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Monday, March 18, 2024

GRICE ITALICO A/Z L

 

Grice e Labeone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Marco Antistio Labeone. Ha larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età augustea, M. Antistio Labeone, ma si ignora se segue un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma Labeone rifiuta il consolato offertogli da Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno anziana. Labeone appartenne al partito repubblicano. Si dice che Labeone abbia scritto 400 libri di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure pontificio" -- in almeno 15 libri, diversi "Commentarii giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno 15 libri, "Librì posteriores", in almeno 40 libri. Labeone s'interessò anche di studi logico-grammaticali. 

 

 

Grice e Labriola – implicature – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere, e da Francesca Ponari. Il padre, oriundo di Brienza, era nipote diretto di Pagano.  Si iscrisse alla facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si era trasferita. Qui studia con Vera e Spaventa, il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un'opera in cui osteggia il neokantismo contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Conseguì il diploma di abilitazione e insegnò nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del materialismo.  Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”,  premiata dalla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia della storia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'Università; scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di G. B. Vico” e collabora con il giornale svizzero "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Rocco De Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale Labriola aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e, nel febbraio 1872, in quella de L'Unità Nazionale, diretta da Ruggiero Bonghi, al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue dieci Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata ad Arturo Graf e Morale e religione.  Trasferitosi a Roma, ove muore di difterite il figlio Michelangelo, supera  il concorso alla cattedra di filosofia e pedagogia all'Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia e l'anno dopo è direttore del Museo di istruzione e di educazione: sono anni in cui Labriola mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sugli ordinamenti scolastici dei paesi europei: nel 1880 pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri Stati e nel 1881 l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente Labriola abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni radicali: oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello Stato nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al Parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia della storia all'Roma e inizia un corso di storia del socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la stipula del Concordato con il Vaticano, Labriola tiene all'Università la conferenza Della Chiesa e dello Stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il  quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere «teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche» e nella conferenza Della scuola popolare, auspica l'abolizione dell'insegnamento religioso.  Sul giornale Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni; tiene agli operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica e dichiara di desiderare un «governo del popolo mediante il popolo stesso» e la formazione di un grande partito popolare. Scrive che «I parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo del proletario» e il 20 giugno tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso Del socialismo commemorando la Comune di Parigi.  Nell'ottobre Labriola saluta il congresso della socialdemocrazia tedesca a Halle scrivendo che «Il proletariato militante procederà sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze».  Nel 1890 entra in rapporto epistolare con Engels, che conoscerà a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprovera a Filippo Turati, il più prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degli avversari politici. Vuole che il Partito socialista, che deve nascere ufficialmente con il Congresso di Genova del 14 agosto 1892, sia un partito di operai e non di intellettuali positivisti borghesi. Vede nei Fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in Italia.  Fa lezione sul Manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un nuovo corso «su la genesi del socialismo moderno» ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio per l'ignoranza su tanti «fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia», come ribadisce a Victor Adler che «il marxismo non piglia piede in Italia».  Su sollecitazione del Sorel, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, il primo dei suoi saggi sulla concezione materialistica della storia, che esce in francese sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels in luglio, ricevendone le lodi. Anche il giovane Croceche ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni successivi Labriola scrive altri due saggi, Del materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e di filosofia.  È sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e politico di Labriola in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore dell'idealismo hegeliano (influenzato da Bertrando Spaventa, del quale fu allievo a Napoli); successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del realismo herbartiano, ed infine, il momento della maturità, in cui aderisce pienamente al marxismo.  L'approccio di Labriola al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Karl Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia autosufficiente per capire la struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. Era necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo voleva considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo doveva essere inteso come una teoria ‘critica', nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale "prassi" umana. La sua descrizione del marxismo come "filosofia della prassi" verrà ripresa nei Quaderni dal carcere di Gramsci.  In pedagogia Labriola avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione morale (e complessiva) delle classi subalterne.  Nella monografia Dell'insegnamento della storia, del 1876, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale, Labriola aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità: il metodo pedagogico doveva essere quello della ricerca critica e di dibattito e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi studi di Labriola erano stati rivolti a Socrate e al metodo socratico). Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per Labriola era necessaria un'attenzione maggiore ai prerequisiti logici piuttosto che alla struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli chiama un'epigenesi analitica.  Celebre fu una sua conferenza tenuta nell'Aula Magna dell'Roma,  discorso sollecitato dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne curò la pubblicazione in opuscolo.  Era necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per Labriola proprio l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione. Per cui « le idee non cascano dal cielo ». Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti.  Il nucleo essenziale della pedagogia della « prassi » sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.  Trockij conobbe «con entusiasmo» l'opera di Labriola nel 1898, quand'era detenuto nel carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che «come pochi scrittori latini, Labriola possedeva la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'era impacciato, certo nel campo della filosofia della storia. Sotto quel dilettantismo brillante c'era vera profondità. Labriola liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i nostri destini». Trockij aggiunge che dopo 30 anni continuava a rimanergli in mente «il ritornello Le idee non cascano dal cielo». Opere Una risposta alla prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli, Stamperia della Regia Università,  Della libertà morale, Napoli, Tipografia Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Tipografia Ferrante, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta,  I problemi della filosofia della storia. Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato per la commemorazione di G. Bruno in Pisa. Lettera, Roma, Aldina,Del socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera ad Ettore Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La cooperativa,  Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di socialismo e di filosofia. Lettere a G. Sorel, Roma, Loescher, B. Croce, Bari, Laterza,  Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la libertà della scienza, Napoli, Tipi Veraldi, A proposito della crisi del marxismo, in "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce, Bari, Laterza, Socrate, Benedetto Croce, Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia, Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Luigi Dal Pane, I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, Dina Bertoni Jovine, Roma, Editori Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Valentino Gerratana e Augusto Guerra, Roma, Editori Riuniti, introduzione e cura di Antonio A. Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Carlo Poni, Firenze, Le Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni di Demiro Marchi, Firenze, La nuova Italia,Scritti politici. Valentino Gerratana, Bari, Laterza, Opere, Franco Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Benedetto Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio, incompiuto, della concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici, Nicola Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti,  Lettere inedite. Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Stefano Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Giordano Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni della Normale,.  Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,. Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di Antonio Labriola, istituita con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, A.Savorelli e A. Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni G. Cacciatore e M. Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Stefano Miccolis e Alessandro Savorelli, Bibliopolis,. Copia archiviata, su archividifamiglia-sapienza.beniculturali. L. Trotzkij, La mia vita,Carlo Fiorilli, Antonio Labriola. Ricordi di giovinezza, in «Nuova Antologia», Giuseppe Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di Antonio Labriola, Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Franco Livorsi, Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Benedetto Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini, "Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo", in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale  M. Guidi e L. Michelini, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A. Labriola, "Il Cronista", Antonio Labriola e la sua Università. Mostra documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007. Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis, Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica, Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,,  Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Antonio Labriola, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Labriola, su Liber Liber.  Opere di Antonio Labriola, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola, su Progetto Gutenberg.  L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma.  La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica  Posizione di Socrate nella storia della religione. IElementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche.  L’ individuo e lo stato. Vili.Delle virtù. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del sapere.  Del bone. Della felicità. Del sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza  di Socrate. Carattere di  Socrate. Osservazioni su le  fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella storia della  religione. Elementi  della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del forma-  lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del  metodo socratico. Imprecisione formale del  metodo socratico.  Della  differenza fra rappresentazione e concetto, p^^-  e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i generale, e del   concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere e sapere (yvttjtì-t.  aauxóv). Fondamento  della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore? L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e  lo Stato. Delle viriti. Generalità. Il concetto  delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e  del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità e del  sapere. Del bene. Della  felicità. Del sapere. Del divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori ('). Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Lo Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Lo Zeller ha molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare, op. cit., voi. II, p. 73; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica.   più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di • (i) Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc., p. 257 e seg.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, 1833. Hegel è stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, op. cit., voi. II, p. 105 e seg., e cfr. Biese: Die Philosophie des Aristoicles, voi. I, p. 28 e seg.    colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira- zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui- stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza, per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis.  Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich.   che correa fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg.   SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg.   sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp. 62-82   incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii,  mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica. Anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann: Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks,  LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo in Italia.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Lacida – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrate – Roma – filosofia antica – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrito – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lafeonte – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).

 

Grice e Lagalla – filosofia italiana –la teoria geocentrica – la terra al centro del universe -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo italiano. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di Roberto, alto funzionario della burocrazia vicereale, e Vittoria Rosa. Studia filosofia. Ancora bambino, perdette i genitori e fu affidato con i fratelli alla tutela di uno zio paterno, Girolamo Lagalla, che lo avviò agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrisse ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri G. Stillabota, F.A. Vivoli e B. Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a G. Provenzale e G. Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare, nel 1589, i gradi accademici "nulla pecuniarum solutione". Nello stesso anno, grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si diresse verso le coste laziali, per giungere poi a Roma.  A Roma avrebbe conseguito una nuova laurea, in seguito alla quale entrò al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza romana. Cura per Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis libri septem”, precoce manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale Lagalla si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia.  Altre opera: “La circuncisione di Cristo”. Al problema dell'anima Lagalla. dedicò corsi della lettura ordinaria di filosofia, che tenne alla Sapienza. Queste lezioni furono raccolte in un manoscritto dal titolo “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato il penultimo volume dato alle stampe dal L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis sententia libri tres” (Roma). Lagalla, pur riaffermando le posizioni della tradizione tomistica sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma piuttosto come “forma informante”. Morto Santori,  si fosse avvicina a Pietro Aldobrandini, entrando al suo servizio. Conobbe Cesi, al quale fu legato da una cordiale amicizia. Se questa non diede luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa richiesta da parte di Lagalla., fu solo a causa della sua marcata professione aristotelica[. Cesi lo presentò comunque a Galilei quando quest'ultimo si recò a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del Collegio romano, nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni incontri, durante i quali Lagalla., incuriosito dall' "occhialino" galileiano, lo sperimentò e fu intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle "pietre lucifere di Bologna". Da ciò che vide, trasse spunto per due scritti, pubblicati in un unico volume, il “De phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. Gallileo Gallileo nunc iterum suscitatis physica disputatio… nec non de luce et lumine altera disputatio” (Venezia).  Atteso con impazienza da Galilei, che fu costantemente informato da Cesi dei progressi nella composizione, il libro deluse l'ambiente linceo.  Nel primo dei due scritti, pur difendendo la verità ottica di ciò che mostrava il telescopio,  cerca di spiegare l'irregolare (la scabrosità della superficie lunare) come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di un principio di regolarità (invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni inclusi in essi), cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense di "etere", più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo scritto Lagala. racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, G. De Misiani e G. Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle "pietre lucifere" e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente rilasciata; con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione della luce solare sulla Terra da parte della Luna.  A proposito del primo dei due scritti, Galilei meditò di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso Lagalla, di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio. Tale risposta non arrivò, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrisse il Tractatus “de metheoro quod die nona novembris anni presentisin Urbe apparuit sopra collem Pincium” e poiché quest'opera pareva, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, fu attaccato di scarso aristotelismo. Si convinse così a chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fece niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi.  Aumenta intanto la sua insofferenza verso gli ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento di Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.  Continua a praticare la filosofia, l'astronomia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere Lagalla sulla Luna. Altre saggi:  “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 323; cfr. Kristeller, II,444 cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze, Biblioteca nazionale, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F.  Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina); G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno,  Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G. Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna, l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei.Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Lamisco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. He was a Pythagorean and friend of Archita di Taranto. When Plato ran into trouble in Siracusa, Archita sent Lamisco to rescue him – which took him ‘two weeks and a half.’

 

Grice e Lamanna – il risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano.  Grice: “I like Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Figlio di Angelo Raffaele Lamanna, calzolaio, e da Maria Bruna Pizzilli, filandaia. Fece i primi studi in seminario e poi nel Liceo classico della sua città. Si trasferì a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna a Messina e Firenze. Pubblicò un commento alla Dottrina. Autore di un fortunato manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito, per Lamanna, che la religiosità sia un'esigenza naturale dello spirito umano, egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la necessità dell'esistenza di Dio.  Analoga antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo Lamanna, realmente politico, realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La filosofia del Novecento, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova); P. Piovani (Torino); Pietro Piovani, Tra etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», G. Calò, Il pensiero, Napoli, G. Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from Vico onwards, Farlingieri, and notably Gentile to end with MUSSOLINI. The idea is presented by Lamanna as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale Borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez faire. It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service to liberale. With the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had Lamanna continued from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la rivoluzione fascista of 1923) with a Kantian approach. Since Lamanna has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. Lamanna quotes from Cicero to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on th azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the ANTI-PARTY movement --. Lamanna provides the editorial. During the ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to worthip the God of the Heroes.It is an ‘etica guerriera’ and it targets the giuventu – the youth or male youth --. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting because this was conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds were in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only provided negative freedom, and where the initial conditions were unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so the Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from PUBLIC service (even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo). The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself. Gentile did not really help, although he was the official voice of fascist philosophy --. The student of philosophy then was taught the lessons of history (philosophy was IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no idea of dissent. Lamanna however emphasizes that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lami – la ragione degl’antichi – la tradizione della polizia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Saggi: "La ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/ Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola. E’ davvero difficile per me, ricordare Gian Franco Lami. In questi giorni, ho dovuto farlo più volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche lui.  Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Augusto Del Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Eric Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Giuliano Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN, Israele e rivelazione, Aracne, ma anche Lami, Introduzione a E. Voegelin, Giuffré).  Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Del Noce, secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali, dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER e EVOLA. Al primo, dedicò un volume significativo (TILGHER, un pensatore liberale, Seam), nel quale evidenziò il tema della pluralità delle morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo Lami, lo avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individuava effettive vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo, dette alle stampe la prima monografia filosofica (Introduzione a J. Evola. Un passo per la vita e un passo per il pensiero, Volpe). Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, ha curato diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del pensatore romano e a coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione.  E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizzò sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà greco-romana tanto aveva insistito. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tentò di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).  Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente, di prossima pubblicazione per i tipi de Il Cerchio). L’università di Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione varie e tradizione una.  With the birth of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi,  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lampria – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have taught him music rather than philosophy.

 

