altro antecedente.  La teoria del libero arbitrio adunque, o del libero e  spontanco determinarsi della nostra volontà, non si può  aflatto sostenere. î " ì  ci SEL è a dire, IR il Mill, come fa l’ Hamilton,  me è inconcepi ninci  nell'ipotesi del bero oro SR ROOT SRI  regressione infinita, una catena di Re ca  capo nell’eternità, o in altre song ca la o  mento assoluto sul quale in ultimo ri RONAO  del determinismo; e che per conse oa 3 SSA  1 i s guenza se non è con-  cepibile la teoria del libero arbitrio, non è concepibil  neppure quella del determinismo. Perocchè, anch ina  mettendo che le due teorie sieno del pari lion er  egli è certo però che quando si tratta di fatti To 9a  siano volizioni, noi non scegliamo l'ipotesi che l SE  3 i ( avve-  nimento ha avuto luogo senza causa, ma accettiamo.    ! Logique vol. I, p. 393.       ca    Ù  È  ”  x  tu  "a  A  x  ha!  è  È»  sd       DI JOHN STUART MILL 73    invece l'altra, quella d'una regressione continua, se  risalente all’ infinito o no, non importa. Ora perchè  scegliamo noi sempre questo lato dell’ alternativa per  ispiegare le cose che sono del dominio della nostra espe-  rienza, e solo facciamo eccezione quando si tratta delle  nostre volizioni? Perchè non dubitiamo di ammettere  in tutti i casi, eccettuato quello solo della volontà, che  le cose dipendono da cause che le determinano, sebbene  questa credenza sia, nell'opinione dell’ Hamilton, altret-  tanto inconcepibile quanto quell'altra secondo la quale  esse avrebbero luogo senza causa? Qual è la ragione di  questo fatto? La ragione è che l'ipotesi della causazione,  sebbene secondo | Hamilton inconcepibile, ha il van-  taggio d'avere in suo favore l'esperienza, che quotidiana-  mente dimostra il fatto d' una successione invariabile  fra ogni avvenimento e una certa combinazione partico-  lare d’antecedenti, per modo che sempre € dovunque,  quando questa combinazione d’antecedenti esiste; l’ av-  venimento non manca d'aver luogo.   L’ esperienza adunque decide la nostra scelta fra i  due inconcepibili, e ci fa vedere che in tutti i casi, ec-  cettuato quello solo della volizione, le cose sono connesse  fra loro nel rapporto di effetto a causa. Perchè anche  alla volizione non si potrà applicare la medesima regola    di giudizio, perchè anche della volizione nou diremo che-    è determinata da una causa? Ecco ciò che sostengono  i deterministi. Essi affermano come una verità d’espe-  rienza che le volizioni seguono certi antecedenti morali  determinati, quali sono : desiderii, le avversioni, le  abitudini, le disposizioni combinate colle circostanze  esterne atte a mettere in gioco questi moventi internì,  colla medesima uniformità € colla medesima certezza  con cui gli effetti fisici seguono le lor cause fisiche.  Essi rigettano egualmente dappertutto l’ ipotesi della             74 DEL DETERMINISMO    spontaneità e non vedono dappertutto che dei casi di  causalità !. %   Si suol dire, continua il Mill, che il sistema della  necessità o del determinismo è la stessa cosa che il  materialismo; ma in realtà non si danno due sistemi  più distinti fra loro per confessione stessa di chi li com-  batte tutti e due, per esempio del Reid, il quale afferma  esplicitamente che « la necessità ben lungi d'essere una  conclusione diretta del materialismo, non ne riceve il  minimo soccorso ». E vero bensì che sempre, o almeno  in generale, i materialisti sono sostenitori della necessità,  e parecchi dei sostenitori della necessità sono materia-  listi; ma è vero anche che tutti i teologi della Riforma,  a incominciare da Lutero, e tutta la serie dei teologi  calvinisti provano che i più sinceri spiritualisti possono  logicamente difendere il sistema della pretesa necessità.   D’ altra parte Leibnitz, filosofo spiritualista se altri  mai, era d'opinione che le volizioni non avessero la loro  causa in se stesse, ma in certi antecedenti spirituali,  come a dire desiderii, associazioni d'idee ecc., di maniera  che quando gli antecedenti sono i medesimi, le volizioni  sono le medesime. Di qui risulta che la confusione del  sistema della necessità col materialismo è un errore sia  nel rispetto storico che nel rispetto psicologico ?.   Del resto, continua sempre il Mill, l’avversione che  trova in generale il sistema del determinismo deriva in  gran parte dal non essere inteso a dovere, e dal servirci  per indicarlo d'una parola, la parola mecessità, a cui  nel linguaggio ordinario si. suole attribuire un Sato  diverso da quello che scientificamente le si dovrebbe    | La Philosophie de Hamilton par John Stuart Mill. tr  P. 543-549:  2 Philosophie de Hamilton p. 539-540.    ad. Cazelles,             DI JOHN STUART MILI. 75    attribuire. Il non intendere a dovere questo sistema è  causa d’una quantità: d'accuse immeritate che gli si sca-  gliano contro, ed è causa anche che i-suoi avversarii  abbiano buon gioco a combatterlo, poichè sembra che  questi abbiano in confronto de’ suoi sostenitori un sen-  timento pratico molto più prossimo alla verità, e un  sentimento ben più profondo dell’ educazione e della  cultura personale!.   Il rapporto di causa ad effetto è semplicemente un  rapporto di antecedenza e di sequenza: certi fatti suc-  cedono e succederanno sempre, è da credere, a certi altri  fatti; l’antecedente invariabile è chiamato Causa; il con-  seguente invariabile Effetto, e consiste in questo la uni-  versalità della legge di causazione che ciascun conseguente  è legato in questa maniera a un antecedente 0 a un  gruppo d'antecedenti?. Ma l’invariabilità di sequenza  non basta ancora a costituire la Causa; se bastasse, la  notte sarebbe causa del giorno e il giorno della notte,  essendo invariabilmente connessi l'uno all’altro. Perchè  si abbia la causa, la sequenza dev'essere nello stesso  tempo che invariabile, incondizionale; vale a dire, non  basta, perchè si abbia la causa, che un conseguente tenga  dietro invariabilmente a un antecedente, ma si richiede  che non ci sia nessun'altra condizione che l’ antece-  dente, che determini il conseguente. Invariabilità e incon-  dizionalità di sequenza costituiscono adunque la causa,  che può essere per ciò definita: «l’antecedente o la riu-  nione d’antecedenti di cui il fenomeno è invariabilmente  e incondizionalmente il conseguente »3,   Ma questa invariabilità e incondizionalità di sequenza    2 Logique ecc. vol. 1. p. 379  3 Logique ecc. vol. 1 P. 370-381.       i  ;    baia    ip    Lai          76 - DEL DETERMINISMO    non implica per nulla la necessità: nel senso metafisico  in cui è intesa questa parola dalla scuola intuitiva, vale  a dire nel senso d'un legame misterioso fra antecedente  e conseguente, d’un costringimento misterioso che l’an-  tecedente eserciti sul conseguente per modo che fra i  due, anzichè una semplice uniformità di successione, vi  sia una irresistibilità di successione !: questo genere di  necessità non è dato dall'esperienza e trascende l’espe-  rienza. Niente prova che se in passato vi fu tra due fatti  una successione invariabile, certa, incondizionale, la cosa  deva essere così anche in avvenire: perchè lo fosse, do-  vrebbe il fatto antecedente avere il potere di produrre,  di efficere, per dirlo alla latina, il fatto conseguente;  intorno al che noi non sappiamo niente: questo potere  efficiente non ci si rivela nelle cose: l'esperienza non  ci rivela che cause fenomeniche. o fisiche, non cause  prime od efficienti od ontologiche di checchessia 2. Nel  rapporto di causa ad effetto adunque non v'ha. necessità  nel senso in cui comunemente s' intende questa parola;  solo nel caso che alla parola necessità si attribuisca il  significato d'incondizionalità, ed è quello che veramente  le spetterebbe, acconsentiremo ad ammettere che tra causa  ed effetto intercede un rapporto necessario ®.  3° Ciò posto ognuno capisce subito in che senso si deva  intendere il determinismo, in che senso si deva dire che  la volontà è determinata dai motivi. Le nostre volizioni  sono causate In quella maniera stessa in cui sono causate  tutte le cose dell’ universo; vale a dire, fra la volizione  ine) È eno arse non esiste quel  ) ostringimento misterioso che    ! Logique ece. vol. 2, D. 420.  S Logique ecc. vol 1. p. 369.  5 Logique ecc. vol. 1. PD. 380.       DI JOHN STUART MILL    SI  NI       è generalmente compreso nella parola necessità, e per cui  l'antecedente sforza ad essere il conseguente in una  maniera irresistibile; fra la volizione e il motivo non  esiste che un legame di successione uniforme, non altro.  Noi sappiamo che, pure determinati dai motivi, non  siamo però sforzati, come per un incanto, ad obbedire  a un motivo particolare, e sentiamo che se lo desideras-  simo, abbiamo il potere di resistere al motivo: « pensare  altrimenti, aggiunge lo Stuart Mill, sarebbe umiliante  pel nostro orgoglio e contrario al nostro desiderio della  perfezione »!.   Ben compresa adunque la dottrina della Necessità  filosofica si riduce a questo: « che essendo dati i motivi  presenti allo spirito, essendo dati parimente il carattere  e la disposizione attuale d'un individuo, si può dedurne  ‘nfallibilmente la maniera in cui egli agirà; e che se noi  conoscessimo a fondo la persona e nel medesimo tempo «a  tutte le influenze alle quali essa è sottoposta, potremmo  prevedere la sua condotta con tanta certezza con quanta  prevediamo un avvenimento fisico.... Che se alle volte  si è incerti intorno al modo in cui uno agirà in avvenire,  ciò deriva dal non essere affatto sicuri di conoscere tanto  completamente quanto converrebbe le circostanze e il  carattere di quella persona, non già dall’ idea che, anche  sapendo ciò, si potrebbe essere ancora incerti della sua  maniera d’agire. E questa piena sicurezza non è per  pi niente incompatibile con ciò che noi appelliamo il sen-  timento della nostra. libertà. Quand’ anche le persone  da cui noi siamo particolarmente conosciuti siano per-  fettamente sicure della maniera in cui agiremo in un ui  caso determinato, noi non ci sentiamo meno liberi per n  questo. Al contrario, spesso un dubbio sollevato sulla i    ari    | Logique ecc. vol. 2. p. 420.             Î    DEL DETERMINISMO       nostra condotta futura è per noi la prova che non si  conosce il nostro carattere, e qualche volta anche lo  prendiamo per un’ ingiuria. I metafisici religiosi che  hanno affermato la libertà della volontà, Danno sempre  sostenuto ch’essa non era per niente inconciliabile con  la prescienza divina; essa non lo è dunque con nes-  sun’altra prescienza. Noi vogliamo essere liberi, benchè  altre persone possano essere perfettamente certe dell'uso  che noi faremo della nostra libertà. Per conseguenza  non è questa dottrina (che le nostre volizioni e le nostre  azioni sono le conseguenze invariabili di stati antece-  denti del nostro spirito) che si può accusare d’ essere  smentita e respinta, come degradante, dalla coscienza »!.   La parola necessità applicata alla volontà « significa  solamente che la causa data sarà seguita dall'effetto senza  pregiudizio di tutte le possibilità di neutralizzazione da  parte di altre cause »?. Il motivo da cui dipende l’azione  non è d'un impero tanto assoluto da non lasciar luogo  al potere di qualche altro motivo; le cause delle azioni  non sono irresistibili. Quando noi diciamo che uno a  cui sia sottratta l’aria o l'alimento morirà di necessità,  intendiamo dire che morirà indubbiamente checchè si  possa fare per impedirlo: quando diciamo che uno che  sia stato avvelenato morirà, non intendiamo dire che è  necessario che muoia, perocchè un antidoto sommini-  strato a tempo o l’azione d'una pompa stomacale può  qualche volta prevenire la morte. Le azioni umane rien-  trano nei casi di quest ultima specie. Di qui l’improprietà  di chiamare necessario il rapporto che esiste fra il motivo  e l’azione: questa parola necessità essendo adoperata nei  casi ordinarii in senso tutt'affatto diverso da quello che    1 Logique ecc, vol, 2. P. 419-420.  2 Logique ecc. vol. 2. Pi 422.       he       ——— | essre e Ai    Res  x   e. Cai A AI  ba Mes, ig o    DI JOHN STUART MILL SI    carattere che si aveva precedentemente, o da qualche  sentimento d’ammirazione o da qualche aspirazione im-  provvisa!. Ciò posto ognuno capisce la differenza che n  c'è fra pensare che noi non abbiamo alcun potere di E  modificare il nostro carattere e pensare che noi non use-  remo di questo potere, se non ne abbiamo il desiderio.  In generale « importa molto che questo desiderio non 2  sia soffocato dal pensiero che il successo è impossibile, L.  e che si sappia che se noi abbiamo questo desiderio, bi  l’opera non è così irrevocabilmente compiuta che non  possa più essere modificata »°.  Riassumendo adunque lo Stuart Mill ammette nel-  l’uomo il potere di modificare € anche di formare il  proprio carattere, quando lo voglia. È bensì vero ‘che  questa volontà è determinata dal desiderio, e il desiderio  in ultimo è fatale: ma in ogni modo, questo sapere che  si può modificare o anche formare il proprio carattere,  quando se ne abbia il desiderio, è già qualche cosa, €  ‘Duomo che si crede avere questo potere sarà in ben  migliori condizioni e meno scoraggiato e meno scon-  fortato dell'uomo che si crede non avere affatto questo  potere, sebbene lo desideri. Costui sarà in uno stato di  noncuranza e di apatia da cui non si potrà mai togliere;  l’altro invece saprà di non essere irrimediabilmente  condannato ad agire in una certa maniera, e attingerà  da questo sapere coraggio € conforto a migliorare sè  medesimo.  Ma quanta dubitazione e quanta titubanza nel  linguaggio del Mill! Prima l’uomo può modificare il  suo carattere soltanto, poi può anche formarlo quando  lo voglia; prima si accorda all'Ovven che il carattere       1 Logique ecc. vol. 2. p. 424.  2 Logiquesece. vol. 2. p. 425.    G. ZUCCANTE i Ù       (0/4)  w    DEI. DETERMINISMO       dell’uomo è in ultima analisi formato per lui, che vale a  dire dipende da cause a lui estranee, e poi si afferma  che ciò non impedisce che non sia anche in parte for-  mato da lui, come agente intermediario; prima si dice  che noi non possiamo voler direttamente essere differenti  da ciò che siamo, e subito dopo che possiamo però porre  noi stessi sotto l’azione di certe circostanze per diventare  appunto differenti da ciò che siamo; e per ultimo prima  si concede che possiamo formare il nostro carattere,  quando lo vogliamo, e poi si afferma che del nostro  volere non siamo però i padroni.   Ma lo Stuart Mill si era proposto di conciliare in  qualche modo il determinismo colla libertà, e sta in  questo la ragione di questa specie di altalena, di queste  affermazioni e negazioni che appena sfuggite si vorreb-  bero ritrarre e si ritraggono infatti o se ne attenua il  valore, di questa vorrei chiamarla timidezza filosofica che  finisce non di rado in aperte contraddizioni, di questo  volere e non volere che ci impedisce di cogliere il vero    pensiero dell’ autore e che lo rende oscillante fra la sua    scuola e la scuola contraria. Nel luogo seguente per  esempio lo Stuart Mill è entrato nel pieno dominio della  scuola intuitiva. « Il sentimento, egli dice, della facoltà  che noi abbiamo di modificare, se /o Vog  proprio carattere è quello stesso della libertà morale di  cui abbiamo coscienza. Un uomo si sente moral  libero quando sente che non è lo schi  il padrone delle sue abitudini e delle sue te  anche cedendo loro, sa che potrebbe loro  se desidérasse respingerle affatto, non avr  perciò di desiderio più energico che non si  di provare »).    mente    ntazioni; che,  resistere; che  ebbe bisogno  senta capace    1 Logique ecc. vol. 2. p. 425.    liamo, il nostro    avo, ma al contrario                                             DI JOHN STUART MILL 83    D    Ma a questo punto si potrebbe dimandare: con  qual diritto ammettete voi che l’uomo sente di non  essere lo schiavo, ma il padrone delle sue abitudini  e delle sue tentazioni, che, anche cedendo loro, sa che  potrebbe loro resistere € respingerle interamente? Per  ammettere questo, bisognerebbe concedeste all'uomo la    facoltà di formare i suoi desiderii che son quelli che de-.    terminano la volontà; invece secondo la vostra dottrina  : desiderii sono fatali. L'uomo non può essere padrone  delle sue abitudini e delle sue tentazioni che a patto di  essere anche padrone di formare il desiderio di cangiar  quelle e resistere a queste, ciò che voi negate.   « Del resto, continua il Mill, per avere la piena co-  scienza della libertà «bisogna che noi siamo riusciti a  fare il nostro carattere come l'avevamo voluto; perchè  se noi abbiamo desiderato e non siamo riusciti, non  abbiamo alcun potere sul nostro carattere; nom siamo  punto liberi. Almeno bisogna che noi sentiamo che il  nostro desiderio, se non è abbastanza forte per cangiare  il nostro carattere, lo è abbastanza per dominarlo tutte  le volte ch’essi si troveranno in conflitto in una occa-  sione d’ agire particolare »!. E da questo passo pare ri-  sultare che noi, contrariamente a quanto è stato detto  antecedentemente, non possiamo sempre modificare il  nostro carattere, se lo vogliamo; che i nostri desiderii  talora rimangono infruttuosi, che insomma non posse-  diamo sempre la libertà. Singolare incertezza di lin-  guaggio!   Ma continuiamo l'esposizione della dottrina del Mill.  Tre dottrine, dice il Mill, si possono distinguere in rela-  zione al determinismo: in primo luogo il fatalismo puro,  l asiatico, quello di ‘Edipo, secondo il quale tutte le    I Logique ecc. vol. 2. p. 425.       At TR 7 TAI                84 o DEL DETERMINISMO    nostre azioni sono predeterminate dal di fuori, da una  potenza cieca, dal destino, indipendentemente dal nostro  carattere e dalla nostra volontà; di maniera che il nostro  amore del bene e la nostra avversione pel male sono  senza efficacia, e non giova alimentarli nel nostro cuore,  oichè non hanno alcun potere sulla condotta; in secondo  P ’  luogo il fatalismo che si può chiamare modificato, il fa-  talismo dell’Ovven, il quale sostiene bensì che le nostre  azioni dipendono dalla nostra volontà e la volontà dai  nostri desiderii, e questi dall'azione combinata dei motivi  che ci si offrono e del nostro carattere personale; ma ag-  giunge che ‘il nostro carattere è stato fatto per noi e  non da noi, e che quindi non ne siamo responsabili,  come non siamo; responsabili delle azioni. ch’ esso ci  conduce a fare; e che indarno ci sforzeremmo di can-  giarlo 1,   . «La vera dottrina della caus  IR POTRO a questi due sistemi, che non so-  amente la 1 ; A  Se Roana condotta, ma il nostro carattere dipende   an A - :   a SEE volontà; che possiamo, adoperando i  n ‘are |   DES Sa migliorare il nostro carattere, e che   t ri 6 “Ai x in)   necessiti al male, s c è tale che, restando quello che è, ci   : o. x 35   eo .° > Sala giusto mellere in opera dei motivi   te ci necessiteranno a fare î nostri sfr;-; Jr   i] li 3 / Str sforzi per miglio-   arto e a liberarci così dall’ altr AR .  Fa UESi alri ra necessità: in altri  crmini noi siamo moralmente obblivati  erferi. “oligatt a lavorare pel   Perfertonamento del nostro carattere? È  dottrina deterministica £ so» > E questa la terza  vale ad utta propria del Mill; secondo il   P. 571.  Psychologie anglaise contemporaine, p. 14    Co       ———@w r-tmteoe-cnstr@te eta RT    DI JOHN STUART NILL 87    Lo Stuart Mill sente la difficoltà e l’obbiezione e  risponde: « Quando noi ci esercitiamo volontariamente,  come il nostro dovere l’ esige, a perfezionare il nostro ca-  rattere, o quando operiamo (scientemente o senza saperlo)  in maniera da pervertirlo, le nostre azioni, come tutti  gli altri atti volontarii, fanno supporre che ci fosse già  qualche cosa nel nostro carattere, 0 nel nostro carattere  combinato colle circostanze esterne, che ci ha condotti ad  agire così, e che spiega perchè abbiamo agito così. Per  conseguenza colui che potesse predire le nostre azioni co-  noscendo il nostro carattere qual è al presente, potrebbe  pure, con la medesima conoscenza esatta del nostro ca-  rattere, predire ciò che noi faremmo per cangiarlo »!.   La risposta è ingegnosa, bisogna convenirne. Ma se la  modificazione del carattere dipende in fondo dal carattere  stesso, o dal carattere combinato colle circostanze esterne,  non sarebbe illusoria questa modificazione? E possibile  per esempio che in un carattere moralmente cattivo, in  quanto tale, siano elementi che spieghino e giustifichino  il suo cambiamento in buono; o viceversa in:un carattere  moralmente buono elementi che preparino la sua tra-  sformazione in cattivo? È possibile che nel'male s'annidi  il bene, e nel bene il male? Voi avete agito sempre bene;  che importa? State in guardia tuttavia; il bene qualche  volta dà origine al male! Voi avete agito sempre male;  state di buon animo egualmente; il male qualche volta  dà origine al bene!   Invece il vero si è che la modificazione del carat-   I tere non dipende dal carattere stesso; dipende da una  forza intima nostra che anzi è in opposizione al carattere,  dipende da noi che abbiamo sperimentato le conseguenze  tristi del carattere che avevamo precedentemente, 0 siamo    1 Philosophie de Hamilton, p. 572-573.    Ls          è Cal eri       SÒ DEL DETERMINISMO    eccitati da qualche vivo sentimento d’ammirazione, o da  qualche aspirazione improvvisa, lo dice lo stesso Mill in  un altro luogo !. — D'altra parte se è vero che la modi-  ficazione del carattere dipende in ultimo dal carattere  stesso o dal carattere combinato colle circostanze esterne,  perchè abbiamo noi il dovere, come dice il Mill, di eser-  citarci volontariamente a perfezionare il nostro carattere ?  Una forza che non è me mi obbliga a fare una cosa, e  tuttavia io ho il dovere di farla! Non c'è qui una con-  traddizione manifesta?   Per concludere, ecco come ci sembra poter riassumere  in breve la dottrina dello Stuart Mill liberata da tutto  quel viluppo di dubbii e di titubanze che la rendono  alquanto oscura e indeterminata. 1° La volontà non è  libera, ma determinata, determinata però non necessa-  riamente, ma in quel modo in cui sono determinate le  altre cause dell'universo, il cui rapporto causale è un  rapporto di sequenza invariabile e incondizionale e niente    più. 2° Di qui segue che, se in ultima analisi il nostro  carattere è formato per noi-e non da noi,    dire che questo carattere non poss  anche formato da noi, se lo vogli    questo volere non dipende da noi. 4° Dipende invece dal  desiderio. 5° Il quale alla sua volta non è formato da  noi; possiamo noi con un atto di volontà darci o toglierci  un desiderio o una avversione? 6° Se il nostro Atto  non è formato da noi, noi possiamo però metterci in tali  circostanze che siano adatte a far Nascere il desiderio di  modificare il nostro carattere ?, 7° In altre parole noi  non possiamo cangiare direttamente il nostro carattere    ciò non vuol  a essere modificato e  amo. 3° Ma da capo    1 Philosophie de Hamilton, p. 572,  2 Philosophie de Hamilton, p.  vol. 2. pag. 424.    nota,    371-572, nota; e Logique ecc.          DI JOHN STUART MILL $9    con un atto di volontà; ma possiamo servirci dei mezzi  adatti a far nascere il desiderio di cangiarlo, e quindi  volere indirettamente questo cambiamento. O c' ingan-  niamo, o questa è la vera e definitiva espressione del  pensiero dell’ autore.   Ma da capo, quando ci serviamo dei mezzi adatti  a cangiare il nostro carattere, siamo di nuovo determinati,  oppure troviamo in noi stessi la forza di far ciò? Se sì  ammette questo secondo lato dell’ alternativa, come pare  venga ammesso dal Mill, ricadiamo in fondo nel sistema    della libertà.    III.    Esposta la dottrina deterministica del Mill, e rilevati  er via i dubbii, le titubanze; le contraddizioni che fan  dubitare della serietà delle convinzioni dell*autore come  filosofo determinista, ma che in compenso fanno altissima  testimonianza del suo retto senso morale, ci resta ora  a vedere in qual modo abbia cercato di combattere le  prove che si adducono in favore della libertà. E questa    la parte in cui il Mill ha fatto gli sforzi maggiori, ed è    giustizia confessare che ha dato prova di finezza ed acu-  tezza straordinaria; soltanto questa finezza e questa acu-  tezza sono talvolta a scapito della verità e rasentano qua  e là il paradosso.   La testimonianza decisiva in favore della libertà e  per cui quegli stessi che la combattono si sentono loro  malgrado costretti ad ammetterla, e quegli altri che non  la credono concepibile da mente umana, si sentono però    biagi          sei i it    identita   Po PATO    Ma zano    (AT TA  Per ade,    è;       &  ì       90 DEL DETERMINISMO    uecensroneneo sevacanzissizarisninieseaneiorazioioe    rassicurati a sostenerne l’esistenza!, è la testimonianza  della coscienza.   Contro questa testimonianza lo Stuart Mill aguzza  le sue armi e scaglia i suoi dardi, e prima di tutto fa  questa osservazione. Che autorità può avere la testi-  monianza della coscienza, se in generale ciò che ci  testifica suole essere interpretato in maniere differenti  e non possiamo mai essere sicuri sul suo significato? Per  esempio il Cousin e quasi tutti i filosofi tedeschi trovano  nella coscienza l’Infinito e l’ Assoluto, che 1’ Hamilton  giudica affatt o incompatibili con essa: v'ebbero più ge-  nerazioni di filosofi che hanno creduto aver delle idee  astratte, concepire un triangolo che non fosse nè equi-  latero, nè isoscele, nè scaleno, ciò che |’ Hamilton e tutti  oggidì riguardano come assurdo. Vi sono dunque opi-  nioni contraddittorie sul senso della testimonianza della  coscienza; che deve pensare dinanzi a questo fatto il filo-  sofo perplesso ®?.   Lo Stuart Mill non a torto incomincia per questa  via ad infirmare il valore della testimonianza della co-  scienza. Della testimonianza della coscienza si  dai filosofi specialmente in passato; non vi  zione quasi di cui; in mancanza d’altre pro  volesse trovare una conferma nella testimonianza della  coscienza; e molte di queste concezioni poi non ressero  a un esame accurato e ad una critica sagace, o almeno  si vide che non erano per niente attestate dalla coscienza.  Ma che prova questo? Forse perchè s'è abusato del    abusò  fu conce-  ve, non si    1 Alludo all’ Hamilton, pel quale la libertà morale, non può essere    concepita « perchè noi non possiamo concepire che il determin  lativo », e tuttavia esiste essendo irrefra  scienza (Vedi Stuart Mill Philoso    2 Philosophie de Hamilto    ato e il re-  Gabilmente attestata dalla co-  phie de Hamilton, cap. XXVI, p. 544).  N, p. 549-550. i    RO RI, e _       |  i  }       DI JOHN STUART MILL 9I    testimonio della coscienza, e talora si sostenne attestato  dalla coscienza quello che in realtà mon cra attestato,  si deve negare fede sempre alla coscienza? Neppure lo  Stuart Mill è di questo avviso, e, filosofo positivista con-  vinto, non crede però col Comte che unicamente del-  l’esperienza esterna e niente dell’interna si deva tener  conto in psicologia; l’esperienza interna è anzi la prima,  la vera fonte a cui si deve attingere. Per quanto riguarda  la libertà poi, questo è uno di quei fatti, di cui non si  può dire che una coscienza l’attesti e l’altra no, o intorno  al quale la testimonianza della coscienza si possa 'inter-  pretare in più maniere differenti. Chi non sente che al  momento di agire in una certa maniera in un caso  particolare, potrebbe agire in una maniera diversa, se  lo volesse, e non si sente in conseguenza responsabile  di quello che fa? Ecco la testimonianza della coscienza  degli uomini, sul cui significato non può cader dubbio  perchè manifesto e chiarissimo.   Ma a quella osservazione preliminare non s' arresta il  Mill; e per verità non aveva valore che come un primo  attacco in battaglia, che serve più che ad altro a scan-  dagliare il. terreno e a misurare a un dipresso la forza  del nemico, ma non decide della vittoria. Esamina per-  ciò più addentro il fatto dell’ aver coscienza del libero  arbitrio.   « Aver coscienza del libero arbitrio, egli dice, si-  gnifica aver coscienza, prima d’ aver scelto, d’ aver po-  tuto scegliere altrimenti. Si può in limine biasimare  l’uso della parola coscienza con una tale accezione. La  coscienza mi dice ciò che io faccio o ciò che io sento.  Ma ciò che-io sono capace di fare non cade sotto la  coscienza. La coscienza non è profetica; noi abbiamo  coscienza di ciò che è, non di ciò che sarà o di ciò che  può essere. Noi non,sappiamo mai che siamo capaci di    PR ni       92 DEL DETERMINISMO    fare una cosa che dopo averla fatta, 0) dopo aver fatto  qualche cosa d’eguale o di simile. Noi non SPESO  affatto che siamo capaci d'azione se non avessimo giam-  mai agito. Quando abbiamo agito, sappiamo, nei limiti  di questa esperienza, come siamo capaci di agire : e  quando questa conoscenza è divenuta famigliare, è spesso  confusa colla coscienza e ne riceve il nome. Ma da ciò  ch’essa è mal nominata non segue che abbia più auto-  rità; la verità ch'essa possiede non è superiore all’ espe-  rienza, ma riposa sull’ esperienza. Se la pretesa coscienza  di ciò che noi possiamo fare non è nata dall'esperienza,  non è che un'illusione. Il solo titolo ch’ essa abbia ad  esser creduta è di essere un’interpretazione della espe-  rienza, e se l’interpretazione è falsa bisogna rigettarla »!.   Nel qual luogo due cose sono poste in rilievo e  distinte: prima di tutto si dice che la coscienza non  riguarda già ciò che sarà o ciò che può essere, ma ciò  che è, e che per conseguenza ci attesta solo quello che  facciamo, non già quello che possiamo fare e siamo atti  a fare; in secondo luogo che la pretesa coscienza di ciò  che sarà o di ciò che può essere o di ciò che siamo atti  a fare, non è un'intuizione, ma una cognizione offertaci  dall’ esperienza, che ha valore solo in quanto ha valore  questa. 1   Non facciamo al Mill l’obbiezione che gli faceva a  ragione l’ Alexander? che « se abbiamo coscienza d'una  forza libera di volizione continuamente inerente in noi,  abbiamo coscienza di ciò che è ». Noi ci mettiamo anzi  allo stesso punto di vista del Mill e ammettiamo che  non si possa aver coscienza d’ un'attitudine, d'una forza  inerente in noi, indipendentemente da ogni esercizio    1 Philosophie de Hamilton, p. 551-382.  ? Citato in nota dallo Stuart Mill, Philosophie de Hamilton, p. 552.       DI JOHN STUART MILL 93    presente o passato di quest attitudine o di questa forza;  ammettiamo in altre parole che la pretesa coscienza della  libertà non sia un'intuizione, ma una conoscenza spe-  rimentale. E che perciò? La credenza nella libertà è  meno universale per questo ? E meno radicata nell'anima  degli uomini? E vero, non la chiameremo coscienza;  sarà non una percezione, non un sentimento, ma un  giudizio derivato, una conclusione tratta da fatti che ci  cadono tuttogiorno sott' occhio; ma questo non importa. ‘  V ha una quantità di fatti la cui esistenza è sicurissima,  e che pure non cadono sotto il dominio della coscienza.  Ma v'ha di più. L'esperienza esterna, l'esperienza a  posteriori non può, come osservava giustamente l'Alexan-  der!, verificare la credenza ch'io era libero d'agire, poichè |  l’esperienza mi dice in qual senso io ho agito in un caso  | particolare, e niente mi insegna sulla mia attitudine ad  agire altrimenti; questa mia attitudine ad agire altri-  menti m'è offerta da una percezione interna, da un  sentimento, dall'esperienza interna insomma, che non  ha niente a che fare coll’ esterna. -   Il Mill risponde: « Supponete che |’ esperienza ch'io  ho di me stesso mi offra due casi incontestabilmente simili  per tutti i loro antecedenti fisici e mentali, e che in uno  di questi casi io abbia agito in un senso, e nell'altro in  un senso contrario : si avrebbe bene qui una prova speri-  mentale ch'io sono stato capace d’agire in un senso o  nell'altro. È per una tale esperienza ch'io apprendo che  posso agire, vale a dire trovando che un avvenimento ha  luogo o non'ha luogo secondo che (le altre circostanze  restando le medesime), una volizione da parte mia ha  luogo o non ha luogo »°.    RI daddi Aia    sie    Pe” i    su    1 Philosophie de Hamilton, p. 552-553; in nota.  2 Philosophie de Hamilton, nota a p. 553.             E Di MINISMO  94 DEL DETER    | Accettiamo di buon cuore l’ osservazione; ma se  in due casi identici per i loro antecedenti fisici e men-  tali io ho agito, come suppone il Mill, non già in  una maniera identica, ma in una maniera contraria,  ciò vuol dire che gli antecedenti (motivi) non hanno la  forza di determinarmi, e che io sono libero d'agire in  quel modo che mi piace; altrimenti tutte due le volte  avrei agito in modo identico. A questo punto dov’ è an-  dato il potere determinante dei motivi che s'è ammesso  prima? A questo punto non si riconosce nell'uomo una  forza intima e spontanea capace di agire anche in oppo-  sizione ai motivi? Lasciamo da parte adesso se la libertà  ci venga o no attestata dalla coscienza e se questa co-  scienza sia intuizione o conoscenza sperimentale; no-  tiamo il fatto che questa libertà, da qualunque parte  ci venga attestata, voi pure l’ ammettete.   Ma neppure a questo punto s’ arresta il Mill; egli è  troppo acuto e profondo per non capire che anche am-  mettendo essere la coscienza della libertà non già una  intuizione, ma  questo Ra Ri SRERNS a   E enza della libertà ste  e che per conseguenza anche A RR  SRO 5 i lè questo secondo attacco,  i aa È 1a la un'esito decisivo. Delibera perciò  Oros ° ;  O PIL SoS AASCO; e, bisogna convenirne,  menti temi ile e pericoloso. Eccolo.  « Questa convinzi chiamino:  mente Sao done Ani azione ose   ( » che la nostra volontà è libera, che è essa?   Di che siamo noi convinti? Mi si di 3 ; ;  x c i : sI dice che, sia ch'io mi   decida ad agire, sia che m'aste :  ; SS sstenga, sento che potrei aver  deciso altrimenti. Io domando alla mi * » .  ‘o alla mia coscienza ciò ch'io  sento, e trovo che sento, o che ho la convinzi x  licre l° ; nvinzione, che avrei   potuto scegliere l’altra via, e anche che l'avrei  P ; La È avrei scelta, se  avessi preferita, vale a dire se |° avessi ;   : a essi amata meglio;  ma io non trovo che avrei potuto sceoli ;  egliere una cosa pur       e no rei lite a i ll       DI JOHN STUART MILL 95    preferendo l'altra ». Ad onta di questo si continua a  dire che noi facciamo una cosa, pure preferendo, pure  amando meglio di farne un'altra. Ciò deriva dal non in-  tendersi bene intorno al significato della parola preferire.  Quando sì preferisce una cosa, non si prende questa cosa  da sola, in sè, ma unitamente alle conseguenze che deri-  verebbero dal farla e che le servono come di corteggio.  Così un'azione presa in sè, indipendentemente dalle con-  seguenze che possono da essa derivare, o da una legge  morale chio violi facendola, posso preferirla ad un'altra,  e cionullameno fare quest'altra: ciò avviene perchè csa-  minata quella prima azione anche nelle sue conseguenze,  è tale che merita di essere posposta alla seconda. Noi  facciamo adunque tutte le volte quello che preferiamo.  « Prendiamo un esempio: ucciderò io o mon ucciderò?  Mi si dice che se io scelgo d' uccidere, ho. coscienza che  io avrei potuto scegliere di astenermi; ma ho io coscienza  che avrei potuto astenermi, se la mia avversione pel de-  litto e i miei timori delle sue conseguenze fossero stati  più deboli della tentazione che mi spingeva a commet-  terlo? Se io scelgo d’astenermi, in qual senso ho io  coscienza che avrei potuto commettere il delitto ? uni-  camente nel senso che avessi desiderato di commetterlo  con un desiderio più forte del mio orrore per l'assassinio  e non con uno menò forte ». Sicchè in ogni caso, quando  noi supponiamo che avremmo potuto fare altrimenti da  quello che abbiamo fatto, supponiamo sempre una dif-  ferenza negli antecedenti (desiderio e avversione) che soli  hanno la potenza di determinare l'atto. E perciò il te-  stimonio della coscienza rettamente interpretato e inteso  è anzi una prova in favore del determinismo !.   Si obbietterà, continua il Mill, che resistendo a un    x    I Vedi per tutto questo, Philosophie de Hamilton, p. 552-554.       ERE PIA    Rage i    era    pt "Tae       se    :    i    verte net teatri       I da -    Pa       90 DEL DETERMINISMO    desiderio io ho coscienza di fare uno sforzo, e se il de-  siderio dura lungo tempo, io sono per questo sforzo così  sensibilmente esaurito come dopo un esercizio fisico.  A che la coscienza di questo sforzo se la mia volontà  fosse completamente determinata dal desiderio presente  più energico? Perchè il peso più forte s'abbassi e il più  leggero s’ innalzi, la bilancia non ha sforzi da fare.  Questo argomento, dice il Mill, si fonda tutto sulla  falsa credenza, che la lotta fra impulsi contrarii deva  sempre decidersi in un istante; e che l'impulso real-  mente più forte ottenga vittoria in un istante. Ma questo  non avviene neppure nella natura inanimata; l’uragano  non abbatte una casa e non rovescia un albero senza  resistenza; la bilancia stessa trema e i piatti oscillano  alcuni istanti quando la differenza dei pesi non sia  grande. Egualmente nella vita dell'anima, dove l’inten-  sità delle forze morali che si combattono non è fissa A  ma mutabile, dove non c’è un istante solo in cui varie  serie d’ idee non attraversino lo spirito, aggiungendo  vigore da una parte e togliendolo dall’altra, la lotta fra  i motivi contrarii non è decisa in un istante e può durare  anche lunghissimo tempo, e quando ha luogo fra sen-  timenti violenti, esaurisce in una maniera straordinaria  la forza nervosa. Ora la coscienza dello sforzo di cui  si parla è appunto la coscienza di questo stato di con-  RR TASTE OR ha eee tra me ed una forza.  es a di cui Io trionfi, 0° i i wr NA:  ha luogo tra me e me, i; DE È È a Fonzie  un piacere e 272 che temo i rimorsi «Giò S = Sosidero  o, se voi amate meglio, la mia O e È Sie: A  un lato piuttosto che n l’altro, è 2a SanIchi Seo  i 3 » è che l’un  rappresenta uno stato dei miei sentime  nente che non fa l’altro. Dopochè la  vinta, il z7e che desidera finisce, ma i    o dei me    tentazione l’ha  l me di cui la    Nt più perma-                                         DI, PE O 0 e e    DI JOHN STUART MILL 97    LAV cLoalesessacteapeastizecasaponeguestaa ssa tovepogg esseeeposabponadsas aida r e sensei veg esa evo coca cover evi aerea ivicateei spira    coscienza èferita può durare fino alla fine della vita ».  Non è vero adunque che la coscienza ci attesti che noi  possiamo agire contrariamente al desiderio più forte o  all’ avversione più forte che proviamo al momento del-  l’azione. L a differenza tra un uomo cattivo e un uomo  buono non consiste in ciò che quest’ ultimo agisca in  opposizione a’ suoi desiderii più forti, ma in ciò che il  suo desiderio di fare il bene e la sua avversione per il  male siano forti abbastanza per vincere, e, se la sua virtù  è perfetta, per ridurre al silenzio ogni altro desiderio e  ogni altra avversione contraria. Di qui l'importanza gran- )  dissima dell'educazione che agisce sulle avversioni € sui  desiderii, indebolendo e sradicando quelli che paiono più È  adatti a condurre al male, incoraggiando ed esaltando  quegli altri che per converso sembrano più adatti a con-  durre al bene!. ;   L'ho detto prima, queste osservazioni del Mill sono  d’ una importanza capitale, e così acute e profonde che  aspirano a dare, si può dire, il colpo di grazia al sistema  della libertà. i   A noi sia lecito fare sparsamente qualche conside-  razione, non tanto collo scopo di infirmare quanto ha ‘  detto l’ autore, quanto per mettere nella loro vera luce  certi fatti che ci paiono non esattamente apprezzati, €  da cui si trassero conseguenze non abbastanza giustifi- è  cate. E prima di tutto ammettiamo anche noi che, dopo  aver deciso d’ agire in una certa maniera, la coscienza  ‘ci attesti che avremmo potuto decidere di agire altri-  menti, se l’avessimo preferito; ammettiamo per esempio,  che dopo avere deliberato. di uccidere una persona, ab-  biamo coscienza che avremmo potuto deliberare di aste-  nercene, se l’avessimo preferito, e in ogni caso che non       "x BE    rit e ta    po LI?    ALTE di    sa ge    ‘1 Vedi per tutto questo, Philosophie de Hamilton, p. 354-550.    G. ZUcCANTE ) 7          I avremmo potuto scegliere una cosa; pure preferendone  ur. un’altra: ammettiamo in altre parole che si.abbia sempre  “a coscienza d'aver potuto’ agire in una maniera diversa  da quella in cui s'è agito, solo a patto che ci fosse in  e noi una serie d’antecedenti interni diversa da quella che  SÉ in realtà vi fu.   - CORE _ Ma questo che prova? Perchè provasse qualche cosa sun |  in favore del determinismo, dovrebbe questa serie di _D  O antecedenti interni da cui dipende la nostra preferenza  i per una cosa piuttosto che per un'altra, stare da sè,  gi indipendentemente da noi, essersi introdotta in noi a  nostra insaputa e come di nascosto, press’ a poco come  ‘E suol fare il ladro di notte. Invece la cosa non è così;  questi antecedenti interni non si sono formati in noia  H nostra insaputa, ma col nostro intervento e col nostro  Di consenso; al ladro si poteva dare ricetto o rigettarlo a  % 1 nostra volontà. O se si sono formati in noi a nostra  insaputa, perchè disposizioni organiche trasmesseci per  eredità, o elementi acquisiti per via di educazione, lo  spirito nostro però non si comporta solo passivamente  di fronte a loro. Lo spirito non è una tavola rasa de-  stinata a ricevere unicamente le impressioni del mondo  di fuori, non è un semplice recipiente in cui si faccia  una quantità di giochi meccanici e nulla più; lo Spirito  è anche attivo nello stesso tempo che passivo; ci sono  in lui elementi spontanei e primordiali che non devono  essere trascurati !.   __ Lo Stuart Mill vorrebbe ridurre lo spirito a un  serie di stati interni attuali o possibili e a nulla più,  senza preoccuparsi se vi sia qualche cosa che li unisca ©  e a cui ineriscano; ma in seguito alla considerazione              VP             A,         Ti Ribot, Psychologie anglaise contemporaine, all'articolo Al. Bain  pag. 253. Cfr. Bain, Les.emotions et la volonté, part. 2       2. Cap. 1,°                          RR REATTORI III EAT    che è una serie di stati interni che conosce se stessa   come passata e come futura, e che non si potrebbe con-   cepire ad esempio una collana di perle, a cui fosse   ; tolto il. filo che le unisce, è costretto ad ammettere   i qualche cosa di reale che leghi questi stati interni fra   i loro, qualche cosa di originale che non ha comunità di   | natura con nessun’ altra rispondente ai nostri nomi, €   alla quale non possiamo dare altro nome che il suo, il ì  i ‘* Me! Ma questo qualche cosa, questo Me che pure rico-    VO PAM. Pi  ei  =  n  (©)  sE  z  La  “  ci  x  Wei  vi  3  Le  Gi    noscete, e a cui date un'esistenza distinta e,sua propria,  altrettanto reale quanto gli stati interni medesimi, che  ‘rimane in fondo se gli negate ogni elemento proprio €  spontaneo, se gli negate la capacità di dare una prefe-  renza, o di formare o di regolare almeno certi moventi  ® interni da cui dipende la preferenza? Questo quid de-  stinato ad unire i nostri stati interni fra loro in maniera .  da riconoscerli come passati e futuri, è forse come il filo  meccanico che unisce le perle in una collana? ma il filo  non riconosce le perle, e questo quid invece riconosce  gli stati interni; in grazia di che li riconosce? Conve-  niamo anche noi col Mill che qui siamo dinanzi a quel-  l’inesplicabile e a quel misterioso, oltre il quale occhio  umano non penetra; accettiamo anche noi il fatto ine- ER  splicabile senza perdersi a considerarne  hi    1 Philosophie de Hamilton, p. 562-563.          DI JOHN STUART MILL LII    così dire, la posizione; alla questione, se sia giustizia  punire chi è determinato a operare in un dato modo,  ha sostituito quest'altra, se sia giustizia punire chi non  è determinato; ma queste non sono due tesi opposte in  maniera che provata l’una si deva rifiutare l’ altra. Il Mill  crede che non sia giustizia punire chi non è determinato,  e sia pure; ma con questo è detto che sia giustizia  punire chi è determinato? La questione è ancora in-  soluta.   Ma riportiamo per intero il luogo del Mill, per vedere  quale concetto egli ha della giustizia. « Vi sono due fini  che nella teoria dei necessitarii bastano a giustificare il  castigo: il profitto che ne ritrae il colpevole stesso e la  protezione degli altri uomini. Il primo giustifica il ca-  stigo, perchè fare del bene a uno non può essere fargli  torto. Punirlo pel suo proprio bene, purchè colui che  inflisge la pena abbia un titolo a farsi giudice, non è  più ingiusto di fargli prendere un rimedio. Per ciò che  riguarda il delinquente, la teoria vuole che, controbilan-  ciando l'influenza delle tentazioni presenti o delle mal-  vagie abitudini acquisite, la pena ristabilisca nello spirito  la preponderanza normale dell’ amore del bene... Nel  secondo rispetto, il castigo è una precauzione che la so-  cietà prende per sua propria difesa. Perchiè il castigo sia  giusto bisogna solamente che lo scopo che la società si    propone sia giusto. Se la società se ne serve per calpe-    stare i giusti diritti dei privati, il castigo è ingiusto. Se  se ne serve per proteggere i giusti diritti dei cittadini  contro un'aggressione ingiusta e criminosa, è giusto. Se  abbiamo dei diritti giusti (ciò che ritorna a dire che ab-  biamo dei diritti) non può essere ingiusto difenderli. Con  o senza libero arbitrio, la punizione è giusta nella misura  in cui è necessaria per raggiungere lo scopo sociale,  nella stessa maniera che è giusto; mettere una bestia    |a    se è  Apa di    a deal; à          LI DEL DETERMINISMO       feroce a morte (senza infliggerle delle sofferenze inutili)  per proteggerci contro di essa»).   Ecco, è comodo per uno scopo particolare c in s0-  stegno d’una certa tesi attribuire ad una cosa quel si-  gnificato che meglio talenta; soltanto sta a vedere se  per giustizia gli uomini tutti quanti non întendano una  cosa ben diversa da quella che qui intende lo Stuart  Mill. Chi ardisce chiamare giusta la punizione che si  infligge a una bestia feroce, soltanto perchè serve a pro-  teggerci contro di essa? Anzi si può veramente chiamarla  punizione? Lo- Stuart Mill io credo non prenda sul serio  questa sua affermazione. Supponiamo, per un’ ipotesi im-  possibile a verificarsi, che un pazzo riconosciuto, in se-  guito all'uccisione di due o tre persone, venga condannato  a morte; lo Stuart Mill per il primo protesterà contro  questa sentenza e la chiamerà ingiusta; e tuttavia, nella  sua teoria, sarebbe il non plus ultra della giustizia, poichè  avrebbe appunto per iscopo di salvare la società dai fu-  rori del pazzo.   Il vero si è che a giustificare il castigo, a fare  che un castigo sia giusto non basta la protezione della  società che si ottiene per mezzo di esso, e neanche il  profitto che ne ritrae il colpevole; certamente e la pro-  tezione della società e il profitto che ne ritrae il colpevole  costituiscono come l’accompagnamento necessario del ca-  stigo; certamente questi due scopi chi punisce si propone  sempre € deve proporsi di raggiungere; ma altra cosa   me Si dir questo, e altra il sostenere che questi due scopi   giustifichino essi medesimi il castigo. La giustizia del   Di castigo sta in qualche cosa di superiore e di più alto; sta  i nel fatto che colui che lo subisce lo merita, perchè, se  avesse voluto, avrebbe potuto operare altrimenti; sta son    |  |  |  |  |  |    4 Philosophie de Hamilton, p. 563-564. i H    RAR ST    Π da  ber”          DI JOHN STUART MILL 113    Seossassecesesioncontosesensanseanavassesssesegiagesesdasicninsscenierienvisnionneveenisiericeoziativecensorcoscnespenesisooretteialezzonie    necessità di vendicare la moralità offesa, di ristabilire  la calma e l'armonia nelle coscienze. Im caso. con-  trario dov’ è la giustificazione del castigo quando co-  mecchessia venga a mancare e il profitto che ne ritrae  il colpevole e la protezione della società? Non sì sa che  talvolta il castigo, anzichè esercitare un'azione benefica  sull’animo del colpevole, anzichè inspirargli il desiderio  di migliorarsi e di correggersi, lo infiamma d'un odio  atroce contro la società che lo ha punito, e gli suscita  pensieri di vendetta, sicchè alla prima occasione armerà  la mano omicida e farà strage di quelli ch’ ei reputa suoi  nemici? In tal caso il castigo è riuscito a ottenere un  effetto precisamente opposto a quello che nella dottrina  del Mill costituisce la sua giustificazione; in, tal caso è  quindi ingiusto, e hanno fatto male gli uomini a inflig-  gerlo. Perciò vadano a rilento gli ùomini e ci pensino  prima di infliggere un castigo: se non è probabile che  ne derivi il miglioramento del colpevole e la protezione  della società, non ne facciano niente, lascino impunito  il colpevole; sarebbe ingiustizia punirlo.   Ancora si potrebbe fare quest'altra osservazione al  Mill. Voi parlate qua e là * di premii e di castighi che si  avranno da Dio in un’altra vita. Forsechè anche i castighi  di quest'altra vita avranno lo scopo di proteggere la so-  cietà e di recar vantaggi al colpevole migliorandolo? E  assurda questa supposizione : per ciò Dio non sarà giusto  quando punisce, mancandogli appunto ciò che giustifica  la punizione. d   Ma il Mill non si dà per vinto. « A tutti coloro, egli  dice, che pensano che la protezione dei giusti diritti non  basta a legittimare il castigo, io dimanderei com’ essi  conciliino laloro idea di giustizia col castigo dei delitti    1 Philosophie de Hamilton, p. 565.    G. ZUCCANTE DI       10 “lle    a    ieri    1    int vos, pnt +e pre pron A «hi e  , tesi ont mie pati e pe TT i pero       ciare e ea va eee    IId4 DEI DETERMINISMO    prescritti da una coscienza pervertita. Ravaillac e Balthazar  Gerard non sono riguardati come delinquenti, ma come  martiri eroici. Se il loro supplizio è stato giusto, il ca-  stigo non è giusto a causa dello stato di spirito del  delinquente, ma solamente perchè è un mezzo efficace  per raggiungere il fine che gli è proprio. E impossibile  affermare la giustizia del castigo dei delitti dettati dal  fanatismo, se non si dice ch’'esso è necessario per rag-  giungere uno scopo giusto. Se questo non è una giu-  stificazione, non ce n'è affatto. Tutte le altre giustificazioni  imaginarie cadono quando si applichino ai delitti del fa-  natismo-»!.   Con questo il Mill si crede aver posto al muro i  suoi avversarii: ma noi gli obbiettiamo coll’ Alexander ®  che se i fanatici non sono colpevoli nell'atto, sono però  colpevoli nel pervertimento della coscienza che li ha con-  dotti al delitto; il che in fondo torna al medesimo. Sicchè  la loro punizione è giustificata non tanto dalla necessità  di difendere la società, quanto e più di tuttodalla loro  colpabilità. Il vecchio Aristotele distingueva molto giusta-  mente. le azioni dagli abiti: delle azioni siamo padroni  dal principio fino alla fine; degli abiti soltanto in prin-  cipio: ciò non vuol dire però ch’essi non siano egual-  mente volontarii e non ne siamo quindi responsabili  perocchè appunto in sul principio ci era lecito compor-  tarci così o altrimenti 3. Del resto se il fanatico è divenuto  tale non per colpa sua, vale a dire se è vissuto in tal  ambiente di perverse influenze morali da non pote :  assolutamente sottrarsene, € da scambiare come COL  scindibile dovere di coscienza il compimento di un’opera    1 Philosophie de Hamilton, p. 366.       ; 2 Vedi Philosophie de Hamilton, nota a p.    È ; 566-367  5 Eth. Nic. III. 5, $ 22, ediz. Susemihl,    /*       DI JOHN STUART MILL 115    abbominevole; se non ha potuto far uso della sua libertà,  perchè fu una sola la via che gli si indicò di seguire, €  lo si tenne perfettamente all’ oscuro sull’ esistenza di  un’altra via diversa da quella ed opposta, il castigo che  gli s infligge è ingiusto, per quanti vantaggi sì possano  in questa maniera ottenere. Soltanto è molto difficile  determinare se il fanatico è divenuto tale per ragioni   ; indipendenti da lui, e quindi se il suo castigo è conforme  o non conforme a giustizia.   Il Mill sostina a non voler considerare nel castigo  una retribuzione, e continua a sostenere che inflitto per  un’altra ragione che per agire sulla volontà del colpevole  e per proteggere i giusti diritti degli uomini, non è giu-  stificabile. « Se si crede, dice egli, che v'ha giustizia a  infliggere delle sofferenze senza scopo, che v' ha fra le  due idee di ‘delitto e di castigo un’ affinità naturale che fa 1  che dappertutto ove c' è delitto, è necessario che una  pena sia inflitta a modo di retribuzione, io confesso che  non posso in nessuna maniera giustificare il castigo in-  flitto in virtù di questo principio »!.   Eppure se v' ha giustificazione del castigo sta pre-  cisamente in questo che il colpevole lo merita, e ch'è  una retribuzione dovutagli. E non è vero che conside-  rato come retribuzione il castigo sia senza scopo; gli  è scopo la retribuzione medesima. Non si nega che.   i il castigo agisca ad un tempo sulla volontà del col-  pevole, e serva di protezione alla società; ma solo a  condizione che sia considerato una retribuzione, questi  due scopi potrà ottenerli: solo chi sappia d'aver me-  ritato il castigo potrà proporsi di emendarsi e correg=  gersi. Che se invece il castigo fosse dato al colpevole  “non già perchè l’ha meritato, ma perchè eserciti su di    #E  Pi,  \   È  Vai        4 Philosophie de Hamilton, p. 567.       III I SRI VEIL ile, Ps Pon. | la £- Leg -  jo afar eaeeneprearE PET    116 DEL DETERMINISMO    lui un'azione benefica e lo induca a correggersi, egli  potrebbe molto giustamente domandare se c'era proprio  bisogno d’una punizione per questo, o se non si avrebbe  meglio ottenuto questo scopo, assegnandogli un premio,  una ricompensa. Sicuro, nella teoria del Mill, se il punire,  che val quanto fare del male a qualcheduno, non ha  altra giustificazione che il profitto che ne ritrae il col-  pevole stesso e ia protezione della società, esso diventa  un'enorme ingiustizia, in quanto che questi due scopi  si sarebbero potuti ottenere egualmente e meglio col  premiare, col ricompensare il colpevole. Il premio e la  ricompensa concessi al colpevole a patto che non operi  più male, avrebbero assai meglio del castigo agito  sulla sua volontà nel senso del bene, e quindi protetta  la società da ogni ulteriore attacco di lui. Nè vale il dire  che in tal modo si offenderebbe quel sentimento naturale  di rappresaglia che ci porta a fare del male a chi ce ne  ha fatto, e che sebbene nulla abbia in se di morale, con-  giuntosi però coll’idea del bene generale che lo limita,  diventa il sentimento morale delle giustizia. Il Mill che  fa questa osservazione !, è in contraddizione con se me-  desimo, e mostra di credere che la giustizia della pu-  nizione si fonda su ben altre basi che su quelle che  prima ha tentato di stabilire. Nè vale il dire, come an-  cora fa il Mill*, che la pena è più forte del piacere e  che la punizione è infinitamente più efficace della ricom-  pensa: e quanto POE il seed dalla colpa,  oichè la punizione: sola può produr iazioni  i cui Lon è di (E  ARA pi a  Ro condotta che ci espone ad essa, e di fare un RO pa  ripulsione sincera tutto ciò che torna di danno alla    i I Gfr. la nota a p. 563-565 della Philosophie de Hamilton,  3 2 Ibid. ”  A       = aied'uet bia ode è è ddl cale = Ti PA i ii    cin al Pie en    ce  a]       DI JOHN STUART MILL 117    società. Anche la ricompensa data all’ astensione dalla  colpa può produrre associazioni tanto forti da rendere  in ultimo amabile per se stessa appunto l’ astensione  dalla colpa, e da assicurare per tal modo a sufficienza  la società dai possibili attacchi dei malfattori, senza far  male a chicchessia col castigo. Il castigo adunque, giova  ripeterlo, ha ben altra giustificazione che quella che gli  vorrebbe assegnare il Mill.   Ma il Mill è troppo acuto e profondo, c sovratutto  troppo leale, per non vedere che tutti gli uomini riguar-  dano il castigo come una retribuzione, come una cosa  dovuta a colui che ha fallito. Egli cerca spiegare questo  sentimento generale e naturale, com'egli stesso lo chiama,  in questa maniera. « Fin dalla prima,infanzia l’idea  della malvagia azione (vale a dire dell’azione proibita,  o dell’azione dannosa per gli altri) e l’idea di punizione  si presentano insieme al nostro spirito; e |’ intensità  delle impressioni fa che l'associazione che le lega ci offra  il più alto grado d’ intimità. E egli estraneo e contrario  alle abitudini dello spirito umano, che noi possiamo in  queste circostanze conservare il sentimento e dimenticare  la ragione che gli serve di base? Ma perchè parlare di  dimenticanza? Il più delle volte, durante’la nostra prima  educazione, questa ragione non è stata presentata al  nostro spirito. Le sole idee che si sono presentate sono  state quella del male e quella della punizione, e una  associazione inseparabile s'è creata fra di esse diretta-  mente senza il soccorso nè l’ intervento d’ un'altra idea.  Ciò basta pienamente perchè i sentimenti spontanei del-  l’ umanità considerino il castigo e il malvagio come fatti  l'uno per l’altro, come legati naturalmente, indipenden-  temente da ogni conseguenza »!.    1 Philosophie de Hamilton, p. 568.       È  ue    tei dica    VAI NT    LI    se Te ne 0 a LL.  Teme serzinta Sirtenpalizrenio nea Lot —    118 DEI. DETERMINISMO    Riconosciamo la giustezza dell’ osservazione e l’acu-  tezza dell'analisi: domandiamo però se l'intima asso-  ciazione fra il malvagio e il castigo dipenda soltanto  dall'esperienza, o se piuttosto l’esperienza non abbia  fatto che confermare e svolgere un sentimento già in  noi esistente allo stato di latenza, allo stato virtuale; di  maniera che l'intimità dell’associazione fra malvagio c  castigo dipenda, più che da altro, dal sentimento che an-  teriormente ad ogni esperienza ci porta ad avversare il  male. Se quello che si fa al di fuori non è, per così  dire, un'eco fedele di ciò che è dentro di noi, se la  nostra natura non consente a quello che si fa al di fuori,  è impossibile che si stabiliscano intime e forti associa-  zioni, come è impossibile ad esempio che l'educazione   - artistica crei il senso del bello, o l'educazione del palato  quello del gusto in chi ne sia per natura sprovvisto.  Insomma noi non siamo una tavola rasa, com' era  opinione del buon Condillac, ma c'è in noi una spon-  taneità naturale, come del resto riconosce anche il  Bain!. i   Ma lo spirito di sistema la cede in ultimo al senti-  mento della verità, che finisce col prevalere in tutti  quanti e coll'imporsi anche agli uomini più attaccati  ai sistemi. Perciò leggiamo nel Mill le seguenti pa-  role: « Si dice che colui che ammette la teoria della  necessità deve sentir l'ingiustizia delle punizioni che gli  s'infliggono per le sue cattive azioni. Ciò mi pare una  chimera 3 ciò sarebbe vero, s'egli 20n potesse realmente  impedirsi d’agire come ha fatto, vale a dire se l’azione  ch'egli ha fatto non dipendesse dalla sua volontà, s' egli   fosse sottoposto a un costringimento fisico, o s° egli    1 Vedi Ribot, Psychologie anglaise contemporaine, artic. Bain: e  ° . Ù  Baîn, Les emotions et la volonté part. 2, cap. 1.       +   :   x   Ue   Ri   ui  na   Da   ;       DI JOHN STUART MILI. 119    sisneraanzesaiezazeza»eozeraneezi masnzananasenanazazee asia ranisaezenazeonaeesaazionivssia sie iveeisiizcatezeo    subisse l’impero d'un motivo così violento che nessun  timore di castigo potesse avere effetto »!.   Come si vede, lo Stuart Mill ritorna alla sua pre-  diletta teoria della causazione, per cui la causa non co-  stringe ad essere l’effetto, e che, applicata allo spirito  umano, gli lascia una parte di libertà: ma non è egli in  contraddizione con tutto quanto ha detto precedente-  mente ? Non è\giustizia punire uno s'egli non può real-  mente impedirsi d’agire come ha agito, se in altre  parole non è libero nelle sue azioni: che mi venivate  dunque a dire poco fa che la giustizia è affatto indipen-  dente dall’esser l’uomo libero o° non libero, che è anzi  concepibile colle forme più esagerate del fatalismo ?  D'altra parte questa libertà esiste o non esiste? in questo  luogo pare che voi l’ ammettiate. È   Ma il Mill continua: « Se però il delinquente fosse  in uno stato in cui il timore del castigo potesse agire  su di lui, non v’' ha obbiezione metafisica che possa, a  mio avviso, fargli trovare il suo castigo ingiusto »?. Ecco  qui un nuovo elemento per determinare quando un ca-  stigo è giusto od ingiusto, il timore del castigo mede-  simo; sc il delinquente non era per modo dominato da  motivi contrari che in lui poteva agire il timor del ca-  stigo, c tuttavia non ha agito, è giusto punirlo.   Si domanda prima perchè il timor del castigo non  ha agito sul delinquente, benchè i motivi contrarii non  fossero tanto forti da impedirgli-di agire, anzi essendo  addirittura più deboli. Se in ogni caso la vittoria rimane.  sempre al motivo più forte, dovea ciò verificarsi anche  questa volta: perchè non s' è verificato? Allo Stuart Mill  la risposta, che non può essere certamente favorevole    1 Philosophie de Hamilton, p. 509:  2 Ibid.    “la “de       120 DEL DETERMINISMO    =    alla sua tesi deterministica. Ma lasciando da parte questo,  perchè dovrebbe il timor del castigo costituire come il  criterio con cui giudicare del merito o del demerito di  una persona, e quindi della giustizia o non giustizia  della sua punizione ? Se per un’ ipotesi, ch'io non credo  impossibile a verificarsi, ci fosse uno affatto insensibile  al timor del castigo, come dovrebbe la società regolarsi  a suo riguardo? Il punirlo sarebbe in ogni caso ingiu-  stizia. Evidentemente però qui il Mill ritorna alla sua  tesi favorita che non sarebbe giustizia punire chi non  è determinato da motivi, dovendo appunto il castigo con-  siderarsi come un motivo, che agisce nel senso di far  astenere dalla colpa.   Riassumendo, mi pare di poter sostenere a buon  diritto che il castigo non si può infliggere con giustizia,  se non a patto che chi delinque avesse potuto anche non  delinquere, e qualunque giustificazione si cerchi di esso  al di fuori della libertà è affatto illusoria.    IV.    « Ogni dottrina, opera sincera del pensiero umano  deve contenere una parte di verità. Criticare è sempli-  cemente mostrare che questa parte della verità non è  il tutto; la critica non è che il limite imposto della ra-  gione ai sistemi, che sono essi stessi limitati dalle cose  Fissando così il punto dove s'è arrestato lo sforzo del-   l’ intelligenza, la critica fissa precisamente il punto che  l'intelligenza deve oltrepassare; essa le apre un novello  spazio al di là di quello che avea di già percorso: in  ‘una parola, essa ingrandisce l'orizzonte intellettuale che .S       _ 1‘ ‘ro tm    (A eil    È  E  La  i  È  È       DI JOHN STUART MILL 12I    un sistema avea voluto ricondurre alle sue proporzioni  sempre troppo strette »!.   Queste belle e assennate parole che il Guyau premette  alla sua acuta critica della Morale inglese contempo-  ranea, abbiamo fatto nostre perchè ci parve si potessero  a rigore applicare alla critica nostra del sistema deter-  ministico del Mill. La conclusione a cui vogliamo arrivare,  nell'esame di questo sistema, non è già che in esso non  ci sia nulla di vero; una parte di vero c'è: soltanto questa  parte vera ha bisogno di essere sceverata e distinta da tutte  le altre che non lo sono, ha bisogno di essere presentata  spoglia di tutto il fattizio e l’appiccaticcio che le ha fatto  perdere la sua vera fisionomia.   E prima di tutto è grande merito del Mill l'aver  lasciato in disparte il fatalismo puro, il fatalismo fisico,  per cui l’uomo non è niente e dipende interamente  dal mondo di fuori, e il fatalismo modificato dell'Ovven  per cui l’uomo è forzato dalla sua costituzione origi-  naria o modificata dalle circostanze esterne, a ricevere  i suoi sentimenti e le sue convinzioni indipendente-  mente dalla sua volontà, sentimenti e convinzioni che  creano poi il motivo d'azione e spingono all’azione %;  e l'avere invece introdotto un determinismo che direi  psicologico ed intimo, per cui la volontà dell’uomo non  è lettera morta, ma contribuisce indirettamente alla mo-  dificazione e anche alla formazione del carattere, potendo  mettere in opera i motivi che sono necessarii a tal uopo?,  e collocarci in circostanze adatte e convenienti 4. In questa  maniera lo Stuart Mill è riuscito a dare all'uomo una    1 Guyau, La Morale anglaise contemporaine, p. 185.  2 Guyau, op. cit. p. 65-66.   5 Philosophie de Hamilton, p. 571.   4 Logique ecc. vol. 2. p. 424.       P ?    1% a    È  :  3       ne me - o-- ao  du re rn ua rientro       122 DEL DETERMINISMO    PRPPPPEFETITITILITIITTLILILZA]    specie di personalità; perocchè quando l’uomo può co-  mecchessia modificare e anche formare il suo carattere,  non è già un automa cosciente, uno: spettatore inerte  d’azioni in cui egli non abbia alcun potere, e che per  conseguenza a torto s*attribuisce, come avviene nel fata-  lismo puro e nel fatalismo modificato; ma un me, una  persona che può dire con qualche diritto sue le azioni  che si compiono dentro di lui. E ben vero che questa  specie di potere autonomo, che lo Stuart Mill concede alla  volontà, diventa poi illusorio, quando facendo la genesi  della volontà stessa dice che dipende in ultimo dal de-  siderio, il quale è formato per noi e non da noi, il quale  insomma è fatale; ma è vero anche che qua e là fa capire  che se il desiderio non è formato da noi, noi possiamo  però metterci in tali circostanze che sieno adatte a far  nascere questo desiderio!; con che riconosce ancora in-  direttamente una specie di potere autonomo esistente  in roi.   Insomma la parte vera del sistema deterministico  del Mill è ta seguente. Noi operiamo sempre sotto l’in-  fluenza di certi motivi; non sarebbe altrimenti cieco e  irragionevole il nostro operare? Devesi dire che il me,  risolvendosi dopo un esame, lo fa senza tener conto  dei motivi, e che è come un giudice il quale, dopo aver  sentito le ragioni dell’una e dell’altra parte contendente,  pronuncia una sentenza arbitraria dimenticando le ra-  gioni invocate dalle due parti? Una sentenza di tal fatta  è cieca ed iniqua nella stessa maniera che l’operare senza  motivi non è d'uomo ragionevole, ma folle e pazzo. Il  motivo però, come causa d'azione, non è differente da  tutte le altre cause del mondo fisico, vale a dire non è  un tale antecedente che costringa ad essere il conseguente    I Vedi il fine della parte 2. di questo lavoro.       DI JOHN STUART MILL I    tw  2 09    in una maniera irresistibile; non esercita insomma sul  conseguente una coazione di tal fatta che, posto l’uno, si  debba porre di necessità l° altro. Il motivo agisce sulla  volizione, ma non la determina di necessità; noi non  siamo sforzati ad obbedire a un motivo particolare,  anzi sentiamo che se lo desiderassimo abbiamo il potere  di resistere al motivo !; il costringimeuto necessario €  irresistibile che, secondo alcuni, il motivo esercita sulla  volizione, è respinto dalla coscienza e rivolta i rfostri  sentimenti?. Due cose adunque sono notevoli nelle azioni  degli uomini, i motivi c la volontà; la volontà non si  induce mai ad operare senza motivo; ma non per questo  il motivo ha tal forza da soggiogarla affatto e da ridurla  :n condizione di non potere resistergli, se occorra: due  forze si agitano nell'anima degli uomini, l’una cieca €  ‘incosciente il motivo, l’altra intelligente e cosciente, la  volontà; la quale ultima lascia agire su lei la prima e  talora la mette in opera essa stessa per uno scopo de-  terminato ?.   Questa dottrina che fa, per così dire, capolino dalle  frequenti professioni di fede deterministica che fa il  Mill, e .che forse gli è sfuggita contro il suo stesso volere,  è la parte sana e vera del suo sistema. Soltanto questa  dottrina è conforme al punto di vista a cui egli s' è  messo, o non è piuttosto in perfetta contraddizione con  esso, e non -si deve quindi considerare come una specie  d’intruso che, entrato a forza nella casa del Mill, vi ri-  mane, pure ad onta della gran voglia del padrone di  liberarsene? E in realtà quella specie di potere autonomo    1 Logique ecc, vol. 2. p. 420. Vedi la parte 2. di questo lavoro.   2 Logique ecc. vol. 2. p. 420.   5 Philosophie de Hamilton, p. 571. € Sarà giusto mettere in opera  dei motivi che ci necessiteranno a fare i nostri sforzi eco. »       rea BI, de A i OO Ln N ENI  A cati pere       124 DEI DETERMINISMO    che, secondo quanto abbiamo esposto precedentemente,  pur attraverso a una quantità di dubbii e di contrad-  dizioni, pare "le Stuart Mill voglia concedere alla vo-  lontà, svanisce là dove parlando della volontà come  causa, la considera nè più nè meno che una causa feno-  menica, un antecedente a cui tien dietro invariabilmente  un conseguente, non già un antecedente che produca,  che efficiat, per dirlo alla latina, il conseguente, una  causa nel senso in cui si dice che i fenomeni fisici sono  causa gli uni degli altri, nel senso in cui il freddo è  causa del ghiaccio e la scintilla dell’ esplosione della  polvere, una causa cieca e meccanica insomma !. Si po-  trebbe domandare a questo punto come avvenga che  una causa cieca e meccanica possa mettere in opera dei  motivi e resistere ai motivi, se occorra, come pure il  Mill afferma in altro luogo; ma è una delle solite con-  traddizioni del Mill, di cui non terremo conto.  Evidentemente la dottrina per cui la volontà è con-  siderata come causa fenomenica, come uno stato di  spirito a cui tien dietro un certo movimento delle nostre  membra conforme ad esso *, e null'altro, è intimamente  connessa coll’altra dottrina, per cui il Mill considera  lo spirito come una serie di stati di coscienza, come  una possibilità permanente di sentimenti e nulla più,  senza preoccuparsi se ci sia qualche cosa d’uno e di  identico a cui questi stati di coscienza e questi senti-  menti si riferiscano, se ci sia un substratum che serv  loro di sostegno?. Nell’una e nell’altra teoria è l’em-  pirismo, il fenomenismo puro che prevale: in noi c'è  una serie di fenomeni che si succedono e si connettono    a    ! Logique ecc. vol. 1. p. 393.  2 Logique ecc. vol. 1. p. 393.  Philosophie de Hamilton, p. 227 e seg.    (2)          DI JOHN STUART MILI. 125    insieme con cert ordine e regolarità; uno di questi fe-  nomeni è la volizione; un altro l’azione che le tien dietro:  si dice volgarmente che l'uno è causa dell'altro; ma in  realtà sono due fenomeni campati in aria, la cui pro-  duzione è dovuta a nessuno, che non hanno altro legame  fra loro che quello d’ una successione uniforme, e che  insieme cogli altri contribuiscono a formare quella serie  di stati interni che dicesi spirito. Come si vede, con una  simile dottrina la personalità umana sparisce e non si  capisce come l' uomo possa dir suoi i varii fatti che  succedono dentro di lui.   Insomma e per concludere, ci pare di poter dire che  nel sistema deterministico del Mill ci sono come due  correnti opposte, che vorrebbero confondersi, sparire  l'una nell'altra, ma che mai non ci riescono; luna per  cui l’autore è indotto a concedere all'uomo una per-  sonalità purchessia, e lo fa in qualche maniera padrone  de’ suoi atti fornendolo «d'una certa libertà; l’altra per  cui questa personalità gli è negata aflatto, e il suo spirito  si riduce a una serie di stati di coscienza e di sentimenti  e a nulla più, e le sue azioni si fanno dipendere da mo-  tivi che non sono lui e che non sono posti da lui. Poteva  il Mill far procedere insieme e confuse l'una nell'altra  queste due correnti di natura così opposta, anche ado-  perando la forza e la violenza? Non lo poteva sicuramente ;  e di qui la ragione per cui il suo sistema s' avvolge in  tante e così aperte contraddizioni. L' abbiamo detto fin  dapprincipio; noi amiamo le posizioni chiare e nette, e  avremmo preferito nel Mill un determinismo veramente  determinismo, un determinismo conseguente a se stesso  fino alla fine, a un sistema che.non è determinismo, nè  libertà, ma che tiene dell'uno e dell'altra. Il Mill per tal  modo non è riuscito ad accontentare nè i veri deter-  ministi, nè i veri sostenitori della libertà; la migliore       126 DEL DETERMINISMO    posizione non era in questo caso quella di mezzo. ln ogni  modo è notevole, e merita che se ne tenga il massimo  conto, il tentativo fatto da uno dei più grandi filosofi po-  sitivisti contemporanei, di accostarsi più e più alle vedute  della scuola contraria, e di prendere da essa quello che  ha di buono e di vero, e d’innestarlo sul grand’ albero  del positivismo. E di buon augurio che le due scuole  s'accostino e si studiino a vicenda; lo spirito d' esclusione  e di sistema non può che nuocere agli interessi della  scienza.    e    n Pat eran    SRP e    .    FA                Succede delle dottrine e degli studii quello stesso  che d’ogni altra istituzione e costumanza; in voga e in  fiore in un certo periodo di tempo, vengono poi, in un  periodo successivo, trascurati e quasi dimenticati; anzi  talora è tanto maggiore la trascuranza e la dimenticanza,  quanto era prima più grande la stima e il favore in cui  erano tenuti dall’ universale.   Oggidì è invalso il vezzo di pigliarsela con qualsiasi  speculazione, anzi con qualsiasi idea addirittura, Il fatto,  ecco quello di cui devesi occupare lo scienziato che sia  degno di questo nome; l’esperienza, ecco il metodo che  egli deve adoperare; tutto il resto è fantasia di cervelli  ammalati, è metafisica. L° idea dev’ essere bandita da qua- |  lunque parte; dalla scienza, dall'arte, dalla vita pratica.   Giovani egregi, comprendo perfettamente la reazione  a quell’ idealismo assoluto che pretende foggiare l’ uni-  verso a suo modo, e serrarne € disserrarne le porte colla  sola chiave dell'idea; comprendo la guerra a quelle im-  mani costruzioni a priori, che se fanno testimonianza  dell'ingegno e del genio di chi le ha fatte, non hanno  però colla realtà alcun rapporto, e sono, come i castelli    G. ZUCCANTE 9       FATTI E IDEE    incantati dell’ Ariosto, campate nell'aria; ma non com-   prendo questo bando totale dell'idea, questo dominio   ssclusivo ed assoluto del fatto, quasi che tra fatto e idea   vi fosse dualismo inconciliabile, e dove è l'uno non po-   tesse star l’altra, e lo spirito umano fosse perpetuamente   dannato o a rinchiudersi nelle angustie e nelle strettoie   dei fatti, o a spaziare nei campi dell'ideale, senza mai,   nel primo caso, aspirare a qualche cosa di più alto, e, nel  secondo, scendere terra terra e trovarsi a contatto della   realtà vera.   Seguace di quel metodo critico che, iniziato dal Kant,  ha oggi in Germania, in Francia e anche in Italia illustri  rappresentanti, io non sono nè positivista, nè idealista;  non voglio il dominio esclusivo dei fatti, nè quello esclu-  sivo delle idee; credo che e nella scienza e nell'arte e  nella vita i fatti come le idee non siano che un aspetto  della realtà: la realtà nella sua interezza sta nella fusione  dei due elementi.   E in verità, per incominciare dalla scienza, i fatti ba-  stano da soli a costituire la scienza? Ecco l’ esagerazione  in cui cadono i sostenitori dei fatti e dell'esperienza ad  ogni costo. L'esperienza pura e semplice, i puri e nudi  fatti non bastano. Anche il più rigido positivista è co-  stretto a cercarne una spiegazione, e per ciò stesso li  vaglia, li interpreta e a suo modo li trasforma, E questo  lavoro di trasformazione, checchè se ne dica, non è pos-  sibile senza una luce che illumini i fatti, senza uno spirito  che li vivifichi, senza un elemento subbiettivo e specu-  lativo che domini e diriga l'indagine empirica. Il Kant  aveva ragione quando diceva che l'indagine speculativa  deve portare innanzi all'indagine empirica la fiaccola che  illumina (die leuchtende fackel vortragen); e il Bruno”  egualmente quando diceva che «a chi cerca il vero, bi-  sogna montar sopra la regione di cose corporee ». N          FATTI E IDEE 131    PASSI RR REIT III III O    Provatevi, ad esempio, a costruire la storia della  umanità coi semplici e nudi fatti, colla semplice e nuda  esperienza. Che cosa-ne uscirà? Nient'altro che un ca-  talogo e una cronaca, senza nesso € legame interiore,  senza ordinamento e organamento di sorta, scheletro  nudo a cui mancano le polpe ed i nervi ed i muscoli.  Date anima invece a questa materia morta, penetrate lo  spirito che v'è dentro, e di sotto alle varie accidentalità  strane e bizzarre sotto cui vi si presentano i fatti, affer-  rate quello che hanno di sostanziale, di sotto al mutabile  e al transeunte l’immutabile e il durevole, di sotto a  quello che è vero soltanto in un punto del tempo e  dello spazio, quello che è vero sempre senza limiti di  tempo e di spazio; e avrete la storia vera e propria, coi  suoi nessi di causa ed effetto, colle sue leggi, colle sue  idealità ; la storia scientifica, risultante insieme di fatti  e di idee, di realtà e di pensiero. Il semplice pramma-  tismo non vale a farci comprendere la vita storica della  umanità. I fatti sono come la tela che non si può con-  cepire senza una trama precedente di idee e di principii;  sono come un processo, uno svolgimento, che non si  può concepire senza qualche cosa che sì svolga.   E non soltanto questo avviene nella storia, ma nelle  scienze stesse naturali, dove pure l'osservazione e l’espe-  rienza sono come al loro posto. Anche la natura ha  una vita sua propria, uno spirito che la vivifica, leggi e  principii, un contenuto interiore ideale, che va svolgen-  dosi nei fatti e coi fatti, e che bisogna ricercare néi fatti.   Quei naturalisti che ostentano un superbo fastidio  della speculazione filosofica, e vanno gridando fatti, fatti,  esperienza, esperienza, dimenticano troppo facilmente    che il fondatore del metodo sperimentale, Galilei, racco-,    mandava non si dovesse mai disgiungere l’idea razionale  dalla ricerca del fatto; dimenticano che oggidì i più    ode Ydonkt ii,          FATTI E IDEE    grandi scienziati forestieri sono anche insigni filosofi;  bastino per tutti i nomi dell’ Helmholtz, “del Dubois-  Reymond, del Wundt e di quello Spencer, che io chia-  merei il Metafisico del naturalismo, per mostrare non  essere inconciliabili i concetti espressi dai due nomi;  dimenticano finalmente che nella stessa vostra Torino  una schiera animosa di scienziati, con a capo l’ illustre  Morselli, propugna con ardore l'unione della scienza  colla filosofia, dell'indagine empirica colla speculazione  filosofica !.   Attendete un po’, egregi giovani; tutte le ipotesi  con cui si cerca di penetrare « Sue enorme mister    t]    { Vedi specialmente La filosofia monistica in Italia, nella Ri-  vista di filosofia scientifica, vol. 6, anno 1887, dove il Morselli com-  batte strenuamente per la vittoria del metodo sper imentale e la definitiva  congiunzione della fi ilosofia e della scienza anche in Italia, p.   « La scienza, scrive il Morselli nell'articolo accennato, non i  essere una nuda e povera raccolta di fatti senza nesso logico e senza  valore concettuale; sono le idee.... e non i fatti che costituiscono l'edi-  ficio armonico del sapere.... Due soli ‘scopi ha il sapere: da conoscenza  ben diretta ed ordinata dei fenomeni, ossia la coltura; e l'applicazione  di questa conoscenza al soddisfacimento dei bisogni umani, ossia l'utile  sociale. Restringere il sapere a questo solo secondo scopo sarebbe av-  vilire la ragione umana e trasformare la ricerca scientifica in mestiere  professionale», p.3.5- E ancora: « Scienza e filosofia, secondo noi, conti-  nuano e passano insensibilmente l' una nell'altra: esse sono due aspetti,  non opposti, neppur paralleli, ma successivi dell'umano pensiero, che.  incomincia dall'osservazione e dall’ esperimento e assorge te; sa loro  mezzo, al concetto generale, alla teoria ed all'ipotesi », p.   Un valoroso propugnatore dell’unione della scienza I filosofia  ca anche Camillo De Meis. Vedasi specialmente il suo discorso i inaugura  per l' ‘apertura degli studi nell’ Università di Bologna nell’anno 1886,  che ha per titolo: Darwin e la scienza moderna.          FATTI E IDEL 133    dell’ universo », a cominciare da quella sovrana dell’ evo-  luzione, si può sostenere sul serio che siano un semplice  risultato dell’osservazione; o non l’oltrepassano invece  di gran lunga? Le stesse leggi fondate esclusivamente  sull'esperienza e sui fatti e risultato genuino di essi, s  non comprendono in sc, a rigore, un elemento che li Wfnassedaulo mette tai  trascende? L'essere del fatto non si esaurisce tutto |  Ta . . DUI  quanto nel suo eterno Hluire; la varietà, la molteplicità  meccanica dei fatti accenna alla persistenza e all'unità  vivente della legge, dell'idea in cui si muovono; e questa  legge, e quest idea è la nostra mente che la scopre.  Adunque che si parli di esperienza e di fatti sta  bene: noi pure vogliamo l’esperienza ed i fatti, e siamo  persuasi che al di fuori di questi non vi sia salute.  Ma non si creda che quando si è detto esperienza e fatti,  si abbia detto tutto: l’esperienza e il fatto è il ma-  teriale greggio, che la nostra mente divino artefice,  vivifica e trasforma nella statua sublime di Fidia. Espe- Esputeura  tienza e speculazione si diano quindi la mano © si Veeete fe  conciliimo; non esperienza sola, nè speculazione sola:  la prima, scompagnata dalla seconda, fa degli uomini Ter pi (Cos)  che non vedono un palmo più in là del loro nasoj  Segnaferi  la seconda, scompagnata dalla prima, dei sognatori € È  nient'altro che sognatori. i  Intanto però gran parte degli scienziati italiani, ©  anche i più dotti, anche quelli che largamente contri-  buiscono col loro ingegno e colle loro scoperte all’a-  vanzamento del sapere, rifuggono d’ordinario da ogni  questione generale, da ogni questione che accenni ap- n  pena-a sollevarsi dalla cerchia dei fatti; e s' attengono î  di proposito al più rigido ed esclusivo sperimentalismo a  meccanico. Le discipline “scientifiche che non si propon= i  gano ad oggetto fatti palpabili e materiali, sono per lo  meno loro sospette: la psicologia, l' etica, la logica, la             134: FATTI E IDEE    sociologia, la biologia generale sono metafisica larvata,  roba da lasciare che se ne occupi chi ha del tempo da  perdere. È una condizione di cose, che se può essere spic-  gata coll’avversione che inspira naturalmente una filosofia  fantastica, subbiettiva, nemica dell’ esperienza, quale  regnò gran tempo in Italia, non cessa di essere deplo-    revole; perocchè, per questa via, si rendono impossibili  le sintesi alte e geniali, onde sono così altamente cele-    brati gli scienziati forestieri, e viene di moda un posi-  tivismo empirico e grossolano « che finisce coll’ essere   « L’ Idealismo può essere vuoto, osserva con acutezza  il Fiorentino, di cui mi piace riportar qui la splendida  pagina ?, il Positivismo può essere cieco, se scompagnati  l’uno dall'altro, secondo il giudizio che Kant portava del  puro concetto e della nuda intuizione. Un'idea la quale  non si verifichi, e non trovi riscontro nei fatti, non è  un'idea, ma una fantasticheria: un fatto, il quale non s'in-  cardini in un'idea, non esprima una ragione, non dia  indizio di una legge, non serve assolutamente a nulla,  e stando anche ai dettami più rigidi del Positivismo, è  condannevole perchè inutile. Ciò che irradia il fatto è  l’idea che vi splende dentro, che lo solleva dalla sfera    1 Morsetti, La filosofia monistica in Italia, p. 34. L'Italia, scrive  il Morselli, non ha nessuna di quelle individualità eminenti, « che  passano dall'esame sperimentale dei fatti alle più alte e generali con-  siderazioni sintetiche; noi non possediamo nessuno scienziato pensatore  da porre accanto ad Helmholtz, Virchow, Meyer, Dubois - Reymond,  Lyell, CI. Bernard, Wundt, Ch. Darwin, Mandsley, Haeckel, W. Ton  son, Crookes, Wallace, Draper, Berthelot, Hirn e altrettali illustrazioni  della filosofia scientifica nel resto del mondo civile », P:035:   2 FioRENTINO, Positivismo e Idealismo nel Giornale napole-  tano di filosofia e lettere ccc., fascicolo del febbraio 1876, p. 102-103.          FATUVI E IDEE 135    del mero accidente a quella della realtà durevole. Quante  lampade non erano oscillate al mondo, prima di quella  che nel Duomo di Pisa colpì l’attenzione del giovane  Galilei! Chi se n'era accorto? Chi se n'era ricordato?  Chi se n'era giovato? Ed a che era servita quella oscil-  lazione prima che il grande pisano non ne cavasse le  leggi del pendolo? L’affettato disdegno per le idee, la  più affettata curiosità di fatti slegati, affastellati in im-  mani congerie, senza lume ideale, senza quel riposto    riscontro, ch'è la parte divinatrice e geniale del metodo:    induttivo, potrà far maravigliare gli sciocchi, ma non  soddisferà certo la mente degli uomini assennati, Oggidi  intanto ai costruttori instancabili di sistemi son sotten-  trati i compilatori instancabili di cataloghi: prima ci sof-  focavano le deduzioni da un presupposto qualunque, ora  ci annoiano a morte i registratori di varietà e di aneddoti.  Qui è l’ugna d'una scimia, 0 la coda d'un pesce, o la  forma d’un utensile preistorico, che tiene il posto delle  risibili argomentazioni, con cui il Cremonini combatteva  il Galilei, e dava ragione ad Aristotele. In me risvegliano  lo stesso senso di fastidio e quelli che credono di spiegar  tutto con la portentosa fecondità dell'idea, e gli altri, che  stimano di aver in pugno la chiave che disserra ogni na-  scondiglio della natura e dello spirito, solo perchè hanno  fatto incetta e registro di curiosità e di aneddoti ».  Giovani egregi, non vorrei essere franteso e si cre-  desse per avventura ch'io non avessi nella debita con-.  siderazione quei raccoglitori pazienti e diligenti di fatti,  di cui abbonda: quasi ogni ramo: del sapere. To so bene  che l'errore nella sintesi dipende in gran parte da analisi  affrettate c insufficienti, e quindi non è mai raccomandata  abbastanza la pazienza e la diligenza nella raccolta dei  ‘ materiali su cui la sintesi possa essere costruita. Ma si?  modus in rebusi la pazienza e' la diligenza non deve       = eye cir i  Spi ant ardita cata          136 FATTI E IDEE    mai degenerare in pedanteria: le analisi minuziose, pe-  dantesche, le analisi che si estendono a fatti di nessuna  importanza, talvolta puerili, praticate più spesso per sod-  disfare una vana curiosità che l’amore vero del sapere.  le analisi grette senza lume superiore che le guidi, an-  zichè utili, sono perniciose alla scienza.   C° è in Germania una strana tendenza ad andare in  cerca di tutte le minuzie più insignificanti, e le riviste  vi consacrano le loro Mischellen, e talora perfino, le due  Philologische Wochenschriften di Berlino per esempio,  danno loro il posto precipuo. Il sapere in pillole, in  frammenti, a bocconcini, perchè non riesca indigesto a  chi l’ ingoia, non è solo la tendenza di pochi spiriti an-  gusti di Germania: nel nostro paese si fa altrettanto;  e non c'è niente di più esiziale: la scienza è sistema di  verità fortemente e indissolubilmente unite, e chi mira  comecchessia a rompere questa unità, mira con ciò stesso  a distruggere la scienza.    II    Ed ora dalla scienza permettetemi, o giovani, ch'io  scenda, o salga, a vostro piacimento, in un mondo meno    severo, più ameno, più accessibile ai più, il mondo del--    l’arte, dove l’idea pare come a suo posto, e più frequenti  e meno lamentati gli strappi alla realtà.  Si discute e s'è discusso a lungo intorno al fine  È) . î j = DEC  dell’arte: chi le diede per fine il buono, chi il vero, chi    un fine patriottico, chi un fine religioso: pochi pensarono.    al nome, ricco di significazione profonda, che diedero    gli antichi alle arti belle. Gli antichi le chiamavano artes    ERA N AR    &       SIM    rey deiia de    RE OT RR VIZI NO RA TT A Sg TIT PE I CR POT:    Erri    è    Le for det VU de è -    e     Kantiana, l’azzività unitiva dello spirito e 2£    È condo cui si svolge; sebbene quest attività e queste  me leggi non entrino in gioco qualora la sensazione non |  ur. fornisca il molteplice che si deve raccogliere e unifi- È.  Bi; care. In questo sta la vera interpretazione del preteso 3  *& innatismo Kantiano, e i più autorevoli interpreti del ue  e. Kant, l' Erdmann, il Cohen, il Riehl, lo Spaventa, sono Di  o di quest'avviso!.  S Inteso così l'a priori del Kant, si può vedere facil-  da mente come tutta la psicologia tedesca moderna, la  d nativistica non meno che la genetica, anzi la genetica   con più diritto della nativistica, si riconnetta alla dottrina  n° del filosofo di Kunisberg. E  è 2, Ho detto la genelica con più diritto della nazivistica; SY  “SR perocchè, se non si può negare che la dottrina Kantiana  pi esercitasse storicamente una larga influenza sul nazivismo =  fisiologico di Giovanni Muller, dell’ Hering e dello È  Stumpf, gli è certo però che quest influenza era dovuta 2  a un’inesatta interpretazione dell’ a priori Kantiano.  Infatti, per quanto riguarda la questione dello spazio, i  nativisti, al dire dell’ Hemholtz, « attribuiscono la loca-  lizzazione delle impressioni nel campo della visione ad  una disposizione innata, sia che l’anima abbia una co-  noscenza diretta delle dimensioni della retina, sia che  l’ eccitazione delle fibre nervose dia luogo a certe rap-  presentazioni di spazio mercè un meccanismo prestabi-  lito ». Quindi non tengono conto dello sviluppo degli  atti psichici necessario alla formazione della nozione di    L n    1 Vedi il bell’ articolo del Chiappelli, di cui abbiamo fatto Sh  nostro pro, « Aant e la Psicologia contemporanea » nel Giornale  napoletano di Filosofia e Lettere ecc. anno Il. vol. IV., specialmente Ss ;   ‘pag: 208-209; fascicolo del novembre 18$0. "el e            NELL EMPIRISMO CONTEMPORANEO 161    spazio; la nozione di spazio non è per loro un prodotto  dell’ esperienza, è anteriore all'esperienza; tutte le sen-  sazioni sono necessariamente sottoposte alla nozione di  spazio per modo che non è possibile concepirne una sola    ‘che ne sia fuori; lo spazio deve preesistere alla singola    sensazione, e la localizzazione di questa dev’ essere l'effetto  d'un’ intuizione immediata!. Qui abbiamo l’innatismo  nel più largo senso della parola; che però è da credere  non Soffre al vero spirito della filosofia Kantiana, la  quale presuppone e richiede lo sviluppo fisio-psicologico  della rappresentazione di spazio *.   La scuola genetica per contrario sostiene che la no-  zione di spazio si acquista appunto per uno svolgimento  fisio-psicologico, per un lento processo, di associazione  di singole sensazioni; sebbene questo processo non sia  un semplice risultato dell’esperienza, non sia un’ pro-  cesso puramente meccanico, bensì abbia luogo in forza  di un principio dinamico, d’ un' attività sintetica che  segue nel suo svolgimento certe leggi. La scuola genetica  riconosce che « non è possibile porre in serie diverse  sensazioni, e più ancora associare le serie delle sensa-  zioni tattili e visive coi sentimenti muscolari e d’inner-    vazione, senza una funzione dello spirito che elabori i    dati. sperimentali »3. Qui c’ è evidentemente l° influenza  della dottrina Kantiana dell'a priori; poichè questo non  è in fondo, come s'è detto, altra cosa che l’attività sin-  tetica dello spirito che s'applica al materiale offerto dalla    esperienza.    1 Cfr. Tarantino « Kant e la Filosofia contemporanea » nel  Giornale napoletano di Filosofia e Lettere ecc. anno II, vol. III, fa-  scicolo del luglio 1880, p. 434 È   2 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 91. è   5 Chiappelli artic. cit. p. 210,    G. ZUCCANTE    n Ri    4  Mai i ‘€    val atoitcalii       Per fermarmi soltanto ai principali rappresentanti  della scuola genetica, il Lotze!, di cui è celebre la teoria  dei segni locali, riconoscendo la necessità che lo spirito  trasformi i dati intensivi dell'esperienza in dati estensivi  per avere la serie spaziale, riconosce con ciò stesso una  attività trasformatrice nello spirito; e s'incontra perciò  colla priori del Kant. Lo stesso Helmholtz, il più reciso  rappresentante della teoria genetica, subisce l'influenza  Kantiana; perocchè nella questione, che abbiamo tra  mano, dello spazio, avendo messo in rilievo la grande  importanza che hanno per la formazione della nozione  di spazio i movimenti muscolari, riconosce di a priori  in noi appunto la capacità originaria di produrre e di  sentire il movimento; nel che, secondo lui, sta l’ accordo  delle scienze naturali col Kant ®. Ma nella sua teorica  della ‘percezione egli s’ accosta anche di più al filosofo  di Kunisberg; poichè essendo le sensazioni, nel suo con-  cetto, nient’ altro che segni che bisogna interpretare 3, si  richiede per ciò stesso un’ attività primigenia che inter-  preti; e siccome questi segni non sono vuote apparenze  (leerer Schein), ma effetti d'una causa esteriore ignota  a cui si riferiscono, ne segue che il lavoro d’interpreta-  zione e di obbiettivazione è un ragionamento incosciente    i Veramente nel Lotze, più che un rappresentante della scuola    genetica, si dovrebbe vedere l'anello di congiunzione tra la scuola na-  tivistica e la genetica. Infatti è bensì vero che per lui la nozione di  spazio non è innata, ed è necessario un lavorio mentale per averla,  ma contemporaneamente i segni locali sono un vero e proprio mec-  canismo preformato. Cfr. Ribot, Psychologie allemande.   2 Helmholtz, Die Thatsachen in der Wahrnehmung. Berlin, 1879,      ta) f       TOO IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    dunanenazenaa neenianaze sanare sa rinenianesaenin isa sanasisaodioianieneninizanasenete resa sizaeizazzaneo  uunnizieazerazenizzenianisnananoniceaze dananieaniza n manina za sanana sa neriaranieazenia tea vanenressdeeta    che i Nuovi Critici ritraggono dai progressi notevoli  delle scienze sperimentali, e specialmente della fisiologia,  vantaggi che il Kant non poteva avere, e che dissentono  da lui nel determinare la natura e la quantità dell’ ele-  mento a priori, presente in ogni conoscenza; si allon-  tanano da lui sovratutto nel modo da proporsi e di  risolvere il problema gnoseologico. Il Kant più che l’ori-  gine della conoscenza tendeva a determinarne il valore,  più che il fatto e il possesso, la legittimità; quindi am-  mettendo che l'elemento a priori dirige l’esperienza e  ne è la legge, non prese a esaminare in che senso si  possa dir tale, e come avvenga che non apparisce sempre  e in tutto il processo della umana conoscenza, ma solo  nel pensiero già adulto; e se l’esperienza contribuisca  a svolgerlo e a determinarlo. In altre parole il Kant  trascuro di ricercare l'origine dell'a priori, non accor-  gendosi che pure questa ricerca psicologica era condi-  zione indispensabile a porre ne’ suoi veri termini ea  risolvere il problema della conoscenza. Quello che il  Kant non ha fatto fecero i Nuovi Critici; e sta qui, nella  risoluzione del problema psicologico come sussidiario del    problema della conoscenza, la novità del Neo-Criticismo  e il suo merito più grande.    IV.    Contrariamente all’empirismo tedesco, l’ empirismo  inglese nella spiegazione della conoscenza trascura ogni  elemento formale, a priori, e tutto fa derivare dalla nuda  esperienza. Osserva con molta acutezza il Chiappelli!    1 Kant e la Psicologia contemp. nel Giornale nap. cit. p. 218.    ET CI TRA       Tome ui è    =    NELL'EMPIRISMO CONTEMPORANEO 251.07    che la vecchia metafisica e il moderno empirismo in-   glese riescono per opposte vie a spogliare lo spirito   della sua originale energia; poichè quella lo riduce a î  una semplice capacità di accogliere in qualche modo le -   idee assolute che gli si presentano, ma che esso non   produce; e questo lo considera come un rispecchiamento   delle relazioni esteriori, come un risultato dell’ o    rienza. Se empirismo pglese ia Der_così  uniti ll meccanismo, uni-    a che dalle forme più basse della sensazione fa  uscire per via di semplice’ associazione quantitativa le  ivi i Per lo Spencer,  per esempio, lo spirito ben lungi dall'essere un’ attività  originale, un principio dinamico, si risolve in un gruppo   di attività operanti meccanicamente in una continua 4  associazione e dissociazione di stati ora più deboli ora  più forti, in un continuo adattamento di relazioni interne  a relazioni esterne! Donde una gravissima difficoltà a  spiegare l'associazione delle singole sensazioni, e delle  serie diverse in cui si dispongono. L'ordine delle sensa-  zioni, l'associazione delle sensazioni, il loro disporsi in  serie, non è una sensazione, ma un rapporto di sensa-  zioni: ora donde viene questo rapporto ? « Perchè ci sia  ordinamento, nota giustamente il Chiappelli®, conviene  che ciascuna sensazione sia tenuta distinta dalle altre, e  nello stesso tempo unita, altrimenti si fonderebbero in  un’ unica sensazione, come avviene delle sensazioni udi-  tive, olfattive e saporose. E come poi potrebbe avvenire  l'associazione delle serie tattili e visive coi sentimenti  muscolari per formare la serie spaziale, senza un’ attività  sintetica a priori »?               4 Cfr. Spencer, Principes de Psychologie, passim.  2 Kant e la Psicologia contemp. nel Giornale nap. cit, p. 219-220.          :    Ai)       i Dall E    168 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    L’ ipotesi dell’ evoluzione e la teoria dell’ eredità, in-  trodotta dallo Spencer nella Psicologia inglese, le hanno  aperto un nuovo orizzonte e corretto in gran parte la  sua aridità. Ma per quanto corretta e allargata, l’ ele-  mento dinamico le manca pur sempre, le manca l’attività,  la spontaneità originaria.   Osserva il Tarantino! che « se v'ha una scuola  che non possa non riconoscere nella psiche umana una  attività propria ed originaria, questa è l'evoluzionista.  