Grice e Landi – semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina  con quella oxoniense. Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e  “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani, Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th.  (Bompiani, Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’ y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo, Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio  su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo, l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library, Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landino – La sforziade degl’italiani -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love the way a philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners: Landino’s “De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque da una famiglia originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in materie letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro Marsuppini: Landino, sostenuto dai Medici, era stato avversato da non pochi personaggi in vista, come Alamanno Rinuccini e Donato Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e Ficino. In quel periodo ricoprì anche incarichi pubblici, facendo parte della segreteria di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a Roma. La sua prima attività fu poetica, con la Xandra, una raccolta di componimenti dedicata inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse tre dialoghi: il De anima, le Disputationes Camaldulenses  e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei secoli di Landino fu però legata alla sua attività di commentatore dei classici. Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di Dante, su Orazio e su Virgilio. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di Plinio e la Sforziade di Giovanni Simonetta Il volgarizzamento pliniano fu un vero e proprio evento: per la prima volta anche chi non conosceva il latino poteva leggere la più importante e vasta enciclopedia del mondo antico (tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci).  Per i meriti acquisiti, la Signoria fiorentina gli assegnò una torre nel Casentino e una pensione.  Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Saggi: “Orazione alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses; “De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”; “Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina  al serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa (Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino” (Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C. Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino, In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada, Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia, cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina, Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,  di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN, Ratisbona. Liba secundus uaut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars enim natnratn quoad ua  Itt feropq imitatur . Sed nefeio quo pado cum de eqmaloquoditi uita K iriorio  iMispanaturanucttigadum nobis propofuannus:iam fecundo in naturam rcla«  bor.lta^ bacomifla ad illud tademrueamusipcimuniq^ omnibus philofopbis omnibmi cbtifiianisaudoribusnonin eoquodabadioneproueninfcdin fo»  h ratione coUocemus.Non enim quid fadum iinfed qua mente fadum animad  uettunt.Quapropter quatuor ueluti principia ponunt.Cum enim fe nobis ilu  quid offert:mouctuc ea te fic oblata uis quzdam animorum nofttorumsut illam  cognofcat:tandem<p decernit aliud bonum efTc/aliud contra maium:Quapto ptrrcumiam feferes obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt  adtamr tertio loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id  tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus illis  ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a uoluntate qua in  ordine tertiam pofuimust. Non enim eo V erres pcccauit quod tabulz ftgnac^ ac  reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe ofFerretiNon rurfus quia iudica  ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd quia rapere uoluit cu uf«p  adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft non rapuerit :tamen quia rapere uo  luerit fitelus commifllim fitxNon enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo  lueiitne interficere in culpa eft:Defueruntuires.P.CIodio quominus Annium  Milonem oeddere pofTetxQ^ua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit  ea uis:quzmentis propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non  aduscorpord motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur^ iure homi<  dda Clodius quia Milonem uoluit ocddere:Fac autem ocddifte cum minime ta  men uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:  fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii uel ex infdiia rem quampiam c6  mittunnii non modo culpa carent:uCTum etiam cdmiferationefzpiftime digni  putanmr.Q_^uis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi fabulofum  putetmon iolum illum crimine liberat:Sed fumma infupercomifetatione profe  quituRcum animaduertat hominem ex infdria dum feram uulnerarc putat : ca^  tifiimam fibi coniugem percuEiffeteuius morte in fummum moerorem acludu  paulo poftcafuruseifett Videsigiturauolutatisadu ueluti a fua origine uitium  in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem adionis prouenire ex  infirmitate primi agentis rem hanc planius exponendam cenfeo: Videamus ita^  in quo defidatuoluntas ante commifllim fadnus.Qui quidem defedusfibi a  natura non erinfemperenimadbzrct/femp^ pcccaret:ne^ rurfus eftcafu bc for  luna:eflet enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc  aedpe. Visdus rd quz agit ab eo agente perficittu quod fupra fe eft:Donec enim  id quod fecundo loco agit perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo  lute peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim  aut paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef»  Hic idem fi nunu dedinet a mom ceflabit: Ergo igitur ut ad rem redeam nupa  dicebam duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire nttRes quz fefe nobis oSu a : k [ t  Oerumniobonp   nttitt K uii gucdam ilfas oblatu fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A   Ut moueri poffifaliguidhabeat proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap&  di uis omnem appetitum mouebit. Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape  petitum qui a renfibus e(i mouere ualaiRatio autem proprie uoluntatem mouc  bitiRurfuscum latio uaria bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm&  proprius finistEtit uoluntatis quoq^ pprius nnis k primum quo moueatiu n5  bonum quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo  tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciuiB  teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum iudb  do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu 6tmorib9  uoluntas.Peiueriio igit" ordinis qui cft ad rationem & ad proprium finem gignit  peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad fubium fec fiis perceptionem  uoluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillisbonumiudicatat.Efirurrus cum ratio ipfa minime  decepta id bonum efle decemittquod uere bonum dici potcft.Hcx tamen tepo*  re aut hocmodobonumefie negatur. Voluntas tamen in id fertur nu llam ordi*  nis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis peruerfio uoluntaria eihpptc reaqi uitio non caretsLoquacior fortalTc fum q par cfi in natura mali. Addam ta  men ex iis argumentationibus quibus demonftracum efimalum nullam efienda  am eflesati^ ob eam tem per fe fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo  in bono feroper efle oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K  foima qua res priuatut in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce*  modi cil/ut fua natius facultate formam fufeipere ualeat:Hoc autem quis bona  negabit cum eodem in genere & ipfa fiue facultas fiue potentia Scadus qui inde  cll omnino confilhnt.Prxterea malum ta folum ratione malum didiT quia nev  cct. At non ncKct malo.ElTc enim bonum fi malo pemitirm afiFcrrct.Nocet igitur  bono.Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz  citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas: Verum cum uulum boa  no opponatur:quo pado utn^ idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim altc^/alte  tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Q^uicquid ens did poteft idem 8C boa  num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct enim ptia  uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi oppofito. Si  enim czeitatem dico hoc non eos comune quide minime eft ut uifum ubi^ tola  lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo fubicdo fcd in animaote.Q_ux quide om  nia eo teduntiut non pofliit iu fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn  bonum.Q^uod enim fummum malum fututum fit id fine alicuius boni cofora  tio elTc oportet. At nullum malum a bono omnino feparatu efle inuehies.C^ua  doquidem ut paulo ante ofiendimus fuas in bono radices malu egit:& in eo luu  ut Ita loquar fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis  fututum effe id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo  num clfc uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita  quod ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti^    IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba tettius   cipranificflctcauraiitidepcadcretttDafiautcaurambotiucfre dirimus. A 4 de  & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior eft illa quz per accidens  caula dicitur. At malum non efi caufa niri per accidens.Non igitur inuenimr (u  Inum malum.Hatc funt quae de plurimis longecp «ccllenrioribus quz Leo Ba  ptifia memoriter diluride ac copiofe in tantorum uirotum confriTu difputauit t  mcminilTe ualui.ln quibus cum abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me*  ridiemalccndi(ret:nos omnes ita adbottante Mariotto hofpite libetaMimo to»  Kzimusiillumf fecuti ad tefidenda corpora difi:ellimus. CHRISTOPHORI LANDINI FLORENTINI CAMALDVLENSL  VM DISPVTATiONVM AD ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM LIBER TERTIVS IN.P. VIRGILII MARONIS ALLEGORIAS. I Vm Satuiffem cum fermonem Illuftriilime Federice litteris  mandate/quem Leo BAPTISTA Albeitus no finefumma  oiumquia&cruntadmirarione:at(^ftuporede iis Hgmeris  habuiflct>inqbus.P.VirgiIius j>fundiflimam illam fcietiam  i occultatcqua fummu bois bonum diuinitus defcribit:& quU  ^ uia ad id ^ Hcircamur/mirificc exprimit: uercbar ne in nonui   1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii imbecillitate  tnericntcs:& Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus ociofas auditoru au«  icsdcledaret cdmctum rae credant:& nos pro arbitrio nodro quz dicimus ottu  uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz fint: fi quam eorum origo ue  tufia appareat fecum teputentifi q magna/q uaria dodrina plurimi in eo artifii<  rioflorucrint/confidcTcnncogoofccntprofedoidquod grauilTimorum philosophorum iudido comprobatum uidemus/nullum efie feriptorum genus : qui  autmagnitudine cloquentiz.aut diuinitate iapictiz poetis pates fuerintr Qua  quidem ce Arifiotelem uirum excellenti ingenio & dodrina pofi Platonem om  nino fingulari motum crediderimrut eofdem prifds temporibus theologos poe  tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poefis ipfa quid fit diligentius inturamur:fad  k erit nofle non cfle illam unam ex iis artibusrquas noflri maiores/quoniam reli  quis excellentiores funt/libctalesappcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o*  lucrunttin maximo funt femper pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz  uniuerfas illas compledcns certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam  pedibus ptogrcdienstuariifi^ luminibus ac floribus diftinda/quzcutp homines  qjotnt/quaecn^ norint: quzeu^ contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr  atip in alias quafdam fpedes traducattut cum aliud quippii multo inferiusimul  (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad ceflantium aures ob  kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic in ipfo diuinitaris fbn  tctecondita pTonunt:Q_uo quidem gratilTimo errore tandem animaduerfo au  ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem deucniat: fed mira eriam uolu  ptatccz figmento pctfundatuc.Q_uam quidem temdiuinam potius s humani f iii fn.P.Virg.M.AIItgo*   cfle cu! potius f Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte  yana tradi;f<d diuino furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua  infcnbitur/cum tria alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn/quc  poeticum elfe uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir.Rcfeit enim da  ibcxleftibusredibusucrfarcntur animi no(lri/& cius harmonix quxinxtema  dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos participes fuit  fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati/propterca^ ad ia  feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus ac monbodia  membris impeditos/uix eos concentus qui humano artiHno comparantur/auri  bus padperc poflerqui & Ii a cxledi harmonia longe abfintinihilominus quoni  om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius funt/nos in tacitam quadam cx<  Icftium recordationem inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw  am reuolandi inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima  go lit/pnofcamus.interim uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa  bis licet/bac noftra illam imitari cdtedimus.non uocum modulationibus ueluti  uulgares quidi & leuiores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete po(  fe no negauerimtquicq aut prxterea prxihre polTe no cocedorSed grauiori quo«  dam iudicio diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof<^ mentis fenfus elega  ti arminc exprimutsat^ diuino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq^  fupra humanas uirescofticutas gradi fpiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc  ille iam refedetitifeipfosadmirentVat^ obllupercant.Q_uapropter non folum  auribus adulant" ifed fuaui nedarc/& diuina ambrolia mentes demulcet . hi igic  diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo fandti ab Ennio ap   E elbnt":his folum diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla  entitmodo grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda  ti amnis morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref  fef gredicnti/quocui^ uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche  metior^ in iilisfpiritusinfurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant.Grxa  dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At .di»   ces fonafle none 8C reliqui feriptores fuo^ libto^ poetx id eft effedores iuie dici  poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii & dicedo limul & intelligedo  ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus feriptoribus comune etie  opottuitsucluti fuum ac pprium fibi uedicauerunt.Etpiedo quicuqi uates boc  noie digni fueriitiii fupra humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe  DIO elTe poflunt prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy  fes uir bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos lib^;  rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm diuinitate cofai  plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t cum odoginta iam natus an  nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis r^aret.Nam qux ea fint qux  Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex iis chriflianis qui paulo dudi  ores babet /latere puto. At hic ut ex libro fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael  tutPcftincc nuc {>fcqr quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si  Jonumis i qux dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu/^ Lib« tertiiur cotitinuab dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum : ut iion modo poe tx : uerum exte^  ri 9uo(^ rcriptorcsquicutK^remaliguam maiorem litteris mandarent:eam ua^  tiisHgmentis/uariisfigurarum integumentis obfcurarent : putabant enim fo  teii negodumdifibcilius ccdderent : ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflentdi>  gnitatem audoritatemc^ habitura : 8C 9U1 percepiffent : guoniam non fine la^  borc at(^ induftria id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem^ inde  uoluptatem percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu  ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant* non  inuidiamoti/fed ut aliguod inter follertem at<^ mentem diferimen appareret:  cum non idem ociofusguod ftudiofus affeguetetur: fic enim dC premia guz  dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem artibus quando   leKguis noD prohccrent / niterentur fummopere accendebantur. Difficultate  enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur : uindt^ onmia la bor impro  bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Q_uam guiiguam feribendi ratione grxi*  d guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:& atheniefem Mufeum/&  thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum Lini Mufei^ uiz  uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui diuinainecpau  ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam confcnptitaf  fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps doruerunt/nihil dicam:  Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut rerum naturam /aut ea gu»  ad uitam& mores pertinent obfcuriusquidem/fed maxima cum dignitate ex^  primunt : rem manifeffam reddunt • (Quapropter cui mirum uideatur:fi otn*  nisxtas:omnesnationes:Omnesguialigua ufguamdodrinacxcelluerint: poc  tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos adprzfens omittam/q multos q  maximos in philofophia locos Ariftotelestanms uir poetarum tcflimonio cot<»  roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua netpde poetis duosme^  de arte poetica tres libros accuratiffime confaipfiflet . (Quanti autem hoc bomi  num genus Piato fadat: ipfe in libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei»  jbementius mentis intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne  in libro de legibus idem Plato poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed  eam rdidenda/dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee  to laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet:probosuiros extol  ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet.Deni^ nonullis in lods aliquod poe  tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poefim autem ipfam qua  donoutdiuinamextollit.quasquidem res cum diligentius fecu reputauerint  qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam immutaturos exiffimo:  qui tamen fi nos carpere uoluerint:potius temeritatis arguantiquoniam ea qux  fupranoftrasuires funt/aggreffi fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc^  tit 2 nos uidifTe putent 2 Ego autem quauis non tantum mihi arrogem :ut hu^  ius poetx diuinitatem fatis pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii  turum putauirH noff ra indufiria/quantulacunc^ ea fit/dodiores uicos ad tnaioif  ra de Aeneide demonftrandaexdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli  indigo^oiK no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti^utbca^ca coi* Ia.P.Virg<M.AnegoJ   nim lutun erga Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS  gant i ii qua detint addant t Q_ua quide in re non modo emendari me xquo  animo fctam:r<d ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc  ter oro. dam »m maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U>  ^ter aliis oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il  lo reliquis profuturus iitu^o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi iiberalif  fime effundamtflC a nullo mortalium quz mihi delint/fumere dedigner:ad que  autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad te iUui^ime Fcde  tice:qui& Maronis pra;tercaKeTos&udiofiirimusremperfuetist& cum reliqui  iulue principes in eo omnem indufiriam ponannut quamaximos fibi tbc£uitos  comparent i auri^ at^ argenti aceruus magis magifi^ indies aefcatitu maxu  mam tuarum opum partem in mularum /& eorum qui mulas colunt omsmen  ta liberaliffime effun^s : ut iam quemadmodum Homericus ille Agamenon  coniidebat/fi decem aliifibiNefimesadeircntiforeut breui Troiam apturus  eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi non diam decem ut iliet  fcd duos przteta Fedcricos haberent t breui futurum /ut uniuetfa italia alterz  AthenzfutunfitrfeddeczterisaliolocoiNon enim in hunc fermonem hoc  tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd ut te fic dc litteratis hominibus  meritum/quamaiimispofTumuslaudibus profequamuri qui quauisfolus ex  omnibus qui in imperio confiituti funt/has parta tuearis : amen iu late patet  tua in oes litteratos liberalitas: Ut non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om  niuffl rerum feriptora prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe  quintus pontifex mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris  bus/ac maximis pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta  ti:8t fibi gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape   E atronu etiam tuc cum multorum principum /qui & nuc uiuunt/& olim regna«  ut/fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum retinebut.  Veru haec quoniam omni luce clariora fuDt;longiusprofequenda non cenfeot  Praefertim cu ipfa iam ra poftuletaut diuinum dodimmi uiti Baptiftz Termone  ego quantum memoria repetere poteto/Tuo ordine referam.Ille enim cum bci>  ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i min audiendi cupiditate inflam  mati ab eius ore Tummo cum filentiopenderemus/huiufccmodi principio dil/  putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem tibi Laurenti aperiri cupias r  qui uel ex omnibus re^onibusaquarumbabiatorcshifioriacognofant suci  cxotnnibuslzculissqukadnofhamur memoriam acriptorum beneficio per  uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif(^ exifiatsno poflfum meo oea  tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii.Ncmo modome  diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn(^ut ita loquar)  eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue figurae  rrnt/fiuc charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit glotL - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus fiiv*  mlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific/aepennL:  fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc BcoocctuMluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ II BD mu DCMI mat  vtik  lia  cnlK  lioilfl  olis a  tpai  KSoa 10 ik  10«» lOaB  oulip icbui>  nft» none   flbfr   qSiQ   011  ipiB’   Ud   Op0   oos   10«   «>)   fw   (p,     Liber tcrtiiu   bSlfimu cottfiaabt/incredibilefli auribus uoluptate pariat. Ex quatuor aut riie&  di generibus ita opus contcxitiut ne ocio copiame^ negocio breuitas defit. Vi  dcbisquxdaruaficdtatc at<j ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib  lufhau at^diftintSa deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un#  deoiaadoe elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptumDulIum  inuenias.Adde ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadiligentillimus and»  quitaristt oonmodonofliaturctuifed&grzcaru/&omm nationu inuelliga#  torcxriterittqptilconjmuaborumobretuatiinmusfueritiq elegata quxdain  Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit . Prxterco ius duile: omit  loiuspontiridu.nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue.Hzc igitur & cotum limilia fi a me tibi ex«  pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos diligeorius apetiiem contende  tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi negociu imponetes.Q_ uis enim illa pub  chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo artifido tccondita non ludicct: fed funt ta  nicri a multis iifdcm^ dodisuitis patefada.Q^uodaute petis id & multo di»  uiiuuscfttKmagisinobrcuroUtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus  fua ferie patcfadum.quod ne^ gtimaricus nc^ tbetot nouerit.fed fi ex intimis  philofophtx arcanis eruendum. Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae  ncaectrotibusidc^ dus hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua  qua (untnonulli/qui di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt  at^ in ipfis fuma abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo  uate fu^icent' :Q_uos tamen fi roges quid fibi in ea te Virgilius perficere uolue  ritiHometumimitandu fibi propofumeafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint  fuccubat penitus necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba  omitta^multoseofde^grauifTimosphilofophostqu i Homerii ocm zgypriopi  dodrina haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat.Q^ua in fen  tcnria nili Ariflotelcsfuiiret nunquahomeriaruambiguitatii libros fexfcripfif  fet.Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus co^o  minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/  uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui quidem  idem de hoc poeta aSirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz inudor tra Ho  mero tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo legerit: Sed  & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi maior copia daretur,  yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius Platonis tefiimonio nihil fit,  quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine quod de (umo bono fcripfit . omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in unum Homeri poema uciuti r  in proprium receptaculum confluxifle afHrmat. Quamobrem animaduettens  Mato dodrinam huius hominis ex zgyptiorum (acerdotum fontibus bauftam  fimillimamcum Platonicist quorum QudiofifTimus fuit/rauonem babere eam  uT^adeo admiratus dl:ut idem in fuo Aenea efficere uolucrit : quod ille antea  in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^ figmentis eum nobis  unw i^oiinai^qui pluri^, a^ aux^nis u itiis pauwim expiatusue dckeps 'i4'1 4^; , r»v I f  •*/ .«MI inr   ; iRft.    Ia.P.Virg.M.AIfegdi'    mitis uiituHbiu IlluftratusidquodfummahotmnibdliaeStquoiI^ tufi &pl  ip6t/tatnnlal^equnec^VcTdcu illud mrera diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a Platone didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime  perueniripofle/q animi nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex^  piati penitus reddantur.Cum Socrates i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle  neget. Quapropcet non folumflnes bonoru nobis miririceezpreirittVerum  etiam qua uia qua ue ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt  Ne qua pars eius philofophia; /qui gtxd ethicen/nos de uita & moribus nomp  namus:prxtermitteretur:in ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo  notum malorum^ iincstdeindeofScia/quibusueluti uia quadam ad eosdem  ducamur.Laboriofum omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum:diui  num tamen & quo uno foelix limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf*  Soli enim fapienti fas eft ufi^ adeo deo c6iungi:ut nihil quod feparcr/intercink  ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui uerum mente non pettin  gat/eum lapientem efle minime poiTet^os autem cum quatuor lint qu 2 in feru  ptoris mente aperienda inue(tigemus*in rem nolfram futurum puto: ut certos  ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando egredi non liceat. ES  igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam hilforiamappelbnt/ut cum le  gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda indiue^ qoadrigxdiSa  lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua ratione geSum nt:ut eS  illud At tu didis albanemanetes.Nam eoloco dcmonfhatproptereadifcerptu  a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam illein fide non manlilTet.hic gta&«  dethimologiam dictuit.Q_uxrimus& tertio in loco an ea qux dicantur pu^  gnantia inter fe lintr Alibi enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego  &pater Idem fumus.Q_uapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec  fediiridereo()endamus:Analogiam (equimur. Interpretamur poftremo aliqd  per allegoriamtquod tunc fit cum non qux uaba (ignificant intclligimus:fed  quiddam aliud fub figura obfcuratum.Scribuntpoetx Amphionis lyra motos  m lapides/ut fua fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod  figmentu quid aliud intelligimus:nili fapientillimi uiri cloquetia effedum eifer  ut Boetii populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi:K aduetfus  oem humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem uenirentrac  poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe rubiicerct. Nos  igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in ipfa fola allegoria uet  fabimur:ut quid per Troia(n:quidpCTxneam:quid per italia/ reliqua^ huiu&  modifibiuelituideamus. froixigit" oritur Aeneasrperquautberedeut puo  to prima bois asutem intelligemus.in qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen  fusregnat: At^ ipli mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola  fibi proponut qux philofophi prima naturx appellat.Ni cu oe aial (ibi a natura  comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes ita integras:  ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi (int: maxime autem uohi  ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul corpur^efTeintelligattat^  Utru^ faluum efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam k Liber tertitu   BOO dbm plane ilhcogOolat minus laboratsea autem quz corpori corporeilm  uoiuptanBus conducunt/anxie expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotif.>  fima>Q_uaptopteiT cum in hac zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum  adionum domini efTeualeamusmel minimum ucl omnino nullum uirtuduw  do^ locum relinguamus:cum que agimus eanccuoiuntariaflnt:neccum de  ledu aliquo fiant . Ita^ in puero uirtutem e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro  gtcflu ztatis rationis lumine aliquo illufirari indpit mens noftra s tum demum  tanm in nobis conlilii apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus.Eft enim  iam ad illud pythagoricxlitterxbiuiumpcrucntum/fic iatnuitzneTciuseiton  utcil apud P^um.Deduxit trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di  fceflciimus nccefle efitut uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam  quz deinceps agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit  tutitfin contra uitioadlcribuntur.Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un  tur. Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante«  poni neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe  ab omni incendio explicat. Q_uod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui ma^  gno amore inflammati ad uen cognitionem impclluntur/omnia facile confer  qui pofle. (Quapropter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur.  Sed tu LAVRENTl ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem  inquit LAVRENTIVS t Ni uerear perpetuum tux difputationis filum intec  nimpae.lmmo potius iflo modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus  hiefermo non ad oflentandum ingenium/ neq; ad gloriam comparandam a  nobis infticutus fit : fed ut honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid  in me dodrinx efi/id libenter cfiFundam : interroga : interpeilaiobiice: confuta  pro arbitrio tuo.Hac enim uia id quod quxrimus uerum/ dilucidius appare^  bit. Vtar quod mihi permittis/arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non  tui confutandi : fed mei erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amo.«  rem interpreteris eum prafertim amorem : qui non modo cadus/ uerum cti«  am diuinus fit. Ego enim Venerem non folum apud poetas : fed etiam apud  reliquos feriptoresita fumptam uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^  coniundionem fignificarc uelinr.hinc illud Terentianum, ^e Cerere fit Bac  chouenaemfrigefceretEt ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera.  (Quapropter fi uenerem pro huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua  dixidi/ea omnia inter fe pugnate uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi<  ili petfpicuum reddas ego minime explicare ualeam. (Qui enim fit ut cum duo  fintuiri Aeneas at^ Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle  fit ut una cum Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe  reriomne periculum incolumis cuadat.Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve  nus Paridi noccat:fi mala prqfitAenex.(Qux quidem dum cogito/in eorum  potius Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap  pellet'':flt ad ipfam bidoria referut : Putat enim qd* te no fugit/qua hora a Troia  Italia uerfus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis 6ad nfm hoc  hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide roniundam. i T MLO' It (k 1 l •M »,H'. In.P.V>rg.M.AUego<.'   Q_uibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per muliere peruentufoioJo'  uem enim regnU ptzeflc non ra odo H omerus (ignificat qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit.Sed & mathematici ide ditant.Salutareenini  omnino ITduseQsquonia inter Saturni frigus K Marcis ardorem colloatu opti  moeemperamento Iit: 8i propterea eundis euentibus profpcrum . Nam cum ui  tam noftram praxipuefol&luna gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa  luberrimus eihquia foli per omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo  dus eft.Refecunr etiam in initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio  tuncafcendcnte fui/Te. Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam  in egenos K calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& uere amicos fine  fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala infert:hicaut  tollit aut minuit.Q^uapropterfcite Petii us . Satutnumip grauem nolito loue  frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene habeaticum ille hominem for  tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit BAPTISTA. Sunt enim ex 15  ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer accommodata. Verum cum omnis  nofira difputatio nullam hilloriz ratione habeat i Sed eam qui totiens gtzco  uabo allegoriam nomino/exprimete conetut/non uideo cur ea qua adhibui in  terpretatio iure amitti non pofiit : Si enim iis omilTis quz de Aenea deqj cztctis  troianis prifei faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge  te:fed SL peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione liabi  ta id folum tentaret quo pado per Aeneam cum nobis uirum informaret: qui ta  dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem aliud  ue numen pofuiflet.Sed cum ita poeticum figmentum profequi inSituifiet: ut  tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe & exilii ducem na#  uiganti filio fc przQitilTe Vennem IcgilTenfuit cx iis quz aderant res perficiedat  non autem nomina fingenda. Hoc enim plus negocii poetz cll qua reliquis/  qui alio figmento rem obfcurateuolunc. Illi enim ab omni hiftoria foluti pro  arbitrio ea cominifcuntunquz magis rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis excmplicaula proponendum cenfeo.Placuitil  I primo huius fabulz audori ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur:  ea omnia in interitum cadae/ quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia  (unt oibus rebus generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at^ Opima  & illum temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Cro#  nos enim qui Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro  non appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut  teropus:perOpim fiuerhcamterramintelligit. Addit deinde Saturnu pmnes  quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc  elementa tempore conteri : at^ in interitum deduci. Quorfum igitur hzc  ne reliquum fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro  arbitrio quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione fentie##  bat : commode exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi  propofuiflc.Maroni» autcih longe alia rado cfi: qui cum Aeneae res io laudem' I II Litxr tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus poeddsluminibasitluftrandum  fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit  banc fuprcmam ingemi fui laudem comparat . Mirus profedo uir qui non ex op  tads fed ex datis ha opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame  illaedibili integumento humanam fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua  ratione uenaem pro diuino amore ponae coadus iit . Q_uod ita tamen rede pro  cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa  mone quem phatdtum nominat : Aphr^iten/quaic nos uenaem nuncupamus:  oqn lafouololum fed & diuino amori ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie  cua poeta Aenez matrem eife uoluerit : faale intelligemus ii quzdam paulo altu  uscxipfoPlatone repetamus. PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme  morat/aketam czlcfiem/uulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui  nulla mater iit . Q_uod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me  te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam quo  numproculabomnifflaterizconfortiolitiinc matre prodiidam dicit. Secudam  uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre uero Dione eam na»  tam feribat . Manat enim ab ea ui quz in anima mundi eft : & uim creat quz infe«  hora bzc omnia gignat & mundi fyluam fubeat : Vtra^ igitur fibi ingenito amo  ce rapitur czlefiia ilU ad dei pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul  chritudinem e fylua conforma. Sed hzc parum ad rem: Animus autem noda  cum&ipGe fimilesquafdamuires habeat inteliigendi at<y gignendi / duas itidem  ueiierahabaedicitur/quas gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea  puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non  quia corporea litillcd quia limulaaum diuini decori admiratunar^ diligitiea quz  ueluu uia quadam ad czlos effenur : Gignendi aurem uis: quz fecunda uenus ell  formam gignae huic limilem concupifcir . uapropter uterqi amor iure dicitur   utaltcrcontemplandzaltergignendzpulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU  tur nifi totius rationis expas fit duos iflos amores damnare audebit t cum uta  qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp enim diu efremortalium genus finefo  bolis propagatione t neij ruifus beneefte fmcueri inuefligatione potait.Prza  ttantiuri igimr illa ucnae duce in italiam perucnire potuit zneasiAc dices cui  hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia illa male ufuscfl. Vir enimgignen«  di autdior quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet occupatus /in  Ibiis corporas uoluputibus meretur . Quo fit ut 6i primam quz ad fummutn  bonum dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur : proptaearp in om  nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata mifaq^ efifedusin omne  indignitatem dcfccndat^Efi ut dixi diuious amor fi Platoni credimus dcfideti«  um redeundi a corporea pulchritudine ad diuinam contemplandam: Non ta«  uencum diuinam defidetamus eam quz oculis pcrcipitur/contemnimus.Nam  qui aliquid appetit hunc illius quom rei : quam appetit imagine delcdari ne«  ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo  modo feuocate poffint: hi ueiam pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi  igitui amot adultctinus cfl / & a uao degenoans: quem lafduia ac pcocadtas g In.P.VJrg.M.AIIego» frtnpff cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo  rea Forma percipitur rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot  tui in alieno uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J , I   Plato ucio ait illum   natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat illum  nerp confilium in fe nc^ modum ullum habere. InefTci^ in coiniurias/furpi#  dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis Feruus Terentiano phzdtix  prudenter oftcndit.Habes(urputn^dupliccm amorem uerum illum fidiuino:  de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum & adulterinum: & qui uetoamo  ri talis fit qualem aut amico adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui  quidem cum fe totum dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. Aeneas autem cz  lelii illo duce paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum  ardore fe expediens li non reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut  nunquam aut raro conceditur: ut eodem remporelicfiulcitiam exuat. &rapiens  efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam pcrucnit.  Q^uam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima fit/nemouna  quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre paratus  fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem /offendit  Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat^ feruator : eo emn  fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia ttahuntur.Effitt  dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut artem inuenitiaut  ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis obiedatio/K difeendi cupido ia  dtet . uam quidem rem fi non apette offendit : obfcudus tamen ut poeta«  rummos efl / figuificat noffer Virgilius.Cum enim in georgicis fe uen cogni»  donem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem ipfamfumma amoris ui fu  peraturum his ueibis demonffrat.Me uero pnmum dulces ante omnia mulas  Q^uarum facra fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti ergoamotela«  boies fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt  fe laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui  Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex pulcbritu^’  dinis afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/  porcis tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris  & fimulacris quibufdamtqux fefenoffris lentibus obiidunt . Q^uam quidem  rem non folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythago»  ram Empedoclem Heraclitum :fed longe ante alios Platonem enumerare poC*  fiim tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam & Paulus  & qui Pauli auditor fuit Dionyfius areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu  fus non cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt . Inxc eff igu  tur illa uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc  Idat natum xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum.Vb  rum enim ad omnia magna dCexccIfa natum : quis non fummis laudibus proe  fequaturf Verum&ipfea uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat  Xioiamcoimpdiuatuturztin quibus, uoluptatescorpotex plurimum uigent/    Liba totius   intoprctari licet : prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui  CCS explicare poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate de  mulcentur: prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina qux  fint nem nouaunt : beatiflimam eam uitam putant : per quam uoluptate frui lice  at * Hi igitur quid fummurn bemum rit : nondum compei tum habent: Veni cum  illius acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri  ma tiaturx aduca momentaneai^ efle animaduertunt. H abet enim hanc irim ue  tus amor : ut paulo ante dixi / ut mentem ucbementn exacuat : magifterep illi re^  cum inuenieodarum paulatim fit t ut nibil eam latae poflit . Q^uapropta egre« ei llud qi^ £Ulete poifit atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re  amata potiatur : omnes labores tolaat : omnes difficultates fupetat . Hxc eff ue*  nus illa non uulgaris ; qux materix admixta utm haba ^gnendi/fed illa cxicflis  ab omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;& Iu*  cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita infritia oflen  dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem demonftrat : admonet^  non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux necefle eft ut pneat . Hxc  eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa lacena id eft a feipfts/ut in  beftema difputatione diximus cotrumpi : fed ab lunone a Pallade at^ a exteris di  is: Nam deos Troiam populati quis ignoret fDiuina enim omnia uoluptatibus  aduafantuc . Sed in primis Pallas . Hxc enim fapientix fjmbolum obtinet. Sapi  entia autem non folum uoluptates contemnit : uerum eriam (fummopae exhore  ret. eft quod de lunone quifquam dubita : qux quamuis regnomm dea ha  beOiiriproptaca in hxc caduca ac mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen  cumlidmmes imperandi aipiditate nullum labotem pafetre recufent t omnibus  uoluptatibus bellum indiaint : modo eo perueniant unde poflint reliquis impe*  ritare: Deos autem minime uida Aeneasdum pronoluptate pugnat . Nubium  cniBiteilebtiscnnnis ei ptorpedus eripitur . Sunt enim animi noftri ita a deo aea  diutfuapte natura facile omnem utritatemconfequantur . Sed a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala proueniunt.llla enim  tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at<^ tenebris obfcutat . Sioiim ex in  fritia omnia uitia ptoueniunt : Q_uaproptcr & Chty lippus & reliqui ftoici per*  turintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe ante  feoferat Mercurius ille: quem grxciob ingenii diuinitatem Trimaxinnimappei*  hnt.. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt . Infrit ia autem ex corpotea calu  ginecft/utPIato putat /erunt omnia uitia a corpore. Q_uam caufam prxeipu*  am fuH&idixerini / ut is quem paulo ante nominaui Meteutius fyluam malignita*  temappella:fedderyluacommodiordifputandi locuspaulopoft dabitur. Pu*  gnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat^ demerfus deos uidae nequit. Verum  cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri inueftigandi / ualetipfeamot  mentem excitare:utfecoUigens tenebras difaitiat:flt uideat quibus numinibus  Trcria cuertatur . Ducetp eodem amore pa medias flammas at^ hoftes ita tutum  anipit . Et profedo uolenti ad tes arduas profleifri / hinc mira quxdam'uolupta*  tum : qux defoendx funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc laborum ^difiS*.    In.P.Virg.M.AIIego.   cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem afliduo pugnet fefe opponfit. Q_uz  omnia ducente Venere Araex cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram blandas oo  luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare pofTemus. Venit igu  tur domum ut familiam omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur. Ri^  dit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad  profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem / quam Troix nunquam afTeque^  retur : fuo ordine componit / omnia^ (ibi ex uoto fuccederent : (1 pater filium fe  qui uelit.Verum negatAnchifesfe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue  lit : (i me roges ego (ic puto. Aeneas huiufcemodi parentibus natus efi : ut Venus  dea : Anchifcs mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK  ex corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam  femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus au«  tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur alTiduum  atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t cum  mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC fenfus in potefiatem tedige«  re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat . Contra uao fenfus feculcnto elementa  rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil nili caducum & tenenum cupi»  unr . Anchifes igitur id efi tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri»  tofcnfualitas appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen»  fus / quam uoluptate priuari . Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft  totum hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora monea»  tur 2 mutat fententiam/ab Aeneai^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at«  ^ eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius inficr»  tur . Hxc de ancbife j Aeneas autem cum iam incendii 2 armorumcp pericula eua»  ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem comitum afduxilfc nouo#  rum inuenitadmiransnumaumtqui quidem undi^ conuenerant animis opi»  buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere tereas.t & rede quidem. Nani ca  tandcmcferuitioincendioi^ uoluptatum fumus liberatit e(f<^ iam animus redi  uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx animorum uires 2 quxhadenus ignauia  torprbant :ucbementa excitantur 2 8 C bene in(fitutammentcra quocunt^ uocae  uerit / fequuntur. Q_uo quidem tempore ne a redo itinere omnino aberraret  xneas / Iam iugis fummx Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr  uenerisfydust quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum  quas nolfri aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem  odo ac quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex  & quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo pcxcedit/  modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife prifei crcdidcrunttpti  mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo apud grxeos unum depreben  derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer dicitur : uefperus autem cum fubfequi»  tur . Rede autem lucifer prxuius foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue  ri inueniendi / ei exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di  em 2 nam rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.  Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii   S , Q_uapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro czcellen  quztj boneiia rapit . Fertur igitur Aeneas duce m are exui in alt um incertus  quo fata ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine fumma fapientia a poeta  ponuntur: facile enim cognofeit Troiam relinquendam :&fummi boni princi'  panun uoluptati minime e(Te tradendum. In qua autem re fummum bonum coii  tiatnondumcognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab eoquod habuit cie  dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit . Mari autem fermt  quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii appetitu mouentur : qui  quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca prius de appetitu dixeto^ft igi^  tur fenfus & uis quzdam in animis nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono  tum malorum*^ iudicium a natura demandatum efi , Non nunquam autem ita  iudicat buiufcemodi uis : ut nihil prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc«  cebris attrada & uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v  fa hominis bonum decernat . Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis lumi  ne illuftretur : & eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat / quo fenfus de  mulcentur ; fed quod reda didat ratio : quod uemm (implexi^ bonum cui iit ne«  ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi uis bcx bonum illud  ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia quzdam uis quz ad bonum afei  Icendum / malum^ declinandum infurgat . Huncautem appetitum omnes ap«  pellant . Sed &, eum duplicem efle oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus  fenlus fcdt femper pendeat : nibil^ cum ratione expetat : alterum qui nihil omni  no fcqiutur t niii quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe  eundum uoluptatem nuncupamus . uaptopter erit appetitus quo animi honii   num ad bonum afdicendum/maium^ declinandum moucantur / redus quU  demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo enygmate diuinus  Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam ilii duofep equos  adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus ab appetitu duatur . Fe.<  mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio aurigz a quo reguntur eodem pa»  do appetitus nihil ex fe agendum decernit . Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli  fequitur . Q^uarc autem equorum alterum album pulchettimum^ i at^ hono«  tis cupidum : Bi qui non minis ui<^ / fed cohortatione ratione^ regatur. Alterum  nigrum inglorium & contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici  appetitu dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem : per  B^um ucro irrationalem appetitum quo animus fertur : at<^ hzc de appetitu :  quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL»  lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem diuerfistun  datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates infurgir : Sed hzc  eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a pcttutbationibust nihil ni  fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer uezari : quos iam ftudus   quasuc procellas intuebere: Quapropter illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s  d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc occurren/ quod non bene iis quz diximus  cohzrere uideatur : Nam fi radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu   g ii*    In.P. Virg. VIRGILIO M. AIIego.   ofatn damnault t unde nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ*  quit . Q_uod enim odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR fo  letnus t Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo'  I firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud qui>  I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius illecebris demulceamur t non nili zgte  , ab ea diuellimur : imitemur^ fenes tioianos : qui cum Helena ut grxconun tro>  ianorumtp certamen fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu  lieris pulchritudinem t ea^ uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv  rum illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp  pter illam pereat Troia . Quod ut plaiuus intelligas . Q_ucmadmodnm tordnk  do uirtus eft / qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic tempcran»  tia aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li  ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus nem  dum contratSus Iit : Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^ effiamusfi  nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur / ut nondum temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre & non line luda: Quz contmenna di  citur in qua li diu exerceamur : paulatim temperantiam acquirimus : htij uirtus  id quod hadenus uirtus non erat : fed ingrelfus ad uirtutem . Hoc igitut intcrcft  intcttempcrantiamfiicontincntiam. Namquamuisutrai^ idem przdet:conti«  nens tamen eo detenor eft/quia cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus aduerfus  uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^ abffinet.quod li itidem de ineo  Anente intemperantem inuelliges: facile ell uidere quanto a temperantia condoe  da fuperatur i tanto incontinmte ipfum intemperantem pemitioliorem elfe : I na  continens enim quia non dum in uitii habitu ell rationem difeemit : prindpiui|  Knct:pugnatm aduerfus malum: fed tadem magnitudine cupiditatis & fui animi  imbecillitate uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts  adumbro ea exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii  ilTc Didonem: quz quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua  gnat/utmori malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui  cum fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula adhuc ita pua  gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando fuccumbit.pua  gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans autem in habitu uitiiconfti<  tutus omnem rationem amiDti ne^ pugnat aduerfuscupiditates: quin illis uo»  lens gaudmfqi obtemperat : quippe in quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf  tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum redeamus : non dum tem'  perantia munitus erat zneas : nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts  tum fordes intueri poffet : nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io  de fe expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti uui  pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate  cam feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i  da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut totos pau lanm occupcttSmgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO* iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p  tdib ;iup» ib<#  ico^ Jki» «0 lolf J0t ^0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs  fcd lema reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio fapientem fingit:£C  una uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica»  K cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id eft  aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^ incontinen  eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^ uincuntacuincunmr.  eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn quas mediae funtaffcdio  nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt incohau potius  quam pctfcda lepenas/non nulli uittutes nominarent . Sed profici fcatur iam no  &rAcncastuerum quo tandem exui pn altum feretur: Nempe in thraciamre^  gionem patrue fininmam/fiC terram Matd confcaatamnnquanupn Polynco  ftoc holpitem fuum Polydorum ut auro potiretur interemerati Erit autem aua  titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft : Fuge littus auarum . Vnum cum  duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus 8C iis qui inde rapit unde minime con  ucnitideis qui cui dandum eft ei minime dat.primum illud genus perthraciam  cxpdmimroi enim in illa Mars colitur.-quisncldt habendi cupi ditate plurima a  mortalibus bella geri. Sed ne^ Polyneftor borpitisintcrfedots6( Tuorum bo»  Domm raptor quicquam expreftius quam auaritiam rapinaft^ denoubit < Cur igi  tur prima inthraciam AeneznauigatioeftrQ^uiacuma uolupute difceftimus  at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus facile ex ilia in aliam cupidita«  tcminadimusiinfurgitip habendi libidoibeatilTimam enim uitam multi feade<  ptos putantifi opibus maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Q_ua cupidi  tace inflammati non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu  lil^ refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo profeda:  qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete poiTit.Habet enim  auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens optauit. Nihil enim illa  mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati fubiiciatar.Q_uapropter rede Sa  luftius auahtiam ita malis uenenis imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf<  foemineuquando quidem Si ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende  tccogic:&inomnemcrudelitatemproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia  am pctiuriumip edocet:cot fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.»  to^ in aliorum pemitiem inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu^Polydori exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi  nem tamen mirari oportet fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad  buc fapiens in huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana  Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis  admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^  ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus ficfoc  mm regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi Si b^  ne numatum decorat fuadela Venuf^ . Verum qui duce Venere fertur Si tna  gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit. uitiumip  abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit , At^ cum iam fecundo deceptus i In.P.Virg^.AlIego.   falli deinceps turpi/Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue  riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex illius dei ptxut  pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit. Q^uaproptei nauiga>  donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid aliud quam  lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda qux in lien  fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus eunda profpicete ua.  leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed illud in primis. Nam cum  Heraclitus fontem caelefiis luds appellat. Cicero [CICERONE] ueto ducem carterorum lu«  minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis maiellate praecedit: dixh itidem  ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita eminet/ ut ptopterea quod buiut>  modi folus appareat fol uodtetur : curfus reliquorum recurfuf^ipre mode   ramr. Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc'  deos a fole peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro.  Rurfus autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon  fueta reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«  fcisdidus ell:Q_uz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^  tia reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Q_uin etiam li  uim huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam  ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe«  mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: &  quod loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz  ci phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus:  quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S  ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim  quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem tot»>  us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni.& deorum facerdos iittnonca  ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum cognitionem continet. Qua  ptopternihilnouum fapienti accidere poteft: quippe qui omnia iam percepo>  rit : quam quidem rem nomen regis oftendit. Anius enim didtut quali   id elf (inc nouo . Hic igitur hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio*  fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur . Veneratur autem templa : at^ ea retn  pia quz faxo uetullo conftuida fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im*  mobiliufi^ : aut antiquius ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus  ille omnium bebrzorum S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea  ta effe uerilfime didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non  polfum inquit LAVRENTI VS dodillimorum uirotum ingenia non admirati  lztuf(|:quz a principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis  enim non obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri  umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal facrifi  atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt : legiffct eti^  am Sc apud Epaphum : Delon ne<^ antea nem pofiea tettz motu uexatam:  femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non mirum elfc fi  przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia locotumfibi acccficrit    Liber tertius    coBtltiuafaxIeiurdetn firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem  tempore ex antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum  uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea affert  quz per allegoriam Tapientiz conueniant . Dices quid in cacteris : hoc idem. Sed  nefdoquo pado hic me locus in quo hifioria non minus qua allegoria latet:mul  to magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi  endi cupidiffimo moleftiam ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu  inquit BAPTISTA zDardanidx duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^  Ius eadem uos ubere Izto Accipiet reduces:antiquam exquirite matremzHic do#  mus znez eundis dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis.  Q_uo quidem oraculo quid diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim  faomini(alutarius:quidconducibiliusefi:qu3 originem Tuam noffexin quam cu  redire potuerit /tum demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a  poeta difcederet Maroxquod grzci duobus tm uerbis expediutxqui omnium ora#  culorum quz Apollini tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V   nofceteipfumxVerumut haxea nobis planius explicenturxOmnesquicuh^un#  quam de fummo bono feripTerunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con#  IraTeruntxutbenebeate^ uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum  ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc innumerabi#  les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum ui ignorata  plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo corpore^ conflare  bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^ facile in interitum pronuma  Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft^ fitxpaud omnino ita mentem a fcnfi#  busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant: corpufcp in nulla  pene parte habendum cenTeant.praedpitur ergo Troianis ut eo reuertantur  de originem ducunt . Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer Scamandri cu#  iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam uenit;62 una cum Dardano  Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex creta:  ut ille fed ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur am#  bo in Phrygiam id efl in uitam: & pnmam ztatem quam perTroiam fignificari di  ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis /quem hominem  dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre prouenit.Q_^ua#  propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo iubeticuius ora#  culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi conducat inuefiiga#  re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi natutam uiuere fodi  ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius fignifi  caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid uolunt digni  tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid prodeft  fi illud male interpretatur Anchifes . Hic mortalis Aenez parens omnia ad  lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit. quafl  prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia  Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala Tubi#  bui fint Ttoiani* Nam cum (ummum bonum non iis quae animum: fed quaa    In.P,Vtrg.M.AlIego.   corpus fpcdcnt natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati>  io po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu  turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam nauiga»  te iulTi actam ptticrint:Si enim in italiam.i.in originem animi redeant Troiam  percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola flabiles & manfuras feda  inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis dominabitur oris:Et nati rutorum  & qui nafeantur ab illis . In aeta enim nullum e(l Aenex imperium. Na corpus  ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum^: 8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii  ne animi auxilio ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports enim domina  tor & redor eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem  fue cognitioni rabiiciuSe enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/  ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat:Rimatut   occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras anv  bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl patria fua:Et   ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta eius imperiu eft aeterna :  ixcaprincipioquauisdiuiniscflentmomtiprxcepris cognoicere no potuerat  Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt.Epimetheo quidem ferius:  Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua profequaturtCum pefie labo  rarent Troiani danmatfuam oraculi interpretationem Anchifes.Nam poftqui  diutius debaccliatus eft homo dum fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus  caducis reponit/tandem ufu Si experientia dodior redditus animadueftit no fua«  fifle acta Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia fntt  Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie  ualenutquainrcconliftatdifcernercpoiritrNa humiproftratusanimus/St fieri  gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui  tum tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu  tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari ilhi^  ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo Si hos  animoru noftro^ excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio intelle#  dus atqr iDtelligcntia:Q_ux hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co  plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu  pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo&oc  cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante nomii>  nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu  dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam ufus  at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne deaeucrintrfc a  tumulmcolligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma (^ contentioeruftitix nebulis fua  luce fugatis mentem^ ab^iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit ita a aetenfi  domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo dcacto 'edicant, /ii*  dunt^ proptnea fux fententix ftandum:quoniam eadem iubeant quxipfe Apol  lo a quo mittuntur didurus fit: Etprofcdomcns noftra multatum rerum ufu  iam dodior reddita multa, 'ex fe cognofdt:qux fapientia ptxdpere confueuitt  Nec ucto quempiam moueatli deorum pcnatii oratione pctfuadcatut Andrifas I t ( I I P n u d fi D B   B< P>   h Jrj-B S ®    Liber tergus   Nitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitunMuItS iatn profeoe  nintdiipcnatessquiquz obfcunus Apollo fignificauerat prrfpicue enodaruntt  docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle: Beatus  profedo Aeneas (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id ita mordicus  arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a redo curfu deiicere^ s  Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in hisobdurauerit:& per (uma t&  perantiam a rerum moruliu cupiditatibus (it penitus purgatustfed inter contine  tia; at(^ incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo  uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is gubernator  clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam tempeftatetn  fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra caputaftiiit imber  nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris : poftquam conti»  nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz fequuntur.ipfe diem  nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz: Diximus a ptindpio foloap  petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem e(Te appetitum alterum qui a  fblis feniibusexdtetutitationi^ aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione  pareat:uoluntaf(^iure nuncupetur. Qui quidem (inauiprzfuifTetiporerat ea  am aduafantibus uentis iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus  uelutitcncbiisanimuminuoluetibuscum ipfenulla rationis luce illuRracus (it  dicsano dibusideftucrumafairodifcerncrenrgat.Magna profedo hominum  ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi aduerfanturi ut quauisil  la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria tyrannide feruituteq; eripiattipfa  uclutiiulbirima regina ueramuelit inducere libertatemitamen cum nondum  uiresfuasrecupetaueritmDpercp a diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin  cognofeatur fzpe antea qua dus regni quod (ibi iure dcbctur/polfeinonem recu»  peret ab lilis repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni  largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur malit  io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate laborare. uamob»  temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic fzpeuida ratio, lllicnim  parere rccuCiDS Palinurus nihil (anum fentit : Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd»  mittirurtuc dedituto curfu t quem penates dii prasceperantin (Itophadas infu»  lasdeclinetur. Hunc autem locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta  bimur/non illud tamen quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim  nobis Thrada ddignauit. Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux  iam peperimus minime illis (ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo  detatis uinculum fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam Fragilitate rerum  buroanarum Aeneas ad diuina ratione id efflagitante / ferebatur. Sed appeti*  tus aduerfus illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae  uulgus admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*  fiuufcritateitniautufuctaUndui nc^rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd    In.P.Vitg.M.AIIego.   per (oBUS fordes plus qustn psr eft parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei  DC(p (ibi nc(^ Tuis beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn  prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon io«  iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim pudorcmimodtfHaou  robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu ucntris ptoluuies fcedifli<  tna eft.Q_uisenim po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di  uitis eiufdemtp tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene  As manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu  des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta •  locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^  fameconAdturiNam utcumulusdiuitiarumacrcatiprcinterim ruum/utillete« .  centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti:Q_uod autem ua  ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel ctpe>  nntauariiQ_uinfunt adeoperainoA auarinxundiut hominem ad dtuma qua  dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide czioin terras  K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant. Auertit enim nos at^ feuo«  cat habendi cupiditas a cognitione carum reru quibus folis Axiiz animus ciTe po(  At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia  deum ftygiis fefe extulit undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau«  inante patre: matre Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan«  tem tede admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu   cnimobfummafiultitiam diuicias maxima bona putemus cum aut bona non  Antaut minima bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione  cupiditas habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv  nit.Suntautem ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn  diligentius conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli'  duo motu cAicundac^ incofacilemifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf  opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzuiAima bella inde ezota  tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi ad ncccAiu  tem fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua  tinz quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo  luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo  accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de ani  tno przcipiebanturicauturqi^ruo damno fadus errorem cognofat: conAlium  inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus perturbationibus uexatus  animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad eas quas rapinis ut hadeoust  fed quas nimis fordida pat Amonia comparet : Sed & boc quo<^ uinum effc  cognofccns / proptetea^ damnans < ad Helenum per hoftcsproAafatui.  bes igitur quare in harpyarum infulam delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^  IO ab ipAs uefd prohiberetur iam parariscpulis inde efliqnia eam uim habet  auarina/ ut qui etiam dinflimi Antfame penrequamuci minimam acerui par«  Aculam imminuae malint JAcmis tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua  AAacxifflbcdllitateat^ builitate animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«'  i-% « % % t ik tltl I- 11 1 1 1 1 1 ^ I J J- 1 1* I i I- 1- i  •j mii   oa* iff  Liber toriiu   <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle pellitur  fi foitemgcnercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus a;neas t fed  non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax omnino uates Bc in   E s fubdola } & quz uctborum firepitu honorem inde incutere uelit unde ni  timendum : bed profedo hoc morbo laborant auari i Nam fi quando ho«  ncOa quzdam SC una ratio lilos ad diuina exploranda erigat < propterea^ huma  na bzcfiC mortalia negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus (i rem  noftram familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«  fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t quam  minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda qui in  anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^ naturales lint fibi exple  das propofuaint : quorum uotago um lata tam profunda efi : ut nulla auri ui t  nullo gemmatum iapillorumtp cumulo repleri queat . Q_ ui autem ita uitam ia*  fiituerunt > ut fola fe uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^  ponant : his omnia femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia*  nius exprimam :at^ adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^  mz quidem fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrummacedonumte  gem/& Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi  Alexandro thcCiuri erant plurimi tobuRiflimi^ exerdtus (ibi militabant : Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa A(ia*  ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu(liusexcogitari:qui prz  tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e frigore calorctp tuf  tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem panno in utroi^ folftirio  obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam nullo file al*perfa beati (limorum re  gum dapes fuperarent. Vttum igitur horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q  dem inquit LA VRENTl VS h a deptauatilTima confuetudine : quz altera pene  in nobis natura cfl dirce{l'eto/& rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno»  lixndam tradam beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no  dubitabo . Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam  tum tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it animaduerien»  dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo fatis fupercp fadum (it  ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior :qui cum (lue pafiurem (iue arato  rem quendam cauis manibus aquam e fonte ad potum haurientem uidiifet : po  culum quod ad eundem ufum hdile gerebat ueluti fuperuacaneum abnaedum  putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior : qui podquam a Democrito ut p\i*  tophilofophoplureselfe mundos audiuaat : lamentari non crilauit tanquam  nulla ratione diues effici poffet nili illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau  tenti de utro^fentis inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus  animi tranquilliute quam in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Dio*  genes e(Te nifi cifem Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum  in fummis opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Q^uamobte  difeant homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu#  ium a Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem faciat  r lD.P. Virg.M.Allcgo.   diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi Pbccbus Apollo pn«  dixit . Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo laborant fallis uirtutum limula»  cbtis tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants  & aut deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua»  dete conantur . Oolofa profedo cupiditas : & quz cos etiam quos prudendotes  putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft nof  fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria putabnoa  modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam exiiiae.  Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll au»  tem Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni»  tam nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod  nos fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab erroribus reducat»  Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle eft ad illum petuenitei  cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes 8i apped»  tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum iudidum delcendcrc (em»  per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus obfirepunt: ut uix radonem  adire & uera bona a fallis fecetnerc poflimus. Verum cum ad Helenum perucne  rimus iuuat cualilfe tot urbes argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe»  rads emm perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd  tans lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»  am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi : multum^ matis ef  fedreueundumi & ad inferosdefeendendum antea quam quietas in Italia fedu  collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico profligatis /fed  magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus hoftes in lumen luz luca  defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod in propinquo coUo«  catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo dreuituMariamo  ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam contemplationem : hanc quam ui  uimus uiuminteriacet is quem iam totiens appetitum nomino uelutiturbulcn»  liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp pernitiofiirima monlha infeftum red»  dant: Si tamen eft pei hzc loca enauigandum li in Italiam uenire nolumus : Oi»  ximus enim a principio (i rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motu  ti . Sed quoniam de duobus iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis  quid fibi uelit coniedari : Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf  proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates dice»  mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat . Scjlla e^o  s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus nofttis fio»  rcndbus uigent : Nam quod eius uniunia pubes m canes latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre. Chanbdim ueroipli quof  Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non intelligat limulai tum no»  bis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita in rebus fxliatei fuccedenubus ut  gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc potius cumnimisanguftiisdiuida  nun terminis incluli uidemur : ac ob eam oufam minime nobis noUxa placent : ii •p. a MI ia   Bi   itk iw   “!f   lab   ipoK   imi». okib!    abii   l{DKd   biW   uocA \^2Dli   .qmX (uitbi SUID* jniisi^   uin®^ iCID# aajb crlb<   jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfiaeKccT^ eflcopinaiaut t iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi  dcri Mato dixit (quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis  quibus uebcmenter deleAamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct :  at^ refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa  tnagis deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»  donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia potius :  At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter uideamr/ planius heri  cupio . Odenderas a principio ea ratione politum ellc a Marone Troiam zneam  cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas uoluptates contempriflet t per thraci»  amuero at^ dropbadas utrun^ auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi»  tur (i buiufccmodi iam uitia exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno  moneturC Dcle&at me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden»  dit cnimmaion quodam iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6  fideralTe: Veium quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a  Virglio [VIRGILIO] produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui  pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta difficultate per continen  dam uincat : nonnunquam etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita  liam id enim ed ad diurnarum retum inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa  dsed : ut continens fit . Nam quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen   S uoniam in affiduo certamine uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil  tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed . Q_uimobrcm egenus  ipfa temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum ordine  corroborata /qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue»  lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium  fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum co  fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo effici nem  poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice quidem fed opd  me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras ludrare pachtnni . Ceffan  tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem moneat ut eo quem dixi ha»  bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio elTe pet^d . Adiungit enim quam  fcmel informem uadouidilfefub antro rcy1lam:Q_uamobrem icdiflime uni»  uerfum locum concludemus neminem poffeipram dminitatem attingere : nili  perlongum prius intefuallumeuih: quem dixi habitum ita contraxerit: ut non  modo non rapiatur a fcjlla : fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali   nd fibi nuit : nili ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con  ipedum fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir  tutnm non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz  pe alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura linOiui»  nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas exteri pofuilTet:ita  sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue generibus didinguit :.ut alia qua  dam ratione ab iis illas coli odendat : qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia   h ii   i }  I *• ![   i  tl'<:  In.P.Virg. M.AIIcgo. qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii  •d fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni iamc6«  tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles dixir/fecundas pw  gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex hominum rcAe & ex ratitv  oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft eoru qui io fudali acciuili uita dt  gentes rerum publicarum adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti  gradu confiituti ii funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis  Kin qbus fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot  & a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus quodIudadumlit.SupremoautIocoeoscerncsqui penitusa re«  rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum (it/c&  mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure ciida ad boni  redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac pturbationibus  omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea hoium genere uiitm   tesi DcohataspotiusqabfolutastQ_uaproptetidinillbptadcntiac6tendit/utm   bil agatuticuius non polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero animd  fupra omne piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia timenda admonet.  Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in re moderationis legnn  excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni:   utunicuimruumredd»’' iutxquoiureoesuiuant.lnrccudoautilioh>iumgene   tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum diuinaium  conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus mortalibus  rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura omnim cogitatione  ad diuina copuertat" .Temperitia autem cum ea folum nobis cdce(Utit/bne qui*  busferuari uita non polTiticaitera omnia fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii  datp pronuciabit.Sed necaberit fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo  moduminullumlaboreminullu periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w  petuo^uti**' - j 1 n- ». • • tuo^ut ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d  luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit  fcd fadiius fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt.Q^uapropter uirtutes ipCrin  illis purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota  animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam exered/non  ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa fola nofcantifuU   J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem temperantura non ut cupi*   tatescoberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio erit fortitudinis.llla eni  pernitbariones non uincicifed ignoratiQ^uin opubic dura at^ horreuda Abi of    ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in eorum obliuione perpetua riimiuts  ^ 'ifidiligentetinfpides/fadiecognofcesidabhelenoadmo  petduret.Q_uxomniaf  ^ neri xneam non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad   boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus : nonne Troiam   deftrueiatjacthradamftrophadefipteliquerat.Defenieiatquidemjred nondum  $mca uitia fugiflct/illadcdilutc poterat Jiunc autem non ut Moliirnt^iP  Liber tettiai   «Birittaib^ deponatt^od tam feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK  tuooi roaadntut nunquam eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni  bus rcbua iterum at(p iterum 1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua  •imte Italiam nunqua podturua (itmdnc nobis documentum eftroaximum nui  Ium ex innumeris uahif^ uitus eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu  lur t scgriiu liberetur quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd  temnere uoluptatesa qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie  maximorum bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle  tianimo negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi'  lens quodda & eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu*  mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red  deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis bc  ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru poteftate coo  flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut reliquos antecedat: Eft  enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus oibus euadere cupiamusiCe  dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem naturalis cupv»  ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in tyrannide nos rapit:  in qua muka aduerius humanitatem audelia tetra nefariaip comitthnus : cu   natura ipla nifi deprauata fuerit ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam  ft dominatum omnia rapimus.Hinc fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania  fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima  monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht>  Dti dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam & cxccifa petuntten  nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi magnitudine in imanitaicla  bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus qua primu cifugit  Acncas.Quid enim aliud nobis cxprciTius cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar^  oculis fubuccrcpotcfiambitiolarofiC fumma efferitate deteflandam 1)^300103  uitam quam cyciops Polipbemu$:qui procul ab omni hominum confortio hu  manis carnibus paicatur^^ inter luflra feraru fola uita agat . Nonne enim iure  Andropophagostfic enim eos appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui carentia iam anima corpora id enim multo ma  gnto Uerandumefiiinfuas epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu»  oatibuscrudelilTimc exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd  paratamtutcnturioptimumqueipuirum & iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui utfcelerariirimi uori compotcsc£Ficiantut:aonmo  do fingulos homines ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed  integras nationes ferroigni fameij populantuncun^ libidini militari fubiid«  imttQ_ui nc^ agris cultoribus fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi  gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines ex parentum complexu aut ad mor  tcmautadlibidinemrapiunnqui caftarum mationara pudicitiam expugnat:  qui publica acpriuata faaa ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo  in florcnrifiinu re publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob  tincbantitot nunc oibux foituiuslpoliatosmmiraritni feruttutc abducunu  V' I.4 In.P .Virg-M.AIIego.   uos igitur cydo^quos leftrigonas cum iftorum imani fcttida cofErcnaif  Q_^uimobrtm uir iummi boni cupidus qui antea non bene infttcuta animi (oi  magnitudine quacun^ uia ad honores imperia^ nitebaturmunc demum tam  nefariam crudelitatem quam primum eam nouit deteftatunnouit autem a ma  dlenta rqualenci<| achemenide forma per quii lapiens poeU omnes calatnittla  quz ex tyrannide generi humano perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues  paulo ante omnibus ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino  piam cxtremai^ famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t  Rclida enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Q_ua:  quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non  poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummultyrannidis odium no  impelli*Q_udigitur Maronis fapiendamnoniureadmiretunqui uirumm ita  liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla ita  caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis perueniat un  de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab omni ii auari»  dxfpcdecxpediucntomnemip iniuditiaatipeiFentateexuedtiadreru magnis  rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut Sidlia nue  in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit medio in pontus  K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes littore didudas angudo  interluit zdu.lta enim abimortali deoapnndpioaeataed diuinitas animoti  nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot rdniside qua paulo pod ent didin^  dius difputandum di parte rupertori.Scd quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf  drea ea quz loco 6i tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit  ut interucnientibus Uanis pettutbadonibusiquibus prudenda decepta (xpe pto  bonis mala cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO  percu(riabitaliatandemdiuellacur:6(aruperiodradonead appedtum defid>  at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad eo»'  teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione inferiod quz  per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato patenteique nos mol  bticm quanda eneruata homini a fenfibus prouenienteinterpraetati fumus.NS  quam enim ad ueram contemplationem deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia  notum uerbo utar)fenfualitasnon modo earinda uerii eria penitus fepulta in  nobis fuerit. Q_uapropterli rede animaduerds de Anchife mocte meminit  poeta de fepultura non meminittno enim in iuliam ed uenturus.ln quinto  ueto libto celebratur funusiut demu fepuito Anchife in italiam cotenderc lice  «.Apparatis itai^ rebus oibus Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/  tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam  . bi dea ex Heleni przcepto antea placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa  honopi impcriiij cupiditate expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut  nihil iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po  lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in li  nunc pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum diuiu  nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber tettiiu    rem perficere . Std appetitus qui nou dum ratione fubiedus fit omnino ro>  pugaat:faKU 9 argumentationibus perfuadet noncireaurneg]igendoihono«  tes/autimpia relinquenda .PercomodeotnqiUate inquit LAVRENTfVS tC  ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC fi fortafTe confentanea fu  fpicer > tamen fentendam tuam uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro uult  ^fficilis ilia & apprime moiofa dea luno. Si enim manentibus TroixTtoianis  iiafcebaturscur deinceps iifdem illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo  aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et.  ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun  quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus ira  fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales in  admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que primum  gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia quxrin mi  rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in altum  Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant.   Cum luno xtemum feruaru fub pedore uulnus:  quae deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux honoribus inferuit cum  animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu ille uoluptatemtociu^  amaret negledafuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuuturforeiut fua Carthago ruituta Et: Q^uisenimnon intelligat E  ad c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/illos ciuiles actio.*  nes ccdercrturos.Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt.  Manet enim alta mente repoEum  ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum & rapti ganymedis honores.   Q_ux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil aliud nobis prader de*  ditauoluptanbusuitam referct:Nam Paridis ludicium in quo lunonl Venus  prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^ 8(uo  luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'  um:acpoSremo raptum Ganymede nemo modo mediocriter eruditus Et alia  traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat . Verunx  ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex  pattelateant:neuequidluno:quidxolusiquidneptunnusEbi uelit incogni'  tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui at<^ natura repetenda funt.  Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad multos locos enodandos adhiben  da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris deiceps in locis ueluti ia cognita file  tioptacanc luideo me qd* fumopete cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu  eodieteprKc/EEcagamus/duplextibionusipoEturus Emieritenim eode tpe  8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum malo loquacior etk/q  oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima difpu  lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P.Virg>M^IIfgo* tPrn/f <«•’<»' «*•  'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz onginls diuimtate traximus t id eSsdt»  tiocinandum/ad concemplandum/ad intelligendum mgitDut:eam animi pai>  tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem nuncupamus. Verum hae   mutiifed przcipuc Platonici chriffiani^ philofophi duplicem elTe uolueruntt  4 alteracu inrctiorem quam rationem appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro   TIfct. qu- i 4eIIedumnuncupant.Q_U3propterfapienter Auicena animos noftroi  ur t alterum lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia  r .na altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales & adioneshua  manas per prudentiam adminifhemus.Diuiditur igitur mens in duo rurfum in  tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum ratio qua  iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit &regat:Mulier inferior 8l regatUR  Q_uapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier bencfadensrnd  ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed commode exprimitut   * I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima corporis &fo  cialis uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam eum : qui ut nuW  Ium uitae ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura  ita (intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus  uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui  poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui  tz ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu«  periorem hominis rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono»  rumae imperii ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo  gradu deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC>  TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege ualc4 at. Q^uamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos: K  teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc  fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrdOt&infiituti funt animi  noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars quz ad  tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit : przponatur libi ea rationis particula : quz  infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat. Ratio auum -  Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd aloue.Hzciguurdumfuo co  ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil humile cogitat: fed quztp aigre^  gia: attp excelfa meditatur : teneti^ fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein  habet: mollit^ animos /& temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii  tum cohercet : at^ inna modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>'  ditiis demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena  rum cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo  uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<>  tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor«  tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi  tatesrquz uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip  fumcp appedmm : qui a fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit  ardaemractum ultro inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius   ItlbulluQanitn rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis perturbati  poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti  / MUm (H)i uulnus refrkafictiira plena in zoiiatn tendit.   Kimbofum in patriam loca fceta furentibus auibis.   Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda fibi deligat  nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum cogniti  onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in appeti tum p  tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis iuflli hoc regnum zoio  commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa obtemperabit appeti  tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro legem deum ellr : malo autem  bbidincm:Quaobrem huiulcemodi rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue  iuriti qui caufz (iiz diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor  tumpae iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc  4tillc gentem fibi inimicam Italiam attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^ cn  da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a iu  BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum terrenaruiatrp  illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere uita nofira impio ratio  tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio fatetur ueluriquz(^nifi pturba  lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum impium exerceatrac decepta cupiditate ea  tum raum quas magnas putatmentis habenas remittit/ac mare perturbattquoni  •tUturbulemimis cupiditatibus appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^  Bium rerum contcplarioncm tedit/adeo labo^ paiculorut^ magnitudine infrio  giturtuta jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr  ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima  iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis . Na  qui paulo ante tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspa.*  turiMtionibus adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti»  tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce ra.>  tionis illulhabac'/nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit.  Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires difficilia ardua^ aggrediens  tes amdi foliciti^ perpaua expedatione pendet. Alii terram inter fludus tangens  tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in fas  alatcntiacontorqurantur.Nam multi cum impetu perturbationum ad huiuf^  cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula fibi improuifa  inddunt.Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes ttahat.Nam quis non uis  daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre omnino apparent rari nan  tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium turbaiquos perturbationum p  cclh]dcmagit:paud emagae ualentiFado enim habitu pauci ad portum enare  pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a temone tcuulfus imo in przceptls deie  dus in profundum ruitiCum enim ea animi pars quz uitz regedz przpolita eft  fuaiicde deiidtur/adum iam de uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns  Iliacum lunonis zoli^ culpa acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui*   i In. P.Virg.M.AIlego.   tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda cxtuIk.N(ptaliutn  mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia alia quo^smaf^o»  mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui prxfantimouet' enimilfe iudit»  fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum tamen impium fupioii ronirefenu  tur.haec igif r^tio quam nuc neptrai nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba«  tionibus rapi uexariip uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde  ipfius appetitus fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum  rapi cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta  tam intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw  ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non cohi>  buerit:fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi uni affecat cuje  zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer increpariqui impio titanum  fanguineorti/deo^i regnum infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd  filios fuilTeiAftreum aut unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad«  uerfus deos imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>  periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali  ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui  dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi  demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund  ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic' uentM  c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario fempi&nalurc repu  gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus comittunt perturbationes i qux  flultitia 6i temeritate humana gente appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm  perio fubiedum turbare audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues  ti:fu(lcc^ impium pelagi fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw  iufcrmodi illud e(fc oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi  igitur fentemiam commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui.Qod  (1 qua in parte fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius  IcKo quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore impe<  diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori animo  refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp eft etiam  quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos ex iis qui & ha  bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam indodilTimi hominis in at  rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo ingenio tam diuturno nunquatD  tempore hadenus uenerant.Ego inquit Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu  hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum quia accidere in tanta rerum copia at^  uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut cum plurima eodem tempore fefe med of  ferant: nonnulla fint:qux fic fi non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimili*  tudine percipi pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp ediflicrae  turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam mi  hi pamittis licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum  cftipetam nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno<  fisata confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac edam Liber tertiuf   |nthinuHorib^tne(!erat!ges«Vcnicqdetn.Kamaiffi nKo adiuiDis ad humana  abducenda cftinullum pene maius przmium proponi pote(l:g pulchrum cafiu^  m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz eft coniundionis maris SC  fttminaeezpIetur.lndefoboliseft|>pagatio:quxquidem non fotum uoluptatiii  tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati confulit/ut etia morrui aliquo mo  do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH  oni rationem habcas/quicq eft prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi  amiquod alio paulo pofi foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura fcii»  pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci mithicon  nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec^rent: Alterum nata  rale/idenimeft phy ficonrper quod comode uimnaturxexprimuntiut cum per  iatumumhlios omnes przter illos quatuoruorantem tempus nebis denotant:  ^itodii quatuor elementa ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero  iccirco ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur  Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita confunde*  re:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore &  aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina alantiac nos  adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant: Nos aur quo^  ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis operofum ne  godum |>poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis intra ciuilis generis ca  cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter illud paululumtqd mo*  do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam reliqua phy Acen fpedanr.  Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe eafcp lunoni nymphas attributas  exiliorum enim intcrptatione luno aer cA* Aeri autem feptem quzdam attributa  fuiit.Septem itidem in aere^ignum''.Q_uz omnia ipAus folis tunc maxime cum  in noftro hcmifpcrio ueriat :opera proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica  tur eft aeris ut leuisAt:ut mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitumP Utlpirabilisxbasigic ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz  in aere gignunt pi imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu  li minittras pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo  Dat :fcd eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^  us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a ter<«  tia niger color perucnitxContra ucro partes quz in ca purz funt croceumiquz ue  ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem remittuntibzc igi  tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex fequutur phy thon come.*  ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no  grauereniuriniii ex tnbus illis quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu  ilTemus: Vaum cum uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur: faci*   ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem pr  acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod  autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no  carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io cu  pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ; p  1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita perplacentuit nihil in iis prxt»  rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de ratione appetitu^ diziftitfed uide at  pugnantia Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu  netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic  impetiutn fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe  datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett No  co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut cum deage  dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad raquz afeifeenda funtimpellati  & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum quemadmodum in bene inlhtutare  publica fupremus quidam magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t  alii tamen aifunt minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili  totius uitz imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic  ge propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum humanatum  decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft fupremus ille magifha*  tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede faipcura eil zoium no niii clau  fo carcere regnare: quoniam in uita hac communi ac ciuili potius cohibetur appe  titus ui quadam rationistquam quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo  nas affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio autm  fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun  da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo  letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe  uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita  liam tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu  manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentosqprimumanutire*  mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi  tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur : quam illi ab  Aenea acceperint: nec iniuria . Nam appetitus a perturbationibus inuafusad  tempus uexatur « Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicae  tit/ quoniam fummo lumine animus illufiratus nunquam deinceps nec ded  pitut:nec labitur : neccfle eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio  fuerat in nobis penitus fepultz reddantur. Q_uapropter non fimili pasnaco  milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz fequantur . Remotis uentis ou«  bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas fugat: Efi enimboc  intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones profequatur : in unum  congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis tum demum folis lUe  ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe & totos  naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas currens fi gtzcum uerbum  aduertas faale interpretatur. Triton autem neptunni tubicen babetur. Iftaigi  tur duo numina afcopulis cupiditatum naues reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio al Tequimun  cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde accepta pd« ' I Is I a :v t Ii* :lil i i M d  nit ai fli iib idi &bi m Ml   ItM IS it alti nbi   lii» IStl' uti  «m 110   0» 1 » ufl «I (i ‘i? iit tf  Liber tertius tnumilluddmotlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut  Cubidaes fuo przconio mandata prindpis manifcftiQtidc dodrina quid ucriras  4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus  fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus  ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc ad  reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti Troiani  cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum carebam  ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam fpecu!ationis:cartha  ginem adionis figuram habere.Quapropter id nunc exprimit poeta quod in  humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim multi:qui cum ne<^ in uoi^  luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus fummum bonum inueni^  ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe humana omnia Facile  poircconcemncrci&reorfum ab hominum coctu contemplationi incumbere  cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam reliquerunt cum tantum relidam  tum rerum defiderium infurgitiadeo^ ex recordatione tantarum illecebrarum  cffeminanrur : utrurfusin fummaspcrruibationes incidant : qux quauts tan«  dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi defacigatit^ relinquuntur ant  mi nodriteum non fine difficultate tam horrendam tcmpdiatem euaferintiut  latis fupert^egiffe putent fi focietatem humanam incolentes qux immania 8i  humano generi pernitiofa funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in  ucnfpeculatione'pofitaefideccrreantut:animaduettantqux hutufccmodi ui^  tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum Arifioteles maius aliV  quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet fecum fic ratiocinantur.Non-  parum erit uoluptatum incendia euafiffe : Thracenfium rapinas euicaffe : hac  harpyarum fordes & Cyclopum immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non.  pofiumus: quod diuinitatis potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis  reprehendet ut in hominum locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam  ^ nati fumustuerfati prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa  rati pro pania ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus..  In omnes qui nobis fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus  nofiris aut egenis liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo-  firemusiaut iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate<^ noffra fub«'  leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp  inipfam fenedutem : quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf  uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt  am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe confidunt:  Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad meditandum in agrum  inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia inclinata iam die/  id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis ceffante.Conanr prztereii  Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio corroborareiqui ufutn potius    lQ. P.Virg.M.AIIcgo<   triqaam aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw  teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere rem  publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip  tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione exerciM  retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione quieuilTe: Xen ophi»  tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere laudant:Srn:m ueto in  fpcculatione admirantur: & beatum propter odum putant: Q_ui n etiam mub  tos ut fapiendorex fierent plurimos populos paagrafle oftedunt : Q^iuproptct  K Homerus Vlyxem fapientem propterea dicit:quod multorum hominum ut  bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac plura alia in unum collig^es/qux  tu fummo artificio ac prudentia nudius tertius cum hoc genus uiucdi laudibus  efferes enumerabas fpeculandi propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^  ad res ciuilcs agendas interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui  tuperabit/is profedo iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt  enim fua (ibi qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu  gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad imbedllitai  bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine fumma ratione  tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore defcribituricuius formam li<  tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in fece(fu longo locus:quem infula  portum ef&datiMortalium enim uita continentem: ea enim terra eft quz marU  nis fludibus minus e(f expolita nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti  busafliduofurentibafip undis undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole  beteat: ut aduerfus omnem uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr  obduret : Nam cum hzc quz momentanea funt:& tamen (f ultitia humana bo  na putantur fortunz temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in  Cendant conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis  unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in 16  gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus procul a  perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu hin:  fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas opponar i  rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf  ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu  unde tanquie^piti rupe labatis gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam  non folum noUra prudentia freti res magnas aggredimur. Vei um multo magu  diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota  tuta li(ere.Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba  tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus  horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'  am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem  tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz  nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef  fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz  dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo beata omntae e quieta tamen  'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum Tubcunt: qui fuprema diu fedati  ac poRrrmo difficultate deteriti fe in uitam focialc contccucnin qua ciuilibus  uirtutibua exculticuinuerrentuc laudem non medioaem reportanti longe ta«  ^en ab ea diuinitate qua quairimus abfunt. Quod aute feptem nauibus huc  iubicritiquodi^ reliquos c (copulo profpiciens requirerenquod detnu focioru  inopiam raritu uinoij rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu«  bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera  ut illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea enim principis cura efl^ igneexcitabit/id eft dcfides ad tes  agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos  Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui afTunt confulitiillo  tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione confolabituc:optimif(^ pcepds  ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi hoc uitz genus ut m eo fedes &  gere uelimusiSed effe omnes labores ac difFiculutes fuperandas /ut in italia per  ucniamusiubi demum fedes quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu  uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderatuoluptasiquzafenfibusprofeda cor  porca edet fit caduca: fit qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem uolua  ptasfuma prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo  luptas quz perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc enim opti  tni principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione humanz indigencizt  non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita in illa uerfabic :utcu quz ad  mottaliu inopiineceflaria funt ^uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt  iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in latio  inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos omnino ex  cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia tamc chri  dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu. libet enim  unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput nominareiqui uitam hu  manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis necedatia fubtrahen  da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille fufe late<^ de  Cmbinquod hic poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo restut fingula pe  ne uerba longidimas e platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua  IcantiSed nolo quod quidem hadenusnurquainfeci:itaexade hunc IcKum  profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea celeritate przteruolanda  fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in citatiiTimo curfu per«  (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado teraporisicum id etiam magnope  tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu  Iaera fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu  quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«  uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia  poetico f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit  unde luboyt familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad allegori  am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf    In. P. Virg.M. AIItgo.   Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de grauitateruaamittunttatridtada  pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias interprxtationes:ea(p folumaflim»  tnus/quz non modo in abdico non latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant.  Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc  temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio expolitu clTe puto.Ita^  teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti ftatuit ut prima illa  ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an ferz teneit inucdigarc.  Q_uibus untibus qualem oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a  {timit. At^ in primis illud bomericd approbat.   Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit uu'  uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes  fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca inculta  uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui  uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia uario^  q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^ r(mperincubant:ciuili con  cordiz faueancsLibertatem (aluam eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui  blia ualete uelint.Iniuria oppreflbs fubleuent . Superbiam fcditiolorumciuid  deiedam cupiant. Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de«  ni^iac iufticia omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt:  quoniam humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti  as/quotum pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri  mos qui fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do  lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo^ fit  honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe fintintetioress  buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis effigiem mebra:^ humana  retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no amplius hominesifed  immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis coetibus longe plu«  ra funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq inculu hortent: quam ea  quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta nitefeant: progreditur igif  Aeneas ut fingula diligenter exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima  comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re  publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut for  tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac au  tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu relinqua  turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis propoiito  adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum elaboridd/opus  eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum reru quz age  dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores obtorpeatnc.>  ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa dea/qualif(^ uideri czlieo  lis & quanta foletiEam enim fe tuc offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab  ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari amote di  uinaru rerutqui & ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit.Hic adt  catum reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte mataiademafz Liber lotiui li  io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt   s'4U  *•. utii at». ia? r   i*f   aO liii   ga<  'fb fihhQ_^uapro{iter non deam confcfTaafed humana fotma diRiffluTata fefe filio  offcit:ftin(yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu planius uobis nf  primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere : Trifmegiftus  Homerus ac Piato oftenderunt: Atm ut quot fentirent dilucidius exprimeret au  ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem demitti finxeruntiqua fa>  is gradibus eunda connedanturteuius origo cifentia dei cum (it eo ordiue proce  ditut ut fecundo in loco potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t  bxc fequitur fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit  xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by  le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refidetiPoifemfingula non fine fum<  mo ufu atip uoluptate oratione mea profequi. Sed quoniam difputatidi noftrx  neceflarianon funt brcuitaticonfuIam.Q_uamobrem exteris obmiffis deu prin  apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil igitur deo fuperius . Nihil  fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil illa uilius . Media uero inferiora fupe«  nntta fupetioribusuincuntur.Eft igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex  qua omnia corpora funt . Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet . Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for  masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam infpicias  formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi recipiendi faculta  te t & ut ita loquar confufe omnes continere uidetur. Materiam uero quia matet  fit didtur. Ceus autem pater: forma uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro  lem uero mortalem didt . Mater cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C  oeat : ac fua quidem ui . fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit au  teminfufione fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t  Q_ux res eum mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU  ux uero mattis t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb>  bere dicit : quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi  aatquibus uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux agi«  mus : Sxpe umen totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni  IblacauQefitutresmintentumcadant.Namquodamateria feparatumefitid  nunquam interit: Nunquam enim quod fibi contrarium fit capiti fed illud fu«  gitat femper at^ declinat: Quod vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque  lebabeatcuenittutuelutialteraHelenaintra teda uocet Menelaum:ac limina  pandat. Num dum foimas illis quas hadenus receperat contrarias admittit: fc«  cile fit ut cxtemx irrumpentes domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam  malignam non dixerit t qux familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu  ti fufiepri iam in fuam fide m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per  timtnam perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat etiam & perturbat noftras mctesfyb  k rn.P.Virg. M.AIIego «   Ui t omae ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St   At ignorationem ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire & Plato S  plaeri^ cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi  tur rationcmotus diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a  rent:proptrrca^ in uariis erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu>  blica princeps effe cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo  niam eunda quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv  tricis habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai  das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir  nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum temperatocai  circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^ tuentor  eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram diuinam eflie  fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam : cum animi magnitudinem atb  amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen quis non uideat illa  a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis non ut dcz : fcd ut hominb: K  tamen nefeio quam diuinitatem redolens : Nam cum Carthaginem proficiid lii  adeat:argumentationibusab humana prudentia profedis utitur: Nam K quz  de hilioria Didonis eruit : ea omnia falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp  rum przdicitmon ut deaifcd ut augut ex cygnorum uolatu przdicit . Illud aute  fumma fapientia czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe deam manifeftatet Ve  nus : Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta funt diu coluerimus ez illotn  pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti (imulaaa funt erigimur.His igitur  rationibus a matre perfuafus Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi  us conatus aliquis impediret . Et profedo fic fe res habet . Nam qui magna pru<  dentia przditi funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q>  dem fi palam facerent/autzmuloruminuidia: aut dulcorum infcicia impediti  illa ad ezitum minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv  tum libido nihil falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^  do aut dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera obmittam nonne  qui leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo actnbu^  erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius facere finiu  labatilusciuileSpatthanorumez Apollinis fententia faiplifife iinzit Licurgust  Q uicquid Zautrades apud Atimafpos conltituitid a bono numine accepilTedi  cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis tradiditiin Vedam reculitxNam q mul  ta q difBdlia inter tumultus militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii  la a Diana per ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna  nifeda: Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius difputatum ed nuquam optimis indituris  Si legibus temperata erit res  pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut przcipiunt aut prohibent ad eotu qax  per rerum magnatum speculation emuideritu regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug onuiia colligit: quae^iia 9  c*\Ili «f m ii m ta ai lU U Kl iiM ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^   F! jpb  (f ob 09 0* xb s 3 ib  <1 Liber' tertiui edam (apfari(Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus libris exprimuntur tamum enim ea parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus  V^^fe contra czliiniurias priuatisxdifidisfedefenduntiHzcenim duoprx^  fiant ut duitas efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut  nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:  Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur t  Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora ad ualitudi  nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^ negodis defatigatiihonefii/Ti*  mis ludis relaxati pofiint: Qua autem mente & quo confilio illos apibus com«  paraucrit : quzfo diligentius animaduertite t Si enim huius inferti naturam con  fideretis nihil illo aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius  (eperietis*Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam  contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C  opera fua fadunt & boftes arcent.Q^uicquid quzrituriid omne in comune qux  iituriQ_ uz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam ciuitate  cxmfiitues.Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut ofiendatur ni  bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et quoniam primx in uita cluili  przces funt/utimperium non folum conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab  re templum ipfum lunoniiqux imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare  longior fim:at<p etiam minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo  depida erantiquz a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU  fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at^ Didonis orationecontinentur:plu«  ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis deprz  hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif  fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe Sa«  lufiianum illud fi imperia iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind ef  fe tot mutationes habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref  fum ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita  paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«  minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui«   bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in libi«  dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius inchoatz q ab  Iblutz funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit exprimere quod paulo an  te dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis aefeunt/habere meliora initia / q  exitus; iccirco reginam a prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po  fiea amote infutgente paulatim ex temperantia in continentiam labitur : pofire»  mo uida amore incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui»  aminddat,/Moueturautemaprindpio Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita intuemur:Sed iis qux humanis cm  tibus non folum bona uerum etiam fumma bona babentunC^uis enim in ge«  neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^ excellentiamrquis deni^ multo  ornatu infignetn orationem inter fumma non enumaetiCurn in foro/cum in fe  t lo P. Virg.M. Allego*   oituhzc BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia  utro ta uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris.Muiti cnitn aut  tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui  n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici  fadam inducat.Mifere enim amis mulier plurimu^ iam de eo animi robore rt*  mittens: quod inteperata hadenusapparueratcontinctem in primis uabis qux  ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem/fed tameilli  reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif iNon enim ex philo  fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate ppoiitasaut ihcetu earu te*  rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc nec firma necfolidapror  pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip fpem det dubiz meri : foluat  qi pudorem.Q_ua quidem re acciditi ut uidam in incotinentiam probbertt:ln  ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica confuetudine eo redada eftsut nulla  amplius obflantr pudore furriuum amorem minime mediteturifed impudenUi  ma tffeda turpem libidinem honefto nomine appellet: In qbus omnibus quid  aliud teneat/quid conat' diuinius poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex  cmplar ^ponat/quatum detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin  cipum mentes pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:  paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu alloqueba  tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in hofpites/cofilium in urbis ex *dv  ficmone/iuftitia in fuos ad czlum ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu  blicz rei caufa cofpici nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi  pturbatione liber pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li  domi fine amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*  letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip fupnbust  quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant iniicimperfe  da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam fibi propofuerat/ue*  tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut illic fcdes ponereufed ut  claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi  abiiat:Nec deefl I uno.Q_u* ne res tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi  um Carthagine facicdum curet. Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop  (et: Venus aut filium non Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac  deam dolis aggtedif lunoiut quz Catthaginenfiomcaula faceret: eaoia Aenez  beneficio fieri uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa  alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem  nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi fmtiquaspurga^  torias appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati puenire conten  dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt" lutczlefhum quas fibi folasppo  fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi Aeneam Didoni coniugete: id  aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem pficere non ualct nifi alfeotv  atur eius amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd  Didoni cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed ipfi impio condodt»  ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd    - Liber tertius   cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus hutnatirs opor  trtifta^quauis falia e(recogoofcat:quae libido regnandi perfuadet tjmen ailin  titur;iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus confulendum cft mifaicordia  motus sCcldiratur autem huiufcemodi matamonium in uenatione:de qua  quid femiremptulo ante latis ut opinor uobisdiludde explicaui:Q^uodaute  in fpelunca loco fubtercaneo conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/  nifi cos qui honores/qui opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^  tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet  ^ nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia  iis quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo  K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo lu<»  zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili egregios quo<^ uiros  interdum a redo curfu ambitione aduerti:& honorum imperii^ uoluptate de«  linitos hiemis afperitatem& enauigandi in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc»  Q^uapropter nili diuinitusfubuentum Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^  mmumuirtutes tam pemiriofapefte pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe  fuilTe fcruntxut Vlyxis fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in  luam potclhtem ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'  ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas Iibidi^  ties fadle contcnunt;Q_uin & cos qui illis dediti funt rede monendo a tanra fer  uitute in libertatem uendicant. At luDonemfuperare ranOimi mortales potuco  tunt:Nam qui imperandi cupiditate non tangiturxeum omnem iam humanitas  tem ruperalfe &ad dioinitatem proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena  quos in fumma admiratione habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui  demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle  enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum cotenere:  At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum macedonemtautlulmcz*'  larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum^ a uero cedo^ difcedcre  fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud ex Euryde impium oma  nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum approbare non dubitemus;  putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$ uiolet : Q_uz quide res una  mouit poctas/ut Herculem quem fapiente ferunt:&; rebus a fe przclanlTime ge  ftisczlumafiledaircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua lunouis fzuitu  amfuperalTelingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima nouerca magnord  uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^ credunt } fed czleftiu  rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad fummum bonum peruenire licet:  (^uor^uide nili placata prius iunone id autem intelligjmus aid fedara ambi^  dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur hoc Aenz non condonaueritxac  potius quis illius no comifercanliDondu in italiaexillensxtis eoimeft fumaru  uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno  nis dolis apiat"' :uc matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»  nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac t pur^  puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti Uignia funt gelbrc gaudeat:    ' In. P.Virg.M.AlIego*Non eft o LA VRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti«qua tamen condmo noOra arduum-.tatntp «xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui* difpuututui uidaetut Mani^  hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio in iis qu* hai^u* dida effcni civ  fum^oitum ex multitudine eorum qux adhuc dicenda  quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual.tudinem<jno(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris:mibiomnid.ligentu«nfuJendi^!^^^   difputatio longius ptoducaturiAtquiegoitidm.nqmtLAVK£NW^   idem cenfebaraifed ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^  diebar prxfenim cu te o Manotte tuas partes fuo tepore  equide mquit MariottusiK fimul fua lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap  prehendem/nos ad cellulas ubi menfx paratx erant reduxu. rURISrOPHORI LANDINI FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM niivTASvM ^ laVSTREMFEDERlCVM VRBINA-  jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VlRGIUl MARONIS  allegorias incipit feliciter,   S Eruenerat iam fuperior libet Inclyte ac InuiiSi^me Fedence   in quotundaro hominum manus 1 qui cum dofli linti dry  aiffimi quocp & haberi 8£ dici uoluntiQ^ui quidem quauis  'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC fenfiffent/8: pri*  'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus : qux  I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo   F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el   fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a J   IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt probandum   fcriptoresquipauloantenoararoxtatcmfueiut minime illiiteratosiqui non J L/indelMos« acute & doaeinmpretati naturam tetum il is exponi conttn   los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm   nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£  A ^ ;,FMmffeuteademilla& aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad   wriuruoluputtm f eferantur.Verum cum confilium mettmij   tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper   ipfo hn«qu3nf.bie.ration.fcriptotpropomt:  ^um fipttahujomnuiniiriludingttut» ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« . Libet   ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae ille ttadiutamdegett»   M damt& ad fununum bonum acquirendum (^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC'  B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue   I» riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi cao  Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter fe t fed eoru   li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id fulcepti operis primum efle feu  ^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita   ia intezuimusrut nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci  Sh pio przpofituffi cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe   menta cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby  fictnrclatafuntminime damno. Nam quauisca ne^ multa fmtine^intafc  haaliud cz alio pendat > ut non potius membra quzdam diuulfaequam integrn  corpus uideantur t tamen non incommode traducuntur : ne<j fententiz nofoz  ccpognantiScd fac repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum audori^  tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte poifimus/  quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut omicta eos  quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos libros in fiogu  los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio exceliend inta  platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuoHieronymo & a di.  uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur : nonne e  noftrisOantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem faabe«  mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad fuprzmum ufi^  czhimpcragcatiineolibiillum ducem fingit/in quofummum hominis bona  paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam proponiciut cu  paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i diligentius infpicie  . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio ea quz de medio ztatis tem   ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il  uftntoconfaipfit:binc omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in Oantfais  poemate funt:ut non nili a paucis iifdem^ dodiffimis dcptzhendi pofiint.  przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad fummum bonum.non au  tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo fuilfe : quod paruo  omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego inilitutum repetam .  Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera fuperiora fic Si ilh quz in  ultima quaru diei duputationc continentur/diligentillime leges . Multa enim  illic inuenies propta quz te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo»  pae lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia  bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto ta  dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod reliqui prin»  dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis mircelcit:aut au  cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide homine nili relaxan  dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui aliis imperaturus fit  nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed & iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu   mifll rantjK dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo  limum prodifft po(Tit.Q_ui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu   cus inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro  hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere curcts  Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. Aphilofophia enim habrmuatui  pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni fcelereabibneaniust  b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a pbilofophia afleculum efle/  Ut ea beneuolens/« cumuolupute ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv  I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi   Igitur fludia teita exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi  finequibusnemounquamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa  quibus ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit  to>Ptxcipuam autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii  prxterire nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx  ferri poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel  phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula florentit  fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege iuftina mitabilifip cie  mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec fortuna unquam drfuinSed nb  bil in fuis omnibus aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera  liffimu oibus litteratis hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem iis qui aliquid fcripfif  (ent debere putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed  oratori copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum  in fuam bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe  cetitttunc optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya  lege elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam  abhebrxisinterprctatetur.Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti  in fuo regno fetuirent diligmter inudligandosiat^ tingulos uicrnis drachmu  redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus  adeo ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf  inde legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit  Arifteaside quo paulo ante dixi & Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men<  hm auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi.  Mateiia uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta  ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/  ad quinm milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi'  fent i non plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex  fingulis tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo  conuerterent. Q^uorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui diligennus  rem confiderauennt Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra tempelb'  tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis luce cla/   liua apparebit ; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui   nfeaumnonfdlamutiiuerrzxgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^  dcaurt argenti^ inaedibilisuisproueDiretired Tyriz quo^ ac phcnictz tnaxi^  mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo ignorat. Adde quod  quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at^ Europa prineipes habuit •  qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos benore opibufi^ bone  |^rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret magna tamen cx parte emulatione  quadam excitari uidereturme quos opibus uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo  tix genere fuperaretur.Tua uero benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi*  tilbmafittfacileczterorumprincipum auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla  omnino eorum munerum quz in mulas con fers/gratia noftro fzculo eft bahim'  daxinquo neminem reperias ex iis qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof»  lis.Sed quicqd estes autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3^  ^ innata humanitate cs.Nam ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te  exemplar ofiFersrquem & ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid  aes/&ad ueri inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut  illam non glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud  admodum umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua  pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed foli  da cxprclTa^ gloria fcquatutxScd res polhilatxutiam ad noftriim heroa rrutrra^  murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum facile recognofces.Co  ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta huius difputationis dic. AN  ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem expetere uultu gcftucp fignificarcm^  illexurquz explicaturus eilet iis quziamdida fuerant commodius annedrrrt:  buiuiinodi difputatiotii fux prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi  uiri qua piudmiia ac animi magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^  ueniunt fc explicauerit zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe  nitusobruerctucmondubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret:  pod hzc thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar«  ^ mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife interprz  tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam duilem in  Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis iam tertio dare .  Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus pugnauit. Nec  per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit: Prztereoqua prudentia  qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus immanitatem cyciopu de<<  ciinauem : qua indudria ac celeritate fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo  fiudio atramentis ardore defundo iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis  fc non pollet : celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm  pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id edap>  petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet • Verum in ditione aduerlilTimz  dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide quid pTolfit ambitio : quantu  ^ ad mentes maximorum etiam uirorum euertendas ual eat / regnandi i nquam  cupiditate dclmitus is qui reliquos iam perturbationes ac uirufupctauerant di<«    In.P. Virg.M. Allego.    uinilTifflumcoafiliatnio Italiam enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt  ut regnum carthaginmfium coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb  a Mercurio non placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem  & rerum Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu«  am originem rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv  rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur ar«  guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita adminifbatio  nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut Ii tantarum rerum gloria ip  fum non mouet i Afcanio Taltem tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum  lulia; t ac romana tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit.  Nam li dum intra bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii  illecebris demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti migraaerint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur i futura enim uita  ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni dicitur : ab eadem^ li  focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto bono denaudatur.   Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam  Hic domus xnez totis dominabitur oris.   Et nati natorum & qui nafcentur ab illo:  Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas:quid mirum li uehementercom<  motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem  excitas cupit qptimum abire: & terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim  poteftatibus at^ imperio uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit.  Sed cum ucrum bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv  tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem inla«  lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam illum  diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum abduce  re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam illis uela in Ita  Itam facienda:Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea appellemus : quato^  familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur . Sentit tamen d(v  los regina :&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li  non fit alius Tapiens/qui Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca  robolcmfuperciTe.Q^uamobrem ratio inferior quam mulierem appellari dixi'  mus huiuTcemodi argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt  a speculandi propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo  modo eam deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran  tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non Tet'  uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te admi«  niHtarioni dederat zneasi Q^uio di Te moritiuam Tidc Teipturedocet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi nsilii ntoi iU IIlBl' lO* loli   niii jA«< Dlli   tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut labores ma^  jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri fumus.pofiremo in hoc uche><  mentet mlifiit/li reuotetetur ad Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen  illi efle concedendum: ut honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t nondum enim nouerat Ipeculandi uitam.Dcmum ad c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad memoriam  reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne domum labent em  dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora ingcniaicuia  parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum patM ne dcfci'  ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum uer^umfitineim  perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis auaritiaiaut larbc tyram*de in«  uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius (apies qui (ibi fucceclat no telin  quaf sQuz quidem omnia cum rerum agedatum rado animis noSris obiidatr  non pollumus non uebemeto comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo  quttum generi humano debramus/grauifiimeadmonetiut humanitate eruere  uideamur/fi humani focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men  tem fola eficiqua boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis  pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut quo|>  pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe reginam. Quis  enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK uitx genere fue*  nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus hos reget attus:Nam eu  derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in fpecmadone dum uiuit uetfef : ut  uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu  ea no cotraxerat matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur:  illif{^ coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd  damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine  deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit fuperi^  ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem fentendam trilTa^  ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto qux ad plurimos uerfus  dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum amorem detefienf :at^  tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam mrpem/tam pctnitio.«  (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in platonis fympofio de  tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex quibus pauca qux a nobis  cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria (i repeteris intelligeris umSu  mum effe Ptoperrianum illudiDurius in terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d*  autem magno pedore curas pcrCmfcrit xneas:fit tamen mens immota man ferit/  oftendic uirum qui deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in  quam Didonis illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore  urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus nobis  pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium furorem cxtrcmainij de*  f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus. Aeneas igitur deorum admi}«  1 ti  In. P.Virg M. Allego»    nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis gubertia  tor negat ea tcpeftate Italiam peQ poiTc.anenticur zneasiut in Sidliam in qua in  fula extindus parens nondum debitis exequi is oraatusiacebat/dcfledat. ^uo  in loco quid fibi palinurusuelitline ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’  fi cogDolcerepotcttsicum enim huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob  tuar' inon modo a tedo cuifu auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft}  pctixpc infuam femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama  corpore cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de  fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux  non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in lulia  nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res j>ferat:fedil  Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum comites  penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu adminiriobantut  abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct foluturus.luno uerocui^in  troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis diuturnitas explere poterat : qa quo  illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet' oblatam occafionem non   5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille mulierum genus deliderio ta<  em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis ut naucs incedat pfuaden Q_uz  qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no uiros/nam pars fupior rationis  non facile his rebus frangit' :fed ipfam inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p  fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo tedium longioris nauigationisrefii  giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus inglorium odumlongccarius (iu  q honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq|  uocatia regni malignis mare oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe*  tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit' nuceaabfentepaularimfenfuumiiiei  cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres  inwcndioafrumeicaduriunt.Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas,  ferebatur incendiocupidiutum perire o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci  Ius piculum (fatim ad zn eam reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu  fiodiam telidusiNam huic parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc  fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis  (.nobis ingenita qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau  lem nomen ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura facir   leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere temaduitutefcrt:Q_uo  nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas aduolat : Afcanius autem  celer robuduli^ magno animo prxditus Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc  tari licet uigotem quendam ex ip(j mente natum : Hic autem nullo tenore pto  liibemr qum contra pericula pnmus feratur : Sequuntur reliqui t fed io primis  zncas : At mulieres uiris cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli*  er aduerfus appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt  iam robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl a  lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a Nam  optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad (uo»; tti «di  r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu   inutn bonum euehit/omnino perdat:fir^ mifera in bomine diftradio t eu atio  ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe tanto cer«  tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed limul etiam di  uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam qui ita deu prae  atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo minime derenc.Nam  quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis mulieribus auxilia deo«  cum pararitrededidumell.Non enim inerti ac delidi/ K qui in fummam rr^  tum defperationem prolapfus nihil contra pericula parat auxiliatur deus. At  qui magno aduetfus difih^ltatea animo infurgit:qui nihil inaufum: nihil in«  tentatumrelinquitiquincc periculis terreturmec laboribus torpelattis profo*  do fe dignum f^tcuius S dii d homines commirereantur.Q_uapropter fapi«  enter Aeneas ciun nec uires beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx*  cesconucrtiturtauxilio^impetratotcum iam quatuor naufsaiTumpraeeirentt  teliquz ab incendio feruantunCum autem naurs ad totam turbam tranfuehen  dam deeflimt terat fenis nautz conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin'  quctctursutbfm illis habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum  louis enim iulfu locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue  iocum nili uos aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo  lationem fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim  animi uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc  ucbantur incendio amifcrc:Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau  tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagiRra Pallas fueritteR enim a fapi  entu dodus : Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a ra«  bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm lo>  ue iu iubencctconuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa etiam fupeno  remlocumarcendensafFiciacurintellcdus:llleautem£(iprein altiorem gradu  cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum comutatur . Hmuic&>  modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non tamen prius e lidlia foluict  qua lacta pie tite faaatinorat enim qua laboriofitquiip periculis plena lic h\u  iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz molis erat romanam condere gentetSed  nec Venus quicqui interea remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia  drcufpiciat.ln primis autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa  amor quo ad fummum bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta  tur/ut appetitum m fua poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol  bcctuciNihii enim denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell  ptocula ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne«  ptuncu regnum marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc  czii uitilia lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte«  ma ergo ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,  re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca  dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no ne cz  oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam tendenti    In. P.Vtrg.M.AIl(go.    flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi profedustulul altum (iifpic^  Q_uapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam ttaliam tangere potuerunt Tnv  unuSedundema Tomno opptcfTus mari cztinguitur.Nam poftquam rado  acarime ad contemplationem conuettitur:& caducorum curam reliquit : Nt<  hil ex iis qux fenTum petmuicere pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi»  tuspaulatimiapituctac fopmisezdnguitur: CIalCsautcmcnamline fuoguber  tutore tuta fcrtuc Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi  autem fluitate ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur«  nistezitiNam animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/  donec in uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap  pedtus tationalisTquiaduerfantibusuoluptatibuscaiitra obflfismEztmdoigw  cur Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris .In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam perueiuflet  1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in cartbagine    Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit quod in cartbagine  a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in  tranquillo efle uideremurmulla tamc nant anchora alligatx.Q uapropter qua  quam non omnino ucxabantuRin aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo  ra fundabat naucs: quo oflenditur eas ueluti fundamento nhex lint flabiles hx«  rcrcoportere.Summum enim illud bonum:quod in negociola & duiliuita a  philoiophis ponitur: 8t flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu  nx procellis uirtutum benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la«  bcfadan poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU  timum propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di  tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um con<<  tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame earum uit  tutumtquxfuntanimiiampurgatitNamnihil fibi diffidle iam proponeretur/  fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum iam conflabis  litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor rd aggrediendx.  Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus emicat ardens Lic  tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires cocurreretqux e me«  dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro fubieceranti quod autem ardens fit  concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te efl quod fit manus iuucnum.Ofle  dit enim animi bene affedi uires nnllo fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^  dati non potefl tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo  luptatem fenfus: fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi  nafiamisObfttuIainuenisfilicupatsdela feratu Teda rapit filuasinucta^ flu  mina moftratiinferiorcs igitur animi uires bxcagut. Aeneas aut quo nobis m&  exprimit" i Arces quibus altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil»  kc: Antru imane petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu  loca aprimBt. yadc illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n  i» la Ap OL ttl d bt ttn  lut % dt. QURI bii  iO  ni£ fid «w  Ots sed| iae N «IK Liber quartus   Nam cum in ui^tum in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa  ut nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue-  ri cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius iu  ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi efle Sybii«  be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp futura. (^u£  quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla percurr^mt  mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud grzcoseas mu»  iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura praedicerent t Eft autem  Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam dei conlilium fitn   tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem reliqui graeci nom^   nanttQ_uanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos bocno  mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz linn  faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego omnes fi  quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non grauarenSed ut ui>  ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis fuerit uidifle Sybil  lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc autem nobis ca qux  Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam fapientiam uericatcmtp ape»  m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m obfcuto latete . Nrtpreme»  tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna enim corpulenta uebementei  cflifiC reliquis lyderibus inferior . Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis  longe inferiores funt/figuram iutc habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au»  tcmhumanzin fylua obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie  lumen recipit t ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu  lapientia non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re»  de Apollinis templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo  res fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»  muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute  a Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini  nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^  fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina  tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibusoptimisaitibusinflrudus fa»  cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus dzdala  a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium oflendercuolunt.Ve»  tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam nobis mudi panemt  fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim humileinihil terrenum fit  in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad fublimia czlefliai]p engaturt  Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a uitiis. primam enim cogniuonem  efie oportet circa mali naturam /ut ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex»  piati a uitiis fuerimus i nunquam diuina attingemus t Vt enim idem fiepu  ut icfctam/ negat Dauid quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi    Ia.P.Virg-M.AlIfgo.   cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo corde:(^uapp in foribus per qmt etat  in templum aditus homicidiu Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus  i|>onic .Hzc ergo a principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione  'non cft diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris dilco  dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne  asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri uad  is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam elTent adrpd  dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod humanz ra  dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii ducamus.Hocau  tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li femel labatur/non facile  furiet Altet liquonia corpore uac animuspauluquandotpeuia deflexerit/  flattm adeft ab Achate accerlita fjbillatquzadredudeducattledmira profedo  poetz ingeniu:qui fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri  na ea efl ut purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis  mens nollra quzdam Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai  tionem tamen diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu  .tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz  cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem hoftiastquonii  Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum putauenmttpro  ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas appellatur: Sacrificat igitur fepte  qmrapientiioptat:Ne(p temere didum efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace  tum:per aditas enim multiplicem uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien  riam ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe opponunt non pat  uam in re difficultatem oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz  dbus ab imo pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente  illi penitus deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit  tit le templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue  to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam:  marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor apparet: Vnde ab eo  quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt:   C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit  cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^  lusutipfe integer maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui  lis perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez fo  lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed tota  cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle oportetiut no  figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota exardefcensilli fetn  per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut nulla fit corporea labe  polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam na  qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia  nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ & diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi  ctt & S jbilJz penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa; alHduo  labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Q_uapr(v  pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi ad  bbendx : quibusiqux didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri  Inis ne refponla frondibus (dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim  JibcUisfiCcommcnUrioIi SCTedmdafuntquzaddircimus:fed menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina ueluti qui in dialedicorum  fuperfluis apdunculis/ac uanis amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e  tempusterunt: Vereautem illud didumeftfybillam circa principiuih nondum  pbcebi padentem eflie : Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea  enim quz cognitu difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec  Apollonis enim eff neritas^nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo  •duntut : Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde periclis:  Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius : Q_ui enim omiffa ciuili  uitaad eam peruenitiquz in contemplandis rebuspolitaeffiille relido pelago^  io contipentem fefe recepit : Vita enim quz in adionibus uerfatur : fluduati ma  ti fimiliima eff : Videmus enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo  polita effe : Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo  do habent: ne^ in intoitum cadunt in folido hzret : Magnis itacp pelagi pericuo  lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa horrendao  ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum incendium ino  columis ruaderet : laborioTum ut audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi  ret : Incommodum ut ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio  deret . Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturrQ_uamuis  iter ad Helenum per medios hofies non formidet . Q_uh cyclopum immanitao  tenonconffematurrMariaautemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue  •baiybdim conrpidati^^ tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau  &agium faciat non hominis fed herois eff . prztereo quz in fodis in africano Kt«  tore paffus eff : quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga  •erit : prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om«   nia gtauia ac tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia  duriora paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com  muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf  dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : & illarum de  Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta  tnus : tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut  nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve  Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat ccr«  tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat. Ve»  tutin Italiam Aeneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a  quibus antea quam penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc«  adsetidum nofftt aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc  l^ta humanam imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i   tn la. P.Virg.M^AHcgOf   inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian U  atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem erigiimjt.Q_ua<  propter intenogatus quidam qui in littore folusuagabaturquicum loquerctot  rcrpondi(Tet<p mecuni loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1»  quaris/& rede quidem t Non enhn facile Sicipionem inueniaaqui nunquam mi  nus folua elTet quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj>  bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt / nolA  uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV  bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello  cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati aduerfabatui i fic & fpc  culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft autem ex dea natui  achillcs / quia diuiiu quxdamgenerolitas in animis noftnsiolita eft t qiuenctni  ni parere i omnibus autem imperare uclit > Hzc ft reda ratione excolatur/ueram  fortitudinem parit i lin autem contra rationem elata omnia in fuam libidinem  coouertere tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt  ft uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem du.itsNd  autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain tantorum  malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz: lic ft  in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t coniungitur cztemz  mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis deledatur . Q^uapio*  pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia uero cum nondum cupidiutem tc  rum humanarum deponere ualeat animus bella excitantur afpcta illa quidem /  fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt fed unde uidor triumphafiy  parto regno redeat . Accommodate ut mihi uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non intelligo.NI  (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam propolito ce oportet cur  illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim infiaot uirum etiam grauem  in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe morfu affici : non tamen ita magnoaf  fici puto ut ad pmnitentiam redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per  quandam hipctbolcm t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere  ut ex iis unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>  ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus qd  rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper obfer^  uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo omnia euoi  uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium przbenr/ut antea qui   ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne tantum Izdant prouideri : Cum animus  ipfefuasuires colligens tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme  admodum ii boftes incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv  co & numero auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo*  piz ii fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB  pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis multa  per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM femine oetoa  atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t nullis difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in originem fuam  redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus . Ha»; fecum cu iam  diumcditatuseffetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum in limine  contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in loco quid G*  bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i Si pnus quid infer  bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter demonfhaueto : Infemiim  igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no folumhebrziuerum etiam  cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos nocentutn animz luunt / af>  firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu  mentis mandata funt ea primus ad grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu«  is figmentis auxerut plaui^ ez grzcorum poetis / quorum principes Homerum  H^odumtEurypidem t Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e  nofirisfuntptzter Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa»  piniusacLucanus : &quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe  ta infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx  hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu  liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica re<  gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius profundiifimo  antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile fuit uulgo petfuadere  inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in epiro no procul ab beraclea  abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per quam cerberum tricipitem  Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit antiquitas : Nam de auemo lz>  cu nihil efi quod referam: uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe  tishadmus . Plato uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula  ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam cor»  pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo deo ae*  atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum conuer  tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum pollit non re  uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem huc^ut ita loquar^  tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz naturz impulfu ad fuperi  ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius radiis ita illuflrantur ut ubi hade  nus eorum efientia per fe ueluti informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' :  fit 9 miro quodam modo ut intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^  terna quzclam Si aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob  foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac nattis  talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz infra fe ezi  ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum uero Si aav>  ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim fi iamconnamra«  le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo continget : I d tamen men  ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti fcintillam deo propinquior fz>  da aliud accipit lumen & clarius quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~  f  l Ia. P. Virg.M. Allego.   nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te L A VRENTI latere mmitne puto:  Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd omnino dilucide a Marfilio noftro  in iis dialogis explicata : quos ille in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no  mine zdidit : Q^uos quidem cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri  mis acfeledilTimis rebus abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi qui»  dem inquit Verum przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin  quo geminum in nobis lumen elucere demofttat : naturale unum & ingenitum  ut dicebas : diuinum alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu  ti geminis fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat  efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p  pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero (bIo:propte  rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s uirefi^ fuas : quz ad  fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad przfensomiflblolum confide.'  tet : illafcp in corpore conflruendo exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.<  demus animus noder ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il  la quam dicebas cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe»  ra defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia Plato  nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio cdtnoscam  boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis congruam putamust  & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur bipartitum mundum ponunt.  Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur dellis^ut cd apud poeta^arde.*  tibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt :eofq) campos elyfios ac beato  Tum infulas nominarunt : Saturni uero fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut  fufep quicquid fpatii inter lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^  tribuerunt : Altiffima igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne  dar uocatur i di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni  num pomm dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho  minum porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^  terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata& ueluri  temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum cupiditate ilie«  da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis czlotum ordinibus aliquem  cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus acquirat:Nam ab ea  quam faturniamdellam nominant ratioanandi& intelligendia loue agendi a  marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi cocedittMox  a Venere excepta defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de  fcendens ab illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires  acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia feruntur  delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda iurc apud inferos  relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in fepulchto demerfar  non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur : licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat  artus moribunda^ metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu  tcnt:& quem animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^  lanturpoetzea omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam  enim protrada nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema  gaturtFIumen autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj  giam paludem deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu>  tenitMateriz enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur.  Q_uaproptaiure lethzum nomen ab eo quod elt.  ficenimobbuifei grzd dicunt potare finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma«  nat: quzrcs gaudii priuationem denotat: quafi Nam   quod in dd contemplatione purus exiflens animus gaudium aedpiebattidom  ne ex obliuioneamitdttquo quidem amiflbt flyx quamfadletriflitiam intere  pretaberis exonaturneccite efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.<  dunbQ_uis enim ex triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz  cos dicere: quod latini lugae interpretantur. Ex diu<   tumo autem ludu in furoris infaniz^ ardorem inddere roIemustquemphe.<  gethontem nominant. Ex hyle igitur unico flumine mala hzcomnja eueniV  unt:Q_uapropternon fine fummadodrina ex letham reliqua fluenta deriua«  ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate latius explicantur : N obis autem de  multis puea ad bunclocumtranffnenda fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen  fus ad inferos ex Platonis fententia perfpicuus redderetur: Noflri autem qui  ita a deo animas aeari redifljme fentiunt: ut eodem momento & creentur fi;  fuis corporibus infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut:  ut commifla purgarent :Q_uid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus  peccarepotuaunnfedutfuisrcdis adionibus: quas omnino liberas habent cz«  Io aliquando frui mererentur . Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii'  bere utaemur:non ut per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem  fi; iuflitiam nobis fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam  fiultiriam illud negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua  nilc^ fceleribus coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf  cemodi animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo  cum arca terrz centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani  ma mea de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in  corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim eflcctro  infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio animante cor efle uide  musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a luce remotiflimz fint:fi; de  tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur  in terrz cerro infernus:fed ita erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli  gunc ad aere uflp huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno  hadenus ad illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii  fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de  fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL  In.P.Vtrg.M. Allego. busad inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines cuminid  tialabuntur/ad inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat<  minibus fieri uelutidefcenfus quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum  praeter bos quatuordefccfusqnrusquicftnonuideir omittendus: Na £( ad in«  feros tendimus/cum lumen rationis noftrx ac induihiam in mali ac omnium  oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego igitur libenter de te feifeitoro  Laurenti cum haec omnia perceperis / quid putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu  um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo :Quis enim non uideatuni.  uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam a  me fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t qui afTunt  omnes mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas ac dodrina  huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia cognofeere ualeant.  Hos igitur duos erudiendos cum fuiceperis : propterea^ rede netan fecus  quz hadenus difputafii teneamus / nofie cupias fine ulla cundationequaxd.  ^ rogaueris / cerpondebo: fic enim & errata facile emendare poteris : 8i fiqd  rede teneo id tuoiudicio confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla  quam tu iam dodrinam interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.>  cat: Q_uod cum petit oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem  fualitatem defcendece . Vult enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere: fed  uide quantum tibi ex hac difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut  hzc a Marone diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia  quidfibi nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu  ueto fi placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris;  Me autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum  audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'.  lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod pro  fedo nimis etiam q utilem uerum efi:Naracumprocliuesutfenexquo<^Te  rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus / facile in uitium labimur.  RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^ 6i   illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in uitia labimur   ? [uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote  acilius inuenies : fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro  cliuitas pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet .  Mentem ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma  ximum autem fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.>  famur / ita illarum illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile igi.>  tur fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus rcuocatur.Id enim  eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit lupiter: aut ardens  euexitad ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut uides hominum gene<a  ra ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus pofirei>  mis dicemus : cenfet Plato quod paulo fupta explicatiur demonfirauimus  animos nofitos rerum terrenarum cupiditate degrauatos incorpora dcfixt>  Liber giiaituf   Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft deo  'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in re»  lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus ani^  musillius cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/  utnulla deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni  infccoIKgms integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium de*  clinet ipauladmcz illa obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor»  tniTccbat Teexatansualet libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom  patate. Illis autem fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re  gionemfuam reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi  mus /& eas quz uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun»  cupatt&eas quibus in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religio»  nem nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit ad aethera uinus:alam  primam exprimit : & uittutes qux de uita & motibus Tunt intelligit:cumde  indeaddit diis geniti potuere figniHcat alam fecundam :at<pipfam rrligionem  quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt conftare uul: Placo : Hxc itaip  auntopbilofopho mutuatur Maro cuius quidem dodrinx non nihil ex ma»  thematicorum fcntentia ita addidit : ut nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi  merctmeip cxleftia corpora fuaui priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef»  Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non modo id in religione noflra impium eiitr  fed 6t a Tummorum philoTophorum dodrina abhorrens : Verum ut intelli»  gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum elfe / refert ille in Thimxo ratio»  naiis animi effedionem nulli nili deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac  ^ rationem animorum noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par»  tcstuteaeffqux concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie  Q_uapco{aer St li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen  quia nullam adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap»  petitum exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»  dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur quo  fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores pertinere diximusr  ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm refpiciunn Nam li on»  nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a corpore eritrquod alii inge»  nioiudicio ac memoria excellentilTimirxillanttln aliis hxcnulla appareanc: cu  autem omnis nofira cognitio ab iis qux efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux  loco 8C tempore nrcufcribuDtur ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif»  licultas animis noftristut intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt  cumuircsillx:qux paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru»  mentis utuntur deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi»  lurapud Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad  Superos redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus  caquam oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur  opus ciTe ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1  In.P. Virg- M. Allego.   Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo ortu benigfle a(^e  dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita ut ad eas quas diximus alas  recuperandas impelbtrcolligamusigiturnetnincmabinferis rcmeate/nili al^s  recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui benignitateiiderum adfupera eti  guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens clanculum rubmurmuraftit Nempe  id Tolum refpondit.L.quod paucis ante diebus cum T imxum Platonis in maoi  bus babetet:mibi de anima mundi dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi  progrediendum elTe uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam  cum mcmoriolo litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo>   co apprime quadrat : cenfet enim Plato rationis fementem a deo fadamianitnof  ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos corpore traditos:  ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus informarentur: Aequum  enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^ appetitus (alutis corporis gra  na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos corporibus inclulilfct: Vetumquia  faz partes lubricz funtipat fuit: ut qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif  fet idem ipfe aliqua ex parte aberrotibustueretur:labenter<jfubdetatct.Q_u3'  propter iuflit illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl  obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus fulgo,  rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans mundi  animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis & portentis autio.  terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz legis cognido.  nem perducit : ut eo duce alas recupctcmus.Huncautemmundianimumue  tetes theologia qui illos fccuti funt Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc  pbcus lupitet inquit pnmogenitus eft:Iupiternouiflimus;lupitercapui:Iupb  ter mediu.Vniuctfa autem e loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo.  ^ uides quodeun^ moueris i Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io.  uis omnia plena. Sunt enim omnia plena animo munducum ijle ita totus in to  to mundo fl£ in qualibet parte totus : ubi^ uigeantutnoftrianimiin fuison.  pufculis : Hic deniip czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di  uerforum czlorum fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur  eiremufz:Q_uantam igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili,  tis mente concipio : quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos zquus  amauitlupiter:aut ardens euexit adzthera uictus.RedefiC illud tenent  nia liluz : Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra duldtia/  & omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos redeant. Ve  tum de remeandi difficultatibus badenus : Deinceps nero eas exponit rationa  quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem lamusfapientiam  nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum agendarum^ rerum iu  dex . Ne^ mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc poetam obtinere  cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens aurum & multitudo  gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in rebus   ^entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (> i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd:  od Nx m HC pn ioqi  iHgg imc ttdi di(( dux BOC (jB) da. Bidi   BUi   liuBi   Btit   imt  «D!  feuii   Uni   OlC •Wl   D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum : Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis  lordibusaurum coinquinatur t Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet  arbore opaca: mulus cnim ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco  ca cnimcorpons^uc ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it  illud erueretScite enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^  tatem demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW  mus : quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^  am (ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz ni  bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus nullum przte»  rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum eiTet.llla enim irretiti nulla  unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo non deficit alter au«  reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali<  ud aperiat: nec quicquam percipiatur: quod ubi perceptum (it ad aliud percipi*  endum non diKat : Illud autem quis non uideat de uero uenifime didum elTe .  Nam alte inuefliganduse(l.diuina enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^  non infima hzc at^ aduca infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex  iis efi: quz nullis terminis circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet  ptzterea iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem ita iubet . Nam nili cer*  so quodam otdine pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim poffremu  illum facile te fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus  tunc nec duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz  tedum zquumij relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu  di e corporis migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau  ds ommno datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata  uocant : Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ip*  fum cognolcere . Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea eunda effice  lequz cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima depen*  det . Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione :  nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur . Huiufcemodi itaip ordine  rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam : Secundam prouidentia : Ter*  tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec eadem (nt fallor^fentiant:Fa  ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia Platoni irafcanturifed cum uidif  fent clfe quafdam in pbilofophia familias : quz eam fato necelTitatem imponat:  ut nullam io adionibus nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif  fe uidentur. At nos eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de*  um retum caufas id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni  ^ gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia  excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:  Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam ita  mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore dteuioi*  pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens fadiifcp feque^ c  Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem munere ab ipfa dei proui  dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini efirReduscoim dotdnus & reda    Jn.P.Virg.M.AIIfgO*   confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis rniffl  adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu caapcruc«  rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina illuftratis detegere  coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes qui in aliquo dodrinz gene  te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum multa eodem (ludio dagrauerint t eatu  dem^ operam ac laborem impenderint alii fummum in eaatte attigerint: aliis  autem uix in poftiemis confidere licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb  cio fibi uelit : Q^uod autrm ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia  us rede interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim  fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat glo>  tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui in uita ct»  Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt. Hi cn<m non redi  honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam dum aSequi cupitmuS  rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium incidunt: Egregie  igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam uirtutts. Huiurccmodiigb'  tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi in litam/(iue indudna/atcp exetaca  Cone comparatam penitus corrumpunt. Non enim uirtutera ammt.^cd uita  tutis infignia i qua; fzpius malis quam bonis exhibentur . inanis igitur atip ad»  umbrata gloria in rerum publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada  hatret . Q_ uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim  caritate patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa  (Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum fpe  culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts hu.ufcimodi  gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore roifcrnus extinguitut  quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium enim ueri inuedigandi a onlctni m  tcritu optime funiitiir : Ncc tamen fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu  tur : ut nufq jam urdigium illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au  tem illum tubicine fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni«  num : ut rrs a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle  dant : Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne  gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem glo  riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur . Rede Si nlud  quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp accendere cantu.Q_^uid eni  aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de innumeris aflaticis regibus te  feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non contenti patriis Enibus multis popu/  lis ac nationibus beilum inferrent ; Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo'  fescxcitauit ut magnam Aftx partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni'  bali ruafit ut bifpaousgalliift^ fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud  njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium: Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC''  ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam famz cupiditas. Cum gloriam miis  rebus quzrerent: quz dolidil Timum uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn  Us autem ad iuihfumam indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi  d DCt  BIB  I»  '1 ip» a» K*» , tUH cnu   cpi)iii   100 ad   siil  itd  id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber guartui   mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti ptomptiilimi prz  ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem ruebant igloriz quoq; cu  piditate extremum cafum zquiore animo ferebant : uis enim ftbi perfuadeat   aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali prziio apud Salamina gcflu t aut Epa«  minundamin ea uidoria qua de Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo  eidam in tbctmopylisuirilitcr pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim  oet^ Brutum lingulari certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne  a Sczuolam tanti animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co  jf^ifimos hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz  nitz prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*  dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur. Ita«  ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute demens  appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a caducis ac cito  perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft & a diuinis rebus proficifeitur   E fumtnam temeritatem zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed  cad rem noftiamtReliqua autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp  aurium uoluptati concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs   d o fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit :  t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec iniu  tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor facile fugiut ho  mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed paulatim uolando ad locu du  eunt : Non enim hominis ell omnia momento uidete : fed ratiocinando gtada«  timacognitisad incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad  fauces graue olentis aueroi.   Tollunt fe celeres liquidum^ per aera lapfz:   Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt:   Nam quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^  tum contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«  tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora ra.>  pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt cernere pofTit.De  ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne efl quod faaa ab znea  petada in feriem noflrz fentenriz digerere laboremus . Inferuiens enim fuo ar.>  gumento poeta eorum lacrorum quz ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli  cat. Q_^um autem zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris  obferuare confucuerint : tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam  acediatur . Aeneas ita^ ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam  quis non uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam  oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi ue  ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes procul a luce funt:  Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is & uerum cognofeit /dc rede agit: illam  autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia Incidunt • Appellat przterea do  plutonis uacuas & inania regna . Q^uo quid ucrius dici poteftfEfi enim   u ii 1 1  I!’,! i;l I * i'i  In. P.Vir g.M, Allego.   nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef  fe; quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue  hemenf^ uates Perfius intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/  pit/O curas hominum /O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet  ad uin'a initium expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen  lucis apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa  principia non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes cAicif  mur quam intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin  inferorum ingreAii ponit: Si enim exfententia eius quem fequitur Platonis  deicenfum animorum in fua corpora defaibit / manifcAum eA animum qui  badenus omnium horum malorum expers fuerat in ea nunc omnia corporis  contagione incidere : Omnes enim perturbationes inde fentit: Luduenimea  riA^ angitur. Impendentia timet imotbos laboreAp experitur : fame anp ege^  ftate urgetur : omnibus denitp quas ille enumerat calamitatibus prxmitur :  quas a corpore liber expertus unquam fuerat. Sin autem prolapfum animor  rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari uolumus non multum diuer  fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate commilTum facinus confequb  tur quam fadi pernitentia . Q_u.r autem pernitet is Ane ludu effe non po#  teA . Adde quod confeientix Aim ulis affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim  illum a Aidux curx : qux ueluti ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune  extinguunt: uod quam dode quam eleganter quam expteAe pofuetit lu'  urnalis quxfo recordamini . Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn*  mittitur ipA difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens  abfoluitur. Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt  crimen habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef  fat . lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU  lentes habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^  mus. Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit  ut illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic  inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd  turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam ue»  luti cum fanguis in corpore corruptus eA : aut pituitabilis uere redundat  morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum diAotunta  animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex perturbationibus ue»  ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde xgrotationes   qux appellantur. Quapropter perturbatio quia inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan  quam in uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na  cum ex falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum  At pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati»  a quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»  ^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber quartus   ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui: Sed  & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime morbos di«  eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene Autem reAe refe  ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti iuuentutem admireritt&  ignauia ac torpore quodam ueluti fenio tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem  motsanimotum eS/ eum adere uidemus . Mala autem fuada fames quidnam  aliud quaauaritiadefignat: qua homines ad omne facinus impelluntur.' Q_ua;  nam enim res alia nobis fuadet aut iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef  (iere I aut caidesiK rapinas exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa«  rate: aut fidem fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf  Quod quidem fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii  cnim homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk  mam putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui  Ius pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt  tembilesuifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer •  fiintur: nihil praeter defidiofumooum quaerunt: Nec meminerunt homines  adagendum ati^ fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^  dadiunAusfitelfe fugiendum: De lato ucto fic accipe . Philofophi qui dt«  ca prudentis acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem  agendam afiumatut maximo fibi eflie impedimento : Senfus cnim qui a.cor<  pore funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«  ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum utatnrtfzpe  dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat . Q_uapropter mentem  quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore feuocant. Aic cnim in eo qui phe  don inferibitut Plato nos tum denii^ beatos futuros fi a corporeis abfirahamur:  ac deo fimiles reddamur . Hoc autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua  propter fijhuiufcemodi uiri dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor  tem illos trepidaturos cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut:  iniquifiimo animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi*  no Plato [PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia ca  probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri terribiles dixit.Re  fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^ uel mediocri ingenio uir  fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is tanquun fomnolentus ad omnem  honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam uoluptatem nifide rebus turpi.»  bus capit . bellum autem ac difeordiam non modo cum aliis : fed fecum geritt  cum aliud libido aliud auatitia fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero  ad labores aduocet.Q_ua animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au  tem deferiptione idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om  nino poetico figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:  fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«  bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut phip    Ia.P.Virg.M.Mlego.   gii zfopi ncmplo telido corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC>  fius notat ciun addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea  quidem uana: Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui<  bus fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul  taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua fot  tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft qui  ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem in  loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus qux  przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax  buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me  fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia abm«  pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^  propter eius cogitationes apnneipio aliquid humanitatis przferentes inim«  manitatemat^ eficriutemquandam tandem degenerant: Non infdte igitur  Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines tanquam fimulachro uirtu»  tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed mixta omnia at<p nota face*  re: Cum fuam quif^ uoluptatem fequatur/fummis petturbationibus ad fu*  os impetus delatus: Prolixior limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^  fcyllam profequar:in iift^ nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy*  dra ad dolos fraudefi^ referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo*  phiflaalidillimus: nam cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter  alter pa fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes  ponimus: Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»>  tione ille fuis argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl  ingenii feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra enumerandum  negesiNamut uera dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap  probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi *  meram aut ad iracundiam iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus ftul*  d in faxum conuati iccirco dicuntur / quia nimis illas obftupefcunt.Prudca  tes uero & Palladis zgide 8i Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no  uideat : Briarei autem ac reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu  lamrcdilfime interpretatur Cicero /cum id nihil aliud lic qua bene monenti  naturz repugnate : Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem  exprimet . Lis autem zterna eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita  ^ Gerion pars elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio  fo uniuerfz animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par**  tes / tribus illum infulis impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit  quia cupidiute llmul & timore laborat . His igitur monftris pettenefa*  dus Aeneas uim parabat. At Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia  fimulachrauanacfleoftendit:llIa^ non ui fupcranda/fed radone cognolizn  da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi monftra ad Acherontem Si  cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame  alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua:    Liber quartus'   que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit cogrtatio/drnide  adioquapeccamus:Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain per cum tt*  ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem excitatunNrqt prerer  rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca dicat: Non entm poteft  animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in facinus ferti:Q^uoniam autem  fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas in uitium traniitsiccirco in hoc  flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero buiufcemodi tranlltum id au  tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem refert ipfa flyx.pollrrmo maior  ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur ante oculos illa^ut ita loquar} grada^  tioiprimolocoeliconfcientiz motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit  poft hanc maeror ac demum maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi»  cat/fecundum Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc inquit  LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad  piares rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia lo  cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari.Habesigiturdrfluminibus in  quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara  portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili fqualote charonicui  plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine progrediatur/  non nautam folum: fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>  tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi  ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun  tatem dirigit t Q_oin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum incel  Iigere:Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat:  cuius tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis  inquit LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen  mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA  PTlSTAtqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate  faltem & origine prior cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana  tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc  ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex humeris fordidustili  amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor«  pus enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz  dem tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta  ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere au  tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon: Ce£  Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro  iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta  &in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac fub  lata dubitatide ois confultatio celTat :Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea  &erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc' t  led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus igi  tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi opponit  Utopuslit cofuitatioci (^uoniauaoCutmddKeba}acmodeacccllarii&cota    la.P.Virg.M.AIlego»   fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam clTerut aut de plutibua unum/aut  de uno <tt ne agendum pro fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i itaefta gratia didtuc  Charon«Nibil enim iibaius cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a  cuiufquam merito debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au«  fa cum Aeneam pet tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit  cs armatus qui noiha ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime  grclTum>Nam cum etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non  ante illam admiaere uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua»  ptopter addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu ne  ad uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea confultat i Et  pofi confultarionem deledum adhibet:Q_uam quidem rem animaduettensff  billa; (Luimrubiicin NuilxbciDndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat illum  con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum oftcndittllleaute  ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura hadenus.Nauis uero a  czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp conEcitur.Conteplator enim  inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non enim mouetur quifpiam ad in»  ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum omnia in ea re uidcrit definit fpe  culari.Eadem fere ranone futilis hngitunperceptis enim percipienda adneditt  Si autem futilis &, timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/  non ctit ita perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas  uao quas ut Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio  ni aduerlantur/interpretandas opinor.Sed uos fortafie nimis cutiofam nimir(^  ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute etiam tni  nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit LAVRENTlVS:quxetiamli nimis ingeniofe elicienda elTentidigna tamen funt io qui»  buscJaboresiNuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietrQ^uin igitur  ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in pnmis quid  libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba gemuetitifiCquodrimofa  inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter fentias fic accipio/ut in altero fpeca  lationis diificultatemiin altero terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim  dum uitia fpeculamut interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immor»  talem deum ingenium/^ ad omnia uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia meintapretari potuiflie fateor: Ad cer  betu autem de quo audire cupis /paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(<  fafunt/percutramus: Ad nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx  tranlHuuiumpottariiteltdunt^ manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con»  curfushocut puto fignificatomnes natura fdre.cupimus: natura autem non  omnes admittit: quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe  adtmttit : nam quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf*  ptiorumconfuctudinc tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem  deinde Orpheus^ad inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum  a fybilla feuere calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio»  bem ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0  jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf   tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft diutumu  catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in loroaio^  uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens latratu regna  tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd animaduerte qua par»  1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam enim latranri cani porngit  Q_ua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet occupat zneas aditum cufto«  de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe ratione tridpitem poetae tradideruttguo*  biam illum terram gux trifanam diuiditur/interpretantur.dicuntcp grzce  quali Omnia enim corpora uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus : quis non uideat porta  noflrum per cciberi latratus noftri corporis indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu  enim ad rerum magnarum cognitionem eriginiunhoc profedo agimustut men  tem quoad dus fieri potefi a fenfibus reucKemusremoritp dircamustnon tamen  ex buiulcemodi mortis comentarione intereat corpus neerfle putestred cft illius  ratio babenda.Reclamat enim ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar  ttam.Tribus enim rebus indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no  bis fiat adeo obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat.C^uamobrem nullo par  donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino fobrie/re  fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu contumax adr  uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft : at<p ea huiufcer  modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile comparentur. Nam ne fortafte ad ea  re me te reuocare ardas quibus Ginicus cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta*  tum patronus Epicurus acquiefdt :Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut  purpurea aut ccKdna ucfte a frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete   11 uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu  tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu  aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP  ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par  Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum tempope  ccenisdeteiiaturt&nosnoftratempeftateinromanorum przfulum dipibus fir  nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti pemitiofilTi  mamonftra exhorrebat : Q_ua quidem in te ego terni LAVRENTI ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter id quod plu  timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus lautiflimir^proptaalTiduashofpita  liutcs BC aebra fodalitia tuz domus conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex  ac populare fumas: Q_uzdum cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo<^  quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon folum audiui:fed etiam propter antir  quumhofpitiumfl Cueteremamidtia fzpiflimeuidi:Inquoduce^& fiplurimz  aliz^ ea magnitudine uirtutes elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera  Oiancfcunt t ita hzc illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta    Id.P. Virg.M.AlIego;   tiu Meorinaumacrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt   Wtn f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^« ,  elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana  fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc difcubent*  illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho & oraton ocw relin^  tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud omiferit/nemo eQ qm communioni   epulis/nerao qui fimplidoribus uefcatur/quibus dum corpons U.TO r  fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos aumnmos Sfugiensadillumdiuertor:uidearmihiaSardanapall.c«rn.smAIano.conu.-   uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc* con.  tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum qui  rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam phtent luxm  lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip noftroju «orumm m  totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra religione maximaij dodnia  nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos elTe non negaueom/iis homu  nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego tunc demum fenatorium ordi.  nem romx iure obtinere cenferem/li Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim  peraret. Verum cu hxcme alio in loco deploralTe meminenm agamus quod iltat.  AtcB naturam noftram minimis cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere   cupet Maro Sybillamquxueradodhinaeft inducit offam in qua & andu 8Cb^   mefcens fimul alimetum fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*'   det:& in fomnu inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis  corpori indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu  max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit . Upt^  quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon idem  TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem inducit/ut non  egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem rei rationem optime a te ex  Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi corporis indigentia non iis allatrat qui  corpus curadum redeutifed iis qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^  ItacK ut dixi ego qd Maro fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli»  dum poetam ut te non fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenietibusauda  auribufm blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua  extra ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi  no inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum  um Maro exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ®  dit enim ad infaos xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™  enti aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^  cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet Cnbe^  qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud conant perd»  boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti* fatiffadatifed oes uoluptates  plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»   tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut dubitatio  orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille (imp KnlTtnis rpuHs  arquieuitsAcneasautnn celer ripam cuaditsNon enim lente K cum fegritie bacc  adtunda funcfcd omni contentione at<]t ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or*  do in rebus huiufccmodi cft ut primo uitia cognolcanf .Cognita deinde effuga»  lunut pofirtmo illis purgati rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con  fidit idonei contemplatores eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn<  te repetendus/ut peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no  biliore fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum uoluptatib?  fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf.Earo enim uir  tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus exuti nudelilTimis  fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era aduerfa/qux innumera quoti«  die aeddunt omittam /mortem ipfara qux lingulis borarum momentis impedet  uelub lummum omnium maloium rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui  la alia ptutbanone adiaans ipfe unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac  iirpeipfosmfantesin pnmo uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim  mferri edocet. Hac & libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo  fimt/ut grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«  fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc«  ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed contra  fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira rcdeam5’.  Q_ ua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu illis efle adum qui  antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in casinciderint diuind^omni  nomunusilludincIcobim/ttbitoDcalunonecollatumtquipfofuma in ipfam  deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus natienb  bus ac populis fapietiotesclTe traufosputabimus/ii enim populi in thracia funt  qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus excipiunttquot mala il«  hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero omni genere lattitix ^ fcquua  tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip fortunx cafibus morte libera  ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus paulanm xneas moetum mortis deponit:  Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum uiium fupplicio morte ue per fummaiiv  iuiiam peti uidcbit non duliilHme ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc  cucnitetdicet.Scd quod uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi«  ne nifi a fe ipfo quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac  in malis cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue  fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos autem  omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura itaro*  bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore incefus in eum pau»  tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus atruleritiK morte q fummum tC>  fetnalum putabatiid quo urgebatur malum effugere tentauerit . Q_ua quidem  in te pnmum ignauiam ai<f incttiam cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt   o ii    In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani» morbis natum affirmat:  quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno dediti: & diuinitate fua quam  aroris denlis tenebris obrui pemuferut penitus obliti nihil praeter caduca : & aut  morbo aut aetate cito perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis  pcccant.Nam 8C a principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l  ut in rem follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn  dum diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in  coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii bax  extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam intrati/  quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac impietate pa  cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb iniuria affedi ipfi ul  tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude nihil tale merentes laceiletut/  aut ipii lacelTiti nihil de iure quod hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux  faamm ed fe contulerunt: Hinc genus humanum cui pa edeordiam in fummo  odo uiuere licuaat affiduo mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula  dones fiC infinito;: mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^  nobis calamitates eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.>  ueniat : Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .  quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£>  fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum autea  Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda offerut / quz  aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam uittutem continet du  plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram ad ui tia defledaturcAltera uf/  to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt inquit LAVRENTIVS fitPytba  goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui littaam yadinuenit.Q_uod no  latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola  incompita mentes» Ifrhuc ipfum inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata uidet triplid circudata muto, fetifica p/  fcdu tartarotum defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/  ta puniantut.Hzc grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p  turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris meo»  tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid uia fcd tri  plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata uoldtatc fce  Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui podtetno iteeum at/  iterum muItoticnf(^ repetitus habitum obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat  taris iure expreflit poaa quz procul a uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid  uates.Ille enim fiatim a principio dc ordif :Beatus uir/qui non abiit in condlio i  piotum.Videsiammotumprimumanimiadrcclus.Ocindc fit in uia pacatora  non dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am  piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam coadabilito.  Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem flammifluo phlege  thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde dixit . Odendit enim aidp/  cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id hominum genus alGduo torretuta    Librr quattuc   Tantum fnim tH uittoruu odium/ut & qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi  tiamdcdudi uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia  aetnime iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn^ palufttttn:Ca  ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^ exeduntur.  Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t Tartareus phlegethon.  Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis exxfluat quam feeleratorum  mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt quam graues quam molefli flnt  buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit ad ba;c portam munitifilma fit foli  do adamante columnas: quibus locum ita munitum redditiut net^uirorumne  ^ czluolarum ui efitingi poflit > Q uid ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe  hoc ut puto uiros flagitiofos ac permtos cum in tartara deuenerint : id autem eft  cutn longo habitu fcclaum mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisinullis  diuinisptxccptissnulladeniipfyderumclemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs'  pter iute tales homines fit larini perditos / fit grxd afotos appellant.Erit igitur in  quit LAVRENTl VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint  aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi  bTA . Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a grauiflimis phr  lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua quidem in re no   folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam cum  multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi foluere polTis/ea  tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil tibi arroges: fit igmiiquod  prudenter interroges flmul laudem feras . Verum facile ita huic loco occurretur  li dicemus non uoluiife poetam ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate  quz impoflibilitati proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex  cidendi facultatem adimere . Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^  uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin#  continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult. Peccat  igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut  contrada iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.'  tus dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo  luiffet in firmum illum intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no  magis inuituspeccaffe dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^  inde pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni  amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a fua  uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus difputata  inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non ihgredit .Nam  qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia .lllorumuerouimat^ naturam  a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus intelligit . Procul tamen in limi  ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias in limine tartari/de quib^plzra<]p quz  a poetis finguntur uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri  (as foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in  Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri  tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif    In.P.Virg.M.AUego.   Narorima hxttd uluo quod fe ludia neroonoanaabfolmtur. VtminU  cts/ut mdida/ut d«d<cus/ut infamiam effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc   Q uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp&confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit . |au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb   cod*,;U^uenaled.fc^^   ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun   t S aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat . Impietatem in  S in homincs.Nam & tianiam prolem   flurni naulo ante dicebam / confaentix cruciatum dodioreinterpretantu^   ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio obnoxujU^ i^  na affiduo nmarur : & dum commilli in mentem  dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum  ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo*   Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod & Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun  L illum beanffimum putanti probe oftendit / cum illam ita int«   ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur umen metu   fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate a la .   mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni acquirendi fa<tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid ftbi   te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta   ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us   Le potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^   geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta   fe & pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em   am^ illud tCongefiis undiq, Ciccis indormis inhians & tanq^uain   SI coceti* j pidi» unquam gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn   da qw non norunt harum rerum poffelTioncm non propter fe   ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de auanua diximus /i  «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum uiu per Itm  mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir ««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^ eoii«  conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^,  deo fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw  affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq^ him^potturoW^tteapoepofliBuHuiufcemodiigitutuUttactchqnaquxpItt r- Liber guaitiu  rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis «pii>  ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur Matontm  a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in di'  uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium gr^  nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab iis in<  dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz . Cum enim dv  uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt impurus nr-<  mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur neccire cU/ illis ctjita  tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat^ puiilliau ndiu i.xlo^  fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur ratione iinpuilus Maio cum  ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira Acnram iiiflicuendum  curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis cum opiaium ad campos  clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine totum odium  Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim ad il>«  km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum animo  ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1V6. Stduide.quantum tibi extua  diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem ttnusi  id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds . Nunc  cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos de<  (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA pcrpurgatoiialocaadca;  Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib  lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou  dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua «  dam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu quoqi uuuciedio<>  acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr dilliuiuJata lint  in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum cx huc merear ipfciu«  dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc ingcnk  um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito fcf<t  mone uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida  aedas ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'  iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici  am • Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni  uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod  quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non fa«  cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet  maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu  curro tumma admirauone cius uiii ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te  xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii mde oia pe  ne Ant.l^uiobtcmnuncnd demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto  IzpenufflccoLidinus admonete folct cc in aliquo imitadu diligctcm oino u*  dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri idem funus qui fuut miquos imi  tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo uix illa quidem neq^ oiA a do  dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi. Cum igitut inquit. &    la.P .Virg.M.Allcgo.   omnibus iam uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum cognitionem Mato  deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed elyfios ampos nominat.  Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore & figmento fu o Kuerita  tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas relcgalTct i tamen  nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem ztherem : ac  fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam difcedat  philofophizumen ucritatem profequatur . Nos autem (i quos uirosilleincz  ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die  de utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum  animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu  bus ac uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu«  ti in originem fuam redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reli>  quos qui cafti fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape  rite potueruntsqui uaharum aitiu inuentioneuitamcxcultiorem reddiderunt  tanquam fpeculatorescotnmemorat.Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar<  mis aut confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam dcfendcruntiK  in duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^ animos ab omni cor«  porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas  fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis locorum anguftiis arcuferi  ptos / nullis regionum terminis inclufos eum animaduettac / fcd liberrime per  omnes mundi oras uagareuideat: ita Mufeum loquentem indudt: ut often.  dat nulli e(fe certam domum/ Q_uin & cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo  rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus eadem fequitur tellure repo*  flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz& diuinusPlatot placo,  nicus Cicero de animis noftrisfentit.Cenfent emm adminift ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum curam non deponere.  Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis detinen.  tur corpore exuti t quibus dum uita manebat deledabantur: Verum llagttio.  forum quotp animi / quoniam multum ex fordibus quibus intta corpora fe  fadauerunt/ fecum inde trahunt a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt«  ftis ni fallor longum quidem iter / ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed  quo tandem uir uirtutis amator finem diu concupitum attigent. Per uari.  05 enimcafus pertot diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&.  des deuenit Aeneas. Q^uem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus  liberati / SC nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra  hzc corpora uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint  innoftram originem reuerfi zterno zuo fruemur.Q^uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn  inquit LA VRENTI V S in ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad  hunc uf^ locum ita perpetuo tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter*  niptu/aut diuulfum/aut ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif  fum ue fit qri poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni  hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi qrf  J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt  quidem 6 ab/it /multopere requlreudu uideat’.Ignofcens tamen nimiz cupidi  tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum reddi cupii  idne^badcnusateez porituintclligisnc^locuinquo deinceps exponi poflit  teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam anxio animo  quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine pandit. T u ueto dum  rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa no ueluti familiaria io  iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa procul a tua difputatione  amouifti . Q^uapropter incertus fum quid agam:Nam ne<^ audeo te longa ora  rione defatigatum quicquaprztercarogareme^ is quz fcire cupio zquo aiu^  mopoilu carere. Hic arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet oLau  miri nos huiufcemodi terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz  ambagibus quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro  poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.  Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo  Ium enumerem t Sedprauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo : Id  igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes: Lucentenv  ^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora  de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«  photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx  ta^ inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui feri  pfciuntcapita:Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias excogitari:  Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa diffentiunt. Verum ut  reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz przfenti inquifitioni confentanca  funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed przfertim eorum princeps Zeno uniuer«  fum mundi globum mentem & ratione &fummafapientiaprzdita habere ae«  didaunt /eam^ effe ignem quendam purifTimum ac tenuimmu . At ueluti ani  mi noftri per fui corporis particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me  bta ueluti geniule femen unde eunda procreantur/penetrarciquippe qoi uigot  fcmeni^ fit omniu procreandorum. Virgilius igitur quauis ui reliquis a Platone  fuo nunqua difcedat/tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari /ut ide  prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis (loici  fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe cupiebat diftiml> Iis putaretur /^ ipse PORTICUM fulcire ac floicis adhauere.Na Platonis longe alia  fententia eff. Ponit enim deu penitus incorporeum:at^ extia omnem materia/  omnem^ mundum inipfoczlidorfoexiflentem. Q^uapropteeillu hypcrcof^  mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia circufpiciens etiam minima curet.In  phzdro enim ait. Magnus in czio lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua  exoinanscunda.Eodem^ in libro demonftrat locum illum neminem adhuc  laudaiTe poetaiummec unquam pro dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum  Platonici deum eztta mundum ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt  Stoici aut illu per omne ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgiliutn /i    in.P.Virg.W.AIIfgo.   cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcripliiTcnnimorip noftros illius partica  bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem prouidcntiam dci multis in loas prafe  quatutinufquara a Phtune difcedit.Non enim idem omnes rendum.Q_uzras  fottaUe quid de mundo sentiat PLATO [PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua  reliquorum animantium animz (int.bominum autem animos abeo deo que  paulo ante dixi creah:££ ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai  bit.EQ enim lile dei uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata  Imltai^ illi uita moturai^ prxbet/non fuaui autfacultate/ledquicquidagitid  uelun dei in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat^a Pia/  tonefuo discedit. Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi  totus adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt  bus omnia ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in fenten/  tia Leucippum abdaitem/eiufe^ conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S  Theodorum ac Epicurum repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita  odofum deu ponauut nibil omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu  nz orbem dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper/  tingere illam uelint maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli  gere opinent. At Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti  mauAtipbzcdedeo.Otbeucto quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc/  pustat inde rurfus ad inferos tranfirefaibit ab academia cftc non negamus:  Verum si latius de re buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo  diuiniota quz a tato pbilofopbo de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed  difficile oino eff um breui tempore res arduas/ longa diligende^ otadone .ex/  plicandas bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad  corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere do  nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu extChmat.Na  eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu demu purgatos/in  fuam origine & adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis fuerit qui pbilofophiz fe  dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei poft tria annopt milia ad fupe  ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino uixeritieu ante mille annos H purga/  ti/S purgatu (fatim in fua origine redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/  ]at:quc cuc finiri aedunt cum fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel  lis ad eade zodiaci parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi  ci plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi  tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro perapi  cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec adhuc edidit.  Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu incides aperui/  locof^ quofdam fuma cum uoluptate percurri. Res omnino magna eff LA V/  tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata/Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima & homini fe ipfum noffc cupiend per    quartus   aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo(^ admirationem rapere. Scnbit enim  non phyticcCut plxri^ folent^ fed metaphyiicc de animoru noftroru immorta  litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem amouere. Quem librum cu  Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia quz nos paulo antediuinif  fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces:Qux quidem res facit ut in iis  quzpo (hilafiibreuiorquelles/forta(»fuerim.l^hil tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius difputationis quam pepige  camus cancellis includerentur/poteram illa meo iurefilentio przterire. Itacpid  facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos verododifTimiuiriquomodome  purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti LAVRENTIO nihil d&>  ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi poteft/  qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non delinam : quae  quadodrina efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim  praemeditatus ad differendum de iis rebusaccelferim quzadodilfiinis iifdci^  diuprzmeditads uids uix faris eleganter/profua dignitate explicari folcant. Im  mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu  Itquameanobisodofisdilferere/quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac  daiolus/uolo enim & pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe^ tnuss quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip in unum congereresrquz non nili per fummum laborem:(i>  mam^ indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt .Nam Maro  nis diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua tertio ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima/tum quia inaudita accidit no mi  nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit.Non polfut fatis pro fua dignitate lau  dariquzatedidafunt inquit Antonius : Sed utinam Baptifia quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb/ hanc tandem fenedutem patriz uel optao ticodonare/uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te dema'  gnis rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur: Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum confido.  Q_uin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut ronibus impc' trauero/autpraecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero; Sed ut confido  muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu.NI cu  inultu iam in litteris uter pfeccrit: fitr^ multatu tetu addifceda^ ardentiffima  cupiditasrcu^ cztera illis & a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam  abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam  sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adoIefcctib9ounq deerot  Sed furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau  lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri/qd' reliquu diei eft ualimdini ipedamus.  Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini  QuaitifiC ultimi libri Finis. CumPriuilegio. -Z.sisqfc    "Moibc scof.  Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il relativo volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO. Nel saggio introduttivo si indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere, partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco. L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la sforziada dal punto di vista metodologico e contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le vicende successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Tommaso Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che vuole delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore troverà l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on the Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical dialogue, “Disputationes” – for  another, I love the setting!” Landino. Keywords: dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landucci – i misteri del delitto Gentile e le bestie senza stato di Vespucci – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Filosofo italiano. Grice: “If I had in Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Saggi: “Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica” (Roma, NIS),  Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente in Cartesio, Milano, F. Angeli,  I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista, "Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice: “Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI SERGIO LANDUCCI – I MISTERI DEL DELITTO GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN LIBRO SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE L' ABBIAMO DIMENTICATA…” Antonio Gnoli per Robinson-la Repubblica  landucci LANDUCCI     Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre martoriate. Il paragone turba Sergio Landucci. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è stato allievo di Cesare Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario nel 1968. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell' insegnamento e nel 2002 decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il lavoro universitario?  «Lo è stato certamente per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca».  I punti di riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Eugenio Garin e Cesare Luporini.   «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento. Era lo spirito del tempo.  « Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali erano i vostri rapporti?  E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi affascinava quest' uomo che nel 1930 andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo, così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare?  « C' è innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller, ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE, che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci fosse un grano di verità?  « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella frase».E lui?  « Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi frequentava?  «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.  Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una certa paura per il modo di fare lezione e interrogare.  «A me, che non sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita ideologica piuttosto travagliata?  « Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.  «Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua famiglia com' era?  « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista diceva chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l' asciugamano diceva passami il Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo fu mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU  Dà l' impressione di un uomo provato dalla vita.  «Sono molto amareggiato dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha consentito di vivere».     Non è vero, il suo libro sui " Filosofi e i selvaggi" è un grande libro.  «Non diciamo sciocchezze, troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Furio Diaz. Scriverlo, fu un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del selvaggio e a prenderne le difese.  « Non è il primo, ma in qualche modo rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni, non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà?  «È solo una tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau.  «Fino a un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne». Hobbes parla di uno "stato di natura".  firenze  FIRENZE ' «Dove tutti si fanno la guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che nel Cinquecento vengono fatte dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni?  « È passata l' idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.  «Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico - rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta attanagliando l' Occidente.  Ma non credo di averne più la forza. Mi resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons. Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” -- Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Latini –l’implicatura rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “Latini reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People say it all starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest of them.”  «Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde»  (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a Montaperti lo costrinse  all'esilio in Francia. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il  suo ritorno in Italia. Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini.  La sua influenza divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte. Contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta "pace di Latino".  PPresiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono. Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona.  L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto” è presente già nei manoscritti più antichi,  presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”. Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia, Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola.  Il primo libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia, geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù, attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il romano Publio Vegezio e Cicerone.  Altre opera: è inoltre autore di un altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal "Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni” (Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti, Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo,  La tradizione dei volgarizzamenti toscani del Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del volgarizzamento toscano.  La colonna posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N. Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I. Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche: Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari, Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op Varese,  L. Frati, Brunetto Latini speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini, Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV dell'Inferno dantesco"). P. Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura", Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi,  Longo, Ravenna; "Representations", R. Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie  Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal, su florin.ms. G. Orto, Brunetto Latini. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri, Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo  di Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia  del DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra  insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel  processo del saggio, in suo luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e  quale sua materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la fine e lo suo artifice. Ed in questo  modo tratta BOEZIO nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è  scienzia di ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle  publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie. Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che  queste parole sopra '1 dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.  Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo  artifice. Dico che è doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che 'nsegna questa  scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore,  cioè il trovatore di questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di Firenze, il quale mise tutto  suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio, sì come il  buono intenditore potràe intendere avanti. La sua intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a fare questo  trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione  proposta.  Et e' tratta secondo la forma del saggio di Tulio di tutte le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo che sono nel secondo saggio che Tulio fa ad Erennio suo amico, sopra le quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la  quale fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte guelfa, la quale si tenea col papa e  colla chiesa di Roma, fue cacciata e sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue vicende,  e là trova uno suo amico della sua città e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale era l)uono intenditore di lettera  et era molto intento allo studio di rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia  e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di questo saggio è grandissima, però che  ciascuno che sa bene ciò che comanda lo libro e l'arte,  sì sa dire interamente sopra la questione apposta. E in questo punto si parte elli  da questa materia e ritorna al propio intendimento del  testo. In questa parte dice lo sponitore che CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale  al suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi, nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia  dee prima purgare ciò che pare a lui che sia grave; e  così fa CICERONE, che purga tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE purgando questi tre gravi  articoli procede in questo modo. Che in prima dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza. Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più. Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì mette  le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta parte mostra di  che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e del  male che fosse advenuto, immantenente dice del male per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per potere più di sicuro lodare e  difendere. E per le sue propie parole che sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in  queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e che non si possono celare, in quelle  medesime la difende abassando e menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi danni  de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al  tempo di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al tutto contrario a Catellina. Et  poi nella guerra di Pompeio e di Giulio Cesare si tenne  con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato di  Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove  dice l'antiche adversitadi altressì abassa il male, acciò  che delli antichi danni poco curiamo. Et là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che, sì  come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle  grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così non pare che eloquenza sia la cagione (iel male  che viene alle grandissime città. E là dove dice che  danni sono advenuti per nomini molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende rettorica,  dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza,  che dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere. Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E  nota che dice son messe ordinatamente acciò che prima si raunaro gli uomini in-  sieme a vivere ad una ragione et a buoni costumi et a  multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti ricchi montò  tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.  Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero compagnie usando e mercatando insieme; e  di queste compagnie cuminciaro a ffare ferme amicizie per  eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice e signifficano  queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole  di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è   15. amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo  sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica  tutto lo 'ntendimento. Che è cittade. Cittade èe uno raunamento di gente  fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini   20. d'uno medesimo comune perchè siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere  ad una ragione.  Che è compagno. Compagno è quelli che per alcuno  patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi  divegnono fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile  vita si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e però dice «per uso  di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non sia a  cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele     i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/ aslroppiarc,  m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad avere una ragione, m  "al avere una medesima ragione M l'uno, -If' fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato - le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme  d'amie— i^:mdichono— i^.- m dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì -  25: M son — S7 : M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por-  ciò — 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per utili-  tade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife-  mente che quella amistade eh' è per utilitade e per dilet-  tamento nonn è verace, ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità  delle cose si come elle sono.  Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome  parole guernite di buone sentenzie.   10. TnUio. Et così me lungamente pensante la ragione stessa mi mena  in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza eloquenzia sia  poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è spessamente  molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se alcuno in-   l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e  consuma tutta sua opera in usare sola parladura, cert' elli èe citta-  dino inutile al sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli  il quale s' arma sie d'eloquenzia che non possa guerriere contra il  bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e   20. cittadino utilissimo et amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni.   Lo sponitore.   I. Poi che Tulio avea dette le prime due parti del suo  prologo, si comincia la terza parte, nella quale dice tre cose.  Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là dove  25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda,  nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove  dice : « Ma quello il quale s' arma ». Et quivi comincia la  terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e dell'altra  giunte insieme.     3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1 diloclo —  8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza — i-J : M' om. molto ^  i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) — IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m  sama — .)/ giuriare, m ingiuriare — Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i  a' suoi — .?3 • .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) — So:  yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual dice.   (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: « utile a ssè et al  suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere avac-  ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene  avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia  sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno  V 5. savio che non sia parlatore, dal quale se noi domandassimo  uno consiglio certe noUo darebbe tosto cosìe come se fosse  bene parlante. Ma se fosse savio e parlante inmantenente  ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che  dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione   10. e d' officio, intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e  là dove dice « officio » intendo le vertudi, ciò sono prodezza,  giustizia e l'altre vertudi le quali anno officio di mettere  in opera che noi siamo discreti e giusti e bene costumati.  4. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e studia   15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto che, però  che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui  avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa  trattare le propie utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo  e luogo et ordine che conviene. 5. Adunque colui che ssi   20. mette 1' arme d' eloquenzia è utile a ssè et al suo paese.  Per questa arme intendo la eloquenzia, e per sapienzia  intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo  da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì  per eloquenzia difendemo noi la nostra causa dall'aversario   2.5. e per sapienzia ne sostenemo (2) di dire quello che a noi  potesse tenere danno. Et in questa parte è detta la terzia  parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae il conto alla  quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto da-  vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica     i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci conv. — 0; m  ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile quello, m di quello — .)/' disse  — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver-  tufli — 15:m adiviene — 16 : jn a lini  : solo L nelle ; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) --  19: M Adunque che colui — 22: M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo —  23: il l'armi - 23-24: Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro  aversario la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi potesse ave-  jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29: m dinanzi e; Jfi om. et.   (1) Cos'i richiede il senso; la lezione nelli ò nata certamente dall'aver preso  l'aggettivo comuni per un sostantivo.   (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci asteniamo », coni' è richiesto  dal senso e secondo gli esempii citati dal Vocabolario della Crusca.  per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò reca Tulio  molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e  tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta  cosa pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot-  tile secondo la forma del libro.     Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare il principio d'eloquenzia  la quale sia pervenuta in uomo per arte o per studio o per usanza   lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia nato d'onestissime  cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li) Acciò che fue un  tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li campi in  guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e facea  ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per ragione   l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione né umano  officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto le-  gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né aveano  pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E così  per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava le  forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori.     Lo sponitore.   1. In questa quarta parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e   2.5. per ragione ottima et onestissima, sì dice come in alcuno   tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e del-     3: ìl-m tale — .1/' jdii' che cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere  — .5 J/ ' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m d'ottime  chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li campi in modo de  bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M maritaggio — M iihylosofi, m lilo-  safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7  ardita — 20: M-m per mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori —  23: M-1U nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma,  che egli è fermamento di corpo e d' anima razionale, la  quale anima per la ragione eh' è in lei àe intero conoscimento  delle cose. 2. Onde dice Vittorino: Sì come menoma la forza  5. del vino per la propietade del vasello nel quale è messo, cosie  r anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo  a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal di-  sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra-  vezza del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che   10. appena puote discernere bene da male, sì come in tempo  passato neir anime di molti le W quali erano agravate  de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi et  indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde  misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol-   15. liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente,  non connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime  mogli. 3. Ma tuttavolta la natura, cioè la divina disposi-  zione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uo-  mini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dici-   20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno-  scenza, cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi-  tore dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio  nel testo di sopra che eloquenzia ebbe cominciamento per   25. onestissime cagioni e dirittissime ragioni, cioè per amare  Idio e '1 proximo, che sanza ciò l' umana gente non arebbe  durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini isvaga-  vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,     1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh ehi ì\ l'ormato — 3: in-  tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito — 4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m  mali hiiomini — 9: m per la gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone  dal male — il: M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14:  lU-m Ivi susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W  tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l' non averla  durata, L non avrìa durato — i« K colà.   (1) È lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò facilmente  in li quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e da li quali, natural-  mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati invece di aggravate. Che si  tratti solo delle animo risulta da tutto il periodo, e in particolare dallo parole  - la anima per gravezza del corpo ».     - 15 —   ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che  viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda,  erbe crude et altri cibi come le fiere. 6. Et là dove dice  « tutte cose quasi faceauo per forza e non per ragione »  5. intendo che dice « quasi » che non faceano però tutte cose  per forza, ma alquante ne faceano per ragione e per senno,  cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono  dall' animo. 7. Et là dove dice che divina religione non  era reverita intendo che non sapeano che Dio (D fosse.   10. 8. Et là dove dice dell' umano ofiìcio intendo che non sa-  peano vivere a buoni costumi e non conosceano prudenzia  né giustizia né l'altre virtudi. 9. Et là dove dice che non  mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della  quale dicono i libri della legge che giustizia è perpetua e   15. ferma volontade d'animo che dae a ciascuno sua ragione.  IO. Et là dove dice « aguaglianza » intendo quella ragione  che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra li eguali  fatti. 11. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio  eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce   20. a disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere,  et inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale  noi permette rifrenare da' rei movimenti. 12. Et là dove  dice « nescitade » intendo eh' è nnone connoscere utile et  inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non sapere,   25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove dice  « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti  e ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove  dice « misusava le forze del corpo » intendo misusare cioè     i-2: M-m om. Et là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-  ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. — 7: .i/'-L  dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non per ragione intendo Ice dice  quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono — 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne  prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m' ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual   — 18: M' mìsfacti — M lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito,  t quello che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo che  non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano, jiiemisusavano —  .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e la lezione  di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh' idio, chi dio; è vero  però che le ragioni paleografiche varrebbero anche per il caso inverso.     - 16 -   usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza di corpo  ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma  coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi-  tore sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali elo-  5- quenzia cominciò a parere. Omai dicerae in che modo  appario e come si trasse innanzi.     Tullio.   5. Nel quale tempo lue uno uomo grande e savio, il quale  cognobbe che materia e quanto aconciamento avea nelli animi delli   10. uomini a grandissime cose chi Ili potesse dirizzare e megliorare per  comandamenti. Donde costrinse e raunò in uno luogo quelli uomini  che allora erano sparti per le campora e partiti per le nascosaglie  silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose utili et oneste, tutto  che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza, poi T udirò   15. studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì Ili arecò umili e  mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano.   Lo sjaonitore.   1. In questa i)arte vuole Tulio dimostrare da cui e come  cominciò eloquenzia et in che cose ; et è la tema cotale   20. In quel tempo che Ila gente vivea così malamente, fue un  uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale  cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé  naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio  nare, e l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a   25. ttenere i)ace et amare Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi,  castella e magioni e bel costume, et a ttenere iustitia et  a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse dirizzare,  cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per comanda-  menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili     2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m loninciò (hi coro).  7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno buono — iO: 31' adrinure —  12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose selve 13: M-m et facciendo loro as-  sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo  — 24 : M-m el lo ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'  7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da b. v.   afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che potrebbe  alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non  erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la  ragione dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel  5. modo eh' è detto. 3. Donde questo savio costrinse - e dice  che i « costrinse » però che non si voleano raunare - e  raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1 savio  uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando  belle ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in   10. dare mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri,  che ssi raunaro e patiero d'udire le sue parole. Et elli in-  segnava loro le cose utili dicendo: « State bene insieme,  aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e forti; fate cittadi e  ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo : « Il pic-   15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre » etc.  4. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-  mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad  ordine, acciò eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e  non si voleano mettere a signoraggio, poi, udendo il bel dire   20. del savio uomo e considerando per ragione che larga e li-  bera licenzia di mal fare ritornava in lor gi"ave destruzione  et in periglio de l'umana generazione, udirò e miser cura  a intendere lui. Et in questa maniera il savio uomo li ri-  trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice « fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade »  perciò che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi  uccidea l'uno l'altro - e feceli umili e mansueti, cioè vo-  lontarosi di ragioni e di virtudi e partitori (2) dal male.     1 : m rafrenasse, S affrenassono — J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio  per falsa lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m il'  poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l' metendo '1 suo -  10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere — 20-23: it-m om. e considerando....  il savio uomo — 23-24: m si ritrassono — 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro  crud. — 24-25: H-m om. e dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo)  - 28: il' partito, l. e'dipirtironsi, s partiti.   (1) Parrebbe preferibile la lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti  i mss. abbiano il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta  pensare che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-  siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare (p.es. «ciò»);  e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di Brunetto, IO, 3, e dal Varchi,  Ercolano, ediz. Bottari (Firenze, 17.S0), p. 225.   (2) Senza ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten-  dendo « partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ». Cfr.  Manuzzi, s. V., § 2.     - 18 —   5. Or à detto Tulio chi cominciò eloquenzia et intra cui  e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non  potea ciò fare.   Tullio.   5. 6. Per la qual cosa pare a me che Ha sapienzia tacita e povera   di parole non arebbe potuto fare tanto, che così subitamente fossero  quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga usanza et informati in  diverse ragioni di vita.   Lo sponitore.   10. 1. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale   non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice « sa-  pienzia tacita » quella di coloro che non danno insegna-  mento per parole ma per opera, come fanno ' romiti. Et  dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno non   15. sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar  credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo in-  tendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn  è congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra  tutte cose è grande sapienzia congiunta con eloquenzia.   20. 2. Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello  savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien-  zia, ma non cosi avaccio né così subitamente come fece  abiendo eloquenzia e sapienzia. (i) Et là dove dice « in di-  verse ragioni di vita » intendo che uno fece cavalieri, un   25. altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri.   Tullio.   7. Et così, poi che Ile cittadi e le ville fuoron fatte, impreser  gli uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro  per propia volontarie et a sofferire pena et affanno non solamente     2 : M-m om. e come — sanza (luale — 5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli —  13: M' i romiti, m li romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om.  che — i9: M' giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere  lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome  non è inutile, preferisco mantenerlo.  per la comune utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La  qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non avessor po-  tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per eloquenzia, ciò che  trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi avea forza e  5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare di coloro  ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave  parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era  tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in  natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo  10. e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uo-  mini nelle vicende di pace e di guerra.   Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che cciò che sapienzia  non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella fece   15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe cotale:  Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-  gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi  e ville; poi che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere  fede. 2. Di questa parola intendo che coloro anno fede che   20. non ingannano altrui e che non vogliono che lite né di-  scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace.  Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della cosa  promessa; e dice la legge che fede è quella che promette  l'uno e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un   25. altro libro delli offici che fede è fondamento di giiistizia,  veritade in parlare e fermezza delle promesse; e questa ée  quella virtude eh' é appellata lealtade. 3. E così sommata-  mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che     2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea charebbono potuto  divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea — M-m santa — 7: M^-L allegrezza  — 8-9 : M era converita la loro natura, m era convertila in loro natura — 9 : m onde —  14-15: M^ il fece in compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci  19: 3/' fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et  in fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M' de-  lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M somatamente, m asommatam.  congiunta con sapienzia.   (1) Sarà certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso  dell' ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la nota  di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse il  Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si dica per s'areb-  hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non s'arebbono potute met-  tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben fatto  in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti  i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per  5. due stati o di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi-  sogna la nostra rettorica sì al postutto, che sanza lei non si  potrebbono mantenere.   Tullio.   9. Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo la vìrtude sanza  10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro et inforzaro tutto  loro ingegno in malizia, per che convenne che ile cittadi sine gua-  stassero e li uomini si comprendessero di quella ruggine, (e. Ili)  Et poi che detto avemo la cumincianza del bene, contiamo come  cuminciò questo male.   15. Lo sponitore.   1. Poi che Tulio avea detto davanti i beni che sono  advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che  sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che  Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male   20. a coloro che Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la  tema è cotale: Furono uomini folli sanza discrezione, li  quali, vegga ndo che alquanti erano in grande onoranza e  montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano se-  condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo in   25. parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero  sì copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare  sanza condimento di senno, che (2) cumìnciaro a mettere     cioè — 2: M-in che poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M conviene, M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren-  dessero — 13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave... dinanzi   — 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma ri son trticiie di etpun-  zione) — 19: m om. elli — 20: M El perciii — 24: M' il comandamento.... studiavano   — 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de molto — m om. elio.   (1) Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso assoluto, come già  si è trovato, 3, § 4: « e studia puro in dire le parole *.   (2) Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue le  famiglie di codici e non costituisce una rarità per il nostro volgare antico (anzi,  per Brunetto stesso, cfr. IO, 1: « avegna che... ma tutta volta»).   sedizione e distruggi mento nelle cittadi e ne' comuni et a  corrompere la vita degli uomini; e questo divenia però  ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale  erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia  5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere che  sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et  queste sono quelle persone che per avere li onori e F utti-  litadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene;  così turbano le cittadi et usano la gente a perversi costumi.  10. 4. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato '1 principio  del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia,  si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del  male chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo :   Tullio tratta della comincianza del male  15. adveniito per eloquenzia.   10. Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo gli  uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usa-  vano tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini grandi  e savi parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò   20. fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi  penso che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare  le picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie  adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incon-  tra la verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza   25. 11. Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade   che' maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse  le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello eh' avea  impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più  innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia,     i-2: m nelle loro ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m avenia — 3 kelli aveano  sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li quali — 7: M' questi — 10: m om.  Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento — i3: Jlf chende seguita, j/i  che ne seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano  meno che savi — 17-18: M-m non sapeano, L non osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin-  trametteano dele cose — 21: M-m om. uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om.  delle pr.... controversie — 23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse  m adornasse — 29: M' giunta.   (1) Un costrutto più regolare si avrebbe sopprimendo il che o inserendone un  altro dopo verisimile; appunto. per questo conservo' il che, non sembrando proba-  bile che un copista volesse complicare di suo. Questa maggiore libertà sintattica  non è nuova.     - 22 —   aveni'a che, per giudicio di moltitudine di gente e di sé medesimo  paresse essere (i) degno di reggiere le publiche cose.   12. E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti  pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e  5. miserissime tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa  cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo  ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade in sicuro porto,  così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad al-  cuno altro queto studio {"). Per la qual cosa pare che per la loro posa   10. li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in onore.  13. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro,  e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si  dovea mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando  più indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti mani-   15. mettea e guastava la cosa onestissima e dirittissima con troppo  gravoso danno dei comune, allora era più degna cosa contrastare e  consigliare la cosa publica. (e. I V) Della qual cosa non fugìo il nostro  Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Àffricano, né i  Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana virtude et   20 altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la loro  eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e mantenimento  della comunanza.   Lo sponitore.   1. In questa parte divisa Tulio come divennero quelli  25. due mali, cioè turbare il buono stato delle cittadi e cor-  rompere la buona vita e costumanza delli uomini; et avegna  che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto fae  da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune  parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo-     1 : M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse degno  de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m enpronti — 4-5 : M' pervennero i  reggìm. — 7 de miserissime tempeste — spessamente — 7 : M' lempcstande — * : M-m la  discordia (m echontumulosa) — 9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do  tutto loro " i4: M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano —  Jlf' erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo stato  — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M' alcuna parola — S9: Af' Et la tema 6 cotale.  De la el. ecc.   (1) È possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco questa  perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere degni».   (2) Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por questo  era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo copio.     - 23 -   quenzia mise in sì alto stato i parladori savi e guerniti di  senno, che per loro si reggeano le cittadi e le comunanze  e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori e  le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè  5. delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere (i)  né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di due maniere:  l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano sa-  pienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e  questi non si trametteano delle cose publiche, cioè delle   10. signorie e delli officii e delle grandi cose del comune, ma  impigliavansi a trattare le picciole cose delle private per-  sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono alcuni  calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in  loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e questi   15. s' ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire  parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone,  montare in ardimento e presero audacia di favellare in  guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la  menzogna e la fallacia ferma contra la veritade. 4. Onde,   20. per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne che'  grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi  cose, venissero et abassassero a trattare le picciole vicende  di speciali persone, per difendere i loro amici e per conta-  stare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due ma-   25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con prove-  dimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano  a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi  sono folli arditi. 5. Donde in questo contrastare i buoni e  savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non aveano   30. studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e  garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire  e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di  senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza     4 : M' om. e non s. t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. — 7  M< parliei-i —  iO: M' de comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean  (/^ parea) cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19: M' con-  tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia savi e parladori —  m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. — 26: M^ om. di ragione — L l'altra —  27: L provedimento — 31-32: Me dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s     (1) Cosi leggo con M, piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a  lavareria, il Manuzzi registra esempii di lavoriera.     - 24 -   del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove  da ragione, e per sentenza di sé medesimo, la quale è per  neente, pareano essere degni di covernare le publiche e le  grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et alli  5. officii et onori delle comunanze. 6. Et poi che cciò avenne,  non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e  miserissime tempestadi. Et nota che dice « grandissime »  per la quantità e che duraro lungamente, e dice « mise-  rissime » per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose chende   10. moriano le persone ; e dice « tempestanza » per similitudine,  che sì come la nave dimora in fortuna di mare e talvolta  crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la cittade per  le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé  medesime e patono distruzione. 7. « Per la qual cosa elo-   15. quenzia cadde in tanto odio et invidia »... Et nota che odio  non é altro se nno ira invecchiata; e così i buoni savi erano  stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi segnoreggiare  le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene;  donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano   20. segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò li  buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad  altri queti studii per scampare della tumultuosa vita in  sicuro porto. Et nota: là dove dice « altissimo ingegno »  dimostra bene eh' arebboro potuto e saputo contrastare   25. a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da ripren-  dere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre  scienze di filosofia, sì come trattare le nature delle divine  cose e delle terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi  e le costumanze; et appellali « queti studii » che non trat-   30. tano di parlare in comune, e perciò che ssi stavano partiti  dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa » che     2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m ismisuratissime ~ 8: SI durano,  m duravano quantitade.... s\ elione moriano - 10: M' tempestade — 14: M'  medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al-  trui — SO: M> et in lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 : M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de  trattare — 28: M-m sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog-  getto, richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche  altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già corrotto).  Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente fortuna un soggetto le  fortune.     - 25 -   spessamente l'iiuo uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme  e talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi intralassar lo studio  d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata uè pre-  giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali studiaro,  5. montaro in grande onore. 10. Et ora riprende Tulio questi  savi e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia  avea più grande bisogno per lo male che faceano i folli  arditi nelle cittadi, e perchè guastavano la cosa onestis-  sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene alle   10. cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il nostro  Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-  mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a  consigliare et a difendere il comune da'garritori folli ar-  diti; e però montaro in onore et in istato sì grande che   15. le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò dice che in  loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade degna  d' onore e di temenza. 12. Ma da questo si muove il conto  e ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos-  sibili e necessare che dovemo studiare in eloquenzia, e   20. lodala in molte guise.   Tullio conclude che sia da studiare in rettorica.   14. Per la qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da  mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano in publiclie et  in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano troppo di   25. podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di tutti.  Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la quale  molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa diviene  la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima molte  utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di tutte   30. cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che H'acqui-  stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li amici  certissimo e sicurissimo aiutorio.     1: M-m spesse volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M  (Iride, m diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato  y f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e torna,  M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;» honesti ~ 19: M -m ne-  cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto poi misusa — 27: M' molto pertièno  devegna — 28: M> y hon. 7 illustra 7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7  honore 7 dignitade.     26 -     Lo sponitore.   1. La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio:  Se alquanti di mala maniera usano malamente eloquenzia,  non rimane pertanto che 11' uomo non debbia studiare in  5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza), acciò  che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni  né di fare generale distruzione di tutti. Et nota che di-  strutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in  ricchezza e poi divennero in tanta miseria che vanno men-   10. dicando. 2. Et poi dice le lode di rettorica, come tocca al  comune et al diviso, e come per lei diviene l'uomo sicuro,  cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et ap-  pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende  diviene la vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1   15. cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani;  e dice « ioconda », cioè vita piacevole, però che ' savi par-  lieri molto piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto  bene n'aviene alle comunanze jier eloquenzia, a questa con-  dizione : se sapienzia sia presta, cioè se ella sia adiunta con   20. eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di tutte  cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo  modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo-  quenzia giunta con sapienzia sono laudati, temuti et amati;  e dice che Ili amici loro possono di loro avere aiutorio si-   25. curissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,  poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer-  tissimo » però che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia  M-m Lo testo èe cotale, M'-L La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti —  6: M' de fare male — 7: m om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro —  13: M' troverà — 14: M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro —  17: A/' ad altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae  ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia chelli  sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia.  Anche la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento  arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima collomis-  sione della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l' errore) e riceve  conforma dal principio del capitolo seguente, con quell'uniformità di espressione  che è caratteristica di tutto il commento.   (2) Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M' po-  trebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per amore ne per prezzo né per altra simile  cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima conclusione  in questo modo:   Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose   sono minori e più fievoli che Ile bestie, in questa una cosa l'avan-  zano, che possono parlare ; e donque pare che colui conquista cosa  nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in quella me-  desima cosa per la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo testo è cotale : La veritade è che  gli uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e più  fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri ani-  mali sono più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo   15. il leone e molte altre bestie sono più forti della persona  che ir uomo; e più ancora che in tutti e cinque ' sensi sono  certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza  fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo  cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore   20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol del toccare. 2. Ma in  questa una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali,  che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene la  sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare soprastae  alli altri uomini.   25. Tullio dice di che elli tratterà-   16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si acquista  solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento  d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono  coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi     S: il-m un'altra condictione — 7 : M' costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale;  om. li — 9 : )» om. cosa e gli uomini — 11: il' de questo t. M' molti huomini....  minori 7 più fievoli chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m  7 l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e odorare, S et  l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il rangnolo (ohi. tulli gli e), L a ra-  gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M' chelli sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M'  per la natura — 2S: M-m nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia a  trattare del genere d' essa arte e del suo officio e della fine e della  materia e delle sue parti; imperochè sapute e cognosciute queste  cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di ciascuno  5. considerare la ragione e ia via dell'arte.   Lo sponitore.   1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era soprastato  alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia nel  suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro.  10. Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo  di ciascuno sia più intendente di quello che seguirà, e così  pone fine al suo prolago e viene al fatto in questo modo:   Tullio ae fiìiito il prolago, e comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale richiede et è  15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande et ampia  parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica. Che al  ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila scienzia  delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo da  coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte del  20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in quel  genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè  della scienzia delle cittadi.   Lo sponitore.   I. In questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are  25. ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del pro-  lago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa  arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì vuole fare  intendere che è genere, perchè l' altre parole siano meglio  intese. 2. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende  30. molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa     1-2: M' (la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte —  3: m però che - 4: M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia — 11 : M'  (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi — 16: M-m cai ver diro —  18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero — SG: m quella — S8: M-m y perchè  — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu. — 30: M onde jvirte quella gen.     parola, cioè « uomo », è generale, per ciò che comprende  molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè  « Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più  in volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; che  5. chi dice « i Tosinghi » comprende tutti coloro di quella  schiatta, ma chi dice « Davizzo » non comprende se no una  parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio dice  di rettorica sotto quale genere si comprende, per meglio  mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che Ila   10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del co-  mune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose,  in questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra-  gione delle cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de'  pannar! e l' altre arti che si fanno con mani e con piedi. In   15. detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in parlare.  Adonque la scienza del covernamento delle cittadi è cosa  generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte  del bene parlare. 5. Ma anzi che Ilo sponitore vada più in-  nanzi, pensando che Ha scienza delle cittadi è parte d' un   20. altro generale che muove di filosofia, sì vuole elli dire un  poco che è filosofia, per provare la nobilitade e l'altezza  della scienzia di covernare le cittadi. Et provedendo ciò  ssi pruova l'altezza di rettorica.   6. Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende   25. sotto sé tutte le scienze; et è questo uno nome composto   di due nomi greci : il primo nome si è phylos, e vale tanto   a dire quanto « amore », il secondo nome è sophya, e vale   - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde « filosofia » tanto vale   a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa neuno   30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh' elli  intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad  avere (2) intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì-     / M-m cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —   4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^ demostrare —  10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti (ma anche L l'arto) — m e de'pan-  nali, .)/ 7 de sartori de panni — 16-17: m o parte d'un altro generale — 1M' de  ben p. — 20: M in podio — 22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al-  tezza — 25: M sotto di sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de  la scienza — 31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M' Donde.   (1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40; però  lo ronde poco probabile la forma arti che subito segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e ama,  e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si riduce.     - 30 -   nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali cose  e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo  è possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia  è onestade di vita, studio di ben vivere, rimembranza della  5. morte e spregio del secolo. Et sappie che diflfinizione  d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, (i) per tali parole  che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se tu le  rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire  sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale   10. è questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo  queste parole si convegnono sì all'uomo che non si puote  intendere d'altro, né di bestia, né d'uccello, né di pescie,  però che in essi nonn à ragione; onde se tue rivolvi le  parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ? *   15. certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo.  8. Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini  furon mosse tre quistioni delle quali dubitavano, e uon  senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si girano  tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse l'uomo   20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che ra-  gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza  quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono.  Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi  filosofi (2) partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica,   25. Pratica e Logica, si come dimostra questo arbore.      i: M inquistione, m inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile  — (5: Mss. quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene —  .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M' neccssiladc — 16-17:  .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr. sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m  la seconda che lasciare — 20-21: lU-m om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione —  M-iii la natura — m tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre —  23-24 : M si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M mn. e.   (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più regolare ma con una  coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa, e per tali parole ecc.   (2) Questa lezione ò comune a codici di ambedue le famiglie, e perciò la pre-  ferisco a quella di M, che pure si può difendere facendo transitivo conreìtne e  intendendo i -savi filosofi come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è per  dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare  e che lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di-  mostrare la seconda quistione, cioè per che ragione dovesse  quel fare e quello altro lasciare. 10. Et questa scienza, cioè  logica, sì ae tre parti, cioè dialetica, efidica, soffistica. La  prima tratta di questionare e disputare l'uno coli' altro, e  questa è dialetica; la seconda insegna provare il detto del-  l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e questa èe efi-  dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e dell'altro  per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è  sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia, cioè teorica, si è per dimostrare  le nature di tutte cose che sono, le quali nature sono tre;  15. e però conviene che questa una scienza, cioè teorica, sia  pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e Mate-  matica, sì come dimostra questo arbore.      4: m cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano aggiunse  sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e dell'altro — i 1 : if infinite  — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita pruova — 12: m apare.   (1) Conservo invece di e, comune a quasi tutti i codici, appunto per la sua  singolarità e perchè sembra indicare una differenza tra l'efldica e la sofistica-  la prima dimostra la verità di una delle due parti, la seconda pretende dimo-  strare l'una e l'altra parte.  Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia,  la quale è appellata divinitade, si tratta la natura delle  cose incorporali le quali non conversano in traile corpora,  sì come Dio e le divine cose. La seconda scienzia, cioè  5. fisica, sì tratta le nature delle cose corporali, si come sono  animali e He cose che anno corpo; e di questa scienzia fue  ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta la  natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe  e delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa-  io, nezza e curare la malizia. La terza scienzia, cioè matema-  tica, sì tratta le nature de le cose incorporali le quali sono  intorno le corpora; e queste nature sono quattro, e perciò  conviene che matematica sia partita in quattro scienze, ciò  sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come  15. appare in questo arbore:      13. La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti  e de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La se-  conda scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e  suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e delle   20. proporzioni. La quarta scienza, cioè astronomia, tratta della  disposizione del cielo e delle stelle.   14. Or si torna il conto dello sponitore di questo libro  alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente ta-  ciuto, e dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica,   25. che pervegna a dire della gloriosa Rettorica. E sì come  fue detto già indietro, questa pratica è quella scienza che  dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di     3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai poteo bone argomentare isani —  10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10 a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien-  7.ia — 17: M' noveri — 18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore —  22: Af' si ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf' oo —  24: m della prima parte — 25: m perverrà.     tre maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre  scienze, cioè sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come  mostra la figura di questo arbore :      15. La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di  5. bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle  cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per  assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iusti-  zia, fortitudo e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono  superbia, invidia, ira, avarizia, gula e luxuria; e così dimo-  io, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e jier vivere  virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì  'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare  e reggere il propio avere e la propia famiglia. 17. La terza  scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere  15. le cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è pro-  vato, è in due guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede  in questo arbore:      18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi-  sterii che in cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li     1 : M-m però clic convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om. ira — 10: M^ da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria e  la famiglia — 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M' in detti.  18: m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini fanno   (lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è il medesimo e anclie  paleograficamente la differenza è lieve: forse ì citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adot-  tiamo la lezione un po' più diffìcile.     altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare.  Quella eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera colla  lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò  sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come dimostra  5. questo altro albore:      19. Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che gra-  matica è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et  insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè  per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo (i).   10. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire  né bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova  le sue parole per argomenti che danno fede alle sue parole;  e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene che mo-  stri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza   Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a cciò  che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova  et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali l'udi-  tore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere  ciò eh' è detto. 20. Adonque le tre scienze sono bisogno a   20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò  che '1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere a  diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gra-  matica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni (2),     1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ] questa si con-  tiene — 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò sia — 7: M' l'arti liberali — 9: M-  m om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10: M' om. alcuno — I-i: M ragione si che  le s. p. — pruova — i7 : M-m advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al dicta-  tore — S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione  Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la grafia dei copisti  da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la stranezza della pa-  rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S.   (2) Che questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16 («ra-  gioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione equivarrebbe a  provare.  e questo fae dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo  dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento e faccia  quello eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile scienza, cioè la covernatrice delle cit-  5. tadi, la quale èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite  e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella che sisi fa do-  mandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e lege;  quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma  non per lite, ma per dare alla gente insegnamento e via di   10; ben fare, sì come sono i detti de' poeti che anno messo inii  iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende  che muovono li animi a ben fare. 22. Altressì quella civile  scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una artifi-  ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella quale   15. il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della  materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene,  e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non è  artificiale è quella nella quale si recano argomenti pur per  altoritade, si come legge, sopra la quale non si reca neuna   2'^ pruova né ragione per che, se non tanto l' altoritade dello  'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è artificiale  dice Boezio nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte di  ragione. 23. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica  è parte della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella   25. parola dice che rettorica è la maggiore parte della civile  scienzia; e dice « maggiore » per lo grande effetto di lei,  che certo per rettorica potemo noi muovere tutto '1 popolo,  tutto '1 consiglio, il padre contra '1 figliuolo, l'amico centra  l'amico, e poi li rega(i) in pace e a benevoglienza. Or è detto   30. del genere; omai dicerà Tulio dello oflfizio di rettorica e del  fine.     1: M ordinare, m e iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si  vede in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M' 7  le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta civ. — 13-14: mchS l'ima  e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra none art. (X non art.) — 16: m su argomenti  che crede ohe si chenvieno, S secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que-  sta non artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. — wchontro  all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace 7 benev., L-S recarli a p.  Q n h. — 80 : m M' oggimai.   (1) Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere il  soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono. La lezione  ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da scartare : non si vedrebbe     - 36     Tullio dice che è l'ufficio di questa arte.   18. Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente  per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra 11' ufficio e Ila  fine èe cotale divisamente : che nell'officio si considera quello che  5. conviene alla fine e nella fine si considera quello che conviene al-  l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico curare apostatamente  per sanare, il suo fine dicemo sanare per le medicine, e così quello  che noi dicemo officio di rettorica e quello che noi dicemo fine in-  tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare il parliere, e  10. dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili dice.   Lo sponitore.   1. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que-  sta arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto  aperto, sì sine passerà lo spouitore brevemente. Et dice   15. cotale diffinizione : officio è dicere appostatamente per fare  credere. Et nota che dice « appostatamente », cioè ornare  parole di buone sentenze dette secondo che comanda que-  st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo di-  citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare   20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta-  mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice  per divisare il detto de' poeti, che curano più di dire belle  pai-ole che di fare credere. 2. L' altra diffinizione è del fine.  Et dice che fine è far credere per lo dire. Et certo chi   25. considera la verità In questa arte e' troverà che tutto lo  'ntendimento del parliere è di far credere le sue parole  all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere; che     2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire - 3-4: M' om. Inlra 11' udicio  e ripete è cotale ilivisumento che no l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in-  tenderemo cli6 olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che il  lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. — 10: .tf-m-.l/' or-  nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 : M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m  che farle credere - 24: M-m per 1 udire — 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare   la ragione per cui fu mutata negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia  derivata da recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi  reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta legge  del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S., XIV, 90-91)    'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si rivolve (1)  lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore intende.  3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di que-  sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.  5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica  bene e che sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è  questo fine: che '1 dicitore a questo intende, che nell'udi-  tore sia cotale fine che creda quello che dice; e questo fine  non desidera sempre IL PARLATORE sì come quello di sopra.   10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che è il fine e che  divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che officio  è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento secondo  lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui  cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa ca-   15. gione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che   . dice. Et di ciò pone exemplo del medico, e dice che Ilo   officio del medico è medicare compostamente per guerire   r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per lo   suo medicare. 5. Già è detto sofficientemente dell' officio   20. e della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire  della materia.   Della materia.   19. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale  tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi  25. dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò  che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose  sopra le quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2)  dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che     1 : M sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m considera   — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a faro — 16: Af ' in ciò —  17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19: M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine   — ogimai procederà Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le  malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss, apresso   (1) Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e giustificabile con  ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso un n ha originato il sinvolve  di M; da questo, per correzione arbitraria, è nato si muore di Mi L. Invece di  « si rivolve lo suo animo » (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo) si rivolve  lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno naturale.   (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : « lo savere che dell'arte  s'apprende». Il testo latino ha facuUas oratoria.     - 38 -   fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue quasi  il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo  molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte  grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa  5. arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo  e giudiciale. Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che materia di rettorica   10. è quella cosa per cui cagione furo pensati e trovati li co-  mandamenti di questa arte, e per cui cagione s'adoperala  scienzia clie 11' uomo apprende per quelli comandamenti.  Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli ado-  peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma   15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et  sopra ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che Ila materia richiede e per fare  che ir uditore creda. 2. Et di questo è stata diiferenzia  tra' savi : che molti furo che diceano che materia puote   20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et se  questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine,  che non puote essere; e di questi fue uno savio, Gorgias  Leontino, antichissimo rettorico; et in ciò che Tulio l'ap-  pella antichissimo sì dimostra che non sia da credere.   25. 3. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che  diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò  che fece uno libro d' invenzione et un altro della parladura,  dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e catuua  maniera èe genei'ale delle sue parti; e queste sono dimo-   30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti  apiiare :     2: m cliel parlaro — 3: M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi —  7: M-m giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua com.,  S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo adoperamenlo et por lo inf. —  M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale — 19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale  l'uomo chonviene parlare, M' sopra la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l-  lava — S6: M-m (lice molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-  votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna — 30-31:  M-m om. come ecc. e la figura.  Et a questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre  maniere è tutta l'arte di rettorica. 4. Ma ben puote essere  oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente intra dire  e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si generale  5. che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-  dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica  se non delle dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta  la rettorica in quistione di parole. Et intendo che quistione  è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare  si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del fatto o della  persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio  Cicero no, che davanti (i) al popolo di Roma fece anegare   15. molti romani a tempo che '1 comune era in dubbio? In  questa proposta à due parti, una del sì et un'altra del no.  Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò che  à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da  sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa   20. et isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre-  dere che buono uomo faccia quello che ssia da sbandire  degno né de exìlio ». 6. Grià è detto che è la materia di  quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et  però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì quelle   25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo sponì-     1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. — 4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote —  6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a —  il: M-m et por atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m Ila,  M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M' al tempo —  16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in exilio — 21-22: m dongno  da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24: J/' la conferma   Non e' è dubbio sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde;  quanto all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit., p. 34.   (2) Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal seguente né  de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla prima alterazione).     ~ 40 —   tore potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la  materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben  guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Con-  noscere ciò che in esso si contiene, che altrimenti non po-  trebbe intendere quello che viene innanzi; e dicerà prima  del dimostrativo.     Del dimostr amento.     20. Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in vituperio  d'una certa persona-     le. Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che, con ciò sia cosa che  Ile cause e Ile quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale  l'uno afferma e l'altro niega siano di tre maniere, sì inse-  gna Tulio avanti quale causa è dimostrativa. Ma lo sponi-   15. tore non lascerà intanto che non dica la natura e Ila radice  di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di Tulio; et in ciò  dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la causa,  e dicerà che è il fatto della causa. 2. La persona del par-  liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo   20. suo fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi  crede ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto  noll'abbia; altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi  crede ragionevolemente che elli abbia fatto, avegna che fatto  non sia. 3. Il fatto della causa è quel detto o quel fatto per   25. lo quale alcuno viene in causa e questione; et in ciò sia  cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-     1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora — 6: i/del dimoslratio, m  (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14: il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio  inprima — M-m cosa — il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona  del ]). 7 quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per lo s. f.  intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS: il-m e così intondo quello —  S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in ipiest., m. ohi. — L siae     -- 41 -   dimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde:  « Non fo ». In questo convenente Pompeio e Catellina sono  le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu fai tradi-  mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno ap-  5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et per  maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra-  mento e che deliberazione e che iudicamento, e così sopra  che è ciascuna maniera di rettorica.   Dimostramento. — 5. Dimostramento è una maniera di   10. cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-  cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è  da laudare e che da vituperare; e questa causa dimostrativa  è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire.  6. La speciale dimostrativa è quella nella quale i parlieri   15. si sforzano di provare una cosa essere onesta o disonesta,  non nominando alcuna certa persona; et intendo certa per-  sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e  di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo  dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della   20. luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. 7. Et  di questa causa speciale dimostrativa sia cotale exemplo :  « Il forte uomo è da laudare ». Dice l'altro: « Non è, anzi è  da vituperare ». E di questo nasce quistione, se '1 forte è  degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma   25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La causa  dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale  i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso-  nesta nominando certa persona, in questo modo: « Marco  Tulio Cicero è degno di lode ». Dice 1' altro: « Non è »; e   30. di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare.  Et questa quistione comprende due tempi : presente e pre-  terito. Che al ver dire di ciò che 11' uomo fae presentemente  è lodato biasmato, et altressì di ciò che fece ne' tempi pas-  sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche storie di Roma che   35. questa causa dimostrativa si solca trattare in Campo Marzio,     5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo... cheo (ma L clie... che) - saprà che è —  10: M' per sue propietadi il parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa  — 16: M' nm. et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m  cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om. speciale —  M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M' alcuna persona  essere  M-m di tre tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire —  33 : M-m om. di     - 42 -   nel quale s'asemblava la comunanza a llodare alcuna per-  sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a bia-  smare quella che non era degna. E già è ben detto della  causa dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli-  5. berativa.   Del diliber amento.   21. Diiiberativo è quello il quale, messo (^' a contendere et  a dimandare tra' cittadini, riceve detto per sentenzia.   Lo sponitore.   10. 1. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa   è quella eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor  pareri et a domandare a lloro quello che nne sentono; e  sopra ciò si dicono molte et isvai'iate sentenze, perchè alla  fine si possa prendere la migliore (2). 2. Et questo modo di   15. causare è quello che fanno tutto die i signori e le podestà  delle genti, che raunano li consillieri per diliberare che  ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare; e  quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si  prende quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo   20. exemplo che propone il senatore: « E da mandare oste in  Macedonia? » Dice l'uno sì e l'altro no. Et così diliberano  qual sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza. Et questa  quistione si considera pure nel tempo futuro, che al ver  dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili-   25. bera che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe-  rativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote  partire. 5. Speciale è quella nella quale si considera d'ai  cuna cosa s' ella è utile o s' eli' è dannosa, non nominando     1-3: M alcuno cli'era dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso,  S è messo — H : M-m che in essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da  loro - 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello)   — 16: M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m che  pone -22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo huomo(»nn L S l'uomo)  M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7 doppia,. L e delib. e doppia —  m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m alcuna cosa — 28: M-m om. sellò   (1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La stessa corruzione, comune a  tutti i codici, è nel successivo § 22 (e posto), e il costrutto insolito la rendeva facile.   (2) Anche la lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M' perchè  corrisponde esattamente alla fino del § 2.    alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace  è da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di  ciò nasce causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere  o no. 6. L'altra che non si può partire è quella nella quale  5. i dicitori studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o dan-  nosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno:  « Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi ». Dice l'al-  tro: «Non è». 7. Et già è detto della causa diliberativa;  omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto   10. a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe mo-  strare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre.  Et questa diliberativa si solca trattare nel senato, e prima  diliberavano li savi privatamente che era utile e che no  e poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si   15. fermava la loro sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra  migliore.   Del iudiciale.   22. Judiciale è quello il quale, posto In iudicio, à in sé accu-  sazione e difensione o petizione e recusazione.   20. Lo sponitore.   l. La natura di iudicamento si è una forma la quale si  conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia  e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa  s' ella è insta o centra iustizia, in cotal modo : che uno ac-   25. cusa un altro e 11' accusato si difende elli medesimo o un  altro per lui; overo che uno fa sua petizione e domanda  guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben fatta, et un  altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta  dice : « Anzi è degno di pena ». 2. Et questa causa si pone   30. in iudicio, cioè in corte davante a' indici, acciò eh' elli in-  dichino tra Ile parti quale àe iustizia; e questo si fae in  corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena del     S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale — 7 : Ai da melanesi, m tra  mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *: J/ E già detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi-  mai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om. a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima  14: m om. e — m M' in loro consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia  si fermava — 18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono — Tutta mas.  recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m om. che — 25: .V e me-  desimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32: m traile genti.  malfattore dia exemplo di non malfare, e '1 guidardone  de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra  questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di  peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano  5. per paura della pena ». 3. Et è questa causa iudiciale dop-  pia: una speciale et un' altra che non si puote partire.  Speciale è quella nella quale il pai'lierc si sforza di mo-  strare alcuna cosa che ssia insta o iniusta, non nominando  certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da 'mpendere,   10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella  che non si puote partire è quella nella quale il parliere si  sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando  certa persona; in questo modo: « È da impendere Guido  eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare Julio   15. Cesare eh' à conquistata Francia, o no? » 5. Et tutte que  ste cause iudiciali si considerano sopra '1 tempo preterito,  perciò che di ciò che 11' uomo à fatto in arrietro è guidar-  donato o punito.   Tullio dice la sua sentenzia della materia di rettorica,  20. riprende quella d' Ermagoras.   23. Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere (0   e la sua sctenzia è di questa materia partita in tre. (cai). VI) Che   certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne attenda C^)   ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in causa   25. et in questione.     1 : VI exempro allo genti — -V far malo — M il guidardone — S: M' tini benfacloro —  m om. VA — 4: M' o li malvagi seno guardano — 6: U' et una che — 7: il' il dicitore  - 9: M-m om. modo — m è da mpichare — 10: M' un altro — 12-15: M-m om. ila  nominando alla fine del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m per adietro — i8:m pulito  SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M Amagoras   (1) Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto, spe-  cialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte a  parliere di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto latino abbia nel  primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci aspetteremmo dunque in-  tenda, e l'alterazione, per analogia col primo verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma  anello con attenda il senso va bene; e forse una prova della somiglianza sostan-  ziale per l'autore fra attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove,  riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare che  Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (= attendesse) quello  che promettea ».  Lo sponitore.   1. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite della  materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in  questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e  5. dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la senten-  zia d'Ermagoras, il quale diceva che Ila materia del par-  liere è di due partite, cioè causa e quistione. 2. Ma certo  e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia  di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola-  lo, mento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli  era più novello e però dovea elli essere più sottile, e ri-  prendelo ancora però che ssi traea più innanzi dell'arte;  e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che  Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero  è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del par-  liere si è parlare appostatamente per fare credere, e questo  far credere è sopra quelle cose che sono in lite, e' ancora  non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai*e  20. il vero, e' troverà che confortameuto e disconfortamento  sono solamente sopra quelle cose che già sono pervenute  all' anima. Verbigrazia : Lo sponitore avea propensato di  fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava;  onde da questa negligenzia il potea bene alcuno ritrat-  25. tare ('-) per confortameuto, e questo conforto viene sopra  cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negli-  genzia. 4. Et se alcuno disconforta un altro che avea pro-  posto di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo  sconforto in cosa la quale era già pervenuta all' anima.  30. Adunque è provato che conforto né disconforto non pos-     1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma — 4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10:  M'-L non mattamente —li: M-m om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non  examina delli altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m  om. si — 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già  - S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M' bene  ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta — 30: M-m sconforto  Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie por « dichiarare »,  che mi sembra qui il senso piìi adatto.   (2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di mantenm-e  questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono gh altri mss.     altì-  sono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento  puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote  venire sopra cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima.  Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di  menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui elli  ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola, tanto  elle propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora  pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento  non ha lite, perciò che '1 consolato non si difende né non   10. allega ragioni contra il consolatore, non puote essere ma-  teria di questa arte. 6. Or è ben vero che altri dissen che  dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e di  vituperare altrui. Et avegna che Tulio no Ili riprenda no-   15. minatamente, assai si puote intendere la riprensione di loro  in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse che  dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di  questa arte. 7. Et sopra ciò nota che dimostrazione per-  tiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi modi : che ' poeti   20. lodano e biasmano sanza lite, che non è chi dica contra,  e '1 parlieri loda e vitupera con lite, che è chi dice contra  il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che Erma-  goras intendesse quello che dicea, né che considerasse  quello che prometea, dicendo che tutte cause e questioni   25. proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni  d' Ermagoras sopra causa e sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc.   24. Causa dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro-  versia posta in dicere con interposizione di certe persone; le quali  30. noi medesimo dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo  dinanzi, che sono tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo.     2: M' innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M ellamava —  6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons. —  .9: in e non allega — i3: m di poota.... a poeti, M' de poeti... ali poeti — M' o di vit. —  i-i: M nelle, m non le, M' non gli — i6: M' elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et  iiivochationo — 19: M' ali poeti et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/«  E! parladore — m pero che è chi dicha chontro al suo dire — S-1: A/' chelgli prom. —  26: m e questione, M' sopra questioni — 30: m nm. medesimo — itf' nm. o    Sponitore.   1. Poi che Tulio avea detto che Ei-magoras non intese  se stesso dicendo che causa e questione sono materia di  questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras  5. dicea che fosse causa. 2. Et causa appella una cosa della  quale molti sono in controversia, perciò che 11' uno ne  sente uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa  intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di parole met-  tendo e nominando alcuna certa persona, che non si possa  10. partire e che propiamente e determinatamente si partenga  alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio che ss' ac-  corda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per  Aristotile; ma dicerà omai com' elli errò in questione.     Qtd rijivende Tullio Ermagoì     as-    Questione apella quella che àe in se controversia posta   in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che  èe bene fuori d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del  mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni inten-  demo tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere;   20. che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al parliere  in guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere con-  sumata la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.   Sponitore.   1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava questione   25. quella cosa sopra la quale era controversia intra molti,   sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non no-     5: M diceva - m ch'era chausa — 7: M^ e un altro ne trae altra d. i., M na {sic)  trae, m ne atrae — 8: M-m contendemo — 10: M' nominatamente — m sautenga —  13: Jf' oggimai — 15: M' la quale ae — 16-17: M' che ben — M-iii li senni vari —  M' om. h — M-m la l'ama — 19: M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for-  seneria — JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w appella-  lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano   (1) Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento;  è la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese.  minando certa persona la quale propiamente s'apartenesse  alle civili questioni. 2. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che  è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia fue intra' fi-  losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano molti  5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici; altri  erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii.  3. Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che  alcuna fiata s'ingannano, che se noi credemo che ricalco  sia oro sanza fallo s' inganna il nostro senno. 4. Altressì  10. fue questione della forma del mondo, però eh' alcuni filosofi  provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh' è lungo, o  otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della gran-  dezza del sole, che alcuni dicono che '1 sole è otto tanti che  Ila terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforza-  lo, vano di cogliere i maestri di geometria misurando la terra,  e per essa misura ritraeano quella del sole. 6. Et perciò  mostra Tulio che Ermagoras non intese quello che dicea,  ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali questioni  non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice « officio »  20. però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse filosofo,  e così toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni,  ma ciò non arebbe per officio di rettorica ma di filosofia.  Donque ben è fuori della mente e vano di senno quelli che  dice che '1 parliere possa o debbia trattare di queste que-  25. stioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano  i filosofi. 7. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese  quello che disse. Ornai proverà come non attese quello che  promise, in ciò che promettea di trattare per rettorica ogne  causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a guisa de' savi, i     1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori  d'hon. — .W grande (juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —  M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano volontade  (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco — 9: S il nostro senti-  mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i  triangolo, S otangolo — m quadro — i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella  terj-a —16: m ritraevano la misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. —  S3: M' Dunque ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano —  S7: il-m non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi   (1) La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di  S che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come abbre-  viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento di Vittorino a  questo passo non parla nò di triangolo né di ottangolo.   (2) Il latino Ila in ca.     - 49 —   quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono  ad alcuna arte per la quale non si puote provare; come  s' alcuno volesse trattare d' una questione di dialetica et  aponessela a gramatica, per la quale non si pruova né ssi  5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per argomenti  la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di Tulio.   Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto davanti.   26. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere  acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando   10. la sua scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere,  e non avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli.  Ma ora è quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto-  rica che no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi  pare del tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate   15. cose elette ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti,  et alcuna v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del-  l'arte sì come fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la  qual cosa noi vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare  a noi che materia di rettorica è quella che disse Aristotile, della   20. quale noi avemo detto qua indietro.   Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che se Ermagoras fosse  stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le  cause, parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato  25. al parliere quello officio che nonn é suo; e così non avrebbe  mostrata la forza dell'arte, ma averebbe mostrata la sua.  2. «Ma ora è quella forza nell'uomo», cioè tal fue questo  Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia retto-  rica no-lli concederae che ssia filosofo. 3. « Ma perciò l'arte     1 : 3f siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla  provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i ordinato  — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M' ([nello puote —  13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in esse — M-m ^ locate le cose  («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti, in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea,  M' ]jotero — 19: ni sia quella — 20: M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse  detto — 25: Af a parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse  ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho   (1) Il testo latino ha in ea.     che fece non pare in tutto rea ». In questa parola il cuo-  pre (1) Tulio e dimostra eh' elli avrebbe bene ijotuto dire  X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò eh' elli àe  messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno li  5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna  cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove  il vitupera, dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte  d' altri maestri fece il suo libro. 4. « Ma molto è picciola  cosa dire dell' arte », ciò viene a dire eh' al parliere non   10. s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece Er-  magoras, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo  li 'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non  seppe fare esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari-  stotile, che dice che materia di questa arte è dimostrativo,   15. deliberativo e iudiciale. Et ornai è detto sofficientemente e  diligentemente del genere, cioè generalmente, dell' officio  e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle sue  parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE dice le parti di rettorica.   20. 27. Le parti sono queste, sì come i più dicono: Inventio, di-   spositio, elocutio, memoria e pronuntiatio.     Lo sponitore.   ì. Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione   per che, e quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo.   25. Ma prima dicerà le ragioni che nne mostra Boezio nel   quarto della Topica, che dice che se alcuna di queste cin-     1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni i com. — 6: J/' vi giiingnesse —  i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri —  om. Ma... arte — m cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m  dice materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell' officio et  del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M sulficientemcnte dilig. — m ora  dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M' inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa  — M-m che dico se alcuna  Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un ilcuopre letto  iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di dimostra.  que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se  queste parti sono in una diceria o inn una lettera, certo  l'arte di rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase-  giia Boezio: che però sono sue parti perchè esse la 'nfor-  5. mano et ordinano e la fanno tutta essere, altressì come '1  fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì  che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la  casa compiuta. 3. Et dice Tulio che queste sono le parti  di rettorica sì come i più dicono, i)erò che furo alcuni  che diceano che memoria non è parte di rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è  parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di  ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della 'uven-  zione, sì come di piti degna; e veramente è più degna, però   15. ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non  possono essere sanza lei.     Tullio dice della invenzione.   28. Inventio è apensamento a trovare cose vere o verisimili  le quali facciano la causa acconcia a provare.   20. Sponitore.   I. Dice Tulio che invenzione è quella scienzia per la quale  noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti necessarii -  e nota « necessarii », cioè a dire che conviene che pure cosi  sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti ac-   25. conci a provare che così sia, per li quali argomenti veri  e verisimili si possa provare e fare credere il detto o '1  fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica in-  contro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere il  porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia   30. sopra la quale conviene dire parole, o difendendo 1' una     i: .W manca — 3: m vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù — 5: m  fannola tutta essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om.  Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente -  16: m essere o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento — il' overo  simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m pure che cos'i sia. E sap-  piano — 25: M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto - 27-28: m chontro ad un altra     - 52 -   parte o dicendo centra l'altra; o per aventura sia materia  sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia don-  que la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna,  ma consideri che '1 savio mette alla bilancia le sue parole  5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn iscritta. 3. Con-  sideri ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi che  propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta  le mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa  e truova nel suo extimare come la casa sia migliore; e poi   10. eh' elli àe tutto questo trovato per lo suo pensamento, sì  comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il buono  rettorico: pensare diligentemente la natura della sua ma-  teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili sì  che possa provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già   15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire  quello che è dispositio.     Dice Tullio de dispositio.  29. Dispositio èe assettamento delle cose trovate per ordine.   Sponitore.   20. 1. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae asettare per  ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte  e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua  parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è quella   25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li argomenti  trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel  principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non  si possa contrastare lievemente, nella fine. 3. Cosi fae il  difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo     1 : m chontro all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano alla  penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in iscriptura — 6-S:.il diliciatore  prima che metta lo mani a lare — mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la-  voro — i3: M-m si veri che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om-  quello - M-m Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a dire  che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai - ,W-»i ohi. i, m om. argo-  pienti — 27: M' ali (piali     nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo  che ssi conviene, e ila parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e  camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo. 4. Già  è detto che è dispositio; or diceva il conto che è elocutio.     5. Tullio dice della locuzione.   30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti  alla invenzione.   Sponitore.   I. Perciò che neente vale trovare od ordinare chi non   10. sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene  di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia  trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella  scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di  parole e di sentenze a quello che noi avemo trovato et   15. ordinato. 2. E nota che ornamento di parole èe una digni-  tade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria,  per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia: « Il  grande valore che in voi regna mi dà grande speranza del  vostro aiuto ». Certo questa parola, cioè « regna », fa tutte   20. risplendere l'altre parole che ivi sono. 3. Altressì nota che  ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene  di ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'al-  tra con piacevole dilettamente. Verbigrazia : in queste pa-  role di Salamene (1): «Melliori sono le ferite dell'amico che'   25. frodosi basci del nemico». 4. Et già è detto che è elocutio, cioè  apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la di-  ceria piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai pro-  cederà il conto alla quarta parte di retto rica, cioè memoria.     i-2: m in quello che si chonvienc et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam-  minate, ciascuna in suo luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione (anche  S intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15: m om. E -  16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M' vi sono — SI m  ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con un altro, m in un'altra diceria  si giungne un'altra sententia chon un altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene —  25: M' li frodolenli basci — m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole  el; M om. che.... parole  Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si spiega meglio una  pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato, invece, a cambiare dice indi?),  mentre poi il verbo dice renderebbe superflua l'espressione in queste parole.  Dice Tulio della memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle  parole e dell'ordinamento d'esse.   Sponitore.   5. 1. Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon-   ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché  ci'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio  che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere:  una naturale et un'altra artificiale. 2. La naturale è quella   10. forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a memo-  ria quello che noi aprendemo per alcuno senno del corpo.  3. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per in-  segnamenti delli filosofi, per li quali bene impresi noi pos-  siamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate   15. o aprese per alcuno de' senni del corpo; e di questa memo-  ria artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. 4. Et dice  che memoria è quella scienzia per la quale noi fermiamo  nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et ordinate,  sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é   20. detto che è memoria; si dicerà il conto la quinta et ultima  parte di rettorica, cioè pronuntiatio.   Dice Tullio della pronunziagione.   32. Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce se-  condo la dignitade delle cose e delle parole.   25. Sponitore.   1. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare  parole et avere memoria chi non sae profFerere e dicere le  sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio     5: *' Però che niente — ot acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere — 9:mom,  et — il: M' senso — IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5: 4f' sensi — 16-,  m nnu Et — i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a dire — SO- « ultra parte, hi  ora dirà il conto la quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare — 27: in a chi non sae  prollbrere o diro     -òs-  che è pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la quale  noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare et ac-  cordare la voce e '1 portamento della persona e delle mem-  bra secondo la qualitade del fatto e secondo la condizione  5. della diceria. 2. Che chi vuole considerare il vero, altro  modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che  di letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1 parliere  che vuole somuovere il populo a guerra dee parlare ad  alta voce per franche parole e vittoriose, et avere argo-   10. glioso advenimento di persona e niquitosa ciera contra ' ne-  mici. 3. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamen-  tare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio,  sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et ana-  trisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per   15. le nari e faccia tutta romire la piazza, sicché paia che  coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo punto  non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per  mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici.  4. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile adve-   20. nimento del corpo, la ciera amorevole, la voce soave, la  parola paceffica, le mani chete; e '1 suo cavallo dee essere  chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade  che sopr'a llui non si muova un sol pelo, ma elli medesimo  paia factore della pace. 5. Et così in letizia de' 1 parlatore   25. tenere la testa levata, il viso allegro e tutte sue parole e  viste significhino allegrezza. Ma parlando in dolore sia la  testa inchinata, il viso triste e li occhi pieni di lagrime  e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sem-  biante per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo del-   30. r uditore a piangere et a dolore. 6.- Et già é detto delle  cinque parti sustanziali di rettorica interamente secondo  l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote  fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scu-  sare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché     2: m e misurare ~ 5: M' che a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M' parlare, m  Il parliere — 8: m smuovere — i/' om. il populo — 11 : M parlantare, m p-are — 12: m  mn. elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m om.  per — 19-20: M' humili avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole pacefiche —  22 : L di tanta jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore — 25 : M-m levata in suso -  il' le sue parole — 26: il-m e signilichino — 27: m chinata, il' inchina, L inchinata —  28 : M-m parole iuste e dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a dolore. Ora è detto —  31 : il' sustanziali parti — 32: M' il puote     — 56 —   quello sia genere et ofifìcio e fine di rettorica sì com' elli  àe fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo.   Tullio dice che tratterà della materia e delle parti.   33. Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in  5 altro tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il  genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però che bisognano di  molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la propietade  e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica  pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della ma-  io teria e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle  parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente  chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale  è principessa di tutte le parti.   Sponitore.   15. 1. In questa parte dice Tulio che non vuole ora pro-   vare perchè quello sia genere di i-ettorica che detto è  davante, né Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe lunglie  parole e non sono di molto frutto, e però l' atermina nel-  r altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in questo   20. presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione,  deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle pai'ti,  cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio.  2. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma  però che inventio è la più degna parte, sì dicerà Tulio   25. chente ella dee essere in ciascuno genere di rettorica,  cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di  causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando  sia iudiciale; e tratterà si comunemente che mosterrà  come sia da trovare in catuna di queste cause, e come   30. ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a me-  moria e come profferere le sue parole.     1 : M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare, ni a dimostrare — M' le pro-  picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io.... congiuntamente — IS: M-m  chente e — i3: Af' do tutte l'arti — 16: M-m quella, M -L quel — M' detto davanti —  18: M' lo termina — 20: M-m dimostrative — 23: M' congiuntamente; m om. e — 24:  M-m om. SI dicerà Tulio — i'S : M' om. sia — congiuntamente — S9: Af' come iu e. d.  q. e. sa da trovare — 30: iii nm. e come ornare  Lo sponitore parla all' amico suo. — 3. Perciò lo sponi-  tore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di  tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare  l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in conno-  5. scere il dimostrativo e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono-  il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per  innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal guisa che, per lo  buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo  'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve-  JO. ranno perpetua laude.     Della constitnzione e delle quattro sue parti.   34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in  diceria o in questione contiene in se questione di fatto o di nome  di genere o d'azione; e noi quella questione delia quale nasce  15. la causa apelliamo constituzione. E constitnzione è quella eh' è  prima pugna delle cause, la quale muove dal contastamento della  intenzione in questo modo : « Facesti » - « Non feci » o « Feci per  ragione ».   Sponitore.   20. 1. Poi che Tulio àe detto di mostrare e trattare della   invenzione e della materia insieme, sì mostra lo sponitore  in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chia-  rezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono  queste parole, cioè causa, controversia, constituzione e stato.   25. 2. Causa vale tanto a dire quanto il detto o '1 fatto d' al-  cuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato causa  tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi  causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al  prolago e tìniendo alla conclusione; donde dice uomo:     3: M-m di darli l'animo — 7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m  dello sponitore, M ne rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se  questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 : M' om.  insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della inventia, M^ della  inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono — S7 : M' dell'una parte 7 del-  l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal prol.     - 58 -   « La mia causa è giusta » cioè « la mia parte è giusta >.  3. Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire  controversare cioè usare l'uno coli' altro di diverse ragioni  e contrarie. 4. Questione tant' è a dire come '1 primo detto  5. di colui che comincia contra un altro e '1 secondo detto  di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria  nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et  appellasi questione per l'una e per l'altra parte della que-  stione. 5. Constituzione si prende et intende in quelle me-   10. desime significazioni che sono dette davanti. 6. Stato è ap-  pellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che' parliere  stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo medesimo  è appellato constituzione perciò che '1 parliere constituisce  et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o di   15. quel fatto. Et per ciò è appellato controversia che diversi  diversamente sentono di quel detto o di quel fatto.   Qui dice lo sponitore come Tullio tratterà della Invenzione.  7. Et poi che Ilo sponitore àe dette le significazioni di que-  ste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare  quelle questioni le quale trattano i parlieri, et appellale  constituzioni e dice la proprietade di constituzione e divi-  dela in parti. 8. Nel secondo luogo mostra qual causa sia  simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè di   25. quattro o di più. 9. Nel terzo luogo mostra qual contra-  versia sia in scritta e quale in dicere. 10. Nel quarto luogo  mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la  diceria nella quale àe due divisioni e ragioni, e Ila giudi-  cazione e '1 fermamento. 11. Nel quinto luogo mostra in   30. che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo  rettorica. 12. Nel sesto luogo mostra quante sono esse parti  e quali e che sia da ffare in ciascuna. 13. Et disponesi cosi     2 : Af' vale quasi tanto — 3: M' controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M'  k tanto a dire — M-m come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M dn-  bitatione sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8: m om. VA-  IO: M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro parti — M-m dimostra  - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iu-  dicamento el fermamente — 29: m dimostra — 31: M luorao (tic) .— 32: M' ciascuno  M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et dispone   (1) Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle frasi seguenti ; ma  la concordia dei codici per e lascia incerti sulla conesiione, che non è neppure  indispensabile per il senso.     — 59 —   il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le qui-  stioni che toccano al parliere di questa ai'te.   Sponitore. - 14. Ogne cosa la quale àe in sé controversia,  cioè della quale i diversi diversamente sentono sicché al-  5. cuna cosa dicono sopr' a cciò con inquisizione, cioè per  sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à' in sé que-  stione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che  alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno con-  tra l'altro: « Tu mettesti fuoco nel Campidoglio »; et esso  10. risponde: « Non misi ». Di questo nasce una cotale que-  stione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata que-  stione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc.   15. Od è questione di nome, cioè che 11' una parte appone  un nome a un fatto (D e l'altra parte n'appone un altro.   15. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa uno cavallo o  altra cosa che non sia sagrata. Dice 1' una parte contra lui :  « Tu ài commesso sacrilegio ». Dice l'altro: « Non sacrile-  gio, ma furto ». Et nota che sacrilegio è molto peggiore  che furto, perciò che colui commette sacrilegio che fura   20. cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce una  questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome  furto sacrilegio, e però è appellata questione del nome.   16. Od è questione del genere, cioè della qualitade d'alcuno  fatto, in ciò che 11' una parte appone a quel fatto una qua-   25. litade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno : « Questi  uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo  padre» - Dice l'altro: « Non è vero, ma iniustamente l'à  fatto»; e di ciò nasce cotal questione di questa qualitade:  se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò è appel-   30. lata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e   di che maniera sia. 17. Od è questione d'azione, cioè viene   a dire che contiene questione la quale procede di ciò,   - e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro e d'un tempo   ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro : « Tu m' ài     4: M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto — 8-9: M' uno contra un  altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto, il/' perche il facto che allui e  e apposto da questione ecc. — M-m Onde questione — i4 : M-m in nome o in facto, M'  ialla dal 1° al 2° appone — 18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M'  del nome del facto — 22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro —  28: iW' OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —  mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno a un altro   (1) È lezione congetturale, ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del § 16.     — 60 -   furato un cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine  rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o  perciò eh' è tempo feriato, o perciò eh' io non debbo rispon-  derti in questa corte, ma in quella della mia terra >. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice che  è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. 18. Et dice  Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono  appellate constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice  che constituzione è la prima pugna delle cause, cioè   10. quello sopra che da prima contendono i parlieri, cioè il  detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra che  de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che  muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto  di colui che ssi difende contra le parole dell'accusatore.   15. 19. Onde contastamento è appellato el primo detto del difen-  sore e intentione è appellata il primo detto dello accusa-  tore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna  della difensione ch'è della accusa, non che nasca della di-  fensione, ma perciò che del detto del difenditore si puote   20. cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o di ge-  nere o di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli  che sono messi davanti. 20. Et omai dicerà Tulio le nomora  e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni di tutte le dette  questioni.   25. Del fatto, et è detto congettìirale.   35. Quando la controversia è di fatto, perciò che Ila causa si  ferma per congetture, sì à nome constituzione congetturale.     Sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che quando la conten-   30. zione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come   davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-     1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se quelli —  m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono da prima — 14: M di-  fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17: M-m che nascimento — 19: M' owi.  del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni.  è — 26-27: M-vi om. è — per cometlere — 30: M' apposto altrui     — 61 —   gettare, cioè per suspezioni e per presunzioni. Verbigrazia:  Dice uno contra un altro: « Veramente tu uccidesti Aiaces,  ch'io ti trovai e vidi traiere il coltello del suo corpo ».  2. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò  5. che a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al-  tressì ferme ragioni si possono inducere per 1' una parte  come per 1' altra. E poi eh' è detto della constituzione di  fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di nome.     Del nome, et è appellata ilifjìnitiva.   10. 36. Quando è la controversia del nome, perciò che Ila forza   della parola si conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi-  nitiva.   Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che quando la conten-   15 zione è del nome del fatto, cioè come quel fatto eh' è ap-  posto altrui abbia nome, quella questione si è diffinitiva  perciò che Ila forza, cioè la significazione di quella parola  e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispia-  nare che viene a dire e che significa, non per exempli ma   20. per parole brevi e chiare et intendevole. 2. Verbigrazia :  Un uomo è accusato che tolse uno calice d' uno luogo sa-  crato et è Ili apposto che sia sacrilegio, et esso si difende  dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or sopra questa con-  troversia si è tutta la questione per lo nome di questo fatto:   25. è sacrilegio o furto? 3. Onde per sapere la veritade si con-  viene diffinire l'uno nome e 11' altro, cioè dire la signiffi-  cazione e Ilo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie  chiarito per le parole quello che '1 nome significa, assai  bene si potrà intendere e provai*e qual nome si XJonga a   30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà Tulio  del genere.     3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f.  r. se ne possono — 7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L  appellata — 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella airorca  — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e furto — 24-25:  AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro — M-m dare - 28: M-m che  nome — 30: m om. Ei e si     62     Dice Tullio del genere, et è appellato generale.   37. Quando è quistione della cosa qual sia, perciò clie Ila.  controversia è della forza e del genere del fatto, sì è vocata con-  stituzione generale.     5. Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che quando è questione  della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è della  forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione  et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è   10. vocata constituzione generale. 2. Verbigrazia : La quanti-  tade del fatto si è cotale questione : se uno à fatto tanto  quanto un altro, si come fue questione se Tulio avea tanto  servito al comune di Homa quanto Catone. 3. La compa-  razione del fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore,   15. si come fue questione quando i Romani presono Cartagine  qual era il meglio tra disfarla o lasciarla. 4. 11 genere del  fatto si è questione della qualità del fatto sì come davanti  fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto fece  iustamente o iniustamente.     20. Dice Tullio dell'azione, et è appellata translativa.   38. Ma quando la causa pende di ciò che non pare che quella  persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra  cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in tempo  che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella  25. pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa, però che  ir azione bisogna d' avere translazione e tramutamento.     8: M-m o decta forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno - 14. m do  fatto — i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne, M-m nm. o non   (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca in tutti i codici, ma si  ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4 dol commento.     - 63     Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio della controversia del-  l'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene  che U'azione si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome  5. translativa, cioè trarautativa- Et questo è o puote essere  Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè:  2. Quando non muove la questione quella persona a cui la  conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra  ad un altro : « Tu se' venuto troppo tardi a scuola ». Et   10. esso dice: « A te no'nde rispondo, che non ti si conviene  muovermi questione di ciò, ma conviensi al nostro mae-  stro ». 3. O non muove la questione contra quella persona  che ssi conviene. Verbigrazia : Fue trovato che in Roma  si trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra   15. lulio Cesare, et esso dicea : « Contra me non si conviene  muovere di ciò questione, ma contra Catellina che 11' àe  fatto e fa tutta fiata ». 4. non muove la questione appo  coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che  dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia da-   20. vanti al re di Navarra. Il vescovo dice: « Tu non m'accusi  davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son bene  tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico ». 5. O non  muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Ver  bigrazia : Uno fue accusato il giorno di Pasqua ; esso di-   25. cea : « Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non è  tempo d' attendere (1) a cotali convenenti». 6. non muove  questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno  cittadino di Roma era in Parigi e volea piatire contra uno  francesco secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice     3: Jtf -HI 7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette m. —  7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m et elli — M-m om.  ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af alcuna —16: m questione di ciò,  M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che  si dee.... Il vescovo fu acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti  giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m M'  da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco   (1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida ragione  per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di codici sembri risul-  tare un da rispondere: sarà stato determinato dal rispondo con cui comincia la frase.   che non dee rispondere a quella legge ma a quella di  Francia. 7. O non muove la questione di quel peccato che  ssi conviene. Verbigrazia : Fue accusato uno, che non avea  il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso   5. dice: «Io non risponderò di questo peccato». 8. non  muove questione di quella pena che ssi conviene. Verbi-  grazia : Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali  apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: « Non  rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo pec-   10 cato ». 9. Donde tutte queste questioni sono translative,  cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in  tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di  sopra.     Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse  15. non sarebbe causa.   39. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne ma-  niera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo  in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che  non sia tenuta causa.     20. Lo sponitore.   1. Poi che Tulio àe divisate le parti della constituzione  et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le  loro nomerà, sì vuole Tulio provare che quando l'una di  queste questioni, che sono del fatto o del nome o della qua-   25. lità del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo intra  loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro  non à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero  parole non sarebbe causa, e così non sarebbe materia di  questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né dilibe-   30. rativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra Tulio     i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_  perciò - m egli dice — M' non li lispondo — 9: M' non tocclia (piosto peccato — ti:  M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de ipicste sia - 17: M tn  i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m  om. ^ — m tralloro - 30: m quando ([U'-sto    che Ile predette cose in questa arte sono si congiunte in-  sieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o deliberativa  o iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del  nome o della qualitade o dell' azione, et e converso che  5. qualunque constituzione è del fatto o del nome o della  qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o  deliberativa o iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua ma-  teria per dicere di ciascuna parte per sé.     Del fatto.   1(». 40. La contraversia del fatto si puote distribuire in tutti tempi:   che ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in questo modo:  « Ulixes uccise Aiace o no ?» Et puotesi fare questione che ssi fa  ora, in questo modo : « Sono i Fregelliani in buono animo verso lo  comune o no ? » Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo   15. modo : « Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al comune  no? ».   Lo spoìiitore.   I. In questa pai'te dice Tulio che Ila controversia  la quale è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale   20. àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in  adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi,  cioè preterito, presente e futuro. 2. Nel preterito pone  Tulio r exemplo della morte d' Aiaces, che fue cotale.  Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achilles,   25. et apresso la sua morte fue grande questione delle sue armi  intra Ulixes et Aiaces. 3. Et certo Ulixes fue, secondo che  contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1 milìor  parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e  per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende,   30. alle quali altre non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più  di male contra' Troiani per lo suo senno che non fecero     2: M dimoslraliva — 3: M' constitutione del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso....  dell'azione — 7 : M' Et oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie exututo —  13: M* de buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver-  ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M'  secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30: Mie  quali, m le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli  M' in contro a — la non fé, L non fece     quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve uianife-  stameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue  Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si  5. fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma  tuttavolta dimandava che Ili fossono concedute l’armi  d'Achille, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella  guerra ben fatta l'opera perchè etc 4. Et dall' altra parte  Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran   10. guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D  francamente avea portate l'armi in quella guerra, e perciò  domandava l'armi d'Achilles e dicea che non si conveniano  ad ULISSE. 