Dappoichè per essa la conoscenza non è puro asso-  ciagronismo, non è mera composizione e ricomposizione  di clementi semplici, ma è un processo evolutivo per  cui nei gradi superiori della conoscenza non s'ha sola-  mente la somma degli elementi semplici forniti dai gradi  inferiori, ma qualche cosa di nuovo, un nuovo prodotto,  una nuova funzione ». Ma questa, come nota anche il  Chiappelli, non è un’ esposizione ed interpretazione ob-  biettiva ed esatta della dottrina dello Spencer; è un ap-  prezzamento subbiettivo, una critica di essa; critica  giusta e finissima, ma esposizione sbagliata. Ognuno  infatti ricorda la dottrina dello Spencer che riguarda  l'intelligenza e la volontà. Gli stati superiori dell’ intel-  ligenza differiscono dagli inferior  complessità, non già per un'attività più alta che vi si'  riveli; e la volontà dove, più che in qualunque altro  fatto dello spirito, dovrebbe apparire un’ attività primi-  genia, è quello stato di coscienza per cui « dopo aver  ricevuto un’ impressione complessa, i fenomeni di movi-  mento APPTOPrIAtO nascono, ma non Possono passare  all’azione immediata, a causa dell’antagonismo di certi  altri fenomeni di movimento, egualmente nascenti, e    appropriati a qualche impressione intimamente unita    i solo per una maggiore    1 Saggi filosofici, p. 109-1 10, Napoli, Morano, 1885:                  Asi DI o    dii rn       Vsrresvanorizsanereseeriecenzer ee idbLEzsco ca cdene erapas pa Leno ana OSTSCIN TORCE  PUITELATA TETI ta ars ter aonesionarasasacseeoree    alla precedente »; sicchè, solo dopo un certo intervallo  apprezzabile, un movimento, il prevalente, finisce col  tradursi in azione!. Evidentemente qui la volontà non  differisce dall'azione riflessa che per maggiore comples-  sità. Nell’ azione riflessa c'è un'impressione a cui tien  dietro una contrazione muscolare; nella volontà c' è an-  cora una impressione, a cui però corrispondono più  gruppi di contrazioni, che, non potendosi tutti quanti  tradurre in movimenti reali, si contrastano a vicenda,  finchè uno non riesca a trionfare degli altri. Il mecca-  nismo e l'assenza d’ogni concetto dinamico della psiche  non potevano avere una più completa espressione. Molto  opportunamente perciò il Bonatelli in un capitolo del  suo libro dottissimo e profondo Discussioni gnuoseolo-  giche e Note critiche, intitolato argutamente una pe- i  Tazio cis 0 yévos mostra avere lo Spencer cancellato  ogni differenza essenziale tra i fatti inorganici e j psi-  chici, e aver ridotto Ja vita psichica a un semplice ri-  flesso di relazioni esteriori. Certo le relazioni interne  della coscienza e dell'organismo, anche nello Spencer,  non ripetono le relazioni esteriori semplicemente, senza  modificazioni e trasformazioni. Ma queste trasformazioni  si producono meccanicamente, da se, senza una vera €  propria attività, da cui derivino: e perciò lo spirito del  criticismo Kantiano è ben lontano .dal filosofo inglese.  Si potrebbe osservare però che l’ a priori biologico  della scuola inglese ha tutti i caratteri dell'a prior:  formale e trascendente del Kant, che anzi non è altro x ©  che la traduzione di esso in linguaggio fisiologico e bio- A  logico. Il Tarantino nell'articolo già citato c pol in un  altro Kant e Spencer, che fu, insieme col primo, raccolto  nei suoi Saggi filosofici, sostiene apertamente questa    1 H. Spencer, Principes de Psychologie, part. 4 cap. IX.       1% 170 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    tesi: sicchè per lui l'influenza del Kant sulla scuola in-  - 4a glese è un fatto incontestabile; e la differenza fra l’uno  e l’altra sta solo in questo, che il primo ammette senza  sa più l’a priori, e la seconda ce ne dà la genesi e la  ps spiegazione empirica, precisamente come fa la scuola  È : tedesca!,  d Se non che il lavoro secolare accumulato e trasmesso  i; per via della eredità naturale, e per cui lo spazio ed il  tempo, per esempio, per non parlare delle altre leggi  ? del pensiero, non sono che relazioni mentali istintive  Gi rese organiche nella vita della specie, è un processo  Mico inesplicato e inesplicabile quando non si presupponga  Mi Un'attività originaria che ne sia il fondamento. Pon-  gasi pure che quello che è a priori rispetto all’in-  dividuo, sia a posteriori rispetto alla specie; pongasi  pure che l’a priori non sia trascendente, ma biologico  e storico, secondo l’espressione del Levves; ma resta             f:: sempre la domanda, a cui si dovrebbe rispondere, in   È qual modo si sia potuto formare, anche nell'evoluzione E  È. biologica, quell’associazione delle sensazioni che costi- È  ù Me tuisce la serie spaziale e la serie temporale. Bisogna in È  Ai ogni caso presupporre l’attività sintetica, l’attività asso- ;  hi | ciatrice dello spirito, che è quella appunto che non si |, |  Ss 3 vuole presupporre.       Ma alla teoria dell'a priori biologico e storico si'  potrebbero fare ‘ben altrè osservazioni. E prima di tutto  se le condizioni e le leggi dell’ esperienza sono un risultato  dell’ esperienza stessa, a cui si arrivò successivamente  per via di evoluzione e di trasmissione ereditaria, come  fu possibile l’esperienza in origine quando le sue con-  dizioni e le sue leggi non.s'erano ancora fissate nel-  l'organismo? E poi, se queste leggi e queste condizioni    ! Saggi filosofici, p. 107.          side bibite bio I OTTIENI ARTT RTRT    sono acquisti successivi della razza, sono una specie  di capitale trasmesso e accresciuto di generazione in  generazione, donde venne il primo deposito di fondi  che fu, per così dire, il nocciolo dei risparmi mano mano  ingrossantisi dell’ umanità? Si dirà che |’ intelligenza  umana è impotente a scoprirlo, per quanto lontano ri-  salga nella catena degli ascendenti? Ma in questa ma-  niera si ammette implicitamente l’esistenza di esseri che  contengono, almeno allo stato di embrione, le nozioni  che pur si vogliono derivate per evoluzione dalla sola  esperienza. Oppure si dirà che esse appariscono a un  certo grado dell’ evoluzione? Ma in questo caso ancora  esse non sono più un prodotto dell’ evoluzione ed hanno  un cominciamento assoluto. Da qualunque parte si  guardi, l'evoluzione sùppone sempre una qualche cosa  che si svolge; ec senza di questa non si può neanche  concepire. Così le leggi e le condizioni dell’ esperienza  sono bensì svolte e determinate dall'esperienza stessa e  dall’ evoluzione, ma preesistevano iù germe e all espe-  rienza e all’ evoluzione.   E posto pure che siano un semplice risultato del-  l'una e dell’ altra, donde viene la necessità e l’ univer-  salità che loro s' accompagna? Nessuna esperienza sia  individuale, sia specifica, può dare la necessità e l’uni--  versalità: la necessità e l’ universalità vengono dall’ atti-  vità sintetica dello spirito. Per quanto numerosi siano  i casi in cui da noi e dagli avi nostri s'è sperimentata  la verità d'un certo fatto, niente può garantirci che un  caso quandocchessia non si presenti a smentire quei  primi. L'esperienza si compone sempre di un numero  limitato di osservazioni; quindi, per quanto ripetuta e  . moltiplicata, non è mai sufficiente a farci concludere uni-  versalmente. Ancor meno può fornire il fondamento alla  necessità di una proposizione. « Essa può, scrive il       arsssaizianeianionaazzaniscase                               ovegcinzensenaeneio ne eosessonienanesiasarensaseaseseeozene  suesusovezeassazioaneosganaevatogasaesevetevizevesoste.    Whevvel!, osservare e notare ciò che è avvenuto, ma  non può nè in un caso qualunque, nè in un cumulo  di casi trovare una ragione per ciò che deve avvenire. È,  Essa può vedere degli oggetti l'uno accanto all’altro, >  ma non vedere perchè essi devono essere sempre così  giustaposti. Essa trova che certi avvenimenti si succe-  dono, ma la successione attuale non dà la ragione del  suo ripetersi; essa vede gli oggetti ‘esterni, ma non può  scoprire il legame interno che incatena indissolubilmente  il futuro al passato, il possibile al reale. Apprendere  una proposizione per via di esperienza e vedere ch’ essa  è necessariamente vera, sono due operazioni intellettuali  completamente differenti ».                         VV.    Anche allo Stuart Mill si possono fare in gran parte   «Je osservazioni che abbiamo fatto allo Spencer. Anche   per lo Stuart Mill infatti il problema gnoseologico è   risolto per via di esperienza e di associazione; la cono-   scenza non ha altre fonti che queste; il principio dina-   mico, il principio associatore, l’attività sintetica manca’   anche qui; e l'associazionismo meccanico, il più puro  fenomenismo spiega tutta quanta la vita dello spirito.   i Si dirà che la dottrina che riguarda lo spirito non   è e veramente così meccanica e fenomenistica nel Mill  come mostriamo di credere noi; e che în realtà il Mill,  dopo aver ammesso che lo spirito è una serie di stati    4 . ù IRA È; A x  Histoire des idées scientifiques, citato dallo Stuart Mill, Log:gue  ecc. vol, I, P. 270.       di coscienza e nulla più!, aggiunge, indottovi dal fatto 2  della memoria e dell’ aspettazione così caratteristico della   vita interiore, che questa serie conosce’ se stessa come  passata e avvenire; sicchè si deve ammettere essere lo   spirito altra cosa dalla serie stessa, quando non si voglia  accettare il paradosso che una serie conosce se stessa in  quanto serie ®. Si dirà anche ch'egli riconosce esplicita-   mente « qualche cosa di reale nel legame che unisce la  coscienza presente alla passata, reale come le sensazioni   stesse, c che non è-un puro prodotto delle leggi del i  pensiero senza nessun fatto che gli corrisponda »8; in,  altre parole ch'egli attribuisce una vera e propria realtà  al Me, allo Spirito.   Tutto questo sappiamo: ma sappiamo anche che ten-  denza manifesta e desiderio vivissimo del Mill è di spiegare  e poichè questa è da lui concepita come la. possibilità per-  manente di sensazioni senza nulla che accenni a qualche  cosa di sostanziale e di attivo, così egualmente dev’ essere  concepito lo spirito?. E se il fatto della memoria si oppone  ad una simile, concezione, se l'ipotesi della possibilità  permanente, come lo stesso Mill confessa, non. dà una  teoria sufficiente dello spirito 9; se il legame che unisce  la coscienza presente alla passata è parte indispensabile  della concezione positiva di esso 7; se insomma c'è di    "evane si ia    pa fe    1 Philosophie de Hamilton, c. XII, p. 229.    2 Ib. p. 234-235. à  5 Ib. Appendice ai cap. XI e XII, p. 250. ‘F  + Ib. Appendice cit. p. 250. Cfr. anche Zogigue écc. volume I, G  p. 66-68. , 3  3 Philosophie de Hamilton, c. XII, p. 227-229, si  0 Ib. p. 248-249. \ "E    ? Ib. p. 250.                   IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    uarnaanerioaiezenieneoneonesiz sasa na ainaonionene sica nazezianeonear esi pireriaezizeo _o__————ccascsscaecasentioneneezazeasazanianeceseo    reale nello spirito la continuità e l'identità della co-  scienza, ed esso stesso è qualche cosa di reale, è un  elemento originario che non partecipa della natura delle  cose che rispondono ai nostri nomi!; non per questo,  .e se c'è contraddizione la colpa non è nostra, lo spirito  è qualche cosa di sostanziale e di attivo. Jo non adotto,  dice il Mill esplicitamente, /a /eoria comune che ri-  guarda lo spirito come sostanza?. E in una nota alla  Analysis di suo padre scrive :« Noi-facciamo molta fatica  a credere che un essere senziente possa esistere senza la  coscienza di se medesimo. Ma questa difficoltà nasce  dall’ associazione irresistibile che, fin dalla nostra prima 3    e PEPE            fre. infanzia, si stabilisce, grazie alla memoria, tra ciascuno è  dei nostri sentimenti e la serie intera di cui fa parte, e A  conseguentemente tra ciascuno di essi e il nostro me n.3 À  SB _ Che cosa vogliono dire queste parole? Vogliono dire che  ‘A A e; il are reale e vivente che si credeva di cogliere fondan- i        dosi sulla continuità della coscienza, non è che un? il  lusione, illusione generata dall’ associazione: noi non  cogliamo in fondo che una continuità fenomenica, una  «serie di stati psichici in cui. il me si risolve. 13   D'altra parte se il me è riducibile alla memoria e  alla continuità della coscienza, dove trovare quell’ele- ©  mento permanente che è necessario a costituirlo, se pure  ‘ à è qualche cosa di sostanziale? Con molta profondità nota   S il Ferri nel suo libro mirabile La Psycholog gie de l’As-  sociation che « altra cosa è quest’ elemento permanente, e  altra cosa ciò che v' ha di non interrotto nella succes-  sione. L’uno è così poco assimilabile all’altro che il  «primo solamente possiede un'identità vera, mentre il                        I Ib. p. 250.  2 Ib. p. 249.  3 Analysis, vol. II, p. 175.           NELL' EMPIRISMO CONTEMPORANEO 175    auisreininaaene sv ionanasianeesezaniniaeeanionisesezaneeesieea azien ananeo sv agentaniarerasazesieneenasze ns caniangareraneazeeeazaazaieneoneee    secondo non ha che un’ identità nominale... E se si dice  che le funzioni della riproduzione e del riconoscimento  gli danno nella memoria una specie d°’ identità indivi-  duale, questa risposta non toglierà la difficoltà, perchè  avremo sempre la moltiplicità in luogo dell’unità, e si  domanderà sempre, collo stesso Mill, su che riposi la  credenza o il giudizio pel quale affermiamo l’ esistenza  di qualche cosa d’identico, che oltrepassa la serie dei  modi successivi e cangianti»!.   Ma lasciando questo, e ammettendo anche che il  Mill abbia assegnato una vera e propria sostanzialità  allo spirito, certo è però che questo punto di vista on-  tologico e metafisico è in lui come non fosse; e il solo  punto di vista fenomenistico ricorre in tutta la sua filo-  sofia. « Qualunque sia, scrive .il Mill ?, la natura della  esistenza reale che noi siamo costretti a riconoscere nello  spirito, esso non ci è noto che in una maniera fenome-  nica, come la serie dei suoi sentimenti o dei suoi fatti lore} [0]  di coscienza... I sentimenti o i fatti di coscienza, che 3  gli appartengono o che gli hanno appartenuto, e il suo  potere d’ averne ancora, ecco tutto ciò che si può afler-  mare del Se, i soli attributi possibili, salvo la permanenza,  che noi potremo riconoscergli. In conseguenza io adopero , _ , f €  all’occasione le parole spirilo e calena di coscienza come Spivile 2 afena  equivalenti ». NIrfawija i   Di qui segue evidentemente che di null'altro si deve  tener conto in Psicologia che dei fatti e del loro nesso  meccanico, esteriore; ogni elemento dinamico è escluso.  E perciò se la teoria materialistico-meccanica non è X  professata e.non può essere professata dal Mill, perchè %  da buon positivista deve lasciar da parte ogni questione di &    1 Pag. 102-103.  2 Philosophie de Hamilton, p. 250-251.       ,  L  _  kr       176 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    essenze; se anzi il Mill respinge decisamente il materia-  lismo d'Erasmo Darvvin!; se non ammette la dipendenza  di ciascuno stato dello spirito da uno stato corrispondente  del corpo, e riconosce nei fatti psichici delle leggi loro  proprie; in realtà però del materialismo senza volerlo  segue l'indirizzo e adotta i principii.   ‘Il Ferri nell'opera giò citata nota che lo Stuart Mill  ha modificato profondamente la teoria dell’associazione  di Giacomo Mill suo padre, aggiungendovi e reintegran-  dovi un elemento sconosciuto, l’attività dello spirito?  Pel Ferri adunque le due scuole rivali in psicologia, la  intuitiva e l’empirica, si sarebbero in fondo accordate  in un punto capitale.   Noi non siamo di quest'avviso, e ci perdoni l'illustre  filosofo se dissentiamo da lui.   Lo Stuart Mill per verità ha tutte le apparenze di  aver tenuto conto dell'attività dello spirito; egli adopera  le parole /avoro mentale, attenzione, concentrazione del-  l’ intelligenza ecc.; ma per queste egli intende sempre  una sensazione, o un'idea che, per l'interesse che suscita  in grazia del piacere che le va unito, diventa come  centro di aggruppamento della nostra vita psichica. E  perciò la sua teoria non è diversa nel fondo dalla  teoria del Condillac modificata, sviluppata e adattata  alla filosofia dell’associazione 4. Si può dire che avvenga  qui allo Stuart Mill quello che gli avviene in morale;  anche in morale adopera le parole stesse che adoperano  gli avversarii; ma la spiegazione che ne dà mostra ad    1 Logique, Vedi l'Introduzione e il cap. III, del libro V.    2 Logique, vol. II, pag. 435-437. Cfr. anche Stuart Mill, Aug.  Comte et le Positivisme, p. 63-67.    5 Psychologie de l Association, p. 95.  + Lauret, Philosophie de Stuart Mill, p. 65,       NEIL’ EMPIRISMO CONTEMPORANEO 177    evidenza che non ne accetta però il contenuto e lo  spirito.   Vedasi a conferma di ciò la teoria dell’ attenzione  quale è esposta dallo Stuart Mill in una nota importante  all’ Analysis di suo padre!.   « Avviene spesso, egli dice, che una sensazione pid-  cevole o dolorosa escluda dalla coscienza le altre sensa-  zioni meno piacevoli e meno dolorose, e impedisca il  comparire delle idee estranee allo stato mentale attuale.  In questa maniera la sensazione predominante tende a  prolungare la sua esistenza, e noi diciamo ch' essa tende  ad attirare la nostra attenzione, vale a dire che non è  facile avere, contemporaneamente alla sensazione che  riempie lo spirito e se ne impadronisce, qualsivoglia altra  sensazione od idea, ad eccezione delle idee associate che  favoriscono lo stato attuale e lo fanno continuare. Essa  è un oggetto esclusivo di coscienza, a exclusive object  of consciousness; essa diviene più intensa che non fosse,  ed esercita un'azione più decisiva sulla serie ulteriore  dei nostri pensieri. D’ altra parte ciò. che è vero delle    sensazioni è vero delle idee. L'idea oltremodo piacevole    e dolorosa s' impadronisce dell'anima nella stessa ma-  niera ed attira nella stessa maniera l’attenzione ».   Fin qui adunque non' c'è nell’attenzione indizio al-  cuno di attività; tutto è spiegato per via del piacere e  del dolore e dell’associazione. Ma, aggiunge lo Stuart  Mill, la volontà ha un potere reale sull’attenzione, ze  vvill has povver over the attention; quando l’idea non  è abbastanza piacevole per se stessa, noi possiamo con  un atto volontario arrestarci sopra un’ idea prossima che  accresca l’ interesse della prima. E qui parrebbe far ca-    polino l’ elemento attivo. Però com’ è provocato questo    4 Vol. JI, p. 372 © seg.    G. ZuccAanTE       :  à  =»  :  -    e ATL L IT.    PL       ni toto oo Pan a n  IRA nni Sg Pt ezio iste    178 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA    MNSRIEE SEDIA eo imecsessosseseseossssenseseeeneo vyosseteona ea    atto volontario e in che consiste, but hovv is this act  of vvill excited, and in yvhat does it consist? L’atto  è provocato da un motivo, dal desiderio d’un fine, cioè  d’ un piacere, o, ciò che vale lo stesso, d'una cessazione  di dolore. Sicchè se l’idea alla quale attendiamo non è  abbastanza piacevole per se stessa, la associamo ad una  idea piacevole, e il risultato è la fissazione dell'attenzione,  the result îs that the attention is fixed. Perciò sia l’idea  piacevole per se, o sia piacevole per la sua connessione  con un'altra idea, il fissarsi dell’ attenzione dipende  sempre dalla medesima legge mentale, la legge dell’ as-  sociazione, e non è il caso neppur qui di parlare di  elementi attivi.   Si può obbiettare che la spiegazione precedente è  valevole solo per i casi in cui l’ attenzione volontaria  non incontra ostacoli e non richiede alcuno sforzo. Se  invece avvenga che lo spirito si distolga da un’idca, e  sia necessario per trattenervelo un certo sforzo che costi  fatica ed esaurisca, in tal caso l’attenzione dovendo non  più soltanto essere facilitata, ma comandata, l'associazione   »;. - non può più bastare a quest'effetto, ma è necessario l’ in-  u tervento attivo della volontà. Esaminiamo la difficoltà.  5 Q La volontà anche qui è messa in azione da un mo-  n . tivo o da un desiderio. Ora il desiderio motore della  volontà è 0 il desiderio iniziale, divenuto più energico,  o un desiderio addizionale: e questo desiderio, o più  forte, 0 OTO Dasce in questa maniera. Noi non amiamo  abbastanza il fine a cui tendiamo; l’idea di questo  ANCAnOnES REGIA piacevole, o la privazione di esso  e  required. Allora alfano sì oa  desiderio, bramiamo un am 5 + ae So  nostro fine, pensiamo ch SS DIL ardente de   , P o che varrebbe meglio per noi che    *          NELL’ EMPIRISMO CONTEMPORANEO 179    nerrerisancanineseeseanaazesaenieaza sa smaenazenasaazazionenena:sontiscenacnanisna nnsononasanizesenzeteateceseeneesavanpnavnneorieceoseeeesz:    questo fine in particolare e i nostri fini in generale aves-  sero più influenza ch’ essi non hanno, sui nostri pensieri  e sulle nostre azioni. Questo sentimento dell’insufficienza  della nostra attenzione accresce il vigore delle nostre  operazioni mentali; il desiderio s'avviva e s'esalta da se  stesso; o piuttosto l’idea della debolezza del desiderio  rinforza il desiderio, e il desiderio rinforzato riesce in  fine a fissare l’ attenzione »!. 7   L'attenzione adunque, anche in questo caso, si può  in fondo ridurre all'associazione: è sempre una sensa-  zione o un'idea che, spontaneamente o per una reazione  spontanea, direttamente o indirettamente, riesce a impa-  dronirsi della coscienza, escludendone le altre e non ri-  chiamandovi che quelle che sono associate ad essa e  possono favorire il suo dominio.   Anche dall'esame del concetto di causa, come è  inteso dallo Stuart Mill, si potrebbe arrivare alla mede-  sima conclusione, ch’ egli non ha affatto reintegrato nella  teorica dell’ associazione un elemento sconosciuto ai suoi  antecessori, l’attività. La causa per lui non è efficienza,  non è energia, non è forza; essa si risolve in un legame  di prima e di poi, in una successione uniforme, incon-  dizionale e nulla più. Il potere efficiente non ci si rivela  nelle cose; l’esperienza non ci rivela che cause fenome-  niche o fisiche, non cause prime ed efficienti od onto-  logiche di checchessia ?. i   E la volontà ? La volontà è causa delle nostre azioni  nella stessa maniera, e non altrimenti, che il freddo è    + Non avendo a nostra disposizione l' Analysis siamo stati co-  stretti a riassumere la nota del Mill in gran parte colle parole stesse  del Lauret, Philosophie de Stuart Mill} p. 62-65.   2 Logique, ecc. vol. 1, p. 360. Cfr. il nostro Determinismo di  John Stuart Mill, p. 76. i    . i SAS re]       Sane %» nt. «        La    O La Pen)    nd PATATA i at une    causa del ghiaccio, e la ‘scintilla dell’ esplosione della  polvere; vale a dire, è causa fenomenica, empirica, e  non si può dire che disponga d'una forza e d'un potere  speciale; è un antecedente a cui tien dietro un conse-  guente e nulla più. « Con la metà del mondo psicologico,  dice il Mill, io non mi riconosco il potere di agire sulle  mie volizioni »%. E se la nozione di sforzo si trova nella  volizione, donde’ poi si riflette nella nozione volgare di  forza e di causa, questo sforzo non suppone l’esistenza  di un potere, d’ un'energia speciale che lo compia. Lo  sforzo non è che la sensazione muscolare di resistenza,  che noi proviamo compiendo un movimento, sia che  questa resistenza ci venga da un oggetto esterno, sia dal  semplice sfregamento e dal peso dei nostri organi di  movimento. E pura illusione subbiettiva, derivata dalla  generalizzazione e dall’astrazione che s’esercitano salla  sensazione reale di sforzo muscolare o nervoso, quella  per cui ci creiamo l'entità astratta forza, che conside-  riamo come l'intermediario necessario perchè l’antece-  dente possa agire sul conseguente, e in assenza del quale  niente potrebbe essere effettuato 3.   i E pare che tutto questo basti a mostrare che di  attività e di energia non è il caso di parlare nella filo-  sofia dello Stuart Mill; da buon positivista non dovea  egli occuparsi che di fatti, non di sostanze e di cause  operanti. i  . Dei moderni psicologi inglesi della scuola dell’espe-  rienza chi non ha trascurato ]°  l’uomo, chi non ha visto nell  meccanismo, ma anche l’inte    attività primordiale nel-  a vita interiore un puro  vento di qualche cosa di    1 Logique ecc., vol. 1,.p. 393.  2 Philosophie de Hamilton    1 Pi 354-355.  5 Ib. p. 355-357. i          NELL'EMPIRISMO CONTEMPORANEO ISI    spontaneo, di attivo, è il Bain}, E, quello che è curioso, lo  Stuart Mill che questo elemento attivo avea trascurato,  loda in un articolo consacrato a un libro del Bain”, questa  importante aggiunta, considerandola come un vero pro-  gresso della psicologia dell’ associazione. « Coloro che  hanno studiato gli scritti dei psicologi associazionisti,  dice lo Stuart Mill, hanno visto con dispiacere che,  nelle loro esposizioni analitiche, ci fosse un’ assenza  quasi totale d’elementi attivi o di spontaneità apparte-  nente allo spirito stesso...... In Francia si è spesso  citato il progresso che si fece dal Condillac al La-  romiguière; dei quali il primo faceva d' un fenomeno  passivo, la sensazione, la base del suo sistema, il sc-  condo vi sostituiva un elemento attivo, l’attenzione.  La teoria del Bain è nel medesimo rapporto colla teoria  dell’ Hartley che la teoria del Laromiguière con quella  del Condillac »3. Queste parole dello Stuart Mill provano  ch'egli stesso avea visto e compreso l' importanza del-  l’attività sintetica dello spirito nella spiegazione dei fatti  psichici; ma, deferente alle tradizioni del vecchio empi-  rismo inglese, per cui tutto è dovuto al meccanismo del-  l’esperienza, non seppe tenerne conto abbastanza nelle  sue opere,   In generale adunque possiamo dire delle due scuole  empiriche di Germania e d'Inghilterra, che l'una è la  vera erede dello spirito Kantiano e si assimila la parte  vitale della Crilica, che sta non tanto nel riconoscere  come elementi a priori le forme dell’intuizione e ‘le    1 Gfr. specialmente Les emotions et la volonte, part. II, cap. I.   2 Les Sens et l’ Intelligence. i   3 Dissertations and Discussions, t. III, p. 197 e seg. Cfr. Ribot,  Psychologie anglaise, p. 253-254, e Fouillée, Histoire de la Philo-    sophie, p. 472-473.       =    ad e telai i st he ni i LA i    e          CRM Lidl a Mel -    mersenaazeneaseeenane  nesusvsarevesevesesnesaeevesesst1panonese0sezzz19dstosoveo Pueose sea eese,    categorie dell'intelletto, quanto, € principalmente, nello  ammettere l’attività sintetica dello spirito come condi-  zione dell'esperienza !; e che l’altra, ben lungi dal con-  formarsi allo spirito Kantiano, lo avversa anzi, se è  vero che il meccanismo è in assoluto contrasto col  dinamismo.   Quanto all’empirismo francese del Comte e della sua  scuola, basti rammentare che per esso non v'ha psicologia  che non abbia a fondamento l’osservazione esteriore e  non si confonda colla fisiologia; che crede una chimera  l'osservazione interna o psicologica; che abolisce ogni  altra logica che non si accompagni alle applicazioni e  alle ricerche scientifiche in cui è implicata, e tiene un  fuor d’opera studiare i procedimenti del pensiero in se  e per se; per capire com'esso aborrisca da ogni ricerca  gnoseologica, e il problema della conoscenza per esso  non esista neppure?.    1 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 87 e seg.; Richl,  Der philosophische Kriticismus, II. p. 86.   2 Aug, Comte, Cours de philosophie positive, t. r. premire  legon; e Stuart Mill, Aug. Comte er le Positivisme, pag. 63-67 ©  pag. 55-59.       ì    VE: cali dA    LL    amarsi rete ile IA rt                      Le diverse parti delle ricerche morali di Aristotele  non sono state da lui disposte per modo da riuscire  ordinate c connesse come sarebbe desiderabile: certo un  concatenamento interno non manca nella sua dottrina,  ma non risulta abbastanza chiaro dalla sua esposizione.  Questa sconnessione, questa scucitura, per dirla così,  della morale di Aristotele, deriva in gran parte dalla na-  tura stessa della materia ch’ egli aveva fra mano e dal  concetto ch'egli se ne faceva. Le cose di cui si occupa  la morale, l’onesto e il giusto, non hanno niente di stabile  e di fisso, anzi variano e, per così dire, vanno errando  da luogo a luogo per modo che sembra siano solamente  per legge e non per natura !. Di qui segue che, trattando  di esse, non si può essere così accurati e precisi, come  si potrebbe essere trattando di cose che fossero per natura  stabili e fisse; anzi ci dobbiamo contentare di esprimere  il vero all’ingrosso' (7270265) e mei suoi lineamenti  generali (+6r); la precisione e l’accuratezza (ràzoifés) non    4 Arist. Eth. Nic. ediz. Susemihl, I. 3, 2-3: T4 dì x02à al qà  dizaua TOCAUTAV Îyer diapopav nai TARINY Gate doze) vopo elva,  queer dì pai.       ida | Li    PEPE LE    3       186 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    è possibile egualmente in tutte le ricerche, e deve in ogni  caso essere tale quale comporta la natura della materia  di cui si tratta!.   S'aggiuriga che la morale prendendo le mosse da  ciò che suole accadere d’ordinario (#ò © èrl 7ò mo),  non mai dal necessario e dall’assolutamente certo, arriva  di necessità a conclusioni della stessa natura, a conclu-  sioni cioè nè necessarie, nè assolutamente certe, ma sol-  tanto precarie; essa è scienza induttiva 5, e, come tutte  le scienze induttive, non può avere il rigore che si può  esigere ad esempio nelle matematiche. D'altra parte, sic-  come non si deve trascurare in morale quello che ab-  biano potuto dire gli altri filosofi in proposito, c perfino  quello che ne possa dire il volgo ‘, e siccome le opinioni  del volgo, e anche quelle dei filosofi, si fanno notare per  la loro varietà e qualche volta per le loro contraddizioni,  ne segue che tenendo dietro ad esse, sia pure collo scopo  di esaminarle e discuterle, di farne insomma la critica, è  raro che non ci lasciamo sviare; è raro che, accettandole  in parte e in parte non accettandole, non rendiamo oscuro  anzichè chiaro il nostro pensiero, e perfino non facciamo  forza ad esso stesso per mostrarlo d’accordo con quello  degli altri5.    4 Eth. Nic. I. 3, 3-4. Gfr. Eth, Nic. I. 7, 18-19, I. 13, 8, IL 2, 3-4  UK: 8) 3.   2 Eth. Nic. I. 3, 4.   5 Eth. Nic. I. 4, 5-6.   4 Questo non è detto esplicitamente in nessun luogo della Nico-  machea; ma lo si può dedurre dalla cura continua di Aristotele  di confrontare le sue opinioni con quelle degli altri filosofi e perfino  con quelle del popolo. D'altra parte ciò era richiesto dall'indirizzo  sperimentale a cui Aristotele s'attiene nella morale.   5 A prova di quanto è detto quassù si può citare il cap. VIII.          fre ety® . PA. €"    ì,  A       zi at,    Per tutti questi motivi a cui è da aggiungere, per  quello che riguarda Aristotele, una certa trascuratezza non  solo di ogni ordinamento sistematico, ma perfino del nesso  tra periodo e periodo, per cui c'incontriamo non di rado  in osservazioni e pensieri che paiono come compati in aria;  il fare soverchio assegnamento sull’intelligenza del lettore  e con poco dir molto, e le cose anche di massima im-  portanza accennare appena anzichè trattarle largamente;  il lasciarsi sviare dall’accessorio mettendo da parte il  principale; il proporre in un certo luogo una questione  e non risolverla, per riprenderla poi e risolverla dove e  quando meno s' aspetterebbe, e spesso anche il mettere  innanzi dubbii e mostrarsi tentennante dove si desidere-  rebbero affermazioni recise ed assolute; riesce impresa  non certamente di facile attuazione l’ esporre una parte  qualunque della dottrina morale di Aristotele. Una tale  esposizione è lavoro eminentemente critico. Congiungere  quello che è disgiunto e disperso, ordinare quello che  è disordinato, sceverare quello che appartiene in proprio  ad Aristotele e che si può considerare come sua dottrina,  da quello che è soltanto accidentale ed avventizio; i  luoghi controversi ed oscuri interpretare nella maniera  che meno si discosti dallo spirito dell’ autore, e in ogni  caso non affermare recisamente quello che 1° autore  enuncia in forma dubitativa; tener conto dei tentenna-  menti, delle contraddizioni, se ce ne sono, € fare che  anche le minime sfumature non vadano perdute, in  modo che tutto Aristotele ci si presenti dinanzi, e non  una parte soltanto, un aspetto particolare di esso; so-  vratutto non lasciarsi vincere dalla smania di correggere  e di completare da un certo punto di vista Aristotele,    del libro I. dell’ Etica Nicomachea, dove Aristotele cerca in ogni modo  di far andar d'accordo la propria opinione con quella di altri molti.       i gia je da  È    188 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    svisandolo invece e corrompendolo; parlare il suo lin-  guaggio poco curandosi che non possa piacere à chi  legge; ecco un complesso di cose che fanno anche d’una  semplice esposizione un lavoro critico.   Ma non è nostra intenzione limitarci ad una sem-  plice esposizione: all’ esposizione cercheremo d’ innestare  ed aggiungere osservazioni e considerazioni di vario ge-  nere, quali ci verranno suggerite dalla dottrina esposta,  considerata in se stessa, o in confronto colle dottrine di  altri autori antichi o moderni.   Dichiariamo poi qui che e per questo lavoro sulla fe-  licità, e pei due successivi sulla vir e sulla volontà in  Aristotele, attingiamo quasi esclusivamente all’Etica N?  comachea. È noto oramai, e non staremo a ripetere quanto  c nelle storie della filosofia più recenti e in lavori speciali  è stato ampiamente dimostrato }, che solo l’ Etica Nico-  machea si può ritenere lavoro d’ Aristotele, mentre  l' Etica Eudemia e la Grande Etica sarebbero lavori  di discepoli, di Eudemo la prima c la seconda di un    ! Vedi specialmente Zeller, Geschichte der Philosophie der Grie-  chen, nella parte in cui tratta degli scritti d’ Aristotele, ultima edizione;  Ucbervveg, Grundriss der Geschichte der Philosophie nell'edizione  del 1876, t. I, p. 176 e seg.; Spengel, Veber dar Verhiltniss der drei  Aristoteles' ethischen Schriften, e Aristotelische Studien; Bonitz, Ob-  servationes criticae in Aristotelis quae feruntur Magna Moralia et  Ethica Eudemia; Fischer, De Ethicis Nicomacheis et Eudemiis quae  Aristotelis nomine tradita sunt dissertatio; Rose, De Aristotelis lì-  brorum ordine et auctoritate; Barthélemy Saint-Hilaire, Morale d'Ari-  stote, Dissertation preliminaire; Grant, The Ethics of Aristotle,  illustrated vvith Essays and notes, Londra, 3. ediz., 1974, primo  saggio t. I, p. 18-71; Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d’ Aristote,  Introduction; Sante Ferrari, L'Etica di Aristotele riassunta, discussa  ed illustrata; ed altri.          NELL' ETICA D'ARISTOTELE 189    Pupa a eraent con vocoa senvatia bian aenianananenasascnsonesfousontonsstenizbosaeenvnee rsa sesiere    ignoto, probabilmente un peripatetico con tendenze  stoiche; i quali non sempre fedelmente riproducono il  pensiero del maestro.   Che se qualcuno ci facesse rimprovero d’aver da  Aristotele, da un autore così lontano: da noi, tratto ar-  gomento a studii di morale, ripeteremo le belle parole  con cui Leon Ollé-Laprune finisce l'introduzione al suo  bello studio sulla morale d’ Aristotele: « Aristotele merita  bene che si faccia qualche sforzo per seguirlo. Non si  perde nè tempo nè fatica in tale compagnia. Oltre che  si ha il piacere vivo e nobile di apprendere ogni momento  delle belle cose, si medita sulle più alte questioni, su  quelle che più hanno il diritto di interessare ed appas-  sionare il filosofo, ed è una meditazione che fortifica! ».    II    La prima ricerca che Aristotele si propone nella  sua Etica è che cosa sia il bene sommo, che cosa sia il  fine supremo della vita. Gea   Spetta a Socrate il merito d'aver dichiarato netta-  mente la necessità d'un fine, a cui la mente si rivolga,  perchè l’azione acquisti un valore morale; a Socrate è  dovuta la prima telcologia, per quanto imperfetta c uni-  laterale essa ci sembri. Le cause finali spiegano per lui  il mondo tutto quanto, non il fisico solo, ma anche  umano, poichè gli atti umani dipendono in fondo dal  pensiero che li regola, dal fine che li attira. L’ interiorità    4 Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d' Aristote, Paris, 1881,    pag. 19. i    ASA    Me  a  n  at sd  èsi- vi    ed va    drive i    UNA       100 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ                                  socratica di cui tanto si parla, il yv&0 ozvrév, il demone  socratico stesso, hanno nelle cause finali la loro vera e  completa spiegazione. Dopo Socrate il fine umano di-  venne la ricerca capitale dell’ Etica, e dalle diverse solu-  zioni date al problema dipesero i diversi indirizzi morali  delle scuole socratiche. Aristotele ripiglia il problema, e  lo risolve da par suo.   I varii e molteplici fini o beni, che gli uomini si  propongono mentre operano o si danno a qualche arte  e scienza, sono tutti fra loro così congiunti che tendono  a un certo bene o fine sommo il quale vogliamo per se  stesso ($ È aicd povidue0d), e al di là del quale non resta  più nulla a desiderare. Che cosa è quest’ ultimo fine o  bene? Bisogna determinarlo, perchè il saper ciò è della  massima utilità per condur bene la vita; come arcieri,  a cui sia proposto il segno da colpire, otterremo più  facilmente quello che bisogna, quando l’avremo saputo!.  «Nel nome tutti quanti s’accordano e chiamano il  sommo bene la felicità (e0dapoviz), essendochè è la feli-  cità quella in cui s' appunta e si queta ogni desiderio;  ma non s'accordano quando si tratti di definire in che  questa felicità essenzialmente consista. Poichè v’ ha chi.  la ripone nel piacere, nelle ricchezze, nell’ onore; e  v’hanno perfino di quelli pei quali la felicità nonè sempre  la stessa cosa, ma ora questa, ora quella, secondo le  condizioni diverse in cui si’trovano *.   L’opinione‘di chi ripone la felicità nel piacere (pia-  cere materiale), sebbene sia quella dei più, non merita  neppure di essere discussa; è schiavo di se medesimo e  delle proprie passioni e conduce una vita da bestia chi  si abbandona al piacere. Chi sostiene che la felicità    È i Eth. Nic. I. 1-2.  2 Eth. Nic. I. 4, 2-3.       "NELL’ETICA D' ARISTOTELE I9I    NERTTETANZZIANIAZI ZI NE TERE A ENI A RATE RA TERA TANI AR Ren Ara SI TISTI ani ze sn temi nienaraanecazeanerananaaneane vaso ezi vena nseztenizeserasionenzeosi    stia nell’ onore, sebbene abbia un’ opinione più ragione-  vole, non però è nel vero; poichè come si può reputare  sommo bene quello che è posto nell’arbitrio degli altri?  Il bene deve appartenere in proprio (oizzìoy), realmente e  ‘ non accidentalmente, alla persona a cui appartiene, e deve  esser tale che difficilmente si possa togliere ( durupatperoy).  D'altra parte è l'onore ricercabile per se stesso, o non  piuttosto si vuole come il premio e la testimonianza  della virtù? Neanche l'opinione di chi ripone la felicità  nelle ricchezze è accettabile, poichè primieramente la  ricchezza si vuole come mezzo e non come fine; e poi la  vita di chi è dedito.alla ricchezza è vita piena d’affanno  e di lotta (6 dz ypapatiomne Plos Piads Tic eoriv)!.   V'ha anche un’altra opinione, più famosa di tutte  queste per l'autorità e il nome di chi l’ha sostenuta,  l'opinione di Platone, secondo il quale il vero bene è il  bene ideale universale, il bene separato, in se e per se  esistente (ympiotiv ti aùtò 20) asré), causa a tutti gli altri  di esser beni®. Quantunque, dice Aristotele, quest’ opi-  nione sia sostenuta da persona a noi cara, dovremo    tuttavia combatterla, perocchè noi siamo sovratutto amici +    della verità . E primieramente il bene si predica di tutte  le calegorie, anche di quelle che sono accidentali alla  sostanza e quindi a lei posteriori, e si dice ad'esempio  di Dio che è buono, della virtù che è buona, e così  egualmente dell'utile, del tempo ccc.: ma le categorie  nulla hanno di comune e sono irriducibili l'una all’altra,  sicchè anche quando loro si attribuisce il predicato dere,    4 Eth. Nic. I. 5.-   2 Eth. Nic. I. 6, 13 e 1,,4. 3.   5 Eth. Nic. I. 6, 1. &uQoly pg divo oidow Gaioy poT‘AY  shy dA 0ev2y, donde venne il noto: Amicus Plato, sed magis amica    veritas.    ST    ve       102 LA DOTTRINA DEILA FELICITA    questo non esprime alcun che di comune, di universale   e di uno (zowsv 1 220620) val #), nè potrebbe quindi   esservi per tutte un idea comune del bene (oz dv stn zown   mi arl cobray 1942)! Che se quest'idea comune del bene   ci fosse, sì avrebbe pure una scienza comune dei beni,   come v' ha una scienza comune per tutte le cose che si   subordinano ad una sola idea ?. Ma poi che cosa è il bene   in se? e in che differisce dal -bene iù particolare? In   quanto beni, il bene particolare e il bene in se in nulla   differiscono ; c'è nell’uno e nell'altro una sola e identica   nozione. Si dirà che l’uno è transitorio, l’altro eterno? Ma   in niente sarà più bene il secondo del primo per essere   eterno, come non è più bianco un bianco che duri molto   tempo, di un altro che dura un giorno solo, per questo   solamente che dura molto tempo ?. Che se si obbiettasse   che si parla dell'idea solo in rispetto ai beni per se, e   non ai beni che servono di mezzo ad altro, si potrebbe   domandare da capo che cosa c'è di comune, ad esempio,   fra la saggezza e il piacere considerati in quanto beni,   quando si prendano come beni per se: e pur tuttavia   l’idea del bene in essi tutti dovrebbe essere la medesima,   ai come nella neve e nella biacca l’idea della bianchezza 4.  — Non esiste adunque quel bene ideale comune e uni-   versale che Platone ammette. Ma dato pure che esista,   dato pure che il vero bene sia qualche cosa di separato   in se e per se esistente, esso riesce affatto inutile all’uemo   che non può nè metterlo in pratica, nè acquistarlo;   È mentre in morale si ricerca invece un bene che si possa  4 e mettere in pratica ed acquistare, che sia dunque    A Eth. Nic. I, 6, 2-3.  2 Eth. Nic. I, 6, 4.   5 Eth. Nic. I, 6, 6.   4 Eth. Nic. I, 6, S-11.                        NELL'ETICA D' ARISTOTELE 193    proprio dell’uomo e relativo all’ uomo. Si dirà forse che   benchè un tal bene non si possa acquistare, è dato però  conoscerlo nelle sue relazioni coi beni che si possono  acquistare, sicchè serve come di esemplare, di modello  per più facilmente conoscere questi e, conosciutili, con-   seguirli? Ma a questo si può opporre che tutti fin qui   hanno trascurato un tale aiuto; le arti, le scienze, pure  tendendo a un qualche bene e cercando di ottenerlo,  trascurano di conoscere il bene ideale; e si può opporre  ancora che dalla conoscenza del bene ideale, quand'anche  fosse possibile, nessun vantaggio trarrebbe chicchessia  nella pratica; poichè la pratica riguarda azioni singolari,  e per queste si richiede non giù una cognizione generale,  qual è quella del bene ideale, ma cognizioni singolari.  Ad esempio come sarà più atto alla medicina, o a con-  durre gli eserciti chi contempli quest idea del bene? Il  medico non ricerca la sanità in astratto, ma quella del  l’uomo, anzi di quest uomo particolare, poichè esercita  l’arte sua sopra i singoli individui !.    III.    Discusse e respinte queste varie opinioni intorno al  sommo bene e l’ultima di Platone massimamente, nella  cui idea del bene è degno di nota che Aristotele non  veda che un oggetto astratto € indeterminato, privo di  un valore effettivo e reale, mentre nel sistema platonico  tutti quanti gli esseri non potendo esser buoni che per    4 Eth. Nic. I, 6, 13-16.    G. ZUCCANTE       £' Roe    ET RAT 1 PVI                    partecipazione dell’ idea suprema del bene, questa vi  appare perciò come forza e come legge !; il filosofo viene  ad esporre la sua propria dottrina in proposito.    e: Premette che il sommo bene dev’ essere perfetto   sa (+é Ra, Sn MOL, I, tu) 5 Erzt d' o0y serv + eUdazoviz TEMELOY  x dpalloy zai 7805, OdÒI oro da 204    Qi dr val èv Tsdelm  , » O Ù  Neo Sor mate cda ziuoy 20    ECTAL COLE NATE {la  EGTAL 09 40 SITU ÈV TAI (0          Alone Y sapo "rr . -_  NELL ETICA D ARISTOTELE x 197    felice che la fortuna non gli sia avversa; poichè è bensì  vero che le piccole sventure non fanno traboccare la  bilancia della vita (où mot forhv iis Lo?) e non hanno im-  portanza per la felicità, ma le grandi e frequenti l'hanno  invece e grandissima, chè apportano dolori e impediscono  molte azioni virtuose, e fanno in ogni caso che non si  possa ancora chiamare felice chi ne è colpito. Certo non  avverrà mai che chi è veramente felice, vale a dire chi  possiede la virtù, divenga infelice per quante sventure  gli capitino; chè l’infelicità sta solo nel male operare;  però non si potrà ancora continuare a dirlo felice, quando.  gli capitino sventure quali, ad esempio, capitarono a  Priamo !. La fortuna adunque occupa un posto non cer-  tamente trascurabile quanto al formare la vita felice.  Ma la fortuna è di sua natura instabile e incerta, c a  chi è favorevole, a chi avversa, e spesso ad uno sorride  a cui poi prepara le più ingrate sorprese; sicchè si vada  adagio a dir uno felice perchè lo vediamo oggi ricolmo  d’ogni bene; dimani non si sa che possa preparargli la  sorte. Si aspetti che abbia vissuto un certo tempo prima  di chiamarlo felice, si aspetti che abbia vissuto un tempo  perfetto, una vita perfetta, anzi meglio si aspetti che sia  morto, perchè non è priva di senso la sentenza di Solone  che prima di dir uno felice bisogna vederne il fine.  Per due motivi ‘adunque si richiede una vita per-  fetta a costituire la felicità perfetta; prima di tutto perchè  si svolga l’attività razionale per modo che sia possibile  operare secondo virtù, e in secondo luogo perchè, es-  sendo la fortuna instabile, ci sia campo di vedere se non  abbia per caso a voltar faccia improvvisamente e ad al-    terare la felicità preesistente.    I Eth. Nic, I, 10, 12-14.  2 Eth. Nic. I, 9, 10-11 e.T, 10, 1 © 15.    ù  N       =       pira.       ter EIA II a A LIO    Non ci fermeremo ora a notare che il dire che si  richiede per la felicità una vita perfetta, un tempo per-  fetto, è dir cosa abbastanza vaga e indefinita, di che si  dovrebbe fare rimprovero ad Aristotele; e. neppure che  l’ammettere che i beni del corpo e di fortuna sono in-  dispensabili alla felicità, se non propriamente come parti  integranti, come condizioni, o almeno come elementi in-  feriori, come una specie di materia nelle mani dell'uomo  virtuoso che vi imprime la forma del bello, prova il  senso pieno di misura del.filosofo, di che gli si dovrebbe  dar lode: piuttosto diremo, continuando l’ esposizione,  che la presente dottrina per la quale la felicità sta .es-  senzialmente nell’operare secondo virtù (z3%rtew, ivepyet  va deci), non è disforme da quella che la ripone nella  virtù, e neppure, in un certo senso, da quella che la ri-  pone nel piacere.   Intanto, in primo luogo, è proprio cella virtù l’uscire  in atti conformi a se stessa (cestis [speri] ydo dov di  va 97h èvepyeiz); € perciò il far consistere la felicità  nell’ attività secondo virtù e il farla consistere nella  virtù sono in realtà la medesima cosa. Però ha questo  vantaggio la prima dottrina sulla seconda, che per essa  il sommo bene non consiste in un abito, che talora nulla  di buono effettua, pur perdurarido, come in chi dorma  o in chi comecchessia resti inerte, ma in un'attività: e  ciò non è certamente di secondaria importanza, perocchè  come in Olimpia non ai più belli e ai più forti che ri-  mangano inerti, è riservata la palma, ma a coloro che  scendono nell’agone e combattono, così egualmente sol-  tanto coloro che operano, e operano rettamente, possono  conseguire ciò che è dello e buono nella vita. Il che vale  ina  - i > Ma attiva e per così dire mi-  litante; non dev’ essere soltanto un possesso e un abito,       NELL'ETICA D'ARISTOTELE 199    ma un uso e un'attività! Per quello poi che riguarda  il piacere, neppur esso è escluso dalla presente dottrina.  Imperocchè chiunque è dedito a qualche cosa, in questa  stessa cosa trova il suo piacere; sicchè chi è dedito alla  virtù trova in essa appunto il suo piacere. Di più ha  questo di particolare chi è dedito alla virtù, che gli sono  piacevoli quelle cose che sono piacevoli veramente per  natura e non secondo questo e quello, tali essendo le  azioni virtuose. La vita del virtuoso non ha perciò bi-  sogno del piacere, come di una aggiunta, di una frangia,  ma ha il piacere in se stessa. Che se si opponga che  talora si opera virtuosamente senza sentirne piacere, si  può rispondere che chi non si compiace e non gode  delle belle azioni che fa, non si può dire che operi  secondo virtù e sia virtuoso. Come si può, ad esempio, a  chiamar giusto chi non si compiaccia del giusto operare,  e liberale chi non si compiaccia delle azioni libe-  rali 5? L' cpigramma di Delo che disgiunge virtù da  piacere non è nel vero4 La brutta rinomanza del  piacere dipende dal fatto che i più credono piaceri so-  lamente i corporei, e solo i corporei sono dai più    . Dì x x ' . "4  41 Eth. Nic. I, $, 8-9. 7olc uev avv Acyovoi Tv dpeThv A 1    Li 9; LA . ’ 4 a _ DA O peri 4 3 È ;  peTav TUVX aUvwdd: iam ò Mons Fabtns Y4p ECT dh LT LITAV i    N    ° » LI DI vw -   SvEpyerz DIZIOECEN dì Too: od uuzgby èv z7oeI Ti pra Tò Kpiotoy ;  i, Se, GA , x x VS RIV a   brr ZICZAFINA vai èv ECer di Svepyeiz. Tav pev {2p ccw èvdeyetzt   >»    x LI * ». . 7 ne / -_- » O  undiv dyallov dro) rdo/ our, Oloy TÒ 2a idovir È ze  W 5    4,    sE 5 ; ivfovary 007 oi0v Ts SCSI  INI TI ECMOYAZOTI, TIY Ò èvipyezy 0dy oioy Te...... WITEP    LE Lar    È ” e 0 IR) , o Sy. ” ) |  Ò OQuurizan oUy ot ZIIMTTOL AI IGYUPOTATOL TTEOZIOVNTAL TI x i  - e ‘ ra A055 ni "   oi PACONEATALI (Tobtov 40 ToIES vzion), oto 421 TOY ÈV TO u   3 pò, “ n AIRIS RITI RASO a93  Mio e6v 2 cado oi mpzrtovise delos trota yivovmat. ì  2 Eth. Nic. I, $, 10-12.  $ 3 Eth. Nic. I, 8, 12, c II, 3,1.    + Eth. Nic. I, 8, 14.       I o Tag  , » - p ""    200 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    14    conosciuti !. In realtà però ogni attività ha il suo  proprio piacere, e l’ attività più perfetta è anche la  più piacevole; il piacere perfeziona gli atti e a loro si  aggiunge quale compimento, nella stessa maniera che  la bellezza s’ aggiunge alla gioventù e ne forma l' or-  namento. (e smiyivipeviy Ti TE, giov Fog dano pz).  L’atto e il piacere sono così strettamente uniti che quasi  formano la stessa cosa. Come ogni specie vivente ha una  attività sua caratteristica, così avrà anche un proprio  piacere; e nella specie umana il piacere caratteristico c  più.eccellente sarà quello che s’ accompagna all’ attività  razionale perfetta. Perciò nella diversità dei criterii con  cui si giudica dei piaceri, è da seguire il criterio che è  seguito dall'uomo perfetto; i piaceri che allettino lui,  saranno i soli veri; quelli che egli biasima come turpi,  non potranno soddisfare che gli uomini corrotti. L'uomo  buono e perfetto sarà la misura dell’ operare ?.    IV.    