5. Onde alla fine l'armi furono concedute ad  Ulixes, per la qual cosa montò tra lloro tanta invidia che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo tempo fue  morto Aiaces e fue della sua morte accusato Ulixes, et  esso si difendea e negava ; e di questo sì era questione di  fatto in preterito, cioè che già era fatto in tempo passato.  6. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragel-   20. lani, che furo una gente i quali fui'ono accusati in Roma  eh' elli aveano male animo contra il comune. Et elli si di-  fendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto ; e di ciò  si era questione di fatto presente, cioè se sono ora presen-  temente di buono animo o no. 7. Nel futuro mette Tulio   25. r exemplo di Cartagine, la quale fue una delle più nobili  cittadi e delle più poderose del mondo, e tenne guerra  contro a Roma, sì eh' alla fine i Romani vinsero e presero  la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si di-  sfacesse per lo bene di Roma, et altri consigliaro del no,   30. perciò che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse  intera, e di ciò è questione del tempo futuro, cioè se  bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse intera o s'ella  si disfacesse. 8. Ma poi che Tulio à detto della controversia  del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo modo.     i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben l'opera perchè, L bene adope-  rato perchè — 9: m orti, e sanza molto — 10: M-m provale — 14: m iim. mezzo —  15 : m 7 dela sua morte fue aco. — 16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò  che già ecc. (vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO: SI'  comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M' vollero (ma L  voleano) — 28: m om. et — M' di no  m pero che meglo ne potrebbe loro intervenire  M-m, L in terra — Af' e questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra   (1) Così hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche  parola (anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare. Basti  averlo notato, senza pretendere d' indovinare.  Del nome-  Ai. Controversia del nome è quando lo fatto è conceduto, ma  è questione di quello eh' è fatto in che nome sia appellato; et in  questo conviene che sia controversia del nome, perciò che non  5. s'accordano della cosa; non che del fatto non sia bene certo, ma  che quello ch'è fatto non pare all'uno quello eh' all' altro, e perciò  l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la qual cosa  in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e breve-  mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno luogo  10. privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, che certo in  essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo e  che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa conviene  avere altro nome che quello che dicono li aversarii.     Lo sponitore.   15. 1. In questa parte dice Tulio della controversia del   nome ; e perciò che di questo è molto detto davanti, sì siue  trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente la  tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: 2. Roberto  accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sa-   20. crata, si come uno calice o altra simile cosa la quale sia  diputata a' divini mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo  privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non sacrato. Viene  l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore: « Tu ài  fatto sacrilegio ». Dice l'accusato. Non ò fatto sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore  pare una, che dice ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare  un' altra, che dice eh' è FURTO. Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice sopra  questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE     3 : it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per furto o per sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12: M-m che sacrilegio, A/' che  sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom. detto — M' nm. si — 18: m sopralla quale - J/'  Uberto : M' tolto — 19 : m cosa simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) —  23-24: M il l'atto. Et dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però chellachusatorc...  una diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30: jV' jjarladore — 3t: M' didinita     - G8 -   che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee mostrare  come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :     5. Del genere.   ^Z. (e. IX) Controversia del genere è quando il fatto è   conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma è questione della   quantitade del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo :   giusto ingiusto - utile o inutile - e tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto.     Lo sponitore.  in questa parte dice Tulio CICERONE della questione del genere,  e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole di-  morerà lo sponitore ; e dice che quella controversia è del   15. genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in con-  cordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in  discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o pic-  colo o molto o poco. Verbigrazia. Un gran romano  quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato confessa il fatto e '1 nome del  facto. Dice l'accusatore. Questo è grande DANNO.  Dice  l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia  tra loro della quantità, cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo  di Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del fatto, sì  comepare in exemplo d'ORESTE che uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE si  difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con-     OM,     8: M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto — 12: M' tracia — i3: M-m  detto — VI di questo — M die poclie p. — m dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma  sono.... del fatto — 20: M-m t>m. e male — S3: M-m nm. Ed — So: >/' Or sono, M-m  OHI. - 26: M' nm. si - 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo  di ((uestl , M-vi dotesles — 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m cliellavea     - 69 —   fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in discordia della  qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben  è vero che Tulio CICERONE non mette in exemplo della quàntitade  nel testo, né della comparazione, se non solamente della  5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne vien tra  Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte cose  nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è  questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del  genere. E poi che Tullio CICERONE à detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa  controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose quattro parti, ciò  sono DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo  fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in  breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo  in ciò, paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se deliberamento e dimostramento sono generi  delle cause, non possono essere diritte parti d'alcuno genere di  causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere genere d'una  e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e genere d'una me-  desima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale sola-  mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che non  sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice che  Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande for-  seneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra lloro  e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo fine  al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son ge-  neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non possono     4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani — iO: m om. secondo il suo pari-  mente — M mantenente — 13: M-m II (juale lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas-  simo — 18: m stessomo - 19: M' dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. —  22 : m M' causa — M-m genere 7 parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno  ale. — 26: M-m om. e deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti —  28-29 : M 7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12 :  M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del.    essere a diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma-  lamente disse ch'elli fossero parte della constituzione del genere.  46. (e. X) Et s'elle non possono essere tenute diritte parti della  causa del genere, molto meno fien tenute parti della diritta parte  5. della causa; e parte della causa è ogne constituzione; donde no la  causa alla constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla causa.  Ma dimostramento e diliberamento non possono essere tenute diritte  parti della causa del genere, perciò che sono generi: donque molto  meno debbono essere tenuti parte di quello ch'esso dice. 46. Ap-   10. presso ciò, se Ila constituzione et essa e ciascuna parte della con-  stituzione è difensione contra quello eh' è apposto, conviene che  quella che no è difensione non sia constituzione ne parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è difensione   15. contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1 diliberamento non  è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a Itui che ssia  difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia constituzione,  né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile fie condotto,  se esso dica che constituzione sia la prima confermazione dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così seguiranno  lui tutti questi sconvenevoli. 47. Appresso ciò, la causa congettu-  rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un mede-  simo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la diffinitiva  causa non puote essere d'una medesima parte inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna constituzione  ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza et altrui;  perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura ; se  l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non si  cresce la forza della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole avere  la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e translativa, et  alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è constituzione  né parte di constituzione. Et questo medesimo suole usatamente  advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo detto   3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento, sono generi  delle cause e non parti d'alcuna constituzione.     1 : M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- — vi om. no -  7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m cliossi dice — iO: M-m chella  const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella - IS: M-m non sia la constitutione — 13:  m om. Et — 14: M 1 dunque le const., m Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera-  mento — 16-18: m om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli -  23: M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne te-  nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc generale — 32: i wim. illusori     — (i     Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che  Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò  sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della  5. qual cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte  ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo pruova  manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento  e deliberamento sono generi delle cause si che Ile cause  sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle   10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una  cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella  medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti  conclude Tulio che Ermagoras avea mal detto, e poi se-  guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti della   15. constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo  e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto.  Et in ciò incomincia la sentenzia di Tullio in questo  modo :   Le parti della constituzione generale.   20. ^S. (e. XI) Questa constituzione del genere pare a noi ch'ab-   bia due parti : Iudiciale e negoziale.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio àe ripresa l' oppinione d' Ermagoras  delle quattro parti, si dice la sua sentenza e dice che sono  25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras:  iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua sen-  tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì  dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo  modo :      X,. ^'^     4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero — 10: M el  acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere — 17 : il/' comincia —  23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om.  che) negotiale     — 72     Di Indiciate.   49. ludiciale è quella nella quale si questiona la natura dì  dritto e d' iguaglianza e la ragione di guiderdone o di pena.   Sponitore.   5. 1. La iudiciale coustituzioue è quella nella quale per   diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per igual-  lianza, cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si  questiona sopra la quantitade o sopra la comparazione o  sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto è   10. giusto o ingiusto o buono o reo. 2. Altressì è iudiciale  quella nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli  è degno di pena o di merito. Verbigrazia : « Alobroges è  degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione  di Catenina?» e questionasi del sì o del no. Et anche questo   15. exemplo : « È Giraldo degno di pena di ciò che commise  furto ?» e questionasi del si o del no. 3. Et poi che à detto  Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra parte, cioè della  negoziale.   Di negoziale.   20. 50. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione   sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia  sono messi i savi di ragione.   Lo S2)onitore.   1. Dice Tulio che quella constituzione è appellata ne-   25. goziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per   quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di   tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade, cioè   per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella     2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di diritlo, S di merito — 6: m perve-  nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se questo giusto —il: M^ si questiona d'alcuno  selglie ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o alabroges di Catenina et questionisi del si  et del no (m di si o di no), L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del  no — 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M' om.  paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro constituti — M-m  equalitade — S8 : M' cliente ragione debbia  constituzione. 2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe co-  tale differenzia : che Ila iudiciale tratta sopra le cose pas-  sate et intorno le leggi scritte e trovate ; ma la negoziale  intende intorno le presenti e future (1) et intorno le legi et  5. usanze che saranno scritte e trovate. 3. Et questa è di molta  fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a  provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando  in ciò ragioni da simile o da contrario. Et questa questione  si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in pro-  10. vare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila ragione  ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e  che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per  meglio dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo  dell' Arte.   15. Di due parti di Iudiciale.   51. La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta et  assuntiva.   Sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che quella questione la  20. quale è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due  parti : una eh' è appellata assoluta e l'altra la quale è ap-  pellata assuntiva ; e dicerà di catuna per sé.      3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M  assaivi, m si tratta da savi — 10: M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna  la quale è appellata - M-m e assunptiva   (1) Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro) sembri ottima, prefe-  risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in future.: M* ha tendenza a cam-  biare, e quindi non è improbabile che, trovando già l'errato futuro, abbia voluto  accordare con esso l'aggettivo precedente, le presenti. Non saprei invece come  spiegare un cambiamento inutile in M-m.  Dell' asoluta.   52. Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione o  di ragione o d' ingiuria.   .Lo sponitore.   5. 1. Dice Tulio che quella questione iudiciale del genere   èe appellata assoluta la quale in sé medesima è disciolta  e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene in  sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o  sopra la comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce   10. s'egli é di ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto  o ingiusto o buono o' reo, sì come in questo exemplo donde  fue cotale questione. 2. Verbigrazia : Fecero quelli da Teba  giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria fe-  cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare   15. un trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé  sanza neuna giunta et in sé contiene forza della pruova,  perciò ch'era cotale usanza.   Asuntiva-   53. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa  20. a difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti   sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e  comparazione.      S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi: M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili  0—9: M' in f|uel facto — 12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo  fatto faro per sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa —  1 9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna   Cicerone dice che quella constituzione è appellata as-  suntiva della quale nasce questione, la quale in sé non à  fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-  5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argo-  mento da difendersi; si come nella questione d'Orestes, che  fue accusato eh' avea morta la sua madre, et elli dicea che  ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parca crudel  fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione   10. com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen-  sione d'un altro fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta-  mente, perciò ch'ella uccise il mio padre ». Et così pare che  con questa giunta piaccia la sua ragione. 2. Efc questa co-  tale questione assuntìva à quattro parti, delle quali il testo   15. dicerà di catuna perfettamente per sé.   Di concedere.   54. Concedere e concessione è quando l'accusato non difende  quello eh' è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si  divide in due parti, ciò sono purgazione e preghiera.   20. Sponitore.   I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione  assuntìva e com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di-  cere di ciascuna per sé divisatamente perchè '1 convenentre  sia più aperto. 2. Et primieramente dice che é concedere,   25. e dice che quella constituzione é appellata concessione  quando l'accusato concede il peccato e confessa d'averlo  fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-  sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e  di ciascuna di queste dirà Tulio partitamente, e prima   30. della purgazione.     3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea — 8-iO: M-m om.  Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M' per se perfectamente — 17: M'  o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M'  che 7 quale 6 — 23: m di chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato  d'averlo facto    T)i purgazione.     55. Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-  muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade.      Sponitore. 5. I. Dice Tulio che quella maniera di concedere la quale   è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa,  ma lievasi la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa ;  e questo puote fare in tre maniere, delle quali è prima  Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti   10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne  loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa  paura, per la quale si botaro che s' elli scampassero e per-  venissero a porto che elli offerrebboro delle loro cose a  quello deo che là fosse, et e' medesimi F adorrebbero. Alla   15. fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malco-  metto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come  idio e feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano  fatto contra la legge ; la qual cosa bene confessavano, ma  allegavano imprudenzia, cioè che non sapeano, e perciò   20. diceano che fosse perdonato. Et di ciò era questione, se  doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è caso,  cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare  quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur-  sino avea inprontato da uno francesco una quantità di pe-   25. cunia a pagare in Parigi a certo termine et a certa pena.     6: M-m om. b — 7 : M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M  per mare oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,  JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17: M'  fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano — 21: m puliti —  S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio     Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume  di Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare  né essere al termine che era ordinato. Colui che dovea  avere domandava la pena, l' altro confessava bene eh' avea  5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se non che '1 caso  era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e però  dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione,  se Ila dovea pagare o no. 4. La terza maniera è necessitade,  cioè che conviene che ssia così et altro non potea fare.   10. Verbigrazia : Statuto era in Costantinopoli che qualunque  nave viniziana arrivasse nel porto loro, la nave e ciò che  entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che merca-  tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro  con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di   15. tempo per forza di venti, (2) centra' quali non si poteano pa-  rare, pervennero nel porto e fue presa la nave e le cose  per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti che Ila nave  era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso porto,  e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò   20. era questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì  i Veniziani, cui fue la nave, raddomandavano la nave o la  valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non dovea es-  sere domandata, perciò che per necessitade e non per vo-  lontade erano iti in quel porto. 5. Et poi' che Tullio àe detto   25. della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera.   Della preghiera.   56. Preghiera è quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso  quel peccato e confessa che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda  che Ili sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire.     1 : M-m avieno — S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine -  5-6: M impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel  loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano — 14-15:  M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di vento — 18: M^ in quel  porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M' che por lamenda — 24 :m om.  Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto   (1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè dall'altra fami-  glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con impedimento era facilissimo e lo favoriva  il fatto che il senso restava quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi-  mento ^>.   (2) Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto  (impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo, ana-  loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla magna tempestas  di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul quale è modellato il nostro. Cicerone dimostra in questa picciola parte del testo  che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che  allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa  5. e dice che fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce  che ir à fatto pensatamente, ma tutta volta domanda per-  dono. 2. Onde nota che questa preghiera puote essere in  due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia : In questo  modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato : « Io confesso   10. bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per  reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera  ascosa è in questo modo : « Io confesso eh' io feci questo  fatto e non domando che voi mi perdoniate ; ma se voi  ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al   15. comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ».  3. Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve-  nire rade volte, (l) spezialmente davante a' giudici che sono  giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben  puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1 sanato avere prove-   20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come poteano li an-  ziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare  e di disgravale secondo lo loro parimento. 4. Et poi che  Tullio àe detto della prima parte della constituzione as-  suntiva, cioè della concessione e che cosa è concedere, et à   25. delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione  e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè rimuo-  vere lo peccato.   Di rimuovere.   57. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si sforza di  30. rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra un     S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M' nppensatainentc — 8 : M' nascosa —  14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno —  19: m prudenzia — SS: m eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa-  rere, S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc. -  30 : M' mettelo (ma L metterlo)   (1) Conservo volte appunto perchè questa parola in itf è meno frequente di  fiate Q non si può considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti-  tuito per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29).     - 79 -   altro per forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in  due guise: o mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo  la colpa e la cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia  fatto per sua forza e per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui  5. dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto.      Sponitore.   I. In questo luogo dice Tullio eh' è rimuovere lo pec-  cato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è accu-  sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si   10. leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice  bene che 11' à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si-  gnoria il costrinse a ffare quel male ; e questo rimovimento  del peccato dice Tullio che ssi puote fare in due guise :  l'una si mette la colpa e la cagione sopra un altro, l'altra   15. si mette il fatto sopra altrui. 2. Et certo la colpa e la ca-  gione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli  à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui  forza e signoria. Verbigrazia : Il comune di Firenze elesse  ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga   20. dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andas-  sero alla presenzia di messer lo papa per contradiare il  passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in Toscana  contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-  mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo   25. negò la pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca-  valieri vennero. Della qual cosa questi ambasciadori fuo-  rono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e     3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do malilicio - i4 : m luna mette,  M' l'una si e mettere — ^5: M' si e mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/'  incontanente — 21 : m cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m  e il chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27 :M'  si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i quali  aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento.  3. Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice  ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né cagione  5. del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi colpa  e cagione, mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette  dovea e potea fare quel male. Verbigrazia : Catone e Ca-  tenina andavano da Roma a Kieti, et incontrarono uno  parente di Catone, a cui Catellina portava grande maia-  lo, voglienza per cagione della coniurazione di Roma, e perciò  in mezzo della via l'uccise; né Catone non avea podere di  difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma rimase  intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si  n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In que-  15. sto mezzo genti che passavano [per la via] per lo camino (i)  trovaro il morto di novello, e Catone intorno lui, sì pen-  saro certamente che Catone avesse fatto il malificio, e  perciò fue esso accusato di quella morte; ond'elli in sua  defensione levava da ssè quel fatto dicendo che fatto nol-  20. l'avea e che no'l dovea fare, perciò ch'era suo parente, e  dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh' elli era ma-  lato di sua persona. Et così recava il fatto e la colpa  sopra Catellina, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico  e poteal fare, eh' era sano e forte e di reo animo. 4. Et poi  25. che Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì insegnerà  in questa altra partita riferire il peccato.     Ttillio dice che è riferire il peccato.   58. Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto  per ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a liuì  30. ingiuria.     i : m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma dice — m nel fare — 5 : Af ' che un  altro — 9: VI om. grande — 12 : m di suo corpo malato — 15: M^ gente — J/' m om. per  la via - 16: m il novello morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl :  m avea nel dovea fare — o?n. e dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23: m  pero chelli dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte — M-m refre-  nare (sempre) — 29 : vi pero che — da\anti   (1) Le parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una variante  di per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie.     81     Lo sponitore.   I. Dice Tullio che riferire il peccato è allora quando  l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che elli  é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta tale ingiuria che  5. dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare  neir exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua  madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che  primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea  morto il padre d' Orestes; e di questo nasce cotale que-  10. stione se Orestes fece quel fatto a ragione o no. 2. Et poi che  Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai  che è comparazione.     Tullio dice che è comparazione-   59. Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie  15. fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren-  sione fue commesso perchè quell'altro si potesse fare.     Lo sjjonitore.   I. In questo luogo dice Tullio che quella questione è ap-  pellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto   20. quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un altro  fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel  più alto officio di Roma, sentìo che coniurazione si facea  per lo male del comune, ma non potea sapere chi né come.  Alla fine diede dell'avere del comune in grande quantitade   25. ad una donna la qiiale avea nome Fulvia, et era amica per  amore di Quinto Curio, il quale era sapitore del tradimento ;  e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose in tale ma-  niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della molt'alta  tradigione. 2. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo ma-     2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne (ma L prendere) tale vendctla  — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima — J/' facto, m aliai fatto - iO: m om.  El — 14: M-m quanto un altro — 16: M' per quell'altro - 18: JW in questa parte —  19: M-m che facto — 26: M^ ora parteDce — 28: M' dela mortalo     — 82 -   lamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in defensione di  sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro fatto  utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta di-  struzione, e quello scampamento non potea fare sanza  5. quella dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale elli è  ripreso fue fatto per bene. 3. Et poi che Tullio àe detto delle  quattro parti della constituzione assùntiva, la quale è parte  della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della con-  stituzione del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra la  10. questione traslativa, della quale fue assai detto in adietro,  per dire alcuna cosa che là fue intralasciata.   Come Ermagoras fue trovatore della questione translativa.   60. Nella quarta questione, la quale noi appelliamo translativa,  certo la controversia d'essa questione è quando si tenciona a cui   15. convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o davante  a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza fallo tuttora è  controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi che  Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che molti an-  tichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili scrittori   20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non la misero in  conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata, molti l'anno  biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in pru-  denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per invidia  e per maltrattamento.   25. Sponitore.   I. Questo testo di Tullio è assai aperto in sé medesimo,  e spezialmente perciò che della questione o constituzione  translativa è assai sufficientemente trattato indietro in     i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M' non si pelea fare —  7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m che ella l'uo translassala — lS:M-m  emargonis — 13: M Uela quarta q. (e punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui  — M-m sanfa follia — 19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal.   (1) La traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim-  prudentia falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione  quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ; ma  non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti che non  erano bene savi ,, ?   altra parte di questo libro, e là sono divisati molti exempli  per dimostrare come si tramuta 1' azione quando non  muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o in-  nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che .  5. dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa conviene che  sempre sia : o per tramutare l' azione in tutto, come ap-  pare indietro nell'exemplo di colui che risponde all'aver-  sario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né ora né  giamai »; e così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc.   10. O é per indebolire l'azione in parte ma non del tutto, si  come appare nell' exemplo di colui che risponde all' aver-  sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in  questo tempo» o «non davante a queste persone». 3. Et dice  Tullio che Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso  da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia  e maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore  dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male d'altrui.   20. Tullio dice che davanti diceva   exempli in ciascuna maniera di constituzioni (e. XII).   61. Già avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li   axempli di ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare   quando noi daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò   25. ch'allotta sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo   si potrà a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al processo del suo libro,  brievemente ripete ciò eh' à detto avanti, dicendo che dimo-     2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra cui dee ~ 6: M come pare — 8: M'  non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde — M imparte — m non in tutto — H : M' pare —  13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal-  quanti — 18 : M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte  le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m della cosa  — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi   (1) L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come la  sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere dal periodo pre-  cedente la parola questione : " conviene che sia questione in questa transla-  tiva „ ecc.     - 84 -   strato à che sono le constituzioni e le loro parti, ma in altra  parte porrà certi exempli in ciascuno genere delle cause,  cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e nel iudiciale,  quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da cciò  si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-  viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte.     Qual cai/sa sia simpla e quale congitmta.   62. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa, ìmmantenente  ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta. Et s'ella  10. è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di piusori  questioni o d'alcuna comparazione.     Lo sponitore.   1. Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato tro-  vare le constituzioni e le sue parti, si vuole insegnare  1.5. qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-  giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta  d'alcuna comparazione, e di ciascuna dice exemplo in  questo modo :   Della causa simpla.   20. 63. Simpla è quella la quale contiene In sé una questione   assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia contra coloro  di Corinto o non ? ».   Lo sponitore.   l. Dice Tullio che quella causa è simpla la quale è pur   25. d'uno fatto e che non è se non d'una questione solamente.   Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente a   Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse     2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte l'autore, m 7 accio —  8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice (sempre cos'i) M' sedella — li: M-m  compi^ratione — 13: M' il tractato — 15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni-  plo — 21: M' m (pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani   loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o  no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del  sì o del no.   Della causa congiunta.   5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella nella quale sì   dimanda di piusori cose in questo modo: « È Cartagine da disfare  da renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn altra parte loro  abitamento ? » d).   Lo sponitore.   10. 1. Poi che Tullio à detto della causa simpla, sì dice della   congiunta, dicendo che quella causa è congiunta nella quale  àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia : I Romani vinsero a forza d'arme la città di Cartagine, et  erano alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri   1.5. diceano che Ila cittade fosse renduta agli uomini della  terra, altri diceano che Ila cittade si dovesse mutare di quel  luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa causa  è congiunta di tre questioni che sono dette. Della causa congiunta di comparazione.  Dì comparazione è quella nella quale contendendo si que-   stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo :  « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' com-  pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di genti  contra Anibal ? ».   25. . Lo spoìdtore.   1. Poi che Tullio avea detto della causa la quale è con-  giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è  congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o     i : M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di più  sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro questioni — J3: m  per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto diceano cliella si disfacesse —  17: M-m om. che — 18: m essere coniunta di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis-  simo — 22: M' incontro a Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro   (1) Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.   di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-  gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e  l'uno migliore che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo,  cioè il sovrano di tutti. 2. Verbigrazia : I Romani aveano  5. mandata oste in Macedonia contrà Filippo re di quello  paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra  d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi  di Roma diceano che '1 migliore consiglio era mandare  gente in Macedonia, per attare l'altra loro oste la quale  10. era in questa contrada; altri diceano che maggior senno  era di ritenere la gente in Italia, per adunare grandissima  oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il mi-  gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente.   Della contraversia inn iscritto et in ragionamento.   15. 66. Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in   ragionamento.   Lo sponitore.   1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual causa è sim-  pla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì vuole   20. fare intendere quale contraversia nasce et aviene di cose  e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè  di dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole  Tullio aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre  de' dire a ciascun ponto di tutte le cause che possano inter-   25, venire ; e perciò dicerà della scritta per sé e del ragiona-  mento per sé, e di ciascuno partitamente in questo modo :   Della contraversia che nasce di cose scritte.   67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna qua-   litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa che   30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta pare che Ile     i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L   (li i|iielli del paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m   J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M contra nibal, i»  contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o in ragionamento — /*' : M-m  i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire e che non sono scritte — 23: M' mo-  strare - 24: m possono — 25: M'E cosi — 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni     - 87 —   parole medesimo iU siano discordanti dalla sentenzia dello scrittore ;  e talvolta pare che due legi o più discordino intra sé stesse; e  talvolta pare che quello eh' è scritto signiffichi due cose o più ;  e talvolta pare che di quello ch'è scritto si truovi altro che non è  5. scritto ; e talvolta pare che ssi questioni in che sia la forza della  parola, quasi come in diffinitiva constituzione. Per la qual cosa noi  nominiamo la prima di queste maniere di scritto e di sentenzia; il  secondo appelliamo di legi contrarie, la terza apelliamo dubiosa,  la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta apelliamo diffinitiva.     10. Lo sponitore.   Poi che Tullio à dimostrato qual causa sia pur d' un  fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con-  traversia è in scritta e quale in ragionamento; et in questo  dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè che   15. nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque  modi. 1. Il primo modo è appellato di scritto e di sentenza,  pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che suonino  come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-  grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale   20. erano scritte queste parole: « Chiunque aprirà la porta  della cittade di notte, in tempo di guerra, sia punito nella  testa ». Avenne che uno cavaliere l'aperse per mettere  dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca,  e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila  sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse e fece la  legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito ;  e cosi pare che Ile parole scritte non siano accordanti alla  sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce controversia intra   30. loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza. 2. La  seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che     1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si discordino — 3: M'  significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che scripto — 6: M-m nm. in — A/' mdilTì-  nitiva ([uestione — 11: M-m qual cosa — 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento —  14 : m primamente — 18 : M om. fue — 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo  di guerra — M' si sia punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M'  lo scritto — 31 : M' om. maniera   (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo.     — 88 -   pare che due leggi o più discordino intra sé stesse. Ver-  bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque uccidesse il  tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse.  Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo  5. corpo o d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere.  Un'altra legge dice che, morto il tiranno, dovessero essere  uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or avenne che  una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e  domanda al senato per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due leggi contrarie, e  perciò nasce questione se alla femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza  maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU.  Verbigrazia. Alessandro  fa testamento nel quale fa scrivere così. Io comando  che colui eh' è mia reda dia a Cassandro C vaselli d'oro  e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro venne  Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io  vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel testamento, cioè,  i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere del cui  volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione  intra loro. 4. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE,  perciò che di quello eh' è discritto si truova e se ne ritrae  altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia : Marcello entra nella  chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il crocifixo, e taglia  le imagini di là entro. E accusato, ma non si truova  neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non era che nne scampasse sanza pena. E perciò il  suo adversario ritraeva d'altre leggi scritte quella pena  che ssi convenia a Marcello ragionevolemente. La quinta  maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che pare che ssi  questioni LA FORZA D’UNA PAROLA  scritta, sicché conviene     i : M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L essere  morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito.... uccise — 9 : m e merito —  10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m nasce controversia — Mm sella femina —  13: m se dee — 14-15: M' che lo scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii  eh' è — 18: M' i quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare  - m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 : M'  San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna legge.... colalo  maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M' che si conviene — Mm Martello     — 89 —   che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi-  mento di quella parola. Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna di tempo  ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al  porto sorvenne sì forte tempesta nel mare, che '1 signore  usce della nave et entra inn una picciola barca. Un altro  ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là entro  che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra.  E perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò  che '1 segnore l'abandona et esso l'avea difesa. Il  segnore dicea che perch'elli entra nella picciola barca  non abandona perciò la nave ; e cosi era questione intra  loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per   15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e  dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di  quella contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque  parti. Omai dicerà di quella contraversia eh' è in ragio-  namento.   20. Della contraversia la quale nasce di ragionamento.   68. Ragionamento è quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma  prendesi argomento e pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che  Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a  lloro, e perciò conviene recare argomenti in ragionando  per mostrare che nne dee essere, e questo senza scritta  acciò che sopra questo no è legge né scrittura.     3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M  sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse  a governare la nave — 9: m campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave —  13: 3f' non avoa abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'  di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete conviene —  16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in rag. — 28: M' Anibal —  29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro, dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta     — 90 -   Delle quattro parti della causa.   69. Adunque, poi che considerato è il genere della causa e  cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è con-  giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento,  5. ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e  quale è il giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le  quali cose tutte convengono muovere della constituzione.   In questa parte dice CICERONE che poi ch'elli à insa-  lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale diffinitiva e  quale translativa e quale negoziale, et à fatto intendere  quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o più, et à fatto vedere qual contraversia  è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti questi  insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo  inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai  vuole Tullio procedere e dimostrare apertamente qual sia  20. la questione e la ragione e '1 giudicamento e '1 fermamento  della causa ; le quali cose tutte muovono e nascono della  constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il  cominciamento di queste cose.   Della qiiestione.   25. 70. Questione è quella contraversia la quale s'ingenera del   contastamento delle cause in questo modo : « Non facesti a ragione -  Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella quaied)     2: m om. 6—3: m om. cognosciuta — M intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m  quale conti'aversia <ii scripto — m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha  sulo il primn b — M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali conv. -  9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo, ilimostrativo — i2: in  cioè qual sia — 13: M-m a facto cognoscere — 14: m quale simplice - 17: M' amaeslra-  menti — M paio sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò  V. a d. e. la constituzione — 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de cause  — M-m om. a — M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel quale   (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non saprei  spiegare come alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato tanto da  M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta traduzione del  latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio constai.  è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi ap-  pelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o no.   Lo sponitore.   1. Nel testo il quale è detto davanti insegna Tullio  5. cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice che  questione è quella che ssi conviene considerare sopr' a cciò  di che le parti tencionano, e così s'ingenera del contasta-  mento delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro  difende. Verbigrazia : Dice la parte che appone all'altra .   10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »;  e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si, feci ra-  gione ». Or è la causa ordinata, cioè che ciascuna parte à  detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e questa è ap-  pellata constituzione. 2. Sopra questo si conviene sapere se   15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che Tullio  appella questione. Dunque potemo intendere che quando  le parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in.  contra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando  o confessando, sì è la causa cominciata et ordinata ; e però   20. infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè viene  a dire che Ila causa è cominciata et ordinata ; da quinci  innanzi, se l'accusato niega e diféndesi, si conviene che ssi  connosca se Ila sua defensione è dritta o no, cioè quando  dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à fatto   25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et perciò  che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente:  « Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra ra-  gione per che e come, insegnerà Tullio immantenente che  ragione sia.   30. Di ragione.   71. Ragione è quella che contiene la causa, la quale se ne  fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In questo  modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e manifesto     4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello — 10: M' facto ragione —  i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto —  15: M^ m facto — 15-16: M' Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M  S l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5: M'  e facta questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non mostra — S8 : M'  si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare leg-  gere manifesto exemplo   exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et elli non dicesse:  « Io il feci a ragione, perciò eli' ella avea morto il mio padre »,  non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia.  Dunque la ragione dì questa causa è eh' ella uccise Agamenon.   5. Lo sponitore.   1. Si come appare nel testo di Tulio, ragione è quella  clie sostiene la causa in tal modo che, chi non assegna e  mostra la ragione della sua causa, certo non sarà contro-  versia, cioè non à difensione; e cosi la causa dell'aversario   IO. rimane ferma e non à contastamento. 2. Verbigrazia: Vero  fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo marito  e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-  mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre.  Fue accusato di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1   15. fece a ragione; se non dice perchè e come, la sua difen-  sione non vale neente, e se la difensione non vale neente  non è contraversia né questione. 3. Ma se dice cosi : « Io  lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre », sì  mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la   20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi  che Tullio à dimostrato che è questione e che ragione, sì  dimosterrà che è giudicamento.   Del giudicamento.   72. Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo 'nde-  25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel medesimo  exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella avea  morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo convenia  eh' essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea bene  punire sanza tuo perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo  30. mostramento della ragione nasce quella somma controversia la quale  noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa  che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.     i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a ragione — 7-8 : M'  mostra 7 assegna ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13: M' om. cioè.... di matricidio —  16: M-m om. e so la difensione non vale neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa —  20: m om. El — 22: M-m dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m  in ciò a quel med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m si  potrà — 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu    Cicerone dice e insegna che è ragione; et perciò  che della ragione nasce il giudicamento, sì tratta egli  del giudicamento per dimostrare come e quando et in che  5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè  fece quel fatto e conferma la sua difensa per quella ra-  gione. L'accusatore dice contra questa difensa et indebo-  lisce la ragione dell'accusato, linde di ciò che conferma  l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce   10. e falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appel-  lata giudicamento, perciò che quando ella è provata si  puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo exemplo  di sopra : Orestres assegna la ragione per la quale elli  uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto   15. Agamenon ; e così conferma la sua defensione. Ma contra  lui dice l'aversario : « Tu non la dovei punire né non con-  venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu-  nire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera,  come del figliuolo uccidere sua madre ». Et così indebolia   20. la ragione d' ORESTE e mettealo in vituperoso abominio,  e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e sopra lo 'nde-  bolimento della ragione, nasce questione la quale è appel-  lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et omai  à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è   25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento.   Del fermamento.   73. Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento  al giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale  la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra lui  30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto pregio  della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte guise  doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.     2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce del iuilicamento por dimostrare  ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa — 8-10: M' che rimo con-  ferma 7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m isforca — m la indebolisce — IS : m a  quello med. — 13: M' assegna ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia —  17: m 7 convenia punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre — 21-22: M<  sopra confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i ohe ragione, m nm. —  27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro pregio   Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e ra-  gione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fer-  mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto ordinata-   5. , mente : che primieramente è questione intra Ile parti  sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui  che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice  ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la questione,  cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice l'accusato  10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò, e  questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta  la ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et  indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e  questa è appellata giudicamento.   15 Fermamento.W   2. Poi che Ila questione del giudicamento è nata, si  conviene che ll'accusato tragga innanzi i fermissimi argo-  menti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia :  Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea   20. morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise;  il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento  dice c'a llui non si convenia ma ad altrui, e così indebo-  lisce la sua ragione. 3. Or conviene che Orestres dica ma-  nifesti argomenti, e dice così: « Tutto altressì coni' ella   25. uccise il suo marito mio padre, così avea ella conceputo  d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea ingenerate  di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et  abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio  la nostra famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fer-   30. missima defensione della sua ragione contra il giudicamento,  e dice: « Perciò ch'ella fece così disperato maleficio et     2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm. 7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que-  stioni — 6: M' sopralcuna causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om.  ch'à fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\ m*  detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo trarre —  18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise — SI: A/ niente dolo - S3: M'  om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7 dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi   (1) La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui ludicamento, certo per effetto  della parola precedente.   avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto  convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena  e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali  dice che '1 fatto della madre fue crudele, superbo e mali-  5. zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato superbo il quale  alcuno adopera centra' maggiori, sì come quella fece ucci-  dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale  alcuno adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la  sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale è molto   10. fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna fe-  mina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto  reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali l'ac-  cusato mette davanti per confermare le sue ragioni et  incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è ap-   15. pellato fei'mamento.   In quale constiti izione non à gindicamento.   74. Et certo neil'altre constituzioni si truovano giudicamenti a  questo medesimo modo ; ma nella congetturale constituzione, perciò  che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1 fatto non si concede)  20. non puote giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e però  conviene che questione sia quel medesimo che giudicamento: « fatto  è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire, quante consti-  tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si truovino  altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.   25. Lo sponitore.   1. In questa parte del testo dice Tullio che, sì come  per lui è stato detto davanti, così si possono trovare giu-  dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-  tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn  30. adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna     1 : Af' avea pensala cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor-  lissimi argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon — m ohi. è —  8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un altro — IS-i^-.M' om.  et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22: Mi se facto e. no ~ quante questioni —  26 : m om. che — 28 : vi nella questione   (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è scritto qui e qual-  che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col doppio n 6 frequente in M  (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).    ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-  dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea  morto Aiaces. Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel  fatto che gli è apposto. Et perciò non conviene che sopra '1  5. suo negare assegni alcuna ragione. Et poi che nonn asegna  ragione, il suo adversario nonn abisogna d' indebolire la  ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere giudi-  camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni  congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una  10. cosa: che là ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes  dice « Non uccisi », la questione e '1 giudicamento fie sopi-a  questo, cioè se ll'uccise o no. 3, Poi dice Tullio che quante  constituzioni à una causa, altrettante v'à questioni e ra-  gioni e giudicamenti e fermamenti.     15. Dell'altre parti della causa.   75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da consi-  derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee pur  pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se le  parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente congiungere  20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime traghe quelle  che sono da dire poi.     Sponitore.   1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa  et àe inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro  25. insine a questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la  quale convegna che dica, sì dee il buono parliere pensare  con molta diligenzia e considerare nella sua mente, anzi  che cominci a dire, tutte le parti della sua causa insieme  e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che     4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8: M-m om. e —  9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3: M-m otn. v'à — 17: M-m  e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om. dicere — S che è da dire inprlma —  19: M-m om. in prima — M' tu le vuoigli — M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun-  gnerle — 20: M' i raunaro — M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto  il telo (tic) — S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge in  prima)     - 97 -     10.     prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi,  senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo  et il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole  colla natura della causa et in innanzi pensa che ssi con-  venga dire davanti e che poi, certo la comincianza fie tale  che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine. Tutto  altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur  della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che  Ilo cominci, e de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza  del drappo, e provedesi di tutte cose che sono mistieri, e  poi comincia e fae il drappo.(2)     Di sei parti della diceria.   76. Per la qual cosa, quando il giudicamento e quelli argo-  menti che bisognano di trovare al giudicamento saranno diligente-  15. mente trovati secondo l'arte e trattati con cura e con cogitatione,  ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le quali pare a  nnoi ai tutto che siano sei : Exordio, narrazione, partigione, confer-  mamento, riprensione e conclusione.   Sjtoììitore.   20 _ I. Poi che Tullio sufficientemente à dimostrato la chia-  rezza delle cause et àe comandato che '1 buono parliere  innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare il  mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia  l'una parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi   25. che tutto questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della     1 : M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il comin-  ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra — 7: if ' in prima —  9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri — m sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo  ordinatamente, L affare il s. d. ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che  sono sei.... petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M' el  Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L questo e facto   (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può esser nato facilmente  dall'aver preso il de' per la preposizione di. Tanto il senso quanto la sintassi sa-  rebbero poco chiari leggendo e d'aver.   (2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che la parola ordinata-  mente, che si trovava in evidenza in fine al discorso, sia sfuggita al copista. Forse  l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW ordinatamente di poche righe prima.   (3) Cioè " dopo che tutto questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20,  n. 2, p. 21, n. 1 e qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con  quelle di M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti di ret-  torica (i quali si convengono trattare con molto studio e  con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si con-  vengojio pensare l'altre parti della diceria, delle quali non  5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà  il libro interamente.   Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro.   2. Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più  innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per   10. cui amere è composto il presente libro non sanza grande  afanno di spirito, che '1 suo intendimento sia chiaro e lo  'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a intendere  le parole che son dette inn adietro e quelle che seguitano  per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto e   15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è lu-  miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra  controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in  tendone, et insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e  per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell' ac-   20. cusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore  che Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non  d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo amico  è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la  propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten-   25. gono a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna  dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa  no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma  é sopra l'altre vicende, sì coinè di sapere dire inn amba-  sciarie et in consigli de' signori e delle comunanze et in   30. sapere componere una lettera bene dittata. 5. Et se Tullio  dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni e  questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee  pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le     1: M' Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m le  IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti — iO: m questo libro —  i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo innanzi — i8: vi insegni — o»n. o  dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi 7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m  ha bene — 24-2.^: Af si pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap-  postamento — M' in sapere — 29: M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co-  munanze — 31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si     — 99 -   genti insieme di diverse materie, nelle quali adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo  modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ;  e r uno appone e l'altro difende, e perciò quelli che appone  5. contra l'alti-o è appellato accusatore e quelli che difende  èe appellato accusato, e quello sopra che contendono è ap-  pellata causa. 6. Onde se 11' uno appone e l'altro niega, al  postutto di questo non puote nascere questione se non di  sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no.   10. Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa  incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la consti-  tuzione della quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa  è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a llui  per confermare le sue parole e per indebolire quelle del-   15. l'altro, sì come appare per adietro nel trattato della que-  stione e della ragione e del giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li  exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in  corte della morte di sua madre ; ma le genti ne conten-   20. deano intra loro, che 11' uno dicea che non avea fatto né  bene né ragione, e questo è appellato accusatore, un altro  dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto bene e ra-  gione, e questo è appellato nel libro accusato.     De consiglieri.   25. 8. Così aviene intra' consiglieiù de' signori e delle co-   munanze, che poi che sono aserablati per consigliare sopra  alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è messa  e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro  pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa,   30. cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce  questione s' elli à ben consigliato o no. Et questo è quello  che Tullio appella questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli  àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immante-     2 : M ndicc — M' di.cela — m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o  appone, m laltio appone — M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m om.  al postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta — il : m cominciata —  M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M om. il 1" e 3° e, hì il 1" e S° -  20 : m tralloro — dicea chelli — 21 : m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi  tra cons. — 27: M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30: M'  lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato —  m che allui   nente assegna la ragione per la quale il suo consiglio èe  buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella  ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ra-  gione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non  diritto ; e così infievolisce la partita che è contra il suo  consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte,  sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni   10. che puote trovare per più indebolire l'altra parte e per  confermare la sua ragione ; e questo è quello che Tullio  appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè  questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono  essere tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et puote bene essere  la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione,  dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra  ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il  suo parere et assegnando ragione per che. Et puote bene   20. essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et assegnando  ragione per che et indebolendo la contraria parte. Et puote  essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di sopra.  13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à  consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva   25. un altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto  colui davanti ; e così è fatta la constituzione, cioè la causa  ordinata, e cominciata la tenciouB ; e sopra i loro detti,  che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea bene  consigliato o no. Poi dimostra la ragione perchè il suo   30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il detto e '1 con-  siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi ricon-  ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che  può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti  possono essere nel detto del primo parliere e nel detto   35. del secondo e di ciascuno parlamentare. 14. Cosie usata-     3-4: M' la ragione 7 la cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om  Et - i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om. cioè  pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in suo parere as-  sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la contraria partita - SS: m di tulli  e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m  la tencionc sopra — S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo  consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole parlamentare     - 101     D.     10,     mente adviene che due persone si tramettono lettere l' uno  all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o  inn altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così  fanno tencione. Altressi uno amante chiamando merzè alla  sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende  in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle  del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote  assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure  ad insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che  neuno possa buono advocato essere né perfetto (2) se non  favella secondo l'arte di rettorica.   15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto inn  adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che  sono in tencione et in contraversia tra alcune persone, le  15. quali contendano insieme 1' uno incontra l'altro; e potrebbe  alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro  nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi come  uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna,  nella quale non à tencione alcuna intra llui e la donna),  é di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo  sponitore medesimo di ciò che non dessero insegnamento  sopra ciò, maximamente a dittare lettere, le quali si co-  stumano e bisognano più sovente et a più genti, che non  fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi volesse  bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can-  zone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che Ila  fa o che Ila manda intende ad alcuna cosa che vuole che     20.     25.     1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 : m i molti — 9: m in  insegnare - M' piatire — 10: M-m neuno buono advocato possa essere perfetto— 11: M  della rectorica — 13 : «i intorno a (pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7 parebbo —  16: Mi molte volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte uno manda lettere a un altro  (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che contenda tencioni — 18: 1/' per amore, fa  e, L uno che ama per amore fa e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et — 24: m  traile genti     (1) Le parole inn altro, che sembrano inutili, non possono essere un'ag-  giunta di copisti, ai quali invece doveva venir fatto di ometterle, come in M* e  in i.Dando a volgare il senso limitato di volgare italico, si intende l'altro  per gli altri linguaggi, specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire valente avvocato, e tanto meno perfetto,  senza averla studiata. Questa è l'idea espressa dalla lezione di ilf • ; con quella  di M-m, più semplice a prima vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo i)uote  essere o pregando o domandando o comandando o minac-  ciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno di  questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone  5. o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che  manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene  di sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter  muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli avesse  alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in   10. tutto. Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono  quasi tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di ten-  done o tacita o espressa ; e se cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro, che non  sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no   15. tencione che sia, Tullio medesimo, luogo innanzi, isforza  i suoi insegnamenti in parlare et in dittare secondo la  rettorica ; e là dove Tullio sine pasasse o paresse che dica  pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo sponitore  isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-   20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una  materia e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire  di quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle  quali non avea detto neente in adietro: e queste parti sono  sei, sì come apare in questo arbore.      I e. 2   ^'Olii'     /^M/     25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente   che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in     i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3: M-m o in — 6: Jf'  manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M tucto lelcrre, m tutte lettere o  clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. -  14-15: M' o di tenciono o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M'  IH secondo rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'  m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il' pare in  ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3» Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7  nella pistola (ma c/r. l. 22)    quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto  dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra  parte di questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle  cause le quali sono in contraversia et in tencione. Et ben  . dice tutto a certo che Ile parole che non si dicono per  tencione d'una parte incontra un'altra non sono per forma  né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè  la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencio-  nare né di contendere, anzi è uno presente che uno manda   10. ad un altro, nel quale la mente favella et é udito colui  che tace e di lontana terra dimanda et acquista la grazia,  la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose  mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe  dire a lingua in presenzia; sì dirae lo sponitore un poco   15. dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte  di rettorica ch'apartene a dittare, si come promise al co-  minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é un  dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del   20. dittare, e perciò conviene intendere ciascuna parola d'essa  diffinizione. Unde nota che dice « dritto trattamento »  perciò che Ile parole che ssi mettono inn una lettera dit-  tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome  col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino, e lo singulare e '1   25. plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre  cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore  dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù avenente;  e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti  di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat-   30. tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita  di parole avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze;  et anche questo ornato si richiede in tutte le i)arti di ret-  torica, sì come fue detto inn adietro sopra '1 testo di Tullio.  22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa » perciò che,   35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire puote     1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e tencione. Et dico — 5-6: M' non  sodono — m om. per te.ncione — a un altro — 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M'  om. la grazia — 12-13: M la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura  — Mi non, ma L e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto-  rica — 19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m adietro,  M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col leminino — 3/' el plurale  el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in tutte parti — 33 : M-m nel lesto —  34 : m om. Et — 35 : m si puote    essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla  sentenzia di Tullio, che dice che Ila materia del parliere  non è se non in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo  e iudiciale. Et dice « convenevolemente aconcio a quella  5. cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le parole  sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere  parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle  non fossero aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit-  tatore da cciò che dice Tullio; e perciò di queste due   10. materie, cioè del dire e del dittare, e dello 'nsegnamento  dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello sponitore prendere  la dritta via. Et per questo divisamento conviene che Ile  parti della pistola si divisino da queste della diceria che  Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narra-   15. zione, partizione, conferm amento, riprensione e conclusione.  24. 1. E oppinione di Tullio che exordio sia la prima parte  della diceria, il quale apparecchia l'animo dell' uditore a  l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è appellato  prologo della gente. //. Et dice che narrazione è quella   20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che sono  essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e  questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso  ferma la forma della sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il fatto et   25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella dell'aversario  e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in questo  modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi  contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ;  et allora pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et   30. dice che confermamento è quella parte della diceria nella  quale il parlieri reca argomenti et assegna ragioni per le  quali agiugne fede et altoritade alla sua causa. F. Et dice  che riprensione (1) è quella parte della diceria nella quale il     5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da  ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op-  pinione di Tulio e — M exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is-  sate — 22: M 1 quando — M^ m l'uomo — om. esso 23  M' forma la sua diceria —  25 : M' edesso viene partendo, m e viene ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?),  m e ficliale, M' 7 afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-  fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella   (1) Non esito a scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi,  che corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione è  facilissimo attraverso un repensione.     I)arliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali  attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell'aver-  sario. VI. Et dice che conclusione è Ila fine e '1 termine  di tutta la diceria. 25. Queste sono le sei parti che dice  5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di cia-  scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in  questo eh' è detto puote uomo bene intendere che queste  sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma-  teria puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia   10. sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola  colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella con-  clusione; ma ll'altre tre, cioè partigione, confermamento  e reprensione, possono più lievemente rimanere e non  avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe cinque   15. parti, delle quali l'una può bene rimanere e non avere  luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè «petitio»,  avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della  diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'ap-  pena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque   20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione,  exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come ap-  pare in questo arbore :      26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio in-  tralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo  25. lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo. Certa  cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi     l-S: m ragioni 7 cagioni — Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per li ifiiali allassa -  M-m il fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m Questo.... che Tulio dico che debbono essere —  6 : M' m illibro qua innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m che tutte 7 queste  sei — 8-9 : M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de ([ualunque — li : 3f' in exordio —  M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e soitiiuisce di\hione rt partigione M salta  dal lo al 2" aver luogo — 22: M' pare 'in questo albero — 24: ilf intrallassò, m lasciò —  25: Af' ne renda, L ne rende - 26: M^ cliellibro di Tulio tracia     — 106 -   fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!) il  nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna  di mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altri-  mente non si puote sapere a certo né l'uno né l'altro.  5. Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio ; che  sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che co-  minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio com-  piutamente, non curò di divisare della salutazione né di-  stendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò   10. che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in con-  troversia tencionando. 27. Et in perciò furo alcuni che  diceano che Ila salutazione non era parte della pistolaj  ma era un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salu-  tazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chia-   15. risce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del  mandante. Et nota che dice « porta », cioè entrata della  pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e  del ricevente; e dice «i meriti delle persone», cioè il grado  e l'ordine suo, sì come a dire: « Innocenzio papa», « Fe-   20. derigo Imperadore », « Acchilles cavaliere », « Oddofredi  Judice », e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinata-  mente », cioè che mette il nome e '1 grado di ciascuno  come s'a viene; e dice «l'affezione del mandante», cioè com'elli  manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per   25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo  la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che  Ila salutazione è così parte della pistola come l' occhio del-  l' uomo. Et se l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo,  dunque la salutazione é nobile parte della pistola, c'altressi   30. allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo.  Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è  altrettale come la casa che non à porta né entrata e come '1     1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome del dicitore — M-m bisogna mettere -  M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del ricevente — M-m 7 altrimente — 4: M' non  si porrebbe — 7-9: M-m om. dello exordio — non curo divisare salutalione 7 distemdere -  ìli intorno alle salutationi — 10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie saluta-  lione — 15: m e mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01». cioè — S3 : M' om. di —  24 : M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om. secondo la sua afTezione cioè — 26: M' parte  (ma t espunto) — 28 : M 3/' om. dell'uomo, m om. del corpo (A completo) — 29: iW' e la  salutatione n. p. — m e altres'i — 32 : il/' ne jiorta   (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso di « conviene dire »,  mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire».     - Itì7 -   corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che  salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' in-  chiude W e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la  soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera.  5. 29. Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salu-  tazione, o per celare le persone se Ila lettera pervenisse  ad altrui o per alcun' altra cosa o cagione. (2) Né non  dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio  d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che   10. portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur  salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma  altre parole che significhino reverenzia e devozione; e tal-  volta no scrivemo a' nemici altro che Ile nomora e tacemo  la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola che   15. significa indegnamento o conforto di ben fare o altra cosa;  sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini  che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della  Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo  spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade   20. o ahundare inn opera di pietade et altre simili cose.   30. Adunque provedere dee il buono dittatore che, si-  milemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in  persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador-  nando parole secondo che la condizione del ricevente ri-   25. chiede. Che quando uomo va davante a messer lo papa o  davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o  seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la  testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare     2-3: M' anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu-  tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione dalcunaltra cosa  cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per d. d'a. or (ina L 0) per s. si man-  dano, M-m per solazzo di loro si mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M*  che significanza abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7 per  aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di chonnoscere — M' conoscere  via de veritade— 20: M' opere (mai opera) — om. altre — 21  il/' dee prevedere — 22  M' un  huomo un altro— ^ó:ni Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom-  j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M' ginocohione in terra     (1) S'inchiude è più esatto di si richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre  volte: cfr. p. 37, n. 1.   (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha accomodato di suo,  perchè la parola cagione come finale è confermata da M'; forse 1' errore nacque  dall'avere scritto subito pei- cagione e voler poi rimediare.   (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo davvero di avere indo-  vinato; potrebbe anche mancare qualche parola.     — 108 -   il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo  dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij  parole di sua onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee  nominare sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scri-  5. vere la sua affezione, cioè quello che desidera che venga  a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro che sia  avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di  quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man-  dante et al ricevente. 31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di minore grado, noi  dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti alle  persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia  detto che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e  del pare altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che grandi  15. principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri minori  , mettono dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo  è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade.  Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la saluta-  zione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me-  20. desima conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente,  sì come noi dimostramo avanti secondo la rettorica di Tullio.  32. Et bene è questa materia sopr'alla quale lo sponitore po-  trebbe lungamente dire e non sanza grande utilitade. Ma  considerando che Ila subtilitade perché '1 verbo non si mette  25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante si mette in  terza persona per significamento di maggiore umilitade, e  che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome,  par che tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE,  sene passex'à lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre parti della diceria e di quelle  della pistola, sì come porta l'ordine. Et in questo luogo  si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio in  due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che     i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge di reve-  renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7 : m tuttavia — M' guani ino  clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori — M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato —  M-m om. ch'io abbia dolio — i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori —  M-m scrivono -- m e mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom.  et adveduto — 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor-  remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella subtitade, A/' che  sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche! nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per-  che.... pur una lederà — m la prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa  parte — ilf' dala salutalione — 33: M' om. ci6     — 109 -   pare che ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con-  viene ad una lettera dittata et ad una medesima diceria,  oltre quello che porta il testo di Tullio.   Exordio.   5. 77. Et perciò che exordio dee essere principe di tutti, e noi   primieramente daremo insegnamenti in fare exordio.   Sponitore-   I. Vogliendo Tullio trattare dell' exordio prima che  dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre  10. parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi  mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che  nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo  r animo dell' uditore ad intendere tutto ciò che noi vo-  lemo dire di poi.   15. Dell' exordio.   78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista convene-  volemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a dire ;  la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile.  Per la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui  20. conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade  della causa.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio avea contate le parti della diceria,   sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per se divi-   25. satamente, e prima dello exordio, del quale tratta in questo     2 : Af' e la diceria medesima — 3: m oltre a quello — 5 : M-mom.e — 6: M' oxordii —  iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a) ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna  pei che, m luna che — M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro —  M' dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) — 20 : M' converrà — om. procedere e —  24 : M' divisamente, ma L divisatamente   Questa lezione è quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque  è ragione di M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la  variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (= se-  condo ragione).     - no -   modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che  tre cose dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11' udi-  tore davanti cui noi dicemo sia inver noi benivolente et  intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et perciò ne  5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra '1  quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide  l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e mo-  strane in qual convenentre noi dovemo usare principio et  in quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa intendere   10. donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare beni-  voglienza et intenzione e docilitade, e come noi dovemo  queste tre usare in quello exordio eh' è appellato principio  e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel quarto  luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. 5. Et perciò dice   15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par-  lieri e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del  suo dire in maniera di prolago, per lo quale si sforza di  dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso lui, cioè  che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e procacciasi di   20. dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al suo  detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che 11' udi-  tore sia docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle  parole. 6. Et perciò dico che immantenente che 11' uditore  è docile sicché voglia intendere e connoscere la natura   25. del fatto e la forza delle parole, sì è elli intento ; ma perchè  l' uditore sia intento a udire, puote bene essere che non sia  docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà il  conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par-  liere che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente   30. ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire  alle tre cose che sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore  sia benivolo, intento e docile, si dicei'à Tullio quante e  quali sono le generazioni delle cause, in questo modo:     1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco  a quello ecc. — 4-5: m ci conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna,  L insegna dove — JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i  parlieri, M' il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. — procliac-  cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22 : il/' ciò che imprenda —  «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre —  28-29: M' vorrà suo luogo — chel dicitore — 7 di che ìnjj.     - Ili -   Qualitadi delle cause.   79. Le qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile  vile, dubitoso et oscuro.   Sponitore.   5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le qualitadi   delle cause, cioè di quante generazioni sono le dicerie.  Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che esso  medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e  le qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale,   10. et or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du-  bitoso et oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono  qualitadi substanziali sie incarnate alhi causa che non si  possono variare. Onde quella causa eh' è deliberativa non  puote essere non deliberativa, e quella eh' è dimostrativa   15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico della iudi-  ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere non  onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile,  e così dico della vile e della dubbiosa e della oscura.  Adunque sono queste qualitadi accidentali che possono   20. essere e non essere; ma le prime tre sono substanziali che  non si possono mutare.   Dell'onesta.   80. Onesta qualitade di causa è quella la quale incontanente,  sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.   25. Lo sponitore.   I. Quella causa è onesta sopr'alla quale dicendo parole,  immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore si  muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice  sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-     3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li generi —  10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M' puole — 13-14: M-m ml-  lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere dimostrativa — 17 : L bone essere bene non  mir. — 19: M-m om. queste — 23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente     iole per acquistare la benivoglienza dell'uditore, perciò  che ll'onestade della causa l'à già acquistata per sua di-  gnitade, sì come nella causa di colui che accusa il furo o  che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese.   5. Mirabile.   81. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui  che de' audìre.   Sponitore.   I. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale  10. convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza  e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è  centra noi et è straniato dalla nostra parte; et in questo  abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda,  sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre  15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che  una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta  dall'una parte, cioè di colui che difende il suo padre, mi-  rabile dall'altra parte, cioè di colui medesimo che è coutra  la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote  20. intendere tutti i somiglianti.   Del vile.   82. Vile è quello del quale non cura l'uditore e non pare che  sia da mettere grande opera a intendere.   Lo sponitore.   25. 1. Quella causa è appellata vile la quale è di picciolo   convenente, sì che non pare che ne sia molto da curare e  l'uditore non sine travaglia molto ad intendere, sì come  la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco valere.  Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che   30. ir uditore sia intento alle nostre parole.     1: M' om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna — 14: M-m  om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a l'atto — 19: M\a sua iiropria  madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si maraviglia — 28: hi di jioclio valoro, Jt/' de  piccolo valoro — 89: Mi nm. di l'are si    Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la  causa è In parte onesta et In parte è sozza e disonesta, sicché  Ingenera benlvolenzla e offenslone.   5. Sponitore.   I. Quella causa è appellata dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che  sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes  che dicea ch'avea morta la sua madi*e giustamente per due   10. ragioni : 1' una perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra  perciò che '1 deo APOLLO glile comandò. Onde l'uditore non  è certo la quale di queste due cagioni cagia in sentenzia.  Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte  d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso-   15 nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa  de filio: O d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo  figliuolo si sforzava (ii difenderlo in tutte guise. Certo la  causa era onesta quanto in difender lo padre, ma era diso-  nesta quanto in difendere lo furo.   20. Dell'oscuro.   84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o per aventura  la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a conoscere.   Lo sponitore.   1. Dice Tullio che quella causa è appellata oscura nella   25. quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano   le parole del dicitore sì bene ne sì tosto come si conviene,   perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per     2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca — 4: M-m o offensione — 7-8: M' o  in clie sententia torni ala fino — 10: m il suo marito — li: M chel deo apellollil, m chello  lio appello il, M^-L che dio appello glile comando — 13: M' quella parte dove parte —  16: M do fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m s\  sforza — 19: M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava — del dicta-  tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il 1" forse — M-m 7 forse - faligata   (1) L'abbreviatura insolita ài M e m porta a supporre una formula giuridica  latina, quantunque tale abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio  (la lezione di M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde  qualche nome proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per  aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che  sono oscure e malagevoli ad intendere.   Della divisione dell' exordio.   5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,   sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in  ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in  due parti, ciò sono principio et « insinuatio ».   Lo sponitore.   10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-   tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque  modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è  accordante all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità  di cause et in catuno de' detti cinque modi abbia suo modo   15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla qualitade so-  pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et  vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che  exordio è di due maniere : una eh' è appellata principio et  un'altra ch'jè appellata « insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli   20. interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause  sopra le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive  alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile,  vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et sopra  tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè   25. principio et « insinuatio ».   Del principio.   86. Principio è un detto il quale apertamente et in poche  parole fa l'uditore benivolo o docile o intento.   Lo sponitore.   30. 1. Quella maniera de exordio è appellata principio   quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla     1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di cose — 8:M' cioè  principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose — M' dele qualitadi sono tante divei-se --  Melo che sono— 13: M' coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19:  m una che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un altro che apellnlo  ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice — M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» —  22: M-m honesta - 23: M* jiare — 31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte     comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno  infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa  l'animo dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa,  o talora il fa docile o intento, si come fece Pompeio par-  5. landò a' Romani sopra '1 convenente della guerra con Julio  Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi avemo il  diritto dalla ifostra parte e combattemo per difendere la  nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi avere  sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ». (i) ■   10. Dell' insimiatio.   87. Insinuatio è un detto il quale, con infingimento parlando  dintorno, covertamente entra nelF animo dell'uditore.   Lo sponitore.   \. Tullio dice che quella maniera de exordio è apellata   1.5. « insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi  un lungo prolago di parole coverte, infingendo di volere  ciò che non vuole, o di non volere quello che dee volere,  e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo  dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì come   20. disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona  in gravosi tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi  traeste di tante pene ; oimai non dimando se non la morte,  ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m' avesse scam-  pato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di non   25. volere quello che volea, per venire in animo di loro che Ilo  scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et cosie  à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai  dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare  in ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto,   30. nel vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro.     i: M' alancomincianza — m sanza alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente,  m benivolo — M^ o ala sua causa — 4 : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del  convenente, — cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i parlieri,  M' il parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole — iW' in (juello che vuole —  20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti — 2S: M' oggimai non domando io —  23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco domandare — 27: M' a divisatoli maestro —  28 : M-m (|uali — M' noi dovemo — 29: M' de cause, M in ciascuno di delle causo, m in  ciascheduna delle chause   (1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo punto alla fine son  molto frequenti, rimando al mio studio su La «Rettorica» italiana di Brunetto Latini  pp. 35-50; ivi son ricercate e discusse le fonti di questi esempii, e così riesce anche  piti facile rendersi conto della costituzione del testo.   Della mirabile.   88. Nella mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse  al tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per  principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora   5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così isbri-  gatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non solamente  non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio.   Lo sponitore.   1. Inn adietro è bene detto che quella causa è appel-  lo, lata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare che  dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che quando la  nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che  Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora  potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel modo  15. de exordio eh' è appellato principio, cioè dicendo un breve  prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse  adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso  ne conviene ritornare ad altro modo de exordio, cioè « insi-  nuatio », e fare un bel prologo di parole infinte e coverte,  20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et acquistare la  sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,  quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui-  stare da llui pace così subitamente per poche et aperte  parole dicendo il fatto tutto fuori, certo non la troverebbe,  25. ma crescerebbe l' ira et infiamerebbe l' odio ; e perciò dee  andare dintorno et entrarli sotto covertamente.   Della causa vile.   89. Nella causa la quale è di vile convenente, per cagione di  trarrela di vilanza e di dispetto, ne conviene fare l'uditore intento.     S : M-m Della mirabile — ?» e solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo  fosse crucciato — 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —  9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M' potremo  (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato verso noi, m adirato contra  noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo —19: M-m nni. fare — converte — M iulì-  nito — 20: M' otii. la — SS: M^ cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo  7 aperte — S6: M-m darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto  coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de viltanca 7 de  dispregio     117 —     Lo sponitore.   I. Quando la nostra causa ella è vile, cioè di piccolo  convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora  ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore  5. sia intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare  traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola,  sì come fece Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò  cose molto meravigliose e grandi delle picciole api ».   Della dubbiosa qualità.   10. 90. Nella dubbiosa qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia   si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se  Ila causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene acqui-  stare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in onesta  qualitade.   15. Lo sponitore.   I. La causa dubitosa, si come fue detto in adietro, èe  in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è dubbia, sì come  apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e cagioni  dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel caso   20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella ragione  dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-  vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma  se '1 convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto  et in parte disonesto, in quello caso dee il buono parlieri   25. neir exordio acquistare la benivolenzia dell' uditore per  principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta.     2: M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f' -Ldelontendere —  4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. —  7 : m tràre — 8: M' om. molto — iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om.  è in parte onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi dub-  biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni — 19-20 : m in questo  dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede  davere — 23: m om. sia — M'-L honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio  benivolenca daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia   (1) Cioè « fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa >.  L'oscurità della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'.     118 -     La causa onesta.   91. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-  cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o  dalla legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria.  5. A\a se ne piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo-  glienza per accrescere quella che è.   Lo sponitore.   1. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene dire  è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi la   10. benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di pa-  role. Perciò quando noi venimo a dire (l) noi potemo bene  intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né  prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla nar-  razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare   15. da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella  ragione che sia più fermo argomento e più certo. 2. Ma se  nne piace usare ijrincipio e fare alcuno prologo, certo noi  lo potemo bene, non per acquistare benivolenza ma per  crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro   20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.   Della causa ohscura.   92. (e. XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel  nostro principio noi facciamo che ir uditore sia docile.   Lo sponitore.   25. 1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia   oscura. Et perciò dice Tullio che nella causa la quale sia     2 : M' m tia — 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o alcuna,  )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i om. che h - 9: M-m  nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi  doviamo a dire, m noi doviamo diro — i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin-  ciare ~ M' 1 cominciare do quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo  sia — 18: M' ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo  causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e   (Cioè «quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro  a dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo dire)  come evidente accomodamento di M.   oscura all' uditore a intendere noi dovemo usare quella  parte de exoi'dio la quale è appellata principio, et in  quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile, cioè  ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-  5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente  la sustanzia del fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi  che noi vedremo che U' uditore sia apparecchiato in via  d' intendere (1) il fatto, noi andremo innanzi a dire la nostra  ragione sì come si conviene al fatto.   10. Le ragioni delle cose.   93. Et perciò che infìn ad ora noi avemo detto che ssi con-  viene fare nell' exordio, oimai rimane a dimostrare per quali ra-  gioni ciascuna cosa si possa fare.   Sponito7-e.   Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò che   ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli àe  detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare  parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in-  nanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare ; e questo   20. insegnamento fa bene di sapere.   De' quattro luoghi della temperanza.   94. Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra  persona, da quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e  dalla causa.   25. Lo sponitore.   I. In questa parte insegna Tullio acquistare benivo-  lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per quello  che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che quattro  luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp     i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af' chela intenda et senta -  5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato  intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m In  ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale causa, i e in quale  causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da quello... alla persona   (1) L' espressione certamente è ridondante {in via sembra quasi una variante  di apparecchiato), e perciò quasi tutti i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem-  plice e comune. Il segno 7 di M' deriva da una errata lettura di a, che anche  in quel codice ha una forma simile alla nota tironiana.    si è la nostra persona e di coloro per cui noi dicemo. Il  secondo luogo si è la persona de' nostri adversarii e di  coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la persona  de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui noi  5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-  nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi  dicerà il conto ordinatamente e sofficientemente.   Tallio sopra lo lìvolago.   95. Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de'  10. nostri fatti e de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che  nne sono apposte e le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i  mali che nne sono advenuti et li 'ncrescimenti che nne sono pre-  senti; e se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino.   Sponitore.   15. 1. Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è   dicere della persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo,  quelle pertenenze perle quali l' uditore sia benivolo verso  noi. Et sappie che certe cose s' apartengono alle persone  e certe alla causa; e di queste pertinenze tratterà il conto   20. sofficientemente, e fie molto bella et utile materia ad impren-  dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare benivo-  lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi di-  cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no-  stri fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti »   25 quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per  forza, ma per movimento di natura. Et così dicendo Dido     1 : m Olii, si — 2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia  coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól convonento — 6-7 :  M' om. di questi — dioera lautore — m om. e soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. —  di nostri faoti — Ai' lo nostre colpo — 12: il/' che sono presenti — 13: M' i scongiura-  mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro — 17: m aparlenentle — 20: m om.  suflicientementc — M-mom. materia — 22: m om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo —  25: m diciamo per distretta — 26: M-m dicendo didio   (1) Le parole la persona sono superflue, e perciò a prima vista si preferirebbe  la lozione di M-m; ma è molto più probabile l'omissione di parole inutili che la  loro aggiunta in Af'.   (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di Mm, intende,  potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell' imperativo (per la desi-  nenza e non mancano esempii).     - 121 -   d' Eneas acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice  ella, « accolsi e ricevetti in sicura magione colui eh' era  cacciato iu periglio di mare, et quasi anzi eh' io udisse  il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi dice che ella  5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia dalla  distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè  e pietade delle strane genti per natura, non per distretta.  Ma offici sono quelle cose le quali noi facemo per distretta,  non per movimento di natura. Onde dice Tullio che dell'uno   10. e dell'altro dovemo dire temperatamente sanza superbia.  4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo da dosso a noi  et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci sono  messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati  que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al   15. viso, sì come fue apposto a Boezio eh' elli avea composte  lettere del tradimento dello 'mperadore. Il quale pec-  cato removeo elli per una pertenenza di sua persona, cioè  per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-   20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione  dell' accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe  eh' altre pensa in centra ad un altro, ma nolle pone davante  al viso, sì come molti pensavano che Boezio adorasse i do-  moni per desiderio d'avere le dignitadi; e questa sospeccione   25. si levò elli parlando alla Filosofìa, che disse: « Mentirò che  pensaro ch'io sozzasse la mia coscienza per sacrilegio (o per  parlamento de' mali spiriti). Ma tu, filosofìa, commessa in me  cacciavi del mio animo ogne desiderio delle mortali cose ».•  Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea sapien-   30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido fallimento ».  Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione che  '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me  della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro-  dezza non dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo     1 : M' deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il roame  mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m ci sono aposto  (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro — 17: M' elgli rimovca — ciò  fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 : M-m jiartita ....stati.... dellaccusato —  22: m centra un altro — ^f' appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi  solcasse — om. per sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in L;  M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via — 29: M-m paro —  31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia   modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-  scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave-  nuto era, acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per  guidardone della verace vertude sofferò pene di falso incol-  5. pamento ». Et Dido, dicendo i suoi mali dopo il dipartimento  d'Eneas, acquistò la benivolenza per la sua misa ventura, e  disse : « Io sono cacciata et abandono il mio paese e Ila casa  del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in caccia  de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di   10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare  i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce-  sare, guardate le catene e pensate che questa testa è presta  a' ferri e' membri a spezzamento». 7. Il quarto modo è se  noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino,   15. cioè devotamente e con reverenza chiamare merzede con  grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata  sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi  alla pugna della mortai guerra di Cesare, confortando i  suoi di battaglia disse: «Io vi priego de' miei ultimi fatti   20. e delli anni della mia fine, perchè non mi convenga essere  servo in vecchiezza, il quale sono usato di segnoreggiare  in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata sono  aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì  come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad   25. Eneas: «Io » disse ella « non dico queste parole perch'io  ti creda potere muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon     4 : M-m fossero peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo —  8: M el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf' epresso  — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14: M-m 7 scongiura-  mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13: m om. cioè — chiamando —  19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici lino, m delli anni /siche — 21: M servo  in vilezza la (piale, m servo 7 in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe  il 2° talfiata — 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto   (l) Il testo di Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio,  ha ultima fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non  credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo come  fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni probabilità  in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione facilissima del latino,  ultima facta, che certo riusciva più intelligibile della frase poetica originale.  Quanto al servo in vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po-  tesse supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato  l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di «condizione  vile, meschina».   pregio e la castitade del corpo e dell' animo, non è gran  cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8. Ma scongiura-  mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o  per anima o per avere o per parenti o per altro modo di  5. scongiurare, sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le lance e per le saette  de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco fuggirò,  per li dei o per l'altezza di Troia, etc.  Or à detto il  conto del primo luogo donde muove la BENEVOLENZA, cioè  10. della nostra persona e di coloro che sono a noi ; ornai  dirà il secondo luogo, cioè della persona delli adversarii  e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli aversarìi se no! li mettemo inn odio  15. invidia o in dispetto.   Lo sponitore.   1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de' nostri ad-  versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per  le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario  20. malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo  modo è dicere le pertenenze delle loro persone per le  quali siano inn odio dell'uditori; il secondo che siano in  loro invidia; il terzo che siano in loro dispetto; e di cia-  scuno di questi tre modi dirà il testo bene et interamente.   25. Tullio.   97. Inn odio saranno messi dicendo com' ellino anno fatta  alcuna cosa isnaturatamente o superbiamente o crudelmente o ma-  liziosamente.  M om. a — 711 lo chose vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin.  rli scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f., per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7 per li compagni - 8-0 : M' om. etc. —  Et ora a detto il maestro — om. la — Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio —  19: M-m om. a noi M' deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in  invidia.... loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.  e o maliziosamente     Noi potemo i nostri adversarii mettere ina odio del-  l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta isna-  turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare  5. .calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore  si tace presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto  superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né  de' maggiori, avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli  abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà né mise-   10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme o mi-  sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,  cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso.  2. Et di tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO  dice contra NERONE imperadore. Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et uccidendo il  fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso fatto  il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata  tra' monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto  lo sponitore sopra '1 testo di Tullio come noi potemo met-   20. tere il nostro adversario in odio et in malavoglienza del-  l' uditore. Da quinci innanzi dicerà come noi li potemo  mettere in loro invidia.   Tullio.   98. In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le ricchezze,  2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non sofferire,  e come più si confidano in queste cose che nella loro causa.   Sponitore.   1. Noi potemo conducere i nostri adversarii in invidia  et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la foi'za del     3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al ])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M  tenendo M^ 7 non venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-  labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se dicemo  cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata contra b. u., m om. cosa — o  disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido  il fratello — M-m i fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni-  menti in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii -  3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In —26: M' si lidano —  28-29: Af' i nostri avorsari conducere ....degliuditori   Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp. Bl-52.     - 125 -   corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la po-  tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè  servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta,  lignaggio e parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè  5. denari, auro et argento, in cotal modo che noi diremo  come ' nostri adversarii usano queste cose malamente et  increscevolemente con male e con superbia, tanto che sof-  ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : « Ben  dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande   IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-  dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca-  tenina centra ' Romani : « Appo loro sono li onori e le  potenzie, ma a nnoi anno lasciati i pericoli e le povertadi >.  3. Et ora è detto della invidia contra i nostri adversarii;  sì dicerà il conto come noi li potemo mettere in dispetto.   Tullio.   99. In dispetto degli uditori saranno messi dicendo che siano  sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose disusate e sono  oziosi in iuxuria.   20. Sponitore.   I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto  degli uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi  diremo che sono uomini nescii sanza arte e sanza senno,  da neuno uopo e da neuna cosa; o che sono neghettosì,   25. che tuttora si stanno e dormono e non sì muovono se non  come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a tutte  cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno  uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu-  xuria dando forza et opera in troppo mangiare, in nebriare,   30. in meretrici, in giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il     2-5: Af' om. e le signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-  celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come i nostri aversarii —  11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7 <le gente, m in tradimenti distructioni —  12: M-in a Romani — 13 : m lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio  (l. 17 idem) — 17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi —  22: M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di neuno  huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26: M' per sonno/  7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7 dicoremo — 29-30: M' de troppo  mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in bere — M in cliaverne M' a decto luditore come —  )?t om. Et     - 126 —   conto come noi potemo acqnistare la benivolienza dell'udi-  tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn odio  et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote  ciò fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui-  5. sta benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il  terzo luogo.   La benivolenza dell'uditore.   lOO. Dalla persona dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo  che tutte cose sono usati di fare fortemente e saviamente e man-  10. suetamente, e dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto  sia attesa la sentenza e l'autoritade loro.   Lo sponitore, (i) '   1. Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori  dicendo le buone pertenenze delle loro persone e lodando   15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per prodezza,  per senno e per mansuetudine, cioè per misurata umilitade,  é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-  stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que-  sto fatto, credendo fermamente che fie si giusta e di tanta   20. autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei si-  mili convenenti. 2. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo:  « Tu ài domate le genti barbare e vinte molte terre e sot-  toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il lodò  e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,   25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-  lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella  vittoria, la quale naturalmente adduce superbia, ritenesti  mansuetudine ». 5. D' onesta credenza il lodò Tallio in     2-3: M' in odio deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si —  8: Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7 suavomento  {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro — li: M-m intesa — 13: M-m  om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M' dicendo che buone — 15 : M-m om. e per fran-  chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la loro sententia  sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne simili — 23-84: m e lodo,  M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche metcllo M-m om. molto — Af tu  ritenesti a consellio, m tu ritenesti consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto  fatto /7 nella vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò  Tullio   (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è variamente errata, né  metterebbe conto darne notizia.     - 127 -   questo modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma  tutta volta lo ritenne in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo che non potea intendere a  rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO CESARE non li  5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài renduto  a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,  ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene  sperare »; e questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte,  sicché tuttora avea buona credenza. 6. D' attendere la sua   10. buona sentenza lodò Tullio Cesare parlando di Marco Mar-  cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te sopra questo con-  venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire (D  a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete  di lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come   15. s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà  Tullio coni' ella s'acquista dalle cose.   La benivolenza delle cose.  Da esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa,  per dispetto abasseretno quella delii adversarii.   20. Sponitore.   1. Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse  cose, cioè da quelle sopra le quali sono le dicerie, dicendo  le pertenenze di quelle cose in loda della nostra parte et  in dispetto et in abassamento dell' altra; sì come disse  25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare :  « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò  eh' ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe-     4 : M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza —  7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo (?«re i et ((uesto) —  9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con-  venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom.  so — L sar|uista bonivoglienza se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. —  21 : M' deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M confer-  mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m forma  speranza   (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del codice può considerarsi fusa (come  avviene nella pronunzia) con quella precedente di ma con quella seguente di ad.  Bel resto basterebbe anche « convenire, quasi come un futuro (« converrà »)  scomposto nei suoi elementi.     - 128 —   ranza d'avere Dio in nostro adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato  il conto le quattro luogora delle quali si coglie et acquista  la benivoglienza, molto apertamente et a compimento; sì  ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore intento.   5. Di fare V uditore intento.   102. Intenti li faremo dimostrando che in ciò che noi diremo  siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle cose toc-  cano a tutti a coloro che 11' odono o ad alquanti uomini illustri,  ai dei immortali, a grandissimo stato del comune, o se noi prof-  10. terremo di contare brevemente la nostra causa, o se noi propor-  remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la benivolenza di quelle persone davante cui noi   15. proponemo le nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi  et invìi in piacere di noi e della nostra causa e che siano  contrarii e malevoglienti a'nostri adversarìi, sì vuole Tullio  medesimo in questa parte del suo testo insegnare come noi  I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel comin-   20. ciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono,  sì che vogliano achetare i loro animi e stare a udire la  nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi  de' quali sono specificati nel testo dinanti, et in altri simili  casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che ciascuna per-   25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel mio comin-     1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento — 8-9: A/' o aliquanlì....  o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre-  vemente — VI proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —  — 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli — 19: M'  nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che noi vogliamo — 32-23:  3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om. el — 25: M-m sono noi mio com.   (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349: " Causa iubet melior superos sperare secun-  dos „. Solo la lezione di M corrisponde anche per la forma sintattica.   (2) Si rimano alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo  e un Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di A  con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più difficilmente  può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in senso di " dopo che „  non è dell'uso di Brunetto, clie adopra continuamente la formula " Poi che Tullio  ha detto „ "ha insegnato ,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato  diveniva necessaria leggendo Quando).  -ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e d'alta  materia, sì come fece il buono autore recitando la storia  d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò  e conterò così alto convenente come di colui che conquistò   ó. il mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie  inteso s' io dico eh' io voglia trattare di cose nuove e con-  tare novelle e dire eh' è avenuto o puote advenire per le  novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina : « Poi che  Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta   10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi (i)  potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile  populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade ».  4. Altressì fie intento s' io dico eh' io voglia trattare di  cose non credevoli, sì come '1 santo che disse : « Il mio   15. dire sarà della benedetta donna la quale ingenerò e par-  turio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine davanti  e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare es-  sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era  cosa da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che   20. venisse 'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento  s'io dico che '1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio  parlamento a tutti tocca od a coloro che 11' odono, sì come  disse Gate parlando della congiurazione di Catellina: « Con-  giurato anno i nobilissimi cittadini incendere e distruggere     1 : M traclai-e cose, m cliio voglia di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j —  4-5: M' recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7 contrario no-  velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente minuta — 10: m M'-L non  potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si — 14-15: M'-L sicome disse il santo  che disse - i II mio dotto — 16: M' partorie il figluplo — 17 : M^ -j di. poi — M-m om.  la quale.... natura — 19: M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in  essa terra, M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24: M'  anno nob. citt. dincendore   (1) Nonostante l'accordo di tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione  è confermata dal testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-  biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo la  dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in qualcuno dei  primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla negazione: non potenti.  Favoriva l'errore anche il tono insolito della frase " noi nobili, noi potenti ,.,  mentre le parole " in podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non  potenti „ i nobili.   (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè " nella patria stessa „ , in ipsa  terra. Leggendo con 21f » nella nostra terra si avrebbe lo stesso senso in forma più  chiara; ma non saprei allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso  il nostra, un nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece  nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi simile a l.     — iso-  la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo. Adun-  que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-  delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » (l).   6. Altressì fie intento s' io dico clie Ila mia diceria tocca  5. ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande pregio   e d'alta nominanza in traile genti sì come disse Pompeio  parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme de' ne-  mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato ».   7. Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,  10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo   di fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di  sopra potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2).   8. Altressì fie intento s' io dico nel principio di dire la mia  causa brevemente et in poche parole, sì come disse il poeta   15. per contare la storia di Troia: «Io dirò la somma, come  Elena fue rapita per solo inganno e come Troia per solo  inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento s'io  nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè  quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò   20. la mia provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro-  verò che giustamente uccisi la mia madre, imperciò che  dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio  padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore intento  potemo noi coUiere exempli in queste parole che disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta     1 : M-m 7 lor — M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn  {m esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro alla) —  4 : M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m che  latine — 8: M-m sano, M' senato — 9: M' fia intonto — lO-ll: M-m poi chelll anno  conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) — 12: M apena ornai —  13: 3f' nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole — 15-16: M' om. Io dirò.... e  come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio —  19: Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale — 22: M-m che io  ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo mavea), 7 perciò cliella m atento — 24: M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a lui   (1) Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in nota sono  palesi accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per evitare la ripetizione  di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da una sigla di sentenziare (0 si  tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi da leggere crudelissimi cittadini ò con-  fermato, oltre che dal senso, dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto  di Sallustio ; nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente.   (2) La lezione di M', che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di Mm:  il primo elli parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne  mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia genuino"     mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e cosi  incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi  posso io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che  Tullio à pienamente insegnato come per le nostre parole  5. noi potemo fare intento l'uditore, si dirà come noi il po-  terne fare docile.   Come l'uditore sia docile.   103. Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente   e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la contraversia.   10. E certo quando tu il vuoti fare docile conviene che tu insieme lo   facci attento, in però che quelli è di grande guisa docile il quale   è intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco  d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et aper-  tamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel  quale è la forza della contenzione e della controversia. Cosi  20. fece Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io  in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò, che  se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda  in mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei io  mettere per fare l'uditore docile, si come buono intendi-  25. tore puote vedere e sapere in ciò eh' è detto davanti. Et  perciò che '1 conto à trattato inn adietro di due maniere  exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato     i : M consuetudine, m sollicituiline, L inmansuetudine —L nm. lo e cosi — M man-  dila — 2-3: M-m mi possono, M*-L io posso — m om. Et — 5: M' luditore intento, M nm.  l'uditore — 8: M' Docile l'aremo luditore — M-m proi)onemo — iO: Af' Et credo quando  tu vuoli — 12 : m nm. è —attentissimamente — 14 : m davanti a chui — 15 : 3/' docile  cioè intenditori de tutto il facto — M-m sarò nel mio ex. — 16: M' incomincianza — M ar-  rincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho Af' om. dicendo nel  quale e la contentione — 20: M' om. cosa (ma non L) —21: m o misura — M' ti li-  spondo — 23 : M' om. io — 25 : m om. e sapere — 27 : M' doxordio   (1) È chiaro che posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono  perchè tutti i sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi og-  getti ; e vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23, seno  per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.     ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare  l'uditore benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento  della INSINUAZIONE in questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene   trattare le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade  della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando  l'animo dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro  10. e' anno detto davanti pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al-  l'uditore, se in quel tempo si dà luogo alle parole, perciò che  quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che di  questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'of-  fende l'animo dell'uditore. In adietro è detto sofficientemente come noi potemo  acquistare la benivolenza dell" uditore e farlo docile et in-  tento in quella maniera de exordio la quale è appellata  principio. Oramai è convenevole d' insegnare queste mede-   20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è appellata  « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio »  è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di  prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in-  daurato dovemo noi usare quando la nostra causa è laida   25. e disonesta inn alcuna guisa, la qual causa è appellata mi-  rabile, sì come pare in adietro là dove fue detto che sono  cinque qualità U) di cause, cioè onesta, mirabile, vile, du-  biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne potemo  noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,     1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della ìnsinualiono — 7: m ohi.  s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di questa — Iti: M-m a detto — 20: W  nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3: M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale  prolagoS6: M-m nm. in adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio  fa supporre lo slesso), M'-L qualitadi dolio cause  M' cioè nollamirabile   Conservo la parola qualità attestata da ambedue le tradizioni, tanto più  Clio anche prima Brunetto usa lo stesso vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una sostituziono o variante, che venne  poi introdotta nel testo (a mono clie non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE [IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”] per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel che  pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi potemo contraparare a ciascuno. E  sono tre casi. Primo caso si è quando sie nella causa  alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra  il reo uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA NELL’ANIMO dell'uditore  e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la quale  cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che  ir una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte,  anzi sine strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada lui  d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che  offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due  Et perciò conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non difendere quello che pensano che tu voglie  difendere, e così, poi che l’uditore sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu avrai  allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene  atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell' aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da  lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in  somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et  apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra  persona amata e piacevole all'uditore, sì che per cagione  e per coverta della persona amata e buona noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella  causa della tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme  eh' erano state d'Achille. Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi  contraparare, nel suo dicere ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e graziosa  in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA, che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri  nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini. Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Latini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Laurino – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Duca di Aquara e di Laurino, appartenente alla nobile famiglia napoletana degli Spinelli. Figlio unico dell’ottavo duca di Laurino, e di Giovanna Caracciolo, figlia di Ottavio, terzo Principe di Forino, eredita i titoli paterni. Sposa Beatrice Caterina Pinto y Mendoza, terza Principessa di Montacuto, figlia ed erede del principe Gregorio. Sposa in seconde nozze Donna Ottavia Tuttavilla, figlia di Vincenzo II, sesto duca di Calabritto. Allievo di Vico, si forma al Collegio Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali Filangieri e Galiani. Autore di varie opere di stampo illuministico, in particolare nei campi della storia e dell'economia. Il suo saggio a iù importante, le “Riflessioni politico-filosfiche sopra alcuni punti della scienza della moneta,” rappresenta uno dei primi tentativi di metodo geometrico applicato all'economia filosofica. In questo opuscolo, si oppone alle teorie monetarie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana, all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie del Real Ordine di San Gennaro.  A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una delle più suggestive realizzazioni del Settecento napoletano. Muore a Napoli e venne sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a Formiello.  Saggi: “Degl’affetti degl’uomini” (Napoli, Muzio); “Della moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli” (Napoli, Bisogni); “Del nobile” (Porsile); “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità, che nel diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare, s.d.  Troiano Spinelli, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   -- ria che forma la materia del presente saggio: E Metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima, che sussestato vinto da’ romani. Ed anche dopo ciò, molte delle Città medefime, quantunque al popolo di Roma veramente ubbedissero; pure così fatti nomi, e tale forma aveano di domeitica Polizia, che libere in certo modo facevanle apparire: maessen: do stata dalla Legge Giulia a ciascuna di quelle la Roma na Cittadinanza conceduta, che non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill G G I O TAVOLACRONOLOGICA compongono DI NAPOLI Dalla seconda venuta de LONGOBARDI in Italia fino, che quelle terre furono da NORMANNI della Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto fu accettata, e la quale da Marco Aurelio Antonino Caracalla fu all'intiero orbe Romano distesa, col vanto di esser parte del Capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, furono tutte senza alcuna dubitazione , anche nell'aspetto, sottoposte. tem Civitati anteferret Cic. pro Bal Cicer. Pro Balban. Edit.Ve. bon. Edit.Venet.. (3) L. inorbeff.de Stat. hom.L.Roma. Sigon.de Antiquo Jur. Ital. lib.3.c.1. ff. adbomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo magna contention Heracliensium, lib.i cap.62.. > Giusep Aloja Ins : DE' PRINCIPI, E PIU' RAGUARDEVOLI UFFICIALI, Che anno Signoreggiato, e retto le PROVINCIE , ch'ora: > Ι Mich.Fiaschino Inven . e C.I. REGNO DI (1) Strabon.Geograph.lib.5p.210 E- dit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui liberta e Neapolitanorumfuit,cummagna| I LL 0 e  Transferita però la Sede del Romano Imperadore in Costantinopoli, varie barbare Nazioni con più fortuna di quello, che aveano fattosotto la Romana Republica, invasero l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de'Goti con dugento mila armati, cagiona danni gravissimi, all'Italia: ma in Toscana da Stilicone resta con tutto il suo esercitu vinto, e sconfitto. Alaricoed Ataulfo re di que' medesimi barbari che ove Alarico dimora circa due anni, ed ove muotr, avidamente sacchegiarono. Attila Re degl’unni in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato, devasta, che il flagello di Dio fu nominato. Genserico re de’ vandali chiamato dall'Africa da Eudossia moglie di Valentiniano III. Imperadore, per vendicarsi di Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame assassinamento, sposata, ed occupato d'Occidente l'Impero;viene in Italia, ne scorre molte provincie, devasta la nostra Campania e molte città di essa avendo distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacreco' suoi Eruli, e Turcilingi, invadetutta l'Italia e Re de Goti, che nella PANNONIA, ove egli no dimorava, aveano cominciato a tumultuare, gli concedè l'Italia, acciocchè ne avesse Odoacre discacciato; ovvero, come altri vogliono, lo stesso Teodorico senza la concessione dell'Imperadore in vase quella Provincia, ne discaccia Odoacre (che poscia uccise), e re se ne fece nominare. Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin.in Philostorg, hift. Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron. Augut. De Civit. Dei lib.icaIo. Marcellin. Chron. In Sirmond. t.2p.284. Philoftorg. hist. Eccl.lib.12 n.3 inVauclid. Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb.Get. Agnel. Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat . t. 1 p . 98 . Cassiod. in Conf. Boet.Conf. X per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero Vestrogoti; a modo di locuste Roma due volte, ed una gran parte delle nostre Provincie, Histor. Miscell ,lið,15excod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. p.179.186. Jian, in Murat. Rer. Ital., Sigebert. Chrona in an. 473. 474 · Jornand. de reb.Goth. c. 30. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop. De bella Gotb. lib. Re , e circa xiv anni pacificamente la possiede. quista , se ne titola colle proprie forze d a quella l'Imperadore Zenone vedendo di non poterlo Teodorico Perchè discacciare , evolendosi renderbenevolo bella parie del suo Impero la con Reginon. Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex cod. Ambrofian., i Reginou.Chron. Socrat. hist. Ecclefiafi., Jornand.de reb.Goth. c.31 8 de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success. Anon Valesian. . rer. Ital. Munic.t.Ip. Marcellin.Chron.in Sirmond.t.2 (2) L. 20 de Tironib. C. Theodos. Z fimus Jornand.de reb. Goth.c.46 p.214 e Idat.Chron.in Du-chesn.t.1p.186. de regnur,success., Prosper. Aquitan.Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron. in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron. Goth. Aimon. de Gest. Francor.Sozomen.histor. Ecclefiaft. lib.9c.1.7. Sigebert. Chron.inan.Vales. la to Marii Aventic. Chron.in Duchesne, Evagr. Scholast.hist.Eccl.l.2c.7. Histor.Miscell.lib.15excod. Ambros. in Valef. Histor.Miscell.ex cod.Ambrof.inrer. Sigebert.Chron. Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne t. Ipa I Anon. Cuspin. Ma dopo di avere e codesto Principe, ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa l'anno della salutifera divina incarnazione l'Imperadore Giustiniano delibera di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava (4 ): i quali dopo , che fu l'Italia pacificata , ivi , e d in casa degli Amici più difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia , che avea all' Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi , e più chiari , ad istanza de’ RomanifudatalGovernodaGiustino cheerasuccedutoaGiustinianoImpe. radore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè eglieraEu. le sevissuto,non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto, dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co'Melli Comorimurtom Marcel lini Chronic. Aimon, de Gest. Francor. lib. 2.c. 16. |Joan. Diac. Chron. p. 300. Jornand.deregnor.Success.p.242: Landul.Sagac. additam. Ad Miscell.p.180 Procop. De bell. Goth.lib.4č.35p.368. Aimon.deGestis Franccr. Agath. de bell.Goth. Gregor. Mag.Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor. Anast. Biblioth. Invita Joan.III.  Paul. Disco de Gest. Langobard. eunuco l'Imperadrice Sofia gli scrisse che fosse andatoin Costantinopoli a dispensar la lana alle fanciulle; alla qual cosa fi dice, che Narfete sdegnato risposto avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch'ella mentre avesse vis i  longobardi a conquistare l'Italia copiosa di tutte le naturali ric chezze , la sterile Pannonia abbandonando . Il quale in vito allegri que'Barbari circa l'anno del Signore 568. sotto il loro Re Albuino vennero abbracciando in Italia: nello spazio di sette anni la maggior parte colla 427 428.:utcitmpuellisinGynaceo (1)Gregor. Turon. histor. lib.4.C.35, lanarum faceretpensadividere. Anast. Biblioth.p. 133.in Benedi&t. I. Landul. Sagac.additam. ad Miscellap.|Aimon.deGest.Francor.lib.3.c.7.11, ? ) > dellearmi neconquistarono(11); forza fu fama Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno deloro Re fino conquiste, che in Regio fusse pervenuto,e cheavendo 194 (1), e dindi parte dell'Italia, édiessa il rimanente dall'EunucoNarsete, che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima guerra fu interamente 2.. Aimon. de Gest. Francorum  O . 184 pist. lib. 5. la Sicilia rimandolli . Avea Narsete , siccome si è veduto , vinto i Goti , ed eziandio gli Unni (5) ; ed (4) Histor. Miscell. lib. 4 p. 94 · Aimon . de Gest. Francor. lib. 2.c. 33 Isidor. Hifpal. Marius Aventic. xi 1 Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon.hist. Histor.Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac. Chron. pe 300 . excerpt.Cron. per Fredeg. Scholaft. |Landul. Sagac. additam.ad Miscell. pa hist. Miscell. c.50 . Aimon.de Gest.Franc.lib. 3.c. 15 (8) Paul.Diac.ibid.lib.ic.5.7.D. Sigebertus, alii. Joan. Diaz.Chron.p.300. Paul.Diac.lib.2.ca32p.436. ) ivi ivitraleondedel mare una Colonna ritrovato l'avessecollastaper coffa, ed avesse detto , fin quì saranno de'Longobardi i confini. (1) Delle terre occupate da Longobardi inItalia se ne formò un Regno il quale poscia ebbe alcuni Re Francesi , e dopo essi altri di diverse Nazioni . Era l'Italia in tempo de'Re Longobardi in due Principati solamente divisa', in quellodei longobardi,edinquellodeGreci.Ma passatoilRegnoaCarloMa gno , surse in quella bella parte del Mondo il Principato di Benevento , da cui non molti anni doponacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua · Nel tempo de'quali Principati per le guerre , che arsero fra di loro furono in trodotti nelle nostre parti i Saraceni , i quali non però , comeche molte Terre avessero conquistate, a varij Capitani ubbedirono,almeno pressodi noinon mai e uno stato formarono . Ed i medesimi Principati di Benevento , e di Salerno , e di Capua durarono finchè furono da Normanni, che nella Puglia eransi stabiliti, interamente conquistati. Imperochè alcuni Pellegrini di codefta Nazione ritornan do dopo l'anno 1000.'del Signore da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare , ajutarono il Principe di Salerno da’Saraceni assediato; e riman dati da costui a casa con grandissimi doni , allettarono a venire nelle nostre P a r ti i Paesani loro , i quali discesivi, ed ora al soldo del uno de' noftri Principi , oraa quellodell'altrorimanendo,allafinefistabilirononelluogo,chediceafi in Octaba, e la Città d'Aversa ivi edificarono : uno di loro, chiamato Rainol fo per Capo , Conte, o sia Console stabilendovi. Impresero i Greci inquel tempo di liberare la Sicilia da’Saraceni , che la tenea. no per quasi due secolisottoposta ; e fu capo dell'Efercito Greco Maniaco ,il quale chiamò a'suoi soldi una parte de Normanni, ch'eranoin Aversa fermati, e costorovi andarono:mi dopo qualche tempo disgustati della suaavarizia,ab bandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo conosciuto un cer to Auduino a' Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una parte della sua gente in Puglia a torla alGreco Imperadore , che vi signoreggiava : ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo', unbuonnumero de'suoi capitani ei mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi Città di quella Provincia , ed indi altre terre ; fiffarono in Melfi la sede loro , e diedero princi. pioad un altro Principato, che continuoffi sotto i Figliuoli di TancrediConte di Altavilla , Gentiluomo anche egli Normanno; i quali in varj tempi nelle n o il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione . Conquistarono tutteleterre,cheiGreciaveanoin quelenostre Parti;tolseroa’Saracenila Sicilia, ed a' Longobardi il Principato di Benevento , e di Salerno , e fino a'lo ro medesimi Nazionali il Principato di Capua , siccome finalmente da una gran parte del Ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono , E di tutti così fatti Principati un Regno essendosi formato in sul principio Regno di Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli fu nominato. Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed oscura è quella, che vien compresa dalla seconda venuta de' Longobardi in ltalia, finchèle nostre Provincie da’Normanni, stabiliti nella Puglia, inun solcor po forono ridotte.xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di Calabria, e del Principato di Capua fi diske, edindiindue Regni diviso, uno fu detto di Trinacria alcuna volta ed pl , fu detto , ed il quale per anni 206. in circa fu de Longobardi, o fia d'Italia l'anno 774. discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da Re di quella Nazione il Re Desiderio ultimo Re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la natura il Regno bardo, trasferì nella sua Persona sopradetto, che Regno I va. (1) Paul. Diac. lib. 3.c. 31 p . 431  (2) Paul Diacon. fupplem . Longobar. 179 varj Principati , i quali in così fatto spazio di tempo, siccome fi è veduto, t e l a natural forma diesse fide e a gran fatiga, e molto dubbio sa mente indovinare. De'Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono il Regno diNapoli, intempi così dubbiosi, ed oscuri, io ho deliberato di scrivere in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più ragguardevoli Officiali ; gli anni de loro Regni,ed ufficii, e delle loro morti; I loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che quelli, o sovrani, od in alcuna maniera dipendenti, o Tributarj posso dimostrare ei diritti delle loro Signorie anno ftabilito; ed oltre a 7 ciòdellistesiPrincipatiuna,per quanto io ho potuto esatta e particolare Geografia. E nella Tavola Cronologicaiohoraccoltotuttociò che da' varj.Storici, o Sincroni,o quasi Sincroni , o molto antichi nella propofta materia si legge scritto, e narrato, come che discordie gli n o siano tra loro ramente appariscano;senza volerli corregere (ove avesli potuto ) o concordare; di esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a dal trui, che mi voglia in ciò precedere, riserbando; Contentandomi per orà di for nire solamente fecondi semi di una esatta ,e diffusa storia delle nostrali cose m e Geografia non va ancora sotto il Torchio ,in un foglio quella parte di essa ,ch' è necessaria alla present e opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla Tavola dame scritta il Titolo di SAGGIO ho apposto; conoscendo che in efla moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione.o:da altr , o da me stesso pervenisse a' Principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e quale fuffe la natura degli Ufficj, a cui in essi il Reggimento di Terre cra affidato ., presso ilPopolo , o presso una parte di esso, o presso un solo uomo :dice Cicerone: Respublica res est populi, cum bene,acjustegeritur, five ab uno Rege, la seconda perchè suole essere degl’Optimati, ARISTOCRAZIA , e l'ultima fi chiama MONARCHIA osia REGNO il qual nome non perde quantunque eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente tra' Ro. maniImperadori equasisempretra 'PrincipiLongobardi, dequalinoide scriviamo la Serie ; imperocchè una tal forma di Stato essendo molto più distante dall'Aristocrazia, che dalla Monarchia, dalla più vicina piuttosto che dalla piùlontana, dee prender esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltreaciò quello, ch' èstraordinario non dee caggionar nelle arti divisione regolare: nè codesti pochi Principi costituiscono un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte deeseguitare; ma ognuno riguardo alla sua. amministrazione libero senza alcun fallo rimane. Scrive Ubero: Monarchiam ef Se Io note , e più oscure. Ed acciocchè il tutto con chiarezza fi abbia ad intendere, dappoichè la promessa S $. II. Quali siano le varie forme di governo, ed i varj modi di acquistare iRegni . N, . xili . fursero in quella felice parte del Mondo ,ora si aggrandirono ,ora si diminuiro po,ora dalle Potenze maggiorifurono interamente absorti, equafi distrutti.Tal volta in essi si viddero eliggersi i Principi, tal volta si viddero in effi succedere a' padri i figliuoli nella Signoria. Quei , che vi regnavano , furono soventi fia te uccisi, ed i Privati il loro luogo occupando, trasmisero a'loro Posteri l'ini. quamenteacquistatoImpero.Ibarbarichiamatiperdifesadialcuni sistabi lirono per ruina di tutti, e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai diversa da quello, ch'eraprima,echefupoi, elasuaGeo. grafia non mai stabile offervofli, e costante . Nè di tutti così varj , e moltipli. ci accidenti vi fu chi la storia distintamente scrivesse ; m a da pochi , e quali a frammenti quelli,ebarbaramente$ furonoesposti,opiuttostoaccennati:eleopere de'Scrittoridi quei tempidasinegligentiCopistifuronotraseritte,chespessefia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione,che sene facesse,aggiunte. M a prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni ' Di codeste forme di Regimenti con voci greche la prima si dice DEMOCRAZIA, feve a paucis Optimatibes, five ab universo populo Ci:.infragm.deRepubl. Edit.Ven.oye  xiv se unius imperium folo fatis vocabuli argumento constat . Qicod tamen ita præci Je captari nolim , rat quasiescumque plures in uno Regno Domini esoftitere, toties Reipublicæformam mutaristatuamus. Nequeenim recte exiftimaturusvidetur qui in Romano imperia fiquandoplures Augusti fuere, Principatum defiisse con tenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab Aristocratia, quam a Monarchia diftet, confentaneum est, ut ab ea Specie, cui proxima eft , appella tio petatur . ItaLacedemoniis duo Regesfuerunt , idque Regnum vocabatur necnon verum fuisset Regnum ,fi poteftas vere summa fuisset. Præterquod extra ordinarius,atqueutitaloquar, accidentalisile pluriumconcursusplerumque babetur.UndeformaspeculiaresDyarchias outTriarchiasinArtemintroduce.reneccongrueret, nequeexpediret; tametsifatendum Monarchiæ vocabulum tuncelleminus commodum. Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbisfimiles a Germanis Jurifconfultis appellantur , non constituant collegium, adeoque nec mus plurium fententiam sequicompellatur.Nam ut hocjurisfit,opus eft.parto, Condomini autem Imperium Civitatis habent eodem jure,quo plures eandem remi fine tractatusSocietatis pro indivifo tenent. Quo cafu notum ejt;quemque liberum J u c partis arbitrium , nec reliqucrum consensui obnoxium , retinere la 28. ff. c o m m .divid.(1). Altri poi vi aggiungono quattro altre forti d 'Imperi , cioè i tre sopradetti , q u a n dofonocorrotii,ovveroingiusti,edilquartoda'due oda trègiàesposti insiemeuniti, ma Cicerone stesso condirittaragioneafferma chene'corrotti Imperi la Repubblica non più esiste:onde di ella non possono essere così fatti Imperi:Cum vero in juftus eft Rex,quemtyrannumvoca:aut injuftioptima tes,quorumconfenfusfactioeft:autinjujtusipfe Populus cuinomenusitatum mullum reperio nisi.utetiam ipfum tyrannum appellem : non jam vitiofa , rola , dappoiche essa nulla alla mia intenzione può giovare . Or nella Monarchia , o sia nel Regno , abbia avuto egli il suo principio dalla for za(5),odalvolere de Cittadini,odall'utile,odallapaurastimolari (6), abbiano questila facoltà di stabilire solamente i Regnanti, o di conferirle anche l'Impero: Aliter (diceÜbero), ediametroinstituunt, qui Imperium immediate a Deo esse volunt. Hi negant, Imperium ullo modo a voluntate populi perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam Monarchie, aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter D. Ziegle rus ad Grotium lib.1.c.3., c.4.Ethidictum P.Apostoliano bisali quoties adduétum , qucd imperium sit humanæ creationis, interpretantur, quod fit hominibus proprium, vel ratione cause instrumentalis, quia per homines exercetur Utuntur argumentis è Sacris , de poteftate folvendiligandi Sacramenta adminiftrandi, quce Ministro Eccleficecompetit. Quem ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert poteftate millam nec conferre poteft, quianonhabet eamipse, nihil que agit, quamut personam eleétam poteftatia Deo immediati proficiscenti applicet :fic etiam populu , quando eligit Regem, non confert pote (1) Huber. de Jur. Civit. lib. 1 1. I pag. 265. 266 . 37 S. 31 p.442 .  > (4) Gudling. deJur.Nat.acGent.c.) Ic.7S.5p.81. ) > 9 9 omnino nulla Respublica eft , quoniam non eft res populi fed cum tyrannus eam factiovecapesat: nec ipse populus jam opulus eft, fifitinjustus, quoniam nonest multitude jurisconfenfu ,& utilitatis communione sociata (2):E Bodinoegregiamente dimostra , che il composto di alcuno , o di tutte le suddette tre forme d'Impero non può una città, o sia Republica, che tale sia secondo il fine, che si è proposto, cio è la pace, ed il giusto, costituire(3): Onde Gudlingio ebbea dire: Talem Rei publice Speciem qui appellant mixtam ,f erendi quadantenus funt , Si mixtum idem fonet atque irregulare (4), della qual cosa io non faccio più pa. c.26 p. 533 Edit. Ven. 1731 . C. edit. Francf. an. 1641. Hobbes de (2) Cic. fragm. De Republ.lib.3.c.10 . . (5) Bodino de Republ.lib.4 cil p.579 fta Cive . Bdino de Republ. lib.2c.II(6) Hobbes de Civ. Cap.5 Huber.lib. (3) Vedi P. 274 Edit. Francf.an.1641. l  ftatem imperandi, fed personam electam producit eamque abhibet exercitio pote ftatis illia Deo immediate conferendse ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat; necquo minus populus imperium retineat, fiidexpe di re judicet, Deus intercesit; multo minus quo partemali quam imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde Minifterio Ecclefiæ inftitutoque matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel Regno dico , a sia nella Monarchia i Principi anno due sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'Impero in inezzo a' Popoli loro, l'altra , che determina il modo di averlo; o sia per la quale il Principe Regna, o l'Impero pofliede che modo di acquistarlo s ipuò anche direttamente chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede re quærere, aliud ese modo habendi, quod nonin corporalibus tantum fed& in incorporalibus procedit (2) Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi funt velordi narii, vel esctraordinarii. Priores duo funt Electio, dosucceflio Extraordi. nariiperindeduo,matrimonium O jusbelli.Dejurebelli o matrimonio dié tum quod fatis fit, in superioribus; de forte nihil quidem, sed nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin Dario H. staspide (3): EGudlingio:: Id queridignum, anperduretvita Ő anima civitatis una, etiamfi vel Electio. obtineat, vel. Succellio ? E t putem id contingentibus adnumerandum que unitatem nec efficient prorsus, nectollunt. Scilicet Electio & Succeffio per Jonas tangit, non autem modum regnand idefinit, necillum impedit imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios poteftas competit. Appellaturetiam Dominatus. La qual forma di Regno fc giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini, salvo la Teocrazia, benedel suo popolo, enon giàdilui, deeordinarelecose:scriveBodino:Rex eft, qui summa potestate conftitutus naturæ legibus non minus obfequentem se præbet, quamsibisübditos, quorum libertatem, ac rerum dominiacequeacfuce tuctur, fore confilit. Subditorum libertatem , ac rerum dominationem. adjecimus; ut n.4.5  to e h l. Jus Soc., Gent. n.I m (1)Huber.deJur.Civit.lib.ICo.28 (4)Gudling. de Jur. Nat.ac.Gent.c. |(4) Guiling, pergoNat.acGent.c.vel collate. Nec sequitur, cedunt epopulielientis.voluntate; primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile due sorti di diritti ne procedono tre forme di reggimento,osianodiMonarchie unaincuiil Regnante de'Corpi, Benide? Cittadini dispoticamente dispone, echeperciò Erile o, o liaBarbarica vien nominata , scrivendo Ubero : Dominatus finitur , quod fit Imperium , quo Princeps fibi fubjectis ut pater familias servis imperat, omniumquetam quod ad ( p.243n.1498. o civiliumnaturammaximeabeffectibusveftimandammo, rerum moralium, cujus limites excedere non licet Imperiiformam,& tenorem Si Deuscertam,ele&tionem persone fatemur ejusjurisvimin fringerenon populis, præscripserit poteftauferre jus ligandi e Solvendisuispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest. Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum. Hatenusquidem de imperio Civitatis a Deo, cui omnis anima debeat bere aliquem ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita excesti fefubie&to non tamen. resquamcorporaDominusexistens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit (5): Ed Arrigo Koehlero: Imperium Dominicum seu Despoticum di citur ofia Governo di Dio . E l'altra delle suddette forme di Monarchia è quella, nella quale il Principe pel (2) Grot. De Jur. bell.acpac.lib.Icos (5)Huber.de Jur. Civit. lib.1c.27 . 21 .$ 3 و 37S.XI .436. 3 XV . 7 tum promover. Imofucceffi opere nec mul ab. antecedente electionependet; undequi luc o de' in quo Nec sequitur , ita pergit Zieglerus, homines ab initioSponte adanéti infocietatem civilem coierunt exhoc ortumhabetpoteftascivilis:Ergotalispoteftasorigineesthumana·Sic enimperindeliceretargumentari;Adam& Evas ponte adducticcieruntinma trimonium. Ergo matrimonium institutione non est divinum . S e d 1. 7 p. 273 . (3) Huber.deJur. Civit.lib.IC.28i (6)Heinr. Toebl.JusSoc., ut Regis , ac Domini distinctionem certam adhiberemus (1) : ed effa dicesi Ci vile:leggendosiinUbero : Nobis igitur plures Monarchie Species nonfunt con siderand.e,quamheeduce,Regnum,& Dominatus,fiveImperium,utAriftote les loquitier , außacidendo , aut Baplaponèv . Regnum verum & plenum eft, ubi Princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod ere ☺ a petita., qui ed appresso : Ex his tertia resultat differentia , a fine diverso ristabiliti,est utilitas Regnantis. Qucenec ipsa tamen absque commodo fubječbo rumpoteftcuftodiri.Ex hisreliqu.edifferentie, inter Dominum, &. Reczorem, fervos ac cives ,de quibus Claudius ad Meherdatem apud Tacitum 12.annal. c. c 11. quæque fimiliaperse intelliguntur (3):Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium Civile est juspræ scribendi ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Ejuf modi Imperium Civile dicitur Commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza delle due fo pradette forme composta che Mista vien detta: Scrivendo Grozio; Quisibi singulos Subjicere potest servitute personali, nihil miru m est f li i d o universos f, i ve ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi poteftfubje&tione sive mere civili , sive mere herili , seve MIXTA. Riguardando poi la seconda forte degli esposti Diritti sorgono tre altre forme di nellaquale il Principe Regna per elezione del suo Popolo forma dicesi ELETTIVA . La seconda,in cui il principe riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da questo ricevuta , per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima Legge , viene stabilito ; sia egli il Primogenito del preterito Regnante ,o calui, che glinacque nel Regno ;'fia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato (6), la qual forma di Regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, eda molti una specie della prima, cio è una diversa sorte d’elezione essere si crede: dappoichèfcriveUbero:Plane,originecujufquecivitatisinspecta, nullumnonRegnumexvoluntatepopuliortum,fuitele&tivum Seddiversitas eft in Regno Civili ordinaliter utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest. In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della suaviła solamente ;venga cotaleele zione,fatta oespressamente,operviadiforte, odiDeputati;ecodesta electionis & fucceffionis deincepsorta est, cum quædam ex imperiis itafunt delata principibus, ut identidem fedes vacua perele&tionem repleretur .Quædam i t a ut fucceßio fecundum ordinem certum propinqui sanguinis ab uno in alium devolveretur,exprescripto Legis.Hanc quidemvocant electionis speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure familie hereditarium, fedtotum apopulodependens, quod G' in Angliamulti opinan tur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionisprimevæ continuationem, ni hilerrarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM [STATO] disputationissupraaliquotiesperactze. Quaperelectionem,ipsumjusIm perii independenter alienari pof fe probavimus , ad vitam ,vel etiam pro heredi bus;Quie tunc eftfucceflio,non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie propria, per actum alienationis.  Gudlingio : Id quæri dignum, an perduretvitaį anima civitatis una, etiamfivelelečžicobtineat,velfucceßio? (1) Bodin. deRepibl.lib.2 3 in (5)Grot.dejur.bell.ac.pac.lib.4cm | xvi Regni. La prima, 3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di . princ.p.302: dejur.Nat.acGent. (2) Huber.de jur.Civit.lib.I.c.27n. (6)VediGudlingio 5p.272infin. :, communividebitur,Salvatamenciviumlibertate, proprietatererum(2) cim.V.deImp.Civ.S.526. p.85. C. , ) 9 cum Et  xvii et putem id contingentibus adnumerandunt , quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt.Sciliceteleftin,o lucceliopersonastangit non autem modum re. gnandi definit , nec illum impedit ,nec multum promovet ;imo fucceßio pene ab suo.Antecessore , ed ha l’arbitrio di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di Regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam fu m m e poteft a t i s colligunt '. Primo enim Sottoposti; ma quando vennero in Italia vi fondarono il Regno, che fu detto de Longobardi, ofia dell'ITALIA e dil quale, e sotto i re loro,e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè durò fu sempre ELETTIVO . II. che EREDITARIO fu il Principato di Benevento. III. che fimile , a lui fu il Principato di Salerno . IV. Chenon diversodaeffiin tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte difficil cosa è il determinare daloro principjl’ espo fie forme de sopradetti Principati; Quindi è,cheneconvieneso venteimmitare i più Saggi investigatori del vero nelle produzioni della Natura : iquali non potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramentelededucono: scrive Newton tra quelli filosofi senza alcunfallo il piùfamoso: Ideoque EFFECTUUM NA TURALIUM EJUSDEM GENERISE ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo in bestia. Descensus Lapidum in Europa in Qualitates. corporum , que intendi o remitti o nequeunt , queque corporibus omnibres competunt , in quibus experimenta instituere Ticet nun ,a fibisemper confona. Extensio corporum non nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur; Oritur autem durities totius a duritie par tium, & in denonhorumtantum corporum quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; fed fenfu colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole; reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete, ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS, Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. dejur. Civit. antecedente electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva fuccederevidentur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , proqualitatibus corporum univerforum habendesunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT ; de quemimi nonpoffunt auferri. Certe contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia recedendum temere confingendo est, cumeasimplex eflefoleat o, quaforma Reipublic.e Civitas gubernetur , Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile Regnum Patrimorium imperio. Et in Monarchia ,sitne .Populovolente an invitofit conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non an successionegaudeant Imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel magnitudine Civitatum jus jummi nullisquoque Species hominum judiciafæpe perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius, oritur ab extenfione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium: indeconcludimus omnes omnium corporumpartes minimasextendi, et durasele,o impenetrabiles,& mobiles viribus inertice præditas(1).E nella festa maniera scrive Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non neè conceduto diavere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati, dicuiragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di leggieri gl' Imperi Ereditarj da Succeffori con regola cosi fatta si possono distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento,osenzanominareal. cuno Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere, che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu prima Succellivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia Provincia detta VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI eranochiama. ti furono poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE (7) , ovvero , secondo scrive Guntero , che altri affermino da' Popoli della Sassonia detti Bardi (8). Furonocoftoroinprimada'Duchi eposcia da Refignoreggiati(9); ed il regno loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton, Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist. Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt.lib.2. mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti , gli Estran gli abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus, nihilaliudeft, quam tacitumteftamentum exvoluntatis conjectura. Quintilianus pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: &ita, siinteftatusquisacfineliberisdecefferit: Nonquoniam utique jufium fit,adhospervenirebonadefunctorum:fedquoniamreliéta,& velutin medio posita nulli propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt, neceorumliberiextent itautgratic Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob., istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur. bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle  relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords: implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia, lombarda, lunga barba.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lazzarelli – implicatura ermetico-esoterica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Severino Marche). Filosofo italiano. Grice: “I would call Lazzarelli a Pythagorean; most Italian philosophers are, as most English philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di Lazzarelli è Vita Lodovici Lazzarelli Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium scritto dal fratello Filippo subito dopo la morte di Ludovico, e indirizzato all'umanista Angelo Colocci. Lazzarelli fu educato e visse a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae Religionis, un poema di ispirazione cristiana. Ricevette da Sforza un premio per un poema sulla battaglia di San Flaviano. Ebbe contatti con i più importanti studiosi dell'epoca e fu seguace dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di Ficino, l'Asclepio e tre trattati sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore di opere a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di Pico, con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii (Padova); “De gentilium deorum imaginibus”, dedicato prima a Borso d'Este,  poi a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae religionis” con mss dedicati a Sisto IV,  poi a Ferdinando I d'Aragona e ia Carlo VIII (Bertolini, Napoli); Epistola Enoch (Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones Asclepii”;  De bombyce (Lancellotti, Aesii); “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum (M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli); epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini, Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico degli Italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, su Ludovico lazzarelli.  l rivista Campli Nostra Notizie, su campli nostra notizie.  LAZZARELLI, Ludovico. - Nacque a San Severino Marche da Alessandro, medico, e da Lorenza Tosti, di nobile famiglia di Campli. La tradizionale data di nascita (1450) è stata recentemente corretta da Tenerelli (pp. 9-12) sulla base di un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio riferita da Aleandri (p. 274), secondo cui il padre risulta già morto nel 1448. Il L. stesso amava definirsi "Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei pressi dell'odierna San Severino Marche.  Alla morte del padre, il L. si trasferì con la madre e i cinque fratelli a Campli, presso Teramo, dove ricevette la prima educazione e - stando alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la morte - egli dimostrò precocemente inclinazioni poetiche, tanto da comporre, appena tredicenne, un carme sulla battaglia di San Flaviano, che gli avrebbe meritato le lodi di Alessandro Sforza, signore di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum simia".  L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dall'incerta cronologia, della vita fitta di spostamenti condotta dal L. a partire dalla metà degli anni Sessanta. Fu dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore del figlio del signore della città, Matteo Capuano, dove compose un carme esametrico per la morte della duchessa Caterina Orsini Del Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua biografia, la definirà "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius aetatem" (Vita Lodovici, p. 3). Per due anni fu a Teramo presso Giovanni Antonio Campano, "ut eiusdem Campani fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior fieret" (Lancellotti, p. 7), dove si applicò allo studio del greco, dell'ebraico, della matematica e dell'astrologia. Il fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un tal Vitale ebreo, che negava la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passò a Venezia, dove perfezionò lo studio del latino e del greco alla scuola di Giorgio Merula. Il componimento esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi svoltisi nel 1468 e nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi erano comparati a personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum, costituito da dieci egloghe di soggetto sacro, dedicate ai principali misteri della vita di Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, il 30 nov. 1468, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.  Secondo il racconto del fratello, il L. si sarebbe recato presso l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. Il L. stesso celebrò poco più tardi l'evento nell'egloga Laurea.  Una serie di stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus, poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb. lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716 vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente occorso al duca nel novembre 1477.  L'originaria dedica a Borso d'Este è perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di "appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte, secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma il L. intende riscattare dall'uso ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che "triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas […] et simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché "invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis" (I, 1, 127-140). Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino.  La vicenda compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno del L. a Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote Fabrizio. Il L. intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e astrologici.  La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). Il L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza divina.  Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., 2853, autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al re di Francia Carlo VIII, allestita non prima del 1494 e probabilmente abbandonata dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio finale.   Il poema ricevette onorata accoglienza da parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti (pp. 27, 29), nei quali il poeta è celebrato come una sorta di Ovidio reincarnato. Al Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in morte (21 sett. 1481).  Secondo Foà (p. 784), al 1481 daterebbe la conoscenza con Giovanni da Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr. 1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il pontefice e vari prelati.  Gli studi di Kristeller hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini).  Con lo stesso pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L. indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio, nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae sapientiae filius" (Kristeller).  Il L. entrò quindi in rapporto con Francesco Colocci quando questi, avendo con sé il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli Satriano. Secondo Fanelli (p. 16 n.), i Colocci passarono nel Regno di Napoli dopo il 1485: poco prima del 1490 andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis puerum".  La datazione dell'opera è controversa e il più recente editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di Angelo Colocci (il 1474), che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore esemplare ("lege sollicito mea carmina visu", v. 17), vero e proprio filius da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite, terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id fieri possit, mox forte docebo,  hic gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il 1492 e il 1494, data della morte del re.  Il recente editore, Moreschini, ha anche riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata  da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si rende così simile a un dio. Moreschini (1985, pp. 206 s.) osserva come nella seconda redazione il L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo (lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica) nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.  Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri, presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi anno MCCCCXCV" (ed. Brini, p. 76).  Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY, 1997; Fasti Christianae religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, Roma 1955, pp. 34-50; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova 1960, pp. 251-259; le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e Lodovico Lazzerelli. Contributo alla diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, pp. 221-247; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix. Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina…, a cura di G.F. Lancellotti, Aesii 1765, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura di M. Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 51-74 e, integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di Ludovico Lazzarelli, in Id., Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 75-77.   Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. 598 della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection, VIII.18; una silloge di carmi di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. 59 della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di Baltimora.  Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.; due copie di Lazzarelli, Vita LAZARELLI Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii 1765; F. Vecchietti - F. Moro, Biblioteca picena, V, Osimo 1796, pp. Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia Lazzarelli di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), p. 419; F. Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni dell'Istituto nazionale sul Rinascimento meridionale, I (1984), pp. 99-133; N. Tenerelli, L. L. ed il rinascimento filosofico italiano, Bari 1991; M.P. Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma 2000, pp. 784-786; D.P. Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena; Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana, campo marzio, marte, dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leanace – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.

 

Grice e Lecaldano – transpatia – l’impassibile di Cicerone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di Lecaldano spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale anglosassone dal XVII al XIX secolo, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (David Hume, Adam Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi della metaetica. In bioetica, Lecaldano si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista morale di E. Lecaldano sulla nascita, la cura e la morte di Luca Corchia. Riflessioni di Lecaldano sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra conversazione comune e letteratura  “La molteplicità di usi di simpatia”  È possibile riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è accompagnato da un  significato positivo, anche se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con  connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione  sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come notava Hume nel XVIII  secolo, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché  il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine simpatia viene compreso dalla  gran parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad esso si  accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che  esplicita. Lynn Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi  illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata alla  compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la  considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la  consideravano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di partecipare  attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui  il rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea del XVIII secolo (reso possibile  dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento erano  stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione  simpatetica del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema  può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli stati  d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi. (discorso su Kundera)  “Un percorso di approfondimento”  Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa a quanto  la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri umani.  Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le  argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può essere considerata  necessaria per la nostra vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine  conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una reazione  affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la  simpatia intesa come preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in base  ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva,  un contagio emozionale automatico;  2. Dall'altra quello che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e che  comporta un minimo di riflessione.  L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le cose,  presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la pratica  non solo della moralità, ma della giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di  civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede  in essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della filosofia. La prima importante  nozione di simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del  mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare una connessione  armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella  filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo  secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una simpatia universale per  indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che  ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo un'immagine  che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico della simpatia è il  fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia  ha un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno  universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione automatica. Fin  dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è  un'importante innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Francesco d'Assisi, che nel “Cantico  delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il sole, la luna, l'acqua e il  fuoco. Questo atteggiamento è “empatia” (oriente e Schopenhauer)  “Una relazione attiva fra due poli”  La simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica a  Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come essenzialmente egoista.  Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson che però, pur riconoscendo agli esseri umani un  grado di apertura affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella completa  soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con l'impostazione  platonizzante tende a considerare la simpatia come una trama che si estende al di là del mondo  umano, creando armonia fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il  termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea perché incapace di  cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le analisi di  Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si può  individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la simpatia solo come un dato della natura della  psicologia umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico che  permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani; per Smith è altresì un principio  psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo  disapprovare. Queste diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità:  Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea  interpretativa ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume un  principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri umani,  nonostante coinvolga anche relazioni con gli animali e tra loro stessi;  Nella natura umana esiste una gran tendenza a prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che  osserviamo in noi stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di questi  ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali suscitando le stesse emozioni  provocate nella nostra specie.  Hume distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall' infanzia,  riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo indiretto, ricorrendo  all'immaginazione riflessiva e non immediata che genera i sentimenti morali. A quest'ultima  forma di simpatia può essere ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e  simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in grado di rendere conto  della distinzione che facciamo tra virtù e vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione della simpatia alternativa  a quella di Hume. Infatti, a Smith non interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la  identifica come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e passioni  altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere su nel condividere emotivamente la  risposta che l'altro dà alla situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa  simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato complesso e articolato: vi è un primo stadio che è  la capacità di ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta sofferenza o  piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato dall'approvazione o disapprovazione che si dà  della condotta altrui; infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre  approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia come  approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella generica analizzata da Hume, ma  molto più aperta per ciò che riguarda il ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come  approvazione morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica l'intervento di uno  spettatore immaginario capace di far valere le esigenze di una più completa ricerca delle  informazioni rilevanti. Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!”  Eugenio Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano. Keywords: illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lelio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Gaio Lelio. C. Lelio, ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. C. Lelio conosce i tre filosofi ateniesi inviati a Roma, ma fu attirato principalmente dal stoico Diogene.In seguito C. Lelio ha rapporto con Panezio di Rodi e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. Leliopartecipa alla guerra contro i punici e si distinse nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura.Appartenne agli auguri è diviene console. Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio Gracco C. Lelio si schiera contro questo e i suoi fautori. C. Lelio e ammirato, se non come oratore come uomo politico, e forse dovette il soprannome di "sapiens," datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Gaio Lelio Gaio Lelio Console della Repubblica romana Nome originale: Gaius Laelius. Figli: Gaio Lelio Sapiente. Gens: Laelia. Consolato. Gaio Lelio è un filosofo stoico, politico e militare romano.   E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio Cornelio Scipione Africano, che seguì in Spagna e in Africa durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e questore.  Si distinse particolarmente nella conquista di Carthago e in seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Sappiamo che dopo un viaggio di trentasette giorni, partito da Tarraco in Spagna (in seguito alla presa di Carthago), raggiunse a Roma. Quando entrò in città insieme ad una grande schiera di prigionieri attirò l'attenzione del popolo che si riversò lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato, dove racconta che Carthago fu presa in una sol giorno. Si tratta della principale città cartaginese della Spagna. Oltre a questa notizia rifere che erano state riprese alcune delle città che si erano ribellate ai romani, mentre altre erano state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si stava preparando per passare con un secondo grande esercito in Italia, tanto da destare nuove preoccupazioni nei senatori, visto che a stento si era riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. Lelio rifere degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di ringraziamento agli dèi per l'esito felice della guerra in Spagna e ordinò a Lelio di far ritorno dal suo comandante Scipione il prima possibile, con le stesse navi con cui era venuto. Dopo la fine della guerra fu edile plebeo, pretore e console e fornì importanti informazioni sulla vita dell'amico, Scipione Africano, allo storico Polibio. Gaio Lelio è il padre di Gaio Lelio Sapiente, console insieme a Quinto Servilio Cepione.  Smith, Dictionary of greek and roman biography and mythology vol. 2, p. 706 n.1, su The Ancient Library. URL consultato il 28 febbraio 2022 (archiviato dall'url originale il 6 marzo 2013). ^ Polibio, X, 3.1-2.  Livio, XXVII, 7.5-6.  Polibio, X, 8.6-10. ^ Livio Polibio, X, 3.2-3. Bibliografia Fonti antiche (GRC) Appiano di Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), VII e VIII. (traduzione inglese Archiviato il 20 novembre 2015 in Internet Archive.). (LA) Livio, Ab Urbe condita libri. (testo latino  e versione inglese ). (GRC) Polibio, Storie (Ἰστορίαι). (traduzione in inglese qui e qui). (GRC) Strabone, Geografia. (traduzione inglese). Fonti storiografiche moderne Giovanni Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna, Patron, 1997, ISBN 978-88-555-2419-3. André Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano, Il Saggiatore, 1989. Howard H.Scullard, Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, vol.I, Milano, BUR, Laelius, in Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, 2001. Romanzi storici Santiago Posteguillo, L'Africano, Casale Monferrato, Piemme, 2014, ISBN 978-88-566-3295-8. Santiago Posteguillo, Invicta Legio, Casale Monferrato, Piemme, Gaius Laelius, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Predecessore Console romano SuccessoreManio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica(190 a.C.) con Lucio Cornelio Scipione AsiaticoGneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio NobilioreV · D · M Seconda guerra punica V · D · M Guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Portale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Politici romani del III secolo a.C.Politici romani del II secolo a.C.Militari romaniMilitari del III secolo a.C.Militari del II secolo a.C.Nati nel 235 a.C.Morti nel 160 a.C.Consoli repubblicani romaniLaeliiPersone della seconda guerra punica[altre]. Lelio was a statesman and orator who took a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname ‘sapiens’ (know it all). According to Cicero, this was not because he knew it all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicero greatly admired him and featured him in a number of his philosophical works.