Ed ora la felicità, questo bene sovrano, si acquista  coll’ esercizio e coll’abito, o ci viene per divino favore  o dal caso? E basta l’insegnamento ad averla, o è ne-  cessaria la pratica? E l'educazione fino a che punto vi  contribuisce? Se v'ha dono degli dei agli uomini, è questo  certamente, poichè divinissima cosa (0ewrzzoy) è la felicità,  ove anche si acquistasse per opera nostra: ma intorno    1 Eth. Nic. VII, 13, 6.    È E ROPALE .  Eth. Nic, X, 4, 5-8, e X, 5, 6-11. Nota specialmente queste parole:  4 ona Ma Aria ra Pa \ :  DTA ono Darco noe ha dpal)o:, i Tomdiras, nat dovzi  È ‘ ud AE, e ci  cley %y gi TOVT@ Quivopevi nei dix dic obr0s ;    yadper.          NELL'ETICA D'ARISTOTELE 201    a questa questione nulla si può: dire di preciso. Per  quello poi che riguarda il caso (707), troppo brutto e  sconveniente sarebbe (Mizy Ia utaedès dv in) attribuire ad  esso la massima e la più bella delle cose umane!. La  felicità ha per sua causa l’uomo e per soggetto l’uomo  egualmente; nè un bue, nè un cavallo, nè un altro qua-  lunque degli animali bruti ne sarebbe suscettibile ?; c  s'acquista operando. Esercizio ed abito son necessarii ad  esser felici. In tutto ciò che si riferisce all'azione (èv 70%  mosto) NOn è fine il conoscere, ma l' operare: la: virtù  non è sufficiente sapere che cosa sia e come s'acquisti,  conviene invece sforzarci di averla e servircene; l'intento  della filosofia pratica non s'arresta alla conoscenza 3, Che  cosa giovano gl’insegnamenti e le teorie a chi abbia  contratto abitudini perverse, a chi non abbia indole ben  nata e amante del bello, a chi regoli la vita alla stregua  delle proprie passionire tenga dietro al piacere? L'animo  dell’uomo conviene sia stato preparato €, per così dire,  coltivato dall’abitudine, come un terreno che ha da ali  mentare il seme; conviene che fin dai più teneri anni  venga educato rettamente: altrimenti non intenderà e  non udrà neppure chi col discorso tenti distoglierlo dalla  via del male. All’ insegnamento morale deve precedere  il costume, perchè quello diventi fruttuoso.   Ma come si formano i buoni costumi, com’ è possibile  ‘una retta educazione? Spetta alle leggi questo compito;  solo le leggi, espressione impersonale della ragione e    della prudenza, hanno la forza di farsi obbedire; solo le,    leggi non sono fatte in odio ad alcuno; solo per l’azione  delle leggi si potrebbe rendere abituale, c però non    I Eth. Nic. I, 9, 150.  2 Eth. Nic. I, 9; 9  3 Eth. Nic. X, 0, 152.    TO TENIERE a)    teli    et PE SARTO E,    ade       IEBUTIAATIZANIB TARE A Ice Ana ran eneniani neri purenenanener \anusnaereazeanenersisoneneniseites;avocesizione:asosenssasise0esasieneseoeneseoneete    molesto, il vivere secondo virtù. Nè solo ai giovani do-  vrebbero provvedere le leggi, ma anche agli adulti: le  leggi dovrebbero accompagnar l’uomo in tutta la vita ed  eccitarlo alla virtù; chi è ben disposto, coll’amore del  bello; chi serve al piacere, colle riprensioni e colle pene;  chi è malvagio affatto e incorreggibile, col metter fuori  dalla società. Disgraziatamente pochi stati, la sola Sparta  ferse, hanno provveduto così alla pubblica educazione!.  Intanto, mancando i provvedimenti pubblici, ciascuno  in privato dovrebbe indirizzare alla virtù e alla felicità  i figlivoli e gli amici. Nella famiglia le parole e i costui  del padre hanno la stessa forza che le leggi e le istitu-  zioni nello stato; forse anche maggiore, per la parentela  e i beneficii onde i figli sono uniti al padre, per la pre-  disposizione naturale che è nei figli all'amore e all’obbe-  dienza. L'educazione privata offre inoltre il vantaggio  che può meglio adattarsi e proporzionarsi all’ indole  propria di chi si vuole educare. A chi ha la febbre  giova in generale il riposo e l'astinenza, ma a qualche  febbricitante forse non giova, e se fosse medicato nella  stessa maniera degli altri, ne avrebbe danno sicuro. Così  egualmente nell'educazione non a tutti è confacente lo  stesso trattamento; a chi uno è confacente e a chi un  altro; e questo fatto d'importanza grandissima l’ educa-  zione pubblica è costretta a trascurare, mentre invece  la privata, per la sua stessa natura, cura moltissimo.  In ogni caso però non è atto all'ufficio di educare  questo e quello in particolare, chi non possieda la scienza  dell’ educazione in generale, come non è buon medico,  nè buon maestro di ginnastica a questo e a quello, chi  all’ occorrenza non sappia essere tale per tutti, chi non  conosca l'universale (è 7ò 2206201 cid62). In altre parole sarà    I Eth. Nic. X, 9, 3-13.)       PTT    di.    +    -  ,  &  di  E°  x       NELL'ETICA D’ARISTOTELE 203    anvonenizzzienazenioiarazizaneeza)a0eroeanianieneze innanneananativaneniisaranezaenivaoreraseconesenenezeizeiezassania ria ne stene ani teneane se    educatore privato soltanto chi sarà atto ad essere anche  educatore pubblico, che vale quanto dire reggitore dello  stato e legislatore; perocchè nella piccola vita di famiglia  avviene quello stesso che nella vita più grande dello stato;  le pubbliche istituzioni si formano manifestamente per  mezzo di leggi, e sono buone quelle che sono formate  da leggi buone; e così avviene delle istituzioni private.  Se è vero che noi diventiamo buoni per mezzo di leggi,  conviene che in genere, chi vuole rendere migliori gli  altri, si faccia atto egli stesso a stabilir leggi (vopoMerizio),  cioè sappia provvedere all'educazione di tutti; avendo  le leggi appunto per iscopo la pubblica educazione, e per  mezzo di essa la felicità universale !.   Notiamo a questo punto come Aristotele parlando  dell'educazione pubblica e privata, e del compito dello  stato e dei privati cittadini in rispetto alla virtù e alla  felicità, congiunga strettamente la morale e la politica,  anzi faccia rientrare la prima nella seconda. La morale,  la scienza dei costumi, vuole formare buoni i costumi;  ma solo le buone leggi possono arrivare a questo risul-  tato, le buone leggi che reggono la famiglia, e le buone  leggi che reggono lo stato. Alla scienza delle leggi adun-  que, o alla politica, mira in ultimo la morale. Secondo  il concetto fondamentale di tutta quanta la filosofia ari-  stotelica, che un termine superiore rende ragione delle  cose che gli sono subordinate, e ne costituisce l'essenza,  il principio e la causa, la politica domina la morale e  la fa essere; al di fuori della politica la morale non può  essere, come non può essere l’ individuo che non viva  nello stato e per lo stato; la politica sola è scienza &  ramente padrona e sovrana (2uprotzza 421 dog irentovini ).    i Eth. Nic. X, 9) 14-17.  2 Eth. Nic. I, 13; 9-19.    n  ri       ME, a Det    DEre ©       ‘\":- è. rmodi d       204 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    Va    S'è detto che la felicità consiste essenzialmente nel-  l’attività dello spirito secondo virtù. Ora la virtù non  è una sola, ma duc, differenti di genere. L'anima umana  è distinta in due parti, la parte ragionevole e la parte  irragionevole (ad M6yov Eyov zzi 76 Zoyoy), sia che queste  siano in realtà distinte fra loro come le parti del corpo  e di ogni cosa divisibile, sia che siano facoltà d'uno  stesso principio, per natura indivisibili (x/©gora repuzòrz)  e distinte solo mentalmente (7 %6y@). La parte irragio-  nevole è distinta alla sua volta in due; il principio della  nutrizione e dell’accrescimento (7ò zizuv 708 Fpigsola a  adtesla.), che è affatto estraneo alla ragione, e il principio  affettivo o appetitivo (tò sruupnrzby zi Gims dpeztuziv),  che: partecipa.in qualche modo della ragione, in quanto  può ascoltarla ed obbedirle, sebbene qualche volta, anzi  il più delle volte, la combatta e 1’ avversi !.   A questa duplice distinzione dell'anima umana cor-  risponde una duplice distinzione della virtà; vale a dir:  alla parte ragionevole, o alla facoltà della ragione, del  x6yo; e, ERE) al "SI eg 5 POTTER Lu PO pi RE gr    NELL’ ETICA D’ ARISTOTELE 209    sunsuzavesaneanianezezaizicazereazaneeanaraniorenasosasaseneaneaszesiareereaevsiereavepeonzeniscavevitaezzentencosnesasse nevanveseesuonessee    nell’ agire secondo virtù morale. A dir vero però è questa  ultima sola la felicità veramente umana: le virtù che ci  procurano questo genere di felicità non richiedono, per  attuarsi, l’opera d'una parte sola dell’uomo, come il  contemplare, ma di tutto l’uomo qual è, composto di  anima e di corpo, di ragione e di passioni; cuvaprapevat  Vabtar (Qi dperat) nai ot meleci mepi cò cbvdeToY dv slev: al dî  Toù cuvétov doetat. avbpwrizai 1, D'altra parte l’uomo è di  sua natura essenzialmente sociale (best rolrizdy d bp  mog)?, e, come tale, non è la vita contemplativa che gli  appartiene in proprio, ma la vita in comune, la vita  delle mutue relazioni.    - VI.    Abbiamo cercato di riassumere in un’ esposizione  chiara ed esatta la dottrina di Aristotele che riguarda  il bene sovrano, e nulla abbiamo trascurato che possa  metterla in piena evidenza. Perfino i dubbii, le oscilla-  zioni, le difficoltà d'ogni maniera non saranno sfuggite    svdtyerai alavariler val mivaa moreÙv mods 7ò Civ zaràmò pdrteTov  Toy ev ast ci ip nai 76 Ga parpòy Sett, duvduet UIÙ TULOTATE   TIRÒ PINIOY TATO UrEpSY et Sotzie d' dv zal siva Eaaetos ToÙTO,  l'etmep ed zUpioy al Auetvoy XTOTOY oùv. qivora) do, ci pin Toy adtod   Blov aipotto KARA Tivos HIM 0U. cò Neybéy ce TipOTEpOY dppuboer xal   vv. TÒ Yip olzziov Sudato Ti pioer vpdriotoy mai BÒetoy tou  indoro. nai tò Ibpoto dh d nerd dv voùy Bitos, strep TobTo  padota avblporos. sobros dox 2 ebdaruoventaTOs.  1 Eth. Nic. X, $, 1-3.  2 Eth. Nic I, 7, 0.    G. ZUCCANTE                      BPPPRPTITTTTLITIOLLALI    ME Lon    a chi ci abbia seguito attentamente. Diciamo oscillazioni  e difficoltà, e non a torto, perocchè, mentre nel primo  libro dell’ Etica, e nei successivi, Aristotele ci dice espli-  citamente che la felicità sta nell’ attività pratica, e non  parla quasi affatto di attività teoretica, nel libro X in-  vece, nel quale ritorna sulla trattazione della felicità,  quasi volesse completarla e darle per così dire l’ ultima    mano, la fa massimamente consistere appunto nell'at-  tività teoretica; perciò l’ intimo pensiero suo non ci si  amente, e indarno ci sforzeremmo    svela abbastanza chiar  a volerlo penetrare. La vera felicità sta nel contemplare    o nell’ agire? A questa domanda la risposta d’ Aristo-  tele non è categorica in nessun luogo. C'è anche qui,  in morale, quel contrasto fra l'immanenza e la tra-  scendenza, che è la nota caratteristica di tutta quanta  la filosofia aristotelica, e per cui abbiamo in psicologia  il dualismo fra n00 altivo € passivo, il dualismo fra  materia e forma in metafisica, e nella fisica quello più  stridente ancora fra finalità intrinseca ed estrinseca, fra  cielo e terra. 3   Ecco infatti quale potrebb' essere pressa poco la  risposta d’ Aristotele. Se luomo fosse una forma sepa-  rata dalla materia e risultasse solamente di ragione e di  pensiero, non v' ha dubbio che il bene suo, la sua felicità  starebbe appunto nell’ esercizio di questa ragione e di  questo pensiero, nel contemplare. Siccome invece risulta  di anima e di corpo, è cioè naturalmente un composto  (cbderov),  dell'uno o dell’ altro dei due principii presi separata-    mente, sta nell'azione combinata di tutti e due, nella   subordinazione dell'elemento inferiore al superiore, della —   | passione che è propria del corpo, alla ragione che è —   | propria dell’ anima, in una giusta misura della passione, pic   che è poi la virtù morale. Ciò però non impedisce n dona  ) i è MR e se    a sua felicità, più che stare nell’ esercizio |                                                   Liz emerson e pata    NELL’ETICA D' ARISTOTELE    l’uomo possa, anzi debba aspirare a una felicità supe-  riore, alla felicità che dà l’ esercizio della ragione, il con-  templare la verità. Tutto ciò ch’ egli è dipende in ultimo  dalla ragione, :da questo principio divino, ma umano  anche, poichè si trova nell'uomo e ne costituisce l’es-  senza; perchè adunque gli dovrà questa vita puramente  razionale, questa felicità della contemplazione essere  contesa? Certo solo Dio |’ attuerà completamente, e  l’uomo in parte soltanto; ma non si neghi per questo  all'uomo di rendersi quanto più può simile alla divinità,  d’innalzarsi, per così dire, sovra la sua stessa natura.   Ma se questo è veramente il pensiero d’ Aristotele,  perchè la critica sua contro la dottrina di Platone? Anche  Platone aveva ammesso che la felicità sta nella contem-  plazione, nella contemplazione dell’ idea del bene. L’at-  tività teoretica d’Aristotele è forse diversa sostanzial-  mente da questa contemplazione platonica? Anche a lui  adunque si potrebbe rimproverare quello ch’ egli rim-  proverava al suo maestro, che di nessun giovamento è  questa contemplazione nella pratica. Si dirà che Ari-  stotele è giunto alla contemplazione solo dopo aver  concesso un largo posto alla pratica? Ma neppure Platone  ha trascurato la pratica; basta a provarlo la teorica, per  tanti rispetti ammirabile, delle virtù morali, che troviamo  nelle sue opere.   Del resto l’attività pratica e l’ attività teoretica pro-    ‘poste egualmente all’uomo da Aristotele, segnano. bensì    un dualismo, ma non tale che non possa in qualche  modo ricondursi all'unità. Il bello morale, l'ordine e la  misura in cui consiste, la ragione che è causa di que-  st ordine e di questa misura, la virtù morale, sono cose  tutte quante umane; mentre invece la sapienza specula-  tiva, il pensiero puro, l'intelligenza sono cose trascendenti  e divine. E tuttavia come s’' avvicinano l’ una all’ altra          ce,       212 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ   queste due specie d’ azioni che paiono così distinte! La   vita pratica che sembra dapprima propriamente umana,   trae dall'ideale divino la sua ragion d'essere e il suo   principio; la vita speculativa che sembra puramente   divina, conviene in una maniera propria ed essenziale   all'uomo. Ci sono dei casi nella vita in cui l'uomo ol-   trepassa, per così dire, se stesso € giunge a un così alto   grado di virtù, che solo parrebbe vi potesse giungere   Dio; ci sono dei casi di virtù eroica, sovrumana, in cui   si potrebbe dire dell’uomo quello che Priamo diceva di   Ettore « non sembra figlio di un mortale, ma di un   dio »!. In questi casi la giusta misura che è il carattere   del bello morale, e che è voluta dalla ragione, parrebbe  dimenticata; e tuttavia è ancorala ragione quella a cui   si obbedisce, sono ancora i precetti suoi che vengono   eseguiti; perocchè è proprio della natura dell’ uomo ele-  ‘varsi al di sopra di se, e con una beltà morale superiore  accostarsi a Dio, e diventare divino: uomo divino dice-  vano gli Spartani l'eroe ?. Così egualmente la con-  templazione è una perfezione superiore, una perfezione.  divina; e tuttavia all'uomo è dato questo privilegio; la  sua stessa natura lo vuole. Potrebbe l’uomo vivere della    vita pratica e morale, se non fosse atto ad innalzarsi    x    fino al puro pensiero? Il pensiero è come l’ ideale della  vita pratica e morale; si potrebbe anzi dire che questa  si assolve tutta nella ricerca di un tale ideale. Non si  ottiene mai perfettamente, non giunge mai il pensiero  a riposare completamente in se stesso? Ma non meno  per questo l’uomo ha bisogno di attingervi un principio  che vivifichi tutte le parti del suo essere, a cui possa  ricondurre le sue azioni, e in cui, se non sempre €    1 Eth, Nic. VII, 1) (23.  2 Eth. Nic. VII, 1, 3.                NELL' ETICA D'ARISTOTELE |, 213    completamente, qualche volta almeno riposi. Il pensiero  è per l’uomo il punto da cui tutto parte e in cui tutto  ritorna!.   C'è poi un luogo della Politica, in cui si direbbe  che Aristotele si sia proposto di togliere addirittura  ogni contrasto tra la prazica e la /eoria, tra l’azione e  il pensiero, e di mostrare anzi che la vera vita pratica,  se la intenda bene, è la contemplazione medesima. « Se  si deve, dice Aristotele, riporre la felicità nel bene  operare (civ sbdauorizi ebrpatizv Darty), vita migliore e  per la comunità civile e pel privato cittadino sarà la vita  pratica (z%ì zowf aéons rido: dv sin al a!) Enastoy dortos  Bios 6 mpzzrizis). Ma, soggiunge egli tosto, non è neces-  sario, come credono alcuni, che la vita pratica si svolga  in ona ad altri (2% 76v ATO obr Guorynaloy sivz  Trobs Ertpove, naldrzo otovizi ces), e che fra i peusieri quelli  soli sieno considerati come pratici che riguardano i ri-  sultati dell’azione (obdì 7% 3 deavotag si civar uova TRÙTAS TOUK-  uude 7% TOY UTOGLNONTOY bg yiponevzz è% Toi rpdrten).  Pensieri pratici sono molto più quelle contemplazioni e  quei pensieri, che sono fini a loro medesimi e si vogliono  in grazia di se medesimi, (2% 7oid uamdov 7% 2broTeAÌ;  uu ads abito Evedz Ismpix DI) n ». Spiega poi Ari-  stotele come, nelle azioni esteriori, quelli agiscano massi-  mamente che coll’intelligenza e col pensiero le dirigono  e ne sono gl'inspiratori, quasi architetti che presiedano  alla costruzione degli edificii. Così non converrebbe chia-  mare inattiva una città, che vivesse per così dire, assisa  in se stessa, in un pacifico riposo: avrebbe sempre una  vita interiore feconda e bella. Dio stesso e l’ universo  non hanno una vita meravigliosamente bella ed attiva,    1 Cfr. le belle osservazioni di Ollé - Laprune op. cit. p. 171-174  2 Polit. VII, 3, 5 e 6 1325-b-    af  Nidi,    bisi    cui 6  Ariani    INI    st eis PR Lie    SIN La ILA       Se RE eee n LT,  a "    214 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    ancorchè alla loro azione intima non si congiunga  alcuna attività esteriore! ?   Evidentemente, come si notava dapprima, l’ attività  pratica per eccellenza è qui la contemplazione. Il pen-  siero ora ha per oggetto un diverso da se, ora se  medesimo; ora s'applica a ciò che risulta dall’ azione   che esso inspira e dirige, ora non ha alcuno scopo  estraneo: e tuttavia è sempre il medesimo pensiero  (0empiz), ed è sempre azione (7pà44). Pratica e teoria sono  adunque la medesima cosa; anzi in quella maniera che  Aristotele in questo luogo chiama xp l’azione trascen-  dente del puro pensiero, noi potremmo chiamare 0empix  l’azione pratica ordinaria quando fosse disinteressata.  Il disinteresse pratico è analogo al disinteresse specu-  lativo. Nell’uno e nell'altro caso è l’azione in se stessa  che è presa per fine; nell’uno e nell'altro caso il pensiero  è indifferente ad ogni fine estraneo, e non vede che il  bello o il bene morale da una parte, il vero dall'altra.  Si opera il bene per il bene, si pensa per pensare, ecco  due azioni intimamente connesse fra loro! Il piacere  che s'accompagna a queste due azioni nasce dalle azioni  medesime prese per fine, td #dsws Svepyeiv... dp Goov 7oÙ  Sa aélovs Spammetai ®.   a Intesa e spiegata così la dottrina di Aristotele che  i riguarda la felicità, si vede sparire affatto ogni dissidio    ; ! Loc. cit. ‘Il yàg sbroakia aEdoc, ate val TPU; tie pedi  o dè nai TpueTe Vene vupiws ai T6v twrepizsiy modici  mods Tate diavotare doyirentava. VAINA pihv oddî drpazteiv DANA  nalov Tac nell’ nità TONELS Idpupsvas zai Giv oto TPONPAVEVAG...  ‘Opotos è ToùTto Urdpyer nai val Evds brovodv civ IeoTOV  TYLONI Yo %y 6 0edc or vado vai mis è nbcuas sis oùz cio  ibotepmai pater TINÙ TU OMnelas TU AUTO.   2 Eth. Nic, III, 9, 5. Cfr. Ollé-Laprune p. 176-178.               r,;sper. eeats.7 pe    5  ?  v  ,  n  9          NELL’'ETICA D' ARISTOTELE 215    e contraddizione fra il libro I e il libro X. della, Nico-  machea; anzi il libro X apparisce, com'era nel pensiero  d’ Aristotele, un complemento necessario del libro I.  D'altra parte chi non sa come Aristotele, definendo  nel I libro la felicità azività dell'anima secondo virtù  e, se sono parecchie le virtù, secondo l'ottima e la più  perfetta (cò dbpozivov dyabov duyzio Sviofera yen var  dostuy, ei dì ristoro zi apetat, 427% Thy dplornv nol tede-  worden) *, facesse fin d’ allora prevedere che l' attività  teoretica, la contemplazione, sta sopra a tutto, e che: di  essa pure conveniva parlare dopo aver parlato dell’at-  tività pratica? — L'attività teoretica poi è uno dei tratti  caratteristici del popolo greco, specialmente dell’ ate-  niese. Non esaurirsi per modo nelle necessità della vita  giornaliera che non rimanga un po’ di tempo da con-  sacrare agli esercizi geniali dello spirito; conservare la  padronanza di se anche nelle occupazioni più serie e  gravi della città e dello stato, e in ogni caso assicurarsi un  ozio tranquillo (7704) per raccogliersi e meditare; sprez-  zare le arti serviti e meccaniche perchè tolgono allo  spirito la sua libertà e l'umiliano; discutere dei grandi  affari dello stato, ma spesso. anche per semplice amore  della discussione e per mostrare parola ornata e ingegno  pronto e vivace; fare dell’arte un'istituzione che vive  nel popolo e per il popolo, e alle rappresentazioni dram-  matiche tutto il popolo accorrere, e la lirica cantare fra  il suono e la danza, c pendere estasiato dalle labbra dei  rapsodi e degli oratori, e i filosofi suoi, rapsodi alla loro  maniera, seguire con amore, e ascolne e incoraggiarne  le dispute e sentirsene attratto, come da una segreta  magìa, a cui l’anima non può resistere, ia    1 Eth. Nic. I, 7; 15.  2 Platon. Phedr. 261 A.    ’  DNTI GAETA enne II       . ecco ciò che distingue il greco, specialmente il greco  d’Atene. E in tutto ciò non è in fondo altra cosa che il  pensiero che ama godere di sè stesso, che considera questo  godimento come la cosa più liberale e più nobile, che  in questa libertà e nobiltà si sente divino. «rXosopodp.ey  èvev padaziz, amiamo la sapienza senza mollezza, dice  Pericle in Tucidide !; e queste parole sono come la  sintesi di quella splendida vita greca che mette in cima  a tutto i virili esercizi del pensiero, le gioie profonde  dell’arte, e nelle agitazioni della vita pratica e nelle  tempeste stesse della guerra aspira al riposo, alla calma  serena ec feconda dello spirito, modeuov uèv sionvas y%pW,  acy ori dì Tyorte, % d dvavziia 1 YenTi TV AAIOY  Evezev È.    VII.    Ed orà ognuno avrà potuto notare come un progres-  sivo avanzamento nella nozione aristotetica del sommo  bene, o della felicità. In basso i beni inferiori, i beni  del corpo e di fortuna; in alto il pensiero puro, la  virtù dianocetica; a mezzo la vita pratica, la virtù mo-.  rale. L'uomo è fra due, fra Dio e il bruto; al di sotto  di lui c’ è la regione del bruto, al di sopra la regione di  Dio; egli tiene dell’ uno e -dell’ altro. Le esigenz e mol-  teplici di questa multiforme natura devono TA tutte    soddisfatte,. perchè s'abbia il bene umano; ma devono  A Csa E . Ro ‘a "o: DR fia ; i  ”   riferito per intero: ’ Iugaviterv dè Dozer zat 5 gidos, ETspos dv TO5  , . 3 O 0 3) A N 11 e eta x   0N4405, OÙA OÙUGAY ay alòv chv Adovhv © drzpooovs stòsr' 0 pev   » . DS va - Na PLS 3, - \   ap mods Tapabov bpidetv dozet, 6 dì 7pùs A00vAY, usi TO psv  . . ne e s n ta » ,   bverdletar, dv d' trauvolon © pds E7sp4 OuiowvTa. oùdete  Rada ; 73   2 dv Morro Civ maidlor divorzi î/0y de Blov, “i dopevos to  È ; È OS E   ole Td madia 65 olov Te puaiota, ovdî yalorw ov ci TY   ,  alc ytotoy, undérore pino Intniiva. mepl TONa Fe cT0vdhv  movnozipe) dv val eÌ undenay èruosoo. "Adovny, viov 6p%y, pywnuo-  D ’ Lita ER A [ui f   yevsty, sidsvai, Tdg dostde tyew. si Ò' 36 dvdeftns EmovTaL FOTOS   dova, obdiv dizotper SMolueha yo dv cade nat cl ud yivovra   »n_Y n % , e   mo aUrtiv Adovn.          244 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    chi non si compiaccia dell’ operare virtuosamente e provi  in ciò fatica e dolore!.   Ma, più che in altro, l'analogia fra il Kant e Ari-  stotele è notevole nella teorica del bene sommo. Il bene  sommo per Aristotele sta nel completo svolgimento della  natura umana; la felicità è identificata con la eccellenza  e la perfezione, che suppone la virtù, la virtù morale  propriamente detta e la sapienza. Pel Kant il bene  sommo sta pure nell’unione della virtù colla felicità,  nell’ accordo della moralità coll'ordine dell’ universo;  cioè ancora nel perfetto svolgimento della natura umana,  fatta per essere buona e per essere felice. Il regno dei  fini, di cui parla il Kant, in cui virtù e felicità s’ accor-  dano, in cui le esigenze della legge morale sono per que-  st' accordo completamente soddisfatte, è la vita eccellente  e felice, di cui parla Aristotele; vita secondo il migliore e  il più elevato dei principii che sono nell'uomo; vita che  è ad un tempo virtù perfetta e perfetta felicità, il bene  sommo in una parola. I due filosofi s'accordano poi  anche nell’ammettere che il bene sommo, nella con-  dizione in cui l’uomo è, è piuttosto un ideale che  una realtà, a cui aspira incessantemente la volontà,  ma che i nostri sforzi non riescono mai ad ottenere  completamente. i   Del resto non si tema che, per la smania dei raf-  fronti ad ogni costo, noi vogliamo disconoscere le serie  differenze che pur ci sono fra la morale del Kant e la  morale d’ Aristotele. Prima di tutto il concetto del dovere  pel dovere, anzi lo stesso concetto del dovere; l’esclu-  sione totale di ogni elemento egoistico dalla determina  zione delle nostre azioni; il più assoluto disinteresse,  fondamento unico dell’ operare virtuoso; la purezza    {i Eth. Nic. II, 3, 1. \          \  NELL'ETICA D'ARISTOTELE 245    insomma della morale Kantiana, siamo ben lungi dal  trovare in Aristotele. |   In Aristotele, come già s'è osservato, la felicità  s'identifica bensì con la virtù nell’ unico concetto del-  l'eccellenza e della perfezione dell'umana natura, anzi  la virtù si considera qua e là come desiderabile in se,  anche senza la felicità che le va unita; e tuttavia è pur  sempre la felicità che tiene il primo posto, tanto che  si può riguardare la virtù come un mezzo a conseguire  il bene sommo appunto nella felicità. Nel Kant invece  virtù c felicità s' uniscono bensì, ma non s' identificano;  la virtù è l'elemento primo e fondamentale del bene  sommo; la felicità è dipendente da essa e ad essa pro-  porzionata; virtù e felicità, secondo il Kant, stanno  fra loro nel rapporto di causa ad affetto. E la legge  morale che vuole che alla virtù tenga dietro come com-  penso la felicità; ma ciò che ha vero valore è la virtù,  il bene morale, la volontà buona; è questa il bene  supremo !.   Ma una differenza anche più sostanziale fra i due  filosofi è la seguente. Mentre in Aristotele il nesso tra  virtù e felicità è un fatto, poichè queste costituiscono  in fondo una medesima cosa, non dandosi alcun genere  d'attività, a cui non s'accompagni un piacere corrispon=  dente; e perciò, quando la fortuna non sia avversa, l'ideale  del sommo bene, se non sempre e totalmente, in parte  almeno e di tempo in tempo, agli uomini amici della virtù  è possibile attuare quaggiù; nel Kant invece quel nesso,       1 Non bisogna confondere, nella teoria del Kant, il bene sommo  col bene supremo. Bene supremo, come risulta dal primo capitolo  della:Fondazione è la virtù, il bene morale; bene sommo è invece il .  bene che in se li comprende tutti, il bene perfettissimo, che è la somma  della virtù e della felicità, Cfr. Cantoni, Emanuele Kant vol. II, p. 172.       ber "d . cage foi e. ONT sein Rei ME a SA    246 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    anzichè un fatto, è un diritto; il diritto del bene a un  compenso, il diritto della virtù a non essere sacrificio  e dolore sempre. Ma un tale diritto, cioè un tal nesso  necessario tra la virtù e la felicità, è vano sperare che  si attui nella vita presente, sebbene in questa si com-  piano le azioni rivolte a tale scopo: le leggi del mondo  sensibile e fenomenico vi si oppongono; solo in un  mondo noumenico, avrà luogo. Il bene sommo perciò è  pel Kant intimamente connesso colla vita futura e con  Dio; per Aristotele invece è affatto indipendente e dal-  l’una e dall'altro.    IX.    La legge morale secondo il Kant prescrive | at-  tuazione del sommo bene; ma occorre a tale scopo  che il primo ed essenziale elemento di esso, che è la  moralità, consegua il grado massimo, la santità, che è  il pieno e perfetto conformarsi del volere alla legge.  Questa perfezione morale assoluta, però, l’uomo non  può conseguire in un tempo finito, come la durata di  questa vita: essa suppone un progresso continuo e inde-  finito; e quindi, nella esistenza della persona morale,  una durata egualmente continua e indefinita. Solo a  questo patto, al tipo di perfezione, all’ ideale morale, che  è la santità, l’uomo potrà indefinitamente accostarsi.  La credenza nell’immortalità dell'anima è perciò secondo  il Kant, una conseguenza necessaria della legge stessa  morale, che ci ordina di aspirare alla perfezione, come  allo scopo necessario della ragion pratica.   Ma il bene sommo ha due elementi, la virtù mas-  sima e la massima felicità. L’immortalità dell'anima  rende possibile il primo: come si otterrà il secondo? 0,          meglio, come si otterrà che al primo si connetta il se-  condo? Questa connessione, quest armonia dei due ele-  menti non è possibile che per mezzo di un Essere, che.  abbia la potenza di stabilirla, abbia un intendimento  morale e sia fornito d'intelligenza e di volontà. Solo  questo Essere potrà connettere la natura colla moralità,  anzi sottomettere la natura alla moralità. Così la cre-  denza in Dio, secondo il Kant, è necessaria; e quando  si tolga questa credenza, converrà anche rinunciare alla  speranza del sommo bene, che pure la ragione pratica  ci presenta come lo scopo necessario della nostra attività  e della nostra esistenza.   In Aristotele l’esplicamento dell'attività razionale  perfetta, la contemplazione pura, in cui sta il bene  supremo e la suprema felicità, richiede egualmente i  due postulati dell'immortalità e di Dio? }   Che Aristotele, nel libro decimo specialmente, parli  di Dio e d'immortalità, che inviti l’uomo ad aspirare  all'alto, al divino, all’ immortale, oltrepassando per  quanto è possibile la condizione umana; che una certa  aria di misticismo spiri, per così dire, dal libro decimo,  è un fatto che non si può negare. Ma di Dio nel libro  decimo si parla come d’ un ideale, a cui si deve mirare  di continuo, come dell'Essere che attuando in se la  felicità perfetta, che è la pienezza della vita contem-  plativa, e avendo in se in grado eminente e perfetto l e-  lemento più nobile che si trovi nell'uomo, la ragione,  merita perciò che l'uomo si studii d’imitarlo e d’innal-  zarsì fino a Lui: non mai però se ne parla come della  causa da cui dipenda la felicità, come dell’ Essere che  voglia premiare la virtù !. Il Dio d’Aristotele è un Dio  metafisico, press'a poco come il vods d’ Anassagora: esso    1 Gfr, Eth, Nic. X, 7; 8-9 e X, 8, 6-8.    ATC per Sti ha          248 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    è mero pensiero teoretico mancante di volontà, e privo  quindi di una vera e viva personalità; è piuttosto un  concetto che una persona.   - Dare a Dio gli attributi della persona pare ad Ari-  stotele abbassarne la maestà e accostarlo all’ uomo, farne  anzi qualche cosa di sostanzialmente identico all’ uomo.  E Aristotele respinge risolutamente l' antropomorfismo,  che dimentica l'eccellenza della natura divina, e attri-  buisce agli dei una vita che non differisce molto dalla  nostra !, quasi fosse l’uomo la parte più eccellente  dell’ universo. Per paura dell’ antropomorfismo egli non  vuole ripetere con Platone che Dio sia l'organizzatore  dell’ universo, respingendo come indegne della divinità  tutte le imagini che, a rappresentarla, si prendono a  prestito dall’operare umano ?; e nella cura gelosa che  ha della purezza dell’ intelligenza divina, per poco non  le toglie la conoscenza dello stesso universo 8.   Certamente la divinità agisce nell'universo e nel-  l’uomo; certe disposizioni felici che preparano alla  virtù e alla saggezza trovansi in noi per divine cagioni,  0elas aîtias 4: l’ universo tutto quanto si spiega per una  intima azione divina”. Ma quest'azione è differente  dalle azioni ordinarie; non c'è qui ne opera, nè ope-    1 Metaph. XII, $; Polit. I, 2, 1252b.   Eth. Nic. X, $, 7.   5 Metaph. XII, 9. Kzt *j&p ph og%v îvix noelttoy © 0o%v.   + Eth. Nic. X, 9, 6. 70 sèv oùv ci  giri    LI    LA n .. » ‘  QUrems Fiv de dz E)  vipiv Srrzoyer, DIAZ dix Tivas Veius nitiu mots dis dinboe sdrv-  yéow Urdpyer.   " b IT. POI O ti  $ Metaph. XII, 7, 1072b 14. °Ez  towòrne “ae Hora Ò   . 0 ,   odpavbs vel + gia. De Coclo I, 4, 2712 32. ‘O eds 2!    nei i IG  oUdèv pataiv roroiar. Oecon, I, 3, 13436 26. giro vi mpoWzOv4-  pnmar bTd 79d Metoy Snztepov di pbos.       Uorsoraeaseronisenazioniivsanasanii nvansuninaaionniseenaeeresione  sunsrnarezioneerez a tesneszena near nsanesaraeannasanesanezazeereneeccvarieniesnanivetete                                  ratore, non c'è governo simile a quello che si riscontra  fra gli uomini, nulla è qui fatto, nulla conservato !. La  cura dell’ universo e delle cose umane, nel senso in cui  s'intende comunemente, non può convenire a Dio che  non è l’autore delle cose, e che non può occupare di  questi oggetti inferiori il suo purissimo pensiero: questa  cura importerebbe, se non un turbamento, un cangia-  mento e un movimento sicuramente, un passaggio da  ciò che non è a ciò che è, un progresso dalla potenza  all'atto; il che sarebbe indegno di Dio, che è atto puro  e che è immobile. Il rapporto fra Dio e l'universo è .  semplicemente un rapporto di finalità; Dio agisce sul-  l’universo, perchè è il fine che attira tutto a se, è il primo  motore immobile (eros vuvody artyizos). Perciò nessun  legame propriamente morale e religioso fra Dio e l’uomo:  Dio non è il padre degli uomini come in Platone; non è  buono, non è giusto, non assicura alla virtà le ricom-  pense future, non infligge al vizio e al delitto i castighi  meritati 2; il Dio d’ Aristotele è nelle altezze serene, ma  fredde del pensiero.   Per verità Aristotele parla della riconoscenza che  gli uomini devono ai beneficii divini 3; ma, oltrechè ne  parla per incidenza, e come per far meglio comprendere  la riconoscenza che i figli devono ai genitori, gli è certo  che, nella sua dottrina, la divinità è bensì causa d'ogni  bene, e tuttavia non è essa stessa benefica. Parla anche  Aristotele d'un onore, d'un omaggio, d'un rispetto  ch'egli chiama 7, dovuto alla divinità4; ma anche di    | Eth. Nic. X, 8,7. 76 dè Cove (020) 705 Ter TEL dPa0Y= |  LA ù  uévov, Emi dè uadiav Tod note ni \cimerat TAN Neoplz.  2 Vedi specialmente il Gorgia € la Repubblica di Platone.  3 Eth.-Nic. VIII, 12, 5    4 Eth. Nic. IV, 3; 10; VIIL 9; 55 VII 14, 4i IX, 2, 8.       0/4» arl ente TILNR CTZ LATER RI IR LL    i'Rie    SOSSIRORE SE RESESTRE TI CS VADO ser COCO PETOSII OLI SISIFI PePSPS Ire tcE te TITSII EVI to reno rai e eva    questo parla per incidenza e. alla sfuggita, senza punto  curarsi di determinare in che cosa consista. La pietà,  sdattaz, di cui troviamo così spesso fatta menzione in  Socrate e Platone, non ha alcun posto assegnato in Ari-  stotele; e s'egli parla di feste e di sacrificii religiosi che  parrebbero come le esteriori manifestazioni di essa, ne  parla o a proposito della magnificenza, uey6rpere:z!, 0 a  proposito della necessità che il cittadino per tal modo  si diverta e riposi; e quindi più propriamente sotto un  aspetto dirci estetico od igienico, che sotto un aspetto  religioso e morale. Ogni commercio affettuoso fra Dio  e l’uomo è perciò interdetto nella dottrina d° Aristotele.  In un certo luogo la Nicomachea dichiara esplicitamente  che, stante la manifesta e schiacciante superiorità degli  dei sugli uomini, non: è possibile amicizia fra i primi  e i secondi; la troppa distanza nella virtù, 70) didetapz  dpertig, impedisce l’ amicizia *; e la Grande Etica, ripe-  tendo e allargando il concetto della Nicomachea, afferma  anche più esplicitamente che sarebbe strano che l’uomo  dicesse di amare Dio, e che, in ogni caso, Dio non può  amare l’uomo 4. E ben vero che | Etica Eudemia di-  chiara che l'amicizia che unisce il padre al figlio è quella  stessa che unisce Dio agli uomini, wxtpds z2ì vid 20th    N, i Eth. Nic. IV, 2, 11.  “ 2 Eth. Nic. VIII, 9, 5. Cfr. specialmente le parole: ()votzg Te    moroivtes nai mepi adr GUVOdOLE, quà Amovenavtes Tote Veote,  nai uicote avarabazio mopilovies vel dove.   3 Eth. Nic. VIII, 7, 4   4 Magn. Mor. II, 11,6. fori Y%9, ds oloviat, giix val pds  Nedy val T& %buyz, ob oplòs, ahv 2  siva o) tot Td dvrioietola, dì rebs Vedy ouiz ole dvi  onetoa: déyerzt, od’ dios Td grieiv: Zroroy yÀp dv sta St cu  quin ev toy Ala,    o onix svrzbl4 masev                                    arersezionicnaze:censazezena reno zecepana au lusen sshasesed tas tone onsarasenerprooresasaseraonea tenace cpeseecesessovezievzenivaceosze nt    rep 0z0d mods &vporov!, e che la più alta perfezione mo-  rale consiste nel servire Dio®; ma è noto quanto Eudemo,  questo discepolo d’Aristotele, si sia allontanato dallo spi-  rito del maestro, accostandosi per contro a Platone.  % In conclusione adunque' «il Dio d’ Aristotele non  : è nè l’ autore, nè il signore dell’uomo, nel senso che  Lia ‘renda possibili i sentimenti affettuosi; non è legislatore,  3 non giudice, non rinumeratore, non vendicatore. L'uomo  sa che lo considera, lo vede al di sopra di tutto in un'alta  e serena regione, come il fine che attira tutto, come il  modello della vita perfetta e della suprema felicità. Poi  ù lo vede presente dappertutto; l’azione e |’ irradiamento  D; dell’ intelligenza suprema gli appare come il principio  ;9 di tutto; la sua propria intelligenza è ai suoi occhi cosa  divina, divinissima, e perciò è in se stesso e come nel  suo proprio fondo e nella sua propria essenza ch' egli Rei  3 trova Dio. Ma nè nell’uno, nè nell'altro dei due casi,  «“& l’uomo si unisce a Dio con un legame propriamente 0  he: religioso. Egli non trova in Dio la legge della vita; egli i  non ha giudice, se non la propria ragione, € il suo fine 33 ed  È sembra essere egli medesimo, quantunque in un certo he  | —’senso sia quello al di sopra di lui n°. . n  2006 Lasciamo poi che non di rado in Aristotele troviamo È x:  i la tendenza a non distinguere Dio ‘dal mondo, a farne | DE  ‘anzi una cosa sola; l’immanenza del fine nell'universo è e  concetto altrettanto aristotelico quanto è concetto aristo- ‘A  telico la trascendenza; sicchè, come osserva |’ Ueberweg,  « resta un certo spazio così per un’ interpretazione             I Eth. Eudem. VII, 10, $. marpos di zi viod vadth “nmeo  Neod pds Hviporov ui TOÙ SÙ TOAGANTOG mods cdv mebovia vat  dwg To) gloer dpyovtos Tpds ov Quasi dpyopevovi   2 Eth. Eudem. VII, 15 in fine. 1 106 A RR   3 Ollé- Laprune op. cit. p. 202-203. i ora    vi    "i    ve    reti ione       252 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    di preferenza naturalistica e panteistica del sistema  aristotelico, come per un’interpretazione favorevole allo  spiritualismo e al teismo !.v Il divino dentro il mondo  e la natura, pronunciato filosofico, che dovea avere un  così ampio svolgimento negli Stoici da informarne tutta  la dottrina, non è senza fondamento che si faccia risa-  lire fino ad Aristotele. Molto giustamente lo Zeller afferma  che la natura nella filosofia aristotelica sì può definire  la sfera dell’interna attività finale 2.   Quanto all’immortalità dell’anima, alcuno potrebbe  credere a prima vista che Aristotele. volesse alludere a  questa, quando parlava della via perfetta (Bios Tide),  necessaria a formare la felicita perfetta. Ma è evidente  che qualora il filosofo avesse voluto veramente intendere  per vita perfetta l'immortalità, si sarebbe espresso in  modo meno enigmatico, e quel suo concetto avrebbe  chiarito ben più che non ha fatto. Noi già abbiamo  detto come è da intendere il Rios 7élevos, © ci pare che  non sia bisogno di aggiungere altro in proposito.   Il problema dell'immortalità non è neanche toccato  nella Nicomachea. Vi si accenna per verità una volta  là dove è detto che i morti pare debbano interessarsi  della sorte dei loro cari, e si fa questione se essi par-  tecipino, o no, dei beni o dei mali; ma vi si accenna  alla sfuggita, senza dimostrazione o discussione alcuna,  e come per fare una concessione alle credenze popolari 4,  anzichè per una vera e propria convinzione filosofica    1 Grundriss der Geschichte der Philosophie- Erster Theil- Die  aristotelische Naturphilosophie, Sechste Auflage, I, 204.   2 Geschichte der Philosophie der Griechen, Zvveiter Thei I, Zvveite  Abtheilung p. 325. Tubinga, 1862.   5 Eth. Nic. I, 11, 1 e 5-6.    TIR 1 SARE  4 Cfr. infatti le parole: 7% Sì -6y ITOYOIOY by as vai cv  “                                 x    dell'autore; tanto è incerto € irresoluto il linguaggio  che questi vi adopera.   Del resto l'immortalità non può trovar posto Nel  sistema d’ Aristotele. E noto che Aristotele ha fatto  distinzione tra intelletto agente, voi: rovnrmds, € intelletto  passivo, vovs malnriés, cioè tra un principio che nell'anima  umana vivifica e informa, e un altro principio che viene  vivificato e informato; è noto anche che il primo dei due  egli considera come separato, immisto, immortale, e  l’altro fa perire colla vita presente. In quale dei due prin-  cipii consiste la personalità umana? Tutte le controversie  del Rinascimento a questo proposito, provano che una .  risposta decisiva a una tale domanda non si può dare.  Ma qualunque potesse essere questa risposta, non sa-  rebbe certo favorevole all’immortalità della persona; pe-  rocchè, anche dato che la persona umana consistesse  nell’intelletto agente, non si potrebbe però da questo  arguire la sua immortalità. Colla vita presente si spegne e;    NITTO CRE E LETTA lee TI    la ricordanza, lo dice esplicitamente Aristotele Lee Ù  spenta la ricordanza, a che cosa si riduce l’immorta- A  lità dell’ intelletto agente? All’immortalità dir un prin- DI  cipio astratto, indeterminato, del principio dell’ intendere 3  in generale, all'immortalità d'un principio che manca hi  d’ ogni carattere personale, se è vero che la persona è Si  costituita essenzialmente dalla memoria e dalla coscienza. i   Manca adunque nella morale, e in genere nella 5  filosofia d’ Aristotele, il concetto dell'immortalità | della “ì  persona: sebbene non si possa concludere per questo |  che il filosofo abbia voluto negare quest immortalità ; È    ?  7A  da    t è ?aI , v   INI ETINTOY dò pèv pindorioby coptaieola May dordoy qui  vera nat mots dota Evavtiov. Eth. Nic. I, tr, 1.   4 De Anima III, 5, 4. Vedi per tutta questa questione dell’in-    telletto agente e dell'intelletto passivo De Anima III, 4, 5, 0.       TR et    =    pai detti pare dà gno    vinte, vr    rd    pa  din       254 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ    SERIO TRENI I    ciò non si può dire; convien dire piuttosto col Teich-  miller ! che intorno al problema egli s'è mostrato  dubbioso ed incerto.   Tolto alla morale il concetto di un Dio giudice e  dell'immortalità, e rinchiuso l’uomo nei limiti della  vita presente, si dirà che non si capisce come possa  essere effettuabile l'ideale di felicità di cui parla Aristo-  tele, in cui nulla dev'essere imperfetto, ovdîv ap drchég  ori Tv ic sbdazovizz: si dirà che non-si capisce come  possano accordarsi: virtù e godimento, se così spesso  vediamo la virtù sofferente; come possa richiedersi quale  condizione di felicità una vita perfetta, {sos 7éAe10g, Se questa  è abbandonata ai capricci della fortuna: si dirà anche  che la felicità aristotelica, abbracciando molti piaceri”.    è che non si possono ottenere senza ricchezze, o ottime    disposizioni di corpo e d’ ingegno, o nascita illustre Ecc.  diventa per ciò stesso un privilegio solo a pochi con-  cesso. Tutte queste difficoltà ed altre molte della morale  aristotelica comprendiamo perfettamente; ma compren-  diamo anche lo Spirito eminentemente positivo e scien-  tifico, da cui Aristotele dovea essere indotto a trattare  la morale da un punto di vista: puramente umano,  lasciando da parte i rapporti che la possono connettere  con Dio e l’oltretomba; comprendiamo ch'egli abbia  voluto nettamente distinguere le verità della scienza da  ciò che è soltanto congetturabile. « Poichè il suo metodo  Positivo, osserva il Ferrari ®, non Poteva svelare il segreto  della tomba, meglio era tacere sulla sanzione oltre-  mondana, anzichè pretendere di dimostrarla con miti e  con fantastiche analogie. Per Questa tacita risoluzione  ci pare ch'egli abbia meritato una volta di più della    1 Studien zur Geschichte des    Begrife, p. 342.  2 L’ Etica di Aristotele riassu    nta, discussa ed illustrata, p. 334-          “IC    VI                 diri    NELL'ETICA D'ARISTOTELE 255    ra       scienza, e che in questa via ben fece abbandonando  Platone. Certo ei mantenne fede, diremo così, al suo  programma, nè dimenticò qui, come non dimenticò  altrove, il rigore che un trattato scientifico esige. »   Del resto, colla sua dottrina profonda che il piacere  è connesso in ogni caso coll’ atto, Aristotele intendeva a  dare all’operare virtuoso un premio, che non fosse  bisogno ricercare. al di fuori. Certo egli non ha mai  detto che la virtù sia premio sufficiente a se stessa;  ma la dottrina stoica che ciò proclamava, non è così  distante da Aristotele come può sembrare a prima vista.  Gli Stoici, per arrivarvi, non hanno fatto che svolgere  il concetto Aristotelico della connessione del piacere  coll’ atto. Col senso pratico che lo distingueva, Aristotele  notava che non si potrebbe chiamare felice, ancora, un  virtuoso a cui capitassero sventure quali, ad esempio,  capitarono a Priamo 1; ma notava anche che un virtuoso  assolutamente infelice non può essere ?. La virtù insomma  per lui era un premio, non certo sufficiente, ma premio  pur sempre a se stessa. E per ciò il bene umano, td  dvbp@rivoy 206, non era necessario ricercare al di non  della vita, e aspettare come premio dalla divinità: la vita  presente poteva darlo, sebbene non perfettamente.   Per tal modo la morale avea in Aristotele un domi-  nio proprio, indipendente e dalla mortalità e da Dio  medesimo. i   Il Kant, quando stabiliva che la legge morale è ob-   ‘ bligatoria assolutamente e per se medesima, e non ab-  bisogna quindi di nessun principio, neppur di Dio, per  valere; quando affermava che la legge e il dovere è il  più alto concetto della filosofia pratica, e che il concetto    E mibiierm Liste. Cral rt    ‘    rio A it gli a    pet LAS    NE IRE II 4, |    ICI    sia    ‘bo    1 Eth. Nic. I, 9, 11; e I, 10, 12-14.  2 Eth. Nic. I, 10, 9-11, € 13.    ENolioiiaoi pescesaieeressiepesenesareeeeseece,  A    DI          iii    mt sino       202 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    lo fa oramai senza fatica e quasi senz’ accorgersene.  Non basta fare le cose dell’arte, per essere artista, ma  bisogna anche farle artisticamente; e così egualmente  non basta fare azioni virtuose per essere virtuoso, ma  bisogna anche farle virtuosamente!.   Ma questo paragone della virtù all’ arte, se qui fa al  caso nostro, non si può accettare sotto altri rispetti. Poichè  per l’arte non si richiede che l'artista sia disposto in  una certa maniera: un’opera d'arte è un’ opera d' arte  indipendentemente dalle intenzioni buone o cattive, dalle  disposizioni d’ animo di colui che l’ ha fatta; essa ha il  pregio in'se medesima, non fuori di sc. Invece non è  così della virtù: la virtù è cosa tutta soggettiva; perchè  un’ azione sia ad essa conforme, non basta che sia fatta  in una certa maniera, non basta che abbia un pregio  in se stessa, indipendentemente da colui che l’ha fatta;  si richiede per contro che appunto colui che l’ha fatta  sia disposto in una certa maniera. Senza questa dispo-  sione intrinseca di chi opera, l’azione avrà tutte le  apparenze della virtù, arrecherà anche i vantaggi che  suole arrecare la virtù, ma non sarà però virtuosa. E la  disposione intrinseca di chi opera sta in ciò, che questi  conosca l'atto da farsi e'le sue circostanze, che operi  preeleggendo o per volontà libera, a fine d’onestà, o  preeleggendo l’azione buona per se stessa, e finalmente  con fermezza d'animo e costanza ®. Di queste condizioni  la prima sola, la conoscenza, ha importanza per l'arte;    1.Eth. Nic. II, 4,12.  È . da O) 4‘ . , . CL)  2 Eth. Nic. II, 4, 3. 7% dî «27% %5 dostàe qIOLEYA 00% TI    \    .  î)    N  N-    ‘x E dizzioz 1 PASIESZA & DINE) dn. ,  TOS Èyn, dvazios Ti copgiv: moxrienat, dd val è%I di  9  Ù    ì    5; 3: NITTO negre ERA Sy SS sÒa » 16 een  TIZTTOY TOS E/OV TILTTI, TIOTDI PEY E2I Slòw:, Sam EI  , ‘ pZAGE IRE] Dl Ù DINA] , Quae  spo nsaoduev0I, AI rossonero: dr abrz, 6 dî colroy uz è  Ù    ” . DI ‘ bd LA . .  Melzio: vl Quesito: Spor rotta. Quello che dice qui    -                                          NELL'ETICA D'ARISTOTELE 203    per la virtù invece la prima ha importanza minima,  massima per contro le altre!.   Come si vede, Aristotele qui, conformemente alla  tendenza già notata in principio, cerca nell’ intimità  dell’uomo, nel mondo riposto delle intenzioni e degli  affetti, la sorgente vera della virtù, Non è all’esteriorità  dell’ atto che si deve badare, ma al suo valore interiore,  che gli deriva dalle condizioni interiori di chi opera. Nel-  l’analisi di queste condizioni interiori Aristotele rimase  insuperato. Non diciamo già che prima di lui non si ‘  fosse visto che il valore dell’azione sta principalmente în  queste condizioni interiori. Fino in Democrito troviamo via  che è il sentimento e non l’azione chie fa buono e cattivo  l’uomo, e si richiede che il male non soltanto non si  faccia, ma anche non si voglia, e. che il bene si faccia  per libera elezione, non per la speranza della ricom-                           Aristotele, con molta verità, intorno alle condizioni che deve avere  l’azione per essere virtuosa, si.risolve in una critica a quanto egli  dice in altro luogo. Egli afferma infatti (Eth. Nic. II, 2, $ - 9) che  le azioni virtuose che si fanno, dopo acquistato l'abito della virtù,  sono eguali a quelle per le quali quest' abito venne formandosi.  Ciò non può essere, poichè, se si guardi all’azione per se, indipen-  dentemente da chi la fa, certo essa è la stessa, sia prima, sia dopo  l'abito; ma non è già la stessa, se la si consideri în riguardo a chi  la fa: quella che è fatta prima dell'abito non è fatta con elezione, nè  con quelle altre condizioni che deve avere la virtù: quella che è fatta  dopo, invece, ha l'elezione e tutte le altre condizioni che le si con- “i |  vengono. Cir. il bel commento di Bernardo Segni a questo luogo. i  (L° Ethica d' Aristotele, tradotta in lingua vulgare fiorentina et  comentata per Bernardo Segni, Firenze, MDL).  1 Eth. Nic. IT, 4, 3. eds dI #d mà doors Eye =d psv SNSLI  " pazgoy di ubdiv layer, rà d' KNz 0d putglv DIA TI ni divari.    "i ». - C? Ci  Urso è4 où TONIAMI TILETEN nd dirzia vai aOpPIVI Fepuviverzi,       è in noi, il dolore che a questo stesso atto s' accom    264 2 LA DOTTRINA DELLA VIRTU    pensa !: € dai Cinici la virtù non è fatta consistere nel  sapere solo, come da Socrate, .ma eziandio nella forza  e nell'onestà del volere; e Socrate stesso , e massima-  mente Platone, non trascurano le condizioni interiori  della virtù, sebbene, riducendo la virtù al sapere, fini-  scano in fondo col negare ogni valore alla volontà. Ma  prima dello Stagirita indarno si cercherebbe un esame  rigoroso € completo di queste condizioni: a lui nulla  è sfuggito; principalmente si può considerare un Vero  capolavoro lo studio suo intorno all’ appetito e alla  volontà, quali condizioni dell’ operare, come vedremo  in un altro Saggio. I  Poichè, come s'è detto, non è virtuoso se non colui  che, essendosi a lungo esercitato ad operare Virtuo=  samente, lo fa oramai senza fatica e senza stento, €  quasi senz’ accorgersene ; è segno che s'è fatto già l'a-  bito alla virtù, il piacere che s' accompagna all'atto  virtuoso compiuto, come d'altra parte è segno che il vizio    pagna. Così chi s' astiene dai piaceri corporei € di ciò    sente piacere, è temperante, intemperante invece chi A    prova dolore; ed egualmente chi sopporta cose gravi cd  acerbe e ne gode, è forte, chi se ne addolora vile ?.  Ecco qui una sentenza d' Aristotele troppo assoluta  e che non può essere accettata da Aristotele medesim0:  Aristotele infatti ha affermato che è necessario eserci*  tarsì ad operare virtuosamente per diventare virtuosi: © È    qui afferma che chi prova dolore nel fare le azioni  virtuose, è addirittura vizioso! Queste due affermazioni +  sono contradditorie. Chi tende e si esercita & diventati    1 2A bi 5 $ \ DS  CIRCA ONESTI RIOO TOR - nie  T Hoy ne) 10) Nag VOVAZEW, DI 2h uadi BI PPICINA = N69    sr i erov rode =) & 2 ;  L STOY Fpos TAV MUOLEAY, DI è 3 dp ooo    2 Eh Nic II, 3; 1.    -  si          NELL'ETICA D'ARISTOTELE 265    PETRI EAAZA NZ A RANE A A FARA ETTI ALATI LETIZIA ANI PAT AT TEN PAT IZ ITA TE PITT ATTENTA rene ravaneniasea serene ssannarizioninuese.Fuvaseriaeeesazsiesecaece    virtuoso, non può non provare stenti, fatiche e dolori  a seguire la sua via, se pure è vero che la virtù sta  essenzialmente nel sacrificio; e dovrebbe essere per  questo collocato nel numero dei viziosi ? Aristotele stesso  parlando in un certo luogo dell’ èez74g, ossia di colui  che fa forza a se stesso per esser buono, e che. per  conseguenza opera con fatica e dolore ciò che è proprio  della virtù, l’esclude bensì dai virtuosi, ma non lo mette  però fra i viziosi; anzi l’approva e gli dà lode, come  a quello che naturalmente si dispone a diventare vir-  tuoso !. D'altra parte Aristotele considera il vizio come  la malvagità scelta e voluta per se stessa, non per  altro che possa venirne, come la malvagità passata in  abitudine, da cui non sì può più ritrarsi, di cui è im-  possibile pentirsi, e che quindi è incurabile ?. Ora come  può dirsi aver contratto quest abito proprio colui che  opera virtuosamente, è bensì vero con fatica e dolore,  ma collo scopo ultimo di diventare virtuoso?   La vera dottrina d’ Aristotele è adunque la seguente:  è virtuoso colui che gode dell’ azione virtuosa che fa,  non è ancora virtuoso chi sente comecchessia dolore  a fare un’ azione virtuosa.   Contro questa dottrina però, per cui la virtù è la  moralità passata in abitudine © connessa col piacere del    ! Eth. Nic. VII, 1 specialmente il $ 6. Quello che dicesi dell’è»-  uoITEA, SÌ ‘può anche ripetere della z237eptz € di tutte quelle altre  disposizioni che non sono virtù, ma che si accostano alla virtù.   2 Eth. Nic. VII, 7, 2. 0 péy iù Urrsphodds diozoy Adtov È    . DS NI . IAS DI x 0 3a,   va0) brepBoXny vai dik rrooziosawy, dr adrze nai undev dL' Erspoy  , ò ci i a a   arobrivov, dnbNaetos, [avdyza “Ro TOsTov uh siva persuedt    suziv, Gar! dIvlaros' 6 yd0 WieT4uENI 95 intazog i, Cfr. Eth.  Nic. VII, 8, 1- 4, luogo importantissimo, perchè parlandoci del divario  tra l'intemperant® (&40).407 ) e l’incontinente { gaoxtic), ci parla                             suo atto costitutivo, si potrebbe osservare che è troppo  unilaterale ed esclusiva.   Come? non è dunque virtuoso chi, pur avendo a  lottare contro l’infinità di ostacoli che oppongono le  passioni e gli uomini, riesce a compiere un'azione buona?    x    E non è virtuoso, perchè appunto ha dovuto lottare,    d ha faticato, sofferto anche, nel compiere quell’ azione ?  2 O m' inganno, o appunto la lotta, la fatica, il dolore  © affrontato e vinto per amote del bene, costituisce il  merito dell’azione e la virtù; che sono tanto maggiori  ì quanto è maggiore la lotta, la fatica, il dolore.   i Ma Aristotele non vuole ancora chiamare virtuoso  F chi, costretto a lottare per fare il bene, è in pericolo  Ù di rimaner vinto nella lotta; è virtuoso solo chi, dopo  n un'infinità di battaglie sostenute e vinte, è divenuto  È tale che, per quante opposizioni gli possano venire, non    c'è pericolo che soccomba, le vince con facilità e disin-  voltura, esi rimane fermo ed incrollabile nel bene.  Bisogna convenirne; è una concezione altissima €  nobilissima della virtù; soltanto è lecito domandare, se  a questo grado supremo di perfezione possa giungere —  l’uomo. E possibile, per quanto ci siamo abituati @  dominare le nostre passioni, ridurle a un tale stato  d’impotenza, che non abbiano ad opporsi più al nostro.  det desiderio del bene, o ad opporsi così debolmente da  a esser vinte colla massima facilità? Ma dato anche fosse  I possibile, certo è che, giunti a tanta altezza, non ci È  sarebbe più meritò; il merito starebbe tutto nella vita:  anteriore di lotta e di battaglia.  L'autore della Grande Etica pare abbia vista la       anche indirettamente del divario tra il vizio e la disposizione che non =  è vizio, e che pure lo prepara e gli s' avvicina; o, in altre parole, Cl    | parla del divario tra il vizio morale e il vizio naturale.” Ri    VE TT    le «dra “    > lo    Lara       RFGAOI SODA ICI CANI EE PITTI TIRI IT LOD AI LL    difficoltà in cui cadeva la dottrina d’ Aristotele, quando  introdusse una distinzione tra la virtù che si forma e  diventa, c la virtù perfetta; tra la virtù che si può con-  siderare come una laboriosa conquista del bene, e la  virtù che ne è invece il pacifico possesso; e disse la  prima degna di lode (3rxwv:74), perchè, diremmo noi  ora, è uno sforzo, e sforzo meritorio; e la seconda degna  di rispetto e di venerazione (7u6v 7). L'uomo virtuoso  di virtù perfetta s'è come rivestito e penetrato della virtù,  ne ha preso la forma, sis #ò ts deerds cyiuz Tae; ma è  in possesso d'un bene sovraeminente, divino, 0zìoy, piut-  tosto che umano!. di i   La dottrina d' Aristotele è adunque, come si diceva,  troppo unilaterale ed esclusiva. Virtù non è soltanto  questo stato di perfezione suprema, accessibile a ben  pochi, in cui l’amore del bene e l’ abitudine al bene è  riuscita a soffocare ogni tendenza contraria: virtù è anche  lo stato di chi combatte le prave inclinazioni dell'animo  per conseguire il bene, e lo consegue, malgrado i mille  ostacoli che queste gli oppongono.   E appunto il Kant? ripone la virtù nella volontà e  nello sforzo di conformarsi al dovere, quindi nella mo-    ralità, per così dire, militante; e la distingue dalla    santità divina, sola immune da passioni, € impossibile  all'uomo. Il quale concetto della virtù non è però incon-    A Magn. Mor. I, 2, 1-2. gr: yàg 7ov Zy206y TÙ USI GUIA,    ) {  . Di Poi q Di  =} Ò'imavetd... sù dì ciusoy def  PR UU ELI PASTI LI RANA 9 e       die AA La    LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    to  i JI    Notisi però che la virtù è bensì medretà, conside-  rata in se stessa é ne’ suoi elementi costitutivi, .ma  considerata in rispetto al bene, non è wmedretà, ma un  estremo, %ag67n Fth. Nic. II, 2, 3-4 èasîvo dI To muoaziolo, 97: TR I    [Sg +       i  %    vprazol    negras              278 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    lito ario icrierrercreniinntiuirinrinenein certo SEN  Mesanuzasiaeoninzenaszanin ata nennr era viso    La diritta ragione, applicata alla vita pratica, pro-  cede in modo diverso dalla ragione speculativa, applicata  alla definizione e alla dimostrazione delle cose mate-  matiche. Queste sono oggetti ideali formati per astrazione  dalla ragione medesima, e, come tali, semplici, immu-  tabili, necessarie. Con, queste, per conseguenza, la  ragione tratta, come si tratterebbe, per così dire, con  persone di propria conoscenza, senza titubanza, con  perfetta sicurezza, con disinvoltura, applicando loro  vegole e criterii assoluti, generali, necessari. Le cose  reali sono invece di tutt'altra natura, indipendenti dalla  ragione, complesse, Mutevoli, contingenti. La sicurezza  con cui la ragione tratta gli oggetti ideali, non è adunque  più possibile con queste; con queste bisogna procedere  con cautela, con riserva, con riguardi d’ogni genere:  i criterii assoluti, e le formole precise e determinate,  e le regole generali, sarebbero Per queste un non senso.  Si potrebbe con una definizione breve e Precisa, o con  una serie di ragionamenti, concatenati gli uni agli altri,  determinare la natura € le proprietà di un corpo orga-  nico? Nessun artificio di ragionamento può divinare la  realtà; solo l'esperienza ce la rivela; e siccome non ce  la rivela che in PAITE, siccome in fondo c'è sempre  qualche SSPettoro qualche lato nascosto dell'immenso  poliedro, la lagione, aggiungendosi all'esperienza, per  Interpretarla, non può assurgere a concezioni univer-    sali certe e decise, rigide e inflessibili. Ciò avviene  anche Maggiormente nelle cose    plesse e variabili e Mobili delle c    LI ei 4 |,  TEpL Tor Toxzrov idro. ni PE II ARS e 0051) 5  È Rare PZATOY ) (Nazi FIT 42I ng CADTOtA costei Mevecli  det è sirode del To):    '  Li  - TaoYege =) . TÀ  s Dede npaTrOvIZ: 2% mons Tby UO GROTEW,  MoTEI 42! îri TRE luomo Ba Li S n   SEO, 3 VATOLUATIC Sy nai pula nofepvatiziz. Cfr. Eth,  Nic. I, 3. L=. i             Ot VE  bol. lip” gi i    po    via CAI       Potramaoo ot Pte 1. è «dp Dati ll” Pi gue è di AI    als RIIEZII a = - erecsater nd Pa: c* dim :  de, ia Sai te ara + rasta Corale È PO  a sE %    NELL’ETICA D'ARISTOTELE ‘ 279    conseguenza tanto meno atte ad éssere conosciute e  giudicate con esatezza.!,   Si potrebbe anche aggiungere che, essendo |’ Etica  in Aristotele dipendente dalla Politica, e non avendo.  l'individuo valore per se, ma in quanto vive nello  Stato e per lo Stato, non spetta all'individuo stesso  provvedere alla propria moralità, e stabilire dei pre-  cetti generali intorno al modo in cui dovrà agire: è lo  Stato che pensa a lui colle sue leggi, con l’ istruzione  e l'educazione che sono in sua mano, colla sua prudenza  impersonale. La prudenza e la politica sono un medesimo  abito, io dì uzi 4 olerizà 220 dA Copovnore i abrh FATA  osserva in un certo luogo Aristotele *: il che vuol dire  in fondo che non c'è una prudenza individuale separata  dalla prudenza pubblica, e che sebbene d’ ordinario non  si estenda l’ idea di prudenza che all’ operare per rapporto  agli individui, non può l'individuo conoscere il suo  maggior bene senza prendere in considerazione la sua  famiglia e la sua città #. A che dunque ‘dovrà la Morale  determinare con precisione i precetti morali, se questo  mon è compito suo ?   ‘ Non bisogna poi dimenticare che il tipo dell’ operare  c' è in fondo in ogni uomo, se è vero che ogni uomo ha  la ragione: la ragione è l'ideale, a cui si tratta di con-  formare le nostre azioni; nella ragione è il primo germe  della virtù. Secondo l’ uso che faremo di questo germe  e lo svolgimento che gli daremo, saremo uomini più   I Eth. Nic. V, 10, 7. 70d Y%g doglato» dbp1otos 243 6 RAINON  iam, @onep na Tic Acoptas ginodovtis è porbdrvos IVO! Teos  và ò cyhpa coÙ Nilo pertanto: 4ab 00 eva 9 ION,  uri cò Vioraua mpds 7% TpX{ATA.   2 Eth. Nic. VI, 8, 1.   a Eh. Nic. VI, $, 3.                                250 LA DOTTRINA DELLA VIRIÙ    o meno, chiaroveggenti o ciechi, sani o ammalati, buoni  o cattivi. L'uomo buono è colui che attua perfettamente  in se stesso l’ideale della ragione; perciò è il miglior    giudice in fatto di morale, e per se e per gli altri: egli  5a sa discernere l’ apparenza dalla realtà, il vero dal falso sp    egli è la misura dell’operare, chè in ciascuna cosa è  misura la virtù e chi è buono °. L'uomo buono ha un  sentimento giusto, fine, delicato di ciò che è buono e  di ciò che non è tale, come il musico ha un fine senti-  «G . Mento dci canti, e si compiace dei buoni, è disgustato  n: dei cattivi 8. Può darsi che altri si compiaccia di ciò   che è male, o si astenga, per paura del dolore, dal   bello 5, ma nell’ uomo buono sentimento e ragione  _ S'accordano; egli si compiace del bene come s’ addolore   del male; il piacere dell’uomo buono è piacere vero ‘.    | Eth. Nic. III, 4 4-35.    c: N " E , . ns   n GTROVdIA: 2% 44977. voive: dolo.   . » . LI ci . ‘ % e r fi : i   su ev enzoroe Anbis adrù puiverzi.... zi de   » o Ni “-}| x x i CAL, ‘   1705 9 STINO 36 AO èv ERIGTORS Dodv, ansi 4AVOY ei  Fay i È  08081 Tistoroy     . n . Ù au i  SA + Eth. Nic. X, 5, 10. Tz d2 TUÙTO | GRUUÀZIA) ) dura, co cio  ì ? RENI x da n f 1) oÀ LE  B. pulveTai “idéz, oùdèv Iauzariv: TO)}%} Yo pliocai val ina:  x i "| di I  CANPIOAIONI ovini. i    CA . ‘  Nic. Igt Aa av VUTAV TY 22% dneyouebz.    G FK î lare po SIN “  Ta) Eth. Nic. I, S, 10-13. 7oî       Me. messo innanzi da lui come un esempio atto a spiegare  î. in qual modo deva la retta ragione regolare le azioni.  fi Poichè in morale non c'è niente di stabile e di fisso, |  EA e la trattazione di essa è per ciò stesso vaga ed incerta,  x Aristotele si propone di venirle in aiuto, cercando d' in-  È dicare in maniera facile e popolare come deva |’ uomo -       comportarsi per operare rettamente®. © —  > Ma in seguito il giusto mezzo non è più un esempio  Lic che serva a spiegare il precetto dell’operare secondo |  retta ragione: diventa anzi una vera © propra dottrina,  che Aristotele cerca di stabilire e di provare scientifi-  camente nel capitolo VI del libro II; a cui conforma la  classificazione delle virtù nel capitolo VII dello stes so  libro; su cui insiste e a cui torna ripetutamente nei due  ultimi capitoli VIN e IX. pote i   Del resto la medietà non è che la misura, la misura  che la ragione impone all e passioni e alle: azioni, La    RATTO IA    i rà BEATIOTA TAOARANEÌ.    I Eth. Nic. I, 13, 15 bplos vd 4Iù ET i i  parole det Yeg    2 Cfr. Eth. Nic. II, 2, 1-7. Nota specialmente le    . ORO e ENCIO KLLAR  Srdo TOY dany Fois garzone anto 40%    DI .       1 ì : de " "© re n  i re daga? a i    act  e x    282 Ò LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    medietà d’ Aristotele è perciò in fondo la stessa cosa  che la metriopatia di Platone. La retta ragione compie  per Aristotele lo stesso ufficio che il #52, 0 il limite  per Platone nel Filedo : V infinito, 4rexov, di Platone è  da trovare, per Aristotele, nelle diverse funzioni della  vita; nel piacere e nel dolore che sono gli stimoli che  servono a conservarla c a propagarla come vita naturale;  nelle relazioni della vita comune, negli onori, nelle  azioni, negli uffici pubblici, nelle passioni in generale, ira,  timore, coraggio ccc.!.   Così i due grandi filosofi hanno fatto tesoro in mo-  rale di quel precetto che costituisce come il fondo della  vita comune del loro popolo, «ne quid nimis». Il senso  della misura e dell'armonia è la caratteristica del popolo  greco in tutte le molteplici manifestazioni del suo spirito,  ed è il segreto per cui ha potuto arrivare a tanta altezza  nella storia del miondo. Platone e Aristotele si son fatti  in morale gl’interpreti del loro popolo.   Già anche altri prima di loro aveano accennato a  una simile dottrina. Focilide avea cantato che «la mode-  razione è ciò che v ha di meglio; che la condizione  media è la più felice» ?: Democrito avea detto che «il  meglio è di serbar sempre la giusta misura; che troppo  e troppo poco sono male » 3; ei Pitagorici, con non  diverso intendimento, aveano fatto consistere nel dezer-  minato il bene, nell’indeterminato il male; il che Ari-  stotele approva altamente, aggiungendo, a guisa di    commento, che in realtà l'errore è multiforme e il  è    1 Cfr. Eth. Nic. 11, 7, dove si tratta delle varie virtù e se ne    indica la materia.    2 Bergk, framm. 12.  3 Euscb. Praep. Evang. XIV. 27,3. Si ricordi anche il consiglio  ?    . . ” , ‘ . DA n)  di Democrito 1eroroaTi FEsyuoe 4% bio Cappereta.             cammino diritto uno solo, sicchè quanto  virtù, altrettanto è facile il vizio !.   Ma nessuno al pari di Platone,  di Aristole, clevò a sistema questi  massime sparse: qua e là, ed erompenti, per così dire,  dal cuore stesso del popolo. Ogni moralista accoglie di  necessità una materia in gran parte data; ma è lavoro  creativo ed originale il dare a quella materia un fonda-  mento più stabile e sicuro.   Già abbiamo accennato al carattere eminentemente  estetico della Morale d' Aristotele?: la medietà, in cui  consiste la virtù, ne è ‘un’ altra prova.   La medietà è in fondo nient altro che ordine, misura,  determinazione #; e queste sono qualità proprie del bello.  Aristotele, benchè ‘non Ateniese, ha veramente quel-  L'amore del bello con sobrietà e con misura, colla  chiaroveggenza, che viene da un intelletto nemico d'ogni  eccesso, che Tucidide, per bocca di Pericle, dice essere  il carattere dei Greci d’ Atene, gu)ézz142 UST sdredetag 1   Ma forsechè la virtù aristotelica ha solamente un  valore estetico, € le manca quel non so che di più pro-  fondo e più intimo, di più veramente morale, che è  proprio della virtù? Ecco una questione grave che  dev'essere risoluta. fa   Se si passassero in rassegna tutte le espressioni che  Aristotele adopera per indicare l'atto moralmente buono,  si vedrebbe quanto siano in gran numero le seguenti:    è difficile la    e più specialmente  precetti e queste    14. Cfr. anche Eth. Nic. 11, 9. 2 € 7.    | Eth. Nic. II; 6; Dig  «La dottrina della felicita nell’ Etica Nico-    2 Vedi il Saggio  machea di Aristotele » P: 218-219: een  i ) O NI rs vat ig gie AZ Te 4   5 Eth. Nic. II, 6, 11. T9 Òì bre uu co 945 pds  11590)    Discorso di Pericle.    XL  Soy "on emette voetht   s- 32 N} = LX FALGTON, naso EGR The dott.   ni vena naù © de, TE vat ole a    41 Thucyd. II, 44;       airrrpentini eee een eee ei n; gn arr ©    294 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    2} 20h, di nIIà TUE, 11100 ivenz, Òid Td 22.0V, Teo: cò  sai, AIN Tidog This aperte, poca 22.65, e simili, tutte  indicanti che buono ‘e bello sono la medesima cosa €  che il valore della moralità sta in fondo nella sua bel-  lezza. Ma accanto a queste espressioni, ce ne sono delle  altre, che, sebbene non in così gran numero, sono però  non meno degne di considerazione e di studio.   Aristotele infatti dice, ad esempio, che il temperante  ariiypeò ©v dei el ds der, z2ì 672; che non è liberale chi  dona vîc uh Sex ®, o prende per donare G0ey pù det 3; ma  invece chi dona vis det ei dre 4, e prende per donare  i0ev der 5; che per la virtù morale è cosa di altissimo  momento ò yzio3ty ois dei zzi unsziv % St 9; che quando  alcuno per una violenza a cui non si possa resistere,  compia cose % wi di, è degno di compatimento; ma  però bisogna resistere più che si può, non lasciarsi  costringere a certe cose, îviz d tas olz tatuw ivzyazalava:,  piuttosto morire, %}}% pX}%ov drolvatiov, € morire dopo  aver sofferto gli estremi tormenti, aalliviz 7% damorzzz, *.  Altrove poi, volendo determinare quasi il carattere  principale dell’azione malvagia, dice che consiste nello  scegliere per malvagità 00, % dz, pur conoscendo ciò  che è meglio, %uewov 8.    1 Eh. Nic. IIS, 12, 4.   2 Eth. Nic. IV, 1, 12.   5 Eth. Nic, IV, 1, 15.   + Eth. Nic. IV, 1, 17.   3 Eh. Nic. IV, 1, 17.   6 Eth. Nic. X, 1 I   7 Eth. Nic. III, 1, 7-8.   8 Eth. Nic. II, 2, 14. Dozodat, Fe 0dy, di abrot roomipriolai e  dorata. nai doldew, dI nor doti yer Femor did vasta       NELL'ETICA D' ARISTOTELE 285    Qual è il valore che si deve attribuire qui alla parola  der, e alle altre equivalenti, où îo7w, gravato? Accen-  nano esse al dovere, all’ obbligazione nel senso Kantiano,  o anche semplicemente stoico della parola? Siamo qui  dinanzi a quella necessità interiore, @ quella coazione  d’indole specialissima,. che è penetrata nella coscienza  per opera, in particolar modo, del Cristianesimo?   Certo, dar significa st deve; MA qui mi pare sia- piut-  tosto un si deve di convenienza, di opportunità, di  ordine; di armonia, un si deve estetico, per chiamarlo  così, che un vero € proprio si deve morale. Ciò che  si deve fare, per Aristotele, è ciò che è dello fare: ci  sono certe cose che si deve temere € che è dello remere,  vin ydig vai dei gopztata va v).61%; per esser liberali davvero  bisogna donare a chi.si deve, quando si deve’, e dove  è bello, dedivar dis Sa al ire, nad 0Ò 4210) 2; sî deve esser  valorosi non per necessità, ma perchè è cosa bella, dzt  ÒÙ où di dvegziav deri siva. Dai e Seni da ha  un significato diverso, e più profondo e più intimo, certo  è che Aristotele non s'è curato mai di determinarlo;  anzi quando nei Topici * ‘ha messo New fra le parole  che si adoperano in diversi significati, 79)12/05 IEYOUEYZ.  ne ha accennato due solamente, quello di utile e quello  di bello, civ sì 76 Òiov tori 70 Guugspo dd IZZO   D'altra parte ciò che si deve fare è prescritto dalla  ragione; e le parole che Aristotele adopera per indicare  queste prescrizioni della ragione sono: 9ì095 FR ù  2oryoac plles, è 2byas mpua Tiara: Ora che valore hanno DEE  parole? Indicano forse un comando espresso, che ObDUB ui   ' Eth. Nic. III, 6. 3:   2 Eth. Nic. IV, 1. 17.   5 Eth. Nic. II, 8, 5:  > +11;3,4-             agtonnal, > pr    E UT IE e ti al pei    286 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    la volontà, un qualche cosa di simile all’ imperativo  categorico del Kant? C'è in queste parole quel che di  profondo e di intimo, quel che di propriamente morale,  che indarno s'è cercato nel det? Per vedervi tutto ciò  bisognerebbe snaturare e falsare Aristotele. La diritta  ragione, osserva con molta acutezza Ollè Laprune,  ordina bensì, 7477, ma si potrebbe dire che « ha meno  per ufficio di dare degli ordini che di mettere ordine.  Essa ordina meno all’ uomo questo o quello, che non  ordini l’uomo; non jubet, si potrebbe dire in latino,  sed ordinat. Anche quando. prescrive un’ azione, x606-  242721, CSsa prescrive piuttosto un bell’ ordine, una bella  disposizione dell'anima e della vita, che non enunci un  articolo di legge. La forma che dà ‘è estelica piuttosto  che legale. Essa ordina lo spirito, il sentimento, asse-  gnando a ciascuna cosa il suo posto, determinando così  fa condotta, molto meno analoga in questo a una legge  che comanda, che a un principio intimo d’armonia. E  regolatrice, senz’ essere propriamente imperativa » ?.   Si potrebbe aggiungere che non una volta sola  troviamo nella Nicomachea l’ espressione 5 Ioya: nededar,  la ragione comanda, che certamente non mancherebbe,  qualora alla ragione Aristotele assegnasse un Vial  diverso da quello di semplicemente dar ordine ed armo-  nia all'uomo e alle azioni sue *    1 Op. cit. p. 86.   2 Nell’ Eudemia però (II, 3 2) noi troviamo l° espressione Ò ros  ne)evet, la ragione comanda [av 2XGL dì Td IÉGay o) mode uz  Remorav 70570 vyda Sor e rota ve)aber vat 6 Idyos È  ma, osserva Ollé-Laprune (op. cit. p. 86), non certamente con signi-  ficazione kantiana, bensì con valore analogo a quello della frase della  Nicomachea (VI. 1. 2.) Sca 4 tarerzì ve)eber. - In ogni caso non  bisogna dimenticare che l’ Eudemia non è opera d' Aristotele.          NELL ETICA D' ARISTOTELE 287    Il dovere adunque, chiamiamolo pure con questo  nome, e la regola dell’operare hanno in Aristotele sopra-  tutto un valore estetico; e tion poteva essere diversa-  mente, quando si pensi che manca in lui anche la  coscienza morale.   La coscienza morale ? potrà qui ‘osservare qualche-  duno; ma come può mancare la coscienza morale in  otte se troviamo in lui un'analisi così profonda  del voloziario e dell’ involontario, se la ragion pratica  vi è considerata come la misura e il giudice del bene,  se il sentimento di piacere che si aggiunge all’ azione  compita, è preso come criterio e indizio dell’ abito  virtuoso formato, se è richiesto che il bene si operi per  se stesso, e con fermezza d'animo e costanza, se insomma  si tiene un così gran conto di tutti gli elementi interni,  e, chiamiamoli così, intenzionali dell'atto? E la parola  coscienza, cuvzidas, che manca in lui, non la cosa; e  noi dobbiamo tener conto delle cose, non delle parole.  La coscienza morale non è in fondo altro che la legge  morale considerata subbiettivamente, cioè la legge in  quanto è giudicata, conosciuta, interpretata, applicata  dall’agente morale: ora non altra cosa è quella che  Aristotele chiama retta ragione, 3500: %6yo; La retta   ragione è come l'ideale dell’ operare; ciascuno porta con  sè questo ideale, e chi vi si conforma perfettamente è,  per così dire, la personificazione della coscienza morale.   Certo che in Aristotele c'è qualche cosa che fa  pensare alla coscienza morale, che anzi, a prima vista,  potrebbe confondersi con essa; ma o c' inganniamo, o)  la vera e propria coscienza morale manca in lui, 0  almeno mancano in lui alcuni dei caratteri proprii e  distintivi di essa.   ; Coscienza morale non è infatti soltanto la legge  morale giudicata, conosciuta, interpretata e applicata                298 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    una specie di giudice interno  un processo intorno ai nostri  un giudice che ci loda    dall’ agente morale; è anche  che istruisce, per così dire,  atti e pronuncia una sentenza; È  o ci biasima, ci premia o ci castiga, e traduce in una  soddisfazione ineffabile la lode ed il premio, in un  tormento d' inferno il biasimo e il castigo. Fa altrettanto  la retta ragione in Aristotele? La retta ragione giudica  anch'essa, ma giudica alla maniera d’un artista: essa  decide che cosa si deve fare per raggiungere l’ ideale,  e vede poi se l'ideale è attuato nelle azioni e fino a  che punto; ma l'approvazione 0 la disapprovazione che  dà, il sentimento che suscita di piacere o di dolore,  perchè l'ideale è attuato o non è, assomigliano molto  più a quell’approvazione 0 disapprovazione, 4 quel  sentimento di soddisfazione o di disgusto che dà e:  prova un artista dinanzi a un’ opera d’arte, dinanzi  all armonia o disarmonia delle sue parti e del tutto, che  a un’approvazione 0 disapprovazione, a una soddisfa  zione.o a un disgusto d’ indole propriamente morale.  Fu già osservato! che il bene si distingue dal dello  massimamente per questo, che nel bello l'oggetto del  giudizio è estraneo e più o meno indifferente all’ uom0,  come sono i colori, i suoni, le parole ecc.; nel bene  invece è la volontà propria dell’uomo, cioè l’uomo |    [N    x    stesso. -In Aristotele l'oggetto del giudizio morale È  bensì l’uomo, la volontà sua, e perciò non è certo.  estraneo e indifferente all'uomo stesso; ma è d'ordi-  nario così sereno il giudizio che la retta ragione Ne  pronuncia, si addentrano così poco nell’ intimo: del-  l'uomo l’approvazione o la disapprovazione, il piacere  o il disgusto che ne sono -la conseguenza, che parrebbe  SES l’uomo non fosse in gioco in quel giudizio;    dI l 3  Lindner, Lelrbuch der Psycologie al cap. dei sentimenti morali:                                             o almeno fosse in qualche modo estraneo a se stesso,   Insomma la coscienza morale in Aristotele,-se pure   si vuole chiamare con questo nome la retta ragione,   manca di quel che di intimo e profondo, che ne è il ;   carattere distintivo principale, sta, per così dire, alla È   superficie dello spirito, non ne ricerca le intime fibre, 5   e non conosce quindi nè gioie austere solenni pel bene TM   compiuto, nè rimorsi dilaniuni pel bene violato. In o   nessun luogo -d’ Aristotele troviamo qualche cosa che © pi   possa paragonarsi a ciò che noi diciamo rimorso, come Sa   in nessun luogo troviamo quella che noi econo pace   «e tranquillità della coscienza 1; l’ idea che Aristotele si - SO   È fa della responsabilità interiore, dice anche qui Ollè La   | Laprune, è piuttosto estetica che morale ?. : SUE   È Per quanto s'è detto adunque è proprio vero che TS  la virtù in Aristotele ha un valore e una significazione   x estetica assai più che morale.   » A non diversa conclusione si può arrivare esami-   |. mando il concetto che Aristotele si fa della malvagità e   È del vizio.   s Nel capitolo 8 del libro V_ Aristotele determina netta- ;   È mente le condizioni della malvagità. Non si dà il nome”   di malvagità a un malanno che capiti inopinatamente,   ma02)6f 05; questo si direbbe piuttosto infortunio, &76yagz;   non si parla di malvagità neanche quando un danno.   recato ad altri è bensì conosciuto da noi e noi ne siamo |   4 Per verità in un certo luogo (Eth. Nic. IX 4, 8-9) è detto che   i malvagi odiano e fuggono se stessi ‘e la vita, e si uccidono; il   che, farebbe supporre che nei malvagi fosse vero e proprio rimorso.   Mao c’ inganniamo, o qui è più che altro l'interna disarmonia e l'in-   terno squilibrio, e quindi ancora un qualche cosa di contrario. alla La   Le, la causa dell’ odio alla vità e del suigdio: EI i   Op. cit. p. 99: ; Tata    _ (G. ZUCCANTE    SIR EESO NIC Del Fainivissisceteiesrecorssisvossaogiessapesareneone ivo iovopivoiocenserrenescepnescernnia iii    la causa; ma manca da parte nostra il proposito deli-  berato di nuocere, manca la malizia; ciò si direbbe piut-  tosto errore, dudoTapz. La malvagità esiste quando si fa  ‘danno con intenzione, col proposito veramente di farlo  I IAIIION| ada; allora l’uomo       dix uoyBngizvh Piaba , È4  è veramante &dtog; rovnpos, moy0npos |. Conveniamo che  un'analisi più proionda delta malvagità non si poteva  dare, nè si poteva meglio mettere in rilievo la parte che  nella malvagità si deve assegnare al volere. Ma in che  consiste in ultimo questa malvagità, questa xzziz, questa  uoybnpiz, chè tali sono specialmente le parole che per Ari-  stotele denotano la malvagità? L'anima dei malvagi è )  in discordia con se stessa, eruci4ler 2dràv + dz, è detto nel ]  capitolo 4 del libro IX, e una parte s'addolora per  astenersi da certe cose, e un’ altra s' allieta, e una parte  qua li trascina e un'altra là, come lacerandoli e dila-  niandoli ?.   È il disordine adunque e l'anarchia interiore il  carattere principale del male morale; è la deformità, la  bruttezza che da questo disordine e da quest'anarchia                    ! Riferiamo l’importantissimo luogo: &7xv év ody TILLIOOG  I DION Yet, arbg apo, dTav dI uh T46AA6YO                                    legge positiva: alle sue formole brevi, inesatte pel loro   rigore medesimo, bisogna sostituire, nella pratica, il   libero e delicato apprezzamento dei fatti, delle  circo- -  tanze, dei rapporti, senza il quale la morale è una scienza   vuota e falsa, e la legge può condurre a delle vere   ingiustizie. La giustizia sociale dev’ essere corretta dalla   giustizia naturale, che con quella deve costituire come  un solo tutto.   Ma la giustizia naturale, l'equità, l'imeize, non ha  la sua applicazione che alla giustizia determinata dalle  leggi positive? :   Il concetto dell'equità è in Aristotele troppo ristretto.    Non soltanto essa corregge le leggi in ciò che queste    possono avere di difettoso; non soltanto fa che queste  s'interpretino con criterii larghi e benigni, e non sì pren-  dano dal lato peggiore (srì ò yeèsov), anzi si sminuiscano  (zero) nelle loro applicazioni!; non soltanto insomma  si estende a quella parte dell’ umana attività che è rego-  lata dalla legge; ma comprende ogni genere di rapporti  che si possono stabilire fra gli uomini, si estende a  tutta la sfera dell’ umana attività. Si potrebbe dire  che ne sia espressione la formola: «Non fare agli altri  ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso, » formola  larga e comprensiva, suscettibile di essere applicata a  tutto e a tutti, e non soltanto ai casi determinati dalle    leggi. : >  tele] . «_»  Non daremo ora che un cenno della giustizia pro-    - priamente detta, É noto con quanta profondità e verità  | Aristotele abbia trattato questa questione. La dottrina    : x x $ lr tata i È, LI  dove leggiamo: Zori dI èmuerzis TO TAPR TOY YEYPHLUEVOV VODOY  YA  DIZZLOV. i ; «R   eRENTO NE , 22  1 Eth. Nic. V, 11.80 WN dapiBodizzios èm TÒ    % % , Co  eipov KAÀ EXaa-    Dari    x ‘ ARE  corinbe, nalmeo Syoy dv vop.ov Bonfov, smueuzig Soru.          »  4       della giustizia è, con quella dell'amicizia, la parte più                              bella e perfetta dell’ Etica Nicomachea.  La giustizia, in un senso larghissimo, è abito di  conformare le proprie azioni alle leggi; ©, siccome le.  leggi comandano ogni specie di virtù, essa è la riunione  di tutte le’ virtù, sta nell'esercizio di queste con rela-.  zione agli altri uomini, è il bene altrui, cò dMMorgrov &y200v, p  come dice con frase energica Aristotele !. Ma oltre questo  significato generale e troppo largo e indeterminato, la  giustizia ne ha un altro, più particolare, più ristretto  e preciso.  Lagiustizia è sovratutto eguaglianza, e siccome l'egua-  glianza può aver luogo nella distribuzione dei beni e  degli onori, oppure nelle transazioni e negli scambi, nella  riparazione delle ingiurie, nella compensazione dei danni,  abbiamo due specie digiustizia, la distributiva (qò èv es  dravoads Sizaroy), e la correttiva o compensativa (è èv T-1:-20000  cova pani dopdriziv) ®. Tanto la prima quanto la    4 Eth. Nic. V, 1. 12-17. Vedi specialmente queste parole del $:17  uri ceto dzioy Dozet siva dizioni uova Tav dpETOY,  dui Tpòs Etepov totlv. i 3: zi   2 Eth. Nic. V, 2. 12 775 dì zatà pipos dizzionovag vel zoù  nur mothv duzziov &v per èomw cidos 7ò èv als dzvonale cure  7 yPuuaToy ) s0v ov do peprotà To LOMavoval'AGiGi  moliretzg ( èv Tolto Yip for el dvicoy Eye nat nov ETEpov  Eripov), Ev dì 7ò èv 70 avvale pari Sropeziziv. A torto si  chiamò dai più giustizia commutativa quella che Aristotele chiama —  ‘correttiva, T6Ò Sroplworzdy dizzioy, perocchè la giustizia correttiva  non si riferisce soltanto ai contratti, alle permute quali le intendiamo  ‘noi, come compere, vendite, prestiti, garanzie, locazioni, depositi, —  mercedi; ma abbraccia anche moltissimi altri casì di rapporti e di  ‘scambi tra gli uomini, come furti, adulterii, false testimonianze, vi  neficii, uccisioni ecc. La parola Guvdlik para, che Aristotele adope              na  È          sorsoneseosezasaniesenoavsa sossascasuzeosseresennevesavvevesavesenconaezesee ceca ezeeni    seconda suppone di necessità quattro termini, due persone  e due cose. Ogni scambio e ogni distribuzione non può  infatti avvenire che fra due o più persone, e le cose distri-  buite o scambiate devono essere almeno due. Ma mentre  nella giustizia distributiva si richiede che il merito d’un  uomo stia alla porzione di benè che gli è dovuta, come  il merito d’un altro uomo alla porzione di bene che gli è    ‘ egualmente dovuta, sicchè non basta determinare il    rapporto delle cose, ma bisogna anche combinarlo col  rapporto delle persone, € si ha perciò una vera € propria  proporzione geometrica, che si potrebbe rappresentare  colla formola A: B::G: D:1; invece nella giustizia cor-  rettiva non ci sono da comparare e, bilanciare che le cose  scambiate, indipendentemente dalle persone. Qualunque  siano i contraenti, qualunque sia il loro carattere, la. loro  condizione, la loro fortuna, il loro merito, essi non entrano  punto nella determinazione della quantità scambiata. La  giustizia in questo caso sta nella perfetta eguaglianza delle  due cose che si scambiano; quanto altri dà, altrettanto  deve ricevere in contraccambio.   E ciò avviene anche nell'altro caso della giustizia  nel caso cioè che si tratti di riparazione  di danni. L’ingiuria  dev'essere come due;  dev'essere    correttiva,  di ingiurie, di compensazione  è come due, e la riparazione  ‘1 danno è come dieci, e la compensazione    per indicare tutte queste cose, si traduce male e troppo restrittivamente |    con contratti 0 commutazioni; sì   ‘relazioni, indeterminatamente. (Cfr.   stizia commutativa in senso stretto, di quella giu  nelle vendite, nei contratti ec    luogo nelle compere,  nel cap. 5 del libro V $$ 8-18; ma questa è parte.    e non tutta la correttiva.  1 Eth. Nic. V, 3, specialmente 1 98 5-15:    Eth. Nic. V, 1. 13). Della giu-  stizia cioè che ha  c.) Aristotele parla  della correttiva,    .  ì    We    tradurrebbe meglio con rapporti, -                                        come dieci, indipendentemente da ogni considerazione  di persona; la legge guarda solo alla differenza del  danno, trattando i colpevoli alla stessa stregua, come  eguali (pds 700 fMdfovs 7hv dzgopdv povov PISTE Ò vopnos và  yofitat ds too1s). Il giudice ha il compito di pareggiare le  partite; egli è come la giustizia personificata, ed opera  come chi, delle due parti disuguali in cui fu tagliata una  linea, tolga alla maggiore quello che avanza per aggiun-     gerlo alla minore; solo allora gl’interessati dicono d'avere    quello che loro spetta,, xò 25708: infliggendo la pena, il  giudice annulla il vantaggio che l’offensore ha sull’offeso!.   Aristotele ha cercato di tradurre in linguaggio mate-  matico anche la giustizia correlliva, rappresentandola  con una proporzione aritmetica continua. Ma è difficile  comprendere, osserva molto giustamente lo Ianet®, come  sì possa costruire una proporzione con un solo rapporto;  il rapporto di eguaglianza perfetta fra la perdita e il  guadagno. Aristotele qui pecca per soverchio rigore €  sottigliezza; egli avea ben detto nel principio della Nico-  machea che non bisogna pretendere dalla morale |’ esat-  tezza della matematica ?.    ‘Del resto Aristotele limita esclusivamente la giustizia i    ‘alla vita sociale; la giustizia è la virtù sociale per  eccellenza; non si parla di giustizia che fra liberi e    ‘eguali che hanno comunità di vita; per quelli che non.    ‘hanno queste qualità non ci può essere giustizia che in  un certo senso. La giustizia non v'ha che per quelli per  i 1 Vedi per tutto questo Eth. Nic. V, 4. Si può aggiungere Eth.  Nic. V, 5, 8-18 per quella parte della giustizia correttiva che riguarda  le vendite, le compere, i contratti ecc.   2 Histoire de la Science politique dans ses rapports avec la                                                              cui v'ha la legge, e legge non v'ha là dove non può  essere ingiustizia !. Perciò se si parla di una giustizia  del padrone verso lo schiavo, 0 del padre verso i figli,  se ne parla soltanto per analogia; lo schiavo e il figlio  (quest'ultimo finchè non sia d’una certa età. e non sia  separato dal padre), sono proprietà dell’uomo, sono come  una parte di lui stesso, &o7sp {épos 2709; € Verso le cose  proprie, verso se stesso, assolutamente parlando, non  si dà ingiustizia, e quindi neanche giustizia ?.   Più che verso,i figli e gli schiavi, può aver luogo  giustizia verso la moglie, sebbene anche questa specie  di giustizia famigliare sia ben diversa dalla giustizia  sociale ®.   Sarebbe facile notare qui quanto, questi concetti che  riguardano i rapporti specialmente del padrone collo schia-  vo e del padre col figlio, siano erronei, e contrarii a quello  spirito di fraternità e d’eguaglianza che già fin d'allora  "È incominciava a manifestarsi nel mondo: sarebbe anche  sa facile far le maraviglie come mai un filosofo del valore  Di di Aristotele si sia indotto a considerare non solo gli  schiavi, ma i figli stessi, almeno fino ad una certa età,  come una proprietà del capo della famiglia, sicchè anche       I Eth. Nic. V, 6. 4. ToDTO (7d TONLTLADY dizzuoy) d tor [eri]    3 Vor N , È tb» A  zomaviy  Blov reds tò siva abTuozet, evlisoy ze icov © È    VITE CAIO CA] È, 203 dprduoy' (ate doors pin èoti modro, ob sor n  mobTors TpdG ove Ò mONIZOY dizzioy, GINA TL diano xa.  228) GUoLoTATA. Cotti Ye Òizasoy, ole nat vipos TpdG niTodg VOos  w Sèy cis ddutz.   È 2 Eth, Nic. V, 6. 8-9 od ag Er dÒrnta mods Td nITOÙ: TOI  fg dv È tendizoy nai porsi, a)  spetras Bertani dò obz fam    ,  Udi dizzuov Td TONTIZOY.    ,  =D dî xe Auz Vi TO TEZIOY,,  . ret ds x SEGNA Ea  grad, bro d oUdets T90%    uépos 2  È) ELA  Yad: obd' dea ddtnoy 0    ° ’ LI  ENIVATA Toos x  5 Eth. Nic. Vj È. 9.    4 g atua  LMRAER:. bar CAI?    _  . scotta               e)    ULI   molitizéig, TEVOY di Bzariz®s): ora il potere regio differisce in questo — le  | dal potere dispotico, che il primo mira all'interesse dei sudditi e il  condo al suo proprio. Cfr. lanet Histoire de la Science patilique ecc. Si    sopra di questi, e non sopra quelli soltanto, egli abbia  un potere dispotico, un'autorità assoluta: si potrebbe  anche, slargando i limiti della trattazione, mostrare la  falsità della dottrina, pure per tanti rispetti importante,  con cui Aristotele si prova di giustificare la schiavitù,  cercandone il fondamento nella natura, e non nel diritto  del più forte e nell'autorità delle convenzioni, come si  soleva fare ai suoi tempi?. Ma tutto questo oltrepasse-  rebbe lo scopo nostro. A. noi preme soltanto mostrare  che la virtù è per Aristotele. sovratutto sociale; e la  giustizia negata agli schiavi cd ai figli minori, negata a  rigore perfino alla moglie, rinchiusa nei limiti della vita  politica e della legge positiva, ne è la prova più sicura.    +    VII.    se”    Ed ora in che rapporto, secondo Aristotele, si trova  la virtù morale colla natura deli’ uomo? i    Aristotele dichiara che i figli sono una proprietà del padre e che verso  di loro non si può commettere ingiustizia, non siano che un’iperbole  per esprimere l'autorità sovrana e irresponsabile del padre verso i figli.  In realtà l'autorità del padre, Aristotele non considera come affatto |    Sai | arbitraria, poichè altrove dichiara che è da paragonare a quella d'un. È    Lre; non a quella d’un despota ( Polit. I, 1255 b 1 ANIA “puyatzòs uèv. >    I. p. 201-202. ;  chi Polit. I, 1253- 1260. Cfr: Ianet op. cit. vol. 1 p. 194-199. -    |) D'*       1 È da credere però che le parole della Nicomachea con CULT RIT              IT                                ICIIIIITE PESCO II TI TI CCI CI CITI TE LICITA LITI  nersrnraze are zesi ve neneenzoniazanaa nen aee ta conaseozizanicnee       Aristotele afferma esplicitamente che la virtù s'inge-  nera in noi non già per natura, ma per abitudine (4 dî  hiizh E 003 sreorfifvetar... obdeu.tz ‘gi zi dostov   - qbazi duty èffiprerzt); niente di ciò che è per natura in   43 una data maniera, si potrebbe avvezzare diversamente DI   i da quello che la natura sua comporta; la pietra che per na- È   A tura va all’ingiù, non si avvezzerebbe ad andare all’insù,   si neppure se altri la gettasse in su dieci mille vole per 3   f: _avvezzarvela !. E bensì vero che se la virtù nonè in noi per: | i,   è natura, non per questo si può dire che sia contro natura x"  (74 qbsw): la natura nostra non si oppone al formarsi   e allo svolgersi in noi della virtù morale; noi siamo per   natura tali da accoglierla. e da non farle opposizione e    resistenza, reguzosi ciutv Bitzolar abtdg apetds >.   Per tal modo il mondo morale è per Aristotele non .  opposto al mondo naturale, ma diverso da esso; il mondo  morale è esclusivamente fattura umana, produzione    dello spirito per mezzo della consuetudine.   Ma come è nata la consuetudine? com'è sbocciata  .  la prima operazione da cui la consuetudine si origina?  come ha avuto incremento? Alla consuetudine stessa  non si può in nessun modo assegnare quella prima ope-       razione.  Quest obbiezione: si direbbe Aristotele abbia fatto    È. a se stesso; e perciò, in un altro luogo, parla di una  virtù naturale, guar dp27%4, vale a dire di una disposizione  ‘naturale che è come preparazione alla virtà morale, e che   si trova con questa in quel rapporto in cui l'abilità natu- ur   rale si trova colla prudenza: «A tutti sembra che cia- 2   scun costume si trovi in noi in qualche maniera per , a  natura; perocchè subito fin dalla nascita abbiamo la           i Eth. Nic. II, 1 $$ 1,2 +  2 Eth. Nic. II, 1. 3.       disposizione ad esser giusti e temperanti e forti e alle  altre virtù» ?. E bensì vero che questa disposizione non  è ancora la virtà, e deve, per diventar tale, esser assog-  gettata all'impero della ragione; perocchè « anche nei  fanciulli e nelle bestie sono gli abiti naturali; e tuttavia  senza la mente sembra che arrechino danno » 2: ma in  ogni modo questa disposizione naturale c'è, ed è come  il dato, il presupposto della virtù morale; anzi nel mondo  morale sono due parti, la virtù naturale, € la virtù  morale, tri où iizod dio torw, dò pèv doeth QUeLzin TÒ  dA zupla 9,   Così il mondo morale che dapprima pareva staccarsi  dalla natura e sorgere, se non in contrasto con essa,  almeno in un dominio diverso dal suo, in ultimo si  riconnette alla natura.   L’ affermazione quindi, già accennata, di Aristotele,  che la virtù morale non è in noi per natura, ma si  acquista coll’uso e coll’esercizio, non si deve prendere  nel senso che in noi non ci sia niente d’originario e  primitivo, non ci sia un'inclinazione speciale, da cui  possa svolgersi la virtù; bensì che la virtù non esista già  in noi bell'e data e presupposta in potenza, ma che  la dobbiamo far noi operando, che ce la dobbiamo acqui-  stare gradatamente, con dolore e fatica, per merito    A Eth, Nic. VI, 13. 1.   2 Eth. Nic. VI, 13. 1. ;   5 Eth. Nic. VI, 13. 2. Che alla formazione della virtù morale  concorra un elemento naturale, un elemento cioè non fatto, ma dato,  lo provano anche i seguenti luoghi, oltre il citato: Eth, Nic, III, 5, 17  dove la buona disposizione naturale è chiamata * 7eActz #2 PIXVISKO  eb@uta, Eth. Nic. IX, 9. 6, dove i ben disposti da natura alla virtù  chiamansi ©9 &iadég edrvyeis ed Eth. Nic. X, 9, 3, dove parlasi  ‘d’un’indole ben nata; 5 sbyeves.       nostro, pure servendoci a tal uopo di elementi origi-  narii Che sono in noì per natura |.   È noto in qual conto fosse tenuta nell'antichità  quella che si chiama oggidì la trasmissione ereditaria.   Pindaro celebrando le lodi d’ Ippoclea tessalo, che  avea vinto il premio alla corsa del doppio stadio, risale  all’ Eraclide ond’ebbe principio la stirpe di lui, perchè  dalla stirpe quegli ritrasse la sua virtù ®: altrove con-  trappone la virtù acquistata con la fatica e la cura del  singolo cittadino, a quella discesa per li rami, e trova  la seconda di molto superiore alla prima 3. Teognide  anche più di Pindaro ha chiaro in mente il concetto  della virtù della stirpe, forse per l’aspra lotta che ebbe,  egli patrizio, a sostenere colla democrazia soverchiante4,  Aristotane paragona i vecchi cittadini alle vecchie monete,  oro fino, ben suonante, d’ottimo conio, accetto del pari  ai Greci ed ai toda e i nuovi alle muove, coniate  nella maniera peggiore, d’infimo rame: i primi, di buona    stirpe, sono per ciò stesso savi di mente e giusti e per  ‘bene; i secondi invece, gente servile, capitata non si sa  «donde, cattiva e di cattiva genia °.    1 Ecco come s'esprime a questo proposito lo Zeller, commentando  Aristotele: « Die Naturanlage und die Wirkung der natiirlichen Triebe  "hingt nicht yon uns ab, die Tugend dagegen ist in unserer Gewalt;  jene ist uns angeboren, diese entsteht allmihlich durch Uebung».  Philosohie der Griechen, Zwcite Abtheilung p. 485. Tubinga 1862.  E altrove p. 483.« Das Vermògen ist uns angeboren, die Tugend und  — Schlechtigkeit nicht».   2 Pyih. X. 19   5 Nem. III, 69 e seg. -  4 Theognid. nell'edizione del Welcker, passim. Cfr, i Pr ‘olego.  A meni dello stesso Welcker.   $ Ranae 718 e seg.       Per       n    È ben vero che altri attribuirono ben poco valore alla  stirpe. Così Democrito ha lasciato scritto che molti più  diventano buoni per istudio che per natura », ed Epicarmo  che lo studio dà più che non la buona natura?: Licofrone  poi, un sofista, sostenne addirittura che valore di stirpe è  nome vano, e che in niente si distingue chi l'ha da chi non  l'ha3. Ma Socrate, pur poco 0 nulla, secondo pare, facendo  dipendere dalla stirpe, faceva dipendere molto dalle  condizioni fisiche dei genitori 45 e Platone affermava  esplicitamente che la disposizione è migliore da natura  dove è buona e vecchia la stirpe 5; € raccomandando  nella Repubblica che si combinino in una certa maniera  i connubii, mostrava di riconoscere che dalla qualità  dei genitori dipende la qualità dei figliuoli; la volontà  di ciascuno, in tutto o in gran parte, è fatta dalle  disposizioni a lui trasmesse dai genitori.   