 

Grice e Leocide – Roma – filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leofronte – Roma – filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicated a book to him.

 

Grice e Leonzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lettine – Roma – filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Libanio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supported Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb.

 

Liberale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – Ebuzio Liberale (not to be confused with Liberace) was saying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. He was a dear friend of Seneca. He followed the Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While he was accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude, was more than he could handle.”

 

Grice e Licenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieved a reputation of a poet before dying young.

 

Grice e Livi – consenso sociale – filosofia italiana – l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla ISCA (International Science and Common Sense Association), che ha come organo ufficiale la rivista "Sensus communis -- Alethic Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi (autore di importanti saggi di Storia della Metafisica),  Bettetini, Arecchi, Spatola (psichiatra), Covino ed Arzillo.  Fondatore della casa editrice Leonardo da Vinci, fu membro associato della Pontificia Accademia di San Tommaso, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firmò con Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio.  «Senso comune» è il termine utilizzato da Livi in chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore certezza. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica aletica su base olistica.  Tra gli studi recenti sul sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di Agazzi, "Valori e limiti del senso comune" (Franco Angeli, Milano), Ottonello ("Livi", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del senso comune", in "Memoria e progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del senso comune (Vinci, Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di Livi (Vinci, Roma). Hanno scritto su Livi anche Andolfo (storico della filosofia antica), Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, gli Stoici, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Duns Scoto) e dell'età moderna (Vico, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai pensatori della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila:  Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del senso comune -- Logica della scienza (Milano: Ares); “Il senso comune tra razionalismo e scetticismo in Vico” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza -- senso comune e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Lateran University Press); “Razionalità della fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal senso comune alla dialettica” (Roma: Vinci); L'epistemologia di Aquino e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “Senso comune e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta antica: aspetti sociali” I: La filosofia antica e medioevale;  moderna;  contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento) Roma: Alighieri); “Logica della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “Senso comune e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della Chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “Il senso comune al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa",  su Gli equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci);  “Aquino filosofo” in Antonio Piolanti San Tommaso nella storia del pensiero” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Etienne Gilson", in Antonio Piolanti Etienne Gilson, filosofo cristiano, Roma: Vaticana,  "L'unità dell'esperienza nella gnoseologia in Aquino", in Antonio Piolanti "Noetica, critica e metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “Senso comune e unità delle scienze", in Rafael Martinez "Unità e autonomia del sapere: il dibattito", Rome: Armando, E. Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana, 1º luglio.  Sito di Antonio Livi  su antoniolivi.com. Casa editrice Leonardo da Vinci, su editriceleonardo.com.  ISCA International Science and Commonsense Association, su isca-news.org. Fides et Ratio, su fidesetratio. Il Giudizio Cattolico, su ilgiudiziocattolico.com. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.

Leon

 