Aristotele ha addirittura un libro intorno alla bontà  della generazione o della stirpe, Iegi Rùyevetzs, libro  perduto, ma di cui ci rimane un estratto in Stobeo.   Eùyeveta, egli dice, vuol dire virtù, valore di stirpe,  e stirpe di valore è quella in cui persone di valore  sogliano generarsi da natura. Ciò avviene quando un  principio di valore s'ingeneri nella stirpe, chè «il prin-  cipio ha questa potenza, fare molti esseri com' esso è».  «Negli uomini come nei cavalli e in ogni altro animale    1 Stob. Floril. XXIX, 60. Ed. Gaisford vol. II, p. 11.   2 Ib. 54 p. 10.   5 Citato da Aristotele nel suo libro mepl Evyevela nell’estratto  fattone da Stobeo; ib. LXXXVI, 24 vol. III p. 200.   4 Memorab. IV, 4. 23. Qui Socrate dice che non basta, perchè  il figliuolo sia buono, che buono sia il padre; e insiste molto sulle  condizioni fisiche dei generanti.   5 Alcib. Maior XVI. 120 D.       St                                  stia RI I I    ha luogo questo». Eugeni, di buona stirpe, sono    n adunque coloro che discendono da buoni ab antico, a  È. patto però che ci sia stato nella stirpe alcuno il quale ss  AE abbia dato la prima mossa e la mossa duri. Che se  ; alcuno nella stirpe, pur buono lui, non ha tal potenza  n da generare esseri simili a se, i suoi discendenti non si    potrebbero allora chiamare eugeni, di buona stirpe !.  Però, osserva Aristotele in altro luogo, «v'ha la messe nelle  stirpi degli uomini, come v'ha nei prodotti della terra»;  sicchè «quando sia buona la stirpe, vi nascono per un i  pezzo uomini segnalati; poi si fermano; poi ne manda fe  fuori da capo» ?. E perciò c’è come una varietà e inter-  mittenza nella produzione delle stirpi, e il principio  È; di cui è parola più sopra, è immaginato come un seme ss  Da che talora dà frutti buoni e in gran copia, talora scarsi  3 e cattivi; congetto che già prima d’ Aristotele avea  espresso anche Pindaro 9.   «a Ma anche con questa restrizione, il valore della  4 trasmissione ereditaria è in Aristotele notevole; nella  Nicomachea ei giunge fino ad ammettere una perfetta  -3 e vera felicità di natura, melelz ei &inbwh sbobta, che è sa  ‘A come una specie di occhio naturale, con cul si giudica ©  “di rettamente e si sceglie quello che è bene secondo verità,   i dbiv n over 27465 nai cò nat Arberay dpalby cipriota. Anzi    _    Ù    1 ITegi Foyevetzs 1490 A 1-B 6; 1490 B 31- 1491 A, 1-20 citato i   dal Bonghi nella sua lettera intorno ai Limiti ed al fine dell’ Edu- È  care vol. III. della traduzione di Platone. Dichiariamo poi qui che NS  tutte queste notizie riguardanti il valore della stirpe e la trasmissione  ereditaria abbiamo tratto dal Bonghi; e chi volesse averne di più det-   tagliate rimandiamo alla bellissima lettera citata.   2 Aristot. Rhetor. II. 1390 B.   5 Nem. XI, 48 e seg. Cir. Bonghi, lettera citata,   + Eth. Nic. III, 5. 17.   G. ZUCCANTE                            si direbbe che a questo punto egli riduca a ben poca    cosa l’opera dell'individuo; l’attività di questo è costretta  ad esercitarsi in una o altra direzione secondo il fine  che è posto in lui dalla natura!; solo i mezzi in-questo  caso sono in suo potere.   E non solo la trasmissione ereditaria, ma mille altre  influenze, diciamo noi, si esercitano sulla natura degli  individui; non tutte le circostanze stanno nell’ eredità  sola; se questa è una legge, non è la legge. L'eredità  mette le condizioni più intime; ma ve ne sono anche  d’esterne, e d'ogni maniera; il clima, il modo d'’alle-  vamento, lo stato agiato 0 disagiato della famiglia, Ì  costumi di questa; i costumi, le leggi, le istituzioni della  società; insomma tutto l’ ambiente fisico e sociale in cui  L'individuo nasce e cresce. Tutte queste influenze, in  maggiore 0 minore proporzione, intrecciandosi, tempe-  randosi, eccittandosi, mortificandosi a vicenda, concor-  TE rono a determinare la natura prima dell'individuo, danno  + come il fondo, il sostrato su cui s'eleva poi l’attività   SR dell'io, poichè l'io senza quegli elementi non è, pur non  Mei essendo nessuno di essi. L'io non è il germe che le gene-  razioni passate abbian lasciato dietro di se; non è neanche  il risultato dell'ambiente fisico e sociale; è un'attività  nuova che a mano a mano s'esplica e padroneggia; ma  la facilità, anzi la possibilità sua di prodursi, dipende  dalle circostanze in cuî sì sviluppa la persona umana.   Aristotele adunque egregiamente ha fatto a tener  conto di un fondo naturale, a cui s'aggiunge e sovrap-  pone l’attività cosciente € direttiva dell'io; a non con-  siderare |’ individuo come una specie di fabula rasa, —    a»    Lie de    x TESE pn       . » 0% ” x GI Pa) î)  t Eth. Nic. III, 5, 18. &ugov y%p duotos, 7 £f206 u2ù È  o e nin i trvodfrote qalverar val > y  LIDO, TO aélos quat fi irmadamote pulveta: 44 settat, TA è        Mer    | Xowrd mpds ToÙT' dvapépovtes medTTOvELI dTwAdATITE.    »  è            ii nani TNT RT       su cui l’esercizio e l'abitudine venga a scrivere tutto peo  quanto; a non ridurre insomma la virtù a una semplice n    2a questione di abitudine e di educazione. L'opera e l'at- di  Bo tività sovra tutto; (la filosofia d’ Aristotele si fonda tutta “i  À | sul concetto d’ attività); ma opera e attività, che si eser- 1S  Ta citino su qualche cosa di preesistente, >    2 Si dirà che ammettendo le attitudini naturali alla  ad virtù e quindi anche al vizio, si viene a negare che virtù  e vizio sono opera nostra? Aristotele discuterà questa .  questione, e noi la discuteremo con lui nel Saggio che “si  terrà dietro a questo, sulla dottrina della Volontà. -            Appunto perchè sono in gioco nell’operare morale xs   certe : disposizioni naturali, dipendenti in gran parte   dalla sensibilità fisica ed animale, il sapere ha poca   È; importanza per la moralità.   E questo il punto in cui Aristotele si allontana più  che mai da Socrate e da Platone.   Aristotele dice esplicitamente che in riguardo alla  virtù il sapere poco o niente ha di forza, puzgdv i oddîv ing der};  che quand’ anche si sappia ciò che è buono e giusto,  non per questo si diventa abili a farlo £; e attacca diret-  tamente Socrate, e lo nomina, là dove afferma che la              4 Eth. Nic. II, 4. 3. repds dè 7d was depends (Eyew) cd pv cidbvai  pazoov È oùdiv ioybet. | È    | © 2 Eth. Nic, VI, 12. 1. obdîv dè mparrimo spor To cidivar aÙTd  (7% dizma za nodd nat dya04) ècuev. i                                    nza che nessuno che giudichi rettamente, opera mai    sente  lo fa per ignoranza, mette    contro il meglio, e se lo fa,  in dubbio cose che manifestamente si vedono, contrad-    È dice all’ esperienza quotidiana, dugregntet tot QULVÒLEVOLG  2 dvapyòs!. La virtù non è sapere, sebbene non sia senza  sapere; e Socrate era nel vero, quando credeva che la  virtù non fosse senza sapere, era in errore quando  i ‘affermava che la virtù fosse sapere *.  Gi Il sapere necessario alla virtù non è il sapere teo-  9 retico, è il sapere pratico; in morale non si tratta di  conoscere che cosa sia la virtù, ma come si generi, €  ‘come si deva operare per diventar buoni *. Socrate ha  trascurato il sapere pratico; ha pensato che basti il sapere    ves   È teoretico per la pratica della virtù, sostenendo per ciò  di che la virtù si può comunicare da uomo a uomo per  fc via d'insegnamento.   A Contro questa sentenza Aristotele osserva che; inas    materia di bene, non vi può essere discepolo pos-  DI sibile senza la pratica del bene; chi si fa uditore di  E — morale deve aver l’animo apparecchiato conveniente È  mente dai buoni costumi; la conoscenza viene da qualche î  cosa, viene dall’ essere, e chi non ha fatto alcuna espe-  rienza dei buoni costumi, non può conoscere nè buoni —  costumi, nè buoni principi. Chi, anzichè operare il F  bene, si contenti di ragionare intorno ad esso, e creda  per questa via. di diventar buono, fa come quegli —  ammalati, che ascoltano bensì con attenzione i consigli —          1 Eth. Nic. VII, 2. 1-2.  2 Eth. Nic. VI, 13. 3. Zozpdrng cf pèv oplog are ci  Viudpezieri Gai pèv yo qpoviioas iero siva mas rd RoETdE,  ipdpravev, OT D'obz &ve) 990vAGEOS, AANSS Eeyev.  s Eth. Nic. II, 2. 1 € XK, 9, 1-2.  4 Eth. Nic. I, 4. 6-7 e X, 0. 6.       eri n) rt dadini    NELL’ETICA D'ARISTOTELE 325    del medico, ma si guardano poi dal tradurre in atto  cosa che sia stata loro imposta !. Ma che cosa è il sapere  pratico, così necessario alla moralità? Perchè, mentre il  sapere ha poco o nulla di forza per la virtù, diventa poi,  sotto una certa forma, indispensabile per la virtù stessa?   Aristotele, come sappiamo, ha distinto nell'anima  umana due parti; una parte irragionevole e una parte  ragionevole. Della parte irragionevole abbiamo detto 2.  Da parte ragionevole comprende due potenze; colla prima  contempliamo le cose che non possono essere altrimenti,  che, vale a dire, son necessarie; colla seconda contem-  pliamo quelle che possono essere altrimenti, che, vale a  dire, sono contingenti: la prima è detta scientifica  (70 imerpoviziv), la seconda discorsiva o raziocinativa  (70 Moqueriziv) ®. La ragione discorsiva s' accoppia all’ ap-  petito, e se ne ha la ragione pratica, o volta all’ operare.  Lo scopo di questa è la verità, ma non la verità consi-  derata teoreticamente, bensì la verità in quanto serve al  fine pratico di rettificare l'appetito, di misurarlo, di  regolarlo, di tracciargli la via che deve seguire; l'appetito  è una forza cieca, e ha bisogno di esser guidato dalla  ragione. È propria per conseguenza della ragion pratica  la verità che va d’accordo col retto appetito, 40 dì pae  Tuuoò ni dravontizod % cInberz Ouoioyos ÈyovGa TA dpstet TA  dp07 1; quello che la ragione afferma è seguito dall’ap-  petito; quello che la ragione nega è dall’appetito avver-  sato, fetw d' drep èv diavola zurdozsis vai drdozote, TOdTO Èv  dpscer duty nel pura ®    rà    1 Eth. Nic. II, 4. 5.   2 Cfr. la Dottrina della felicità nell' Etica Nicomachea p. 204.  5 Eth. Nic. VI, 1. 5-6.   + Eth. Nic. VI, 2. 3.   s Eth. Nic. VI, 2. 2. È importante il riscontro che fa Aristotele                                    Ma la ragione discorsiva non possiede naturalmente  e spontaneamente l’ abilità di guidare l'appetito illumi-  nandolo; quest abilità bisogna che l° acquisti coll’ eser- i  cizio e coll’abito: l'abito per cui la ragione discorsiva  può deliberare rettamente intorno a ciò che è bene ed  utile al conseguimento del fine supremo della vita, costi-  tuisce la prudenza (996vnats)!.   La prudenza, sebbene virtù intellettuale, si può  considerare come la forma delle virtù morali. Senza la  prudenza le virtù morali non sarebbero; esse risiedono  come in loro soggetto nell’ appetito, e l'appetito ha  bisogno di esser guidato. Ma la prudenza alla sua volta  non può essere senza le virtù morali *. I sillogismi della  prudenza, con cui ci proponiamo questo o quel fine  buono, non si possono formare senza la virtù. Il vizio  perverte e deprava il giudizio della ragione, e fa che  c'inganniamo intorno ai principii dell’azione ®. I prin-  cipii dell’azione sono ciò per cui l’azione si fa (xò ob  &veza tà mpazt4), e chi è corrotto dal vizio non può  scorgere il principio vero, e se ne propone uno falso 4. .  Ora, falsato e corrotto il principio, saranno anche false    fra l'affermazione (427494915) e la negazione (&r:d@xa1g) della mente,  e il seguire (debiti) e il fuggire (quyA) dell’appetito. Per tal modo  la cognizione e la pratica sono strettamente congiunte fra loro.  1 Eth. Nic. VI, Ss. 1. È  2 Eth. Nic. VI, 13. 6 dH2ov obv éx té sipnpévov GT odg oîoy. }  e o280y siva zUpiws ZIev Opoynoeos, oùdi ppoviuoy &vev hg G  Ouafig dpetiis. Rec hi “di  ; i           5S- «A    LA    . . ne .   Eth. Nic. VI, 12. 10% dè E16 (A 9povnGIC) Tm dppati tosto  Sirena die bye obi dev dpertic.... ci Yip ovIdayiapoi TOY  IAABZ,A QAUIENI MN. as n} A La AZ x 3 È Ò , x 4  recano) doyhv NOE Tore diarrpépei ag A poy0npio x2t  Srabebdenda: more mepi 7ds mountizds day de.  ti SI 3 È: 3 Ù ife *  4 Eth, Nic. VI, 5. 6.       mIo Ion eo Eee val evmobdconese be sectapei sed seorndegesgeeri cesenatni DICI  AL aneriand on onasena rane cereneesenensi ne    le conclusioni che se ne cavano in riguardo all’operare.   Senza la virtà non si ha la prudenza, ma quella certa  destrezza o abilità naturale (dewérzs), che, qualunque  sia il fine prefisso, anche malvagio, mette in opera tutto  ciò che valga a conseguirlo; senza la prudenza non si ha  la virtù morale, ma una virtù naturale, che, scompa-  gnata dalla prudenza, è come un corpo robusto, a cui  manchi la vista; che corre quindi il rischio di gravi danni  ed offese !. .   Virtù e prudenza sono adunque tanto unite da for-  mare una cosa sola; la virtù fa diritta la mira, 73y azondy  tore 6p06y, la prudenza fa diritti i mezzi per arrivarvi,   _moseî, dela Tx pds azordv ®.   In questo fatto dell’ unione della virtù morale colla  prudenza, Aristotele trova la soluzione di quella questione  che fu tanto agitata da Socrate e da Platone, se la virtù sia  una sola, o ce ne siano più. Finchè si tratta, dice Ari-  stotele, delle virtù naturali, guzzi aperzi, cioè delle dispo-  sizioni naturali alla virtù, può darsi che altri non sia  egualmente disposto per natura ad ogni virtù, bensì   soltanto ad alcune, e sotto questo rispetto quindi le virtà  o siano separate le une dalle altre; ma quando si tratta  “1 delle virtù morali, per cui altri è buono veramente,  siccome queste non vanno mai disgiunte dalla prudenza,  e la prudenza è una sola, così chi ne ha una le ha tutte, e  chi le ha tutte ne ha una. Insomma le varie maniere    unità dalla prudenza 3.        4 Eth. Nic. VI, 13. I. ; loecue dali  D % i è DI re Y, souo D  2 Eth. Nic. VI, 12. 6. Cfr. VI. 13. 7 9V% FIA ia Di  = RIS Voet: 1h MEV N #EX05 T  dvev @povhosws obd' %vev dperdis' i pv ep TO Ss405 n de È  L erre? Ve A \  “mpds Tò Te\0g TCOLEL TIUT CAS NES: gin Ri oa xo: DEA  5 Fth. Nic. VI; 13. 6. 4% zed 0 A0Y95 FRUTTA       d’operare il bene sono congiunte fra loro in armonia ed                                                                 A chi poi osservasse che è un circolo il presupporsi  a vicenda della virtù e della prudenza, come è un  circolo la dimostrazione in cui due proposizioni sì pro-  vino reciprocamente l’ una per mezzo dell’ altra; Aristotele  3 potrebbe rispondere che in questo caso il circolo non  esiste che in apparenza. Non abbiamo già qui da una  parte la virtù morale, e dall'altra la prudenza, sicchè  queste possano stare separatamente, come nel caso della  dimostrazione le due proposizioni; la virtù senza prudenza  non è virtù, ma qualche altra cosa; come la prudenza  senza la virtù non è prudenza, ma qualche altra cosa.  La virtù e la prudenza sono necessarie a costituire la  Ò virtù vera, come la materia e la forma a comporre l’ u-  i nità dell'individuo.   Poichè la prudenza è necessaria alla virtù, Aristotele  rettifica la definizione che ha dato della virtù .in più  luoghi «la virtù è un abito secondo retta ragione », in  ‘questa maniera: «la virtù è un abito con retta ragione).       0 StadeyBetn 4 dv dr yopiloviai DIO di dperzi: od dp è 3g    "a Fo abtds eL@UinTATO: mods dmdoze, ate Thv uv dn Thv SD olro  3 siino®s Eomar' TobTo ip «età uèv ds ouorzde dpetàs èvdeyemzi, su  bi. ì 270 de dì darle Veyerat dpalos, ob4 vdiyerar Gua do TRI  E Qpovnaei paz olen niGU rdetonam. Nel cap. IX del libro II della >»  7 Morale Grande, e nel XV del libro VII dell’ Eudemia, è descritto il  collegamento di tutte le virtù nell'amore del bello e del buono; e.lo |  © stesso pensiero, sebbene da un punto di vista diverso, è espresso qua —  e là nel libro X della Nicomachea (cap. 6 - 9). Vere virtù comprensive G  e universali nella vita pratica sono però sempre, secondo Aristotele,  la prudenza e la giustizia. Di.  4 Eth. Nic. VI, 13. 4-5. mdvres, dToy oplleovtai Thy Gaeta  mpootileza: chv El... Thy zed còv bplbv Agyov. dplde do  | zutà Thy qgoynaw. Soluzo: dh uavtercalai mos drmavtzg dad  | movaban Eers dipetà tomi A zarà ThY gpoynow. der de puenpd È  uit r A a x                    E molto a proposito, poichè la virtù morale non sol=  tanto risulta di appetito, ma anche di ragione, e quando  si dicesse abito secondo retta ragione, parrebbe risul-  tare soltanto di un elemento appetitivo, che si con-  formasse esteriormente alla ragione, mon già che la  possedesse in proprio !. ; : i   Ci potrebbe essere un abito secondo prudenza o retta  ragione, € tuttavia non essere virtù, quando la prudenza  o retta ragione non appartenesse al soggetto proprio  dell'abito. Perchè ci sia virtù, bisogna che l’ abito non  soltanto, ma anche la retta ragione appartenga a chi    ha l'abito.   Riconoscendo che la virtù morale non è possibile  senza la prudenza, che anzi questa costituisce come la  forma di quella, Aristotele concede alla ragione e all’ in-  telletto una giusta parte nella formazione della moralità,    nel tempo stesso che non disconosce, come Socrate,    Ci  Ò    e % na s, a 4 LI *À  3 L’ ant  uetapAiva où Jp povov A 4xT% TOY opfoy AoyoY, INN A UETZ    où 09000 UCI) seus dpetm Sem.   ! Cfr. il commento del Michelet al luogo citato (Eth. Nic. VI,  « Hoc (perà 708 09005 \6y9v) ab xatà adv doplòy A0yov  76y0g inest virtuti (scilicet morali), sed  (Op. cit. p. 229); € il bel commento del  le Virtù sieno interamente    13, 5):  eo differt, quod non solum  etiam affectus et appetitus »  Segni: « E' (Aristotele ) non vuole che  Prudenze; nè vuole anchora, che elleno sieno @ punto secondo la  ragione; conciosia chè nel primo modo elleno sarebbeno stiette Virtù ©  intellettive; e nel secondo sarebbono stiette Virtù appetitive. Onde  modo nel diffinirle, cioè che elleno sieno con    aggiugne egli un terzo  he elleno sien' retta ragione, nè secondo la    la retta ragione, e non € 3)  chè diffinendole egli con la retta ragione elle vengon'    date nell’ Appetito; € dall'altra vengono  diante la Prudenza, che è la.    retta ragione; per  da una banda ad esser fon  ad havere perfettione dall’ Intelletto me    lor forma » (Op. cit. p. 327):    x                         l’importanza di altri elementi, quali l'elemento sensibile  e appetitivo, e un elemento acquisito, l’abitudine !.  Così anche nell'ordine morale egli considera l’uomo  nella sua totalità, e non ne smezza e divide le facoltà;  senso, intelletto, esperienza sono in gioco del pari. Si  potrebbe anzi mettere in rilievo una considerevole ana-  logia fra la sua dottrina della conoscenza, e la sua  > dottrina della virtù; in tutt'è due è l’esperienza che    Ca    i tiene il primo posto; nell'’una l’esperienza che ci offrono x  i sensi, nell'altra quell’esperienza speciale che prende.  il nome d’abitudine, e che consiste nel dare una spe-   = ciale direzione ai nostri impulsi appetitivi; poi viene   i l'intelletto e la ragione, che a questa doppia esperienza   5; dà norma e forma. :   so :    “ IX. =    Ma la prudenza, in causa della sua importanza per  quanto riguarda le virtù morali, merita una considera-  zione e una trattazione anche più larga.   La prudenza è virtù universale; essa è la guida  | suprema di tutta la vita pratica e civile; quindi non  soltanto abbraccia sotto di se la prudenza che possiamo  chiamare individuale, ma la famigliare eziandio e la             1 Nella Grande Morale (I, 1. 7) si fa rimprovero a Socrate div  avere ESD nella virtù l'elemento appetitivo (74006) e l'abitudine ;  Ù oc): i perà TOUT ( TERA Lozodrns èmuevopevos pe SNrwoy   uaì er micio cimey Into FobTOY (deerov), oùz dp; dì odòd od   noe TÙs TEA re CO semola colo, dÙ Sol siva i ade                                        politica, con cui da una parte si provvede al buon  andamento della famiglia, dall’altra alla prosperità e  alla felicità dello stato. Per verità, quando si parla di  prudenza, s'intende più propriamente quella con cui si  d provvede al bene proprio, mentre a quelli che provvedono  al bene pubblico, agli uomini politici, è riservato piuttosto  il nome di faccendieri, rolurpdjpoves, poichè sembra che  s'occupino di cose a loro estranee e affatto indifferenti. +  Ma gli è chiaro che il bene proprio non può stare indi-  d pendentemente dal bene della famiglia e dello stato;  : l’uomo è un essere essenzialmente sociale; la vita sua è  connessa colla vita della società e ne dipende; e però la  prudenza individuale presuppone € la famigliare e la poli-  : tica!, Aggiungasi che la prudenza ha bisogno dell’ espe- d  | —’rienza per formarsi, e l’ esperienza non si acquista che per Do:  «—’mezzo della consuetudine e del commercio cogli uomini; p%  «l’uomo isolato non può essere prudente °.  La prudenza, in tutte le sue forme, ha per oggetto ni.  le azioni, e versa per ciò stesso intorno a cose singolari,  cà nal Ezzota, e che possono essere e non essere 3; l’uni- |.  versale e il necessario non appartiene ad essa, ma alla    ui Fe    scienza 4. E questa la ragione per cui un giovinetto so.  potrebb' essere, ad esempio, buon matematico e buon =    a no. D PEZZO r3 / Da I, La O x a,   dizvontizio Ts duyiis èYfHerzi uogto fvovrar by al apetat LA  Ul LS , po pa = 3 INCI   ur abtoy Ev TO MoyioTiz®o TAG Uuyiis Lopio cuppalver e,   > ta Si » , ni -   OLOÙvTI TS RPETÀS avatpety TO dioyoy pepos   . pa 3 x Do   oriov dvzipeî nat 7400g uai Rioc. du od    TCA %  ov aùto ETUSTANAG TE  x x - dì va  Ths Yuyiie, ToUTO dî ©  oplag fato raven TOY daetoy. Ò Sa  ! Vedi per tutto questo Eth. Nic. VI, $, 1-4. ‘A   . ‘ v vas   2 Eth. Nic. VI, 8. 5. Cfr. il commento del Michelet a questo luogo i    p. 209-210.  5 Eth. Nic. VI, 5- 3, ed Eth. Nic. VI. $. 5. i ui    4 Eth. Nic. VI, 3, specialmente il 62.    332 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    geometra, non mai prudente e saggio: l’esperienza dei Si  particolari richiede gran numero d’anni!.  Non è a dire però che non ci sia nella prudenza  qualche cosa che ricordi la scienza, e che in essa manchi  affatto la cognizione dell’ universale.  La maniera in cui si forma l' azione assomiglia al A  processo sillogistico. Come nel processo sillogistico si t  parte da principii generali e si viene a conclusioni par-  ticolari, così nell'azione si_parte dalla conoscenza del    bene generale, e in seguito, per mezzo della conoscenza 4  del bene particolare nel caso attuale, si conclude che ù       bisogna tendere a questo bene. Io conosco, ad esempio,  il principio generale che le acque pesanti sono dannose  alla salute; conosco un’acqua particolare come pesante;  «ne concludo che è necessario che me ne astenga. Del resto  delle due cognizioni, l’universale .e la. particolare, la  più importante per la prudenza, il cui oggetto è l'azione,  è pur sempre la particolare: finchè la mente è ferma  nell’universale, l’operare non è possibile. Vediamo  infatti alcuni che non sanno e che pure hanno espe-  o. rienza di casi particolari, essere più atti a operare di  quelli che sanno, evo. od eidétes ETipuYv sidotav pato  tuorepor nai èv Toîs 4dos, oi eumerpor. Se altri sappia, ad  esempio, che le carni leggere sono facili ad essere smaltite  ed igieniche; e poi non sappia quali sono leggere, costui  certamente non provvederà alla sua salute; invece vi  provvederà chi sappia che sono leggere ed igieniche, ad  esempio, le carni degli uccelli 3.  Da questa analogia della maniera in cui si forma  l’azione colla maniera in cui si forma il sillogismo,    | Eth. Nic. VI, 8. 5-6.  2 Eth. Nic. VI, 8. 7.  5 Eth. Nic. VI, 7. 7.       TR uptnlti E LN NI SN AA Potato RIT en line  pat e E Gn a — x e    di  ti sen NT nno eee en    Aristotele cerca di trarre la spiegazione del fatto che  altri, pur conoscendo il bene, operi contrariamente ad  esso. Può avvenire, egli dice, che altri sappia ciò che è  bene in generale, cioè conosca la proposizione maggiore  del sillogismo pratico, e non sappia ciò che è bene in  particolare per una circostanza speciale, cioè non conosca  la minore del sillogismo; oppure può avvenire che s'ab-  biano bensì tutt'e due queste specie di cognizioni, ma  quando si tratti di praticarle, ci si serva unicamente  dell’ universale, e per nulla della particolare: in questi  casi si può peccare senz’ essere tuttavia ignoranti !. Senza  dire che la conoscenza si può avere in abito e non  usarla attualmente, ovverossia averla e non averla ad un  tempo, come avviene in chi dorme, o nel pazzo, o nel-  l’avvinazzato; che è la condizione nella quale si trovano  coloro che si danno in braccio alle passioni: i quali pos-  sono bensì sapere quello che è bene, e tuttavia dall'ira, .  dalla libidine e da altre voglie siffatte essere acciecati *.  E qui, come si vede, c'è una nuova critica di Ari-  stotele contro Socrate, che sosteneva chi sa non poter  peccare, il peccato essere effetto d’ignoranza. Dove però  è notevole che, malgrado la critica, Aristotele finisce col-  l'accostarsi a Socrate. Quando, egli dice, altri sappia  ciò che convien fare, e vi rifletta nel momento dell’ope-  rare, sarebbe bene strano, detvéy, ch’egli operasse altrimenti  da quello che conviene ®; se altri può peccare per avere    { Eth. Nic. VII, 3. 6.  2 Eth. Nic. VII, 3. 7.  5'Eth. Nic. VII, 3. 5. DMN ere    è digg Meyopey Tò sriotacta:   2 È S e ICROI  (al qdo è Eyov pev od upopevos dè + ariovhpn val è ypdpevos  1 I Ò x È ast, Cà, x x  Veferat tmierac)a:), Otolcet TÒ [euparebzo0a:] Eyovra pèv ph    dx    | ZA x 9.1 n   empodvra dì è ud der mpurten OÙ | duparredepda] Eyovra ual  “ , » % 9 n} È   Oewpodvra, ToSTO pap Sons Dewéy, AIN odz si pù Newpéy.                                        soltanto la conoscenza dell’universale e non quella del  particolare, sarebbe meraviglioso (B2uzotév,) che peccasse  quando avesse le due’ conoscenze |. Se si pecca cono-  scendo l’universale e il particolare attualmente, gli è    perchè non si sa mettere il particolare sotto quell’uni-    versale che gli conviene ?. Insomma, e questo mi pare  il pensiero d’ Aristotele, quando il sapere non ci con-  tentiamo soltanto d’averlo, ma ce ne serviamo: quando  non vogliamo averlo soltanto in abito, ma in atto;  quando il sapere è efficace veramente, € Sie: pet  così dire, assimilato a noi e alla nostra natura, sicchè  non è il sapere dei fanciulli che ripetono meccanicamente  quello che udirono e non ne sanno il significato, nè  quello degl*istrioni e degli ubbriachi che cantano i versi  d’Empedocle senza comprenderli 3; di più, quando il sapere  è completo, vale a dire, non abbiamo soltanto la cono-  scenza dell’ universale, ma quella eziandio del particolare,  e possiamo per ciò formare, all’occasione, il sillogismo  pratico come si deve; l’operare si conforma al conoscere,  e il peccare è impossibile. Sd   Con queste rettificazioni la dottrina di Socrate si  può accettare. i 5°.   Come si vede, dopo molte oscillazioni e titubanze  e dopo una critica in gran parte giusta, Aristotele ritorna  pur sempre al pensiero fondamentale della Scuola  socratica, che il sapere ha valore sovra tutte le cose, e  che nella stessa vita pratica tiene in ultimo il primo posto.  Certo egli non si ferma al solo sapere teoretico, come  avea fatto Socrate: il video meliora proboque, deteriora. N    Miti fai e LI te uu"    IRIS eo PRESE et o)         1 Eth. Nic. VII, 3, 6 in fine.  2 Eth. Nic. VII, 3 g-10. Cfr. il commento del Segni a questo.   luogo Op. cit. p. 344- 345: Me   | 3 Eth. Nic. VII, 3.66 8 e 13. 3 1    LI  Se  a  A        DI    sequor, era anche allora    la condizione di tanti uomini,  che non potev    a sicuramente passare inosservata: ma al  Sapere non si può negare il compito suo di schiarire,  di illuminare © per ciò stesso di dirigere e servir da  guida. La ragione non è ciò che in proprio costituisce  l’uomo, la parte più nobile ed elevata dell’umana natura,  quello da cui deve pigliar norma e forma tutto ciò che  all'uomo appartiene? E il sapere non è il prodotto più  schietto, e genuino della ragione? Adunque al sapere,  anche nella vita pratica, spetta un compito importan-  tissimo. E un fatto che molti mali e molti vizii sarebbero  evitati quando si avesse appreso ad averne orrore. L’an-  tropofagia, ad esempio, che disgraziatamente è pratica  diffusa presso tanti popoli barbari, deve sicuramente  la sua diffusione al non avere quei popoli coscienza del  male che fanno; i pregiudizi religiosi per cui si sa-  crificavano, e si sacrificano anche oggidì delle vitti-  me umane alla divinità, hanno la medesima sorgente;  l’impudenza sfacciata di talune popolazioni allo. stato  d'infanzia, per cui le donne si prostituivano e si pro-  stituiscono allo straniero, è in gran parte ancora  l’ effetto dell'ignoranza. E nei bassi fondi delle società  nostre civili non troviamo la conferma di questo  medesimo fatto? Pure non accettando l’identificazione  ammessa da alcuni antropologi fra delinquenza e idio-  tismo, bisogna però riconoscere che spesso i delinquenti  sono d’un'’intelligenza ristretta e d'uno spirito angusto,  donde. la loro inferiorità e il loro svantaggio nelle lotte  sociali. Perfino certi  vizii puerili e quasi innocenti.  implicano e suppongono una certa ignoranza” da palio  di chi li ha. Si può ammettere, ad esempio, che il  — millantatore, il vanitoso, abbia COScIenza di diventare  ridicolo colle sue millanterie, di diventare SRIRSEDTOSe  "I insopportabile? Egli che aspira sovra tutto alla stima degli       sà Sap  Ni    336 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ    altri, se sapesse gli effetti della vanità, per vanità nascon-  derebbe il suo vizio. Senza fare una certa parte all’ igno-  ranza, non si comprenderebbe, osserva molto giustamente  lo Ianet!, quella massima profonda del Vangelo che «si  vede bene il fuscello che è nell’ occhio del vicino, e non  si vede la trave che è nel proprio ».   Ma dunque basta conoscere ciò che è bene per  farlo, e ciò che è male per astenersene, sicchè si possa  identificare senza più la virtù col sapere e la malvagità  coll’ignoranza? Certo la vera virtà, la virtù ideale, 4 idéz  tig dpetfig, come la dice Platone, è la virtù lumiade  dal sapere; mentre al contrario la virtù d’opinione,  quella che si fonda sulla coscienza attuale dell’ individuo,  che potrebbe non essere illuminata dal sapere, e credere  vero bene quello che non è bene che in apparenza, non  è, secondo lo stesso filosofo, che un'ombra di virtù, c4%  doerig; e così egualmente il vizio non dipende spesso che  dall'ignoranza del bene. Ma il sapere, per essere condi-  zione, e importante condizione di moralità, ha bisogno  di una trasformazione; ha bisogno di diventare efficace,  di farsi pratico, operativo; se rimane nel campo della  speculazione e della teoria, a nulla giova per l’operare.   L'idea dev'essere insieme una forza; la dottrina  delle idee forze trova qui la sua applicazione: e per  essere una forza, bisogna che parli insieme al cuore e  alla volontà, bisogna che s'addentri in noi, che s’identifichi  con noi, per così dire, che faccia parte intima della  nostra natura, non già soltanto che ci illumini dal di fuori.   Il che vuol dire che oltre il sapere e più del sapere,  sono anche necessarie altre condizioni per la moralità:  è un fatto che in parecchi casi l’uomo fa il male con  coscienza e in conoscenza di causa. Il bene non basta    1 La Morale, Paris Delagrave 1887 p. sio.          Paneasienizaniernenaene ssa re nervovore    che sia conosciuto, bisogna anche che sia amato; non  basta che rimanga nelle altezze serene, ma fredde della  ragione; bisogna anche che scenda nelle regioni più  basse, ma calde del sentimento. Senza calore di senti-  mento, senza emozioni vive ed ardenti, senza entusiasmo,  senza fede passionata, non è possibile la pratica del bene.  Il Kant vuole escluso affatto dalla moralità il sentimento;  ma è un errore grave. Tolto il sentimento, tolta l’attrat-  tiva del bene, tolto l'amore, manca alla volontà l'energia  necessaria per vincere la lotta colle passioni. Il sentimento  morale, l'amore del bene è adunque condizione neces-  saria alla moralità; l'educazione deve mirare a svolgere  questo sentimento negli animi; non basta far conoscere  agli uomini il bene; bisogna anche farlo amare. «Se la  beltà, diceva Platone, ci apparisse in se stessa e senza  veli, susciterebbe in noi amori incredibili. »: Ciò che  Platone diceva del bello, si può dire del bene. Aristotele  stesso che non era un poeta, si rappresentava il bene  come qualche cosa di sovranamente amabile, e sovra-  namente desiderabile.   Ma non basta la scienza del bene e l’amore del  bene; è anche necessaria la volontà del bene, la forza  morale, l'impero dell’ anima su se stessa. Quante volte  l’amore del bene e la scienza del bene sono impotenti  del pari! Quante buone intenzioni inspirate dal cuore e  dalla ragione, non riescono a tradursi in atto, Dr  mancanza di un volere energico che SERRE FILA  passionise dominarle! Già Sant'Agostino ci ha descritto    igli i rosa colorita e fan-  meravigliosamente, in quella sua pros:    È ) È assioni: « Io era  : aggia energia delle p EI SARE  tastica, la selvaggia 5 vegliarsi, ma vinti    simile, egli dice, a quelli che vogliono s ARSA,  dalla forza del sonno, ricadono nell ASsoria SI x  v'ha alcuno senza dubbio che voglia sempre    non preferisca, se è sano di s    pirito, la veglia al sonno;    22    G. ZUccaNnTE             uetnneazzzazzanaiaaionaniaziaionaaziziz ione nia eene sirena na sapere zanisare iti  METIETEZIANETTATEZEZZNE ARA tienena n aranuamarenanerenicionenesisseonenareonee    e tuttavia niente è più difficile che scuotere il languore    che pesa sulle nostre membra; e spesso, nostro malgrado,    siamo presi dalla dolcezza del sonno, quantunque l’ora  del risveglio sia giunta.... Io era impigliato nei frivoli  piaceri e nelle folli vanità, mie antiche amiche, che  scuotevano in certo modo le vestimenta della mia carne  e mormoravano: Ci abbandoni tu?.... Se da un lato era  attirato e convinto, dall'altro era sedotto e incatenato...  Io non rispondeva che queste parole lente e languide:  Subito, subito, attendete un poco. Ma questo subito.  non veniva mai, e questo poco si prolungava all'infinito.  Chi mi libererà da questo corpo di morte 1? »,   Per vincere le passioni, per operare il bene è adunque  necessario uno sforzo supremo, un atto personale di riso-  luzione, è necessaria la forza morale, la volontà. E la  volontà non è sapere, sebbene non sia senza sapere; è  impulso appetitivo che il sapere illumina e guida, ma  che il sapere non produce.   Ben fece Aristotele pertanto ad ammettere come  fattore essenziale della virtù la volontà; in questa parte    specialmente egli ha oltrepassato di gran lunga la con-.    cezione unilaterale e ristretta di Socrate e di Platone, ‘  € ha reso servigi eminenti alla morale.    La virtù è forza, scienza, amore indivisibilmente    uniti in una medesim  Aristotele parlare lun  che segue.    a azione: della forza conveniva ad  samente, come vedremo nel Saggio È    4 Confessioni lib. VIIL    Pisto  »    da       LA DOTTRINA DELLA VOLONTA —    NELL’ ETICA NICOMACHEA DI ARISTOTELE          -    La dottrina della volontà in Aristotele è anche più  importante della dottrina della felicità e della virtù. Qui  più che altrove si manifesta l'originalità del filosofo.   In generale, come abbiamo notato, Socrate e lo stesso  Platone aveano considerato condizione, se non. unica,    quasi unica della virtù il sapere: un’altra condizione  scorge necessaria Aristotele; bisogna che l'appetito, trasfor-  matosi in volontà, si rivolga là dove la ragione consiglia,  poichè ci può essere contrasto tra gli appetiti da una:    parte e i consigli della ragione dall'altra, e nessuna  efficacia avrebbe in questo caso la ragione, e il lume che  viene da questa, indarno si spererebbe che riuscisse a  rischiarare le tenebre della passione. Perciò Aristotele   ‘si accinge a un esame accurato della facoltà del volere,  studiandone gli elementi costituuvi, sorprendendola per   | così dire nel suo nascere € conducendola su su fino al: n  2 più alto grado di svolgimento, fermandosi sull impu-   | tabilità e sulla responsabilità e mostrandole egate al  libero arbitrio, dando insomma di questa condizione  ‘interna della virtù una teorica Così po Cono SRI  4 quale si poteva appena aspettare al tenipi. suole. da Sui : gu       R 342 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ   i dovranno in fondo prendere le mosse tutti quelli che si  occuperanno di simile argomento. le  7 È Già i Cinici aveano riconosciuto nel volere una certa   1 importanza per quanto riguarda la condotta dell’uomo   : virtuoso; ma erano scarsi accenni, che doveano essere   ui svolti e ampliati: conveniva non soltanto riconoscere   d l’importanza del volere, ma penetrarne l’intima natura   s e mettere a nudo il.substrato psicologico, sul quale si   t.) fonda, e da cui domina, per così dire, ed invigila tutta   à È quanta la vita dello spirito. Il fondamento psicologico   Di) che anche qui, come nella teorica della virtù, Aristotele i  o: ricerca alla morale, è la sua novità grande e bella. ,    3 Cominceremo anche per questo, come pei due Saggi  & che precedono, dall'esposizione della dottrina.   i Poichè la lode ed il biasimo non spettano se non alle  azioni che si fanno volontariamente, e queste sole quindi  sono del dominio della virtà e del vizio, mentre alle.  altre che si fanno involontariamente è riservato il perdono -  e talora la compassione; è necessaria, ad illustrare anche |  meglio la natura della virtù, un’altra ricerca ancora, la  ricerca intorno a ciò che è volontario (&4obawy) e intorno  2% a.ciò che è involontario (azobcrov) 1. G  ESE In primo luogo adunque è involontario ciò che altri >  AE fa costretto dalla forza, fix, ed è azione forzata, ffxoy,  «a quella il cui principio è al di fuori di chi la fa o da ©  i patisce, e a cui chi la fa o la patisce in niente contribuisce       __* Eth. Nic, III, 1. 1-2. Forse si renderebbe assai meglio 1’ gxob-  giov e l’axodotoy di Aristotele col nostro    ) spontaneo e non spontaneo, —  che col volontario e involontario. Comun Ù    que sia, ricordiamo a scanso —  di equivoci che il volontario con cui traduciamo l'ézovaov di Ari-    ; ‘stotele, significa quel principio di volere che è nell’ Appetito, e non  già nella Volontà ragionevole; perchè questo volontario è comune  | _°—‘’“anche ai bruti. Cfr. Bernardo Segni Commento Cit. p. 121.    AVI    Aia e  .               Ù agi io E O  Por; LS ; - 1   NELL’ ETICA D ARISTOTELE 343 /  da parte sua: come se altri venisse trascinato dovec- ce  chessia dal vento o da uomini in potere dei quali fosse ui  caduto !. fs   Può sorgere il dubbio se si devano considerare   volontarie o involontarie o, ciò che è lo stesso, forzate “De  o non forzate, le azioni che altri fa, benchè a malincuore, x    per paura di mali maggiori, dvx gofioy pertévoy zax6y, O per  conseguire cosa onesta, dit 2226v 71; come se ci avvenisse  | di dover gettare in mare le robe nostre, per salvare dal  naufragio noi stessi e gli altri 2; oppure un tiranno ci  ingiungesse di commettere qualche cosa di turpe, e solo  a tal patto ci desse salva la vita dei nostri genitori .0  dei nostri figli, che fossero in suo potere 3, Assolutamente  parlando, nessuno vorrebbe gettare in mare le robe sue  o sottomettersi, sia pure per ottenere Un fine onesto, al  comando inonesto di un tiranno: sicchè, prese in sè e.  assolutamente, quelle azioni sono forse involontarie (em).  3 too: dsobarz) #5 ma siccome in esse il principio del  moto è pur sempre intrinseco a chi opera, e quello di       .               IN FIAT ROINZ DI IO   { Eth. Nic. III, 1,3. Bfxuoy dÈ 06 4 cpXa Ecolev, corzvta  À, À 7 ge 7 ,   vi pendiv cvpt2era 0 mpdTTOY © 9 masgov, otoy ci       | 006% È  uop.ica: Tor CRCAV TOLTI ubproi dvTes.  2 Eth. Nic. III, 1. 5:  5 Eth, Nic. III, 1. 4. Abbiamo creduto col Ramsauer (Commento  all’ Etica Nicomachea di Aristotele) riferirsi l'esempio, del tiranno. i  alle azioni fatte did e40v 7, non già a quelle fatte De Qopov pets I  Covwy AILOY, Per le quali ci sembra bastare l'esempio del IO in  e le merci. Perciò abbiamo invertito nell’ esposizione l'ordine dei pe  (Commento cit. p. 9$) pare credere (308  alle azioni fatte dt 969oy pelivov  mare le merci a quelle fatte did             mar  due esempi. Il Michelet invece    l'esempio del tiranno riferirsi  l'esempio del gettare in          LIKOY,  zI6Y Fi  4 Eth, Nic. 1        ze       II, 1. 6 in fino.”          mensusazecenionienzaniniosarenenazonsecenioaasaze;aciveonzariveveneaneeneseeeieeezazenninevivaosicezeanaeraseoiananeziarenezzionenezizioo                            cui è in noi il principio, sta in noi anche il fare o il   non fare; siccome in quel momento e in quella circostanza   particolare si fanno volendole fare e preferendole ad altre,  ur: e deve parlarsi di volontario e d’involontario non assolu-    i, speravasi di evitare; non dimenticando mai che fra i beni  edi mali ve ne sono di così grandi, che per causa loro  La sembra quasi lecito all'uomo checchessia, e fra le azioni  e fatte di così turpi e malvagie, che niente v'ha per cui. 2  ue. possano essere perdonate‘. Così non merita alcun perdono +  . SA Alcmeone che uccise la madre, ed è ridicolo ciò ch'egli   Ne: addusse a sua discolpa: a certe cose non dobbiamo lasciarci  RS costringere, piuttosto è da preferire la morte 5. Invece          . »” 4 DO 1 e 3 N N ”  1 Eth. Nic. III, 1. 6 e 10. % dì 00) gità uèv dnodarà tot,  eni IN iui n * ‘ e ‘ .  VÙV dî zl avti TOVÒs viper, al dà doyh èv té       TPATTOVTE,   n II x » 4 IANGLI DI x ORIO LI   zo astà uiv dnobar ar, vv dì ue Inti movie suobera. C'è  | in Aristotele per quello che riguarda questa specie d’azioni una certa |   oscillazione e titubanza, che è assai difficile riprodurre nell’   ni 2 Eth. Nic. III, 1, 6 parti rodlex.   5 Compendio della Morale di Aristotele, parte II, cap. IV  | $ Eth. Nic. III, 1. 7-8   5 Eth, Nic. III, 1. 8,    A DI          esposizione.       fi        Eta                                     quando vi siano tali mali che oltrepassino l’ umana natura  e che nessuno potrebbe soffrire, se altri, per evitarli,  faccia cosa che non deva, è degno, non certamente di  L lode, ma di perdono; e alle volte è perfino degno di  lode chi non dubiti di sottostare a qualche cosa di turpe  o doloroso, mirando a fine bello e grande!.   Del resto è difficile determinare quali cose si debbano  scegliere e quali sopportare di preferenza, presentandosi  - molte differenze nei casi particolari; e ancor più difficile + PA  è rimaner fermo nella presa risoluzione, poichè potrebbe 4  smuovercene o il dolore che ci si minaccia, o la turpezza  dell'azione, a cui ci si vuole costringere. Chè in generale  è questo il caso più comune di tali azioni: ci si vorrebbe  costringere a qualche cosa di turpe colla minaccia di  grandi dolori. Dove siccome è sempre da preferire il  dolore all’operare turpemente, si loda chi non vi si lascia  costringere, si biasima invece chi vi si lascia costringere.    I Eth. Nic. III, 1. 7. Svtote nel èrzwodviai, dTAY alcypoysat  ‘À Nuti gÒv UTOPEVOGI dti PEYÀ.OY ua 4240. î  2 Eth. Nic. III, 1. $ 9 in principio e $ 10 in fine.  3 Eth. Nic; III, 1. 9.... &Tt dì yederotepoy Supetvat Tot  mi cd ROXb dom FÀ piv mpocdozopeve Nutnpz,    x    pocbztay ds Y% È  a di >» U, » VANE a  2 de vaqadbovma vicy 94, ev î7  Il senso di questo luogo imbrogliato mi pare il  ù difficile rimaner fermi nella presa risoluzione 0°  , poichè, essendo il più delle volte "Sa  uello che =»    LI  vor val goyor yvovTat TEL TOÙS    avarpraslevzas A ua  seguente: è ancor pi  di operare in una certa maniera  doloroso quello che ci aspetta se non operiamo, e turpe q CI  ci si vuole costringere ad operare, avviene che o il dolore minacciato, 3  attuale ci smuova dal nostro proposito. Una    o laturpezza dell’azione IPEOR :  n tiranno, anziché sottostare    STA a,  donna ha deciso di piegare alle voglie d’u ottostare  ai tormenti da lui minacciatile, ma al momento dî Meter i;   deci a tur 'azi a per compiere, la trat-  quanto ha deciso, la turpezza dell azione # st De So Sa n  Ì i ferisce i tormenti, Un uomo ha o di soffrire —  tiene dal compirla e pre leciso d È    346 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    Uursussazzenatessaaeeice isa reneeaaee re va naasenaoaineanininianienaninininiaeaninrioeinezizanioneeaerisseeereenaeoaierazeoiza lean ese ria zezanei    Riassumendo, involontaria o forzata è l’azione il cui  principio è al di fuori di chi la fa, e a cui questi in niente  contribuisce da parte sua; e il timore di mali maggiori  (6 96Bos pertivey zaz6y) e il fine onesto per cui si operi (dt  x4).6v 71), non rendono punto involontaria o forzata l’azio-  ne, sebbene le comunichino un carattere speciale, di cui  è necessario tener conto quando si tratti di stabilirne il  valore morale.   Che se alcuno dicesse che in realtà l’onesto (rà x21é)  e il piacevole.anche più (xè dt2), rendono involontaria e  violenta l’azione, perchè costringono dal di fuori (avar-  stem #0 dv7z), se ne dovrebbe concludere che tutti in  tale ipotesi sono forzati a fare ciò che fanno, poichè  tutti operano per questi due motivi, l’onesto e il piace- ‘a  vole!; l’utile stesso per cui spesso si opera, non si sceglie  se non come mezzo a un bene o a un piacere; ciò che   | è amato e scelto come fine, è il bene e il piacere 2. D'altra  parte chi opera per violenza e involontariamente, opera  con dolore (2vrnpòs): invece chi opera per il piacevole e                  qualunque tormento piuttosto che rivelare un segreto che possa, ad   esempio, compromettere la patria; appena sente i tormenti, si rimuove ©   dalla sua decisione. Siccome poi si tratta di dolore proprio, personale,   da una parte, e di onestà dall'altra, e siccome è da preferire sempre   il dolore al venir meno all’onestà, così l’autore aggiunge: O0ey Erauvot   zz Yéyor ecc. cioè a dire che si lodano coloro che non si lasciano   costringere dal dolore a fare qualche cosa di turpe, mentre invece si   biasimano coloro che vi si lasciano costringere. Ero: è da riferirsi   ad 7 pi, Yéfora mepi Tod; vayzaolivmzz. 3  tNEth: Nic. III. 11. x  2 Eth. Nic. II, 3.7: 7eiòY Yao dvrwy cav sic TRS UiosGeLe.   AIN0d GUozs0vTos Adios ed Eth. Nic. VII I, 2.1. dofcre dov yecusov   civai di ob fiera apabov ari dovk, bare QUINTA dv ein v&Y206v   TE AU Td 400 we Tin.       NELL ETICA D'ARISTOTELE 347    l’onesto, opera con piacere (19 4dovîs); per la qual cosa  se ciò che è piacevole ed onesto: costringesse ad operare,  si opererebbe ad un tempo con dolore e con piacere, il  che involge contraddizione!. « E ridicolo adunque, conclu-  de Aristotele, accusare le cose esterne, e nonse stesso come  facile a venir attirato da esse, e delle azioni belle dar la  causa a se stesso, delle turpi alle cose piacevoli » ?.    I Eth. Nic. III, 1. 11. L'affermazione di Aristotele che chi opera  per il piacevole e l’onesto, opera con piacere, non si può accettare  che in parte; perocchè, se è vero che chi opera pel piacevole opera con  piacere, chi opera invece per conseguire cosa onesta, si sottopone il più  delle volte a dolori e non opera conseguentemente con piacere (Cfr.  Eth. Nic. III, 1. 7.) Masi potrebbe risolvere questa contraddizione in  cui pare Aristotele si trovi con se stesso, affermando, come fa il Michelet  nel suo Commento, che qui ($ 11) Aristotele parla dell’onesto che  per se ci spinge ad operar rettamente, mentre prima {$ 7) ha parlato  dell’onesto che ci induce a soffrir dolori per ottenerlo. « Postquam  auctor de honestate, quae nos ad molestias subeundas impellit, et de  molestiis locutus est, quas ut vitemus ad turpia facienda cogimur;  jam de voluptate loquitur, quae nos ad haec cadem, et de honestate  quae ad recte agendum compellit. Sunt autem haec illis magis spontanea,  quia voluptas et honestas fines sunt, quos sponte nostra per se cligimus,  molestias autem semper invite subimus, utpote a natura nostra alienas »  Michelet Commento cit. pag. 103 - 104. D'altra parte si potrebbe ricor-  dare che nella teoria d’ Aristotele è virtuoso solo chi opera il bene    con piacere.   2 Eth. Nic. III, 1. 1  uh aitdy ebmpatov ovTa d  tuuròv, Tv d aley pv nÙ i  è cosa ridicola che, mentre si sostiene che tanto 1  ci costringono ad operare, quando si viene alle applicazioni,  a che le azioni buone non siano già dovute, come a causa  e per contro le azioni turpi siano dovute    1 yeXoloy Sh cd qitizola mà 4706, dI  mò 76V rowirmy; zal TGV pev 4XA6Y  Si. Il senso del qual luogo è il seguente:  l bene quanto il    piacevole    si sosteng  efficiente, al bene, ma a nol;    die -  i       348 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    Nel qual luogo il filosofo riconosce evidentemente,  e sì fa gioco di coloro che non vogliono riconoscerlo,  che delle azioni nostre siamo noi la causa efficiente: noi  abbiamo in noi stessi una forza e un'energia nostra  propria, colla quale possiamo sottrarci alle influenze che  ci vengono dal di fuori, perfino all'influenza che ci possa  venire dal bene. Il che, o c'inganniamo, o è un accenno  abbastanza chiaro alla libertà del volere.   Quanto è detto del bene e del piacere, si può ripetere  dell’ira (0vpés) e del desiderio (r:0vuiz): le azioni che si  fanno sotto lo stimolo dell’ira e del desiderio non sono  involontarie !. Perocchè se lo fossero, nessuno degli altri  animali agirebbe volontariamente, e neppure i fanciulli  che agiscono massimamente sotto lo stimolo di questi  due moventi interni ®. D'altra parte anche alle azioni    come a causa efficiente, non a noi, ma al piacere che ci costringe.  Per esser conseguenti dovremmo invece tutti due questi generi d’azioni  attribuire alle cause esterne. Inteso così questo luogo, mi pare che  non si possa dire in riguardo ad esso quello che dice il Ramsauer;  (Commento citato): « vides illi (Aristoteli) quasi codem tempore cum  diverso hominum genere rem esse. Qui enim dicant etiam 7% 423.d fizuz  esse, non poterunt iidem té zz4.6v zi7izola é2UT005. Invece a me  pare si tratti degli stessi uomini. Soltanto mentre in teoria sostengono  che il piacere non soltanto, ma anche il bene costringe ad operare,  e aggiungono il bene per far passar meglio la loro teoria, in pratica  poi sostengono quello che loro fa comodo; fa comodo a loro esser  riputati veri autori del bene; non fa comodo esser riputati autori del male.   1 Eth. VE III, AB Noi traduciamo ira il 0vuds greco. Ma  veramente 0»yd5 non significa soltanto l'affetto speciale dell’ira. Il 0105  indica l’impeto, la veemenza, il calore dell'animo, ha quindi un signi-  ficato più largo di ira. Tuttavia in italiano non  parola che renda perfettamente il Inps.    2 Eth. Nic. III, 1. 22. Qui il volontario anche più che altrove    Saprel trovare una             belle siamo spinti da un qualche desiderio, da un qualche  affetto, e sarebbe ridicolo dire a nostro elogio volontarie  le azioni belle, involontarie le turpi, mentre dipendono  dalla medesima causa. Ci sono poi delle cose che conviene  desiderare ardentemente, come ci sono dei casi in cui  conviene adirarsi: come si potrebbe dire involontario ciò  che si fa in questi casi? ®, Ancora, che differenza c'è fra  i peccati che derivano dalla fredda ragione e quegli altri  che derivano dall'ira o dal desiderio, per cui questi. ul-  timi soli devano essere involontarii? Sono da evitare si  gli uni come gli altri e le passioni irragionevoli non meno  della ragione sono umane. Finalmente perchè si dovranno  chiamare involontarie quelle azioni che derivano dall'ira  o dal desiderio, che muovono cioè di là donde il più delle  volte gli uomini sono spinti ad operare 4?   Come si vede, Aristotele in questa questione che  riguarda il volontario e l’involontario e ciò che è forzato  e ciò che non è forzato, procede rettamente dall’estrinseco  all’intrinseco, dal mondo esterno al mondo interno.  Violenza è solo quella che ci viene dal di fuori, dagli    è preso nel significato speciale di spontaneo. Perciò non è a far le  meraviglie se Aristotele dice che appartiene anche alle bestie e ai  fanciulli.   4 Eth. Nic. III, 1. 23.   2 Eth. Nic. III, 1 24. i  Eth. Nic. III, 1. 26. Come si vede l'argomento è questo: le  gionevoli non meno della ragione sono umane: per conse-  da ragione, è anche volontario    (2)    passioni irra  guenza se è volontario ciò che deriva i  ciò che deriva dall'ira e dal desiderio. Qui è ritenuto come volontario    tutto ciò che deriva dall'essere dell’uomo; perchè ‘volontario anche  qui è preso nel significato di spontaneo. Tratteremo largamente in    fine la questione dell’éz00  4 Eth. Nic, III, I. 27.    . ti  Giovy e dell'uzoustov.       350 LA DOTTRINA DELLA VOLONTA    elementi, il vento per esempio, o dagli uomini, ed è  violenza materiale, a cui non è possibile opporre resistenza;  il vento ci trascina o ci solleva; gli uomini, quando ne  abbiano il potere e la forza, c'imprigionano, ci tormen-  tano, fanno di noi tutto quello che loro aggrada. Il timore  di mali, che si vogliano evitare, un fine onesto per cui  si operi, non costituiscono violenza; i mali per verità  sono al di fuori di noi, e il bene a cui si miri è anche  fuori di noi; ma il timore che si ha dei primi, è cosa  subbiettiva, personale, e il bene ci alletta e ci sospinge  solo in quanto è appreso ed apprezzato da noi, e s'è  quindi trasformato in cosa nostra. Il movente è perciò  sempre in questi casi interiore, senza contare che la vera  causa motrice, il principio che mette in moto le membra,  n dpyn où zuelv Td dpyavizà uéen, appartiene a colui stesso  che opera,'èy abrò torw |.   Altrettanto è da dire del piacere, dell’ira e del desi-  derio che sono tutti moventi intrinseci, tutti dipendendo  dalla natura e dall’essere stesso dell’ uomo, di cui sono  come la manifestazione. Per Aristotele è volontario o  spontaneo tutto quello che è intrinseco all'uomo: egli  non si cura di determinare se quello che è intrinseco  sia intrinseco soltanto apparentemente, e dipendain ultimo  ancora da qualche cosa d’ estrinseco; quello che è nell’ uo-  mo, per qualunque motivo vi sia c da qualunque causa  derivi, gli appartiene, e gli si deve a giusto titolo attri-  buire. Il regno dell’ szobary è vastissimo, quasi tanto  vasto quanto la vita dell’uomo.    4 Eth. Nic. III, 1. 6.       metal a    .    [ie à  PA.    x    x    |  I  °          MATTONI INI CRE PET ARI FR IR e PR ARR i nin enizaz azz nana 10S Pan TTA nerina nen ini era reni esente  merpasenazeanenesaziaricnennenecaasionzossenenianeanisea    II.    E in secondo luogo involontario quello che si fa per  ignoranza (%yvorx) *. Intorno a questo è però da osservare  che non tutto ciò che si fa per ignoranza è a rigore da  chiamare involontario; imperocchè chi pure per ignoranza  abbia fatto cosa di cui poi non ebbe a pentirsi e a sentir  dolore, che anzi a lui piacque di aver fatta, non si può  dire l’abbia fatta involontariamente, sebbene per verità  neanche volontariamente, non facendosi volontariamente  se non ciò che si sa: invece è da dire veramente involon-  tario ciò che si fece per ignoranza e di cui poi si sentì  pentimento e dolore ?. Della quale restrizione è da tenere  1 massimo conto nello stabilire il grado d’imputabilità  d'un’azione. Se altri infatti si compiaccia -d’ un'azione  che fece a sua insaputa, quest'azione che non si poteva  dir sua perchè l’ignorava, diventa quasi sua per effetto  di quel compiacimento.   Intorno all’involontario per ignoranza è anche da  osservare, che bisogna distinguere ciò che si fa per igno-  ranza, da ciò che si fa ignorando bensì, ma per un  altro motivo. Imperocchè l’ubbriaco e l’ adirato è certo che  non sanno quello che fanno, e tuttavia non Sl può dire che  operino per ignoranza, e quindi si devano ritenere involon-  tarie le loro azioni; le loro azioni, anzichè dall ignoranza,  AO origine dall’ ubbriachezza € dall ira, SR non  hanno saputo astenersi © da cui derivò 3PRUGL, ‘OSCUra=  mento della loro mente 3. Per conseguenza chi abbia    4 Etb. Nic. III, 1. 3-  9 Eth. Nic. INI, 1. 13 © 19:  5 Eth. Nic. III, 1. 14                                  permesso che gli affetti dell'animo suo prendano tanta  forza da accecarlo interamente, sicchè non possa più  discernere quello che pure poteva discernere, costui non  accusi come causa di peccato la sua ignoranza, ma quegli  affetti che non ha saputo regolare.   Ancora non è da credere che renda involontaria  l’azione l'ignoranza dell’universale, cioè del bene e del  male, l'ignoranza che riguarda il fine da conseguire, per  cui gli uomini volgono l’opera loro ad un fine indegno,  non sapendo ciò che sia veramente da desiderare. Il  malvagio ignora ciò che convien fare e ciò da cui con-  viene astenersi; ma non per questo egli è non malvagio:  anzi è questa ignoranza appunto la causa della sua mal-  vagità!, Chi opera male non può addurre a sua scusa  R di aver ignorato ciò che conveniva. fare. L'ignoranza  x del bene e del male non può essere ottima ‘scusa del  | ‘peccato; altrimenti si dovrebbe riputar buono chi pure  abbia commesso azioni turpi ed ingiuste, quando in  antecedenza abbia stimato bene quello che si propose  di fare ?.   Invece rende involontaria l’azione l’ignorare le cose i  singolari nelle quali e intorno alle quali versa l’azione  medesima; chi ignora qualcheduna di queste, ben  lungi dall’operare volontariamente, merita compassione e        ‘4 Eth. Nic. III, 1. 14 în fine e 15.   2 Aristotele oltre che dell'ignoranza dell’universale, * P22) 1: x: III  dvorz, parla anche d’un' ignoranza che ha luogo nel preeleggere, SR  È) 17 mpozipécei dryvovz, come d’una causa della malvagità, alla in  #36 poy0nptxs (Eh. Nic. II, 1. 15). Gl’incontinenti, &xpxTeì, non  errano nel fine, poichè sanno che sì deve fuggire la libidine, ma, tratti  __—’ al desiderio, si allontanano dalla via che conduce al fine. In questi.  | —©’è conoscenza dell’ universale, e ignoranza nella preelezione. Cfr. Mi. i  |‘ cheler Commento cit. p. 108. +                 perdono !. Essendo le cose singolari, nelle quali versa  l'azione, al di fuori di noi ed estranee a noi, l'ignoranza  di queste è in qualche modo una causa esterna, un istru-  mento esterno ed estraneo alla nostra volontà, sebbene in  noi; sicchè ciò che si fa sotto il dominio di tale ignoranza,  sembra fatto non da chi agisce, ma da questa ignoranza  stessa. Mentre l'ignorare che cosa sia bene e giusto e  retto dipende da cattiva volontà, ed è non già qualche  cosa d’estraneo e d’estrinseco, ma un principio interno,  una qualità propria di chi agisce, che rende questo  imputabile della sua azione °.   C'è insomma un’ignorantia juris, come la chiamano  i legali, e wn’ignorantia facti; la prima è imputabile,  la seconda non è imputabile; Ignoranzia juris nocet,  ignorantia facli non nocet.   L'ignoranza dei particolari può riguardare e chi  opera (is) € ciò che si opera (xt) e intorno a che o in  chi si opera (rspì #t È evi) 3, e con quale mezzo sl  opera (rim), e per qual fine (Evezz 7ivos) e in qual modo  (05) 4 Certamente non è possibile ignorare tutte queste  circostanze ad un tempo, chi non sia pazzo; peroc-  chè non foss'altro, come potrebbe chi opera ignorare  se stesso? Ma si può ignorare o la sostanza dell’ azione,  o l'oggetto in cui cade |’ azione, 0 il mezzo, o il modo,  o il fine. Per esempio ignora ciò che fa O) la sostanza  dell’azione, chi ignorando non si dovesse dire una certa,    1 Eth. Nic. III, 1, 15.  2 Cfr. il Commento del Michelet p. 105,  5 Accetto la spiegazione del Michelet p. 109. Il rrept ab el’èv Ti    Ì i 2 L i ì U AI CD -  indicano la medesima circostanza, l'oggetto in cui cade l'azione;sol  to mentre il mepi ci si riferisce a cosa inanimata, l'îv 7ou si riferisce  tan ico: pata,  ersona Refer #s0l zi ad rem inanimam, îv ivi ad hominem.  a p 3 i È  + Eth. Nic. INI, 1. 10.    23  G. ZUccaNTE          uu i*  Dà                ‘per un nemico, come Merope, e l’uccida, ignora l'oggetto    cosa, se la lasci sfuggire nel discorso: chi scambi il figlio    dell’azione o la persona su cui agisce: ignora il mezzo  chi credendo una pietra esser pomice e perciò materia  tenera e innocua, oppure essere spuntata l’asta che ha  invece acuta la punta, la scagli contro qualcheduno e lo  ferisca: ignora il fine chi apprestando all’ammalato una  pozione collo scopo di salvarlo, l’uccida; e chi volendo  solamente toccare, percuota invece violentemente, è  ignorante del modo !.   Intorno a tutte queste circostanze potendo aver luogo  l'ignoranza, chi operi sotto il dominio di questa opera  involontariamente.   Se adunque, per quanto s'è detto, involontario è ciò  che altri fa costretto dalla violenza e per ignoranza,  volontario invece sarà ciò che sì fa per un principio  intrinseco e conoscendo le singole circostanze in mezzo  alle quali versa l’azione 2; 0, come spiega lo Zanotti,  avendo considerato le ragioni di farla, « perciocchè le  singole circostanze, 7% x20' Éxxst2, che debbon conoscersi  dall’operante, contengono appunto le ragioni, per cui  dee, o non dee operare » °.    1 Gfr. per tutto questo Eth. Nic. II, 1, 17. Accettiamo il 7i0xs  del Susemhil, e non il rafees del Michelet, del Ramsauer ecc. L'esempio  di chi appresta una pozione all’ammalato affine di guarirlo e invece  l’uccide, piuttosto che un esempio di chi ignora il fine, ci parrebbe  un esempio di chi ignora il modo o il mezzo. Vedi quello che dice il  Ramsauer molto giustamente in proposito p. 142.   2 Eth. Nic. III, '1. 20 7òd Szobcvoy Séterev dv civa où dex  Ev abré cidoti 7% nol) Enzota èv oîs modkic. E  3 Op. cit. Parte II, cap. IV.             III.    Alla conoscenza delle circostanze in cuirsi compie  l'azione, o, ciò che è lo stesso, alla esatta considerazione  delle ragioni per cui l’azione si deve compiere, mirano  la deliberazione, Bosdenaiz, e la preelezione, Tpoztoegts.   La preelezione, chio chiamarei più volentieri propo-  sto, ha grande importanza per la virtù, ed è ad essa  strettamente congiunta. RE   Dalla, preelezione si giudica il costume meglio che  dalle azioni medesime !. Per la virtà infatti si guarda  di più al come siamo disposti nell'animo, che a quello  che si fa; gli atti esterni della virtù possono essere fatti  a caso, 0 per ostentazione, o per simulazione, o per  ignoranza, o per violenza; se manca l'intenzione, il  proposito interno, la preelezione, mpoziosaw, gli atti vir-  tuosi non hanno valore etico. Che cosa è adunque  la preelezione ?   La preclezione pur appartenendo al volontario, non  è tutto il volontario; il volontario ha un'estensione  maggiore; il volontario è il genere, di cui la preelezione  è una specie. E difatti e i fanciulli e gli animali operano  volontariamente, ma non con proposito deliberato, non  con preelezione; e le azioni che sono l’effetto di un  moto improvviso dell'animo, non essendo premeditate  da.chi le fa, non si può dire sicuramente che siano  state proposte, o prescelte, sebbene non si possa negare  che sono volontarie *.    »    = IN %, » ,  1 Ech. Nic. III, 2. 1. Trepi TINZPEGEOS eretar dte)berv, otzetd-  . è; Ù ne EIA À ”  TATOYV Ye siva dozeì cf desti vat uao 7% in nplvew iv  Ù  TPACEOY.  2 Eth._Nic. III, 2. 2.       DEMI SATO Z CPI, eee?) pi SA a 4 Pa,    356 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    unsasaezeraa:iezaazez; nnnasioneeeesaneazasose sseeneti  Poneszeszoanesipanizionesianaaneraneionezeze sv anenzenennariceeneai nina neneeaniaseaianizsane.                                La preelezione non è neppure un fatto d'ordine  appetitivo; nessuna delle specie dell'appetito, il desiderio  (emivita), l'ira (016%), la volontà (fovàno:s) *, è preelezione.  Che l’ira e il desiderio non siano la stessa cosa della preele-  zione l'argomento capitale è questo, che i primi sono affetti  che appartengono anche ai bruti, mentre invece la seconda  appartiene soltanto all'uomo. Per quanto poi riguarda il  desiderio in particolare, preelezione e desiderio si op-  pongono l’una all’altro, come avviene hell’incontinente e  nel continente, nel primo dei quali la preelezione è vinta  dal desiderio, nel secondo per contro il desiderio è vinto  dalla preelezione ®. S’ aggiunga che il’ desiderio ha per  oggetto il piacevole in senso positivo, il doloroso in senso  negativo; la preelezione invece non ha per oggetto nè  l'uno nè l’altro. Chi desidera, qualunque cosa desideri,    JI: Bpetic, appetito, risulta veramente di tre clementi, 0up.òs,  eridupiz, Rodina: Cfr. Eth. Nic. I, 13. 18 e la nota dél Ramsauer  a quel luogo: « 7ò emibrinazizoy zi 6)0g bpeztiziv: hoc denique  nomen 70 4)6Y0v illius.... ad quod universam Thy #014hv dpethv  referri mox discemus. Primum est in eo quod habet èr iMuniay, at  insunt etiam alia, ut addita voce %%Ì 190; ROTOnTe, quae presto  Th ET I DDAZAI DS dpicems sunt. "055 E1s VEN ve Pe NTAZ vai Quuds  où Bobana (414 b 2) » pag. 75.   2 Eth. Nic. II, 2 4 za! 6 &zoztie Ce DIIONIDTA] Tare   mpozipodu evo d' où 6 Syapathg Ò' avdrzdiy Toogipobuevoe ev,   Ceri VIIXONI d’ où. Il continente e |° incontinente hanno questo di co-   mune che c'è in loro una specie di lotta intestina come di forze   ostili; da una parte il desiderio, dall'altra la ragione; nel continente  3 la ragione si assoggetta il desiderio ribelle, nell’incontinente il desi-  derio ottiene il sopravvento. « Quum Aristoteles ad mores hominum  spectans, ut breviter loquamur, quatuor distinguat genera (qui boni,  qui mali sunt, qui &y4p%TeTs et CRI in duobus illis quos, priore    »  loco diximus, discrimen quo in anima % Gostic a ratione differt ante”       “ani tai  Pacini te nai init                NELL’ ETICA D'ARISTOTELE 357    sia buona o turpe, per una certa necessità dell’ umana  natura se la finge come piacevole; chi preclegge, anche  se per caso preelegga i più turpi piaceri, se li rappresenta  sempre come beni !. Non è adunque da confondere il    ° desiderio, colla preelezione.    > Anche meno è da confondere l’ira con la preelezione,  poichè le cose che si fanno sotto l’ impulso dell’ira, sono  ben lontane dall’esser fatte con meditazione e proposito  deliberato *.   La volontà, sebbene affine, non è neppur essa la  stessa cosa della preelezione. La volontà infatti può  versare intorno a cose che o sono del tutto impossi-  bili, come chi volesse vivere immortale, oppure sono  tali che il farle non è in potere di chi le vuole, come  chi volesse che un certo istriéne o un certo atleta vin-  cesse. Chi preelegge invece, non si propone cose impos-  sibili, salvo il caso che sia pazzo, nè cose che non sia  in suo potere di compiere 3. Aggiungasi che la volontà  si riferisce piuttosto al fine, la preelezione invece, ai  mezzi che conducono al fine. Noi vogliamo esser fe-  lici, scegliamo i mezzi necessari al conseguimento della    oculos non est. lam enim in .probis hominibus Tò dpe4tizoy totum  se conformavit ad auctoritatem rationis, in pravis co. redacta est ut  potentiae 705 opeztinod libenter assentiat et inserviat. Contra oi 49%  mel et oi azparete id commune habent, ut in utrisque spectetur inte-  stina animi dissensio et dimicatio quasi virium hostilium... In ANZI  enim victa ratione optime apparet con) sit propria 775 dpitews vis  spernentis © TOY If. +; in îjnpeare stz vero subacta cupidinis rebel-  lione eventus docet, rationem iubentem atque increpantem aditum  habere ad 7ò dpetu0Y ». Ramsauer Commento cit. p. 74 i   { Eth. Nic. JII, 2 5. Cfr. la nota del Ramsauer a questo luogo.    2 Eth. Nic. III, 2. 6.  5 Éth. Nic. IMI, 2. 7-8.       RE ore a a  ad                           felicità. Dire che si sceglie d'essere felici non sarebbe  conveniente !,   Se però la volontà è differente dalla preelezione, non  è differente che nella maggiore estensione ch’essa ha:  noi vogliamo quello che preeleggiamo, ma non inversa-  mente tutto quello che vogliamo preeleggiamo ?.   Stabiliti i confini tra la preelezione e le singole  forme dell’appetito, resta a vedere se la preelezione sia  un fatto d'ordine puramente intellettivo. E qui Aristotele |  confronta la preelezione coll’opinione, dé, dando però i  all'opinione un valore e un significato più esteso dell’or-  .dinario, sicchè si può dire che abbracci in generale tutta    l’ intelligenza 3. È  1 Eth. Nic. III, 2.9. à e:  “6 ? Eth. Eudem. II, 10. 17 &rxvTeg zo Govtonela È nel Tonzi- i    pobuebz, ob pevtar ped Rordoualz, riva rpeozipobts"z. Osservo   però che in realtà tutte le cose che si vogliono, si scelgono anche;   perocché le cose impossibili non si vogliono, si vorrebbero soltanto;   c’è, vale a dire, per quanto riguarda le cose impossibili, un volere   iniziale, non una vera e propria volizione; c'è il vorrei, non il voglio.   Si 5 Eth, Nic. III, 2. 10-15. L'opinione com'è intesa qui abbraccia  La in realtà tutta l'intelligenza, perchè in 1° luogo si riferisce anche alle  cose eterne, che cioè non possono cssere altrimenti, quindi abbraccia.  quella parte del principio avente ragione, che Aristotele chiama 7ò       Pr           . ’ . . . .   pr EmaTovzoy; in 2° luogo sì riferisce anche alle cose che possono   L: essere altrimenti, quindi abbraccia quell'altra parte del principio avente   Cor ragione che Aristotele chiama 7ò ).0yto7t6y (Cfr. Eth, Nic, VI, 1. 5-6).   È * Per conseguenza abbraccia l’intera ragione. Senza contare che è leo- +  enti didvorz, perchè dof4lousy di ci 307 insi it CD  path dizvoz, p o9439uev de TL EoTw, e insieme moeztizA        RIGICATO , ; i $ i   drdvo1a, perchè:dot4lonev Tini cuuptper i oc. Il dolzoridy adunque.  È : Sal   ha qui la stessa estensione del davanti. Nel libro VI cap. VS il   È x » Telo "a . 4 . - AR   —_——’—doQxstiziv ha un significato più ristretto: % == yde dé    * S pi Li  cu Teol TO  ° evdey duevov Dos Eyew al i geivacis.       AAT       NELL’ETICA D'ARISTOTELE 359    Primieramente adunque l'opinione si estende a tutte  le cose, non meno a ciò ch'è eterno ed impossibile, che  a quello ch'è in nostro potere; la preelezione invece si  limita a quest'ultimo appunto, come già s'è fatto osser-  vare !. L'opinione ha per sua legge il vero; la preelezione  il buono. Coll’eleggere il bene od il male diventiamo  di certa qualità, buoni o cattivi, mentre coll’ opinar bene  non si diventa buoni, come non si diventa cattivi  coll’opinar male *. E poi si sceglie di seguire o di fuggire  una qualche cosa in seguito all’ opinione che ce ne siamo  formata, ma non si può dire affatto che opiniamo il seguire  o il fuggire medesimo ®.. Si noti inoltre che la scelta  cade su beni conosciuti, mentre l'opinione si forma là  dove manca una perfetta conoscenza *. Finalmente se la  preelezione fosse la stessa cosa dell'opinione, si vedrebbero  le stesse persone opinare e preeleggere il meglio: mentre  non è raro il caso che si opini il meglio e per malvagità  d'animo si elegga il peggio °. 1   Per quanto fu detto adunque la preelezione non è  un fatto che appartenga del tutto 0 all’ appetito 0  all'intelligenza. Forse che risulta di tutti due questi ele-    menti? Vediamolo.    Ma prima esaminiamo che cosa sia la deliberazione,    .    41 Eth. Nic. III, 2. 10.  2 Eth. Nic. SII, 2. 10-11.  3 Eth. Nic. III, 2. 12.  ‘ RUS,  13. %d Tooztpodue  % où rav touev. Intorno al qual argo-  ice il Ramsauer: Parum in hoc sexto  A Îoc vi , Ò Sara 4  ziòv dotalovtwYy 00 OLGTAL0VGWY,    . Ma univ È$ uoMiota iouev  4 Eth. Nic. III, 2. \ (Sa \    Kay = SÌ  dpa9à dvra, Dobalopev dè  to si può riferire quanto Ò  Evo. Y%0  iDevar 1140 db 24-27.    men  argumento ponderis:  YI olovtal cups e  ‘ mpozipeois esse d0S4 TU   s Eth. Nic. III, 2. 14    Poterit igitur nibilominus    °    dii    è.    titan nazio piantina    ® PY log *          stesso Tpoxtosote    foblevai, perocchè la scelta pare non si possa dare senza  aver prima deliberato che cosa si debba scegliere. Il nome    sw indica elezione di una cosa con esclusione   d’un’altra, e ciò non si può fare senza un antecedente  x è)   giudizio e un'antecedente deliberazione.    IV.    La deliberazione, fobieva, è come quella specie di  giudizio pratico che nelle creature intelligenti e ragionevoli  deve sempre precedere l’azione. Perciò appunto non in  tutte le cose si delibera e si prende consiglio. Non sì  delibera sulle cose eterne e immutabili, o sulle impossibili  ‘a ottenere; non si delibera sulle cose che dipendono dal  caso, e neanche su quelle che dipendono dagli altri  uomini; non si delibera su ciò che o per necessità di  natura o per altre cause avviene sempre d’un modo, 0  sempre muta !. Si delibera invece su quello che dipende  da noi e che può essere operato da noi, fovXeuius)a dì repl  mov 89’ fiutv mpazzov *, là dove però l’esito è incerto e    indeterminato, e ci può esser luogo a dubitazioni molte    x    e diverse; chè dove è certezza e sicurezza cd esattezza,  anche nelle cose nostre non si delibera 9.    .    4 Eth. Nic. III, 3. 1-6.  2 Eth. Nic. IlI, 3. 7.    \ D    3 (3 Eth. Nic. III, 3. 8-10. %xl mept pèv mas dzorbeis al abrdo-    \    LIT    » pei E) »  toy èriotmuiy nba fatt Bouth..... td Bovdeveclar dì èv  I SE OA A UL IS di 7ò x #R0À E A gola NEL  mois ds ETÌ Fò FOO, di priore dè nos aroboerzi, nai èv 0Îg ddLd-                       NELL’ ETICA D' ARISTOTELE 361    sensoszerzeveeansazzosiessoneanen    Si badi però che non si prende deliberazione e  consiglio intorno ai fini, ma intorno ai mezzi che condu-  cono ai fini. « Imperocchè nè il medico si consiglia s' egli  ha da sanare, nè l'oratore se ha da persuadere, nè il  politico se ha da fare buone leggi, nè alcun altro dei  rimanenti si consiglia intorno al fine: ma tutti avendosi  proposto un qualche fine, indagano in che modo e per  quali mezzi sarà ottenuto, € se apparisca che per più  mezzi si possa ottenere, ricercano per quale si otterrà  più facilmente e meglio, e se non si possa ottenere che  per uno, ricercano il come di quest'uno, e il come di  quel come, finchè giungano alla prima cagione, la quale  -. L'ultimo nell'analisi è primo    nella ricerca è ultima. .  li ultime parole vanno intese    nella generazione » , Le qua    I Eth. Nic. III, 3. 11-12. Non è vero che si deliberi sempre in-    on intorno al fine.  Verius enim hoc (che deliberiamo intorno    in artibus, velut medici, oratoris. - -  e ordinandam spectant. Etenim  quomodo erit judicandum de    torno ai mezzi e N Ecco le giuste osservazioni del    Ramsauer a questo luogo:  ai mezzi e non intorno al fine)  uae ad universam vitam ben    quam in iis q  aa RO REESE * ve  ut ipslus philosophi vestigia Preriano i Re e  dy dizapivat OTOV AITI TOLG) AIOETEON,    illo cui forte factum est LAAET i :   quoniam et timet instantem dolorem nec libens admissurus est quo  efas sit (r110 @ 29-33)! Annon ambiget deliberabitque, utrum dolor   na t? Aut igitur duplex genus    sibi fugiendus an honestas amplectenda si ee  ltera qualem h. 1.(C 15 sq.) depingit;   Boumis es de fine altera, altera 3 i Ve)   aut illa quidem meditatio quae ad ciln perunet, quamqua psa   i vel ACETI, intendi audivimus, alio nomine indenda   genere seponenda. Silentio vero camdem obruere  utrumque negari non poterit et esse cam et facere   pi . CRI o   Neque enim in exemplis quibus nititue Aristoteles  0 Ù k    quod dici. Fuerunt profecto viri poliuci,  Ilent sUvopiav compa    in pio aliquani   14 - -  erateta TIP wPETSO:  haud licuerit: na  ad mores hominum.    S ino verum est  ra È eno certo constabat, utrum ma  ; a  uibus haudita P i pre DARet  I; ivitati an sibi potentam; arqui Ista de fine q  rare Cl sibi                                           così: quando l’uomo nella sua ricerca dei mezzi per  giungere a un certo fine, è arrivato a quell’ ultimo, oltre  il quale non resta più nulla a deliberare, cessa dal  deliberare e incomincia a operare: per ciò quello che fu  ultimo nella ricerca diventa come il principio dell’ azione.  Avviene qui quello stesso che nella risoluzione d'un  problema di geometria. Chi si propone, ad esempio, di  ricercare il centro d’un circolo, dati tre punti della circon-  ferenza, congiunge i punti con due rette, divide le rette È  in due parti eguali, innalza una perpendicolare sopra il "i  ‘punto di mezzo di ciascuna delle rette, e dove si incontrano  le perpendicolari, qui ha il centro del circolo. Il centro  del circolo è ultimo a esser trovato, ma in realtà è il  principio da cui dipendono i singoli momenti della figura  geometrica descritta, è il principio da cui il matematico |  fu mosso a fare quella sua operazione !.  Insomma fra la deliberazione e l’azione, fra le  Bobdevas e la pà4:5 intercede questa relazione, che il fine  che uno si propone a raggiungere, è il principio della  deliberazione, eil termine della deliberazione è il principio  dell’azione 2; ciò per cui si fa l’azione (65 od fveza) è il  fine, ciò che muove all’azione è quell’ultima cosa che.  ; fu escogitata dalla deliberazione: il primo è causa finale,  | la seconda è causa motrice (60sv  zivaoto). i  ‘ Del resto è naturale che se la ricerca mena all’impos-  sibile, si cessi dal deliberare e si abbandoni il pensiero  dell’azione 3; come è naturale che si deva porre un qualche  { Eth. Nic. III, 3. 11 in fine: è y&p PovAevopevos Eorzey Cnteiv  uri daiva)ibe Toy cipa ivo: Teoroy OoTEg DICA TLITZA Cfr. il com-  mento del Michelet e del Ramsauer a questo luogo,  2 Eth. Eudem. Il, 11. 6. #5 pv GÙv Y0Gzo Ò SE Ni Di (a n by Tò ito È  5 Eth. Nic. III, 3. 17. BoyMevToy DI vl TIONISTO È TÒ, |  i ZA ZOATO ; 4 ef nf T00-  TINI d9mpLepevoY 4Òn 70 mpozipetov. 70 YZ9 Ca 776 Ho Dogo  21 dp Ennntos SaToy ms TpaSei,    4 "x . A bet  yotMiy T0OLL9ETOV. EGTUY. TZU  vpriev Toti O . (N i y PLS Y DIXI DITO Ea TÒ “ifodueroy  Gray sly abroy WASLIATA coyhI, 42    x y } ra  zodro 1% TO TA0ULIOVEVOY  TONLTELO dx "Oy Sutuelto! ot  TONLTELOY 45 Opnpos culi    SaXov dì 7odTo z2i Ent dpy alto)  SCE ZINIO % mposdowvta             In poche parole, può avvenire che la parte appetitiva  della nostr'anima, la dpeGts, si opponga alla presa delibe-  razione, ein talcaso nonsi ha preelezione; oppure che la dpe-  € sia disciplinata per modo da lasciarsi guidare dalla  ragione e da acconsentire per ciò a quella, e in tal caso ha  luogo la preelezione.   Dal che si vede come la. preelezione, contrariamente  alla deliberazione, non sia semplicemente un fatto d'ordine  intellettivo, ma abbia natura mista, risulti cioè d’intelletto  e d'appetito, e si possa definire come un desiderio, una  tendenza che deriva da deliberazione, e che si conforma  ad essa (Gpetis fovdeutwzi) *.   Per concludere, due momenti si devono distinguere  nell'atto complesso del volere. Dapprincipio si delibera  intorno ai mezzi necessarii al conseguimento d’ un certo  fine; è questo il primo momento, il momento della {o)-  euri. Compiuta la deliberazione, lo spirito si deter-    mina e dà l'impulso necessario per compiere gli atti    esterni ed interni che valgano a far conseguire quel fine. E    questo il secondo momento, il momento della rpordozors.    È in questo secondo momento che si manifesta propria-  mente l'energia del volere; la rpoziosaw è forza appetitiva  illuminata da ragione, o, per dirla con Aristotele,   appetito razionale, o ragione appetitiva, è il principio    die. costituisce in proprio l’uomo, @ 7ozita deyà dolpo  . L'uomo apparisce appena si MAU la volontà.    Tiso pn 33 159.  1 Eth. Nic. III, 3. 19-20. dvtos Sì 700 ©    pron TOY uu ino PA02) A TRO sl a E       e N n e AMA SIT i  x - b P N e  È : o E — È                      Me ae reesrcocosseceseapennponegeetosscoseogeseuandiene con vonaereonenerarsz TRIESISI Ne egsserenpasesecacagezssseppssonne Pe der setti                                e il potere di deliberare fra due partiti e di decidersi  per l’uno di essi, escludendo l’altro. Sta qui la nota  distintiva che lo eleva al di sopra degli animali e lo    separa da essi !.    La deliberazione e la scelta, s'è detto, cadono sui    he conducono al fine, cadono su ciò ch'è possibile,    mezzi c  tutto ciò che rinchiude    cadono su ciò ch'è in nostro potere;  una impossibilità fisica 0 razionale, tutto ciò che oltrepassa  “la naturale capacità dell'uomo, tutto ciò che riguarda  il fine, è escluso dal dominio della deliberazione e della  scelta. ;  Sul fine non si delibera, nè si sceglie; l'appetito  volontario, BobXnat, è per natura determinato al fine; È  anteriormente ad ogni deliberazione e ad ogni scelta noi  vogliamo il bene *. 5  Aristotele al pari di Socrate, al pari del suo maestro  Platone, ammette una tendenza generale dell’ uomo verso  il berie, tendenza che occupa presso la ragione umana  il medesimo posto che l'appetito presso la sensibilità  animale. E questa tendenza s'impone a noi; noi l'accettiamo  come un fatto intorno 2 cui non si discute nè si delibera.  « L'appetibile, osserva Aristotele, muove dapprincipio, il    A dpelte divonmuh, val fi  capo. Me Be  1 Aristot. De Part. amm. IV, 10. 6  9 Frh. Nic. II, 2.9. " pév Boblnsis Foù at)005 tori paddy. 30    Tata  a di Bobdmars ri uèv È    covdan day diiporos. Cfr. rutto il    FUN Nic. 1U 4.1 oî eius Sotly sipatat.  a . dirtelo       pensiero muove in seguito a causa di esso, di maniera  che l’appettibile è l'origine del pensiero... L' appetibile  muove senz’ essere mosso dal pensiero ch’ esso eccita » x  E questo appetibile è il bene. Il desiderio e la volontà  del bene adunque non è nel potere dell’uomo. In suo  potere sono soltanto la deliberazione e la scelta dei  mezzi.   La deliberazione e la scelta infatti suppongono non  soltanto che due possibili siano presenti, e quindi la  contingenza nell’oggetto dell’azione; ma eziandio che  l'azione sia contingente per rapporto a noi, vale a dire  che niente ci obblighi a scegliere e a tradurre in atto  uno dei due possibili piuttosto che l' altro. Contingenza  nell'oggetto a cui s' applica, contigenza nel soggetto che  la deve applicare, sono le condizioni della scelta °.   Gli animali hanno bensì potenza motrice e sponta-  neità di movimenti; ma questi movimenti, pure spontanei,  pure non determinati dal di fuori, sono però sempre  sottoposti interamente a una forza intrinseca, l'appetito;  e si compiono colla stessa rigida necessità con cui in un  sillogismo date le premesse se ne trae quella conclusione  che vi è contenuta. « Presso l’animale l'appetito tiene luogo  della maggiore; la sensazione, o in generale l'intuizione,  della minore; l’azione, della conclusione ». « Bisogna bere,    1 De anima III, 10.2 e 7 TÒ è   ‘4 Suivora aei dTL doyn abrlis tari mò dpeziov.... TOÙTO N02)  uve Ob ALvOUNevoy TO vonbdiva..   2 Eth. Eudem. II, 10. 10-11. TÀ pièv {20 duvztà pev sori z2Ì  siva vel ph civas, DN obi do uiv adr h fivens èoth, DIL  TÀ per did gbsy TZ Di di wars aitizs yer, mepl Oy abdels  dv èyysrgnosie Bondebcala: più apuoov megì Oy D avdézera vu  /    .    % 4 n x . \ RZSA Pe  pevoy 7ò siva val pih, Id val 70 Bontebazaa coîg dvbpdamore, |    »    ri    att N >, Dia OR) SATA SI eZ È d DES  ITAUTA tati box èo° vipiy toni mozioni uh Toda.                                   dice l'appetito; ecco la bevanda, dice il senso, e tosto  l’animale beve! ».   L'uomo non ha soltanto le facoltà dell’animale, il  principio motore, l'appetito, la sensibilità; ma un’altra  facoltà ancora che tutte queste trascende, la ragione:  colla ragione compare nell'uomo il potere di.deliberare  e di scegliere. La maggiore del sillogismo pratico che  riguarda il fine da raggiungere, è nell'uomo ancora fatale,  perchè il fine è dato da natura e non può essere che il  bene; ma la minore, che riguarda i mezzi, non è più abban-  donata alla sensazione o all’imaginazione, nè è quindi  quella prima che capita; bensì è soggetto di riflessione €  di esame da parte della ragione, che la determina libe-  ramente. La minore del sillogismo è perciò contingente,    e contingente è anche l’azione, o la conclusione, che    partecipa della essenza di quella.   x Questa contingenza 0 libertà nell’operare è il grado  più alto a cui possa giungere la natura, ed è il privilegio  esclusivo dell’uomo, dell’uomo adulto e maturo, chè il  fanciullo partecipa ancora con tutto l'essere suo all'ani-  malità *.   Per questa contingenza 0 libertà l'uomo è il padrone  dei suoi atti, è il loro generatore, come è generatore dei  suoi figli 3: a nessun altro va attribuita un'azione che  a chi l’ha fatta con contingenza e libertà.    1 Ravaisson Essai sur la metaphysique d'Aristote t. I. p. 494.  2 Iuer: "Gis Td moToy, tal) 3  « Iottoy pos imbpla Veyer Tods 70 moto, i atalinore simey,  dc n 9, SAT .  È A guitasta, À è vode, sbids iver. De Anim, mot. VIII. Cfr. De    A aoieianiit i    Anima VI, 1h specialmente $ 2.  z x x , 5  9 Aristot. Historia anim 1, 1. BovdevtIzby dì povov avbprtos  x x  tari i Louv. Eth. Eudem. II, 10. 18. Uta Ev Folk dimo Cor  T% 3 x î  \y A mpoal9e0%4, oUrz îv mdon iuzla.    DA ì, IVI AMI è 44 e  3 Eth. Nic. II, 5 5 4eXaY sivzi YEYVATAY TOY TIASSOY WETEI                La virtù pertanto è in nostra facoltà, come è in.  nostra facoltà la malvagità !. « Perocchè in quelle cose  nelle quali è in nostro potere il fare, è anche in nostro  potere il non fare, e în quelle nelle quali sta in noi il  no, sta anche in noi il st: cosicchè se il fare, quando  ciò sia bello, è in nostro potere, sarà anche in nostro  potere il non fare, quando ciò venga ad essere turpe; ©  se il non fare, quando il non fare è bello, è in nostro  potere, è anche in nostro potere il fare che venisse ad  essere turpe. Che se è in nostro potere il fare le cose  belle e le turpi, ed egualmente il non farle, c ciò vale  quanto esser buoni e cattivi, starà appunto in nostro  potere l’esser buoni e cattivi » *.   Il qual luogo è da intendere cosi: non c'è ragione  che delle azioni cattive si giudichi diversamente che delle  buone, e mentre le seconde si trova comodo far dipendere  da noi, si creda non dipendano da noi le prime: sono  in nostro potere le azioni buone e le cattive nella stessa  misura, e poichè dalle azioni risultano gli abiti, anche  la virtù e la malvagità. La vecchia sentenza che wnessuro.  è volontariamente malvagio, nè involontariamente beato,  obdeic Ezòv rovnods odd’azov pizzo, è vera nella seconda parte,  è erronea nella prima 3. Anche Socrate errava quando  affermava che la malvagità è involontaria e fin anche la a  vai stavo. Cfr. Magn. Mor. diiloy oùv dr è Mlpwro: T6v Tp4= «i  Eemy tori qevratizds.   4 Eh. Nic. III, 5. 1. :  2 Eth Nic. III. 5. 2-3. Abbiamo tradotto: ciò vale quanto esser 4  buoni e cattivi. Il testo veramente ha: 7070 di iv ad ceyalloto nad  ua29ì sivas. È adoperato qui il passato fiv perchè fu dimostrato prima    pri (Cfr. il cap. I del libro II) che col fare il bene od il male si diven xa    | buoni o cattivi; e l’autore intende riferîrsi a quanto ha detto allo    | 3 Eth. Nic. III, 5. 4.          virtà !. A chi attribuire le azioni se non all'uomo stesso,  a un principio ch'è in lui #? Non sono prova di ciò gli  onori ed i premi che si danno alle azioni buone, i biasimi  ed i castighi che si danno alle cattive? Certamente coi  primi si vuole incoraggiare la virtù, e coi secondi disto-  gliere dal vizio: ora chi vorrebbe eccitare o distogliere  dal fare checchessia; qualora questo non fosse nel nostro  arbitrio? Si eccita forse qualcheduno a non avere caldo  o dolore o fame, quando in realtà egli provi tutto  ‘questo 3? La lode ed il ‘biasimo, il premio ed il castigo  non si danno alle cose che sono il risultato della ne-  ‘ cessità, della natura o del caso: non si loda e non si  biasima, non si premia e non si castiga che ciò di cui  noi siamo la causa 4.  La stessa ignoranza il legislatore punisce nelle azioni .  umane, quando sia frutto di colpa e derivi, per esempio,  da ubbriachezza o da negligenza, che stava in noi evitare ?.       4 Per verità solo l’autore della Grande Etica sostiene che Socrate  ammettesse non soltanto la malvagità, ma anche la virtù essere invo-  = lontaria. Loxp4Tas È9%, ob èo' ipo favola nò arovdzio»e sbai  Î gu0)0vs. si {9 T6 gui, iprheeiey ivtivagiY OTEPOY &Y  oUleiz dv foro Tv dduzlzv....                   x CISA  BovXorro Sia: siva fi #0L403, |  a ps DI I) +; », A 5  9 dov d © ei 920708 235 siolu, ob %y E4OVTES ENG%Y Uzbtor    ; Horse dflov dti obdi arovdzto.. Magn. Mor. t. 9. 7 -$.  > Eh Nic. III, 5. 0.    Eth. Nic. III 5- 7. 5 ma  sa tI »% = O Tor È, Vu Wi "   4 Eth. Eudem. IT, 6 10. Ersi d° "ee N ù sit va   . n DIN x t— E szrd | Ve PETAL à   1 quriv Soy 7% peY ErZiESa è der defi Y    aa AMEITEN ber SSL  Si cd di avdlgzns di ebyns Di proeos Urso    L    I    .    ad dn  SI V- où  vii èRANElTot DTT VERRI  2) Gewy uuroi atrrot SGuavi 050Y viag Yos aitros, EASÌvOs  ONT, nA o pela RIS  x iagy déyor x sì adv Erzavov gye1), diiloy brr net pet vai  4: ì BREA i  4 venni. FEpÌ cuba ton Oy abtds giciog nai def TIAGEOY.  = ") AI Tv  s Eh. Nic. III, 5. 8-9:    , 24  G. ZUCCANTE  3 srt  RE neo 7.1  viel RT  È to ilzaza          del corpo, se effetti    Perfino certe brutture e certi vizii  uindi da noi e    di trascuranza 0 di abusi, se dipendenti q  non da natura, vengono, biasimati e puniti !.   Taluno potrebbe opporre che se altri trascura j suoi  doveri, gli è perchè è tale che non può non trascurarli;  che tutto quanto egli fa di male, è necessaria conseguenza  del suo carattere, € dell'abito oramai preso di fare il male *.   Ciò è vero; ma di aver preso quell’ abito l’uomo è   causa e responsabile. Stava in lui il nov condurre la vita  tra i maleficii e le gozzoviglie; stava in lui il non com-  pire i singoli atti da cui dovea derivare a poco & poco  L'abitudine del vizio; egli pur sapeva, © l’ignorarlo è  da insensato, che dagli atti si formano gli abiti; dovea  atti che conducono ad abiti mal-  vagi. L'abito malvagio è volontario, com’ è volontaria la  malattia che s'è contratta furia di sregolatezze © per  aver trascurato le prescrizioni del medico.   Si sa, non è in potere di uno, per quanto lo voglia,  non essere malvagio, quando malvagio sia diventato: Ma  era in suo potere non diventarlo. Non è in potere di    chi ha scagliato un sasso :l trattenerlo, ma era in suo    : potere non scagliarlo; non è in potere di chi s'è ammalato    dunque guardarsi dagli    A per sua volontà, riacquistare la salute quando il voglia,   È ma era in Suo potere non ammalarsi 8.   vi E perciò degli abiti si deve direbensì che non sono tanto   TE in nostro potere, quanto sono le azioni, perchè di queste   % siamo padroni dal principio alla fine, e di quelli invece  soltanto da principio; ma non per questo si devono Con- -    siderare come indipendenti da noi e quasi non nostri 4.       i Eth. Nic. III, 5. 15-16.  2 Eth. Nic. II, 5. 10.   3 Eth. Nic. II, 5. 10-14.  4 Eth. Nic II, 5. 22. 90/, duolos dì gi modbers snoberol          Ta e I. 1 Si 7 0 MA    Lalla                                  Si potrebbe opporre ancora che l'uomo opera sempre  mirando, come a fine, a ciò che gli sembra bene; e non  dipende dall'uomo che gli apparisca bene questo o  quest'altro, non è l’uomo signore dell’apparenza (cis  pavtzataz où vipios); invece quale ciascuno è, tale gli ap-   2 parisce anche il fine; se cattivo un fine cattivo, se  buono un fine buono !. ReTA r   Ma se ciascuno è in qualche maniera cagione a se  stesso del proprio abito, come s' è dimostrato, dipendendo  da lui le singole azioni da cui l’abito deriva, è per ciò  stesso cagione dall’ apparenza, cagione dell’ apparirgli  questo o quello come bene *, perocchè il giudizio morale  è sempre in corrispondenza all’abito contratto 3, e quali  noi siamo, e tale è il fine che ci proponiamo ‘“. È   Se poi s'intenda parlare non già d’una qualità acqui-  sita, d'un abito, da cui dipenda la scelta del fine, ma  d’ una qualità originaria, dipendente dalla natura, e si dica  che l’apparirci questo o quel bene, come fine da conse-  guire, dipende da natura; in tal caso non si capisce, se  l'apparenza del fine cattivo non è in nostro arbitrio, come    non deva dirsi la stessa cosa dell’ apparenza del fine buono,    (ON    " RAI AE VE OE SIIS O pre, Ep RR È apr ed  sai ul Efes To Lev 29 Tpascwy 7 CY ALI pi yer ToÙ TEX0US  z 5) NS e n) Su ere i ni > nes* +=  nbprot îGueY, sidbrae cà nol’ Enzona, TOY EEswy dì T7is do yi, 42    LIOGTLOV    ’ . 4 St pae  0° gyuota dì  mpdobzars où uopos, Gore èrì Tov de  o DEI a a A EDU TOSI \ =;  dI OTL io ipy Riv ovTOS A LN DITO prozia, dx TOÙTo    ELDUGIOL.  4 Eth. Nic. III, 5. 17. ; Me  92 Eh. Nic. II, 5: 17 BI ev oùv EnaGTos sito Ts ESEm3 GTI  FW AT, 24 TRS qurTanlas fora TW aùtòs ars. as  3 Cfr, Eth. Nic, IMI, 4. 4 specialmente le parole 6 aTovdZios YR9  unì èv E44GTO m%\nbès adrò o2veTat.    tI votver 00005  poro voler 09U0s, i;  CESRDA 20 AL TO mori 7wzs siva Tò TEMI TOLOvdE    4 Eth. Nic. III, 5.    Pi    aspetta.                                        e si continui a chiamar volontaria la virtù e degna di  lode e di premio, mentre invece la malvagità si dice  involontaria, e non si ritiene quindi meritevole di biasimo  e di castigo. A tutti duc egualmente, al buono e al cattivo, a  il fine apparisce per natura O comecchessia, e vien posto  x + tI 7 IL  sd nat die dyaloy aipricetat, noi fatw sbguns @ ToUTO   ernia Yi VIEN RANE o . a   MINDS TEGULEV © TL ZIO) dh dgeth Ts varrdize fama EAGUGLON 3  mò nun, Td Edo quae "    -    È  n tc]  INS  Tous TADTA TOZTASL, dz TOÙUTOY  Eolo OÙA    (CRI    -   è CURL  QUEI 233   -Ò    ugo YZ ouolos, TO dado rà  iTwadATOTE QUNETAL uri astra, Ti dI Vorrk mods TOUT daga  govTes TPUATTOVGU inoadimore. pp  2 Id. ib.    RESA TL ee ee                            Come si vede, Aristotele, in risposta all’ obbiezione,  ha insistito più che altro sul fatto che virtù e vizio  vanno trattati alla stessa maniera, e se si dice involontario  il secondo, perciò che l’uomo non è libero nella scelta  del fine, involontaria si deve dire anche la prima per  la stessa ragione. Ma ha lasciato insoluta la questione  che si riferisce all’ essere o non essere veramente volontarii  la virtù e il vizio.   A che giova infatti a tal uopo affermare che virtù:  e vizio sono volontarii, perchè sono volontarie le azioni    da cui questi derivano? La questione è così semplicemente    spostata, dovendosi sempre dimostrare come € perchè  siano volontarie le azioni.   In sul finire perciò Aristotele aggiunge: « Sia che  il fine, qualunque esso sia, non apparisca per natura @  ciascuno, ma sia in parte anche presso chi agisce, &Xe  ni nai map abrdy tot, sia che il fine sia dato da natura;  per il fatto che il buono opera volontariamente il resto,  la virtù è cosa volontaria, e punto meno verrebbe ad  essere cosa volontaria la malvagità. Perocchè similmente  anche nel malvagio si ritrova il condutsi di per se nelle  azioni, sebbene non nel fine, duotos osi da) O pria  qa sd de gùrby è TAS TpUGSAUI vo sì uh SY T@ TO » ;   Le quali parole indicano che adunque, ance e au  l'ipotesi: che ‘ fine derivi da natura, le nostre azioni pero  oi, sono în nostro potere e non vi siamo    scono a ll i  AE, volontariamente quello che    determinati; L'uomo Opera    vi    Ù i Ne và obesi endoro QI  i stre dh FO mEX0g MN DUCE ERLOTA ne  4 Eth: Nic. TIT, 5. 19 SETS PERI   DIR 4 TII uoToy Sam, €    È ’  a rd puev Ted0s   N i x  pero E2099L0g =dy arovdziov # dosth    VETZAI piovd mote:    \  io di Mom Toe  D SUE 2 ooy 20 i dI szotoror dv sta. duotos  Ficià] (e) Pil VU ACCAGI 1,71. ì ; | St ESS  Ho “rd DL abrdy SY mite morbo nai el    LI  UGO,  È .  e 7 N  fuoUgtoy È RCA  Soi ra nas DELE                                        , opera, sebbene il suo operare sia diretto @ quel fine. La  le opere che conducono    natura pone il fine, l'uomo pone  a quel fine; quindi degli abiti contratti, virtù e vizio, È  egli è almeno concausa, auvzirtos !. 3  Aristotele però non alterma recisamente che il fine È  derivi tutto da natura; egli non esclude che possa anche SO  su essere in parte presso chi agisce, Mk si (sc. Toù 8).005) Ri  $ 20 TIP UdTN; cioè, se non m' inganno nell’ interpreta= b  zione, che l'uomo colla sua energia individuale possa  modificare e trasformare il fine posto da natura, € aggiun-  gervi quindi qualche cosa di suo: in tal caso le azioni  i e gli abiti che ne derivano, sarebbero anche meglio in  E nostro potere. : i  ai i Per concludere, Aristotele qui evidentemente occupa  CI come una posizione intermedia fra il determinismo € *  l’indeterminismo; indeterminismo, perocchè ad ogni buon 20  ‘conto, anche se il fine non lo pone l’uomo, egli opera Do  volontariamente quello che opera per conseguirlo; deter- >  minismo, perocchè Aristotele créde che il fine sia posto da sea  ve, natura, o che tutt'al più noi vi contribuiamo in minima ip”  parte. Il che concorda con quanto s'è detto, più sopra,  che il fine essendo voluto e determinato per natura, la DE  libertà e quindi il merito appartiene soltanto alla delibe- 4  razione e alla scelta dei mezzi che conducono a quello.    VI.    x        Per queste condizioni in cui nasce e si svolge, | 7    sola. libertà in Aristotele è di necessità limitata: nè.       a E, À na A È 4  Eth. Nic. III, 5.20. 7©Y £620Y cuvalzioi TOS ultot  MEI Wa S a ad I          Une  NELL'ETICA D' ARISTOTELE 375    caso certo di parlare della libertà sconfinata di certe scuole.  La natura dell’uomo è il limite primo e più forte che  ad essa sì opponga. Ecco in proposito un luogo assai  notevole della Grande Etica: « Si potrebbe dire che  poichè non dipende che da me l'esser buono, io sarò,  quando il voglia, il migliore degli uomini.-Ma ciò non  è possibile. Questa perfezione non ha luogo neanche per  il corpo. Poichè non già perchè voglia prendersi cura  del corpo, altri avrà il migliore dei corpi. Chè non soltanto    a tal uopo son necessarie cure assidue, ma è necessario  ancora che la natura ci abbia dato un corpo bello e robusto.  Colle cure, il corpo sarà certamente migliore, ma non  sarà per ciò il migliore di tutti; La stessa cosa conviene  ammettere per quanto riguarda l'anima. Non sarà il  migliore degli uomini chi semplicemente decida di esserlo;  se la natura non vi concorra, sebbene sarà molto migliore  in seguito a questa nobile risoluzione » Ra   Non sì potrebbe assegnare um posto PIÙ importante  alla natura, e negare con maggiore energia l’onnipotenza  del volere. Si direbbe anzi che l’autore della Grande Etica  abbassi qui di troppo lo spirito, facendolo dipendere da  certe fatalità, analoghe @ quelle del TIESA lo Pie |  ha degli istinti paturali; ma esso non è perfettamente    AI : CIESE  ne DON IREYOL a CI ATL imaidameo  I Magn. Mor. I, 11472 1905 RELA ue î dA  TO i uol sento Salo siva 27) GRINdIO, €2Y Pobezzi, Srna  n° iuot Fot © Nato rosdalo, id Posto SI.  LOI) GTOVIMITZTOS- où dh duvatdy TOLTO. Su al; dui obd' în  TINTOY Di A) ° CEI e IP EA i-uusAetoa  , Ina 0070. 0) LUG II > 12 Neri Tu  © GOULTIS IVVETAL 70% (4 1 i  ten #)}] GOULTIS he ’ nr T0Y her "0 GO. det SZ) uh  4, 9 O sa D 4 L  = couzzos, 22 Îh mduov derato) “33 i fd i  TOY GO: ADOS) 2) DI VIN A DAL 143 cl] Qual pesa +  MINOLI NEVI VISO Aa) 2) fi quae  òvoy NY STILE O serata ty ofy Ego 7d Tous UpraTz ILEYTOL  ooua 190) PEAZAIO Berry pay 99) 557 î ;  GOUA #0 LIT  HTOY pù. duolws Ò: del  RI 100 BSLO GTO ZITTI    V. n  N    Vai Viiie/ nz OR   Y dro iabre #2 ir dois. ® 1  DI ,   Da) uh DI21 n DIGI    È)  SaTÀ             376 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    formato quando si schiude alla vitas e come con una  buona igiene si riesce qualche volta a trionfare di certi  vizii inerenti alla costituzione fisica, coll’educazione e  con un regime conforme alla ragione e alla virtù si può  riuscire anche meglio a vincere e a trasformare la natura  morale. Del resto, nel luogo accennato, mentre si nega  l’onnipotenza del volere, non se ne disconosce però l’ effi-  cacia, dal momento che a quanti aspirano alla perfezione  si rivolge l’incoraggiamento: « Sarete molto migliori in  seguito a questa nobile risoluzione ». E in realtà la  risoluzione d'essere il migliore degli uomini, indica non  soltanto che in chi la fa, c'è l'idea della perfezione da  conseguire; ma il desiderio ancora e la facoltà di fare  degli sforzi per conseguirla; e questo desiderio non può  nascere che in chi ami già il bene, e trovi in questo  sentimento d'amore la forza di attuarlo.   