Grice e Leoni – implicatura – filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Grice: “I love Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Trascorse la sua vita tra Torino, Pavia, e la Sardegna. Per le sue idee, viene associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno della filosofia del diritto,  si inserisce nella tradizione del liberalismo classico. Allievo di Solari, di cui fu pure assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fece parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e salvare soldati.  Inizia la sua attività accademica, insegnando Filosofia del diritto e ricoprendo l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che svolgeva amministrazioni di condomini e palazzi, aveva perpetrato truffe e sottrazioni di denaro; quando se ne accorse e minacciò di denunciarlo, Quero lo assassinò colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano politiche economiche di stampo statalista, andò controcorrente sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno era pronto a difendere.[senza fonte] Leoni criticava la logica dell'intervento pubblico mentre esaltava la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle volontà dei singoli individui.  Fondatore nel 1950 della rivista Il Politico, Leoni svolse ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per il quotidiano economico Il Sole 24 ORE. Membro della «Mont Pelerin Society» (di cui fu segretario e poi presidente), lo studioso torinese fu pure molto impegnato nel Centro di Studi Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”.  Studioso poliedrico (giurista e filosofo, ma anche appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che della storia delle dottrine politiche), nel corso degli anni cinquanta e sessanta Leoni promosse le idee liberali all'interno della cultura italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della rivista da lui diretta per molti anni, Il Politico, in cui diede spazio ad autori spesso a quel tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche.  Con i suoi studi, inoltre, Leoni apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta pubblica all'Analisi economica del diritto (filoni di ricerca che esaminano la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia), fino all'indagine interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso.  E stato quasi dimenticato: soprattutto in Italia. La sua opera più conosciuta (frutto di lezioni ). L’ndividualismo integrale di Leoni risulta ben poco in sintonia con la cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da quella cultura che egli assimilò in profondità grazie all'intensa frequentazione di alcuni tra i maggiori studiosi di quell'universo intellettuale.  Inoltre, seguì sempre con il massimo interesse i protagonisti della Scuola austriaca (Mises e Hayek, soprattutto) cheanche se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi.  In questo senso, bisogna rilevare che il percorso intellettuale di Leoni sarebbe stato molto differente senza la Mont Pelerin Society, nei cui convegni egli ebbe l'opportunità di entrare in contatto con intellettuali e scuole di pensiero estranei al clima dominante nell'Italia di allora. Per molti decenni, in effetti, l'associazione fondata da Hayek ha rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercavano interlocutori radicati nella cultura del liberalismo classico.  Per alcuni decenni dimenticato o quasi in Italia, il pensiero di Leoni ha continuato a vivere fuori dei nostri confinigrazie alle iniziative, ai libri e agli articoli dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i suoi lavori hanno saputo suscitare nelle nuove generazioni di studiosi liberali.  A partire dalla metà degli anni novanta, però, la situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere sulle pagine del  torinese, dando vita ad una vera e propria "riscoperta" che sta producendo numerosi frutti e grazie alla quale si va finalmente riconoscendo a Leoni la sua giusta posizione tra i maggiori filosofi del XX secolo. Oggi Leoni non è più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore delle sue tesi.  In questo senso, è interessante rilevare che perfino intellettuali lontani dalle posizioni liberali e libertarian di Leoni avvertano sempre più il carattere innovativo del suo pensiero, che nell'ambito della filosofia del diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre nel corso degli ultimi due secoli il diritto è stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al potere, uno dei contributi maggiori di Leoni è quello di aver indicato un altro modo di guardare alla ‘norma giuridica’, sforzandosi di cogliere ciò che vi è oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa ragione, si guarda alla teoria di Leoni come ad una radicale alternativa rispetto al normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da Leoni.  Quella di Leoni, per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della tradizione libertarian, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro potenzialità.  Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato fondato l'Istituto Bruno Leoni, con sedi a Torino e a Milano (animato da Lottieri, Mingardi e Stagnaro), che si propone di affermare, all'interno del dibattito politico-economico, i principii liberali difesi da Leoni stesso e di promuovere la conoscenza del pensiero di Leoni e, in generale, delle teorie liberali e libertarian.  Saggi: “Lo stato” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);  “La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Soveria Mannelli, Leonardo Facco Rubbettino,  “Il diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e contemporaneo, A. Masala, Bassani, Macerata, Liberilibri,  Istituto Bruno Leoni. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione  Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di O. Quero, su in mia memoria.com. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato a sviluppare le ricerche di Leoni è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu, che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana.  E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek, rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia del diritto coerente con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il liberalismo (Soveria Mannelli, Rubbettino); la prima monografia su Leoni. Antonio Masala  La teoria politica (Soveria Mannelli, Rubbettino); Lottieri, “Libertà e stato” in Antonio Masala, a cura di, La teoria politica; Soveria Mannelli, Rubbettino, Lottieri, Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico” (Soveria Mannelli, Rubbettino); Approfondisce il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in Leoni, ma già ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, Bruno Leoni. Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della Collana “L'Ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico italiano contemporaneo”, Napoli, ESI, Adriano Gianturco Gulisano, Tra positivismo e giusnaturalismo. Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La «teoria empirica» di Leoni. La centralità dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. Riscoprire Bruno Leoni, su riscoprire.brunoleoni.com.Bruno Leoni, Bruno Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Leoni – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa.  Fu qui che ebbe modo di entrare in contatto con la cerchia di filosofi che gravitavano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Inizia ad avere contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico.  Venne considerato dai suoi contemporanei uno dei più valenti uomini di scienza esistenti all'epoca. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiesero le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici.  All'indomani della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca  sostengono che il mandante dell'uccisione del Pierleoni fosse stato il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo.  F. Bacchelli, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Dagli Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria): "Era adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in loica, in filosofia, strologia, nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. Era quisto homo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva stare. Fo conducto ad Pisa ad legere, ebbe mille ducatj de provisione per anno: poj fo conducto ad Padua, ebbe mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte multi annj ad legere: et similemente ad Padua."  dagli Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria.  "Lorenzo se amalò, mandò per luj, et andò ad Fiorenza. Era quisto mastro Pierleone de tanta scientia de strologia, che predisse la morte sua essere infra quatro misi. Et anda mal voluntierj ad Fiereze. Tandem jonto ad Fiorenze trovò Lorenzo stare male: erano lì clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de Milano: et predisse mastro Perleone la morte de Lorenzo. Ipso non prestò may et non se mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che il Leoni non s'ingerì affatto in ciò che riguardava l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura diagnosi della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuol, forse, velatamente intendere che niente ebbe a che vedere Pierleone con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentavano il paziente, servirono forse ad accelerarne il tracollo) ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale et senza prudentia, ordinò che el dicto mastro Perleone fosse morto. Lorenzo era in villa ad uno suo casale, et lì tucto dì stava mastro Perleone. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro Perleone, volendo tornare luj allu solito loco, fo menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì fo strangulato dicto mastro Perleone, et buctato in uno pozo. Poj fo retracto et portato in Fierenze, et retenuto el suo corpo con guardia et veneratione assay. Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la ciptà, perché la bona memoria de Lorenzo amava quisto omo più che homo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio, sapientissimo et pieno de verità, bontà et integrità."  Nella sua "Storia della Letteratura Italiana" Tiraboschi (Firenze, Molini Landi) riporta fonti dell'epoca, fra cui Scipione Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice il Cambi, da due famigliari di Lorenzo". Lo stesso testo riporta le affermazioni del Sanazzaro, il quale "non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo", e di Allegretti, storico senese contemporaneo di Pierleoni, che riporta. Maestro Pier Leone da Spoleto, che lo medica (si riferisce a Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'ha avvelenato, nientedimeno si conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti M.: Sannazaro Iacobo. Branca V: Dizionario critico della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta I., Klien F.: I Medici in rete” (Olschki, Firenze); C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della Letteratura italiana, A. Mauro, “Opere volgari” (Laterza, Bari); A. Montevecchi, “Storie fiorentine” (Rizzoli, Milano); A. Nibby, “Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de' dintorni di Roma” (Belle Arti, Roma); H. Orio, “Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere” (Torrentino, Firenze); T. Pesenti, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova,  Repertorio bio-bibliografico, G. Radetti, Un'aggiunta alla biblioteca di Pierleone Leoni da Spoleto. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli F.: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di Scipione Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Achille Sansi: Storia del comune di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.  Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leopardi – il favoloso – Leopardi fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!”  -- Grice: “One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement, ‘leopardismo.’  Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo.  È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.  Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di filosofi come il barone d'Holbach, Pietro Verri e Condillac, a cui egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico e poetico. Morì noco prima di compiere 39 anni, di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di Napoli.  Il dibattito sull'opera leopardiana a partire dal Novecento, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno.  In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo.  Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.  La formazione giovanile  La casa natale Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori ecclesiastici, il gesuita don Giuseppe Torres fino al 1808 e l'abate don Sebastiano Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.  Il ruolo avuto dai precettori non impedì, comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Giuseppe Antonio Vogel, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi, è da considerarsi la sua prima composizione poetica. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati "puerili". La produzione dei "puerili"  Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette "puerili" dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, Leopardi fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di casa Leopardi), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi fatta da Giovanni Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale.  Iniziò nello stesso periodo anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo Leopardi inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo Leopardi: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.»  Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Pietro Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Pietro Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante giovanile (secondo ErikSganzerla), una sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli Leopardi furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Pietro Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.  «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.»  (Lettera dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla, propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, Leopardi non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come ribadito spesso da Leopardi), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo".  Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Pietro Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia»  Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classicisti e romantici. Leopardi difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!»  (Il primo amore, v.3)  Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Giuseppe Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.»  (Giacomo Leopardi, L'infinito, v.15). Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d'Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il Leopardi elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A Leopardi Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Barthold Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma Leopardi rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, Leopardi si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa Leopardi. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse il 28 marzo 1826 nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di Leopardi sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze, dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i quali Gino Capponi,[89] Giovanni Battista Niccolini (amico e corrispondente di Ugo Foscolo allora esiliato a Londra), Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo ed anche il Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di Leopardi. Fu invece conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Nel novembre del 1827 si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e Leopardi tornò alla poesia, che taceva dal 1823 (con l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Federico Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Teresa Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi»  (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da Leopardi chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti pisano-recanatesi".  In questo periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.»  (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi, dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.»  (Lettera da Roma, 6 agosto 1832) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»  (Consalvo, vv. 102) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Antonio Ranieri dichiarò:  «Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore.  Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Luigi De Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve moltissimi caffè. La morte  Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute.  Il 14 giugno di quell'anno, Leopardi si sentì male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso sera.  Fu colpito da malore poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo. Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro Giordani:  «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Antonio Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.   La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con altre ossa.  La tomba di Leopardi (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti Leopardi (Vanni Leopardi e la figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino al  conte Vanni Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.»  (Giovanni Papini, Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no,  era del resto ben presente allo stesso Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani A Recanati  Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti.  Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi),  Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con Antonio Ranieri, da ottobre 1831 a marzo 1832. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo Leopardi.  Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali.[176]  Gli interventi nel dibattito classico-romantico Nel 1816 il giovane Leopardi prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.  Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, composto a Recanati tra la primavera e l’estate del 1824 e rimasto inedito fino al 1906, è un breve trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una lettera del 1826 indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica leopardiana.  Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi.  nuovi credenti, invece, sono un capitolo satirico in terza rima composto nel 1835 dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida", "improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.  Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le principali:  studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani  e Zibaldone di pensieri); passata è la tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, 1829-1930); natio borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna... (in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito). Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12 pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano, Napoli.  Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi:  10 disegni originali realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione Marche.  Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella Canzone per Piero di Francesco Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni.  Giorgio Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi. Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. Leopardi è interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato da Elio Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da Giacomo Leopardi"]: Francesco Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare:  Vittorio Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna,  La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia[210], Inno ad Arimane, Amore e Morte; Arnoldo Foà: L'infinito, Passero solitario, A Silvia[217], Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia: L'infinito,  Lavia dice Leopardi; Alberto Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato nel 1972 ad Ascoli Piceno il film di Pietro Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Stefania Sandrelli.  Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione turistica:  «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.»  (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:  «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?»  (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Giorgio De Rienzo, linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.  Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi leopardiani, ma, come sottolineò Aldo Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del  Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè.  Continuò comunque l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e interpretato dall'attore Elio Germano, la Regione mise in campo una serie di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi, Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi, Piemme,. Pietro Citati, Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di Studi Leopardiani.  Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in vita.  Uno sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ).  Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo Leopardi, su emsf.rai).  Forse la malattia di Pott o la spondilite anchilosante.  Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di Giacomo Leopardi. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male»  (Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)  Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti.  Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento  Zibaldone  «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e editi», Milano, Bompiani 1972  Citati20-25.  Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di Giacomo Leopardi, su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani,  I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria)  Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo Jacopssen  Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale.regione.marche. Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati  a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche,  5-8.  Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr.  Un episodio della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria  Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di lana.  C 33 esegg.  Giuseppe Bortone, Il "morire giovane" in Leopardi, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo  Alessandro Livi, giacomo leopardi, le malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, 28 novembre. 1º gennaio  Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo,  «Di contenti, d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco / Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo / Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, Il Giacomo Leopardi torrese, su torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.  Es. sindrome della cauda equina  Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Antonio Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.  Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. Leopardi453.  E. Galavotti, Letterati italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone, autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana,  3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia  infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani del 2006, poiché troppo esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce nel 1822, fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo).  Giuseppe Bonghi, Biografia di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti  Citati226 e segg.  Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e Pensiero,  Fotografia della maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio  (archiviato il 1º gennaio ).  Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro nazionale di studi leopardianiCentro mondiale della poesia e della cultura "G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse, nel 1835, la celebre Palinodia al marchese Gino Capponi  Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo Ortis  «Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux)  Una stroncatura per il Leopardi Archiviato il 26 febbraio  in.; mentre fu più meditato e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi stesso.  Introduzione alla Palinodia  G. Leopardi, Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo.wordpress.com. Cfr. lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese.  Lettera aColletta dcome citato in Marco Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30.  Gente che m'odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. Giacomo Leopardi, in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca.   CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione Garzanti  Donne fatali 2: Giacomo Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...", su sulromanzo.  "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti e link in.  Giovanni Mèstica, Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica,  (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Teresa Targioni Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di Giacomo Leopardi, C.I. Edizioni, Napoli 2000  Giovanni Dall'Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and lesbian history,  1, ad vocem  Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su Giacomo Leopardi. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti, Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi in Giacomo Leopardi. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa."  Traduzione in Michele Scherillo, Vita di Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Maria Teresa Moro, Ranieri Paola (Paolina), su treccani. 2D'Orta25.  Leopardi. Il poeta della sofferenza, su archiviostorico.corriere. Teorie alternative sulla morte del conte Giacomo Leopardi sono state trattate e documentate negli studi condotti dal Prof. Gennaro Cesaro (cfr. Sfrondando gli allori della poesia)  Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Pietro Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di Giacomo Leopardi, su dl.antenati.san.beniculturali.  Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina,  cfr. anche Notizia della morte del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Archiviato il 30 ottobre  in..  Ad esempio cibo avariato, congestione, coma diabetico o indigestione  Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G. Cugnoni,  I, Halle, Max Niemeyer Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G. Piergili, Firenze, Le Monnier,   in.; "Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina Leopardi in una lettera a Marianna Brighenti  Biografia sulla Treccani, su treccani. are LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano, McGraw-Hill, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro Giordani,  Scritti editi e postumi di Pietro Giordani,  VI, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,  Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre  in..  Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasqualestanzione. 7 maggio  (archiviato il 13 maggio ). Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela Archiviato il il 5 febbraio  in. da Cronache maceratesi  Luciano Garofano, Giorgio Gruppioni, Silvano VincetiDelitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO LEOPARDI: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO?  Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida,,Ida Palisi, Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, 19.8.; recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida,   Mario Picchi, Storie di casa Leopardi. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti.  E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita  Leopardi, sito gestito dal CNSL  Si torna a parlare dei resti di Leopardi, nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori,  Cfr. in proposito anche gli studi che il filosofo Giovanni Gentile ha dedicato a Leopardi, in particolare: Manzoni e Leopardi: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni).  Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al Novecento,  153-154, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica del mondo  Peter Lang, In Saggi critici, L. Russo, Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc.  Per Giacomo Leopardi, su pergiacomoleopardi.altervista.org. Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi, tratte da sue lettere.  Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali, su internetculturale. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Fabio Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana.  Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, 2005  Vedi la scheda dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".   "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg  ascolta la canzone nel sito della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il-luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre  in.  vedi il testo dell'Operetta morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBKJZNaU  Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/25794/default.aspx in.  Rai Storia, "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx Archiviato l'8 settembre  in.  Nel sito web de "La Stampa", Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito://lastampa//07/16/multimedia/societa/viaggi/ecco-il-vero-colle-dellinfinito-descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati: youtube.com/watch?v=oNlkBu0E  "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3: youtube.com/watch?v=KwFnKv0TBaI  Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oXGh3g6lQsM  Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com. 15 settembre  (archiviato il 23 maggio ).  V. Gassman interpreta A Silvia: youtube.com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il 29 marzo  in.  Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v=TPpCs6tws_U  Vittorio Gassman interpreta Amore e Morte: youtube Vittorio Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U Gassman interpreta A se stesso: youtube.com/watch?v=F0lhF2s_5s4  Bene interpreta L'infinito: youtube.co  Carmelo Bene interpreta Passero solitario: youtube.com/ watch?v=IZz Qbnzpaok  Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y  C. Bene interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v=v9IriaUNWQk  Carmelo Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI  Carmelo Bene interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4  Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube.com/watch?v=jyB0eM9AOoM  Bene interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE  vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato il 15 settembre  in.  leggi il testo di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/Puerili_(Leopardi)/Ad_Arimane Archiviato il 15 settembre  in.  Carmelo Bene interpreta Amore e Morte: youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw  Arnoldo Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario: youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg  Arnoldo Foà interpreta A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube.com/watch?v=kmk_gd-48XE  Arnoldo Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo  Arnoldo Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com/watch?v=hL855FC_juA A. Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/watch?v=zBnDqu8X5fk  Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube.com/watch?v=iNHqhHiIqok  Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v=oxzCzwR05WE  G. Albertazzi interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno  in.  Nando Gazzolo interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=Te8tyDDsh2A  Gabriele Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=oSV7eBa-_Ao  Gabriele Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube   Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvzQvi75rQ  Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4  Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M.nMartone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4  Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e Morte: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/turismo.marche/Portals/1/Leopardi/Leopardi%2 0nel%20mondo.pdf  Il backstage dello spot promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero Solari: youtube.com/watch?v=zi-UJTIBatM  La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,  "Il Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre  (archiviato il 6 settembre ).  vedi la serie di spot "Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di Leopardi, su qelsi,  su Giacomo Leopardi. Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Valentino Piccoli, Torino: Pomba  scelto e annotato con introduzione e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli,  Francesco Flora, Milano: Mondadori, in Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi, «Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Anna Maria Moroni, saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Rolando Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Marco Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali Leopardi, Giacomo, Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut»,  poi da sole nella collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e poetica di Giacomo Leopardi TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo Leopardi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giacomo Leopardi, su The Encyclopedia of Science Fiction.  Giacomo Leopardi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  Giacomo Leopardi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Giacomo Leopardi, su Liber Liber.  Opere di Giacomo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di Giacomo Leopardi, su LibriVox. 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Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Cesare Angelini, "Sereno in Leopardi", su cesareangelini. Mario Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della  letteratura italiana di A. D'Ancona,. Il secondo nella  Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti di  Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico  di Giacomo Leopardi *. E una dissertazione di laurea, e  reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili.  L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un  po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro,  che non vuol essere propriamente un’esposizione fatta  dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le  stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte  sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo.  Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore  che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue  parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo  pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di  vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo  pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è  legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logica¬  mente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la  inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita  nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Leopardi, saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se  non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinaria¬  mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio  ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono  alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li  ha intesi.   L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere  insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando  come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove  la connessione non appariva evidente nelle parole del  testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma con¬  tinuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via via  segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero  e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a  cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca  lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone stesse,  pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice  composizione degli stessi materiali leopardiani, la statua  del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro  che, se anche nei pensieri inediti del Leopardi fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro-  varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta  dall’autore.   Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già altri,  ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e  di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci scopris¬  sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello  Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui  il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa  natura; donde prima una concezione storica del pessi-  niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini  non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia  leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei  suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali,  veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle  riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva fatto seco stesso  per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello  Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze  cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal Leopardi) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli  pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema  logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per  giorno nella mente del Leopardi attraverso ben (juindici  anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo  per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse  meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli  anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre  perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose  da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi  sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti  di tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo  apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle  loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le  proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel  giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione,  per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto  coerente, manca.   Gentile, ifa» 2 ont e Leopardi.  Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca  accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a  rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente  molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa :  «Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una  prova evidentissima e incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione  cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il  proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’ im¬  maginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo  di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada,  e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,  allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli  avrà mostrata altra via da battere per giungere alla mèta  prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter addurre  pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra  ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento  sostanziale di pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta  con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e  già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o  « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non  bisogna credere che il Leopardi contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma,  per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti,  torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza  filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un  ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pen¬  sieri definitivi, è evidente che non può essere altro che  una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto,  quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a  pretendere dal Leopardi, nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura  di tali confessioni.   E non era neppure nella natura dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma  non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia  tante volte protestato di possedere una sua filosofia ?  Allo stesso modo del Leopardi, più o meno, chiunque  si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi,  ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di  costoro, e insomma di affermare una filosofia propria  che possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio  punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva  ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni mente umana,  sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬  sofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero.  Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi,  e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza.   Una delle differenze più notabili tra la filosofia dei  poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una,  se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove  il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il Leopardi è in pieno  diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore,  sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni  nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù,  ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve  stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬  pardi è infatti una situazione d’animo nuova; quindi  una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima  del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova, che  solo trascurando le differenze essenziali, che in una  poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può rappresentare come sempre  identica.   Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di  aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma  esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, deter¬  minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti.  Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo)  una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare  i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi  in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita  della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia  anche in prosa; perché, in sostanza la prosa leopardiana  è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati  d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti  per lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il  Leopardi fa di costringere il sentimento spontaneo dentro  r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre-  f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come  nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia tetra e col  suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo  grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni,  che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il vero  segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico.   La filosofia vera e propria non deve aver niente del¬  l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della  soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una  verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare,  si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le  tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di  somiglianza con quelli del Leopardi non presenta nes-  Cfr. F. Tocco, Biografia di B. Spinoza, nella Rivista d’ Italia,  asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti  personali. K veramente una visione del mondo sub specie  aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del  filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire,  scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta  noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in  tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬  stema di concetti, in sé.   Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬  diano è, come è stato tante volte osservato, così impre¬  gnato di elementi ottimistici, così logicamente frammen¬  tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente  coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬  siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita  del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto,  molto delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi  sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,  non è questa filosofia in se medesima, astratta materia  della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia  è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace  di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬  dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella  vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.   La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata  innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella  tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso,  e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva  pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia,  che egli destinava a far materia di espressione più per¬  fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne in  parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato).  E dimenticando che pel Leopardi tutti questi materiali  non avevano valore per sé, ma l’avrebbero acquistato  soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno  s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del  Leopardi! — No, questi sono i detriti della sua poesia:  tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non tra¬  sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigu¬  randolo nel suo canto e nella sua satira.   E produce davvero una strana impressione il proce¬  dimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo  certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio  di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,  in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il  perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta  a documento d’un suo documento !   Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia.  In un pensiero Leopardi s era  domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e  stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente  che artificiosa macchina e mole dei mondi ? ». A che  serve, dunque, questo ’ « infinito e misterioso spettacolo  dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza  e vita nostra, né quella degli altri esseri giova veramente  nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,  scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine  dell’esistenza, anzi l’unica utilità che resistenza rechi a  quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e tutta la Idosofia  del Leopardi. Ma che significano queste sue interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo,  che, non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana    * Zibald.,  Queste giunture frapposte alle parole del Leopardi sono del  Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente  il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde,  che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo  Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale possa  essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe  pensare a un’ intima finalità. Qui non è affermata una  verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente  espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza  che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità  eudemonistica universale e il dubbio suUa validità di tal  concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo per¬  petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento  filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli  sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto  di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello  che nelle note fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.   E quando miro in cielo arder le stelle.   Dico fra me pensando:   A che tante facelle ?   Che fa l’aria infinita, e quel profondo  Infinito seren ? che vuol dir questa  Solitudine immensa? ed io che sono?   Cosi meco ragiono: e della stanza  Smisurata e superba,   E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti  D’ogni celeste, ogni terrena cosa.   Girando senza posa.   Per tornar sempre là donde son mosse;  Uso alcuno, alcun frutto  Indovinar non so.   Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio  che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di  un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante  faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande  commozione, com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità  della solitudine attorno alla propria persona non dimen¬  ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia,  ma l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che  gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al  dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche,  innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce dubbio  («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse  s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero  b mio pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi  nasce il dì natale); ma come elemento o momento della  lirica grande.   La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è  stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun  onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi, e che non  si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio  deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che scriva e stampi, pubblica soltanto  queUo che gli par compiuto secondo il fine a cui, più o  meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non  beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.  Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua perso¬  nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene  appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo,  r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio, mediante la conoscenza più  larga che sia possibile della sua anima, bastano a giu¬  stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb    epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi  segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce  col credere che appartengano agli altri più che a se stesse.  Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che  gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come  gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti spesso  superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non  si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore  che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬  tano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo.   Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere  al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi del dott. Gatti,  ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬  spondere con un altro discorso astratto, sostenendo che  è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme  poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che  la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma  penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre,  quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia,  onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e  stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima  singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della filosofia  ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre  perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico  di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che non  si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina  Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare  e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale  io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare,  ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera,  come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta.   aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro, che  non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari  a concetti del Leopardi da uno studio così attento e  minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi  sono opportunamente istituiti tra pensieri del Leopardi  e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli  altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la  tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi  a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato  che ci dà dei Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa  meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate  riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono  il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non  più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre nel  disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬  simo e pur soave delle prose.   11 materialismo della sua metafisica, il sensismo della  sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono  nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti,  i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma  sono spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero  sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi  che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue  pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬  vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci  come vedev^a le cose Giacomo Leopardi.   In lui non trovi né anche una critica della ragione,  come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi  somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni  contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e  principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai. Non studiò  nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e stu¬  dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬  siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬  sofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o  altri dossografi. Del Medio Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce  neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non so¬  spettando in alcun modo la profondità del suo pensiero  Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano  allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma  la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare  in lui, è r indole poetica, convinti che fuori della sua  poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica  edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette  in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua  filosofia teoretica, non ha niente che vedere coll’odierna  filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la rac¬  costa, per dimostrare così la modernità del pensiero  leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello  scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto  sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal  naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la na¬  tura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,  che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo  fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a  un certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli  argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci  a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri pram-  matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà  abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono  nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica:  ma unificano le due attività, e immedesimano la verità  con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia  esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere,  secondo Leopardi, sarebbe né più né meno che un’ illu¬  sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza  profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo  prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente  dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi cinque anni dopo  (1911) da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra  gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e  competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con  altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬  gere al principio del suo libro le seguenti parole; «Fu  tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella,  di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri  dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva  essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito,  per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima  il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo  cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli  argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del  poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei  prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle  Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio  del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬  lore e sull’ interesse dello Zibaldone.   Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce  netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta  com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin-  cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione  esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leo¬  pardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima.  Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « ne¬  gando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo,  per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì  un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,  dominato interamente dal sentimento, e perciò di pen¬  siero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli,  da una parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zi¬  baldone e, in generale, su tutta l’opera del Leopardi;  e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬  bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli  può consentire una ricostruzione storica non arbitra¬  riamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile del  pensiero leopardiano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato o  voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e  tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono  disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi  non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in  tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini,  s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che  ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del  pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse  negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto  di vista del Leopardi, fosse già pervenuto a quel punto  di maturità spirituale, di verità, in cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle  entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa  nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva  licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di  noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi,  quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo,  si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle  note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano  venute correggendo e integrando in più logica compat¬  tezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a pre¬  scindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta  considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde quella  verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente  una profonda simpatia congeniale col Leopardi, il Gio¬  berti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del Diario  sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di questa  pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬  catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di  pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo  che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a vene¬  rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie... ».  Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella  Rass. bibl. tett. U.,  mi rincresce  di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬  mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non  ci si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del Leopardi, la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare  sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò  egli stesso come sole degne di sé.  nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi non  anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zi¬  baldone.   L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche  sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma  ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬  mostra che è: perché gli errori di questo genere non si  scoiarono dal critico se non come errori della costruzione  del sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che,  secondo lui, sarebbe più conforme alle verità fondamen¬  tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per  suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo  di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato  dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché  un giudizio che affermasse immediatamente : questo è  vero, e questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non  credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero.  E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non  è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi  s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Pla¬  tone, Aristotele ecc., e per poeti quelli che sono realmente  vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc.  Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos  intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie  rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da  una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di  Omero poeta e di Platone filosofo senza un concetto  del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filo¬  sofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono  la storia, che è la concretezza stessa della realtà spiri¬  tuale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni  trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri  distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto  tale non sarà della filosofia, e per converso.   Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità  concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa  del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo,  essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito  che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle  funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei  grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi,  secondo che negli uni prevale il momento poetico e negli  altri il momento filosofico; onde la distinzione e però  la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni  volta, funzioni di giudizio storico, concreto.   Perché il Leopardi va considerato come poeta, e  non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto,  io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia  la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intui¬  zione immediata che questo spirito ha della sua perso¬  nalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che  egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e  poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta  soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e  frammentario concetto del mondo, la verità è per lui,  e dev’essere per me che lo giudico, non in questo con¬  cetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza,  nella sua Urica. Beninteso che, per quanto oscuro, vago  e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto,  che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente  alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta.  E non ci sono principii astratti ed estrastorici che pos¬  sano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto  che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la  distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che  non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a  volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es-  senziaU ed assolute.  Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme  è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se  è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti, di  cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di  più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espres¬  sione: sospettare e cercare un’attività etica con un suo  senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di  cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli giunse  alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬  giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬  verso Ebbene, tutto questo è molto vago perché  possa servire di criterio alla storia del pensiero di un  poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola  soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le  differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si manifesti,  e assuma così una forma storica determinata. E se è  suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  posto, com’ è necessario, che le suddette forme della  I grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più  d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci saranno (dato  pure c non concesso che questa sia la radice di tutte)  altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,  e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette  bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per  la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un  ^ atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché   ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e questo   pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non essere anche una poesia.   ' In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è la   ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica,  I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno  soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile, Manzoni e LeoiHirdi.     pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico  e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli  non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro,  il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira  quasi mai al giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma  si restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero  che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua  forma finale in una specie di individualismo romantico  corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì  che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire  nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente  estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a  cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la  differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,  qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia indivi¬  dualistica.   Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo.   Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere due pe¬  riodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo,  l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso; ;  il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !  mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo  periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j  sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p  infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine |  del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1  Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J  gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- #  mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1  Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l  sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS  alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?.  e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù  e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo  jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i  primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui  il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬  trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo  speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di  felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in  questo periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe  addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito  leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode  e distrugge. Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ?  e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo spi¬  rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello  spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane  pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la  loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende  in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta  nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione  ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma  giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa  segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo  dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere  interpretata alla stregua del difettoso concetto che  egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia,  e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del  secondo periodo.   11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel suo  Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza  dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede  neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente  quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama    Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò  per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬  cresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più  dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione  inversa della forza propriamente corporale.... La vita è  il sentimento dell’esistenza. — La materia (cioè quella  parte delle cose e dell’uomo che noi più pecuharmente  chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può  esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente  coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è  capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬  timento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi,   « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : « Di qui  innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha  avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e  ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo  bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato  e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei  romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto  all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬  ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di  natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio  del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la  sua interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario  c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il  concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la pro¬  pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri  inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli  uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non  pone mente che egli è grande, non perché infelice, ma  perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser  cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore,  e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto  asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬  rituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti  il possederla praticamente (e soltanto praticamente)  come vuole il Levi, che significa se non che non la pos¬  siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde   10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza  di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità  reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe  risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od  oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria  sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e  quindi sorgente dell’ infelicità.   Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col con¬  cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬  fonda ripugnanza che prova il Leopardi, — pur quando  intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità  l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli  s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che  non ha posto nella visione pessimistica del mondo in  cui si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle  circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi chia¬  miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si  solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo  concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con  tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei  sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici »,  con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe  potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che   11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non  è materia, e che la presunta concretezza della materia  come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel senti¬  mento che ne ha il vivente ?   Orbene questa contraddizione intrinseca tra il senti¬  mento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e  il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della  nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fa¬  talità assoluta del dolore, questa è la grande situazione  poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente  dal De Sanctis nel saggio sullo Schopenhauer » : « Leo¬  pardi produce l’effetto contrario a quello che si propone.  Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede  alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,  la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio  inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore;  e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al suo  cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede  possibile un avvenire men tristo per la patria comune,  ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma  a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la  sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita ».  Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto  e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua  poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli  opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare dentro  il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in  manifesta contraddizione logica, come avviene nella  Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.  Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di  questi opposti motivi, che sono la personalità del poeta  e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene  perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,    ‘ Saggi critici,     à  nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico,  nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica  nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove,  appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che  qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬  l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare  l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico.   Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per  interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza;  e però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬  diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui  d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima,  e cioè la poesia del Leopardi.   Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia  della concezione storica del pessimismo, quale si disegna  già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza  e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso   10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione  nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un  vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo,  Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo  periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il  Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza  dopo la dimora che fa in Roma dal novembre 1822 al  maggio 1823: coscienza culminante da ultimo, a mezzo   11 1823, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano  intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza....  E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale  sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più  capaci della conoscenza, e del sentimento della propria  piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui    ' Zibald., V, 223 .    pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della  Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un  Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note  sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo  dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale  nella natura; alla concezione storica del pessimismo sot¬  tentra quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬  rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬  bile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo  s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:  dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo,  e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni  illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬  l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore.  Onde il Leopardi acquista una serenità, una sicurezza  ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima  sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo.  Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che espo¬  sizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma  suprema dello spirito leopardiano.   Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali  difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre con  qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere  interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i  documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che  riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo  periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria  dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la de¬  signazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle per¬  sone più generose e magnanime », che vengono a provare  « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,  comprende bensì il Leopardi, anzi rappresenta soltanto  il Leopardi: ma non come individuo che crea se stesso,  col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.    che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare  (juindi la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im-  niediata condizione spirituale del Poeta, la cui serenità  estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore.  11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di  ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura  dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della  beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere  celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto.  « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili  a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla  consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per  questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né  potendo essere vietato dalla Verità, quantunque ini-  micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è l’anima  che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come  concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce  serenità che si diffonde per tutta la prosa: ossia la forma,  la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬  pardiano.   Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il Levi vede nelle varie  prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a Tristano  che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo  al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri  uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione:   « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni  cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta  credo fermamente che non sia desiderata al mondo se  non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato.... quelli  che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri  mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio  più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con  loro mi cambierei... ».   In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura,  perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo  periodo se nel primo periodo resta, per esempio,  il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che  guerreggia teco   Guerra mortale, eterna, o fato indegno;   e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge  magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio  della propria grandezza al di sopra del « velo indegno »,  emenda il crudo fallo del cieco dispensator dei casi ?   Però credo che nell’esame dei canti del secondo pe¬  riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e  suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più  d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai  preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬  mento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la su¬  periorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto,  e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non  ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il  Leopardi canta:   Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni;   Sopire in me gli affanni  L’ingenita virtù.   Non l’annullàr, non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L'infausta verità . . .   Pur sento in me rivivere  Gl’ inganni aperti e noti;   E de’ suoi proprii moti  Si maraviglia il sen.   la chiave, l’intonazione della poesia è in questo mera-  vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’ ingenita  virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale.   j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità  della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza,  perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,  questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo  al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita.   Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso,  secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,  disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬  soluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi ;   Non vai cosa nessuna  I moti tuoi, né di .so.spiri è degna  La terra. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.   Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il Leo¬  pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se  cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti  i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto  r immane fatalità ?   Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni,  non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬  nuto morale; da altri è trovata troppo arida e razioci¬  nativa. A me sembra una cosa grande, anche per quella  maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non rifugge,  per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la sua  melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in  versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno  all’ immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo,  eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬  viane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più  alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è l’in¬  tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e  la potenza di una personalità, che si colloca di fronte  alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile gran¬  dezza senza lasciarsene opprimere ». —    Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande  per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la  poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬  menti che interrompono davvero la poesia, il Leopardi,  mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la  sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa  essere altro die il carattere eccellente di una poesia,  tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e  tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬  dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale;  poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro  la filosofia del secolo XIX e contro il Mamiani) è quella  in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia;  ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle  meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata  dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della  descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di  tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le  altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bel¬  lezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬  pardi, che, mentre tutto intorno una mina involve,   al cielo   Di dolcis.simo odor manda un profumo.   Che il deserto consola:   l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana.  E dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza  non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se  di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che  non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina  estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò  che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende  in questa dottrina per espressione : perché l’intensità  tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso  dalla espressione, se di questa intensità tragica intende    parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬  sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo  spirito assume di fronte a una certa materia, e questa,  quindi, in lui.   Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte  alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬  rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra  non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo,  non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-  cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque,  né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel  possanza, ma la serenità pacata della coscienza della  sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che  affermazione romantica dell’umana personalità.   In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la  poesia leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi  sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico.   ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune  osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente  lettera :    Egregio Professore,   Mi par difficile discutere delle interpretazioni parti¬  colari di questa o quella poesia o altro documento del  pensiero leopardiano senza rimettere in discussione il  concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.  Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬  futare singole opinioni e determinati giudizi, né a mo¬  strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far ve¬  dere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con  cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo-    ‘ Si possono leggere nella Critica, .      pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle  mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire  r intento generale e il significato complessivo del mio  articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo  citato dello Zibaldone con vita o sentimento  dell’esistenza H Leopardi intenda la coscienza,   10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto,  della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,  in quanto parte di una generale intuizione del mondo,  era ciò di cui Ella aveva bisogno per cominciare a vedere  nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana.  Con ciò io non dovevo attribuire al Leopardi soltanto   11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa  dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un  senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari  un concetto, che però non era un vero concetto, della  coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma  non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza  è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale,  egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di  ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ».  Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé  e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo  essere non il contenuto (la filosofia, il concetto) della  poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,  l’espressione della personalità del poeta, superiore alla  sua filosofia).   Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda infelice  perché grande, piuttosto che grande jierché infelice.  Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione  che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza,  avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spiri¬  tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza  vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del  dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬  sione sub specie aeterni del dolore stesso, non può non  liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della Natura e  di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere l’infe¬  licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima  domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬  naria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando  sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una  dall’altra?» e la Natura risponde; «Nelle anime degli  uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi  di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi  il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa  maggiore intensione della loro vita; la qual cosa im¬  porta maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è  come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro  che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè  eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale  in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella  cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare la propria  grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non avrebbe  fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure prati¬  camente, la nozione della vera realtà spirituale,  che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « mag¬  giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi  annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con  altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al  mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui ».  Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come  dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di  quella vita del dolore che non è più dolore nella vita  dello spirito il Leopardi non ha coscienza.   E però il contrasto interiore che io vedo nella poesia  del Leopardi è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis,  anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un  solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della  personalità del poeta e la povertà, per non dire nega¬  zione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del con¬  tenuto della sua poesia.   Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto  che il primo periodo citato da me sia ; « E ardisco desi¬  derare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state  pur da me riferite immediatamente prima fino a  Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né  piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno  gli altri uomini » Ma queste parole non potevano im¬  pedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce  il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬  logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria per¬  sona empirica; perché la morte, pel Leopardi, non di¬  strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere  dell’ mdividuo.    ' Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis {Studio  sul Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei  il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬  bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche  la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e  fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e  appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare]  Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono  stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del  poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella  contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina  la faccia..., >.   z Cfr. sopra, p. 57.   Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra  ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e  Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma  la si attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬  siero di suicidio, non occorre negarla per non vedere  né anche nei componimenti più tardi quella coscienza  jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.  ^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a  scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana,  riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se  stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice  che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo,  in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né  di ritenerla né di lasciarla ». E, se non m’inganno, la  nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tol¬  lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni  sono bensì la critica del pessimismo materialistico del  Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬  vole a conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa  che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella  affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va  in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e  della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni;  0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno;  non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima  di addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬  mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante  di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso  non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca  se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro  alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto  che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il  più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men  liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo ».  Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che.  risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come  effusione di stati immediati deU’animo, ma non come  filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del Poeta che  ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo  sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo  all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del  piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte,  senza questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta  è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr.  la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima  di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia  del commovente dialogo ?   Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento posso  sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba  intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬  dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto  persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle  domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi  ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il  piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ;   Da te, mio cor, quest’ultimo  Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio  Solo da te mi vien;   ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la  poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬  chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la  poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha  certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘   In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente.     agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la  correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza,  gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi  tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia-  luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna  vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile  coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua....  Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato  e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver  le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e  sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli  uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che,  commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la  ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola  il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo  innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza  del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante,  né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente  cantata dal Leopardi.   Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere  chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬  diani; e io voglio sperare che questa discussione possa  invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro  grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non  staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di  nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi >  si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di  Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità  gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le  feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ;  triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo  e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j   mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^  se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '  cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j  strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1   leopardiana. 1;   Elementi che non mancano certamente nella detta 'i  poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j  pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- '  ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo  stesso concetto aveva accennato un ventennio prima *  Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); ,  e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I  solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. |  E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i  da Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t  rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J  direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il ,  carattere dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l  timismo edonistico od estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft   vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna, /a  nichelli, igi?-    stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della  sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è  la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della  lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come  egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guar¬  dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che  non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più  vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa  intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra  parte, non a\Tebbe il suo proprio particolar significato,  disgiunta dalla negazione pessimistica della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il  contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura  cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione  di cotesta natura, consiste proprio la radice, da cui trae  alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la  quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro  dei due elementi contradittorii.   11 prof. Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere  in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬  lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia  il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro  ai suoi canti una sensazione di letizia; per modo che,  contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto tratto  scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dal¬  l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia  una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur  seppe attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far  sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e  creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle  incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬  gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o  contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di  atteggiamenti e di modi, circuirla di umani argomenti.      dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre  e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi  fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe  maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia  e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma  la vita di cui sarebbe maestro il Leopardi è una vita di  piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica  della natura.   Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché  se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita  estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma  così del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta;  e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia,  che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è rappresenta¬  zione estetica; e quel che può avere un interesse e un  significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo  un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa d’indicare attraverso questo  vagheggiamento fantastico della bella natura una vita  diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi  ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra  squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne  accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce  di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto  erronea; e giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi  candidamente esposto fin dalla prima pagina del suo  libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.   Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che  l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche  per il modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno  di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco-  r   stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che  l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le  somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare....  Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di  significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di  vita è il Leopardi dei sensi ulteriori e non il Leopardi  storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato,  s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una  volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno  dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere  che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti  leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti  soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma-  I gine del maestro di vita che desidera raffigurare.   Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella  voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro  svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio  di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;  «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬  zione a quella sua logica amara ». E il Bertacchi vuol  dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la na¬  tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che  non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del  genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese,  La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel  Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia.  — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce  nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar  musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso  qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non si pe¬  rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia  ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.  Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella  donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le  poesie in cui il Leopardi parla bensì diretto al nostro  cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma can¬  tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna  ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal  caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora  in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». —  Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento  di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬  tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si  resta, sebbene con ampiezza maggiore  nell’ordine  voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima  al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,  nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ».   Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può  spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi ulteriori.  Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi  in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta,  sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleg¬  giati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in  un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,  riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina,  attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo».  E questa presenza della natura « non è senza effetto per  noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro  ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o  le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano  terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole,  seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella  natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto  che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non  possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel  sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e  festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta  vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante  visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si  raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver-  t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana,  un senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come  il Dante della novella sacchettiana), ma non ha più niente  che vedere colla poesia del Leopardi. E dove pare si  accenni a un giudizio critico, non può essere altro che  una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore.   Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio  e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso  il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore  tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un  errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬  nazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non  si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è  il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman  tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la  rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la  gioia d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma non  quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo  già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬  guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna  non vedere questa pietosa malinconia, che prorompe da  ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica donzelletta  tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè  chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un  dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende  la mano al filosofo. O. c., p. IO.  Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla,  solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, la¬  sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere  a queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬  spensione fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia  perplesso sul proprio stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \  luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il  piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del  proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,  ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria  fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e  la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta,  e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c  solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto,  che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri  lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,   alla reina FeUcità servi, o natura »).   Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in  cui propriamente il Bertacchi affisi la poesia del Leo¬  pardi invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.   Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo  per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬  ta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,  riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione  di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima  nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure qualcosa  della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa  e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e  j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si ag¬  giungano, come sorte da noi, alle sensazioni già  nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo  umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la  poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber-  tacchi. « Ma il dono che G. Leopardi fece a se stesso ed  a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene se¬  rene, non è il significato maggiore della complessa sua  opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di  vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne  siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui, che era in se stessa, per lui,  elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia  pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la  visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura  d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme  all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa  la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ».  «Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’  tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi  di canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad  avvolgere in aura di poesia.... i temi son temi e temi  che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle  sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar  sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ».   Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi  ama troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove  forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla fan¬  tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi  liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle  notti medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di  noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco  di quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto  da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli  è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi  di oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare  gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i]  Leopardi. Proprio il Leopardi ! Meglio, molto meglio che  quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture leopardiane che il Comitato della  Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università;  nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato il 13 feb¬  braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di  letture leopardiane c’ è da essere assaliti da un certo  sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò  per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il Leopardi si rajjpresenta generalmente come un maestro di  pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione del  suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro  che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a  vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬  cismo e di allargare il petto ad energici sentimenti di  fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di fede  nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto,  che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi  doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare  nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella  educazione della gioventù a maschi propositi e metodi  di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe  questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo  gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia  non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa  vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?   Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo  confesso, non turba tanto l’animo mio quanto l’altro  che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istitu¬  zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una  elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene  che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiam¬  mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ ideali  che fanno degna e feconda la vita umana degl individui  e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che Leopardi, come già altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬  mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui materia  di quel malfamato genere letterario che troppo è stato  coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi  delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto  il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬  tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si  persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le  grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile,  realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla  testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e  morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato  dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e delle  cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e  colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno  noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬  mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato  con oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare  gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori  debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o  di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con  tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice  o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬  dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si  dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona  fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬  parano a compierne altre; e non vuol essere una predica,  che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che  nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio,  nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno   Si    ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con   è venuto alla conferenza.   Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò  durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne  fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬  damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle  accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano  es«i stessi la frivolezza dei propositi e la spensieratezza  jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,  che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla  nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬  stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti  nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul  margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche  nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno  delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬  cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime  e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,  morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬  sofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza per  la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura  politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona  al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo  non era cittadino della sua patria, né padre della sua  famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito  innamorato di astratte forme, senza attinenza con la  pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali.  Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi  di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze  di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori.  Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,  cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini  proni alla frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad  ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la cui  attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e Leopardi.  Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana  nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^  risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella  cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri  ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo  e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi  dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che  j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra  le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe  stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;  Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire  e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in.  teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza  e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola  finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica  e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il  dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio  tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio  r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella  della patria, a sentirla perciò questa patria come intima  a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei  si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori  si doveva pur rifare di dentro ?   Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma  venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale  aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati  tempi di pace e di raccoglimento succeduti al periodo  agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,  certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla;  nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui  r Italia parve godersi le prospere condizioni acquistate  con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed  elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita ita¬  liana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato  jn tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti  f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando  j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro  pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva,  del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato.  Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che  l’ora é lunga a passare pochi hanno il coraggio.   Leopardi non può esser materia di conferenze. Vi si  ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilis¬  sima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte  dove il suo canto possa spandersi in una religiosa ele¬  vazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove  il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a  fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi  segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità  del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso  della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e far  suonare la sua voce esile e tremante di commozione in  mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a  mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità  letteraria.   No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che  anche Leopardi venga alle mani dei pedanti, dei letterati,  dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di  vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi  che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla  sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo  corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando  il programma, che qui sia sempre vivo e presente  Leopardi poeta, che è il Leopardi degli uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo.    li.   Giacché Leopardi fu anche un erudito ap.  passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples.  sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per  la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi  per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché  la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero  create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo  consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia  degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché  ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che  ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta  dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma  la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella  letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e  sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in  grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova  più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse  sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando  la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e  sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le  forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero  la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo  pensiero è una continua, commossa meditazione su se  stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora as¬  surge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi  trepidanti.   Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura  diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio di  quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e  ne sente il valore e la serietà; profondamente differente  da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti  italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia  c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio    da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita    a una divina realtà, governata da leggi che domano e  annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una  realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo  da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e  jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione,  ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sen¬  timento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello  jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di  superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente  religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace di  abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di  prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso  è sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si  scorge il pacato accoramento dell’uomo che non riesce  a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo sub-  biettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso  dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per  questa sua costituzionale religiosità Leopardi non fu  soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso  titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam  così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distin¬  guersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che  Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee  speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti  più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono fecon¬  date da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò,  Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,  ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia ei perciò non può trovar  posto; quantunque di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica della  prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi non fu un filosofo.   Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della  filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei  filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare  tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasti¬  cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello  per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che,  senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove  sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno  prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e  forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che  sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti,  invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere e  far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa  intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da  cui sono senza tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬  sofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho dei  pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo  spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,  c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ in¬  teressi esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto  nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per  quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega  e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il  germe della sua vita e del suo mondo.   In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi  fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con  gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale  ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi  passioni svariate che gli tumultuano incessantemente  pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere  così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬  vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua  sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli  da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora  appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la  gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in  mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie  e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni,  giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire  totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della  sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue  labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci at¬  terrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬  nientando intorno a noi tante delle nostre persone care,  con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro  ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa  morte ? e che questa vita che precipita fatalmente nella  morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non  arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una  tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie,  ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille osta¬  coli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci  concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere  è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede  sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre  più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più  aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti  0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura, del  destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per  soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la no¬  stra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men  difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire;  salire sempre; da un gradino all’altro: sempre più  senza fermarsi mai.   Ma, appena l’uomo che ha un cuore, sente quest  affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe”  non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché  par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.  sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi  confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa  per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita  sua, quale ei la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia  mette in moto la sua attività; e se egli non debba aprire  gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile  della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o  ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato  movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i]  quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso mede¬  simo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo solleci¬  tano, se non un necessario effetto di una causa necessaria  predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui  si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa  neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi  dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose, anche  noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo  noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto  mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra  volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo  naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬  stro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia  la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di  un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo  mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male,  e c è una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe  pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spie¬  tata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui afferma¬  zione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello  spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^® contrario, se ne contrappone un altro che è  la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere  che sia libera la natura umana, circondata e condizio¬  nata da una natura che è l’opposto della hbertà ?   Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule  stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e  non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni  umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non  fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza  credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta  innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona  per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi,  e gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi  nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno  invece sentì mai cosi acutamente come il nostro Leo¬  pardi. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne  trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi  se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta  in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni  filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero  al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona,  lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui  \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione  della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee,  ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma  della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in  accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere  speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e  si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma elevandosi  sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè  svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente  della sua individualità, in guisa da parere che non senta  più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta  nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia,  lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso,  e lo fa vedere immediatamente così come esso è, dentro  di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel  brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere  e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato,  riflesso, ragionato e disindividuato. Lo scienziato cerca  e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva,  in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi  umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa;  e il poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso:  l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le parole  in cui egli si esjirime.   In questa immediatezza, spontaneità e quasi natu¬  ralità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa  potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù  incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che  solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda  anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di studio  e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle  moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non  per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino  miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte  è senza paragone superiore a quella della filosofia.   Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi sentimento  e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente  maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si  chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui una  cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi,  per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta fati¬  cosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito  in una solitudine magnanima, anche a malgrado della  moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti  si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche  lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si  scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia del suo  canto è la sua filosofia.  E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ?  Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che  spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano,  ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei  problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi  vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo  animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della  filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno  di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile  per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo  giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un  suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi  ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni  e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬  sofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita;  la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da  ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come  ho detto, al suicidio.  Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare  di proposito una professione di fede, fu esplicito nel  manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e  materialistica; e il Frammento apocrifo  di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è  una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per  altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti  in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel  Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa  e non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane;  natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in  sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di  contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle  proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una  vita bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere  in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fron¬  teggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni  umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale  delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma  tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa  che lo determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva  da un principio autonomo, che si faccia centro di una  vita superiore e indipendente, avente in sé la propria  misura, ma è effetto del generale meccanismo, che si  abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in  conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬  terialistiche : uno proprio degh spiriti poco sensibih, che,  raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le trovano  inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento  non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione  di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se  non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore  e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro,  e vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento,  che ò come dire della loro stessa personalità. I secondi  non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella  natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬  fatto di queste esigenze, e cioè della lor propria natura.  Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo  stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare  l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto  vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una  parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬  lumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra,  questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro  di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano  e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di  una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la  fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità  di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo  in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì  di fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale,  meccanica, chiusa e impervia ad ogni idealità, inconci¬  liabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello  spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di  attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra.  E per ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ;  senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si  chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà.  Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero,  con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride  alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose  belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile  slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo in-  nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul  muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?   Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa,  che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico;  ed essa è il reale contenuto della poesia leopardiana:  quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto  esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non  si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché  la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il  cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché egli  è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo  prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più  luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali  dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo  religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà  che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica,  alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé  quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬  dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente,  celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà  che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo natu¬  rale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria:  sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a  orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e  del divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬  pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte  sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono  e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla cor¬  rente di quella disumana realtà, che ignora il dolore  che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con  le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non an¬  cora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non  ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione  (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le beate  lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini,  nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e  della gioventù quando non ancora si sono appressate le  labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del  mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha  riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ im¬  maginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica.  Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte,  cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella  filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate  di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare  dallo spirito umano.   Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea  onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬  sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate  il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante  cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è  una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa  che non si conosce ; non la vita passata, ma la vita futura ».  La quale però un giorno sarà passata, e allora si cono¬  scerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro  è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e  trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;  lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non  è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,  e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo  averla innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella  ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano.  e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari  finiscono nel nulla.   Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come  semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la  vita non si può governare se non in rapporto al reale  all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o  per risolversi animosamente a dir no a questo mondo  reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con  l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di es¬  sere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore  di una vita superiore a quella puramente naturale. E Leo¬  pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo,  con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto  proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con co¬  scienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che  incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata ne¬  cessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il  brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita  vanità del tutto. Per lui   Nobil natura è quella  Ch’a sollevar s’ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato.   E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire :   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   I.a man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir....   Solo aspettar sereno   Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto  Nel tuo virgineo seno.   Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana  pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice.  Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo  jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si  jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e re¬  gnano sovrane in quella superiore realtà che è propria  dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore  si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente  e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che  un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto  il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride.  Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è già  segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬  letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro  gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca  della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬  duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la di¬  sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore  né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬  bile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi  potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria  «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,  e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri  oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬  tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi  de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche  allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo  Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei  sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto da    ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.  La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili,  anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del  bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.).  Zibald.,    — Giuntile, Manzoni e Leopardi.  alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;  considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬  mero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che  tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio;  immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo  infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe  ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu-  sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬  mento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno  di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura  umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬  sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le  miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’uni¬  verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬  gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la  hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore  degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo  umano. Anche pel Leopardi, poca scienza pregiudica e  mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce la  fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura,  che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta  in voley mutyignu, è pur quella natura che mette nel¬  l’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non  più contento delle condizioni naturali della vita che egli  dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore,  con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono  il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia  nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e favolosi del  genere umano, e risorge amorosa nella prima età di  ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬  ginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro;  questa natura, che nell’amore torna sempre a rinverdire  le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto  che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,  quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬  tato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e  consolatrice. La natura del materialista è via; ma non  è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11 savio torna  fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è alla  presenza di un mondo il quale non è quello del mecca¬  nismo, che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più  caro, ma quello del pensiero, dello spirito umano, del¬  l’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici della  filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indur¬  rebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere :  <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'.  alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo »,  la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è  amore degli altri e che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero  della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe  togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino  dirà:   Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di por¬  tare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della  nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un  l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso  scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica   della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e   anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteran¬  no: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò il De Sanctis paragonando Schopenhauer a  Leopardi, notava questo grande divario tra n filosofo  tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette  in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto  più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù,  tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il  bisogno. Perciò la lettura del Leopardi non sarà mai  pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg-  gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso  per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero,  è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano  apprendere il segreto della vita operosa e feconda.   La morte, anche la morte, il simbolo della fatalità  avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬  nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni  speranza e d’ogni fatica, e della nullità della vita a cui  ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta, nella  maturità piena della sua poesia, quando il suo animo  ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la  sua verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa  germana di Amore, che è pel Leopardi, come s’ è veduto,  ciò che dà verità più che rassomiglianza di beatitudine.   Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte   Ingenerò la sorte.   Cose quaggiù si belle   Altre il mondo non ha, non han le stelle.   Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a ve¬  dere; e gode accompagnar sovente Amore:   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d’ogni saggio core.    1 Cfr. sopra, p. 54.   2 Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come  merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leo¬  pardiano, Treviso, bongo e Zoppelli,  Il Poeta sente che   Quando noveUamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto.   Languido e stanco insiem con esso in petto  Un desiderio di morir si sente:   Come, non so: ma tale   D’amor vero e possente è il primo effetto.   Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza,  e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha  più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi  limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che  fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore  scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che  bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi  r involucro della sua individuahtà naturale, centro di  ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte  opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte  è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli  onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo,  chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali,  incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi, en¬  trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.   Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa  la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che  attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo,  tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali  di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, 1918; 2» ed. 1925.  Se si volesse considerare le Operette morali come una  raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe  tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non  sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite  con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla  terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate la  prima volta a Milano nel 1827, ristampate in Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di  almanacchi e di un Passeggere, e di quello di Tristano  e di un Amico, composti nel 1832; tornano ora alla luce  ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco scritto nel 1825, del  Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, composti  nel 1827 » Intanto, non tutte le Operette furono pub¬  blicate la prima volta a Milano nel '27; giacché tre di  esse, come « primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno  stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione  di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate  dall’autore al ’25, al '27 e al ’32, furori composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte  leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li,  fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette  singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre  di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo  in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima  fu concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬  ratore nell’animo del Leopardi. Giacché con qual fonda¬  mento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a docu¬  mento di quel periodo spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide (apparte¬  nenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola  Al Conte Carlo Pepoli (marzo 1826), o II Risorgimento, se quei pensieri che sono caratteristici delle  Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j  che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che  sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti  staccati senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un  Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita  di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, e da  me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra  le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante (10-13 feb¬  braio); Dialogo della Moda e della Morte; Proposta  di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sal¬  lustio (26-27 febbraio) ; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ;  Dialogo di Malamhruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico; Dialogo della Natura  e di un Islandese; Dialogo di Torquato Tasso e del  suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro  (14-24 giugno); Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di Federico Ruysck e delle sue Mummie (16-23 agosto); Detti me¬  morabili di Filippo Ottonieri. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez);  Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note,  Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte  napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella  parlata della natura, all’uomo, che Volney le mette in  bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » ' ;  dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo  della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo  di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso fo¬  glietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli  antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa  cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬  flessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare  di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia  nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle  ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono per¬  tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in  qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura  e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da com¬  porre ? O egli non aveva neppur composti i Detti me¬  morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi  a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?   Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come  par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti  segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli  altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia  pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬  tuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,  da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma ac¬  canto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che l’autore  abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬  durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto  deve risalire. E secondo lo stesso docu¬  mento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre    ' 0 . c., p. 400.   * Vedi abbozzo negli Scritti vari, pp. 318-31. Il foglietto relativo,  riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬  pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. io8    quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché,  oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,  qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato  la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel  Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo  e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella  del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento  certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,  scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il  concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re-  sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore alle  Operette del '24.   E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai docu¬  menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate  del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,  riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬  ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in  questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo  Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo  intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispec¬  chiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di  pubblicare qualche parte del materiale  accumulato giorno per giorno». Sicché s’è  creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi  « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre  organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio  d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.  Ili dell’ Ottonieri si legge :    > Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo a p. 233; e Pen¬  sieri, 1, 193.   3 Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dia¬  logo di Filénore e di Misénore.   4 F. P. Luiso, Sui Pensieri di G. L., nella Rassegna Nazionale,  1“ maggio 1899, p. 119.   Diceva che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di  commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno  apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio,  in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo,  lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per  animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando  colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬  sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬  manità e simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬  giore di cattive opere; e che una grandissima parte delle azioni  e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche  pessima qualità morale, non sieno veramente altro che incon¬  siderati.    Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il Leopardi aveva  sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo:   La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e  produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser  considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli  uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo  c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone,  passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo  a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir  nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel  giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte  volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza  che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e  giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬  nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole;  molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene  quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬  ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.  Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬  simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni  volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre  quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che  fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no  Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a  leggere;   Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo  inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di  conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi  veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o  qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora  molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬  moria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬  pre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non  iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra  noi di scoprirvele.   E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬  pendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone;   Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordi¬  naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari  che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando  anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a  qualunque altra cosa.   E il numero di simili riscontri è tale che pochi sono  i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova  nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire  che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬  tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬  brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro  anni prima ?   Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.  Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già  nei Pensieri scritti tra il ’20 e il ’23 b Caratteristico  questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini;   Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi  onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e    * V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902-  04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città  grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto basso conto,  non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa fama  che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l'altre  in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso  qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e  di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica,  non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse  volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine  di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo....  E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi,  che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti,  né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io  mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la  terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun  poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo,  fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le  lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma  differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o fa¬  vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per  questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano  minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io  li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un  poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora  moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che  essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.   Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine  da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal Leopardi  segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;   Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio,  se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la  stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché  relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore.  Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi,  credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e m’interrogavano  indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta,  rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran  cosa, e per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado  la detta opinione che avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo  lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di vivere  qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo  dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cogni¬  zioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima  scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno  del loro grado   Né soltanto la cronologia diventa un problema di  difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.  I quali però non sono possibili se non dove si consideri  ciascun elemento del pensiero del Leopardi astratto dalla  forma che esso ha nelle Of erette. Che se si guarda a questa,  è facile scorgere, per esempio, la superficialità del giu¬  dizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non  sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche  questa forma in astratto, quasi la forma speciale del  tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente  più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur  così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente  diversa). Anche questa è una forma astratta; perché  la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di  un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con  tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale,  ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore  si trovò componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda  e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si pre¬  scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬  tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare  che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le  prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono oc¬  cupati, ora considerando e giudicando le singole operette  ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse  in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in  altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso Leopardi  (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se  stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del  secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬  lità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il  Leopardi abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato  ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti,  fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità  del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della  necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera  nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni  vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato  tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui  serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto,  nell unità, dove soltanto può essere l’anima e l’origina¬  lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per  così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa  a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette,  che sono un’opera sola.   In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del  Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32  l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Ope¬  rette, tutte le altre pullularono dall’animo del Leopardi  nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di  sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il  Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei  vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti-  mandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che  presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano  accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner,  che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a  Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti  alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio,  l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.  Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a  vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di  farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero  facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito,  che da soU questi dialoghi non potevano andare; e tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che  le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente  per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al  quale erano destinate»*. Quanto al Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne;  anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubbli¬  care le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali  fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non  potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬  rialismo che vi è professato, c che le Censure non avreb¬  bero lasciato passare.   Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬  rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi  e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi  alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte  di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore  scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando  ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che  le singole operette potessero venire in luce alla spic¬  ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare  Epistolario, Firenze, Le Monnier,  * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico vo¬  leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬  segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani,  al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un  editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua  opera, che il 16 gennaio del '26 già scriveva impaziente  al Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto,  perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non  ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo  manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus-  seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato,  dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete  riferiti nel n. 61 deWAntologia, ora pubbhcato, eh’ io ho  il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio  fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato  del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬  lenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno  probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel  pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte  per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un  giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu  altro che un saggio. Del quale il 5 lugho il Leopardi scri¬  veva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati  ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio,  e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La  scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise  l’ultimo per primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi  c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto.   Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera al¬  l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto    • Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47.  » Nell' Epist. del L., Ili, 237-38.   3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬  trato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬  duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già.  in Milano di questo mio mano¬  scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze  per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia.  Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le  altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve  ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto,  in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della  mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei oc¬  chi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel  mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella  ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ».  11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Cen¬  sura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare  altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato:  intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il  Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi  sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che  ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 ma¬  noscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del  ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente  fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse  e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una ri¬  sposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i.  Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬  coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,  scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo  a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da  0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non  pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il Leopardi affret-  tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella  stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella  assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva  a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una  cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i  manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più  di perder la testa che questo manoscritto, e però la sup¬  plico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza  una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che  sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto  partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella  j)oté il 13 maggio informare l’autore d’averlo ricevuto.  11 27 poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi  restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali  quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬  bono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi  stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di  tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento  delle care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del  Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a  far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo  che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante-  mente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬  scritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove,  o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di  vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubbli¬  cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume     l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,  conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬  rette, nate come venti capitoli di un’opera sola.   All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordina¬  mento definitivo che fece delle singole parti, quando le  ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come  tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione  avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti-  mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era  stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto  prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era  quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente  fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque,  ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27.  È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva  essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto  di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,  nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che  il Leopardi ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬  tanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura  e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo  giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno  frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio  familiare, a cui il Leopardi pose mano appena finito  quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza  una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed  è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non  negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran  legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari  scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬  porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germo-  ghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i.  una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il  risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva  l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine  cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e  alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena  levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che  salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico;  e se tra il 14 e il 24 giugno l’autore scrive il Timandro,  bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬  cedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere  esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare  a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e  quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.  Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riat¬  tirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni,  e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando  fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette  in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo  distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬  mandro, del motivo ispiratore delle operette.   III.   Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’or¬  ganismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità  non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero.  Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene  in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche  apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad  argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine  non meno vero che non si trova quel che non si cerca;  e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute general¬  mente una semplice raccolta, aumentabile (con la Com¬  parazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto,  come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si  è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti  questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne  essenziale.   Intanto, lo spostamento osservato del Timandro  epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scor¬  gere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli  scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epi¬  logo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco  formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia  la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano  a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può  a ragione considerare come un prologo; le diciotto ope¬  rette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come  tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del Leopardi.  Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa  dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,  (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo  della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la tri¬  logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e  di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui  all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬  tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato  dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dia¬  logante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.  Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo  insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o  fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti spirituali  onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordina¬  mento, le diverse operette.   Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie  note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non for¬  niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal  primo gruppo.   Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche  Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi  secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco.  j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando  Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più  nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « bat¬  teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e  metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio.  Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che  abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi  ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il  mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile;  e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse  morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse  col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi sep¬  pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre ». È lo stesso  grido, come si vede, de La sera del dì di festa'.   Kcco è fuggito   11 dì festivo, ed al festivo il giorno  Volgar succede, e se ne porta il tempo  Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono  Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido  De’ nostri avi famosi, e il grande impero  Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio  Che n’andò per la terra e l’oceano ?   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  li mondo, e più di lor non si ragiona.   Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la  Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa  questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e  accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i  « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono  soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol  morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj.  cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e ri¬  scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t  La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta  ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi  che giovano al ben essere corporale, e introdottone o  recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo in  mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo  nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,  così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta  che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità  che sia proprio il secolo della morte ».   Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto  il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬  chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine».  L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro  bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che  restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta  costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa,  quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu  r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come  la « sua donna » da esso il Leopardi :   Forse tu l’innocente   Secol beasti che dall’oro ha nome.   Or leve intra la gente   Anima voli ? o te la sorte avara   Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara ?   Viva mirarti ornai  Nulla spene m’avanza 3 .   ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4.   » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna (settembre 1823) vv. 7-13.    fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo  «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi  jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano  luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa  I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore,  la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magna¬  nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale  non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla  stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e  nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e  5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiam¬  mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle  ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della  patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬  nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo  di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo,  a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si  trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a  proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne  sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ».  La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.  Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa  «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni  occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché  il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬  cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi-  neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,  epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris  portare.   Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno !  Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita    * A. D’Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre  *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,  Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un  pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra  uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi  rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj  uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati  tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando  parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori  pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte  stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e  disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie  di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con  queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-  l’antico error », di cui « grido antico ragiona », onde fu  negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi  aveva appreso dal Rousseau.   Oh contra il nostro  Scellerato ardimento inermi regni  Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e  procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il  mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto  invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come  lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa  la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti,  la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono  stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano  di nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura  non si commuove allo sterminio di sé a cui l'uomo è  tratto dal suo ardimento.   Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra  L’aonio canto e della fama il grido  Pasce l’avida plebe) amica un tempo    » Inno ai Patriarchi (luglio 1822), vv. no-112.     Al sangue nostro e dilettosa e cara  Questa misera piaggia, ed aurea corse  Nostra caduca età. Non che di latte  Onda rigasse intemerata il fianco  Delle balze materne, o con le greggi  Mista la tigre ai consueti ovili  Né guidasse per gioco i lupi al fonte  Il pastorei; ma di suo fato ignara  E degli affanni suoi, vota d'affanno  Visse l’umana stirpe.... '   Amica è la natura a chi sta contento della vita spon¬  tanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.  Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è  il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà  col pensiero di restaurare la sua vita e riconquistare la  dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa* *;  Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano  con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo  servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo  felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si  V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col  suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto  infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni  uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai,  perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che  appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sen¬  tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non  dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda  l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra  vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il  non vivere è meglio del vivere.   La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu-   * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere  il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura italiana,  sione di quella premessa, che la felicità o valore della  vita consista nel diletto; il quale non può essere altro  che limitato, e quindi mai mero diletto, senza mistura  di amarezza.   IV.   Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che  pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla:  ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:  poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo  è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e  l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con  r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma.   Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del  Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è  quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo,  che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo  avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che  egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi  quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uo¬  mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬  blema affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima,  il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,  dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale  sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi,  e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le spiegherà,  « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle  di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra  cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle    I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬  sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬  ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come  prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto  per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna, 2“ ed.  1925. P- 52).   jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità pro-  ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e  l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior sentimento,  che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il  niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per  l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle  (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al più  stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia  jjjai prodotto in alcun tempo.   Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬  loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la  cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col  suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia  e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto  ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la  Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda,  non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è  semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra  che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini,  che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e  che insomma non ha base in natura quello che gli uomini  considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo  fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.   Ma il concetto più direttamente è trattato nella  Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo  (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui  Leopardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché  Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere  umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere  dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli era  fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-  pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della  vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra  vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta  ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su!  pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto  e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬  simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera-  zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-  tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di  amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione  «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto».   Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta  andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i  due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non es¬  sere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno  la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama  come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò  che veramente vale. E questa, guardata più da vicino,  consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle  affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel  puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far  essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia  e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran  numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo  pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita  degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno  infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior  parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua,  che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi  peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso  Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia  vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita,  in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente)  non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che  non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella  coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che  l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare  perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore  perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno;  la morte al posto della vita.   E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del  Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal  ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso  al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬  serando esemplo di sciagura » :   O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa  Tua niente allora, il pianto  A te, non altro, preparava il cielo.   Oh misero Torquato ! il dolce canto  Non valse a consolarti o a sciorre il gelo  Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda.   Cinta l’odio e l’immondo   Livor privato e de’ tiranni. .Amore,   Amor, di nostra vita ultimo inganno.  T’abbandonava. Ombra reale e salda  Ti parve il nulla, e il mondo  Inabitata piaggia.   Torquato Tasso medesimo, che non trova nel mondo  altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago  inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno  alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso  e del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della  noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare  abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi  interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti  in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro  non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente.  Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai  piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però.    come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si  dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»;  e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte  di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona  del povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte  alla immutabile natura — si viene via via votando cosi  del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della  tristezza soffocante del tedio.   L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio  dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura  a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che  la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la  vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e  l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di  forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto, ap¬  poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di  volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con   10 sguardo fisso e intento. — Perché, le chiede il povero  errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’  tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue  viscere », e « per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ?» — « Se io vi diletto o vi be¬  nedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬  l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distru¬  zione. — Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto  patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello  che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova  cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con  danno e con morte di tutte le cose che lo compon¬  gono ?» — E prima di aver la risposta 1’ Islandese è  mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia,  che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel  giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto  aU’anima: — Sii grande, e infelice. La vita infatti   È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota;  e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa  Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza valore, non appena con la sua  coscienza si stacchi dalle cose, e vi si contrapponga.  L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto  nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima,  il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto.  Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio.   V.   E qui potè parere al Leopardi, come osservammo,  di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili  critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso  libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro.   Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era  veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a con¬  solare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare  Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande  Recanatese b scrisse una volta ^ : « Il Leopardi comincia  uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬  venta nel mondo un’anima con queste parole: — Vi\d  e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il  rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non  in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi  uomini, se basti a ciò essere infehci, ed il Leopardi in¬  segnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva  imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui   Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni  profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume  La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della  nuova Italia, Lanciano, Carabba,   - Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are  più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della  vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬  piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬  maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa,  cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva  la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione  e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato  conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza  di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie,  e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino  il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua  anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è  pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati mo¬  menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice  del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né  il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita  al Leopardi. È suo, del 1820, questo pensiero vero e pro¬  fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento  vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto  altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere  di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬  lità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente  e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando  anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad  un animo grande, che si trovi anche in uno stato di  estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e sco¬  raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere  disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono  l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro  che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente,  quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. I, 351. 340- Cfr. lett. M avveggo  ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura   Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬  cinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno  (ji riprendere la dimostrazione. Il Leopardi non affronta  nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di  questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera  negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non  superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto  l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬  zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma  la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬  sera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo  a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor  della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima  che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro  i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla  fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi  spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricor¬  danza che essi lasciano di sé ai loro posteri ».   Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima,  quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure  agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui  gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso,  potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza  fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser  « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria,  che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto  più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno  infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli  riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla    loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione  della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro,  finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo com¬  prendere », Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo genio.  La sua sostanza è veramente in questa lode interna e  soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde  il genio vede illuminata la propria opera. Leopardi,  nudrito la mente dei concetti classici e delle idee mate¬  rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria,  in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte  le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in  fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E  perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia  superstite della grandezza spirituale, veduto in questa  forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla  gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che  ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze ? ' Ed ecco il  Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto  di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel  mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile.  Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande  non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,  con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬  tura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.   Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si  possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando  altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga  da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual  porto rimane allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ?    ' Dovecanterà:    O speranze, speranze; ameni inganni  Della mia prima età ! sempre, parlando.  Ritorno a voi; ché per andar di tempo.  Per variar d'alletti e di pensieri,  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,  Son la gloria e l’onor; diletti e beni  Mero desio; non ha la vita un frutto.  Inutile miseria.   E sia; ma se non si può né anche farsi un monumento  della propria infelicità ?   Sola nel mondo, eterna, a cui si volve  Ogni creata cosa.   In te, morte, si posa  Nostra ignuda natura.   Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor.   La risposta viene dai morti, che si sveghano per un  quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descri¬  vono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale  vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come  le anime del limbo dantesco:   Profonda notte  Nella confusa mente  Il pensier grave oscura;   Alla speme, al desio, l’arido spirto  Lena mancar si sente:   Così d’affanno e di temenza è sciolto,   E l’età vote e lente  Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza senti¬  mento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente  avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di sensi  senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,  quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile  dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del  sonno, nel tempo che si vengono addormentando ».  Dolce morte hberatrice ! — Ma prima che la morte ci  abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot-  tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬  teneva una buona parte del giorno ragionando filosofi¬  camente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni  suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬  strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre.  non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non cre¬  deva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^  in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bi¬  sogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e  senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando  ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non  ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo  r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e  morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né  della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e  la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate  anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sa¬  pere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri  vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.   Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ?  Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Cristoforo Co¬  lombo, in una bella notte vegliata sull’oceano .stermi¬  nato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico  che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha posto  la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem-  phee opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli  soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa  navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima  in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia,  ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti  non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano,  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si. debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo,  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o  pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna  pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla  fxipe di Leucade » >. E navigazione è ogni rischio della  vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot-  tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio,  P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce  ne liberi.   E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo  a Colombo e Gutierrez  Leopardi,  nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza  del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé  l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano  al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor-  gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta  e ridente: di queste creature amiche delle campagne  verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti,  del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline  e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena  e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col  canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena  d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una  gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero  d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il  canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬  creare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario  in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per  maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di udi¬  tori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il  poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi,  che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in  uccello, per provare quella contentezza e letizia della  loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ?    ’ Cfr. Pens.  E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano  alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca  colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬  brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della  vita, attenuando bensì il tono della lirica precedente, c  smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo  caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli  anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte  a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,  ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione  del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin-  francatore. Sensazione già nota al Poeta:   La mattutina pioggia, allor che l'ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’affaccia  L’abitator de’ campi, e il sol che nasce  I suoi tremuli rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli sussurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico.... •   Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;  « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton-  sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma  della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera  soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà  la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c  canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo,  il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più  comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella  loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne  La Vita solitaria    producono e formano di presente; giacché gli animi in  quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e de¬  terminata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono  disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali.  Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro-  vavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta  uovamente neU’anima la speranza, quantunque ella in  niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la spe¬  ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella  disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita  dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va  alla notte, e alla vita umana che muove dalla heta gio¬  vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se ter¬  mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura  sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima  empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬  ranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché  quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi  l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà  mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬  tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo.   VI.   Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono,  nella misura e nel modo che si può secondo il Leopardi,  quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬  scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche  la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo  gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due  edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del se¬  condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e  il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬  fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al  diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima  e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del-  l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’inter¬  pretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬  gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione  filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬  giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da  pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in  fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde  si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine  di quella Natura che eternamente passa, e che negli ul¬  timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile  e spaventoso ».   Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti ope¬  rette primitive anche nell’edizione di Firenze del '34.  quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi  del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che  in questa edizione invece non potè entrare il Frammento  di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬  cennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo  scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette.  11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto  verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬  tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe  già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa  aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico  del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini  della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze due  anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene  ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi:  come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà  potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo.   Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica    I Cfr. Chi.\rini, O.C., p. 251.   * Scritti letter. di G. L., li, p. 418.  perché gli parve troppo scolastico e di materia non   [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬  nuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco  movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello  strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’in¬  credulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo,  e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse  anche col passar degli anni, il Leopardi non credè più  che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per  opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al  L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà  I pentito delle parole crudissime che usa parlando della  I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli   f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in   modo più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo,  contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico  nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei  sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta  abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva  a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali  non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento  segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una  poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità  risuona all’anima del lettore come una musica, secondo  che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena    I operette morali di G. L.,   ’ Le prose morali di G. L., p. 276.   3 Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera  nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un  motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men significante  ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia, or  son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite....  io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della  musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite,  mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne  scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava  potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio  tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^  e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor  nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere  umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto  estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte  le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re  qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e  d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le  parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo in  una lettera al Giordani del 6 maggio 1825 (del tempo  in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo  termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬  nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel  che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga  di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo  e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché  il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio  di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria  degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,  speculando questo arcano infelice e terribile della vita  dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto feli¬  cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬  tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli :   Ben mille volte  Fortunato colui che la caduca  Virtù del caro immaginar non perde  Per volger d’anni; a cui serbare eterna  La gioventù del cor diedero i fati....    qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del  Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo  amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono  musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una  osservazione notabile. Fu scritta il 28 febbraio 1828. SuU’amicizia del  L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mounier,    (si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)]   Della prima stagione i dolci inganni  Mancar già sento, e dileguar dagli occhi  Le dilettoso immagini, che tanto  Amai, che sempre inlino all’ora estrema  Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.   Or quando al tutto irrigidito e freddo  Questo petto sarà, né degli aprichi  Campi il sereno e solitario riso.   Né degli augelli mattutini il canto  Di primavera, né per colli e piagge  Sotto limpido ciel tacita luna  Commoverammi il cor; quando mi fia  Ogni bel tate o di natura o d’arte.   Fatta inanime e muta; ogni alto senso.   Ogni tenero affetto, ignoto o strano;   Del mio solo conforto allor mendico.   Altri studi men dolci, in eh’ io riponga  L’ingrato avanzo della ferrea vita,   Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi  Destini investigar delle mortaU  E dell’eteme cose....   In questo specolar gh ozi traendo  Verrò: che conosciuto, ancor che tristo.   Ila suoi diletti il vero.   Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare,  scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e  inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che  nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di  aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo  egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consape¬  volezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non  è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la  gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora  del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inor¬  ridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso  e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo¬  sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso  ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené  e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Elean-  dro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda  fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace'  ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece  per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra  protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia  sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono  ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né  forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me  stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬  sibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile  pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle  sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò  sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che  esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per  poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi  possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ri¬  bella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella  all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro  che freddezza e petto irrigidito ! E da ultimo Eleandro  conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità  dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene  col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi  libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di  quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte  o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,    • Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬  tolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli  non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista.    iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:  laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo ;  e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori bar¬  bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti  cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da  queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si  volgono gh occhi del Leopardi, il mondo di Stratone  da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, — come non è  spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma  non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore  del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro;  e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini  e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e  quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra na¬  tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire fred¬  damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di  sopra della universale miseria, sentita come tale, e non  assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza  avrebbe voluto.   Così nella Storia del genere umano, vero preludio  alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto  all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap-  parire in terra della Verità, spunta egualmente una  divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei  mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è  mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà  di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella  di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, con¬  giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali  egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più    IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi.     che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione  di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove, «com¬  passionando alla nostra somma infelicità, propose agjj  immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a  visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare  in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente  quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni  della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬  ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo  massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i  mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della  Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché  la gente umana ne è generalmente indegna, e perché  gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza.  EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua  grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità  del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore.  « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri  e più gentih delle persone più generose e magnanime;  e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina  e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e  di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa  al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge  due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un me¬  desimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desi¬  derio in ambedue; benché pregatone con grandissima  istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non  gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché  la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve  intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere  pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata  condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi ». Ed  ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente,  allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda  (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità  (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né  egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a  respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬  girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già  segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio  riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo  Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque  inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente  offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei  geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra  logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta  questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della  virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella  stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬  gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo  Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza  eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua na¬  tura, adempie per qualche modo quel primo voto degli  uomini, che fu di essere tornati alla condizione della pue¬  rizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare,  suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede,  l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli  anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi  diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano  come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non  ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup-  phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e  mansueto ».   Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma  la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la  pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean-  dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto  amore tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la  purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua  giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e  della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con  nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria,  e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.   Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la  vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬  simista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un  roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen-  sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ;  une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s,  quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus  noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et  l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\  sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU  misérable E il Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia  delle Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza  e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬  biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬  mente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.  Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente  essere infinitesima parte di un globo che è minima parte  degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in  questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬  fondamente sentendola e intensamente riguardandola, si  confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pen¬  siero della immensità delle cose, e si trova come smarrito  nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con que¬  sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della  sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua  mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere.    I Pensées, (Brunschvicg).    è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto  superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬  tener col pensiero questa immensità medesima della  esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità  sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è  l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette  rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme  e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio  a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che  tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del  Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri-  beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da  amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo  parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo.   VII.   Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva  ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi  ad aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬  nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il  Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore,  la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando  un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano  già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle  ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬  sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo  (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di  tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬  nevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare  (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui  paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma    ' Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda  più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^  1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^  atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP  elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^'  che secondo natura uomo ».   Perché contro natura e contro umanità il suicidio  ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam ’  orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh  ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre  nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato  di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata  assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi  coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬  rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opi¬  nioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata  ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o  con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia  grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo-  tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla  né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in  ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado  che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere  altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di com¬  puto; veramente errore, e non meno grande che palpabile;  pur si commette di continuo; e non dagli stupidi so¬  lamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai  saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha  prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il  raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.   E credi a me, che non è fastidio della vita, non  disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della  vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio  del mondo e di se medesimo, che possa durare assai:  benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo-  sizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a  notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or  quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella  loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura;  non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,  al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo  senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è  evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal  Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo  silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico,  opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬  pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata  stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ».   Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi.  Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche  un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:  « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi  avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti  di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della  moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali  siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,  bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro  dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto  di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona  cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la  parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette,  ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma-  Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo  «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come  principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni  Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99),  passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy.  1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae-  fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che  si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno  degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta  per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il  genere umano: tanto che in questa azione del privarsi  della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo  il men bello e men liberale amore di se medesimo, che  si trovi al mondo ».   Dunque quella grandezza non è infelicità; perché  l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe  se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo  dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di  beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più  sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa  è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso il  Leopardi, che non è più il dolore incomportabile che ci  fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai  viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di  uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice  al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda;  non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci  ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene atten¬  diamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci  incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;  per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».  Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta  la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui  non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte  verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo  momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci  rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».   Vili.   Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette.  Le quali ebbero ancora una ripresa, come dicemmo,  nel '32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Alma¬  nacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo  grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬  comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il pas¬  seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione  a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella,  non è la vita che si conosce, ma quella che non si co¬  nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che si  conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione  di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:  vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce,  e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e  sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo  venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬  pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene  dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come  cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma  non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro  sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬  turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che  non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi  la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare  il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con  queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬  seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro  cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬  stro amore, una beatitudine divina.   Fu per Giacomo l’anno della tragica prova  della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine  della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore  stesso di Giacomo.   Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella  Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta  Infinita beltà parte nessuna  Alla misera Saffo i numi e l’empia  Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni  Vile, o natura, e grave ospite addetta,   E dispregiata amante, alle vezzose  Tue forme il core e le pupille invano  Supplichevole intendo   Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia;  onde ricorderà:   Or ti vanta, che il puoi. Narra che prima,   E spero ultima certo, il ciglio mio  Supplichevol vedesti, a te dinanzi  Me timido, tremante (ardo in ridirlo  Di sdegno e di rossor), me di me privo.   Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto  Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi  Fastidi impallidir.... * *.   E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile  errore, fu « notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma  Saffo proruppe nel grido disperato ; — Morremo ! —  e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi  scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più  l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬  tilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella  d’Amore ;    1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia.   Bellissima fanciulla,   Dolce a veder, non quale  La si dipinge la codarda gente.   Gode il fanciullo Amore  Accompagnar sovente;   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d'ogni saggio core   £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e  stanco desiderio di morire, che si sente   Quando novellamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto,   perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto:   a se la terra   Forse il mortale inabitabil fatta  Vede ornai senza quella  Nova, sola, infinita  Felicità che il suo pensier figura;   Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete.   Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio.   Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.   E a questa morte consolatrice, che insieme con amore  è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza  armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol-  gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:   Bella morte, pietosa   Tu sola al mondo dei terreni affanni.   Se celebrata mai   F'osti da me, s’al tuo divino stato  L’onte del volgo ingrato  Ricompensar tentai.    • Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina  A disusati preghi.   Chiudi alla luce ornai   Questi occhi tristi, o dell’età reina.   Non già che amore e morte abbian potere di cancellare  la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi abbiano  mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà  le penne al suo pregare, lo troverà   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   La man che flagellando si colora  Nel suo sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir....   La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬  dele: ma già Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi  addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato  è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione:  vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano;  il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia  del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬  ciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro  di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici,  ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»;  perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento  che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in  confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici  tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e  del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i  giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».  Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E  di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla  mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco  a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare  la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi  parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il  fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho  invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un  gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬  biato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti  né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. In¬  vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico  dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della  morte, è fiducia confortata da una speranza che non  falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto per lei a  quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda,  che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema,  poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione  piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come  accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il  tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adun¬  que, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.   In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore  trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine  da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo  « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non  il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e  guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo  sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta  differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante  0 quella che s’incontra nella Moda, al principio delle  Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso  alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una  conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.  Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della dome¬  nica, a. II, nn. 8 e 9, 23 febbraio e 2 marzo 1919: poi nei Frammenti  di estetica e letteratura, A proposito del Leopardi toma sempre in campo la  questione delia differenza e del rapporto tra filosofia e  poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo;  ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬  guere una cosa dall’altra, come res dissociabiles, e in un  libro di prosa volle in forma più sistematica e più ra¬  zionalmente convincente esporre quel suo pensiero da  cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie.  E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie  in cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi  di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato  della vita, e che attraverso una determinata situazione  personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costan¬  temente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna  delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto  la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel  sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la  personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti.  La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po-  tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più  e di meno: affermando che l’elemento filosofico predomina  nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede  così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare  alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro  natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può  esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata.   Ma io non voglio ora affrontare la questione, che  potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata    li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi.   quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬  pardi la questione di principio è priva d’ogni interesse,  perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è indubbiamente  poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni,  cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce  se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità  che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare  e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella  critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui  consiste propriamente una filosofia che non vuol  dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una  filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo  del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare  intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un  certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella  divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore  a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente  di formulare.   Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più  attenti della sua poesia — questa ha pel poeta un conte¬  nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto  ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬  mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,  vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta  che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli  occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni  poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore  con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬  pardi era, come egli disse una volta, << nato ad amare »,  ed aveva « amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò  mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo    I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos-  Hai.,  e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai-  lecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di do¬  lore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,  redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine »   Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ot¬  timismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella  natura considerata dal punto di vista materialistico,  brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa  in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana biso¬  gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme  alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede  nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia  dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore.  11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui  il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬  l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è  quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità  è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi  alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel pro¬  fondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col  progresso della riflessione, e tanto più altamente e uma¬  namente ottimista. Basta confrontare la canzone Al-  /’ Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della  sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della dispe¬  razione si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera  effusione di un’anima angosciosamente agitata da un  bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede  nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filo¬  sofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assor¬  bita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a dire  che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma  l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella    ' storia del genere umano.   - Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo  bensì la forma poetica della sua espressione in modo  pieno e perfetto.   Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico,  ironista, materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione,  dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri che  lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,  disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬  ferma delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬  borazione della materia, per evidente inesperienza del  metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi  pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e si  fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima  per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo  ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi  la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo.  In questo senso bisogna pur dire che in Leopardi non si  deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che  rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬  nità. C’ è insomma il poeta.   Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere  definitivamente dimostrato \ con argomenti esterni, at¬  testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso  il Leopardi, e con argomenti interni, desunti dallo svol¬  gimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le  singole operette sono congiunte tra loro per graduali  passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal  primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma  un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di  se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e  un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un  trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬  nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti tutti nel 1824, in  un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi  quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,  svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella  prima serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo  capitolo, quello perché introduzione e questo perché  apologia e conchiusione di tutta la serie, si ottengono  infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in  due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è  destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma  un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti  dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico,  e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione  che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al  posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo abolito  allora perché infatti non armonico né col gruppo, né  con tutta l’opera.   La distribuzione, è ovvio, non può avere se non una  importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse  voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non  volle mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da  lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale,  che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed inter¬  preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso  che tutte e venti le operette furono scritte successiva¬  mente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo,  e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo,  dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non  si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi  formasse un tutto a sé.   La distribuzione del nucleo principale delle Operette  in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un ca¬  pitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere  le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali  che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj  complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in  questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che  fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro  capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre  dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere  un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione  di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬  vuto introdurre una prima e una seconda volta nel  corso della sua unica opera.   Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor  Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello  che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬  vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda:  « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è  una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità as¬  soluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-  mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vi¬  vere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il  primo gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno  e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura  e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero  dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno  quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al prin¬  cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non  un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile  ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una  constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬  condo ciclo il problema.   Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole    * Una nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬  zocco -- da me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬  renza tra primo e secondo periodo in questa trilogia  delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel  primo « r infelicità del genere umano si considera parti¬  colarmente nell’età moderna come effetto più che altro  della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel  secondo invece, « questa infelicità si considera come  legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del  mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella prima  ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e  di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio  di ogni male e di ogni dolore ».   Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo  Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo  leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non  corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indi¬  cata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo  delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien  posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto  della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna  sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,  coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo  se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irre¬  quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ».   Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam-  bruno può dire che « assolutamente parlando » il non  vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la  vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,  coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e  affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬  rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul-  htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una  colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬  mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà,  fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo.    c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma-  lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del  primo ciclo.   Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della  verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo  della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione  del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso  e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior  copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto  il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio  spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e  farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare  l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta,  rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che  ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi  alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo  ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è  aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il de¬  stino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a  quella natura che non è per lui, e a quella vita che sol¬  tanto nella natura potrebbe spiegarsi.   Il primo ciclo è una negazione, per così dire teo¬  retica; il secondo è la negazione pratica, che consegue  dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere  quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però  la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con  r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché  quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel  terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo:  che quella vita che certamente non ha valore, perché è  dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo  vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa  negazione.   La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa  contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da  tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch,  attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere  con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso  gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista  col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso  l’attività, il movimento, la passione e la speranza che  non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore  che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia,  quello che la natura ci nega anche nella piena coscienza  della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente  la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo  dalla natura.   Una soluzione dunque del problema della vita nei tre  cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si do¬  vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei  primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima  dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente  procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì   10 slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le  sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,  in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma  non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬  rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬  tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’imma¬  gina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza  tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta  la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello  spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge  così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate  inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in  quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui  la personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto  nelle Operette, come nei Canti.   Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si  conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.  scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei.  lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile,  che il centro e l’accento principale dello spirito leojiar-  diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,  agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vin-  colo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale  inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite  infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a  quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal  sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del Leopardi,  come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi  vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna  d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E  perché non vorremo noi avere alcuna considerazione  degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei  fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari  e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran  tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non  sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione;  né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la  perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del  caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma un  cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente  come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed  espande nell’amore.   — Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬  sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle  Operette ? — Ecco: che la Storia del genere umano faccia  consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della  vita nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo  che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto  che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che  sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo  a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo  di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro,  egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo  dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e  Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere il Leo¬  pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe  potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬  l’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato  quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto  fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché  il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo  che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si  oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si  oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser  detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma  della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬  dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo  vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII  e dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche  sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della  natura e però degno di compassione.   La compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬  dice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del  genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo  l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice ;  e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che  gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato  ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non     mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie  stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-  l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si'  sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al  dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce  subito continuando : « Con tutto ciò sono solito e pronto  a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬  timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg  una sorta di amore.   Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte  questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza  col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬  rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione  della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la  bellissima fanciulla che   Gode il fanciullo Amore   Accompagnar sovente;   la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco  desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso  affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,  non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì  contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo lin¬  guaggio di Timandro e deH’amico di Tristano.   Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto  badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in  cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente  consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della  sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come  poesia che come argomentazione. E perciò non posso  accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Torquato  Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli.   Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al  secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è  senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.   vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».  Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza  che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro mura d’una  prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano  infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo  Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che  il grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due  han trovato la maniera di fuggire la noia, questa com¬  pagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non  ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo  a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene  Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte  cose che altrimenti non avremmo in considerazione.  E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬  versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo  da questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche  Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra  fantasticare o navigare, van consumando la vita: non  con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico  frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento  che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo sve¬  gliarsi ’ ».   Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale  dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto  del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che,  come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto  col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬  logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole  citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g  avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na  vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe  di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(,  durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo  conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che  gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in  pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬  pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso  rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche per¬  sone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e  soldati ».   Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui  Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riaf¬  ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfug¬  gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo  bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬  stiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma  che bisogna perciò affrontare per vincerlo.   Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il  piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero  prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua  sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori,  la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare  perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino uni¬  versale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo  della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo:  « A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la  (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose  matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:  e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,  quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬  riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così  nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente  per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero.  Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche  in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬  tenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo  da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di  noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il  dolore e il diletto ».   Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio  col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier  confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬  stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure as¬  sai. Non che ella interrompa la mia tristezza,  ma questa per la più parte del tempo è come una notte  oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia  al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.  Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare  quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abi¬  tazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede  sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla let¬  tera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che  ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso  l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,  per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile  all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può  significare altro che un realistico strappo che 1 autore  vuol dare alla stessa poetica illusione consolatrice del-  r infelice prigioniero.   E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello  scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli  lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto  di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli  un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj  riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della  poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non intendeva  di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no  litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto  estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello  non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo  il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è poeta. « Non ha  creduto di spogliare del tutto la giornea del filosofo-  che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo soli¬  tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico, scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare  Dante e Tasso. .Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende in una lunga digres¬  sione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che  fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia attrarre  a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e  nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spon¬  tanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto  degli uccelli ».   Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia  voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, propo¬  nendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industrian¬  dosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci  ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Gia¬  como : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia  in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mito¬  logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi,  senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi,  possiamo aggiungere noi. E del resto a quella conclu¬  sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬  ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi volea  riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono dav¬  vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura  dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle  sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui,  della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine,  simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione  e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a  questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso  quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli  a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu  notabile prowedimento della natura l’assegnare a un  medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa  che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla  voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si  spandesse all’ intorno per maggiore spazio e pervenisse  a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la  quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata  di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto  e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri  animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli ».   La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella  sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma  tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi  si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta,  che fa dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento  degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬  trario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van-    I Episiol., lett. . — GENTILE, Manzoni e Leopardi.  no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T  volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen  tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i]  medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol  tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^  stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I  là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK  lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità  quella prestezza di moti indicibile ».   E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬  sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’  deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd  che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio  finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco  di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella  contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole  dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca me¬  raviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi  Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo  pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito  ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del ni¬  tido pensiero leopardiano, postillò: n Per un poco di  tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione degli  uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che  Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso,  o il suo entusiasmo non sia stato davvero troppo pro¬  fondo ». Come se si trattasse di convincere !   A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬  dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente  ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso  il desiderio d’essere convertito per sempre in uccello,  avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh  uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui  sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per  essere disposto a barattarla con esse per sempre. Anche  la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio, la  soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso del¬  l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero,  colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero  alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria;  si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi,  e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del  privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,  o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬  simo che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del  Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno-  luglio dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è quello  di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo  dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi  della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella  di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in  mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che  egh accolse e che professò, le correnti spirituali ante¬  cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici  generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le  quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬  tografia, rimangono appunto generalità, riferibili a mi¬  gliaia di persone.   Ogni uomo è una determinata personalità in quanto  è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e  cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.  E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia  del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto  che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di  reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo  pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello  stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso  luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi,  tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orec¬  chi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari  nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬  mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse  idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern  è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra  quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr  nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^  subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh”  ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire  atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest  dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in  verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto  quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che  ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è  la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬  ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta  se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni  del carattere, nel complesso degh atti e delle parole,  che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro non  è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.   Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella  vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione  del poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se  non jierché riesce a stampare una più profonda impronta  di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere.  E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della  moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita  l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa  il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e  ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi saldi, vi¬  venti e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena  del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune  esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli  vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi  questo dèmone che si cela nella sua anima.   Nel caso del Leopardi, quanto difficile cercarla e tro-  v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò  s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide  tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬  neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma  studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da  mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di  mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬  siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo  più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi  frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda ope¬  razione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora  alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’es¬  senza e chiuderla in una definizione.   Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande  levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non  disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano  indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬  diana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti.  11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,  che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho  creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui  effetto è questo: che il critico non sente la necessità di  risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana  sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della  sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi  in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e  le prose del Leopardi, e si dica: — Nelle prose, manco  a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è  una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello  che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato  d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato  d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero  e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo,  sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi  in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano  e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci  col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e  sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non  meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-  torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e  non si dimentica nello schietto moto della sua anima  Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di  queir ispirazione, che s’apprende immediatamente al¬  l’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo  che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure  fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato  aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta  che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del  mondo e il vasto respiro delle cose. — £ fortuna se alla  prova di questa critica si salva qualche frammento della  poesia del Leopardi.   Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici  a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie  della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬  tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia.  Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-  mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il  significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui  appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso  del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre  un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quel¬  l’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme.  Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si  crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella  parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la  fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato,  in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione  del nostro animo. II Leopardi non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove  il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della na¬  tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore  del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della  luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona  tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora  ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Elean-  dro; ed è Copernico e Filippo Ottonieri; ed è Colombo  e il Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio fami¬  liare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto « mezzo tra bello e ter¬  ribile »; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi  piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie  del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « in¬  nanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e per-  derassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel  sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero  e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ in¬  tima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni  travagho c gustano una beatitudine divina, ancorché  confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento  nella vita universale. Ed è anche il poeta che come ita¬  liano vede le colonne e i simulacri e le ruine della gran¬  dezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei  padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita  d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza  pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore  la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù  sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera  Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non  gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode  di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno  fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà  sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo  del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si  leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo  che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si  compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle  mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬  lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo  sentimento della invitta potenza del pensiero umano  nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli  dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti  umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna  cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬  derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e  la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è  ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; imma¬  ginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito,  e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora  più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le  cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento  e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬  dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >.  E perciò anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione,  può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni  moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura,  il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli  fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della  sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una  notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato   Pensieri, n. 68.   mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di  se medesimo:   su l’erba   Qui neglùttoso immobile giacendo,   Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.   Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della  poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di  quell’ idillico che è la prima e immediata forma di questa  poesia, noi avremo sì elementi di una poesia squisita,  ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella  quale quella prima forma è solo uno degli elementi del  dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne  risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello  Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi  r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi  che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in  spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima  quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in  sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le  piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane:   Così tra questa  Immensità s’annega il pensier mio  E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo  si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante  dell’Asia, che dice alla sua greggia:  Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe.   Tu .se’ quieta e contenta;   E gran parte dell’anno   Senza noia consumi in quello stato.   Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,   E un fastidio m’ingombra  La mente, ed uno spron quasi mi punge  Si che, sedendo, più che mai son lunge  Da trovar pace o loco.   Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico  mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna  Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto  ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La  noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché  la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬  cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti  moti, e che sia   Questo viver terreno.   Il patir nostro, il sospirar che sia;   Che sia questo morir, questo supremo  Scolorar del sembiante,   E perir dalla terra, e venir meno  .‘Vd ogni usata, amante compagnia;   egh può esser queto e contento come la sua greggia.  Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene  fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto:  non aver più né contentezza né pace. Il Leopardi intanto  sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò  in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e  chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande  e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che  non credono al dolore: A voi non tocca   DeU’umana miseria alcuna parte,   Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna  Kon è dagli astri alcun poter concesso.   Non al dolor, perché alla vostra cuna  Assiste, e poi sull’asinina stampa  11 pie’ per ogni via pon la fortuna.   E se talor la vostra vita inciampa.   Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio  Il non sentire e il non saper vi scampa.   Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio  Rompon l’alme ben nate....   Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna  pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo  è avvertito dal Leopardi. C’ è un pensiero che è la stessa  natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore  e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura  e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬  lusioni, che tali si dimostreranno al cimento della espe¬  rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal  fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro  pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica  e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e  lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre per¬  tanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sot¬  trarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del benefizio  di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale,  e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.  Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva  che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa  natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.  Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani.  Questa è la giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata  dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se  stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni  suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita  « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo silvestre  « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo  svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-  ma quasi tutti se ne producono e formano di presente  perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia  alcuna speciale e determinata, inclinano .sopra tutto alla  giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla  pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione;  destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza  ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti  infortuni e travagli propri, molte cause di timore o di  affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non  parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del  dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in  riso, come effetto di errori e d’immaginazioni vane.  La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario,  il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬  sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia:  tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto  più viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi  la grande importanza del momento idillico, o giovanile,  spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del  Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco  e della opposizione, che è il momento del dolore. Questo  dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza  dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il  suo significato lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così  bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non  possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet-  tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli  occhi e nel petto;   Placida notte, e verecondo raggio  Della cadente luna; e tu che spunti  Fra la tacita selva in su la rupe,   Nunzio del giorno; oh dilettoso e care  Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.   Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi  occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio ravviva  Quando per l’etra liquido si voi ve  E per li campi trepidanti il flutto  Polveroso de’ Noti, e quando il carro.   Grave carro di Giove a noi sul capo.   Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli  Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta  Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto  Fiume alla dubbia sponda  Il suono e la vittrice ira dell’onda.   Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di  questa natura di cui ella si vede prole negletta:   , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella   Sei tu, rorida terra. A me non ride   L’aprico margo, e dall’eterea porta  Il mattutino albor; me non il canto  De’ colorati augelli, e non de’ faggi  Il murmure saluta: e dove all’ombra  Degl' inchinati salici dispiega  Candido rivo il puro seno, al mio  Lubrico pie’ le flessuose linfe  Disdegnando sottragge,   E preme in fuga l’odorate spiagge.    13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi.  Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura  sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono  di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:   E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,   E l’inquieta notte e la funesta  All’ausonio valor campagna esplori.   Cognati petti il vincitor calpesta,   Fremono i poggi, dalle somme vette  Roma antica mina;   Tu si placida sei ? Tu la nascente   Lavinia prole, e gli anni   Lieti vedesti, e i memorandi allori;   E tu su l'alpe l'immutato raggio  Tacita verserai quando ne’ danni  Del .servo italo nome.   Sotto barbaro piede  Rintronerà quella solinga sede.   Ecco tra nudi sassi o in verde ramo  E la fera e l’augello.   Del consueto obblio gravido il petto.   L’alta mina ignora e le mutate  Sorti del mondo: e come prima il tetto  Rosseggerà del villanello industre.   Al mattutino canto   Quel desterà le valli, e per le balze   Quella r inferma plebe   Agiterà delle minori belve.   D’altra parte, fin da quando, tra il 1819 e il ’ai, il  Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed  eternamente giovanile della santa natura e del mondo,  contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,  egli sente nel petto   Nell’ imo petto, grave, salda, immota  Come colonna adamantma,   quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte  Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬  fine, si canta se non il dolore ?   Dolce e chiara è la notte e senza vento,   E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti  Posa la luna, e di lontan rivela  Serena ogni montagna. O donna mia.   Già tace ogni sentiero, e pei balconi  Rara traluce la notturna lampa:   Tu dormi, che t’accolse agevol soimo  Nelle tue chete stanze; e non ti morde  Cura nessuna; e già non sai né pensi  Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.   Tu dormi: io questo ciel, che si benigno  Appare in vista, a salutar m’affaccio,   E l’antica natura onnipossente.   Che mi fece all’affanno. A te la speme  Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro  Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.    La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi  e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna  formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la personalità  di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi  non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di  questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna  sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a  lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono  alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che egli  ne è escluso:  non io, non già eh’ io speri,  .à.1 pensier ti ricorro.    Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per  terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella  gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione  che l’inaridisce:  Ahi, per la via   Odo non lungo il solitario canto  Dell’artigian, che riede a tarda notte.   Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;   E fieramente mi si stringe il core,   A pensar come tutto al mondo passa,   E quasi orma non lascia.   L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica  riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra  i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta  tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel  mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet-  tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore de¬  solato.   E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue  poesie, che il Leopardi stesso definì idillii, e in cui più  forte risuona la corda dell’animo commosso e vibrante  della stessa vita del mondo.   Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria   che comincia;   La mattutina pioggia, allor che l’ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’afìaccia  L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce  I suoi tremiili rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli susurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico;   per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e  per concludere;   In cielo.   In terra amico agh infehci alcuno  E rifugio non resta altro che il ferro.   Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto  è idillico il principio. I due termini si corrispondono e  si congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete  al Leopardi la commozione e l’amore per la natura, per  la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza ma¬  gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la  patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che  rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo  strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo con¬  vincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto,  della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo,  non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto  con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pen¬  sieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli  uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non  potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca  a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire  virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo,  che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II  pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del  Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è  gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬  giato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua me¬  moria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed  erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e presente,  torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,  che già lo fece per tanto tempo ululare.   L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si  scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e signi¬  ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme  di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in  qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬  rette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta  intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi,  sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici  sono i critici del frammento. Si fermano a una pagina  delle Operette leopardiane, e non curano di guardarne  l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità  organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una,  sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento  dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi, Stratone;  ma non vedono il principio e la fine del libro. E si lasciano  sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la  Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-  v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore  gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni  finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto.  Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e  quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,  che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti  più duri, più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta  è colpito allo spettacolo del freddo vero.   L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due  opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello  spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime.  La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi  nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta,  aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e  dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la  vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed  estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente  dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non  posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore  solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssi-  mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà,  del valore e della superiore letizia della vita, tremenda  insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬  senza della poesia leopardiana.  In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma Leopardi sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel  pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo  stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora  rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso  faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede  e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ;  e dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna,  la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio,  sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta  per le piagge odorate.   Se non che questo pensiero devastatore e distruttore  della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso  stesso una nuov'a natura : è la natura di quell anima  grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il  Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in  verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori,  ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di  estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché  rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.  Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità  superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito  attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice)  « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la  potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà  dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza »    I Pens. di varia filos., Allora egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce  naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia  spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore  sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del  profumo della sua poesia, che consola il deserto. Allora  egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna  gli può strappare, nel demone divino e onnipotente che  fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia  e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre  con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬  taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire.  A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento  si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee  piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo  ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro  chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi  dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere  umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone al¬  l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,  è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ?  O non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore,  che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore  di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo  di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che  ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non  è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità  che soffre ed ama e canta.   Quale in notte solinga  Sovra campagne inargentate ed acque.   Là 've zefiro aleggia,   E mille vaghi aspetti  E ingannevoli obbietti    1 Operette, p. 310.  Fingon l’ombre lontane   Infra Tonde tranquille   E rami e siepi e collinette e ville;   Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno  Nell’ infinito seno   Scende la luna; e si scolora il mondo;   Spariscon Tombre, ed una  Oscurità la valle e il monte imbruna;   Orba la notte resta,   E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce.   Che dianzi gli fu duce.   Saluta il carrettier dalla sua via;   Tal si dilegua, e tale  Lascia l’età mortale  La giovinezza.   La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.  In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto  segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.  Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale  dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che  ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo  dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo  Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di Gia¬  como Leopardi. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno  di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e interessi  in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi  osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro  uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così impor¬  tanti, anche secondo il modo di vedere del Leopardi,  da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e  de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, antileopar¬  diano, culminante in questa Italia, potente, imperiale,  creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche  ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la  faccia nascosta tra le ginocchia, piangente.   Eppure lungo questo secolo la fama del Leopardi è  venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia  ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia, della sua anima ha acquistato  d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di penetra¬  zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a  mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una  coscienza più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a dignità civile e  politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppres¬  sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di  accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva, operante  e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto  sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una  nuova scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza  dell’assunto politico; e creavano un esercito nazionale; e  sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla vita  economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema  nuovo di pubblica istruzione e portando via via la luce  neUe menti delle plebi abbandonate da secoli all’igno¬  ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte  le energie individuali si venivano educando al senso e  alla tecnica dello Stato; e infine, in una riscossa della  coscienza nazionale che si era venuta formando negli  animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più  grande guerra della storia; combattevano con grande  onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata  alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬  fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova  Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta vita  in quella moribonda Italia, di cui parlava Leopardi!   Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb  cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi,  r ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua  grandezza. La bibliografia leopardiana è una delle più  ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori  poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca.  Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬  scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con  i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi  che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San-    ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di  fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi  tronchi. Intorno al Leopardi non pure letterati, deside-  sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬  vere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa na¬  scere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché il Leopardi  ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel suo  stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine  celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati  (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto  che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬  vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente  da improvvisate teorie e appoggiato a improvvisate os¬  servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni  e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia  a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto  in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente,  peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e  storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia  intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo¬  scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qual¬  siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono  stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso  le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti  della espressione artistica sa scoprire il principio profondo  dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di  quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in  Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha avuto  esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬  l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per  raggiungere il poeta là dove egli e poeta.   Così in questa selva della letteratura leopardiana noi  non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo    secolo antileopardiano si può dire che egli sia stato prima  scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno  dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il  creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai  in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico,  che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto  come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti,  e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro,  non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire  la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo  tedesco e il pessimismo sui generis del poeta itahano.  « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a quello  che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬  derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama  illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in  petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che  non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non  cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non  abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa  credente; e mentre non crede possibile un avvenire men  tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo  amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così  basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile  e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse  prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te  l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato  il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più freddamente  si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli occhi  dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza  indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e  degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove  esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita,  non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della  vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio    del mondo e di se medesimo; che possa durare assai;  benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevo¬  lissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo¬  sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime e appena possibih a  notare; rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella  speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro  apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non  veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al  senso dell’animo ».   Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal  sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché  sente di dover affermare, come fa il Leopardi. Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬  mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :  <( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste,  o jier isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e  non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di  deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di (juel  misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o  di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi;  laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e  infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari;  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così  aveva pensato quando scriveva con animo  di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Gbntilb, Manzoni e Leopardi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni  dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche.   Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il  succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33  quegli accenti disperati ed empi;   In noi di cari inganni   Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato   Non donò che il morire. Ornai disprezza   Te, la natura, il br\itto   Poter che, ascoso, a comun danno impera,   E r infinita vanità del tutto.   Momento satanico, ma un solo momento: voce sì  dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non  può ascoltare se non commista in armonia profonda a  voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo  stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione  più schietta della sua propria natura. Alla quale egli non  può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima  di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬  tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬  z’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di  fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre spesso nel Leopardi.  Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa  forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a  se medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia  di questo universal meccanismo che regge il mondo  concepito, come il Leopardi aveva appreso a concepirlo,  in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in  cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù,  né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza    umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e  la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di  dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬  pre più ricca.   Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬  magine enorme e tremenda di quella Natura disumana,  che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo  audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta  nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo  che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita  per cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel-  r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un  luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco  che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco  di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide  da lontano un busto grandissimo; che da principio im¬  maginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli  ermi colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola  di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una  forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,  appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non  finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di  occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ».  La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più  che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui  1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono  l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere,  risponde breve che « la vita di quest’universo è un per¬  petuo circuito di produzione e distruzione, collegate  ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬  tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo;  il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, ver¬  rebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬  gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che    appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come  fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita  per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso,  e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che  r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò  un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il quale colui  disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬  mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato  nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della  prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa  immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra  una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace  d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per  addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per  riderne. L’ideale deUa sua personalità è Fihppo Otto-  nieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre  tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne ragiona con  impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra  e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine dell Islan¬  dese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto  improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dal¬  l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore  nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia  n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del  destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse  men duro un male senza riparo o non sentisse dolore  chi è privo di speranza. No,  Guerra mortale, eterna, o fato indegno,   Teco il prode guerreggia.   Di cedere inesperto.   È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso  luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de    casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come sappiamo.  Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere.   Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende  e sorride ;   Che se d'affetti   Orba la vita, e di gentili errori,   È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me bastante  E conforto e vendetta è che su l’erba.   Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.   Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga  allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece  battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità.  Ma questa eroica grandezza non basta; poco stante,  nella piena maturità delle sue esperienze morali, tornata  la calma dopo la tempesta della patita delusione e del  sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal  cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator  dei casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi  cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava,  là dove erano state liete ville e ricche messi e armenti  e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il  suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che,  quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor  manda un profumo, che il deserto consola: simbolo della  sua poesia, del suo animo, che da questa spietata empia  natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana  compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro  al destino:   Nobil natura è quella  Che a sollevar s'ardisce  Gli occhi mortali incontra      Al comun fato, e che con franca lingua,   Nulla al ver detraendo.   Confessa il mal che ci fu dato in sorte.   E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è rea:   che de’ mortali   Madre è di parto e di voler matrigna.   Costei chiama inimica; e incontro a questa  Congiunta esser pensando.   Siccome è il vero, ed ordinata in pria  L'umana compagnia.   Tutti fra sé confederati estima  Gh uomini, e tutti abbraccia  Con vero amor, porgendo  Valida e pronta ed aspettando aita  Negli alterni perigli e nelle angosce  Della guerra comune.   Oh l’alta meraviglia del Leopardi, dopo circa un  lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato  del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi,  e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella spe¬  culazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a  chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta,  ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto  le Operette che sono la filosofia del Leopardi, ma sono  pure un momento essenziale dello svolgimento della sua  poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della  sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia  italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle  Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia  italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire  in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non  che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si  accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.  Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni.   Sopirò in me gli affanni  L’ingenita virtù ;   Non l'annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L’ infausta verità.   Dalle mie vaghe immagini  So ben ch’ella discorda;   50 che natura è sorda.   Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette:  Pur sento in me rivivere  Gl’inganni aperti e noti;   E de’ suoi propri moti   51 maraviglia il sen.   Da te. mio cor, quest’ultimo  Spirto, e l’ardor natio.   Ogni conforto mio  Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma;   Mancano, il sento, aH’anima  Alta, gentile e pura. La sorte, la natura.   Il mondo e la beltà.   Saffo però ha dimenticato il suo cuore:   Ma, se tu vivi, o misero.   Se non concedi al fato.   Non chiamerò spietato  Chi lo spirar mi dà.   Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive,  con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del    2 i 6    Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza  negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma  l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua voce; quando questa  voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi  al balcone della casa paterna:   Mirava il ciel sereno.   Le vie dorate e gli orti,   E quindi il mar da lungi, e quindi il monte.   Lingua mortai non dice  Ouel eh’ io sentiva in seno.   E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima,  in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici  versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita,  amata un’altra Natura; l’immensa Natura, verso la  quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima è  lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica dolcezza:    interminati   Spazi di là da quella, e sovrumani  Silenzi, e profondissima quiete   .... ove per poco  Il cor non si spaura. E come il vento  Odo stormir tra queste piante, io quello  Infinito silenzio a questa voce  Vo comparando; e mi sovvien l’eterno,   E le morte stagioni, e la presente  E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa  Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   Di questo momento mistico del Leopardi poco s’è  parlato; ed è momento di grande valore per la compren¬  sione della sua anima, che in quest’atteggiamento reli¬  gioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua    indomita soggettività e la realtà onnipotente e infinita,  in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in  una situazione idillica che, riportando l’individuo alla  natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice,  di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi al¬  l’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e  r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò,  com’egh stesso chiamò i primi pubblicati nel ’25-26,  risalenti al triennio 1819-21, e quelli posteriori, i grandi  idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore  errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più  potente espansione e della lirica più piena e felice del  Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia leopardiana.   Quando si legge la lettera del 6 marzo 1820 al Gior¬  dani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta  la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e  un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi  cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune  immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel  cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, do¬  mandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve  di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere com¬  mossi da questo prorompere di così alta vena mistica la  cui scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo  più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della can¬  zone Alla primavera:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’ar¬  cana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte,   Sovra un rialto, al margine d’un lago  Di taciturne piante incoronato.       Ivi, quando il meriggio in ciel si volve.   La sua tranquilla imago il sol dipinge.   Ed erba o foglia non si crolla al vento;   E non onda incresparsi, e non cicala  Strider, né batter peima augello in ramo,   Né farfalla ronzar, né voce o moto  Da presso né da lunge odi né vedi.   Tien quelle rive altissima quiete;   Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio  Sedendo immoto; e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le coramova, e lor quiete antica  Co' silenzi del loco si confonda.   Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur  così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo  sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata  poesia :   Forse s'avess’ io l’ale  Da volar su le nubi,   E noverar le stelle ad una ad una,   O come il tuono errar di giogo in giogo.   Più felice sarei....   Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi  libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a  differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra  l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la  mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia  riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si  appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la  felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬  quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile  intrigo, in una fatica vana senza speranza.   Tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto  mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.  Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che    gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della  casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti  azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi,  né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che  dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna,  finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la  valle, mentre   Primavera d’intorno   Brilla nciraria, e per li campi esulta.   Si ch’a mirarla intenerisce il core.   L'uccellino non si tormenta col pensiero della gio¬  vinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché  di natura è frutto ogni sua vaghezza e in lei non è affanno :  e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che aduna  nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare  l’aria e esultare le campagne.   Anche uomini di alto intelletto, come Gino Capponi,  han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel suo con¬  cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬  zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬  pere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle  Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice  era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e  riusciva ad essere Leopardi. Come se non fosse questo  il significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente  del suo irresistibile incanto ! Leopardi lo sapeva bene,  e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri  annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita,  e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo !  Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore  cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta  facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva  egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano  intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza?  Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare  della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così,  a far la più alta prova del suo potere dentro il genio  dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova  se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua vita:  quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate  larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere  e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al  regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre  questa sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente  l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza  e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad  amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti  parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore  in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto  dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento  del proprio valore, quale si svela al contatto di quella  natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò  deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio  essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.   Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua  poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza  che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti  della vita amano non meno per il lucido specchio che  essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso  i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni  disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti  o ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi  di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore  parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono  per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria inne-    gabile della vita e della non meno innegabile azione dello  spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede  per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per  gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in  cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò  faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto :  anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì  non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia  frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme  la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze il 6 aprile 1938 e  pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di J. De  Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di  Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande  poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di  questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto  che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto  falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole.  Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬  nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che  ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e  affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che  pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,  e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia  quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone  degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.  Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia,  un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno !  Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza  e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita  spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma  la propria fede e la oppone ad ogni più meditata dottrina  che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati  interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto  d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le  altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si  svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬  sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia  tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del  suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬  dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli    15. — Gbntilb, Manzoni e Leopardi.    individui e le opere loro, perché con la ragione sovrana  prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte  al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬  dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle  sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede;  e insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene  così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza  della sua personalità se a misurarla non adotti un metro  diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inu¬  mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guar¬  darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere  i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto  in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è  grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che  in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del  poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma  non lo guarda mai in faccia.   Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta !  C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psico¬  logo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere  di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah,  per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requi¬  siti più elementari del mestiere che esercitano, non al¬  zano mai gli occhi verso il padrone, per entrargli nel¬  l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla, parte¬  ciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!   Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto  tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non con¬  fondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬  riore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può  concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile  degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti  occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬  riosi, così opachi, così grevi; — e negh angoh della bocca  il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che  la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬  santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.   Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto  volteriano, come questa che è nello Zibaldone, sotto la  data del 7 novembre 1820: «L’apice del sapere umano e  della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità  se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a  correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter  l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato  s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬  mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla  filosofia ». Osservazione che ama ripetere il 21 maggio  1823, dandola come un «suo principio»: «La sommità  della sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà,  e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non  fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il  suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto  umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in  cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida  forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi  delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo  di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si  ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bi¬  sogna filosofare ».   Nei Paralipomeni degli ultimi anni, anzi  degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà;   Non è filosofia se non un'arte  La qual di ciò che l'uomo è risoluto  Di creder circa a qualsivoglia parte.   Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto.   Le ragioni assegnando empie le carte  O le orecchie talor per instituto  Con più d'ingegno o men, giusta il potere  Che il maestro o l'autor si trova avere.    Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬  pardi chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei  Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca.  Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando  che il Petrarca continua; Dice la turba al vii guadagno  intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si  ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen-  sier suo in questo modo:   Quella filosofia dico che impera  Nel secol nostro senza guerra alcuna,   E che con guerra più o men leggera  Ebbe negli altri non minor fortuna,   Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera  La mia mente oso dir, portò ciascuna  Facoltà nostra a quelle cime il passo  Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso.   La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è quella  teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬  listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanti¬  cismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni  filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica,  presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana per¬  ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬  bera mente, proveniente, come pur quivi si dice,   da quella   Forma di ragionar diritta e sana  Ch’a priori in iscola ancor s'appella,   Appo cui ciascun’altra oggi par vana.   La qual per certo alcun principio pone  E tutto l'altro poi a quel piega e compone;   cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente  dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da  un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è com¬  battuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬  tore par vera. Neanche si può dire quel che dice il Man-    zoni degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue  forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi  avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro  filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere  la sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli  propriamente professa di averne due. Dico cU più: senza  r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia  di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare,  e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una  filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedan¬  teria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e  non guardano in faccia.   Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una critica  che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno,  tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però  della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-  mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è  nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta  ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma  negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e  vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sen¬  sibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì,  nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo  ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede  o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente  della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette  morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazio¬  nario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e  per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e  cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata,  che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,  una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume  verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse    partecipano e da cui traggono il loro significato vivente,  sono pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente,  ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto.   Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho  accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu-  rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e  che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì  del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua filosofia.  E in questa filosofia superiore che è negazione della ne¬  gazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da  Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non bisogna filosofare; in questa  filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella  che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della  filosofia, giudicata inutile anzi dannosa.   Lo stesso Leopardi, teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la  chiama, nello Zibaldone (7 giugno 1820), «ultrafilosofia»:  una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle  cose, ci ravvicini alla natura » : filosofia naturale, spon¬  tanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova  nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo da  capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della filosofia leopardiana contro la pretensiosa  filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingan¬  nano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle  opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano  allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più  degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello  solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste  cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e  moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti    sono infelici; gli ha concesso la necessità della nostra  miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e picco¬  lezza della specie umana, e la naturale malvagità degli  uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi  la sostanza di tutta la filosofia; ma deplora egh che tali  verità vengano divulgate col solo frutto di spogliare gli  uomini della stima di se medesimi («primo fondamento  della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh  dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, « quelle verità che sono la sostanza di tutta la  filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli  uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuo¬  cere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo ». Dunque, non bisogna filosofare, come  s’ è detto.   Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente  è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non  fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima conclusione non vi s im¬  para se non alle proprie spese, e imparata che sia, non  si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli  uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi  più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ».   Non si può mettere in opera. Il che significa che  rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò  la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa  o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella  che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi  resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado,  quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia  una verità certamente più umana e degna dell’uomo,  diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che  si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto  ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa  della filosofia superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda natura,  che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà  mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi  dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino  alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non  contraddire alle verità via via accertate e sempre più  strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile  sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬  bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre  verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale  a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere  il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primi¬  tiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovi¬  nezza ignara e fidente. L’uomo Leopardi non può non  filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla se¬  conda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha  perduto.   Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo  averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo  e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo  un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le  amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della  virtù chi abbia una volta bevuto al calice del bene e  del male.   Chi distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o  forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il  male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi),  e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini  vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è,  ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che  ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo,  e in forma più palese e più sistematicamente determinata,  almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza  che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme  dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande  quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della  sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬  gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione,  anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella  vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata  nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano  col mito delle origini della umanità governate dall’amore  e finiscono nella conclusione di Eleandro : « Se ne’ miei  scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo  dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro  [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare  con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli  stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio  di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è  fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza  d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di  costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle  opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili,  forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e pri¬  vato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,  che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo;  e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari.  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia ». E più  tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Por¬  firio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge  della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto  al fondo della disperazione della sua vita senz’amore.  Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che risuona  in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certa¬  mente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto  prosaico della poesia leopardiana; voglio dire a tutto  quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di quella filosofia secolo XVIII  che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espres¬  samente essa viene esaltata, non impedisce al Leopardi  di uscire in quel famoso grido del cuore (V, 47):   Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta  Lo spirto mio.   Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica un  empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che  in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il  quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze  imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta,  e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui  è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione  al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,  e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere  ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo  stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà  e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,  altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione  ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa  realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo  spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti  e particelle che si condizionano a vicenda in guisa che  ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre;  in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade,  è fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni  vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso  del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel  cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’igno¬  ranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche  il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal  falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favo¬  leggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle  tempeste della natura.   La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,  perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a  ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione,  scelta, libertà). Un mistero.   Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che  essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se  cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la ve¬  rità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per  l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo,  nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione  invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la ve¬  rità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possi¬  bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità.   Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che  nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬  dizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per  negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore.  Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che  troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è  naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito  reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi  al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione.  E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto,  che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso  angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non  s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione  di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con  cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina  fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza  e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza  umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e  infinita potenza.   Qui l’anima del Leopardi, qui il fascino deUa sua  poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale  dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che  annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a  proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo  qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo  senso profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno,  che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno di  respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬  cibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬  focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode,  di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il  fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬  taro:  e la tiranna   Tua destra, allor che vincitrice il grava.   Indomito scrollando si pompeggia.   Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride.   Ora è la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea  alla infinita beltà di questa, consapevole del prode ingegno  che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie virili  imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può  vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo  indegno ricevuto da natura, primo principio della sua  infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del  cieco dispensator de’ casi ».   Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi.   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato. La man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir, com’usa   Per antica viltà l’umana gente;   Ogni vana speranza onde consola  Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto  Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento  anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬  zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,  della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun  danno impera ».   Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura mi¬  steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente  oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più  modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio  d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli  è davanti e lo attrae. E allora il Leopardi ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo  dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata  di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a sé  il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza,  nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,  dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce  gusto dell’eterno:   Co.sì tra questa   Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare;   de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe   A pensar come tutto al mondo passa  e quasi orma non lascia;   e il suono delle umane glorie e degl’ imperi più famosi  cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte  al suo povero ostello poiché la festa è finita:   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  Il mondo;   e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva divenutagli familiare:   ed alla tarda notte  Un canto che s’udia per li .sentieri  Lontanando morire a poco a poco...;   de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne  piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le commova, e lor quiete antica  Co’ silenzi del loco si confonda.   Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il tre¬  pido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto  Alla primavera, 0 delle favole antiche:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Gior¬  dani del marzo 1821, che convien rileggere: «Poche sere  addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia  stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna,  e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano  da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche,  e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi  a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto  tempo ».   A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando  il Leopardi annota nello Zibaldone che  « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,  ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della  sua nota, della FILOSOFIA inferiore. Egli stesso ha il pensiero  a una diversa filosofia quando, sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi  si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di  rado l’afferrano con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto  della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬  timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni,  situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto  il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si con¬  tenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura  o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della  piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale  non s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato  la natura, e non ha spiegato e si mette in condizioni  di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a  dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita  umana. L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬  blema della natura, e senza del quale {pertanto il pro¬  blema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella  mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia  nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù  del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo  valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire  la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna  cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬  noscere e interamente comprendere e fortemente sentire  la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del  cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa,  è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace  alla natura, e può non temere la morte, e può, come la  ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino  alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una  forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio,  che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco  savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio  tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non  c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre  filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano  robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬  lettualismo.  La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta, come  s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è  poi altro propriamente che la sua personalità, il suo modo  di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù  che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo i  palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia,  il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;   Non l’annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la  stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la  determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole,  nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-  mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che  l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica  e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci  quei camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti,  pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di scrivere;  non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti  Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa parola  cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il  Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla  a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e  sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate  non possono essere pel critico altro che accenni, spie  dell’anima del filosofo. La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella  che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega  tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e  non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente  nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad  averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato  di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa  conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui  lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel colore  che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la  sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia  d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della  filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del  cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove  la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il  suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Leopardi – 1150 – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” --  Importante esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione della propria eredità.  Dopo un primo progetto di nozze andato a monte, sposò nel 1797 la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di famiglia dei Leopardi, nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese, come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".  L'impegno civico  Angolo della biblioteca di palazzo Leopardi negli anni Cinquanta, con i ritratti di Monaldo, Adelaide e Giacomo  Il medico e naturalista britannico Edward Jenner La sua opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.  Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali.  Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di "retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe seguito.  Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale»  Morì il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo:  «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.»  Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.  Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità.  Rimasero inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua Autobiografia: in quest'ultima la prosa di Monaldo si arricchisce di leggerezza, ironia e umorismo.  Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su Recanati, coltivati in gioventù.  Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio  ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo.  La lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani.  «Mio Signor Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.»  Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di Monaldo è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Giovan Pietro Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con l'amico Giuseppe Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.»  In toni decisamente più miti ne scrive poi a Monaldo il 28:  «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.»  Nelle ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera).  Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora evidente nel 1845, otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna Brighenti:  «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»  Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento nel 1839, alla settima volontà scrisse:  «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo...»   Manetti, Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti, del 1998.  Monaldo Leopardi, di Sandro Petrucci  Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo.  Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,  (L'ultimo amico del poeta narra di un suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi, Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede&Cultura, 2006 Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis, 2004 Nicola Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il bicentenario del trattato di Tolentino,  n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi.  Monaldo Leopardi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Ferretti, Monaldo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Nicola Del Corno, Monaldo Leopardi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi anti-italiano. che dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo, questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello?  LA CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer. Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti , e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”. Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo, bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo. come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi  Cer. Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo di ranocchie e niente di più.  questa è una cosa da nulla, ed è più facile preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer. Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto dal popolo, perchèchipuòfarepuòguastare, ed è più facile sbalzare dal trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza , e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della giustizia. Gov. Benissimo.  Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i vostri comandi . Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà,ac . compagnandolo con le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi scacciare il re con tutta la sua maestà e la  Gov. Benissimo. Fil.Siccome poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestitodareperserviredipassatempoalpo polo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”. Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di paglia potrebbe servire nello stesso modo.  La Filosofia. Chi siete, e cosa volete? La Giustizia. Io sono la Giustiziaedoman do di essere ammessa nella vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p  La Filosofia , il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli.   posta per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròinverecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause , quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e puniti.  102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al mondo,esostenendochesioperaperlagiu stizia.Se però qualcbe volta vi troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto , falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto , e coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo   loro , e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragioneall'uomoindifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro , e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti , ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iqualidesiderano,che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando laGiustizia non ha da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete, un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali, i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re , distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi    Giu . H o capito tullo benissimo , e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio ; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche 105  1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni.   Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja , intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno , e il mondo non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione uguale ?  106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in mira di spogliare iricchi,i signori   e i benestanti; e di arricchire i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino, e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer. Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca pito,signora Proprietà ?   Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne; e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil.Messo in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato , e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e i ministri del governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono vera  108   mente affezionati allo Stato, daranno mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola , e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto, acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuoeilbisognodelloStatonon dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni assordiranno l'a ria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa - tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi , ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta, con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie , pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi , e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi , e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori, e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra mantenereillivellamentoso ciale. Fil.Sicuramente;equantunque l'artifi zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste cose dai raccomandatori perpetuidellafilosofia.Udite. mi , siguor Cervello, e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà , e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti , aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della ple be2,perchè monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti , rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e la buona morale , il deside rio dell'ordine , l'altaccamento al governo e la considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo,sovvertirel'ordine,distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della nazione.Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio dire quando lulli isignori saranno spiantati ; quando le famiglie patrizie e le classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni ; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma  Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà , non potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà è in opposizionecon gli ordinamenti della natura.  sfasciata da capo a fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai secoli suc- cessivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà.  La Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome , ma bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di corrom pere tulle le cose buone , perchè questi due cbe si avanzano hanno la cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiilregnodella Filosofia.Ve nite avanti , signori , facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà.  L'Ins. Parlate pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi è quella appunto con cui si olliene   Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi , letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia, e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina? la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti, e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che dalla natura, dallalorocondizionee. dagliordinamentiso. ciali sono destinati a trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol lorosapereallasocietà;ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli altri.   rivare alla diffusione generale dei lumi,e al l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumiedellaciviltà,cosìècertachelapro pagazione smoderala dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà.   L'Inc. Orsù , non perdiamo più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano inse goateapreferenza,equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil.Quanto allescienze, generalmentepar:   L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che trattanoscopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive lusingando  > > . 120 lando , potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la v e rilà e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli dell'uomo , le quali scien . zc adoperate dalla filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitarelospiritodellale. merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco;purchè viriescad'imbrogliare la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu l'opera di un esserenecessario,ovverouscì dai vorlicidelcaso,comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi , oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca ,queslo purenon importa niente,purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla affallo non solamente dalle scuole,madatuttoilcommercio letterario sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi, per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la rigenerazione filosofioa , o voglia mo direl'assassiniodelmondo.Alloraandate a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e l'esercizio della lingua latina sono mollissime,mavenericorderòdue princi pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili, commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem proximi sui.Insecondoluogoènecessarioap  e punto l'uso di una lingua morta per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi ,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda , allerale dal mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso , si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto , perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli. E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei padri e dei dottori , e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa,einsecondo luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso l'ultima sua rovina.  Cer. Questo certamente è stato un passo falso carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della filosofia e i danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo   indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare , giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni e le c a u se si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la  per i Cer. E quali sono queste ragioni? tino , e dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere, voi signor Josegnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno dellafilosofiahadaessereilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e   L'Inc. Ho capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.  127 sistevanell'onesláenelpudore;maoggique ste cose non servono , e al più si deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e il diletto delle più colle e delle più civili società.  L'Inc.Hocapito tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae il Cullo. Fil.Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la diffusione dei lumi e della civillà.    abitata dagli orsi sarebbe meglio di una città regolataconquestiprincipieconqueste leggi. Fil. Non lo conosco neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ?  Fil. Voi vi ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue abitudini di una volla,enon glidaràl'animodivederelecose con altri occhiali che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di meglio, bisognerà contentarsi di questo , e verrò provisoriamente al vostro servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere,eliboportatididiversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci libertà amplissima per tutti i culti. Cer.Come!nelvostropaesevoleleammel terci tolti i culii ? Cer.Perchèlaveritàèunasola,emet terla del pari con l'errore è lo stesso che ri pudiarla. IlCullo consiste nel professare una religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo cullo può essere sauto e gralo a Dio , e lulli gli altri devono essere allrellanle imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà , che la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza , e che una città dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o  Fil.Giàsisa,olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?   trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare , e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua. Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia ci è il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco , e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu dizio.  Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro. Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile , o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p   Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ?   Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana . Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta.  Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti , portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare li  137 e per ultimo Cat.Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e  beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede e il culto cattolico? e  perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio , non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi , consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle nuvole e non  1 $   Fil. E non contate per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà , forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe, epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio. Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat. tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranitàpopolareinqualitàdisi gnora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle. La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello, la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. – the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lettieri – implicature – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice: “I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on ‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani,  Gioberti e Galluppi.   Saggi: “Il sensualismo” Dissertazione (Messina, Capra); “La fisiologia calunniata di materialismo” (Messina, Nobolo); “La potenza del pensiero” (Palermo, Console); “Etica e diritto naturale” (Messina, Amico); “L’intuito: dialogo filosofico” (Messina, Arena); “L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico); “Introduzione alla filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of ‘rational’ right!” (Messina, Amico); “La cognizione del dovere -- poche nozioni dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico); “Ricordi storici intorno al movimento filosofico in Sicilia” (Messina, Amico); “L’uomo” Pensieri” (Messina, Amico); Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality – solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on ‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he belong to her!” –  Antonio Catara Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Liberatore – implicatura – L’ULIVO DELLA PACE -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Grice: “One could write a whole dissertation – especially in Italy: their erudition has no bounds – about Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo d’olivo’ = pace. It’s so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but did the Phyrgians know? And if Mars is often represented wearing an olive wreath, one would not think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian commander about that!”  Grice: “I like Liberatore – a systematic philosopher, as I am! His logic has the expected discussion on ‘sign.’ A conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace – as opposed to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note that in Noah’s days, the signification of the dove was ALSO natural – although not strictly ‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies fire, as every actor knows!”  “Ma il difetto molto comune degli Economisti è il mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.”Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiese di far parte della Compagnia di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo, dalle pagine del quale veniva sostenuta una strenua battaglia in favore del brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere Aquino. Uno degli estensori dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e l'ontologismo, così come le idee del Rosmini. Sostenne che il brigantaggio fu la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della Chiesa e studioso dei problemi della vita cristiana, delle relazioni tra Chiesa e stato, tra la morale e la vita sociale.  I filosofi della sua scuola mettono in evidenza a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del mondo, la semplicità ed eleganza dello stile.  All'inizio Professore era giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi tempi. Si riteneva che vivesse santamente, e si scorgeva in lui un profondo spirito religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico. Saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in particolare:  “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae” (Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli); “Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa” (Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli); “Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae” (Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di Alighieri”; In Omaggio a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini); “Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente” (Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Rosmini-Serbati” (Roma); “Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano.  Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli articoli della "Civiltà Cattolica"  introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La "cupa scia" del Sillabo  V. Nardini, Manca di verità e si oppone ad Aquino la soluzione di un alto problema metafisico abbracciata da Liberatore” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà cattolica:, antologia G. Rosa,  [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G. Mellinato, Carteggio inedito Liberatore Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma, Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo, Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, in Rivista di filosofia neo-scolastica, Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Giuseppe Rossini-Serbati, Roma G. Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica", Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae,  Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci, Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e il brigantaggio. Segno è generalmente tutto ciò, che alla potenza conoscitiva rappresenta alcuna cosa,da se distinta. Perciò tal denominazione ben si addice al concetto, il quale esprime al vivo e rappresenta alla mente l'obbietto, intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo; e per pale sarsi di fuora habi sogno di un segno esterno. Questo segno esterno consiste ne' voicaboli; I quali tra tutti I segni ottennero la preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le cioè il vocabolo, convengono tra loronella generica ragione di segno.Ma sidifferenziano grandemente nella ragione specifica. I m perocchè, primieramente il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno convenzionale. Dicesi segno naturale quello,che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di un'altra cosa; come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente ogni effetto, riguardo alla causa. Dicesi segno convenzionale quello, che arbitrariamente o per patto vien destinato a dinotare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per 3.° il termine orale, benchè prossimamente signifi chi il concetto, non dimeno mediante il concetto significa lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da chi parla è ad operato per dinotare il concetto non subbiettivamente ma obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita; ne segue che, quanto alla significazione, esso si confonde quasi col concetto, dicuiè come la veste e l'esterna apparizione. E però la Logica a buon diritto tratta per Ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto; e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresental'obbietto, essendo ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno istrumentale. Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo permenarci alla conoscenza della cosa significala, ha mestieri d'esser prima dạ noi compreso. E pero appartiene a quel genere di se gni ,a cui può applicarsi la seguente definizione. Segno è ciò che, conosciuto, adduce alla conoscenza di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza bisogno d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente , ci mena alla conoscenza del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta mente percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si con sidericheilconcettononpuòpercepirsi, senon percognizione riflessa e pel ritorno della mente sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta cognizione, non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa diversa dal medesimo. A dinotare per tanto una tal differenza, venne intro dotta la distinzione del segno formale e del segno istrumentale Viene in quarto luogo l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad altrui gl’interni con cepimenti dell'animo.L'apalisi de'vocaboli è ordinariamente un grande aiuto allo spirilo per rischiarare le idee,merce chè essi sovente tengon Chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si arroghino più di quello che loro di ragion si compele, e tentino non di essere esaminali e giudicali dall'intellello, ma manciparselo e deltargli legge acapriccio. Per quattro maniere principalmente i vocaboli introducono falsi concetti nell'animo. Prima per la loro ambiguità e confusione. Imperocchè ci ha delle voci d'incerto significato, le quali han bisogno d'esser delermi. nale nel senso in cui si tolgono, altrimenti ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon poi fallaci giudizii. Tale è a cagion d'esempio la voce natura,laquale suol pren dersiadesprimereor l'essenza di una cosa, or il mondosen sibile; or l'autore dell'universo, or lull'altro a lalento di co foi chel'usa. Parimente le idee significate pe' vocaboli sovente sono assai complesse e complicate;e pero ove non bene sirisolvanoperviad'analisine’loroelementi,son cagioneche siformiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i vocaboli vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii della immaginativa, o semplici astrazioni dell'animo; come la voce “cecità” , “fortuna”, “centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere che nel modo onde sou concepite. Terzamente, i vocaboli delle cose immateriali son formati d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi avviene che talora si confondano le une cogli altri. In quarto luogo, ne'nomi derivati sebbene spesso l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso in che comunemente si prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual caso per mancanza di allenzione può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A queste cause può aggiugnersi la novità de'vocaboli di che taluni stranamente si piacciono, e l'uso incostante che fanno di quelli stessi che fuor di ragione introdussero .La filosofia per quanto può nell'ad operare il linguaggio non deve scostarsi dall’uso comune, nè cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute o da sè stessa una volta determinate. Da ultimo, una indebita applicazione de'mezzi di conoscenza è radice mal nal ad'errore. Accadeciò in prima dal non bene distinguere con quali facoltà debba l'oggetto concepirsi; come a cagion d'esempio in chi con la fantasia volesse comprender ciò che allrimenti non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più alla vivacità e felicità della rappresentanza, che alla fermezza del motivo che spinge all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono l'animo più di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma più salde per forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii senza prima considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e le condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de'sensi, lo scambiarsi per i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali richiede la  conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est, ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media signa quaedam sunt. Sic enim nominan tur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive voluntate sunt instituta. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et affectus animi patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria, gemitus, nutus, sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem facilitate, perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria est. Quam quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius commovere, propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob oculos. Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate conceptus, vi autem conceptuum ipsa ob iecta significari. Ad originem sermonis quod spectat, nemini dubium est quin , etsi vis loquendi ingenita nobis sit, verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias philosophi distrahuntur. Nonnulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo : ad absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis, atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad commonstratam rem significandam libere determinaret? Expressis autem rebus sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus, propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile potuissent. At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto loquimur, rem aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem sufficeret ad domesticam societatem , in qua ille conditus est, retinendam. Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi principium et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae, sine actuali copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere requirebantur? Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum tractarunt, huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo inventio esset humana, singulae familiae, quae diversis populis originem dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepan tem creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens capit, permulta fabulati sunt philosophi quidam, in primisque Condillachius. Putarunt enim illum esse necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas generales efformari posse. Quin etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam intelligentiam non nisi ex usu loquelae progigni. At enim haec esse ridicula optimus quisque iudicabit, modo cogitet non posse loquendi usum concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur. Non enim quia loquimur intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur. Unde bruta, quia intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur. Quod si intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti viribus ad ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin id circo sermo velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius erit in Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa sensibilia in imagioatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus vocabulis scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in hominem proficiscuntur; ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento ponuntur, et animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi quod attinet, sermo sit perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua obscurior sententia fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius, ubi inquit brevitatem appellanda messe cum verbum nullum redundat, velcum tantum verborum est, quantum necesse est 1.  ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA DELL'ISTORIA ANTICA E DEGLI AUTORI GRECI E LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI MITOLOGICHE   SLIEHE HE KOS WIEN HOFBIBLION KA  1 eeeeeeeeexe erele cele ; egli Ateniesi lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra ta presso i romani, i quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche fosse in Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte restano ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da Vespasiano. Scrive Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel tempio della pace le ricche spoglie, che aveano levate al tempio di Gerusalemme. In questa tempio della Pace si adunavano quelli che professavano le belle arti per disputervi sopra le loro prerogative, acciocchè alla presenza della dea restasse bandita qualsi voglia asprezza pelle loro dispute. Questotem. pio fu rovinato da un incendio al tempo dell'imperator COMMODO. Presso i greci la Pace veniva rappresentata in questa maniera. Una dono aportava sulla mano il dio Pluto fanciullo. Presso I Romani poi si trova per ordinari o rappresentata la Pace con un ramo di ulivo PACIFERA. In una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene chiamata “pacifera”; e in una di Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o quella che porta la pace, PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto, essendosi ricoperato a Cuma città greca, i Persiani non mancarono di mandare a di mandarlo, acciocchè loro fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo .  dea P Pace. I Greci e di Romani onoravano la Pace come una gran qualche volta colle ali, tenendo un caduceo, e con un serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia, el'ulivo è il simbolo della Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore, per additare la negoziazione, da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di Antonino Pio tiene in una mano un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad alcu di scudi,e corazze, j   PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re dell'isola d'Eubea, coman daya gli Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece molto stimare per la sua prudenza, pel suo coraggio, e de sperienza nell'arte militare; e dicono che insegnasse ai Greci il formare i battagliopi, e lo schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione di dar la parola delle sentipeļle, quel la di molti giuochi, come dei dadi e degli scacchi, per servire di trat tenimento ugualmente all'ufficiale e al soldato nella noja di up lungo assedio. ΡΑ 1 CHE tott an que 9 be 8Q CO 32 ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per sapere come doveano contenersi; el'oracolo rispose, che lo consegnassero. Aristodico, uno dei principali della città, il quale non era di questo parere, ottenne col suo credito, che si mandasse un' altra volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso si fece mettere nel numero dei deputati. L'oracolo non diede altra risposta, che quella avea data prima. Poco sod disfatto Aristodico, penso nel passeggi. The branch of ‘ulivo’ is represented in the reverse of a coin of Antonius Pius --. Matteo Liberatore. “Segno e cio che, conosciuto, adduce alla conosence di un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Liceti – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo). Filosofo italiano. Grice: “Liceti is a fascinating philosopher; must say my favourite of his oeuvre is “Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old Egyptian priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice once wondered what the good of a piece of philosophy is without ‘illustrations;’ surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di Cremonini. Nacque prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si faceva per far schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per compiere e approfondire gli studi legati alla filosofia. Insegna a Pisa. Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati”  (oggi Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti).  Quando comparve in cielo una cometa, si riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova  ma questa volta le difese della teoria aristotelica furono assunte dal Liceti ed il compito di attaccarla, partito ormai Galileo, fu assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica, Gloriosi, che se la prese appunto col Liceti. Questi rispose pubblicando un suo De novis astris et cometis, in cui, oltre a difendere Aristotele, critica i moderni scienziati, tra i quali anche Galileo, ma con espressioni molto rispettose e lusinghiere. A questo scritto Galileo fece rispondere dal suo amico Guiducci col Discorso sulle comete.»  Srisse numerose opere di filosofia, tra le quali “De monstruorum causis, natura et differentiis”,  (Padova), con aggiunte di G. Blaes, nei quali riprese le soluzioni aristoteliche sul problema delle anomalie genetiche, e “De spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione spontanea degli animali inferiori.  Altri testi importanti per la ricerca furono “De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardus, e la “Silloge Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium>” Trattò inoltre la questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae disputationes” Le sue opere furono chiaramente ispirate ad Aristotele, in particolare gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta in contrasto con Galilei, specialmente per quanto riguarda la struttura dei cieli e della Luna, che Liceti considerava una sfera perfetta e trasparente la cui luminosità non era un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo interno.Al centro di questo dissenso cosmologico, c'era, infatti, il tentativo di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di Bologna, che Liceti considera un frammento di materia lunare. Alcuni scritti del Liceti rimasero inediti a causa delle ampie discussioni riportate sulle novità astronomiche del XVII secolo. Nella congerie immensa dei suoi scritti e commenti va notata la difesa della pietas d'Aristotele; quella pietas così vivacemente messa in forse alcuni anni più tardi dal platonicissimo cappuccino Valeriano Magno, che tacciò d'ateismo il sistema dello Stagirita. Il Liceto invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga Deum et homines», e nell'opera sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium auditui durae, salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures accommodantur, illaeso genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua si compiace del distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, Licetus Doctorem purgat. Numquid uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte resero omaggio al filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita dallo scultore padovano Rizzi. A Rapallo, sua città natale, vi è dedicata una via nel centro storico. Gli è stato dedicato il cratere “Licetus” sulla Luna.  Saggi: “De centro et circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum caelestium disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Domenico Amadio, Francesco Bolzetta Encyclopaedia ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patauii, Gaspare Crivellari“Allegoria peripatetica de generatione, amicitia, et privatione in aristotelicum aenigma elia lelia crispis. Ad aram lemniam Dosiadae, poëtae vetustissimi et obscurissimi, encyclopaedia, Parisiis: apud C. Cottard “Ad Syringam publilianam encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim Encyclopaedia Genuensis philosophi, ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et circumferentia, Vtini, Nicola Schiratti, “De luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus, siue De lapide Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente claro mox in tenebris mire conservante, Vtini,  Schiratti, “Ad alas amoris diuini a Simmia Rhodio compactas, Patavii, Giulio Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope coniunctiones, “Hieroglyphica, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae peripateticae disputationes, Vtini,  Schiratti, Ad syringam a Theocrito Syracusio compactam et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità, metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia,   Milano, Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Caspar Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni Batavorum, Jean Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, LPombaiae Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria I et II, Hafniae (lettere); Vesling, Observationes anatomicae et epistolae medicae, Hafniae, lettere al Liceti; Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio Bolognese, Bologna ad ind.; Edizione nazionale delle opere di Galilei, Firenze  ad indices; Acta nationis Germanicae artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti, AGamba, Padova, ad ind.; Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A: verbali delle adunanze, Gamba,  Rossetti, Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan, Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” IBologna, Favaro, Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di  dello Studio di Padova, I, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, in Rivista di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina, Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima incubatrice per prematuri, in Minerva medica varia, G. Boffito, Battaglia di marche tipografiche di  Bella e l'ultima memoria scientifica dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di Liceti, in Genova. Rivista mensile del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'ultima opera di Liceti in un manoscritto inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in Studia Patavina, Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti dell'insegnamento medico presso l'Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro, Contributi alla biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis, Ongaro, L'opera medica di Liceti, in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro, La generazione e il "moto" del sangue nel pensiero di Liceti, in Castalia,Rizza, Peiresc e l'Italia, Torino A. Simili, Una dedica autografa di Galilei a Liceti e il clima delle loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa, Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio con Galilei, in Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi di Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De Terra" di Liceti, Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto dell'aristotelismo nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo, Berti, Galileo e l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina, Ongaro, Atomismo e aristotelismo nel pensiero medico-biologico di Liceti, in Scienza e cultura, Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli studi antiquari in Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, Liceti e la scienza dei mostri in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di storia della medicina, Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum reconditis": il capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con particolare riguardo agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso, "Fortasse licebit". La marca tipografica di Schiratti e l'impresa accademica di Liceti, in Quaderni Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del condotto pancreatico, in Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti substantia" di Ferchio fra tradizione e innovazione, in Galileo e la cultura padovana, Santinello, Padova, Kristeller, Iter Italicum, I-VI, ad indices. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere, De Agostini, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Al von Ruff. Fortunio Liceti. Beerbohm: “Send me a letter; I live in Rapallo.” “How should I address it.” “Beerbohm, Rapallo” “Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico Fortunio Liceti, Rapallo” – “Statua a Fortunio Liceti da Rizzi, Spinelli Roccaforte, Padova xstril.minnstiiiUAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatiainquatuor libros Dehis, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1, in quo eaptobatiffimisautonbusaf feruntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab omni obo .potuque abftmuere. Abttincntiae vana: intra fepumam diem conclu- .ffaec. Caputprimum. Abfimenu, a iepfmoad decimum diem extenfj. Abftmentixi decimo ad vigefiraumdieraprotc- fe.cap.£. Abftinentij ad menfem produAfe. cap.4. Abttincntiae a primo ad tertium menfem produ- . Ax.cap.J. Iehmium populorum Lucomonaead quinque me .'des quotannis mire produftum. cap.d. Abftinentia Oftimeftns in muliete Patauina. c.7. Abftinentia pueli* Tufer ad feitumdecunum- Spiritusnonaliaere.Aerem in mitto viuente non ali aere intrinlecus quoraodocunqucattraAo.cap.7. lenem in mitto non abfumerc acrcm.Partes animalis 4 przdommio aereas non ali aere infpirato. nui) . . Aerem hunc, quem inffiramus, non efle alendo & creari c “ 'i*t. fpintus.cap. Ad nutricationem metaphoricam non femper cd- fequi veram ; 51 Rondelctij difficilis alfertio. Soluuntur argumenta.quibus. nititur pnor opinio, menfem protradla. Abftinentix ad duos annos produAx. Ablhncntix ad tres annos protenf*. cap.i«. Hiftoria puellae Spirenfis quadriennium abftinen- . tiscap.it. . - Abftinentt* a quarto ad duodecimum annum de- duAx.cap.11. Abftinenn* vitra duodecim annos longifiime pro duA* varia exempla.Abftinenti$diuturnaeincertotemporis fpatioad- ’ i' mentr.Difficultatem negotij nos retrahere non debere a propofito.Curante omnia oporteatnosaliorum dogmata de Chatnxleontcm,acViperasnonahaere propol i t c tpeudere. inqua omnesaliorum opiniones examinand* breui catalogo numerantur. tn quo examinantur (apientum vi rorum opiniones de natura , & caudis tam diu- turni lciumj. Prima opinio Argenteoj ,& aliorum cxiftimantiu abftmcntcs nomos nutriri aere inlpirato. Cancmlcucm, & Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici Clariflimt ex Augento, Si .M a nardo contendentis abftinentt* ncftrosalf odoribus,fle* exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua,&: primum often diturnon elfe in topi acre vaporem , ac cxhalationcm.cap.a». Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^ alimentum.Exhalationem non alere 1eiunantcs.Expenditurallataopiniodemonttrandoprimum Nonomnefapidu111alere. caloris aAionein humorem non elle conti- nuam ;caqueiugi,nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i. intus in animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non ali.Spmtus in viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt miftorum fpccits, prima ratio Arifiotchs aduerfus Pythagoricos c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio Anftotclis demonttrans odores n6 alere , quia per coAioncm a calore non podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera,(cd vnicum ottcnditurj nec ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem ml piratum pon efle miftum , nec adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata dogmata Galeni de eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, Ciceronis, ac Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo , qupd eft att:m alerem fpiritus,& calorem; & ad A rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori.ic Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs folartbus enutritis expendi tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfsT Omnealimentum,feuexternum,feuinternumco • coqui deberc,coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non poffe , vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo corpori omnino diflimilcm natu- ram obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris nec tenue, nec craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio Arillotelisoftcndcns odorem nonale requiacoftioneacalorenonincraffatur.cajt Quarta ratio, qua Ariftotcles probae odorem non Ci£,&quandopropemareambulantes falfura*. re fenrianr, & alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus agitatur.cap, j <S. Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente» nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli ta fententia confideratnr, ac Ari* ditur ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs,Galeni,&Auicennp cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc.Pvrauftas non ali exhalatione illi connmili crementoarugmeri fine ten^ imminutione, ca.7o. Plantae non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1.Argumentum duci non polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis.Quo fcnfu verum fit Quod ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam 116 efle fapidl c 5 t Exhalationem non efle odoriferam , & Allomos noneffe,quiodoribusnutriantur,quicqurdFici nusfenfcnt.cap.51. Democritum , Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis , non vt alimcn- tis.Animo delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam. effealendocorpori,quianonferaturadmem- Aquamcoflionenonfienfimilemalendocorpo- bra nutrimentis dicau.Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. J. Odor effe medicamentum , non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurarefponfionum dcraonftratiombus Antro telicisab Argcntcnoallatarum.cap.jp. Rclpondetur ad argumenta, quibbs nititur fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non ubique pntfto fuiffe ab- ftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn odore tciro afferam efle , lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non effe tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum alimenti, alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut & propterea non aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent; quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas ali,nec aquatdia. campf.tArfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammecaqueum.cap.d5i Aqua non reftmn quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem,5tlac;quxpluatpoftca. AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a calore non condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua ratione potuerit animalia pluere,ac fpeciatim vitulum,pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex animalium corporibus.Rorem non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit  adeo ex igno, Animatu quomodo conftituantnuurtriantur aqua_> & aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere alimentum. Hippocrati ; cui aqua cap.<8. Quod ex ciborum folidieofrleumaquam ;& quomodo bis in alimentum nonpondere reljxsndeant Hip- aflumptis excreta in quam Quomodo, alimentumnon alat mfi dJutumAri* inlpirarcdicunturabftinentes,necvtnfquerd6 llotcl1.cap.7t.miftumnutricationi. aptumac» Rhinuccmvcnto,&aere,autrorenonah.cap4(. lorcnoftr0.asl.oris,etfifummefr.igi.danon efle pofle genus ahmenti. Aquam non fieri . putantis abilincntes ali nec humore vt confumptionem tingat exungui ad humoris pociati : dequevmfu.lctaip.hdcyr. iccundc coctionis ex veneno fit, & Ariftoteli ve- ineflecaliduro c.7J. redicatur in aqua paucaluemndo idoneum.etfi ter- Aquam non efle nmoinftcuarmeat, alij fue excrementis, renis partibus ‘ HippocratTi'id.icatur potcntiori- Mulla quomodo folam potantes diutius vi- qua,&L.curaquamabltincntcs fi uant,qu.momnino , aqua nona- dicaturommumpotulcn Aqua Celfoqua rationenon alat cap-7d. torum imbrcilhma.li Quarta opinio Bopaiinnincaiti caloris fumrnam imbc- potuifli aquaob cilhtatcm. & oftcnditur neque Expenditur prupoiita opinio, allata lententia» fubflantia cedit no-  & Aquam moflratem Tolam non eiTe id,quo alantur. Fuffragante Hippocrate^cAriflotelc.cap. iox. Lupi fame vrgente cur terram comedani,fi ea non alumur.Serpentes etfi latentes non ali terra , & cu r terram comedere dicantur.Bufones terra non vefci communi ,& argumento non efle ad humanum alimentum demonflran- duin dKcaci. animantiaimbecillocalorepraedita,cap.80. Columbicurtunbslateribus,&rubricavcTcantur, Aquam notlratcm non continere milium , quod fi terra nonaluntur.cap.io4. futficiat fuftinendo calori exiguo, Elephas Ariftoteb quomodo lapidem vorer,ac ter A(Ira,&cauda;regentesmundumquid,&~quo- ram; devfuOpi)apudAfianos.abdinentescommemoratos,nequeabfolutcqui bus exilis calor incft.aqua lola diu viuerc, ac nu- triri potTe.Rclpondciur argumentis allatam opinionemco- niumcntibus;ac primum dilquimur an calor ex aqua fpintum gignat, collibeat , animet. cap-7p. modoinaquamagant.cap.8a. Aquahacfentiliquomodononnullanutriri dixe- rit Ariftotelcs. An inter plantarocunum aqua fola nutriatur, Cicadas excrementis non carere, nec rhintaccm. Cicadas non ali rorc-cap. 8rf. Rorem non efle aquam Gcco aflcftam ,vt eo nu- triente aquam dicas nutrire.Etfi ros alerct,non tamen ideo alere polTc aquam. Aquamfolamcalore digetlaranon degenerarein quoddamtertium,quodiitaluncntumplanta- E» fcrro.St lapide vi calcris^c fpiritus interni,nul Sitim^acfamemcl Teapetitumalimenti,vtobicdri, lumfuccuinalimentareuicducqnccrubiginiim quo fcnlu verum fit: non tamcu ideo aqua nu- alere.. tnet,quzinlitiexpetitur,Terra,&lapidesvtmiftafintjquamnoshabeamus Sapor, &fuauitasvtIitalimenticonditio,&aqua cumplantis fimilitudinem;&curvnitertiofi- rum.  t fapida, luaui Tjuc fit, etfi non alat, cap.p 1 . Quomodo Anflotcli pituita dicatur altrc permi- tia cum cibo puro, ablque eo quod aqua; vum tribuatalendi. Theophraflo quomodo plantae alantur aqua pura, quxverenonalit.Aqua etfi Galeno dicatur bilelccre, cur infangui- tur, non ideo cx cafblanutrietur.QuomodoAnflotcliaquadicatureilepotiusa-Sexta opiniododiillimiMediciopinantisteiunan- Cameluscurbibiturusfontempedeturbet; Stru- thiocamelusautemcurtcrram,ofla,lapides, ferrum comedat; an ca digerat fibi in alimcniu. Mures farios',& Armadillos ,Codertofquc Indi- cos non oflenderc abflincntibus noflris terram ceflblcinalimcntum Lacertum indicum no ait arenulis, aut lapillis, etfi ijsonuflum ventriculum gerat. Noii omne mutum humido pingui fcatcrc ; nec omne bumidum pingue alcrc.Homo terram edeus non alitur luto facto ex ter- ra,&Taliua/cupituitainventriculoexundante,  1  ncm,6d" in alimentum conucru nequeat. c-P4- queumquid, miltum quamaqua,&Jim- , plex cap.pf. Quomodo inaqua gigni polfint Arifloteli (lirpes, 6t animalia, cui tamenaqua non alu.Vrricam marinam non ali aqua lola. Quinta opimo Clanfiimi viri putantis abtfinentes commemoratos ab terra clanddlmc comcla. tesnoflrosaciboquidemomniabflinuifle;at vmi potione vfosj vnde alimentum fibi compa- raucrint. Examinatur allata fentenna oflendendo abflinen- tcs noflros non vlbs , nec enutritos funlcvmo; folumque vinum alere no pofie partes corpons folidiores; nec fuificere ad alimentum multo tempore. Expenditurallatafententia,oflcnditurqucprimu Occurriturargumentisprobantibusabflinentcs abflinentcs noflros terra,& calce non enutritos, cap 99- Terram,& calcem nulb viucnti, ac pnefertim nui li homini alimento efle pofle.Allacc , profcillarquc opinionis fundamentadiri- noflros folovino enutritos, oflcnditurquc pn- mum quomodo,fi foio fanguine alimur,lolo vi- no ali non poflimus; quod tamen in fanguinem verti poteflt licet non abiblute id pronuncian- dumiic.cap.no. milia inter lc non iint neceflano fimilia. Vteademfitaniinabbus materia generationis, alimenti ; vtque mures Thebani e terra nalcan- tui.Hominis etymologia non conuinci nobis ortum, itviciumcfola terraeflevalere,Cur fi homo a Deo cx terra fola condi uis efle dica muntur,oflendendoprimumabflinentcsno- Vinumvtfitlinguisterras: nonomnifanguine., flros non comedille terram , nec ea nutritos, li- cet appeuilc illam, fuauitcrque comedille pona- tur.nos ah poffc: an vinum fit venenum cicutz , vt fcrtur.De vmi,& ianguinis mutua proportione Alexan- Abflinentcs non fuifle malo habitu, & cachexiam non efle abundantiam prauorum fuccorummcc ncccflano femper fieri ab clu tcrr9.sc prxlercim uoftris iciunantibus,fi qui fuenutcacheducv Vino folo fi carccratus vixit ad vigmn dies . li fc- dri placitum explicatur, Vini, lafiis proportio explicaturi & vtrum ladle lolo totam vitam viuerc p0flimus.nes maxime vtantur Platoni , & graciles Gale- tia ad alimentum. no;nontamenabrt.nentesalipotuifle. Quomodo ex Galenoquisabfquenutrimentoper Alimentum maxime proprium an' folum ftifficut alendo corpori; vinumque vt fit alimentum ta- le,quod omni viuenti competat , brutis przfer- tuu,acplanus,Vlcimum alimentum vule quod fit; an ex vino fo- lo liat; vtrum omnibus partibus alendis fuf- fic1at.cap.i2d. yinofedari famem non poflc,fitim pofle; fame fi- inul ac fiti animal angi non pofle; famemque,ac fitini ad varias partes attinere ;& quid proprie fit fames,ac ficis explicatur,  manens ob virium lecons imbecillitatem diu fuificerepoflit. cap. Abfiincntes an crcuennt; deque vnguium,ac pilo rumincrementomabftmentcConfolcnunca. Fetus in vtero vt fimul non fiat animal, homo; quid ptoprie fit anteaquam humanam induat naturam; nos non ali vt aluntur plantz; Arifio- telefquc a crimine liberatur,Crudiori fucco,& pituitae cur nullum a natura da- tum fit receptaculum, fcd cum fanguinclaba- tur.Hippocrati vinum iedare famem vt medicamen- tum,nonvtalimentum;Galenoautemvinum Olfauaopimo Cardanireferentisabflincntinm. folum nutrire inter alios liquores, non corpus vmuerfum fufficientcr alere, Septima opinio decernens abflinentes noftros ali pituita,St loccis crudioribus , qui vltcrion calo- ris aftionc'in probum alimentum vertantur; quod Magni Alberti placitum recepere pluri- mi.cap.isp. Examinatur allata rententia,oflenditurque prirau abilinentes non fuiffc calore imbecillo, cui fudi nendo ad multum tempus fola pituita fufficiat. Abflinentes nec pituita craffa.cruditatibufue abu dalfe.ncc enutritos fuiffc. cap. iji. nofirorum ieiunium in copiam humoris mclan chohci cx lentis, Si eradi, humoribus exoru. irap.Perpenditur Cardani fententia demonfirado cauf lasdiuturaj abftinentia: redigendas non ede in aerem^ut in reliquias ingluuici,aut in mclacho ham.Diluuntur Cardani rationes offendendo cicadas non aluere; comparatum cx ingluuic non fuffi ccrc ad ieiunium multorum meiifium,& anno- rum;caudasifiasinabfiinentibusnofinsnon_. concurrere; nec humorem melancholicum una cumalijsconditionibus propofitis huius abfti- nen tia: cauffam eflc. o Satisfit argumentis communientibus Alberti fen- tcntiam,&offenditurprimovoracitatemnon NonaopinioBonamicifiatuentisiciunantcsali neceflimo pendere a frigiditate , nec effe caufsa colliquamentis internarum partium, cap. ijr. cruditatum,nechaberelocuminabifinenubus Perpenditurallatafententiadcmonflrandoabiti- Ablfincntitim cutem noefle ita euaporationi clau fiim, vt retrocedant femperdenuo vapores in a- • I11nentum.Vndc oriatur naulia, mappetentia,6c. ciborum o- dium ,-an hfcomnia fuerint in abflinentibus; & vtrum a pituita fedari pofTit appeti tus,& fiat femper inertia. Quo fcnfu Hippocrati, &T Galeno pituitofi dican tur medum ferre prxter conluetum, &abcs_» vtilitatem pcrcipcre.c Animalia voracia qu* fint Ariflotcli,6t_ quomo- do abundantia pituita minus cibum decoquat, cHippocrati fines cur ieiunium tolerent,& quomo do frigidi fiaruantur.Auiccnnx vt cibi ncceffitas fit ad infiaurationem deperditi; vt appetitus dcijciatur,& ocictur; vt vrii,& latentia bieme alamur, Humorem,qui vomitu reddebatur abftinentibus, nonfuiffcpartemeius,quoalebamur,Calorem non ncccflano icrnpcr abfumcrchumi- dum, necnecellarionifi confumprum humniu alimentis rellaurctur, vitam Citocxtinftam iri. Semina fiirpium extra terram non ali humore in- ternopituita:corrcfpondente Pullulas pituitz copiam non indicall'e,qua nutrire nentes noftros non potuiiTc abundare , nec enu- triri colliquamentis. Explicantur argumenta confirmantia profcilTani opinionem,5tprimodcccmiturquomcdoexfc mine dixerit Anllotclesfien languinein,offen- dendo etiam colliquamenta non nccdlario ven tnculum petere.An obzli gracilibus fuperuiuantin abfiinentia; id tamen haud fieri quia illi pinguedine liquata nu trantur. Calor na tiuus fime non intendi offenditur, ficcita te non acui,ncque colliquanuus cfsc in famis, In fuinma neccffitatc ali menti colliquamenta non confluere ad ftomachum,velur adeommuno proraptuanum vmuerfi alimenti, c Quo fcnfu Arifioteh colliquamcntum liat vt ali- mentum tnconcoifium,& an ventriculus fitlo- cus ahmenu inconcufli. Quomodo Anftotch diuturna fame laborantes colltquentur,&colliquamentafi adlocumci- bo deftiuatum influxerint, pro cibo corpori ap-plicentur: & Plutarchi placitum expenditur, Qua ratione Hippocrati ventriculus vacuus dicatur frui corpore colliquefcentc; ac partibuscol- liquatishuinor adventriculumdefluat, fi non alimur colliquamentis.. turpuella Germanica, necabfiinensalia. Decima opinion putantiumabflinentesalimcflrui Appetitus rtlc habeat ad indigentiam,& mdigen fanguims portione ab vtero materno libi recondita.  dita.cap.tdo. Examinatur allata fententia dcmonftrando ieiu- nantibus alimento non efle menftruura beni- gnum ex vtcro matris comportatum cap.itfi. Refpondetur argumentis allata; opinionis,demon Arando fetum in vtcro non litue ; mcnftruum haud fatis ede nutriendis adultis; nec fium pel- lere. cap. 1 da.. VarioIis,& morbillis origo an fit ex menllruo fan- guine ab vtero comportato, &_ quomodo, cap.ifj. Vndacima opinio Brafauolz, aliorumque pu an- num quod circunfcrtur de abfiincntia plurium menfium,V annorum, fabulofum quid efieo, atque fiAitium. Dccimaquinu opinio exiftimantium abftinente* noftros non clfe corpora viua,fed cadaucn Dae mombus afliimpta.Cribratur addufta opinio,dcmonftrando pofie cor poraphyficc viuentia diu viuere fine alimentis; & a Dxinombus aflumpta cibarijs vti valere Refpondetur argumentis allatae opinionis, often- dendo quo fcnlii Ariftotcli fien non poftit vt vi uatur fine alimento; vtrum alimentis vti pofiint viuentia zquiuocc, fine anima vcgetali Dccimafexta opinio afferentium abftinentes no- ftros ellc homines, at nonviuere vitam huma- nam, led Datmomam, quz cibis non indigct,vt ait lamb!ichus.fumptionem pabuli.Expenditur allata opimo, monftrando quorum- abfiincntiadiuturnaveraxfuerit, quorum Libraturadduftaopinio,demonftandoDzmo- mendax, & fabulofa dici potuerit: qualeuc fit alimentum.Soluuntur argumenta profeiflse opinionis du- fla ex automate veterum, BC iuniorum. Caloreminfitumnonrefrigerarialimentisintrin- fecusalfumptis.Duodecima opinio Harueti, & aliorum exiftiman tiumprxfatos homines fraudolenter abftinen- tumfimulafle Examinatur allata opimo,demonftnndoqui dolo feieinnium fimulauermt ; & qui verea cibis ab- ftinucrint ; pucllxquc Tufca- hifioria explica- tur. cap. idp. Diluuntur argumenta virorum fublimium,often- dendo alimentum, refpirationem haud efie ad vitam fimplicitcrnecellaria, licet eam con- ferucnt.Decimatcrtia opinio eiufdem Harueti cum alijs dicentis huiufmodi ieiunium a fopranatura- li caufia prodire , ac miraculofum edo  nes non pofle in rebus phyficis naturz limi- tesegredi; necomnibusabftinentibus, clan- deftinum alimentum fubminiArailc Tolluntur argumenta fuperioris opinionis mon- ftrandoquomodoex Iamblicho, Apuleio Damon poftit dfc caula eorum , qua; perti- nent ad aftiones hominum admirabiles QuarationeAriftotelifiantfomniafuturorum- prxnuncia, &t_attiones hominum referantur innaturam, cafum, <V m fizmonium-Quo icnfu cx Ariftotelc alimentum ad animatum referatur, & fit non fecundum accidens, led per fc: ac vtrum per fe includat ncccilitatem. Dccunafcptima opinio Apponenfi,&poft eum- Rugcni Baccomj cauflam diuturnx abftmen- tiz referentis in virtutes aftrorum , nuas vo- cant alij peculiares influentias, a quibus pendet tum magnetis conuerfio ad polum, tum— maris xftus, tum frigiditas in hxc infera, Expenditur allata opinio , monftrando quale nam miraculofitadfcnbendumieiunium, quale naturz vinbus.cap. 17,. Satisfit rationibus allata; opinionis, declarando quid fit Hippocrati Diuinum m moribus ; ablh nentes non omnes pgrotare ; nec feptioue diei abftinennain effc letalem, cap. 177. Decimaquarta opinio ex Diogene Laertio, ac De metno fiatuens ieiunantes clam ali eonfueuifie cxlitus ab Angelis cibo aliquo pretiofifiimo. Perpenditur adduflt opinio monftrando nonom nes commemoratos abftinentes enutritos effej czlitus ope A ngelorum clam illis opumum ali- mentum fuggcrentium. Occurritur allatis rationibus in oppofitum;& pri- mo explicatur vtrum nutrientis aninuf quiesa fua operatione fit mors. Quomodo Ariftotcli alimentum 110 fumentia ani malia, &plantzcorrumpantur; Biquaratione ignisparuusamagnocxtinguatur,finonadcon Ponderatur addufta fententia, monftrando cauf- lam adeo longi iciunij referendam non efle in- v1rtutcsaftrorum.cap.187. Diftoluuntur argumenta propoli tx fententix , aC primum Celn, BC Apponenfis au toritate libra- ta, oftenditur non femper horum notitiam aes lis auipiciandam efle. Influentias non cflecauflas iciumi.aliorumueeffe ftuum abditorum , ac fpecianm conucrfiones magnetis ad po!um.Diuturnam abftincntiam , marifque fluxum, ac refluxum non; communicare m ortu a mo- tu, lumine, aut influentijs cxli ; led hunc ab exhalationibus de terra turgentibus ; il- lam ab alia caufa pendere Frigiditatem in his fublunaribus pendere non- abInfluentijs,fedacriorumimmobilitate,vt verumfitcx Ariftotde.Decima  Dcciitiiofliua opinio decernens longioris abfti- nentix caudam referendam ede m ly mparhiam complexionis cum aere,6c. antipathiam cum_, cibis, cap. ipz. ludicium promitur de hac opinione, offenditur- que hominis temperamentum eam cum acre iympathiam non habere , vt fine alimentis illo fudineatur. cap ipj. Dilfoluuntur argumenta, quibus probatur ieiu- nium pendere a fympathia cum aere, & antipa- thia cum alimentis; odenditurque vi 1'ympa- t hix aerem non pode in alimentum cedere, ve- nenum vero polle, cDecimanonaopiniocxiltimantiumdiuturnotem pore a cibis abdincre proprietatem cdcindiui- dualem.cap.ipy. Penditur hxc opimo, aperiendo quid Phyfiologo fentiendum (it de proprietatibus occultis tum fpccificis, tum quoque indiuidualibus appella- tis.cap. 1 pif. Soluuntur rationes viri egregii, ac demonftratur autorem problematum non dfe A phrodifxura; cur odor thuris , & rufarum alios male habeat, alios recreet; alijsaluum loluat.ahjsaddrin- gat; &T Galeni, Thcopraftique dogma expli- catur. Vigefima opimo Abulenfis, cui tam longa; abfii- ncntixoneocftexEcdafi quaieiunandum , anima quali ii corpore alienata canfucta munia non obeat. Eiaminaturallata opinio, demondrando Ecffadm non cdccaudam immediatam longioris ab ftincntix ; ac tandiu ici unantes haud omnes £c flafimpados fuille, cap.rpp. leant: Porphyrio, & Galeno explicat» cap.iO<5. Abdincndbusanaliquideffluatecorpore,&quid exire valeat.cap.a07. Vigcdmateriia Opinio Citefij dicenris diuturne abdmenrix caulfam fuifle conffnftioncm, fiue comnreffionem vifcerum nihil nutrimenti ad- mittentium. Examinaturo iniopropolita, demondrandocoar ifiationcin vifcerum iciumj caufsam non ede, atpotiusctfcftum; nulloquemodofamem,fi- ti mue tollere, fed augere, cap. jop. Satisfit radonibus propoli tx fententix , aperiendo quarationearftccinflipeflore,acventremi- nus comedere podit.cap.2 1 o. Vigefimaq uarta opimo Ioannis Langij exidiman tis longum hoc iciunium a morbo pendere , ni- mirum a tabe iecons, ac ventriculi ffupore, ac omninoabatrophia.cap.ii 1. Expenditur allata fententia,odendendo caudam cur diu viuant aliqui fine cibo non ede morbo- lamaffeftionem. cap.ir*. Occurritur allatis rationibus , declarando difieren tiam iciunij fan£torum,& prophanorum: non_> femper ex morbo intermitti funiiiones vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cap.i tj. Vigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in petrificationcm partium . ventrisimi,&nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata lentenda offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom- num;VinterEcdafimgrauem,acleuema- gcntes.cap.aoo. viralianonaerenutrita,necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij afferentis homines diu ab alrmemo abdincre , anima illorum pec cataphoram,& intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, & improbatur opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori fomno prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, & de longum tempus dormientibus, cap.ioj. Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,& Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis, pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.cap.105. Soluuntur Beucdifli, & Montui radones , oflen- dendo cur cxlum alimends non egear; & quo- modo corpora , c quibus nihil effluat, ali va- nicade. Vigefimafcxta opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,potuqueviuercviherbx, ac medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu.op.a17. Expenditur allata fentenda offendendo abdinen-' tesnodros nullius hcrbx,autmcdicamenu vir- tute adeo longum pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir- manubus, confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque pellentium Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin puram confue tudmcm.cap.ziO. Expenditur propofita fentenda , offendendo con- tuet udinem non patere tam longam abffinen- tiatrccap.2 2 r. Satisfit rationibus viri Clariffimi, offendendo qua rarionemedicamenta,&venenanonagantin_. aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, & potum, cap.aaa. Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera naturalia non fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio,inqua& difla dicendis attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi- ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm . femper viuere fine alimento, cap.3. In animalium mortalium genere aurelias, 8r nym phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli ex verme cum ge- Ariflotele in tex- pofle Ariflo neratione hominis.cap.4. Semen plantarum non tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.cap.y. Oua diu fine alimento viuere, quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotclepromulgatis, Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima, cap.33. o- animae ab A- fexto fecundi vitam fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem nis adftruens. cap. 34. naturalibus nutricatio- alimento viuere. cap.7. Stirpes terra infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium, cap. 33. primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio,&ortu brutorum viucnrium intra ioli- diflimos,imperuiofquc lapides copertorum.c. Aues quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam tolerareabftincnriam. cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere ieiunium. cap.r Homines diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique caufla dc propofito nobis in- quirenda fit.Quotuplex,quiquefitcommunisidea vniuerfa- , lilque forma diuturni abfhncntra. cap. 1 y. E quibufnam fontibus hauriantur argumenta 40. caufla efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, cap. Homines in diuturno ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis cap 41. humoris a calore na- ^nem intermittere pofle ratione aninra.cap.17. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione.c. 1 De- d ifferentia originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqjrationecaloris.c. jr. iqualitatum mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne radicalis humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica- tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima & corpore mediante calore conftitui. tur.cap.10. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi- tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu , , om- natiui mons quicalorifubditusefledicitur cap.4<5. nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera nutneatus viuerepof- fe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3 nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu- natiui , SC humidi radicalis reperiri pofle. . & humoris naturalia Quomo- ffir.- caloris, ... I tvi dicendorum ratio , naturaque proponitur. LiberTertius,inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti- tuentes,efficientes, conferuantes, terminantes , ac diftinguetcs cum generarim, tum fpeciarim. fpecies Hominemdiutius nutricatione intermittere pof- no- 1 6. funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in homine diu fcruari pofle. cap. de lc de mente Ariftotelis in y. problemate prtmit 9. 1 j. diu- frOionis.aif.j6. Ariflotele fuppofuifle,ac potius exprefle 3. Laurentio nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum confirmatur ex eodem Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi- Confirmaturhomincmfine aflione alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni excorni 1 feOionis. cap.t7_ ' t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex Auicemra fententia. cap. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc Confirmatur id ipfum ex eodem tu 14-e1ufdcmoperis.cap.50. Nutricationem inviuente intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOio- rir.cap.51. Confirmatur hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem alendi poffeintcruutte- re,quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello nutricationem in viucntibus pofle. cap.38. t. 5.C.37 intermica Colligitur forma, 8^" idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum iciunantium. cap Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem cap.4z. Quotuplex efle pofllt *qualitas in — mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem xqualitatum ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry fpecies 47. moris radicalis a calore nanuo. cap.48. Aequalitatem caloris quoad virtutis in homine cip.46. inter- te- inno- caloris   Quomodo aequalitas virium caloris natiui, <V tu- midi radicats fit cauda diuturni leiuiuj - Quibus pneferrim xqualitas virium caloris, & hu- moris fit caudilciunij. Dcijs,qux perfedeftruu ntaliam ieiunij caudam, proportionem fcdicct 'firium caloris & humo, ris.ac fpcciatim de er.tnnkcus accidentibus  ptio.cap.yj. Proportionem hanc humidi radicalis ad calorem natiuum,in qua lente humor a calore confutua- tur,in homine reperiri pofle. cap.54. Commcnfurationcm hanc humidi, & caloris in_, homine diu feruan pofle. Proportio hzc natiui caloris humoris quomo- do Iit: caulla longioris abdinenti*. cap. 5 <5 . Quibus prxfertim Iit caulfaieium; liare proportio calons ad humorem, cap.57. Quomodo fe habeant ad inuiccm propofit* du* humeris radicalis pofle datui caudas iciumj eo- munes omnibus abdinentibus ab mirio enume- ratis. cap. Manifcftaturcxhis caudis diuturnum hoc ieiu- nium prodcilci rei naturam condderanti. cap.tfo. Confirmatur hoc ipfum argumento defumpto a lucernis ve tudillimis, qux noftris temporibus in fcpulchris ardentes reperiu ntur. cap.di Dexqualiratispropofit*intervirescaloris,&hu- morisvaricratecffcnriali.cap. <5i. Proportionis inter eadem vitf principia propofit* varietas edentulis. cap.fij. dunt, in quo non podunt intcrmilTum alimenti vfum repetere. cap.8 1 De caudis communibus varietatis, feu differentia rumtemporis,(eudurationismonentislongum ieiunium a fubiefto defumptis. cap. 81. Dccaudisvarietatis in durahone ieiunij abefB- cienubus,&" confcruantibus abftinenuam de- promptis. cap.Sj. De caudis varietatis in duratione ieiunij defum- ptisj finientibus,acterminantibusabdinenttf. Dc fontibus, vnde hauriantur caudae fpeciales va- De interna cauda per fe pnmo proportionem vi- DcalteracaudahuiusaHmirabilisieiunij,quanon numcalonsAchumoriseuertente.cap^y. tollituromnmo,udintardaturhumidiconfum Decaudisperaccidenseuertentibuseandemvi. numcaloris,&humoris proportionemabftine. tis procreatricem. cap.7<5. De forma, fiue idea termini Uhus, in quem definit longum ieiumum. De his.qui coft ieiumum lani remanent, atque ad interminum ciborum vlum necedano redunt. cap.78. De his,qui ex longo iciunio tandem moriuntur cap.79. De his,qui ex longo iciunio incidunt in sgritudi- ncin.a qua conualefcere poliunt redeuntes ad caufli: in producendo iciunio. cap. 58. Aequalitatem,&proportionemcalorisnatiui,& Dehis,quiexlongioriabdinenriamorbuminci- rix durationis abdinentue quoad fingulos gra- Quibusabftinenubusaprimogeneretumsqua- dus.cap.85. litatis, tum proportionis vinum caloris & hu- Diflribuuntur gndus iciunorum penes durationis moris interni ieiumum ortum duxerit, varietatem incerta capita, cap.jd. Decaudisabdinenti*intrafeptunaminclude,qui Quibus abdinentibus longi ieiunij cauda fit e fe- cundo genere tuin squalitatis, tum proportio- nis,qu* funteum valido calore, cap.dj Quibus longs abdinenti* caufla fuerit squalitas, <St proportio vinum humoris, calons medio eris in tertio genere, cap . 66. De difcriinme trium horum grnerum squalita- tis,ac proportionis virium caloris, humoris in producendo 1c1un10.cap.d7. Decaudis terminantibus ieiumum generarim. cap.dS. De caud a per fe tollere valente virium caloris,^ humoris squalitatem, & odendituream non_. elfe calorcm.ncc humorem,nec animam, fed ex tnnfecus 0ccurlant1a.cap.d9. De caudis per accidens gcncratim euertentibus x- qualitatem virium caloris, humoris interni cap.70. Explicantur ex ternx cauffr per accidens xqualita tem propofium deltruentcs. cap.7 1. Afferuntur caulis interne per accidens euerten- tesxqualiutcm virium caloris,&' humon; qua rum vna offenditur ellc anima, cap.7:. Enucleatur altera interna caulla per accidens hu- lu Imodi squali tatem deilruens. cap. 73. efl primus gradus longi ieiunij,inter quas nume ratur fanguims copia in venofo genere , quam-, protulit Bottonnus mfignis Medicus . cap.87. De caudis ieiunij ad nonam diem produfti.in qui bus locum habere videtur alienatio ammz a vi- txmuneribus Ecdadsnuncupata,quamexeo* gitauit Abulenfis.De caulfis abdinenti* ad duodecim dies proroga- te* quarum cenfu non rcmouetur caloris im- becillius a IXxftiflimo Bonainico piopofita. cap.89. De caudis abdinentix quindecim dicrum.quaru vna perhibetur ede morbola coadituuo autore Brafauolo. Dccauilis ieiunij viginri dierum, e quarum nume ro legitur pituitz copia cum Alagno Albcrto; attexiturquepropomisnoua hidoru longioris abdinenti* Canonici Leod1cnfis.cap.91. De caudis ieiunij trigrnu dierum, De caudis abdinenti* quadraginta dierum, quas inter numeratur vim pouo; rluxque mirabiles hidorix longioris ieiunij lupenonbus adijciun- tur ; & fupcrnaturahs, lanctorumque vnorum abftinentia explicatur, cap.pj. vfum alimentorum, cap. 80. Dc caudis. Decauffisieiuniiblmeflns,intcrquasreponimus AquamnonideocfTemiliumalendoaptum,quia meatuumcutisadftriaionemcumBencditto, tuitunonfentiaturiummefrigida,&gufluper & iMontuo.Cecauflisicium»trime(IrisAexplicaturquomo- doammaliaquzdamlinenutneatuptnguclcat: Adijciturijuc promulgatu noua longiffimi ieiu nij obicruatio. cap. $>5 Decaufia leiunij fcauftns. cap.pd. De caufTis abflinentiz, quz ad annum integrum- prorugatur.cap.57. De caums abflinctise vitra annum praten fac. frater cauflas phy Ii cardudum allatas, tres alias re pennvalerediuturnihuiusiciuntj procreatri- ccs.cap.pp. Caufiarum propofitarum ablbnentix comparatio ad inuicem. cap. 1 Oj. c i libri quarti Capita ccnlunt quinque cipiatur varij liiporis.cap. 1 6. Aquispermilhnnnonedeacrem,cap.1 7. Aqu*terramnoncflepermillam,cuiterne fapo- res mnnt.cap. 1 8. Aquam motu, ac ventis non incalefccreAcurmo ta dicatur viua.cap. 1 p. Aqua hieme calida mtfli rationem no habct.c.io. Aquam non congelalcere,cui nihil iniit caloris, et fi fngotecongelatacalorediffluat,cap.21 Quomodoaquafrigidiffimaquumfit abexterno frigorevertaturinglaciem,cap.22. Pratcr qualitates aituales de genere accidentis meile cuique elemento habituales qualitates de genere fubllantias, qux funt forma;,ac differen- tia: conflitutnccs.cap.i;. Vrqualitatcs aftuofz, ac potiffimum frigiditasin Praelatio, in qua notatur difficultatum explican- darumnatura,&agendorumordo. Platonisallcrtuindeelementorumfirapliatatcct Liber Quartus, in quo enodantur difKcilia,quz ha /fenus explicatis obftare , ac obi/ci polTc viden- tur. plicatur, cap. 16. Pilees in pifcims ex lapide eonflruitis no ali aqua; & Ariilotehs locus explicatur de terra, St aqua, Decere Philofophum de re aliqua ex profeflb tra- nantem tum omnes aliorum opiniones de pro- politoexpendere,tumilluflnorestantum: vn- deinnotefeuntferibentiumfines,officia,crimi- Pifcibusinvafisvitreisconferuatis,finonaqua-y na Aconemplationumvarietates cap1. Dicere Phyfiologo inter expendendas opiniones aliorum,nouasa femctiplb comminifciAvehit alienas examinare ; exquo putet coguitionum varietas,irordo.cap.2. 'Alimentum omne a viucntibus neccfiario prodi- , re, nec ali ferro llruthiocamelum: quo czno a- laturanimal,&planta, A mortuis vt nobis alimenta,jugumenta, & femi- na fuppeditentur apud Hippocratem, exercita- tio cum acutiffimo Scahgero. cap. 4. Exper inento haud probari aurum putabile pofle nutrire.cap.y. Hominesfziiololoandiualivaleantvtiiumen- Eondcletiiratiodenutricareexaere,&aquapen ta.cap.d. Venena in alimentum nulla ratione poffe conce- dere. Vt homoAomnino animal fuauiter olere valeat fponte nareric.cap.8. Vtfrigusnoningrediaturoperanaturz; acprzfcr diturad Anflotclis trutnnain. Qui Nnodo mutatio fit fimplicis in milium, ac vi- cilfiinA' omnino inter oppolita ; vnde tollitur Olimpiodouratio probans aquam alere, ca. ;8. Aqua fi non alit, quomodo Annoteli vercdicatut alimentoefle,acproindeilliusmutatiomorbo- timvtquxcunqueexputrioriunturacaloregi- ia.gnantur.cap.p. Quomodo aqua feruens remoto calefaciente fc- metipftin tefngcretcap. 10. Abflinen tes a cibo, potuque omni prius affligi, 8c mori fiti, quam farne, cap. 1 1 Vt aqua potabilis calore putrciccre non poffit, at- que amman.cap.i2M Ex putri fbrmaliter animatum procreari non pof- le. cap.t ;. CyprimsA^alijspifciculis fponte natis non efle ortum^utviftumexaqualbla.Pilees feu frigida nutriri cur aquafo- Ja viucrc non dicendi, quomodo ex ea ver- materia denfiori fitintcnfior.cap.24. Aqua: calorem non olfendia pclluciditate.c.15. '  Pifciumin perforatis nauiculis quodnam fitalimf tum.cap.28. quidinalimentumcedat.cap.29. Oflrca, mytulos holuturia non ali aqua^». cap.;o. Lepades,ac mugiles aqua fola non ali. cap. Sardinas,fitaphyasaquanonali.cap.;r. T Plantas marinas lola non ali aqua. cap.;;. Si vinum,(anguis^ac,cetcnquc liquores nutriant, nonideoaquamalerc.cap.;4. Anguillas non oriri, nec ali aqua pnth, fcd ca ali js decaulfisobleitari Ariflotcli.cap.;;. Aquatilia tum branchias habentia, tum fiflulam flr' fpeciatim tcflacca non ali aqua ex Anllote- lc.cap. ;d. Niucm non e(Tc aquam mes oriantur, & nutriantur, lcporefque Plinio. cap.40. Aquam vino additam quomodo Ariflotcles dicat in vinum mutari,^ vinum in aquam, qu* m- miflumperfcttigencns, atque adeo matimen- tumconuertinequit.cap.41. ) Lentem paluflrem non oriri, neque nutriri ex a- ' ; b Quomodo putredo Iit propria miflipafficv&aquf conueniat.cap.4;. ' iui; Aquam quomodo calor concoquat Hipoocntr, B ca coitione non vertitur in alimentum,cap-44- quafola.Vtmx   Vtnix efientiam non habeat terra participem ,ac iptunuiam,exercitatio cura lubuhiiimo Scaligc ru.cap.41. Qua ratione nix fecunditatem afferat agris, fi ter- ra particeps, non cft cap 46. Vtputredoablblutc Iit corruptio propnj caloris. _ «P47- Cur muta imperferta vmentibus in alimentum ce dere non valeant , fpeciatim cur aqua nufia cumalimentis nonalat. cap.«3. Vt alimentum iimplicitcr huuudum efle opor- teat. CurIitioccurratmagi»vinumquamaqua.5 Vt litis fit defideriuin alimenti. can. 5 1. Vtfamesquatenusellleniusindigentis,quem_ anunalcin, dicimus, fit affertto lolius oris ventri culi, non ctiain aliarum partium. cap.fz.. Vtdolorfamem.aclitimprxcedat vcluti caulfa nonfubicquaturquafieffertus.cap. 5. 5 Cur pi iguedo.fit^adpes alere non pofiit Vt medulla non Iit alimentum , fed excrementum 0fiium.cap.5j. Ieiuma per •iccidcns.Sr' apparenter calefacere.ve- rc,ac per fe calorem non acucrc,licet p>er fe fitim procreent cap. 5 <5. Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor nauuus.Anflotclis difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab alimento.Galeno nem alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per accidens, fed per fcilluin au- gere. cap.59. Vtalimentis augeatur caloris innati gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio. cap.do. Vt alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de ventrtenld , inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia, ttores, frurtus, & femina plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa potius, ca.y7. Vt cx co, ouod oua,& femina citra nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque anima lia vitam polle traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori materia augeatur. c.d 1 Vt anima nutriens artum habeat immediatum, & Curnonfintfrequentioresnofiri abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat ur organo cor» porco.cap.dx. Calorem natiuum in nobis,quin etiam ignis riam- tnamapudnos,nonindigerencccllariohumo- ris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur calor humorem in milio, & in viuentc prxfer- tim d:palcatur,& intentum procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima nutriens ab alcndimu- nei4.capd5. Vt Ecftafis non Iit priuatio munerum animi intcl ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca- ligero.cap.dd. Vehementi fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1. Jertabanimopolleomnesnouones,&habitus, cVtalimentivfusnonfitadrefiaurationemdeper- di ti,fcd ad auocandum calorem a cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati,inquoeff.cap.-»o. Vt ou»iubutntancaliat ammata.<5. raro admodum vilimtur. alimentorum indigentia infit viuenti quatenus miftumcfi.CurabliinentesobxquaJiatemviriumcaloris,& humoris interni iuonantur,feu non femper to- tam vitam degant in ieiunio,fed plerunque re- deant ad ciborum vfum. Vt agentia fecundum virtutem aequalia inuicenL. agant.VtexGalenolubfiantiacorporis iVomninohu‘ , midum [fubltantificum dilfipetur a calore nari- uo,non iolum ab adfcititio,cxerciatio cum Cardano, rnojC Vt Ariftoteh calor internus ablumat humidunu, fubfianttficum. Vt cx rei natura non colligatur a calore natiuo no abfunuhumidumfubfiantificum, <Vprimo quia calor fit anima: inftrumcntum.cap.pj. Vtcalor non ideo dicatur non confumerc humi- dum quia in miftu elementa non fine in artu fe cundo,Vquahatibus rtfrartis,fubditil'que for mx luenti compolitum . Vtcalormfitusnonideononconliimatpartium-, lubfiantiam,quiafitearumtbrma.Vtcalo- Vt facultas alens pofiit a nutriendi funrtione r1.cocia Cur materia corporis nofiri per alimentum femper non debeat innouan, vt cenfet Albertus Inhis,quidiuanutriendimunereociantur ftra non cfie ven triculu m,iecur,& alia membta nutricatui dicata, cap. Vt ratione caloris animal tiinrtioaem alendi diu intermittere ualeat.V piper, pyrethrum, finapi, thapfiaque fit homi- t ne cahd10r.Vt viuenti non repugnet nutricationem intermit- tere, fiucvt animal pofiit abfque nutricatu vi- ucre qua viuens cfi. Vt tini nutricationis formahter non obrteteius pcrauonis intermifiio. Vtin atrophia faculas alens penitus ocictur c. o- i Vt cx Galeni fententia nutriendi funrtio non ' homininccefiaria.1 Vtex Flotini lententia nutricatio iugis ' debeat in corpore viuenris.Vteffcrtui priuatiuo caufla politiua pofiit, afiign* ri,noTqueid fecerimus in fupenonbus.Vt mors viucntibusconuenut fecundum natura fcu quomodo interitus viuentibus fit naturalis.  fru- non efie-> Digil qt fit  mK cuerti naturae lr| Calor, definiendo^ non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa ,.:j) mi Ha.t.gMUlCifsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli>>* 1. :S utrori''- » . 1 . 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^.Ohtvn.i,*!* i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt • -.• .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^bi' iV.  min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^» mari cap.8d. Mntehumorem abfumert.dicatur.BnOoniidoaw» rf.u.bkrAt^natnitii<f«iiciuimn abKfumnantr.rcanp ti noi Vtabmfito calore corpu* non deftru» ex co qwv mA , : eadem eiuldem rei poffitefie caulia perl^^ac. Yt accidens,cap.i03. i ' Eftpe&rum.cuiutcaulsas qoi» noujt,cur noniem tione non refp6deat, fit humiotim. Perisidemprocrearevaleatc Caloreminnatumradiolihumoriadeocon Perorauototiusoperu i flriM l‘Ut '...ftUi -bvt..:; ana.y,ami»1m«i “thVt»Ws0'tV.s. t.\11.a.tm.*"'V;^0•. iiontti tJ H» .1 kf.l »bc. • Mi- >\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 - ? 9* i >v fp wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtversqiR*t . J.vrf>u » -.*-c tiVa humorem \ .s-u.-ue . K. ,i .1 • i/.XIA'*' 'VtrQ\i,' "i'. l 9\a.1 .•' . . r’ .av.iii.pi iA.ivr1 .As.ftla, . i) ,at ;.. yi juajm.ih. i1"  riumdicaviipfuiacunfuaitreYalcat.0^.1^ AwimtarUiAnti«naV.v,?y. .«ri*a: TriumCupidinum;Voluptuofumtyrannidemin Animæ facultas,concupiscibilisvtinanima vin Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. cap.X. 23 De Amoristergeminipulchritudine.Amor curnoncæcus inSchemate fidus. sa,gercnsincacuminevolucrem,& caueam De fructuarborissapientiæ,nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes,efequi nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium ,sciendi cupidos edocere valen: tium ,tresesseclasses.cap.xxvij. 7 7 Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur analogia. Schematis Amorumtrium explicatio Medica. Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema Gemma. Explicatio viri eruditi de Amore nocturnas Amoris origo mirabilis; a Platone polica,de Defrondibus, & Aoribushwnanæsapientiæ. claratur. Amor voluptuolus veergabellicum,& literaAmorfapiêtiæcúrnudusefictus.cap.xix.41. Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæcuralatus, & quænam finteius cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo fapientiæsymbolumsitarboranno 90 pag. 1. . P 36 AmorisEmblemanoftroperfimile,propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema primç Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem ,& rationalem, Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus , Explicatio Schematis ab incerto propolica consideratur.Yeiundas.DepriscisAnulariumGemmarum Sche maribus cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam brachiamanusquegeminas,quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat. 9 Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis inferoa parte 32 fticicanentis,repræsentat(1.. Inter viros dostos inueniri, qui non fcriptis Amorsapientiæcureffictusingemmapuellus Supremamonftriparshunanadeclaratur. vtAmorpusio,corporepusilo.imocens,arq;moribusfimplex.gallumreferente. cap.xxxi'. pientiacomparatur. cap.xxii. adarboremscientiæboni& malı,dudum a De fru&uarborisscientiæboni& mali,primæ uæ inParadiso. xxvi. cantilenas ad amicam personante perpen duplicisecollarinaltum..ResponsiodeVeterumGemmarumex- Demagnoconatu,ingentiquelabore,quofa plicationcadcunda.Amoris differentiæ tres cxplicatæ. Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione. Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien. AmorfapientiæcuringemmafiAusefteffigie DeBarbito,seulyradigitishumanispulfara pusionis,acinfantis. Deo inParadiso.creatam . cedelincatæ.  Pror   Proposito Schemati comparauraliud Fabij SeptentiamViricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione confiftere, SchemaV.Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria Schematis explicatio prior eft, de Amicoveromọitain Amaci & defunctime.  De Armış offendentibus, Heroico Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaperAmoremftantem Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan. Amicumverum inaduerfitate dignofces, cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis ,de formola Peleum ,velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematisexplicatio,de Amico Pulchramulier ,permarevitavagarsadare D e Amoris bel lici clypeo hieroglyphicum , Cur Amor istebellicusPedes,non Equesef, Super incrementa Nili. Amici de funéti memoria femper in corde confer . raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc digitur, Amoris bellici, ro , qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma, exarmati,pendicur.indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis offendentibusexpolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni Schemate noftro proprietares A m o risirascibilis,fiuemilitaris:primumquede Schema .Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo,seuero,actan. Explicatio Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria fignificatione Galeæincapito dicitiamMatriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,qui vocatur Amicitia,vta tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel eft,vel euadit impudica , yanda;& Amantemnonredamatum,indi- 143 Propria explicatio Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema Gemmx . Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore monftran . lentematq;lubentemcomplecterte,perqs maria ferentc.redamato, syumAmorem extinguente per Amorem Heroicummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri sensus explicatur, & ne Ducis, & Exercitusoportuneceleris, & cunctantis, quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum Amo SecundaŞchematisexplicatio, deAmantenon ris concupiscibilis per visam negociofam corporemilicisgeneratim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica- CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur,& expenditur, filius in Schematę noftræ Gemmulæ , IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila busanteadeclaratis,Concupiscibili,Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali, & irascibili contradistinguitur. OpiniopononshocessesymbolumAmorisvo- TerrinexplicatiophysicadeÆgyprolafciui luptuosi,expenditur,entesuperincrementaNilio Rapinapuellasdealiasrespulchrasexponit Propria declaratio prima de Amico vsque ad Aras., cap.xlviii. Fur & pudica Maire- familias. piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa. equo marinoveda,proponitur,& cxpene Sententia virieruditide puella vere a Tritong tccun&ashumanasresessevanas,proponi- Secundacxplicatio,deTijroneraptāpuellam tur, & explicatur primosensu.noftratélubvndasasportāte, Tertia CapicumOperis. Tertiamoraliseftexplicatio,depiratis,acpræ- DeorationeMentalisubhieroglyphiconudæ mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem ,& faciemintergaversain,cumligneum scipionem. cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculumbaculo, Mundi Systema,partesquevniuerfuminte. grantes,explicantur. ASTV'S DEV DITVR ASTV. Incognitiviriexplicatioindicataexsenis datotibus,aliisquemaritimaclasserapienti- mulierisgenuflexæ,sedentis,& vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri, de primo quadrigarum inuentore proponitur ac expenditur. OraculorumDiuinorumpropriumest, homini, deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio,& tanquam presentes. Schema Gemma. De Papauere,simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico subiect:. cap.lxxxiij.  Propriafententiaproponitur:primumquecal sumitexordia,& inquodimidiumsuædura cap.lxxxij. giliapatratarum,perenneininconftantiam. cap.1xxxiv. Proprialententiaproponitur,& confirmatur, impuro proicão. cap.Ixvi. bus euentusfuturosdemonftrare Schema xv.Gemme. Alienadeclaratioproponitur,& explicatur. ciarim arborem in lacus propeod ntem ,& hominiscõsulentisoraculumcumpailijpar De Papilionc,lignificantebreuitatemhuma- næ vitæ.De Simulachro in templo Delphico. De Canopo ,Deo Aepytiorum ,superante Iouisfiguravesitaptum Terræhieroglyphicũ. OratioVocalisatqueMentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis Elementun . Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv,Gemma. De Mercurij ligno,Elementum Aeris repræ de Detribusorandimodisantiquis:ftatario,ad Beneficij,velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem . geniculato,&sedentario. cap.Ixxv. decoreftantis,ambabusmanibusDeocor offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur. ExplicationoftradeMundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarumactionum,invi. Schema Genoma. tionishabet humana vita. De Vrnasepulchrali,adquamterminantur a&iones omnes humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem , viâorem om. nium aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus,proponitur;primum que Zodiaci declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos egisse. Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma , corroboratur. Voca- De Nepturo, repræsentantetotum Elemen D e viribus & proprietatibus orationis  lis , atque Mentalis, Deo Accendo p orrigen . sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur & Humana vita eftmorsvndiquemiserysobfella. expenditur. De oratione Vocali, fignata per mulieremic. miamittam,quædexteralacinian tenet,fini- SchemaGemma, Explicatio Viri Cl.re&taproponitur,& latius ftraserpentemporrigit.Aras ab orantibus. Poetabonus,ad Lgraincanerenescius: vel  Propria Schemaris explicatio proponitur , de canere nescio.  Secunda Schematis explicatio depromitur ex pium natura generica ,Proserpinæ Schema Schema Gemm &. ponendis aprefacilequedislidijstumánimo rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra explicatiode Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis,& Rationalis,explicariSchemare. Produnturin Schemate.cap.c. mortem fibimetipfifponteconscisceredebuis, AuroranettensAtheraterris,prouchit oria diem . Schema Gemma. Auroradiejnuncia,celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij. tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute,frustra laboráns. Hesiodo poeta bono carmita sua ad lyram  adagio veçusto de viro fruftra laborante . PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates: Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia, Elementa vitalia. imperiosapotestate.  vel Ampli il regna benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu animalium . altronomo Lunæ,liderumque seruante, cap.cij. phasesob- DeAjacesemetipsuminterficiente,gladiodu dum abHe&oresibidonato.terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem supracerráapudmatremdegente,my. numSahemapossitintelligi.cap.cix dam fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De CererisfiliaProserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa viuentium fcracia,& altricia,terna Anonymisententiade Decio proponitur,& cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema Gemme, numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa , seu poetica viri do &i de Schema xvij Gemme. De MercurioCanicipite,Regnum Acgyptium optimegubernante,Schema Gemench. De viribusSapientiæ,acEloquentiæincom. Ajaxfurens,obAchillisarmfaibinegata, Schema xxv Gemma. D e Catone Veicense,semetipfum cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno , Proditoremnunquamplacereviroforti,etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis, Schema Gemm. Explicatiovirido&ideCicada,citharæchor Pulchra fæcunditas ,a terracalore rapta,fex menfeslaterintraterraviscera,totidem. que fupra terram in aere degit, C. Sapientia,don Eloquentia litigantes,atque pugnantesanimos apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum ,& phasium EndymioneaDianaadamato,cap.ci. Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego ,qui semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum , thologiacómunisexplicata.cap.civ.227 Propria explicatio de vegetabilium , feu stir te,fabulisquerepræsentata,Sapientia, & fortitudine,fagaciqueprudentia De Bruto ,separiter pugione confodiente, Delphico Schema xxvi Gemme. De offAu Cæsarisaccipientiscaput Pompeij Magni a proditore,qui virum interfecerat,  Schema Gemma. Larma. fiueperfona Dramaticum Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfereDijs vitaprecellentibus, ta vetusta .  AftNo . Schema xxxiv,Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari.Dc Qliadrigain Anulosignatorio PlinijSca cundilunioris,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv. tasmaximoperedecet. Schema xxix.Gemme. cultatibusincolumem. Martiales virimulierumraptor esprimi, par: Centauricuerentis, & fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, &excrinsecusoleolisi. GenerofasindoleseducaridebereabHeroibus ujoueperundum. Lætarineminemoporterefraude;quum& ipse consimili capi valeat. cPropriæ fententiæ declaratio,devitæconcem .. Ampli Dominij splendornonofuseatsideraviro Virumingenio,probitate,fortitudinequepolen? thiuminbonoPrincipe,Magnoque Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri. sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus gemina, fugax, dprocax, mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum, adillorummemoriam, cultum, & imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper maleficālibidineabutentem.myfteriumexplicatur,primumquedeScr monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos, & extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam fugacem , geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi. Schema Gemms. Personamnonattribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus, vtviruina&uofæfimul& contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý; dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus condi Schema Genome , De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør: do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma. Gandium& Mærorviciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia perpendicur de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati. Humani Sermonis ; do bumana vite natura inactuosapariter& incontemplatrice Schema Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines Anulisinfculpifo: litas,adeorum memoriam , culium , Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem. LibidinisatqueMagia prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, & vitijdistinctam ,maximeque libi. dinosam. Cole delle proprium fymbolum Dramatici. aprum cducaregenerosa indolisadolcicencs. cDe Marlyageminatætibiæinucntorcfabula menio latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum absolute. platricisintimisattributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum Alia Panos explicatiodevniuerfoproponitur.Circensium Schemare currentibus hieroglyphiceinterpretata.Aftuofavitasecundaspecies, Moralis&Actiua lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy. ftice representata. Schema Gemme de EquoTroianoproposita,&expensa: Propria Schematisexplicatio primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio. piditatesciendi. VirorumHeroicavirtutepreftantiumvultus Potentiorumprædeopulenti:Tellurisoccupatio apudantiquosmerorieacimitationisergo Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum, Achillisimagoqualis, & curinSchemace. vltionem , Bigarum cursus in stadio ve indicet Artificum vitam effe&ricem.cap.cxxxix. cóprehendere fatagientis.ResponsioLicetidenneac formasuisymboli Schema Gemmik. Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in literario mundo. Quadrigarum cursu signariviram Adiuam, Naturaliscupidosciendiqu.erielatentesrerum præcipuequeMilicarem.que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis Schema xlij. Gemma , expenduntur. cap.cxli. paratur,ac desingulistribuscensura pro mulgatur. cap.cxxxiij. interitus , Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos. haberi. a fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis . Multiplexænigmatisexplicatio:& primade potentioribus diripientibus aliorum opes. De Anulis,quos adsignandum habebatMa- gnusAlexander. cap.cxxxvi. Secunda Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium ,acpofsef PanosHieroglyphica,deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatiopoliticanoftraSchematis,de terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema Gemma Platonica Panos explicatio,de conditionibus, Legem Agrariam ,affertur. QuartaSchematisexplicationoftraeftphysi. Auctarium . Schema Gemima. ca, de typo Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam . Poetarum& historicorumcommunisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur exalijs,cap.cxlij. TertiafententiaPlinij,Pausaniæque de Troia- Equoproponitur, & allatisanteacom Arcana Numinis,& ediftaPrincipumnonime telligentem ,acnonobferuantemmanet Schemaxlij.Gemme.' vis:Agriculturetypus:Ægyptus: Schema xlvii.Gemma, & propria natura Sermonishumani proponitur. QuintanoftriSchematis explicacio, deregione fionemfibioccupantibus. licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema x! Gemme . aqueacviribusvtendum . Aliorum opinionesdeSphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,& nonintelligentesoracula. Index Titulorum, D e Schemate noftri Mercurij Pana fugientem caufas, quibus inuentiscellat, non Sphinxcurinterimatnon obseruantesedi &a Ægypti. Postres i 1  Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- . CrucifixiPredicatores,Pifcatoreshominum: ciæ , ad vindictam injuriarum cxcrcitum.co. ChiorumantiquainHomerumobseruantiapu Explicatio prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ, rife, Propria Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium luminumn . proponitur,& comprobatur.Curantiquisacerdotesofferrentaliquandola Secunda explicatioGemmæ,dehomineforcu crificiaNuminisedentes, licibello Cælaris Augusti nata ,Belisarja. Afferturgenuina declaratioNumi Comitis11  Comica lafcime gaudet fermone Thalia : vel Sccunda noftra Schematis affertur explicatio dia gentium comparari. Salute patratum natomarehumanævitænauigante ventose. 406 chariftie Sacramento.Schema Gemme. ad veritatis imaginem . Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in V'tre conclufis. culo. gențis,hieroglyphico, cVniuersalisIudicijtypus: Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos Schemą .Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animopacatofacrificandum,& fupplicandum, Fructuumatquefrugum vbertatem concors Schema Gemma. Concordia, & fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella fuper ftes in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobuspiscibusmirifice, Quarta explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma. cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur, cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý,Gemma Belisarij,& Horatij [ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno. Mutij Sczuolæ Romani grande facinus,& inli- Responsio deCicutæviribus: & pri mum , cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus hominum piscatoribus. Schema lv. Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De sepulchrorum differentijs, & Homericu. Secunda explicatio Gemmæ , finale iudiciuin mulo, cap,cliii. 364 Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma celestium obferuationivacandum animo curis vacuo, quiescenteque corporeprorsus ExpendunturallarıSchematis imagines,& sensaViricl.cap.clvi, Aftronomioblernaca,& Aftrologiludicia,vc exarretieridebcant.cap.clxvii. myftice referentis.Tertia explication Gemmæ, desaturatainnume dePoerafcu Comico, feulyricolafciua fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans: carmina pangențe , cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc fortitudo detegiturinGemma cap.clxi.  pora çiçuræplanta :deque duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi. etiamproba, plerumque multum nocet fibi , dum viro coniugi, Cupido au o l a n s a Psyche fibi non mor i g e r a , Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. raadprocreandasmultasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum explicatio in gemma de mortis memoria, per anulum schematis De secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum, perperdentis corum post ludicium luendis a vita de f u n & is per perenni poft obitum , aut purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam hieroglyphice signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim  n quo agitur de Monftris generatim. CJ^ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02 propria efi, ac noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris, quaft res eventnras monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur» DeMonjlroriim Hnmanorum reali existentia, Realts extftentta Monjlrornm irrationalium natH- ram non eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam revera MonBra contingere, De Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue fint, Monflrorum caujfa Hnalis generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit. DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex quaquefit, De Moniirorum caufiaejfetiricegeneratim,quotaplex, qu&quefit» De MonflrorHm caiifiaeffeflricegeneratimtquotuple Xiqucequefit, Propria Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige^^ canjfd Mon^f OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ &quotwplexejfe valeat. Monftrorum in humana f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uiflo- ricis elicitur, Origo , (^ prima caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defe^u. Secunda caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis formatricis, Tertiacaufa,(^origoMonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci f(stum continentis, ^uartamutiliMonjlricaujfa^(^origoadmateriaineptitudinemredigitUY. Q^inta Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa 3 origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis parentumviexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in materics nimio excejfu ejje perhibetur. NonomniaA^fonjlraexcedentiaexmateri^srednndantiaexoririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertiolocoinunamateriaepenuriaobtinere. ^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur, .^inta caujja , ^ origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri excedemis pertinet ad anguHiam uteri„Septima caujfi , c^ origo Adonftri excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava origo , ^ caujfa Monftri excedentis in vitio nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto , (^ canfja Monftri excedentis monftratnr in animipajfio* nibus parentes aJJicientibHS : ex^rciiatio cum Cavdano , (^ Parxo. , Decima causa (^origoMonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^ ns concnljione reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon^riexcedentisrefertnradmorhnm foetus, Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr,  Jldonftrianctpitisorigo, C^ causa. Communis injtntiaturj ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo, caujjaextiteriangufiia, (^de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia Monjtnancipitisorigo , ^cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem, ^iteratammaterntjeminis, (^fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiperfostationsm, ^intaMonjlriancipitisorigo, ^caujfadepromiturexparentum - corpore Monjlrojb. SextaMonjlriancipitisorigoy C^caujfaexvehemeniiparentum imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator Mofiflri ancipitis origo , Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata JSfatura^ imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi Horicispromalgatur. De Monjlri dijformis natura, caujfis ; primaque illius origo refoU vitur in malam uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat ad malumjitum placenta nuncupatas : cujus ufns explicatur, TertiadijformisMonfhicaujfa,(^origoexmoladepromitur. , ,^arta Monjiridiffhrmisorigo,(^canjfaofienditurexmotu,  ^^inta Monjlri dijformis origOj (^ caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis, yi. S.exta origo, (^ caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem rediaitur, f^lI. Monflrainformia, dehitammemhrorum figuram non retinentia reipfa inveniri. Cde Adonflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde» ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. SecundaMonfirtinformisorigo, (^caujfj,exanguliiautericolli" gitur.  Tertia informium monfirorum caujfa , (^ origo in motu inordinato repO" nltur„.   arta informis Monflri origoi^ caufpi d(?prmiturifi mola^ (^ fLicema , tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn imhcilliime , acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($' C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa^ ^origoinnsonflrofoparentedete* gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm fliixum tempore conceptus, MonjirienormisexiHentiapatefit, Monjlra enormia^ & omnino monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds.  Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse confiderantHr, SecundaMonfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirienormisameofemore caufia, ^origorefblvitHYin morbum regium,^ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo ex craffitiei (^ fuligi* num copia extruditptr ; ubiplura de cordepilofo Ariftomenis, inta Manflrienormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upidefcentis origo, & caujja ex intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuilttformtsineademfpeciefnbf Mentiapatefit; ubidecapi-' le ytrtli ^ mulieris corpori ajfixo de Hermapbrodttts mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisineademfpecie^muUerisnempeviritecaputha- benits origo , ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur j ^ defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemnfculisefieminatis, Secund.canfia ejufdem moftlhi multiformis ^ (^ ori<To excutitur ex de jtdu fminis m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo , (£ cauJfarefertHf i,id pdrentumimairin Mionem. .^t^ariuorigo, (^cauffaMonfirimuliiformisineademfpecieadpa^ rent^s conjimilem natnram attinef, monfira mnltiformia ^diverfas animulium fpecies in ecdem genere proxmoreferemta fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri» -'- J^donjlYt midti formis diverfas animaliHmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa^ c^ origo frima depromitur ex apparentia. Secmida causa, G? origo Jkfanflri , mtiltiplicis fpeciei animalia referen' tts , ex imbecillitate generantis pendere demon(lrattir,  Tertia canjfa, Cs* origo Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis anima in nattiram alienam. ^arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species referentis origo cmffa ermtm ex materialifostus principio,  ^jtinta Monflri lotimani hrntalem effigiem habentis orioo , (cattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr, Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj (^caujfain altmentaris materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinameffigiem habentisex morboelicitur.O^avacauffa, (^origoMonflrihnmaniybrtitorumejflgieminmem' bris habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr» Nona caufja , corigo Alonflri varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis monflrofs,  Decima causa origo Monflri partes habentisbrtitorum membra (hnmana referentes, explicatur exfeminum miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE , alicubi n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs fpeciei.AlteradubitatiQ Maniliana, G? Lucretiana diluitur, negans qtiiA ejfenobiscommunecumferis, (^plantisadinvicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam, non autemrationibusinnixam, latedifcujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?, difputat. Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid uni tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di^in^le magis explicatur origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo Monfiri y varics speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus animantia diverfl qeneris, Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo, (^' caujfa prima in apparentiam refertur. S^cunda Monfira diverp generis origo (S cauffa ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis colligitur. Tertia Monflridmffigemiorigo, emffainMilifatefcrma- tricis repomtnr»  ^artacmujfa,c^origoMonflrimnlngemie?cimbecillitatcviv' tmisfeparatricis dedHcttm. inta causa,  erigo Monflri multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa Monflri poligenii materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri multigeneidejumitur ex debilitate virtmis alentisfoetum,  Octava causa origo Monflri diverftgenii ex inepto partium alimento educitur,  Nona cauffa , origo Monflri multigenii ex morbofostus adducitur, Decima caujfa, G? origo Monflri multtgenii ex parentum imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj Gf origo Monflri diverft generis adparentes  mon Yofosrefertur, Duodecima causa y (origo Monflripoligenii habetur infemitiumpermifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis in ovogallin<s...Decimaquartacaujfa, (^origoMonjirimultigeniiadvim mali Diemonis refertur,  Monftricacodamonis origo explicatur ex causis prius adducis.  Vewv&tio totius operis. Licetus. Fortunio Liceti. Liceti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Licon – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Licoforonte – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. A pupil of Gorgia di Leonzi. Primarily a sophist, he appears to hae taken positions on philosophical matters. For example, he declared that being from a noble family was worthless in itself, as its value depended solely on the esteem in which the family was held.