Ma un ostacolo anche maggiore viene alla libertà  del volere dalle esigenze logiche del principio di contrad-  dizione.   La libertà, s'è detto, richiede che gli atti dell’uomo  siano contingenti non solamente nelle loro condizioni  esterne, ma anche nelle loro condizioni interne, sicchè  la scelta non sia in alcun modo determinata nè per l'uno  nè per l’altro dei due possibili opposti.   Ora in logica due proposizioni contradditorie, di cui  cioè l'una affermi e l’altra neghi una medesima cosa, come   ad esempio, Socrate è bianco, Socrate non è bianco, ogni  uomo è mortale, qualche uomo non è mortale, stanno  fra loro in tal rapporto che se l’una è vera, l’altra è  falsa di necessità, e se l'una è falsa, l'altra è vera di  necessità; in altre parole, la verità o falsità loro è  necessariamente posta € determinata. Le proposizioni  singolari riguardanti il modo con cui altri agirà nell’ avve-  nire in un caso determinato, comprendono i due lati    TV    nio    ‘  n)       NELL’ETICA D'  ARISTOTELE 377    srvenieaazezione onnarezeazeneaneneappisanesaianezonenettoi    d’ un' alternativa e rientrano nella categoria delle pro-  posizioni contradditorie; e di esse per conseguenza è  da dire quello stesso che s' è detto di queste: altri agirà  in un modo o in un altro di necessità; sicchè tutte le  azioni che si dicono contingenti, diventano necessarie €  la contingenza loro non è che un'apparenza, che tosto  è dimostrata dall’ applicazione di un principio elementare  di logica. « Se è necessario, dice Aristotele, che di ogni  affermazione e negazione opposte, sia negli universali,  sia nei singolari, l'una sia vera, l’altra falsa; non c'è più  indeterminazione nè caso nelle cose, ma tutto avviene  necessariamente, sicchè non bisogna più nè deliberare,  nè agire » 1.   Non si può negare che l’obbiezione sia forte, e che  Aristotele se la sia fatta con perfetta conoscenza di tutti    isuoi termini. Egli però la risolve in favore della contin-    genza € della libertà. Il criterio della verità non pare @  lui qualche cosa di astratto, dipendente da deduzioni  logiche, ma qualche cosa di concreto, dipendente dall’ espe-  a esperienza; € Ì esperienza dimostra  che c'è veramente della contingenza nelle azioni. Nel  passato € nel presente, quando l'una delle due proposizioni  contradditorie sia vera, l'altra è falsa di necessità e vice-  versa; Ma nell’avvenire la cosa È diversa; a AVSCIDES  tutte due-le proposizioni potranno essere Sa 0  vere egualmente; l'una non sarà più Vera ell’altra, ovdsv    rienza, anzi la stess    SÒ DA VONTO. TOT de  uòv dn CIIPIIVOVTA LTOR% tata  G    è dmondazos, N eTÌ  sai dr °  \ n L=50% simo 7455 49% AT09 Te 5  444 orgia 5750% dote È SEZ ni  fiv 200070) Jeyouevoy 85 23900), N St È ; L  TOY LIMO IV RES, VIa07, Tv di deudi ;  \    | De Interpretattone I Do  LITIGIIZOG    ay sN Th    sdenin TOY INTEN ; RE  GNEfHn TO, ar goyyey ca È big VIGEVOS » GINE TINTA  dev Sì onore? Eouyey ENZi Seu Bodeveodat Sla iv  t LA RI AI    n»  x  siva 2 pesta: _E6   bealat.    olme mpafUaTeo       Pg -    sr    udIdOY nIT4OIT* Î 7094945 Vendi ciò che è vero ©  assolutamente vero in questo caso, è che la cosa avverrà  o non avverrà senza determinazione precedente. Le  proposizioni contradditorie riguardanti l'avvenire hanno  per essenza loro L'indeterminazione: « NOn sì possono  considerare ad un tempo come future, come singolari €  come determinate, senza contraddire i tecmini stessi  della questione » >: i   Così Aristotele neanche ‘dalle esigenze del principio  di contraddizione è indotto a negare la libera scelta; la  scelta non sì può determinare è prevedere in antece-  denza.   Nè a questa indéterminazione della scelta si oppone  la sua metafisica. Il Dio d'Aristotele, come già fu detto  altre volte, è atto puro, È pensiero di pensiero; egli non  fa che pensare se Stesso eternamente, a nessuna altra  cosa egli pensa, chè in tal caso nell'essenza sua purissima  5’ introdurrebbe un elemento di potenza, che ne altererebbe    la purità. Perciò neanche al tempo egli pensa; il passato ,    e l'avvenire sono per lui come non fossero. Dio non  prevede l'avvenire, come non conosce il passato. E poichè  Dio non prevede avvenire, la famosa contraddizione,  messa in campo dai teologi posteriori, fra la prescienza  divina e la libertà, non ha ragione di essere: soppressa  la prescienza, niente più s'oppone alla contingenza. Che  importa infatti che dei due membri d'un’ alternativa l'uno  sia vero di necessità, e l’altro di necessità falso, se nessuna  mente c'è che possa dire in antecedenza, quale «sarà vero  e quale falso ? Solo quando ci fosse una mente di tal    I De Interpret. IX.    2 Fonsegrive Essai sur le libre arbitre, Sa theorie et son histoire, È    Paris, Alcan 1887, p.31- 32- Cir. anche Chaignet, Essai sur la Psycho-  logie d' Aristote, Paris, Hachette pag. 565-506.       :  NELL’ ETICA D' ARISTOTELE 379    fa TARE   de l’obbiezione logica accennata sarebbe temibile:   poichè questa non c'è, la contingenv ‘i inazi   Da tingenza e l'indeterminazione  avvenire resta sempre.    VII    Così in una esposizione per quanto ci fu possibile  esatta abbiamo cercato di riassumere la dottrina di  Aristotele che riguarda la volontà.   Evidentemente nel pensiero dell'autore la trattazione  che riguarda l'izobcroy € l'iobsv, quella che riguarda la  Gobdevats € la rpozipeate, € quell’ altra che riguarda la Bob-  Ina, sono tutte subordinate a quella in cui si determina  se la virtù e la malvagità sieno volontarie (srobgwi cis  gi doeraì pai di VILLA szobaror cio) | e.in DLOStTO potere  (èp Aut). Si può dire che questa è come il fine p; cui   sono i mezzi, &Se viene ultima. nel fatto,   è però prima nell’idea: da- essa dipendono idealmente;   quelle altre ricerche, © in grazia di essa SI son fatte. Il   ensiero ‘d' Aristotele, giù accennato, che Sbello che È   ultimo nella ricerca è primo nell'azione, trova qui a  i licazione.   sua piene Aristotele Sì proponeva di mostrare che la    virtù e la malvagità sono IN nostro - arbitrio, comple-    AREA  tando in questo modo € dando per così dire l'ultima    alla trattazione della virtù iniziata-nel libro II, era  ano dile 3 2 5 He SPS .  m le che ricercasse IN primo luogo se CI sia in nol  naturale =". ‘riva e originaria, che appartenga proprio  un’ attività primi    inte RIOAIOA sia la semplice ©  ?    quelle prime    -    ipercussione di un moto       eta    TL ibra ano r EO    esteriore. Se si arrivasse a provare che niente c'è in noi  di spontaneo, che tutto dipende dal di fuori, nè virtù,  nè malvagità sarebbero in nostro potere, e ogni autonomia  personale sparirebbe. Se noi tanto rendiamo quanto rice-  viamo; se il nostro spirito si può ridurre ad una specie  di congegno meccanico, il quale, senza produrre niente  di proprio, non serve ad altro che a ricevere impressioni  dal di fuori, ch’ei rimanda poi equivalenti di peso e di  misura; a che parlare di virtù e di malvagità?   Di qui la grande importanza della ricerca intorno  all azar. L'ixodaov è lo spontaneo, è ciò il cui princi  pio è in noi; se il principio del moto non è in noi, ma  viene dal di fuori, abbiamo il contrario dell’ szo0auoy,  l’azobavy, il forzato, fizroy; € naturalmente tutto quanto è  forzato, tutto quanto non è spontaneo e non deriva da  noi, non è suscettibile di lode e di biasimo, non può  dar luogo a virtù e a malvagità. ‘   Ma questo spontaneo, quest'attività primitiva e  originaria, questo principio interiore di moto, appartiene  veramente all’ uomo?   Aristotele non dubita di annoverare fra le varie  facoltà dell’uomo anche una facoltà motrice, 7òd zuvatizòy  zatà céroy!, e la congiunge strettamente alla facoltà  appetitiva, xò èpeztiziv. Ecco com’ egli ne parla: « Quanto  al movimento di locomozione, è chiaro che la causa di  esso non sta nella facoltà nutritiva, perchè il movimento    >, % ne pa »   i De Anima II, 3. 1. Auvapers de is Unyiig strouey Oper  pei È Ò TRO RIST b IENA AZ: A  T‘40Y, giclintiziy, doesnTizov, VAVITIZOY ASTÙ TORON, SLLIONTIAON.  E notevole però come altrove {De Anima III, 10, 5) Aristotele sop-   * prima la facoltà motrice per sostituirvi la volitiva, #0 BovXevTizoY;    not dì diziogda. 7% uson D Unyiie SR RESA NNIANIZ,  Ax LEG buy, E2V AAT T4 dUVAPEL    5  ,  rd veri, Mosmanzby, 2icincuzòy,    dita 2% sorta, T4 i   È Vv? \ Ì Ì  B I, #) AL, » DI > ,  vontiziv, BovAevtizoy, Eri d' OpezTIzoY.          NELL’ETICA D'ARISTOTELE 301    mensanazinenianeolo.  o pesa rei dacancesesvustesezi sovcoAUaripintiorSeacati0o pan eza tane nera rczri    ; compie sempre per uno scopo, ed è accompagnato 0  CI UNE rappresentazione, & petz gxvrzstzs, O da un’appeti-  ZIONE. Î deétc0s, che sì riferisce a questo scopo. Niente  di ciò che non prova nè inclinazione, nè avversione, si  muove, se non per una forza estranea; altrimenti le  piante avrebbero pure la locomozione e qualche parte  che alla locomozione servisse come di strumento. Facoltà  motrice non è neppure la facoltà sensitiva, perocchè ci  sono molti ‘animali che hanno la sensazione e che sono -  fermi e immobili sempre.... Non è neanche la ragione  e ciò che noi chiamiamo intelletto, 7ò opt vai d  ua)obpevos VOÙs; perchè la conoscenza distaccata dai sensi  non ci fa conòscere niente di pratico, e non dice niente  su ciò che si deva desiderare 0 fuggire; mentre il mo-  vimento è sempre accompagnato da inclinazione o da  avversione. Quanto alla comoscenza pratica, se essa  apprende qualche cosa di temibile o di desiderabile, non   er ciò essa ci spinge a evitarlo o a ricercarlo.... E anche   uando l'intelletto comandi, e la ragione ci dica di fuggire    qualche cosa © di farla, non per questo Si produce    movimento, come succede negli incontinenti che pur    vedendo il da farsi, operano @ seconda dei loro desiderii.  È così che quello che ha la scienza medica non gua-  risce per ciò; bisogna che qualcheduno agisca secondo la   è Ja scienza che agisce Infine non €    i e  scienza, ma nol) SIA I OETO SERRA  neanche l'appetito tutto solo; dpetts, Il principio della  c , Ò È  jocomozione, 25716 mogli This 2aVHa80s perchè i conti    nenti pur appetendo e desiderando, non DUE però ciò  “e o desiderio, Ma obbediscono alla ragion»  casa ds he muove è il concorso dell'appetito €  Ciò € so si fa rientrare in questa la concezione  imaginativa, ‘h QIITI4; perchè molti    o VO.  dell’intelligenz4,    tativa O “Sw i  (PRESA muovono contrariamente alla ragione per    inazione; € altri sì    animali S! muovono che    a  tener dietro all’imag                                              l’imaginazione solamente.  i principii della locomo- A  PISTA ANTA pi    non hanno la ragione, ma  Queste due cose adunque sono  “zione, la intelligenza e l'appetito, 4uow 40%  sarà toTOY, voi zi bpelis nl.  E se tale è la dottrina d'  da solo, ma accompagnato  all’imaginazione, il principio del moto, si domanda: è  l’imaginazione, la concezione, 0 comecchessia la rappre-  sentazione di un qualche oggetto, d'un fine, ciò che alla  sua volta determina. |’ appetito, e ne è il principio? è  l'esterno che determina l'interno? In altre parole, e come  si domandava più sopra, c' è nell'uomo e nell’animale  in genere una spontaneità originaria? oppure quella che "i  | diciamo spontaneità non è spontaneità veramente, Ma il  196 riflesso, il contraccolpo d'un moto esteriore, come sostiene 2  modernamente la scuola positiva? n:  Probabilmente Aristotele non s'è proposta neanche fi:  ri la questione; 0 Se mai, non se l'è proposta con Ja. (060  x | chiarezza ela perfetta coscienza, con cui potrebbe propor- Vira  si: sela un autore moderno. Crediamo lecito tuttavia affermare - PAR  i che Aristotele, per quanto legasse l’appetito alla rappresen- È  Ki tazione d'un fine esterno, non facesse però dipendere |    interamente quello da questa.  È troppo nota infatti la sua teorica dell’ interna    attività degli esseri, € dell’immanenza del fine per cui   ogni essere passa dalla potenza all'atto; è troppo noto  che il concetto d'attività è come la chiave di volta di  tutto il suo edificio filosofico, per poter credere che è  quest'attività non fosse per lui attività veramente, ma  il risultato di un semplice meccanismo di moti.       Aristotele, se è l'appetito non  alla conoscenza pratica 0                   , 09 5.8g. e II, 10. 1. Avvertiamo che nell    1 De Anima III  arola, ci siamo attenuti allo spi    traduzione Spesso più che alla p:    s    NELL’ETICA D’'ARISTOTELE 383    D'altra parte oltre il moto di traslazione, x27% é70v  4 ivan, il cui principio bensì si potrebbe considerare  come esteriore, Aristotele ammetteva altre specie di  moto; il moto per cui la sostanza si genera e si corrompe,  yivenis, gIop4; Il moto per cui la qualità si modifica e  si cangia, @otor:g, e il moto per cui la quanzità si accre-  sce 0 diminuisce, 20191, gUNias.   Ora questi moti sono tutti intrinseci agli esseri, nè  possono certo derivare dal di fuori; e fanno prova per  ciò d’un’attività prima e spontanea. Non è dubbio quindi  che la teorica d’ Aristotele possa essere opportunamente  paragonata per questo rispetto a quella del Bain. Anche  il Bain, solo forse dei filosofi positivi moderni, ha messo  in rilievo la spontaneità propria dello spirito, ricercandone  gli elementi attivi primordiali, e sostenendo che il cervello  non obbedisce semplicemente agl'impulsi, ma che è esso  stesso un istrumento spontaneò (se/f- acting) !.   Si potrebbe dire: ma come conciliare questa sponta-  neità di moto e di attività colla teorica d’ Aristotele del  primo motore immobile, mpé70s 4modv debatos, dal quale  deriva in ultimo il moto ‘alle cose? Come potrebbe essere  ancora spontaneo un moto, che è in fondo conseguenza  d'un altro moto? Confessiamo che ci troviamo qui  dinanzi all’intima contraddizione che travaglia tutto    quanto il sistema aristotelico, tra la finalità estrinseca e    l’intrinseca, tra Dio e la natura, tra il dualismo e il  monismo. Ma come la natura nel sistema aristotelico non  perde, per l’azione che Dio esercita su di essa, la sua,  chiamiamola così, individualità e la sua forza, che rimane  e Si contrappone anzi a quella di Dio stesso, come prova    i*Vedi quanto abbiamo detto in proposito a pag. 1So- 181 del  Saggio I! problema della conoscenza nella filosofia moderna e segna-  tamente nell’ Empirismo contemporaneo.    RE » C-                       l'espressione 6 Beds zl gbats ovdev uarav 7 moroder; COSÌ  egualmente gli esseri, sostanze ed energie operanti, pur  tendendo a Dio come a fine ed ARA il moto, non x  sono però da esso assorbiti e distrutti come individui: «4  il moto negli esseri è insieme estrinseco ed intrinseco,  determinato e spontaneo. Ognuno ricorda a questo propo-  sito i versi dell’ Alighieri:    Ed ora lì, (a Dio), come a sito decreto,  Cen porta la virtà di quella corda,  Che ciò che scocca drizza in segno lieto.    de Ver èfome forma non s'accorda   de : Molte fiate all’intenzion dell’arte,   o Perchè a risponder la materia è sorda;  7 i Così da questo corso si diparte    Talor la creatura, che ha podere  Di piegar, così pinta, in altra parte !.    Ma non è la sola spontaneità che costituisca l’ gzo6-  cv; g20bcoy non è soltanto quello il cui principio è in  chi agisce, comunque vi sia, e che non è quindi effetto  di violenza: per avere l'éxo5cwy occorre anche un’altra  ‘condizione, occorre che si sappia quello che si fa, occorre  la conoscenza. Senza la conoscenza, quell’attività di cui  ra IST parlato, per quanto’ non ripercussione di un: moto   | esteriore, per quanto spontanea, per quanto dentro di  noi, non potrebbe dirsi propriamente nostra; sarebbe — |                      NELL’ ETICA D’ ARISTOTELE 385    un effetto cieco dell'organismo, che l’uomo avrebbe  comune coi bruti. E in realtà anche i bruti possiedono  l' ézobaroy, inteso come attività spontanea, e tuttavia non  sono atti all’azione, come non sono atti all’azione i  fanciulli !; appunto perchè nei primi manca affatto la  conoscenza, e nei secondi non s'è ancora sviluppata.   La conoscenza illumina l'appetito, cieco di natura  sua e irrazionale, e mostra il fine da conseguire, e sceglie  con deliberazione i mezzi necessarii a conseguirlo, e tutte  mette sott'occhio le singole circostanze in cui versa l’azione.   L'attività volontaria è perciò insieme appetito e ra-  gione; nè le azioni potrebbero dirsi propriamente nostre,  se non vi concorressimo anche colla parte migliore di  noi, e non soltanto con ciò che abbiamo comune coi  bruti.   Nel trattare della conoscenza, di questa seconda  condizione dell’ gxo0grovy, Aristotele è in generale abba-  stanza preciso e lascia pochi dubbi e poche incertezze.  Opportunissima e conforme a verità la distinzione che  « sò dI de vor 0dy, nobarov uiv day. ori, mobaoy dI    z—f'    Tò Sriiurov vel èv meTanehetz *», come l'alta che « Erspoy  { /    x Ù . ” , “  D' forsey zz 7d ÒL Kyvorzi TodTTELY TOÙ cyvoouvT (mpdrtew) ® us    (0I    esatta l'affermazione che l'ignoranza del fine non rende,    azobeg lazione #; ma troppo assoluta ed esclusiva  quell'altra che questa stessa ignoranza è causa della  malvagità 5; come se malvagi non vi fossero che non  ignorano il bene, e tuttavia operano il male! Aristotele  per questa via s'accosta alla sentenza di Socrate, che    1 Eth. Nic. I, 9. 9-10.  Eth. Nic. III, 1. 13.  Eth. Nic. III, 1. 14.  Eth. Nic. III, 1. 14-15.  5 Ib.    G. ZUCcANTE 25    12    4» CI               Dia sn An “A    386 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    pure ha combattuto in altri luoghi e con energia, che  la malvagità è ignoranza. Non bisogna neanche tacere  che l'enumerazione a cui s'è accinto Aristotele, delle  singole circostanze che possono essere ignorate da chi  agisce, per quanto opportuna in se, riesce però incompleta  e non scevra di oscurità. Sebbene qui, dovendosi tener  conto della difficoltà dell'impresa, Aristotele non sia da  rimproverare più di quanto convenga. Come si fa ad  assegnare confini precisi € distinti alle singole circostanze,  in cui può versare un’ azione, quando non ci si trova  alla presenza d’ un'azione determinata?    IX.    Il risultato finale della discussione intorno all’ s2ob-  cioy e all’azobov è che Aristotele ha cercato di dimo-  strare in primo luogo la differenza fra l'atto volontario  e l'atto involontario, eliminando dal primo gli atti com-  piuti per vioienza,e per ignoranza; e in secondo luogo  che vi è un atto volontario che appartiene a noi, non  soltanto perchè il suo principio è interno, ma perchè  abbiamo o possiamo avere conoscenza delle circostanze  in cui si compie. In questo modo egli s'è ingegnato di  stabilire la libertà come condizione del valor morale e  della bontà delle azioni, presentandola come una spon/4-  neità cosciente, e S'è opposto recisamente al fatalismo  colle sue conseguenze di quietismo e d’indifferenza.   Ma stabilire che c'è un atto volontario che dipende.  da noi, perchè il suo principio è intrinseco, e abbiamo  o possiamo avere conoscenza delle circostanze in cui  si compie, se basta per escludere il fatalismo, non basta  per atfermare la libertà. La libertà richiede come sua          NELL’ETICA D'ARISTOTELE . 387    condizione non soltanto la conoscenza, non soltanto che  non ci si vincoli dal di fuori, ma anche che non ci si  vincoli internamente. I motivi interiori, per questo solo  che sono interiori, non cessano dal vincolarci. Bisogne-  rebbe, perchè non ci vincolassero, che dipendessero da  noi; che non dipendessero dalla natura, o dall’educazione,  o dall'ambiente sociale, o da tutte queste cause insieme;  o che, anche dipendendo: da queste cause, avessero  subìto da parte nostra una specie di rimaneggiamento;  che noi colla nostra attività e colla nostra energia indi-  viduale li avessimo trasformati e comunicato loro un  valore ideale; che insomma di fronte ad essi non fossimo  rimasti inerti e non li avessimo accettati passivamente.  In caso cotrario, in che difl'eriscono questi motivi interiori  dalle cause propriamente esteriori?  Intanto però Aristotele crede che, purchè venga dal  di dgatro, l’azione sia libera e imputabile; la determi-  nazione interna non toglie all’azione del suo valore  morale; se l’azione viene dal di dentro, se è spontanea,  tanto basta perchè sia degna di lode o di biasimo, di  premio o di castigo; delle ‘azioni in parte spontance e    in parte non spontanee, siamo in parte imputabili e ine ‘    parte non imputabili; la imputabilità è in ragione diretta  della spontaneità !. L'uomo deve rispondere di ciò. che  fa sotto l’impulso di moventi interni, quali sono il piacere,  l’îra, il desiderio; e non avere la strana pretesa che quanto    fa di bene gli venga attribuito come a causa, e quanto ‘    fa di male gli sia scusato sotto pretesto che non dipese  da lui 2, I moventi interni, pare che dica Aristotele, non  sono cosa diversa dall'uomo, nè c'è ragione che quanto    ! Cfr. Eth. Nic. III, 1. 1-12 dove pare appunto che Aristotele  ' non richieda per l’imputabilità alcun’altra condizione che la spontaneità.  2 Cfr. Eth. Nic. III, 1. 1r-12 e II, 1. 21-23.       | 2 4    ohi          RATE er. cis A dai    7 int  388 (LA DOTTRINA DELLA VOLONTA    deriva da quelli non si deva considerare come dipendente  da questo. :   È ben vero che altrove definendo l'szobarov, Aristo-  tele mette innanzi il concetto del #ò so’ gut, del rò Ein)  mpdrToval, vale a dire il concetto che |’ sxobg1ov sia anche  in nostro potere *: ma con tutta probabilità quelle due  espressioni non hanno valore diverso da quello che ha  l’espressione sempre adoperata nel capitolo I del libro II,  èv iu A d0Xh vale a dire che szobgtoy sia quello il cul  principio è in noi.   La elasticità della quale definizione risulta evidente .  quando si noti col Ramsauer (pag. 144 del Comm.) che.  anche di quelle cose che appartengono alla natura  - nutritiva o accresciliva, il principio è senza dubbio in  noi, èv vuîv A doy, € tuttavia non si può dire che siano  in nostro potere, èo' vijlv.   La libertà adunque che Aristotele ha cercato di sta-  bilire e di difendere, come abbiamo visto più sopra,  s'assomiglia piuttosto a un determinismo psicologico:  Si direbbe anzi che è veramente questo determinismo  :l sistema in cui dopo oscillazioni c titubanze diverse,  dopo non poche contraddizioni e contrariamente a quanto  egli stesso affermava, s' è in ultimo acquetato Aristotele.   Ricordiamo in proposito la sua dottrina della BodXnste.   L’appetito volontario, fov}no:s, è per natura determi-  nato al fine; antecedentemente ad ogni deliberazione € ad       . i I e ” ; x  I Eth. Nic. V, 8. 3 eyo È’ szodarov piév, Oorep rà m9OTELON  lonza, dava 36    CASS \ vi _  Inte DN LAT    (o)    v Èo' adrà Uvtov silos zal ph depvoisy mpdTT  D MITO) OVTON ELOS XL IL VAGUZIONI TPLTTA  RARE A (I "ol :  e punte ob { vezey). Coll'espressione ©97S0 vai Tod=  » . , ni  reoov clonra: evidentemente l’autore sì riferisce al libro III cap. 1;  perciò non pare a noi fuor di posto la congettura fatta nel testo.  Nello stesso li è defini ì l'a î pe  stesso lib. V_cap.8$ 3 è definito così l' azobaroyi Tè dh do  obuEYOY, Î) uh dyvoobue èv ‘ui  I , Ti 1 &ftoovpevoy ev ‘pn    MSI i Eri ea v  in'abrò d' ov, © bia, dd eLove.    NELL'ETICA D' ARISTOTELE 389    ogni scelta, la volontà è determinata al bene, alla felicità; la  deliberazione e la scelta si applicano solamente ai mezzi  che conducono ad essa. Evidentemente adunque non è  in nostro arbitrio il proporci il fine; non dipende assolu-  tamente da noi, non siamo liberi di proporcelo o no @ .  nostra posta. La potestà di volere o non volere, l’ arbitrio  d'indifferenza non esiste. Il Leibnitz diceva: « Noi non  vogliamo volere, ma vogliamo fare; e se volessimo volere,  noi vorremmo voler volere:e così si andrebbe all infinito».  Il che vuol dire che la volontà può volere ogni cosa, Ma    ò volere se stessa; la volontà ha bisogno di un  e non può essere la. sua                          non pu  fine per esistere, e questo fin  volizione. L’arbitrio d'indifferenza implicherebbe che la  volontà volesse se stessa, fosse attività vuota, Il fine è  colto immediatamente, ossia il volere non è voluto, non  è preceduto da un altro atto della stessa volontà, è im-    mediato.  Ma la causa finale: non muove per quello che é in  se stessa. bensì per quello che apparisce, per quello che    vet non secundum suum    è conosciuta; Calsa finalis mo  esse coguniutum, come    è  mei esse reale, sed secundum suum  le. Il fine adunque passt per così dire,    diceano le scuo   attraverso l'intelligenza di ciascuno, e assume Ora una   forma, Ora un'altra a seconda appunto delle varie in-   telligenze. Tutti sono egualmente determinati al bene,  ser determinati al bene:    serchè è nella natura di tutti es   ma il bene di ciascuno è quello che.a lui sembra tale,   voy dy200v Così parrebbe che sebbene . l’uomo  op280v.    Ti QUE   Hiper natura il fine già fissato, per il fatto che do   sua intelligenza gli lavora, per così dire d'attorno, Sa   determina € lo specifica ID una data maniera, egli goda   d'una certa libertà. — i  Ma quale l’uomo è, € tale È.   se buono, crede che Ja felicità SU    le si propone anche il fine;  a nel bene e sì propone          390 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    il bene a conseguire; se malvagio, crede che la felicità  stia nel-male, e si propone il male a conseguire, repu-  tandolo un bene. In fondo adunque è a seconda che il  nostro carattere è conformato così 0 così, che il fine ci  apppare così o così; e percio è il carattere il vero autore  dei nostri atti.   Se non che Aristotele sostiene che siamo noi gli au-  tori del nostro carattere, perocchè noi non nasciamo con  un carattere formato. Il carattere è il risultato di una  serie di atti che, a furia di ripetersi, ingenerano delle  abitudini buone o cattive. Certo, una volta contratte  queste abitudini, non è possibile mutarle, come non è  possibile a chi ha scagliato un sasso rattenerlo; ma di-  pendeva da noi non contrarle. La favola di Prodico,  secondo la quale è in un'ora solenne della nostra vita  che noi sciogliamo una volta per sempre il problema  della virtù e della malvagità, indirizzandoci per luna  o per l’altra delle due vie che ci si parano dinanzi, non  corrisponde alla realtà. In ogni ora, in ogni momento  della nostra vita, o almeno della nostra gioventù, quelle  due vie ci si parano dinanzi e il problema ci si impone  a risolvere, e noi lo risolviamo a poco a poco, insensi-  bilmente, quasi senz'avere coscienza di risolverlo.   Il ragionamento parrebbe esatto; ma cela nel suo  seno una difficoltà insormontabile. Se in quel periodo  in cui si forma il carattere, ogni volta o quasi ogni volta  che ci si presenta un'alternativa morale, noi ci decidiamo  in un certo senso; se ogni volta o quasi ogni volta che  ci. si presentano quelle due vie, noi ci mettiamo per una  di o Sn la stessa; vuol dire che nel far questo  noi obbediamo a una certa disposizione in i  era impossibile cancellare, Tar RA ico    che non è carattere ancora, ma che diverrà tale sicura-    mente. Aristotele stesso afferma recisamente che per fare       i vst    PARETE Bel}    de    iena ire    PATER    v    A Rit Le    ai    #    Paia! dia    Rita DeTa    MSC LIE       >  NELL’ETICA D' ARISTOTELE 391    il bene è necessario una certa inclinazione naturale, una   specie di occhio naturale, con cui discernere quello,che   è bene veramente, per proporcelo poi come fine.  Risolve egli forse la difficoltà quando afferma che    noi siamo in qualche modo coautori del nostro carattere, .    mov Etemy auvzizioi mws abtot EoueY, dicendo che, se non  nel fine, ci comportiamo però liberamente nelle azioni  che sono necessarie per conseguirlo !? In questa conclu-  sione anzi altri potrebbe vedere una specie di disfatta,    una confessione d’impotenza; se non fosse che in realtà    Aristotele vi si ferma, perchè è la meta a cui vuole ‘    arrivare, una meta tutta pratica e positiva. Egli prova  contro i suoi avversarii quietisti che gli argomenti che  si possono addurre contro la libertà del male, che cioè  esso è dovuto a una disposizione naturale primitiva, al  fondo intimo del nostro essere, si possono addurre con  agione contro la libertà del bene; e questo gli    eguale r  nto il benè quanto il male sono in nostro potere,    basta. Ta    dacchè i mi i  esteriore a me stesso, Ma il fondo intimo del mio essere.    Il fatalismo è perciò combattuto, € la solita scusa del  vizio « non è mia colpa » non puo essere accettata. Il  determinismo interno 0 psicologico non salva: | azione  dall'essere imputabile; quando l’azione è de  dal di dentro, essa ci appartiene, € il legislatore non o-    manda altro per premiarla © punirla.    1 Cfr. Eth. Nic. III, 5: 17720    il principio delle mie azioni non è una fatalità.       ti.    Sip    PO SPIN       La stessa dottrina della fovMevas € della rpoztpests,  in cui più che altrove Aristotele crede trovare la libertà,  non arriva in fondo a diversa conclusione.   Egli afferma, come s'è detto, che sebbene il fine ci  apparisca per natura, siamo liberi però nella scelta delle  azioni necessarie al conseguimento di quello, e quindi  la virtù e la malvagità che ne risultano, sono in nostro  potere !.   Ma come sono queste in nostro potere, e come siamo  noi liberi, dal momento che il fine propostoci dalla  natura è di necessità la legge a cui le nostre azioni si  conformano? Le nostre azioni hanno un indirizzo e una  tendenza speciale, e non possono andar fuori di quel-  indirizzo e di quella tendenza.   Il filosofo afferma ancora: le azioni ingenerano gli  abiti, e gli abiti alla loro volta le azioni; e siccome le  azioni sono in nostro potere, Eco) ‘api, Sono in nostro po-  tere anche gli abiti che.ne derivano, e per riflesso ancora  le azioni che derivano dagli abiti %.   Ma donde derivano le prime azioni da cui derivano  gli abiti?   -Riportiamoci colla mente al primo principio dell’a-  bito. Ivi l'abito è nullo, e quindi le azioni non si può dire  che dipendano da un abito precedente. Da che dipendono  adunque? Dalla natura? Parrebbe di sì, dal momento che  è dessa che pone il fine e mette in noi le, inclinazioni    4 Eth. Nic. II, 5. 19.  2 Eth. Nic. II, 5. 10-15 ?       I IR SR .  Lutz pri nti ict    PAZ ade I    La    ei i    ARAN C       »    LATE    (et  sardine       ‘ abito. Ma l'uomo È    >»  NELL’ETICA D' ARISTOTELE 393    evsreme rione sveneeee    buone o cattive. Ma in tal caso, siccome la natura non  è in nostro potere, non sono in nostro potere neppure  quelle prime azioni, € quindi neppure gli abiti che ne  derivano, e le azioni che derivano da questi. © dipendono  quelle prime azioni dall’educazione e dall'essere avvez-  zati in una data maniera? Aristotele infatti riconosce che  « non è di piccolo momento l'essere avvezzato così 0  così fin da fanciullo, anzi è di grandissimo, e forse è il  tutto ! ». Ma è chiaro che quanto più si concede all’ ef-  ficacia educativa, 7ò i viov uni, tanto più si impove-  risce l’arbitrio individuale e si concede all’ arbitrio altrui,  all’arbitrio di chi educa, 705 sHiCovTos.  Nell'uomo quanto c'è di pfopriamente suo, quanto  c'è che si possa attribuire alla sua energia individuale?  Aristotele ammette che è necessario per esser  virtuosi una felice disposizione naturale, Vabitudine  e la guida della ragione. La disposizione naturale  \non è nostra; V'abitudine, siccome deve RI  fin da giovanetti, quando non SÈ ancora Svo ta pi  . Seo uindi s'ha bisogno della guida degli  ia age SÉ sa nostra. Svolta la ragione, può  altri, non € neppur essa. ll Rn nficioreientio  essa modificare | abitudine € IO no  nega 2. Che cosa resta dunque all    Niente. So ? Ro  i «va anche per un  ‘isultato sì arriva   A questo stesso. TS   E fine che si conforma al suo    arisce quel helsconi a  è signore de’ suol abit, quindi è anche  D    del fine. Così Aristotele ®.    ‘ All'uomo app    ca Po  signore dell’ apparenze    , pb) » È À roc  2gipe1 TO olrws À oltws  uAXdoy dÈ 9 ni.   \    x ui Ò  ù uu guy d!  18. ov. ps.90Y Ù    Nic. II, I 1  4 Eth. NIC DIL INA    20905 è% vito sMie00a1,  2.Eth. Nic. 111, 5: 14  5 Eh, Nic. Il 5:17:          1% talea, LA:          394 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    Ma quando l'abito non è ancora formato, l’appa-  renza del fine, a cui conformare le azioni, non dipende  sicuramente da un abito. Da che dipenderà adunque,  poichè la ouvtesia 705 784016, s' egli deve operare, ci dovrà  pur essere? Dalla natura? Ma in tal caso le azioni che  ne derivano non saranno propriamente dell’uomo. Da  uno che mostri all'uomo un fine, da un educatore, da  un #0 insomma? Ma in tal caso le azioni che l’uomo  fa, sono più propriamente di questo.    x    XI.    Tutte queste difficoltà e contraddizioni intrinseche  non si possono togliere, a mio credere, che ad una con-  dizione.   Non si può negare la verità sperimentale del deter-  minismo, ma non si può negare neppure la libertà. Certo,  non si opera senza motivi; la tesi della completa indif-  ferenza della volontà non è sostenibile. Alla libertà per  esistere, non è necessaria l'assoluta vacuità, l’indipen-  denza assoluta da ogni elemento esterno: le basta un'at-  tività che possa trasformare l'esterno in interno, ciò che  non è nostro, in ciò che è nostro. La natura esteriore  e la natura interiore, l’ambiente sociale, l’ambiente della  famiglia, l'educazione in generale forniscono motivi al-  l’operare. Ma questi motivi non vengono subìti pas-  sivamente da noi; la causalità in questo caso non è  causalità esterna e meccanica. Nel mondo meccanico  l’effetto è in perfetta corrispondenza colla quantità della  causa; la quantità di moto nel corpo urtato è esattamente  determinata da quella del corpo urtante. Questa rigida          è)  NELL'ETICA D' ARISTOTELE 395    causalità Ì  e n a  fluenza delle cause IR SAR SA ente all’ in-  i ri o interiori, di qualunque   SFMECSESIaUOS gina egli possiede una forza e un’ernegia  sua propria, colla quale reagisce contro gli stimoli a  vuti, nè mai s'avvera il caso che li subisca passivamente,  quand'anche sembri subirli passivamente. Già questa  reazione alle cause esteriori e interiori si manifesta anche  prima che quella forza ed energia speciale sia guidata  dalla ragione: quand'è guidata dalla ragione, la reazione  che prima era cieca e dipendeva solamente dall’ orga-  nismo, si fa più sicura e con uno scopo determinato.   Il fine ce lo indica la natura, è vero; è insito nella  stessa disposizione organica; tutti per natura tendiamo  alla felicità: però dal momento che ce lo proponiamo  noi, questo fine, anche se indicato dalla natura, esso  assume un altro valore, esso diviene in qualche modo  una nostra creazione.   Noi ci proponiamo il fine in maniera corrispondente  a quello che siamo; il fine ci apparisce così o così a  seconda dell'indole nostra originaria 0 acquisita. Vero  anche questo. Ma l'indole originaria, quella che si dice  temperamento, non rimane immutata, e può essere,  sebbene non distrutta mai interamente, trasformata €  modificata in mille maniere da noi. E quanto all’ indole  Do ita, quanto. a quello che posslim9 clEmee fi,  rattere, siccome consiste nel subordinare 1. singoli atti  dal volere ad un’ unica massima, ad un unico principio  d'azione; evidentemente non può ottenersi se non per  della nostra energia individuale illuminata dalla  e, La inclinazione naturale potrà in sul principio  i certa maniera; chi cl educa potrà  erta maniera; ma nè l'inclinazione    mezzo  ragion  farci operare In Una    i ‘e in una €  farci operare ! i  naturale, nè l'educazione potrà ma    i arrivare al punto di       3}  È  "A  2       perni  Pa:    396 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    farci contrarre un abito in cui tutti i nostri atti sieno  organati mirabilmente e, per così dire, gerarchicamente  disposti. Il carattere è più che qualunque altra cosa  l’opera-della persona. Insomma l’essere il fine dato da  natura, il farlo noi consistere in questo o in quello a  seconda della nostra disposizione naturale o acquisita,  se diminuisce la libertà; non la distrugge. Il fine è dato  dalla natura; ma in una forma indeterminata, e spetta  a noi determinarlo. Lo determiniamo conformemente  alla disposizione naturale o acquisita: ma la disposizione  naturale si può modificare, e la disposizione acquisita è  in gran parte opera nostra, « L'uomo porta con se un  organismo, e con esso alcune disposizioni naturali, che  sono il sostrato della sua attività: da questi vincoli ei  non si può mai liberare del tutto. In che consiste adun-  que la sua libertà? In ciò, che tutto quello che gli è dato  esternamente, ei per mezzo della sua attività se lo in-  trinsechi e lo faccia suo. Così l'elemento naturale della  sua esistenza rimarrà; ma poichè è stato trasformato in  prodotto spirituale, non nuocerà più all'indipendenza  dell'attività umana, e l’uomo si può a buon diritto  chiamare libero »!.   Queste parole del Fiorentino tendono evidentemente  a conciliare la verità sperimentale del determinismo col  fatto della libertà, e noi le accettiamo in tutta la loro  estensione, e le mettiamo qui come il risultato e quasi  diremo il succo’ delle considerazioni nostre alla teoria  di Aristotele.   Intorno alla quale dobbiamo dire un’altra cosa  ancora.  L'abito, afferma. Aristotele, ci appartiene perchè è  il risultato di azioni che si poteano fare e non fare, e    1 Fiorentino- Lezioni di filosofia pag. 309.                che erano quindi in nostro potere: ma una volta con-  tratto, non è più possibile mutarlo; le nostre azioni  sono per sempre determinate da esso.  Questa dottrina è troppo assoluta e trova una.smen-  tita nell'esperienza. Aristotele ha paragonato l'abito alla  malattia contratta per voler nostro ®. Questo paragone  dovea condurlo a ricercare se per caso non avvenga del-  l'abito, quello che avviene della malattia. Come l’am-  malato, sebbene non possa esser sano quando il voglia,  può tuttavia far molte cose con cui vincere la forza del  male; così egualmente l'abito anche dopo il principio,  uetà civ doy Av, non è affatto sottratto al potere dell’umana  volontà; si può a forza di energia e di buon volere  riuscire. a mutarlo. Certo, non è facile; e lo spirito,  crediamo noi, trova ben maggiori difficoltà a modificare  un abito che è opera sua, che.,non una disposizione  naturale, che non è opera sua: ma impossibilità assoluta  non c'è. L'attività dello spirito è così varia e multiforme,  si esercita in tante direzioni, ha tante vie aperte dinanzi  a se, che una via nuova non manca mal diyersa da quella  comunemente battuta. Il passato sl depa all! avvenire, sa  dubbio, ed esercita su di esso un'efficacia SRRSRE  l'abito sottrae a poco a poco le azioni al SODIO ella  volontà e le converte in connessione SUTOIz Uso, 1 CRETA  vecchi diventano sempre più forti © IMPperiosl: e Psa é  : i sorgere nello spirito? La  un motivo muovo non potrà SOrgert dr  ‘tà di motivi nuovi, per quanto limitata, per iquanto  GEpec è nando l’uomo è Innanzi cogli anni, in  SE MS herà però mai del tutto.  e condizioni non mane RSI A ATIO  do l'immutabilità degli abiti, Aristote  AINSI ) tein quel determinismo psico-  adeva per un’altra par    cert  ric    i Eh. Nic. III, 5:14       395 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    logico, ch'era una contraddizione flagrante alla libertà  che così vigorosamente sosteneva, come condizione del  valor morale e della bontà delle azioni.    XII.    La dottrina della volontà, sebbene tanto importante  per la sua novità, sebbene tanto ricca di fatti e di os-  servazioni d’ogni maniera, è però anche la più oscura,  la più incerta forse delle dottrine psicologiche d’A ristotele.   Intanto da che cosa è veramente costituita la volontà?  Essa è, ci dice Aristotele, un’attività risultante di ragione  e d’appetito; ma in quale di queste due parti l'essenza  sua propria sia riposta, da quale propriamente dipenda  la sua libera determinazione, nè egli dice, nè a noi è  facile indovinare. Da una parte, osserva lo Zeller !, si  ascrive alla ragione il potere di dominare l'appetito, si  designa la ragione come facoltà motrice, come quella da  cui procedono le risoluzioni della volontà *, si considera  come una corruzione della ragione l’immoralità 3; dal-  l*altra si nega che la ragione possa di per se produrre    1 Geschichte der Philosophie der Griechen - Zvveiter Theil,  zvveite abtheilung- Zveite Auflage- Tubingen 1862 pag. 460-461.   2 Eth, Nic. III, 3. 17-18. madetat fap înzotos Untòv ms  mpULEI, Grav cis abtdy ava; ThI doyny, vai abrod eis dò Ayod-  pevoy (la ragione)" TodTo Xp TO Tpozipobpevov.   5 Eth. Nic. VII, 7. 2. è pv 7% drspfoXtk duzov Tav Adt0y  À za UrepBoXhy nel dix mooztoznw, di abtd val undiv di Etepoy    drmobatvoy, dn6)acros. Cfr. anche Eth. Nic. VII, 9. 1.    vi                               NELL’ ETICA D'ARISTOTELE    un movimento *, e si afferma che sia infallibile 2: di  maniera che non dipendendo il fallire dalla ragione. sa-  rebbe lecito concludere che la volontà a cui appartiene  il retto e non retto ‘operare, non sia in essa riposta.  Aristotele si lascia trascinare qua e là da considerazioni  _ opposte, nè gli riesce in mezzo ad esse di prendere una  posizione sicura. L'alto concetto ch’egli ha della ragione,  di questa facoltà divina che per poco non innalza l’uomo  alla condizione di un Dio, che deriva da Dio stesso, non  gli permette di mescolarla alla vita corporea e di attri-  buirle l'errore e l’immoralità; ma d'altra parte ad essa  sola appartiene il dominio nell'anima, e tutto quanto in  questa avviene, o direttamente o indirettamente si può  far derivare da essa. Dalla ragione dipende solo il retto  operare, ma gli errori e i traviamenti, pur dipendendo  direttamente dalle facoltà inferiori e corporee, provano,  non foss’altro, che la ragione non ha vegliato abbastanza,  e non ha saputo, come doveva, esercitare il suo dominio.  Però il dualismo fra quella facoltà superiore e le inferiori,  fra la facoltà razionale e le corporee esiste sempre; €  l'essenza umana è come divisa in due parti SCPATAtO, fra  n è possibile discernere il legame vitale 3. L unità  il sinolo dell'individuo umano, l’Io uno  i sa dire in che veramente consista    cui no  della persona,  e persistente non s  secondo Aristotele.   Quantunque,    Sa : Ò , Sa  1 Eth. Nic. VI, 2. 5 014V012 i ROMANI  D yo tyaparoDi > NATI: L0Y0Y  2 Eth. Nic. 1, 13. 15 799 Y20 èpupatoDs XL KKPATIVS TOY AOYOY  «Nic. 1, 13  , a ve  î OY €f0Y ET  von Udo Td A0Y0% SXOY ) ci è  ida TE VOyALIS sr. Cie. Eth. Nic: IX, 8. 8 7%5 Yàp vods clpetra:  BeNmioTA miu, Cit È  Ò    in un certo luogo parlando della    beh ob)îv ast    RE FAST  LNOGEY, delos yio val èri Tx    r. Cir.   Di Qi   ad Borat) tato, 6 d eraetzhe 7   i y pe Lal   10.4 Nods | 3y oÙV T%   i i Pi - Pi  3 Zeller, op. cit. P98 461-462    dpf6g EGTiV.       400 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ    rpozioznis, dopo aver detto che risulta di ragione e di  appetito e averla definita una ragione appetitiva o un  appetito razionale, egli affermi recisamente che se ne  ha così un principio, che costituisce in proprio l’uomo !.  Il che farebbe supporre quasi che la volontà è un pro-  ‘dotto della ragione e dell'appetito per una specie di  combinazione chimica, donde nasce un essere novello  differente da’ suoi elementi. Lo Stuart Mill, conforme-  mente alla tendenza della Psicologia dell’ associazione,  parla di questa specie di chimica psicologica, per la  quale di due idee e di due facoltà che si combinano,  si produce una terza idea e una terza facoltà sostan-  zialmente differenti dagli elementi che le compongono,  come l'acido solforico è differente dallo zolfo e dall'os-  sigeno dalla cui combinazione è formato %. Si direbbe  che non in diverso modo Aristotele tratti la volontà in  rispetto a’ suoi elementi integranti, e veda in essa qualche  cosa di uno e inscindibile, quantunque composto, in cui  si possa con frutto ricercare quell’ ultima realitas, che  è la persona umana. Sebbene però non bisogna dimen-  ticare che altrove, e ripetutamente, è detto da Aristotele  essere la ragione quella che in proprio costituisce l’uomo  e ne forma l'essenza ?.   Abbiamo visto contro quali difficoltà si dibatta, la  dottrina della libertà in Aristotele, e come il determinismo  interno o psicologico sia in ultimo il sistema, a cui vanno  a metter capo le premesse stesse del filosofo.   Ciò stesso risulta dall'esame dei due elementi di cui    { Eth. Nic. VI, 2. 5. dtd © opeztizds vods  mpoalozsts di dock  Snonaizk, zati soraben dog Wiparos.  -.2 Stuart Mill- Logigue ece. lib. VI, c. 4.   5 Cfr. fra gli altri luoghi Eth. Nic. X, 7.9 Sobere D dv ual siva    Enyatog tosto (0 vods ); ed Eth. Nic. I, 7. 12-14,       ‘SL ricette cità dini    rorTITTETeee    rece I    NELL'ETICA D' ARISTOTELE 401    verfreniezaraniza;secasieneeee cessare resenprnareotontereonesono: so erasenei    e composta la volontà. Se la volontà è in se, essenzial-  mente, una ragione, non può essere libera, perchè la  ragione obbedisce a leggi necessarie, ed è per di più, il vods  TonTILOS almeno, connessa strettamente al primo motore,  sia un'irradiazione sostanziale di questo, o sia semplice-    «mente la forma più elevata dell'attrazione che questo    esercita. Se è in sè, essenzialmente, un appetito, e quindi  strettamente legata al corpo, non può esser libera neppure,  perchè il corpo è ciò che di più determinato ci possa  essere nelle sue operazioni. Se poi è in sè, essenzialmente,  un composto dei due elementi e i due formano uno, non  si capisce perchè il composto dovrà esser libero, mentre i  componenti sono necessitati.   Aggiungasi che Aristotele ha sostenuto che il cielo  e la terra sono sospesi a un principio unico, il bene,  che per la sua beltà eternamente desiderabile, produce,  senza muoversi, il movimento e col movimento l'ordine  nell'universo; che dai cieli e dagli astri i quali ricevono  direttamente l’azione divina, deriva nei corpi una specie  di necessità, % &md s@v dortp0y ciuapuévn, da cui non è  esente il corpo dell’uomo. C'è adunque nell’ uomo un  assieme di necessità; il suo appeuto lo spinge necessa-  riamente al bene, la sua ragione € necessariamente il-    luminata dui raggi del vero; il suo corpo è imprigionato    nel fato corporeo. Nulla più resta alla potenza dell'in-   determinazione contingente. x   Ma è questa mescolanza medesima di necessità   ‘a il Fonsegrive, che permette ad Aristotele  diverse, OSServa | grive, erm   i contingenza delle azioni umane. € Questa    ) re la  ammettere c x ; > I ° .  d'e olanza costituisce il nostro essere e crea in noi  li Ka x ° o  Tia posizioni. Queste opposizioni sono In noi, vengono  elle O x    "ci. dipendono da noi; esse costituiscono il 7ò îo' ua.  CZ TO fra l'intelligenza e la volontà, fra  po a su eriori e gli appetiti inferiori, produce in  j desideri P 7    G. ZUCCANTE       402 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ ECC.    noi una contingenza, una indeterminazione in cui gli  uni e gli altri sono a volta a volta vincitori e vinti, E  questa contraddizione costituisce così bene la nostra  essenza, che distruggere la contingenza che ne risulta  sarebbe distruggere noi stessi »!.   E sta bene; ma di una libertà e d'una indetermi-  nazione di tal fatta, come osserva il Fonsegrive stesso,  non è il caso certo d’inorgoglire; più che una potenza  è una debolezza, più che una felicità, un’infelicità; più  che autonomia e dominio di se, una deplorabile servitù  interiore.    1 Fonsegrive- Essai sur le libre arbitre pag. 36.    ME im 4 nn    nese    pi ETTI tt       INDICE    ”    Prefazione.   I. Del Metodo di filosofare di Socrate   II Del Determinismo di fohn Stuart Mill .   III Fatti e Idee .   IV. Il problema della conoscenza nella Filosofia moderna  e segnatamente nell” Empirismo contemporaneo .   V. La dottrina della felicità nell' Etica Nicomachea di  Aristotele .   VI. La dottrina della virtù nell’ Etica Nicomachea di Ari-  stotele   à nell’ Etica Nicomachea di    VII. La dottrina della  volont    Aristotele +.          iaia    ERRATA-CORRIGE    SISI NIAVIIA    Pag. 7 linea 29 A un certo punto ammirando, leggi A un certo  punto costoro ammirando 4  VS ALII SPESE discernere, leggi e discernere  » 36. » io cheetra la materia e la forma, leggi che è tra  la materia e la forma    fe loro cose, leggi le cose  0! La loro abilità ecc., leggi    e, che gran cosa invero! la loro abilità eco.  gi Soltanto, questa    =  n 9  (ee)  s  +    »   S   IC)  ®»  (E)  w    e che, gran cosa inver                          Soltanto questa dottrina, leg.    Senago 23  dottrina  »_I4I po 19 angusta, leggi augusta  n 21 , 8 se la intenda bene, leggi se la s'intenda bene i,    affetto, leggi effetto  ne, leggi nè  sta sul medio, leggi sta nel medio    >  w  (02)    = i]  DE  ou vi  =  n    n 272 Sia SI.  n 270 » 3 nella distinzione della virtù intellettuale e morale,  lla distinzione della virtù in intellet-    leggi ne  tuale e morale    Aristotane, ‘egg! Aristofane    n CIRIE  v 43 nota 3 Grocoùv, leggi 0RWwE    CITI  1 Toast; ©    oliv    leogi dele Ti  LG; egg! Tipacto AS    ezIAn ®   ago ata praktishen, leggi praltischen   ; x N x   TEO PARESIS StopPoor0y dizzioy, leggi droplwTwoy dinzioy    te gli accenti e gli %    ci riguardanti specialmen  ù correggere fa-    Altri errori ortografi  e il lettore intelligente pour    spiriti delle citazioni grech    cilmente da se.    .