 

Grice e Liguori – implicatura critica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Personally, my favourite of Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’ since Speranza has elaborated on this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less, which breaks my principle of ‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice:  “Liguori has studied the metamorphosis of language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has the gift of the gab for metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del filosofo,” “l’alambicco dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale dello irrazionale” o “le ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della ragione,” “Trasimaco ha ragione” “Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il liceo classico presso i padri gesuiti dell’Istituto Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con la tesi “Lo scetticismo giuridico.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino, Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” --  viene riconosciuto come uno studioso di Kant, Graf, Leopardi, e Cartesio. Tratta  Positivismo di Sergi,  Lombroso, Morselli e Vignoli; dello scetticismo di Rensi ponendolo in critica relazione tra Leopardi e Pirandello; ha scritto di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Ha tenuto rapporti epistolari con Garin, Bobbio, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad Ostuni (BR) il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano note personalità della politica e della cultura quali Donini,  Fiore,  Radice, matematico e fondatore e direttore di “Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze” diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana, diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non" è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca Comunale di Ostuni (BR) intitolata a Francesco Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico libro autobiografico dello stesso autore.  Critica e commenti sull'opera di Girolamo de Liguori Carteggio con illustri studiosi Bobbio: Il libro mi pare di grande interesse, per l’ampiezza e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine, che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì, ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato: un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati». Sebastiano Timpanaro: «[…] Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la caratterizzazione del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò che finora ignoto essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che molto di rado accade di leggere». Ambrogio Donini: “Mi pare, ad un primo esame, fondamentale per la conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo moltissimo tale metodo di indagine e la serietà della documentazione. Uno studio di questo genere è certamente costato decenni di intensa documentazione». Guido Oldrini: ho letto subito il volume su Arturo Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano il Arturo Graf, anzi noni menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Arturo Graf con Napoli che il volume di de Liguori illustra con tanta passione». Franco Contorbia: “poche volte accade di fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Donato Valli: «L’autore ha consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Paolo Rossi, “L'autore… ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante il  di de Liguori Materialismo inquieto, edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di de Liguori è largamente meritorio oltreché ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera» riguardante il  di de Liguori Materialismo inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini dell’autore su Arturo Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la “presentazione” di un grande Maestro come Eugenio Garin, e accattivante e simpatica l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di de Liguori su Graf, uscita sul «Giornale storico della letteratura italiana». Corrado Augias: «Quella di De Liguori è infatti una storia meridionale che parte da una finzione narrativa di gusto classico ma così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto celebri che non vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La Rassegna pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna enciclopedia del sapere, «La Rassegna pugliese», II“Efirov e la filosofia italiana, «Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti -- appunti per la storia della censura leopardiana, «La Rassegna della Letteratura italiana», Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce,  “La condizione del senso”; “Per una riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett. It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi», Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil. It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,  Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la cultura” Prefazione di E. Garin, Lacaita, Manduria,  “Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’ Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il materialismo psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia -- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia e nella storiografia del positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno della SFI, Assisi,  Porziuncola); Dimensioni», Livorno, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism” (Laterza Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani, Rileggere Siciliani, G. Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti epistemologici e immagine della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e politica a Genova nell’età del positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione filosofica Ligure--  Cofrancesco,  Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e scienze dell’uomo; Kant e la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire da Kant; L’eredità della “Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli. Introduzione di Marcucci, Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il dibattito su scienze e filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale della fede in Martinetti, Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie dell’evoluzione nella prospettiva monistica di  Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino, Congedo, Galatina,  L’immagine della donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,  E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “ filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica,  «Lavoro critico»,  Il sentiero dei perplessi -- scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione», Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in Italia,  La psicologia in Italia, a cura di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata, Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati, Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma, Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana, Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Cronache di filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni di Storia dell’Torino»,  Per Mucciarelli: positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il “materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica liberale»,  Lettere di Timpanaro a Liguori, in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi, «Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione, commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari», I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, «Rivista di Storia della Filosofia», “Libido Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti; Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse,  «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”. Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli,  L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier /Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli, in Quaderni  Noce, Marco,  Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero e  Loretelli, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica italiana»,  Le cose che non sono, in «Critica Liberale»,   Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari, Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza autografa) tra Liguori e i singoli autori citati  P. Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, Girolamo de Liguori, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al materialismo, in Corriere della Sera,  M. Marti, Recensione a I baratri della ragione  in Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia.  Dannazione e redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di Girolamo de Liguori Il Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1 Abstract The paper examines the story of Eros, from ancient Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline relevant connections with other events of thought and religious traditions as well as European popular customs. The ideological conflict with Christian ethics and Catholic church is particularly highlighted thanks to a specific textu- al analysis, particularly during 17th and 18th centuries. Keywords: Subjects and Figures of Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, (nuova ed. con apparato critico, dopo l’originale, Treves 1889, in sedicesimo) a cura di C. Perrone, introduzione di L. Firpo, Salerno editrice, Roma 1981, p. 99. Avverto l’eventuale lettore che lo scritto che segue ha natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei confronti dei docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce dall’assemblaggio di appunti per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a Parma al Teatro del Vicolo il 3 maggio 2013, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine rimandare sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta divulgazione, curati per Rai Educational, di Simona Argentieri, Umberto Curi e Sergio Moravia, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche dell’aprile 1998. 29  1. Raccolta e catalogazione dei materiali Non partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non di- ciamo che le cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire in noi il pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad altri corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita.. Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale: arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol- le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia, la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010. 30  dovuta prudenza filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo. 2. Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana: il suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino, per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie, cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc. Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano Fecisti patriam diversis gentibus unam [...] Urbem fecisti quae prius orbis erat Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e lord George Byron che 3 Cfr. F. Denis, Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du Moyen Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2 voll., Loe- scher, Torino 1892-1893. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino 1882. 31  ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country! City of the soul! The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta con sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore e di vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo. Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico, dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia- bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi- renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente, immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: 4 Si ricordi, P. Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, «Annali delle Univ. Toscane», t. VIII, Pisa 1866, pp. 153 e sgg. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di Dante, Sansoni, Firenze 1874, p. 52, in particolare. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio, I baratri della ragione. A. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di E. Garin, Lacaita, Manduria 1986, pp. 228-248. 32  Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione, immaginavo d’essere tra le de- lizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. [...] E quell’io, che per timor dell’inferno m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi della libidine5. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di San Giro- lami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene stigmatizzato come “peccato originale”, una sorta di marchio che da quel momento in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo di recu- perare in positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente la mediazione del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che presiede alla bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di nuove figure positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù, figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un feno- meno storico noto agli storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da S. Gerolamo, Epistolae, II, 22, 7, in Patrologia latina, a cura di J.-P. Migne, Parigi 1879-1970, vol. XXII, pp. 398-399. Cfr. A. Graf, Il Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente, trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova religione cristia- na. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il cavaliere francone di cui la dea Venere si innamora6. È nel mondo romano in sfacelo che gli dei di Roma si avviano alla loro metamorfosi (quello che non era accaduto agli dei ellenici). Da un canto si rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera gente di campagna e ne conti- nuano a propiziare raccolti, a combattere carestie ad aiutare la gente misera nelle quotidiane disgrazie che affliggevano gli umili e gli indifesi; dall’altro lato, in questa storica trasformazione, raccolgono in loro tutto il male ese- crabile del mondo antico: il turpe, il diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo romano di origine greca. Soprattutto l’osceno (ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è visibile) e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei pagani si trasformano così in demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai poeti, da Ovidio, Catullo (i neoteroi) a Tito Lucrezio Caro, che lo inserisce nel fluire e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva divaricazione della sessualità dall’amore spirituale, come aspetti di una pas- sionalità di differente e contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di Lucrezio: Aeneadum gentirix, hominum divomquae voluptas, Alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentes, concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitqae exortum lumina solis; Ma ecco come espone Arturo Graf, storico dei miti romani nel Medio- evo, la sottile trasformazione degli dei di Roma (quelli stessi che Virgilio, guida di Dante, aveva chiamati, falsi e bugiardi) in divinità o potenze demo- niache cristiane: I numi che avevano avuto altari e templi non muoiono, non dileguano, ma si trasformano in demoni, perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, ser- bando tutti la gravità antica, accrescendola. Giove, Giunone, Diana, Apollo, Mercurio, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al cul- to che loro era reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno cristiano, in- gombrano di strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata in demonio meridiano, invaderà i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le 6 G. Paris, Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris 1903, dove esamina la storia e la dif- fusione della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa leggenda resta Guglielmo di Malmesbury (XII secolo). Vedi Graf, Il Diavolo, cit., pp. 143 e sgg. 34  squadre delle maliarde, istruite da lei. Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, userà negli uomini l’arti antiche, inspirerà ardori inestinguibili, usurperà il letto alle spose, si trarrà fra le braccia, sot- terra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio, non più curante di Cristo, avido di dannazione7. 3. Scienza, filosofia e fantasia: il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto latente tra il sapere e il credere Ogni proposta gnoseologica parte opportunamente da quelle ben note premesse che Galileo autorevolmente chiamava le “sensate esperienze”, an- che se le poneva in relazione con le “certe dimostrazioni”. Così, prudente- mente procedendo, ogni teoria della conoscenza, pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non escludeva né poteva escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la quale da sempre la mente umana ha provato ad elaborare i portati sensoriali, di volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o pulsioni come l’amore, l’eroti- smo, o, addirittura, la poesia con cui ci accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta celeste di kantiana memoria. Gli eroi greci per comprendere una verità nascosta, scendevano nell’Ade, entravano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo «pensiero femminile», ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo solitamen- te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è detto e sostenuto da parte delle donne – «le poesie vivono delle voci narranti che, appassiona- tamente, riflettono su un passato da abbandonare»:8 Quel che sembrava finito Era nascosto entro i luoghi del cuore... Da tale prospettiva, in conclusione, «per giungere a tanto bisognava scen- dere all’Ade», come fa il viaggiatore Odisseo: «provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le esperienze». S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la possibilità razionale di elaborare non 7 A. Graf, Il Diavolo, riedizione cit., pp. 52-53. 8 Utilizzo in questo paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della mente G. Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza. 35  più ciò che è nei sensi ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo il Leopardi dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile (la sie- pe, il vento, lo stormir delle foglie) che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore... ...E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei.... E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere, addirittu- ra nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è un uomo, pro- viamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza: l’obliviologia. È cer- to come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al celeste raggio nessuna sepolta Pompei; non procediamo, in senso freudiano, a rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro. L’oggetto è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto: mai esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto agli elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto processo di invec- chiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fanta- smatiche, i “mostri” o “giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa nostra propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più umile, che sempre e soltanto costruzio- 36  ne della ragione, in quanto ogni fede presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione deriva la plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la nostra visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel numinoso e nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla nostra razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco, imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare dalla nostra libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9. Credere, altro non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è fede senza il sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il limite è il sano buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre ed esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità, si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni- versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali, nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bo- sch o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9 Cfr. P. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è, sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale): la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, «Il Cannocchiale»,  ni, tramandate oralmente nei miti e nelle leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e scientifica: scopriamo un nuovo continente spe- culativo, il pensiero al femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura. Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo nel 1898: E dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol- trecché esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un lievito sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne alla quale in qualche maniera non cooperino [...] che se i geni fossero pazzi davvero [...] bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disa- dattati, quali son per l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un buon servigio. Da altra banda è da considerare che un perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli uomini supinamente contenti e tranquilli e porte- rebbe fine al moto della storia, per la ragione potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo, perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini, alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri proibiti, che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an- cora ad es. emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della Chiesa: Alfonso de Liguori. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquie- tarsi con la coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché può essere che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la via ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così resterà digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile, il motto lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del sapere viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con San Girolamo: «Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi, altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno, che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone, l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini, Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (Dal Magalotti al padre Valsecchi), «Giornale critico della filosofia italiana»,  immodeste? Che danno voi dite? Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano specialmente le passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o almeno la rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche affezione non pura verso qualche persona, il Demo- nio trova l’anima già disposta per farla precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro “la concupiscenza dei sensi”, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati e avviano le loro sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato peccato mortale. Ed è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così come uno ster- corale si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del sesso: la cura me- ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo, legittimarlo, canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del piacere e costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di un semplice scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della chiesa cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà e d’erudizione: che Croce defini- va il più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta- zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato contro questo precetto è la materia più ordinaria delle Confessio- ni, ed è quel vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in altro libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la mente) se non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad amministrare il Sacramento della Penitenza13. Affronta perciò subito lo scabroso tema della fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta casistica sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an puella oppressa teneatur clamare, an pos- sit unquam permittere sua violationem, de aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non datur par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena advertentia, et consensu capta, mortale peccatum est. 12 La vera Sposa di G.C., A. M. de Liguori, Istruzione e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napo- li, MDCCLXV, I, p. 333 e sgg., anche per le citaz. successive. 40  Il pio moralista, scaltrito nella casistica giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per trovare la situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o, addirittura, del tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti nel matrimonio o extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i toccamenti, oscula et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi casi dubbi da esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni mondane sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni della carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare secondo la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto, secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans consentiente (p. 335). Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi, differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali: Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direb- be - ad arricchire la documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu in Ecclesia permanere debeant. 41  Il lettore ne trae l’impressione che l’autore (più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo, dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta. Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali, speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi. L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici: il Cinquecento e il Settecento. Dall’Italia delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42  pilotare la barca dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e fargli recuperare il valore perduto col trionfo del Cristianesimo. Un recupero, tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi, era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare” (Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così generalizzata. Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo dell’erotico bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei fianchi femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle parti del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto istruttive le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif de La Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e generalizzato di tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri amorosi.. Perciò, una volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento illumi- nistico, astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi depravati, pro- viamo a riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da pregiudizi e remore moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e d’amore di quel secolo che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre che di Voltaire, di Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la grande rivoluzione dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale summa di sapere moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di tutte le scienze, le arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una serie di Anti-Enciclo- pedie anche da noi in Italia per porre un argine all’avanzata di quelle idee di libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI è qui d’obbligo: Così ti spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè, per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese... Insomma lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale porta il sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere nei particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori del matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie fino a scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i comporta- menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da verificare di volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega pertanto il pio cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo denuncia la stessa corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto da diventare complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non poter più fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e libertinismo, così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare, si fa sempre più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime capitalistico, domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di Podrecca a Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale alfonsiana, Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso e, in genere, tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro una nuova coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere stesso trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando quella ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come uno dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo. L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo, diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o “pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO, ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea, da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani. Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE, Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto  ad opera di specialisti che li vanno pubblicando e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot, curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri, Roma. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword: “Associazione Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the true abyss of human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” – l’anima distilata – il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria, la degenerazione, la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lilla – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Francavilla Fontana). Filosofo italiano. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as he puts it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’ Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti, Minghetti, Balbo e Rosmini al quale dedicherà molteplici studi subendone una marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il clero  alle sue idee patriottiche d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a Napoli. Durante questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà considerate nella civiltà", "Dio e il mondo", e "La personalità originaria e la personalità derivata" (Nappoli, Tip. Rocco), nei quali getta le premesse degli studi filosofici e giuridici in cui si cimenterà per tutta la vita: la storia della filosofia, la filosofia teoretica e la filosofia del diritto; sviluppando altresì e precorrendo una moderna concezione del rapporto tra "diritti umani e progresso scientifico" sin da “La scienza e la vita” (Torino, Tip. G. Borgarelli) -- titolo paradigmatico del suo saggio – cf. Grice, “Philosophical biology,” “Philosophy of Life” Insegna a Messina. Furono quelli gli anni più fecondi della produzione scientifica volta a perfezionare la sua concezione dello Stato, approfondire le fonti rosminiane, confrontarsi con le teorie evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente intrattenere contatti epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi, patrioti e storici dell'epoca quali:  Jhering, Bluntschli, Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Saggi: “Kant e Rosmini” (Borgarelli, Torino); “Aquino” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del sistema filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose scoperte di Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei sistemi ideologici, L.F. Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua Pia Opera di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del diritto, Milano, Società editrice , Pagine estratte. G.  Martucci, Il concetto dello stato  Antonio Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (G.B. Randi); “Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale, Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: emeroteca.provincia.brindisi. Martucci,Il concetto dello stato, su emeroteca.provincia.brindisi.  Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non accordabile col supremo principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro G.B.Vicorivendicato»meritòl'onoredi essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu dii vichiani, ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè effetto di conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore, specialmente se si mira ricostruire la mente di G. B. Vico.Questi scrittori sono Luigi Ferri (1)e Vito Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far supporro che fosse effetto di un concetto prestabilito.L'accordo fu pie nissimo nella prima parte del lavoro di carattere puramente critico e riconobbero che la rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da tutte le fallaci interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia; anno XII, Vol. 2.  (1) « Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui sopra indicato del prof. Lilla , è giusto segnalarli all'attenzione degli studiosi piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro dice molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che sulle dottrine del Vico sono stati portati in Italia , in Germania e in Francia particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gio berti,nè un razionalista kantiano,o piuttosto un precursoredelKant ,co mesembravaaBertrando Spaventa,nèunpositivistacomo furappresentatoda altri.Questi apprezzamentirisultaronodall'interpetrazioneparzialeesoggetti va di qualche parte dei pensieri filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in ordine sistematico , e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza raccoglie e combina riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della scienza nuova sparse nei moltiplici suoi scritti. »   era esauriente e condotta con criterii elevati. La mia interpe trazione sulla vera mente di G. B. Vico fu riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo desiderio di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli cazioni. Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di lena, mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la mente dell'autore della « Scienza Nuova» Atalescopoindirizzaituttelemiericercheattingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova . » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica presenta apparenze di verità tanto che il Vico stesso no rimase impressionato,ma raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato. La grand o idealità diquestamassima «la storia ideale eterna delle nazioni» « Il Lilla ha liberato la dottrina del Vico da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel volume delle Onoranze; è una vera esagerazione , e chi si addentra nella parte riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del Vico ilquale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni, le costituzioni p o litichedeglistatisonoemanazionidiquesto principio.Nelprimo stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino,tuttoprocededagliDei;ilGoverno teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si riferisce agli auspicii ed alle nozzo: laGiurisprudenza è scienza d'intendere i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare. Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi gentilizie o stemmi.I ca ratteri eroici come Achille ed Ulisse, che personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica, che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di stato conosciuta dai pochi provetti del governo , il giudizio eroico che consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che il Vico impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo princi pio della Scienza Nuova , cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva, non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di  umana , il parlare articolato , i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed intelligibili cose , la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone ilrigore.E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta le qualità civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii, chesono:iltimore, l'amore , il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità dell'anima.In questiconcetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova. Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon portiadelleideeesclusiveenonsoffochilalibertàdeinostri giudizi verso lo scopo ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più perfetta dell'uomo , ci rivela la sua imperfezione , in questo modo èriconosciutalanecessitàdell'Ideale,perchè fossecriticatoemiglio rato il presente.  puri concetti metafisici, poichè il processo inquisitivo che egli seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un temperato e ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la scienza dalla vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana supellettile intellettuale ,> un giuoco dialettico del pensiero e non punto proficua al beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di perfettibilità , supe riore , ma non indipendente dalla vita , verità questa intuita dall'antesignano della scuola storica tedesca,da Savignys,ilquale era ammiratore passionato delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la più alta manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di senno confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le istituzioni romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza. Vico gittò le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel processostorico– filosofico.E dàbiasimoaldivorziofraquesti due processi metodici, in questa memoranda sentenza « Pecca rono per metà i filosofi perchè non accertarono le loro idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i filologi perchè non inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi». La storia ci rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti politici, sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e addita le perfezioni ideali, cui si possono inalzare;veritáquestaintuitada Bacone daVerulamin «I filosofi, >   dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi, ma impossi bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri nelle catene. Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare questo supremo principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento inedito. « Tutla quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe culativa intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le nazioni, le quali vanno a cadere o non ruinino affatto , o non s'affrettino alla loro ruina ed in conseguenza mancare nella pratica , qual dev'essere di tutte le scienze, che si ravvalgono d'intorno a materie , le quali dipendano dall'umano arbitrio , che tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi sono delle oscil lazioni sulle loro concezioni. Il Vico nel fram . citato, dice che la scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i reggitori degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi la scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla necessità logica, può essere (1) Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI, vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi pro. ponunt multa dictu pulcra , sed ab uso remoto. Jureconsulti autem ,suae quisque patria legum , vel etiam Romanorum , aut Pontificiarum placctis abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine puramente scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possonoregolarelavita.Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori , procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del Filosofo Napoletano racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni, modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico. Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la fonte di questa dottrina. Secondo la mente del Vico non si potrà revocare in dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale , la quale ci attesta la natura comune sociale dei popoli.  Questo argomento comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto comune, patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o comunicato da p o   polo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes suna comunanza di relazione.(1)Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni , la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti giuridici e politici , e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia dei costumi deve emanare da due cause coefficienti:dall'ordine reale e dell'ordine ideale,e così si avvera ilgran principio del Vico che « verum et factum recipro cantur » Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo comune di vero. Scienza nuova,libro I. Dignitá XIII. avere un'origine per quanto rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo Incoerenze di Giambattista Vico del mio lavoro inedito: La mente del VICO rivendicata, illustrata e integrata.  A riassumere la dottrina giuridica di Vico  è indispensabile determinare i principi fondamentali  dell» scuola storico-filosofica da Ini splendidamente  rappresentata.   La Scienza Nuova è lu riprova più sicura della  «lenominazione apposta ; iu quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno del¬  l’armonia fra i principii razionali e il fatto storico.   La psicologia sociale è il substratum delle leggi,  delle religioni, delle lingue e di tutti gli altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia  contenuta in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili, sociali e politiche sono  conseguenza necessaria della vita, della cultura e  dei costumi delle varie nazioni.   Egli divide in tre grandi periodi la storia civile  delle nazioni, cioè l’età del senso, della fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito, dalla  religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza  c infine alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre grandi avvenimenti  '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono  accompagnate dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da cui poi si eleva  ai supremi principii giuridici. Questo sapiente indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto adunque deve procedere di  conserva col vero, altrimenti si cade o nel forma¬  lismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché  non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta i filologi perchè non  avverarono le loro idee con l’autorità dei filosofi.  Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,  perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua  vera integrazione nei principii di ragione, e questi  hanno il loro fondamento nell’ordine dei fatti bene  accertati.   Storia e Ragione sono adunque i due fattori del  diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal vero,  si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta, o fallace. Il diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale  a dire un principio ideale e storico, o meglio un  principio ideale che si attua nella storia; e tanto  è vero ciò che mette radice nell’ordine eterno dell’eterna ragione o dell’eterna volontà in quanto  prescrive alia volontà umana l’equo bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da due  cause coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la forma e l’altra la materia. Utilità»  fiiit occasio iuris, honestas causa. Tutto ciò risponde esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la plebe, insorgendo contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure era mossa dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e  civile delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i quali contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates diligit et exquat, quao  nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma  pnò divenire l’uno o l’altro quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto ha l’anima e il corpo,  la materia e la forma, ed lia un contenuto etico, che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I punti salienti nei quali si rias  mine la teorica del Vico sono i seguenti : l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero col fatto; insidenza del diritto nel  bene, incarnata nella formula dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità  in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia;  e la ragione forma del diritto.Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Limone – simbolica del potere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella di Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e il  Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des amis d'Emmanuel Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fondato la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un quid ma di un “quis” perché la persona è un “chi” non un “che” – That’s why it’s very wrong to call “the chair is red” as third-person seeing that the chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce la visione del gius-personalismo. Opere: “Tempo della persona e sapienza del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli, Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice, “Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento (Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua (Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria). Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila: distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato (Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV. Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione del simbolo,  ventennio, fascismo, simbolica del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica, simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --.  Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e persona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lisi – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Lisi was a Pythagorean. When the Pythagoreans were being persecuted in Italy, Lisi escaped and made his way to Teba. There he became the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He wrote a letter to Ipparco.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

Grice e Lisiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisibio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisimaco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Lisimaco belonged to The Porch. He was the tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio came from Firenze, that may be taken as having been the home of Lisimaco as well.

 

Grice e Livio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Tito Livio. Although famous as one of the great Roman historians, he was also a philosopher, who popularized te form of the ‘dialogo filosofico.’

 

Grice e Lodovici – la virtù – verso la meta – la meta è l’origine -- filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. – Grice: “I like Emanuele Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek lodovici -- one of the two. Emanuele Samek Lodovici  Il suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino, Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano. Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e cultura cattoliche, studiò a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la cattedra di Filosofia a Trieste.  In una lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali, Dio e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.  In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo tramite la politica e/o la scienza.  Così nel pensiero gnostico la finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi limite.  Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.  Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino.  In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza, secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose», e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che  «ha affermato la libertà politica da ogni autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»  Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte prime ed ultime.  Tipica poi del suo pensiero  è la «cultura del ricordo», intesa come cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che  «mi rende migliore di quello che sono».  La riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che, per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò «non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente, come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “ Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in  Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino, in  Questioni di storiografia filosofica, La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in, Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli,  La felicità e la crisi della cultura radicale ed illuministica, in  La crisi della coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares,  Dominio dell'istante, dominio della morte. Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il gusto del sapere  Estratti di L'arte di non disperare  M.  Picker, Il mio professore di filosofia, Studi Cattolici, G. Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo, Catania. Giacomo Samek Lodovici, Profili. Emanuele Samek Lodovici, Studi Cattolici, A. Sciffo, Le maschere della gnosi, «Avvenire», Gaspare Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza., in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles, La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Sergio Fumagalli, Emanuele Samek Lodovici e Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/tesi.pdf  G. Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre, una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivioStorico Articolo-emanuele-samek-lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il ritorno della gnosi, in «Avvenire», G. Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano.  Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu   su Santi, beati e testimoni, santiebeati.  Il gusto del sapere Universitas, Documentazione interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi” S. Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la gnosi come vero avversario della verità di S. Restelli, sito "CulturaCattolica. Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile, virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice Lodovici – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) “Giacomo samek lodovici is the author of a fascinating essay on philosophical psychology. Figlio di Emanuele Samek Ludovici.

 

Grice e Lombardi – la filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Lombardi; he took seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and like Passmore or Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of Italian philosophy. This shows that his interests on Kant, etc., are Italian-based, mainly!” Il padre Giovanni fu avvocato e docente di diritto e procedura penale a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il fascismo, autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu nipote di  Ciccotti, nella cui casa era cresciuta. Tradusse alcuni degli scritti di Karl Marx nelle Opere edite dal Ciccotti e la Storia del movimento operaio di Edouard Dolleans.  Laureato e libero docente in filosofia lavora in filosofia. Pubblica “Il mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a Roma. Presidente della Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione) della Società filosofica romana, diresse il "Centro di Ricerca per le Scienze Morali e Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore della rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli fu conferito il premio nazionale "Benedetto Croce" per la filosofia.  Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze: Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli; “Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze: Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti: Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni); “Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti: Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni,  Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galileo: un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni, “Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Milano: Castellani & C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma. Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana, Galilei.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lombardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Longino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An adviser to Queen Zenobia. Oddly, when Zenobia was defeated by the Romans, she was taken off to Rome, whereas her adviser was executed.

 

Grice e Longino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Cassio Longino was a legal scholar and theorist.

 

Grice e Longano – dell’uomo naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripalimosani). Filosofo italiano. Grice: “Longano took ‘naturalness’ so seriously that he would apply it to anything: ‘man’ (‘uomo naturale’) and morals (‘morale naturale’).” “I like Longano; he is a systematic logician, as I’m not – therefore he thinks that to study semantics, which logic is, starts with studying signs – as I did in my seminars on Peirce – so Longano is the one I was referring when I mentioned what ‘people were at when they display an interest in natural versus conventional signs; he also has interesting things to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!”” Figlio di Vito Longano e Dorotea Gentile, fu allievo di  Zurlo, si trasferì a Campobasso e quindi a Napoli dove divenne allievo di Genovesi. Fece parte della massoneria ed è considerato un importante esponente dell'illuminismo, fu sostenitore dello stretto rapporto tra anima e corpo e di una visione dell'uomo nella sua interezza. Propugnò la rinascita dell'Italia, proponendo un piano di riforme e il superamento del feudalesimo.  Opere: “Piano di un corpo di filosofia morale; ossia, Estratto d'un corso di Etica, di economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo Natural Napoli, “Saggio sul commercio” (Napoli, presso Vincenzo Flauto, Raccolta di Saggi economici per gli abitanti delle due Sicilie, Napoli,  I, presso Domenico Sangiacomo,  II, presso Giuseppe Campo, “Dell'uomo e della sua morale natural -- Esame fisico, e morale dell'uomo, Napoli, Michele Morelli, Dell'uomo, e sua morale natural, Della morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo Religioso e cristiano,  Dell'uomo religioso, Napoli, M. Morelli, “Logica” Viaggio per lo contado di Molise ovvero descrizione fisica, economica e politica del medesimo, Napoli, Viaggio per la Capitanata, Napoli, Domenico Sangiacomo, Il Purgatorio ragionato, F. Lepore, postfazione di S. Martelli, Campobasso, Palladino, “Philosophiae rationalis elementa” “De arte logica” (Napoli, “De metaphysica” (Napoli, Orsino); De Jure humanae, Napoli, Biblioteca provinciale di Foggia; L'anno di Genovesi, su biblioteca provincial foggia. Gaetano, su webcache .googleusercontent.com A. Rao, L'amaro della feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli” (Guida),  F. Rizzo, La civiltà del Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella provincia molisana del XVIII secolo,  S. Borgna,  su delpt.unina, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Longano. Longano. Keywords: dell’uomo naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e Longano: esame fisico dell’uomo” “Grice e Longano: la semiotica” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Losano – filosofia del diritto romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casale Monferrato). Filosofo italiano. Grice: “I like Lossano; his research overlap with that of H. L. A. Hart, but Losano is more interested in the philosophy and he is obviously more continental, as he should, given the prominence of Kelsen in the field!” Si occupa di filosofia del diritto e informatica giuridica. Si laurea a Torino. Insegna a Milano e Alessandria, e Torino. Si occupa di storia della filosofia del diritto; teoria generale del diritto; circolazione mondiale delle idee giuridiche e sociali; filosofia politica; diritti umani; geopolitica; informatica giuridica; privacy; e-publishing; edizioni di archivi storici. Pubblica un completo panorama sull'evoluzione della nozione di sistema nel diritto dalla Roma antica ad oggi. Cura carteggi di Jhering ed opere di  Jhering e di Kelsen. Curato l'edizione critica delle corrispondenza di Roesler. Come informatico giuridico, ha pubblicato un manualedi informatica giuridica e diritto informatico e un progetto di legge sulla tutela della privacy; Presidente del "Centro di calcolo automatico” a Milano. Saggi: “La dottrina pura del diritto” (Einaudi, Torino); La teoria di Marx ed Engels sul diritto e sullo stato. Materiali per il seminario di filosofia del diritto” (Milano. Anno Accademicom Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino); “Gius-cibernetica” Macchine e modelli cibernetici nel diritto, Einaudi, Torino); Libia Materiali sui rapporti fra ideologia ed economia” (Milano. Anno Accademico Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino); “Lo scopo nel diritto. Einaudi, Torino, Jhering, Lo scopo nel diritto” (Aragno, Torino, Corso di informatica giuridica, Cooperativa Milano), Corso di informatica giuridica; L'elaborazione dei dati non numerici, Unicopli, Milano; Il diritto dell'informatica, Unicopli, Milano Corso di informatica giuridica;  Stato e automazione. Etas Kompass, Babbage: la macchina analitica. Un secolo di calcolo automatico, Etas Kompass, Milano Scheutz: La macchina alle differenze. Un secolo di calcolo automatico, Etas Libri, Milano); Invenzioni francesi del Settecento. Testi originali con 15 tavole dell'epoca, Bottega d'Erasmo, Torino); I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extra-europei, Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Laterza, Roma Bari, L'informatica legislativa regionale. L'esperimento del Consiglio Regionale della Lombardia, Rosenberg & Sellier, Torino Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano, Automi arabi del XIII secolo. Dal "Libro sulla conoscenza degli ingegnosi meccanismi" (Maestri, Milano); Automi d'Oriente. "Ingegnosi meccanismi" arabi del XIII secolo, Milano Il diritto economico, Unicopli, Milano); L'ammodernamento giuridico, Unicopli, Milano); Corso di informatica giuridica: Informatica per le scienze sociali, Einaudi, Torino Il diritto privato dell'informatica, Einaudi, Torino, Scritto con la luce. Il disco compatto e la nuova editoria elettronica, Unicopli, Milano, L'informatica e l'analisi delle procedure giuridiche, Unicopli, Milano, Diritto e CD-ROM. Esperienze italiane, Giuffrè, Milano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Époque, Einaudi, Torino Saggio sui fondamenti tecnologici della democrazia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Istituto per la Documentazione Giuridica, Firenze, Kelsen Umberto Campagnolo, Diritto internazionale e Stato sovrano. Mario G. Losano. Con un inedito di Hans Kelsen e un saggio di Norberto Bobbio, Giuffrè, Milano, Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale, Laterza, Roma); “Sistema e struttura nel diritto: Dalle origini alla scuola storica” (Giuffrè, Milano, Il Novecento” (Giuffrè, Milano); Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè, Milano U. Campagnolo, Verso una costituzione federale per l'Europa. Una proposta inedita. Giuffrè, Milano,   "Cedant arma Un giudice e due leggi. Pluralismo normative, Giuffrè, Milano, Funzione sociale della proprietà e latifondi occupati, Diabasis, Reggio Emilia, Kelsen, Scritti autobiografici. Traduzione e cura di Mario G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia Peronismo e giustizialismo: dal Sudamerica all'Italia, e ritorno. M. Rosti, Diabasis, Reggio Emilia, Memoria dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino Academia delle scienze editorial memorie morali Campagnolo, Conversazioni con Kelsen. Documenti dell'esilio ginevrino Giuffrè, Milano La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla de-colonizzazione” (Mondadori, Milano); Kelsen Arnaldo Volpicelli, Parlamentarismo, democrazia e corporativismo” (Aragno, Torino); Alle origini della filosofia del diritto a Torino: Albini. Con due documenti sulla collaborazione di Albini con Mittermaier, Memorie della Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle scienze/attivita editorial periodici-e-collane/ memorie/morali I carteggi di  Albini con Sclopis e Mittermaier. Alle origini della filosofia del diritto a Torino, Memoria dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle Scienze attivita editorial, periodici-e-collane/memorie morali Alle origini della filosofia del diritto, Il corso di Alessandro Paternostro a Tokyo. In appendice: A. Paternostro, Lexis, Torino I La Rete e lo stato” (Mimesis, Milano); Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma,  Kelsen, Due saggi sulla democrazia in difficoltà” (Aragno, Torino); “La libertà d’insegnamento in Brasile e l’elezione del Presidente Bolsonaro” (Mimesis, Milano). Mario Giuseppe Losano. Losano. Keywords: filosofia del diritto romano -- Luigi Speranza, “Grice e Losano: storia del diritto romano – what Kelsen never had!” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Losurdo – il ribelle aristocratico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sannicandro di Bari). Filosofo italiano. Grice: “Losurdo has contributed to a collection on ‘fatti normativi’ which is fascinating!” --  Grice: “I like Losurdo: describing Nietzsche as the aristocratic rebel is genial; he also engages in some linguistic botanising with his ‘linguaggio dell’impero’: something Romans and Brits know well – cf. ‘Great Britaiin’ and my little England!” -- losurdo, Italian philosopher, expert not on Grice, but Nietzsche, “Nietzsche, ribelle aristocratico” -- essential Italian philosopher. Si laurea a Urbino sotto la guida di Salvucci con la tesi, “La semantica di Rodbertus”. Direttore dell'Istituto di Scienze filosofiche e pedagogiche "Pasquale Salvucci" all'Urbino, insegnò storia della filosofia nella stessa università presso la facoltà di Scienze della Formazione. Inoltre fu presidente dell'hegeliana Società internazionale Hegel-Marx per il pensiero dialettico, membro della Società di scienze di Leibniz a Berlino (un'associazione di scienziati che si rifà alla settecentesca Accademia Reale Prussiana delle Scienze nella tradizione di GLeibniz) e direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Dalla militanza comunista alla condanna dell'imperialismo statunitense, fino allo studio della questione afroamericana e di quella dei nativi, Losurdo fu studioso anche partecipe della politica nazionale e internazionale. Di formazione marxista, descritto sia come un «marxista controcorrente» sia come un «marxista eterodosso» e un «comunista militante», la sua produzione spazia dai contributi allo studio della filosofia kantiana (la cosiddetta autocensura di Immanuel Kant e il suo nicodemismo politico), alla rivalutazione dell'idealismo classico tedesco, specie di Hegel, nel tentativo di riproporne l'eredità (sulla scia di György Lukács in particolare), alla riaffermazione dell'interpretazione del marxismo tedesco e non (Antonio Gramsci e i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa), con incursioni nell'ambito del pensiero nietzscheano (la lettura di un Friedrich Nietzsche radicale aristocratico) e di quello heideggeriano (in particolare la questione dell'adesione al nazismo di Martin Heidegger).  La sua riflessione filosofico-politica, attenta alla contestualizzazione del pensiero filosofico nel proprio tempo storico, muove in particolare dai temi della critica radicale del liberalismo, del capitalismo, del colonialismo e dell'imperialismo, nonché della concezione tradizionale del totalitarismo (Hannah Arendt), nella prospettiva di una difesa della dialettica marxista e del materialismo storico, dedicandosi anche allo studio dell'antirevisionismo in ambito marxista-leninista. Losurdo ha una visione molto critica della tradizione intellettuale europea del liberalismo, in particolare della tradizione classica e delle sue origini, sostenendo che pur pretendendo di enfatizzare l'importanza della libertà individuale in pratica il liberalismo reale è a lungo contrassegnato dalla sua esclusione di persone da questi diritti, con conseguente sfruttamento come razzismo, schiavitù e genocidio. Afferma che le origini del nazismo si trovano in quelle che considera politiche colonialiste e imperialiste del mondo occidentale. Esaminando le posizioni intellettuali e politiche degli intellettuali sulla modernità, Kant e Hegel furono i più grandi pensatori della modernità mentre Nietzsche fu il suo più grande critico.  I suoi lavori, che lui stesso fa rientrare nell'ambito della storia delle idee, riguardano inoltre l'indagine delle questioni di storia e politica contemporanee, con una attenzione critica costante al revisionismo storico e la polemica contro le interpretazioni di François Furet e Ernst Nolte. In particolare critica una tendenza reazionaria tra gli storici contemporanei revisionisti riconoscibile nel lavoro di autori come Nolte, che traccia l'impeto dietro l'Olocausto agli eccessi della rivoluzione russa; o Furet, che collega le purghe staliniane a una «malattia» originata dalla rivoluzione francese. Secondo Losurdo l'intenzione di questi revisionisti è di sradicare la tradizione rivoluzionaria in quanto le loro vere motivazioni hanno poco a che fare con la ricerca di una maggiore comprensione del passato, ma si trovano nel clima e nei bisogni ideologici delle classi politiche, come è più evidente nel lavoro dei revivalisti imperiali Johnson e Ferguson. Fornisce inoltre una nuova prospettiva su rivoluzioni come quella inglese, americana, francese, russa e quelle contro il colonialismo e l'imperialismo. Si discosta anche dalle posizioni elogiative che la maggior parte delle biografie prende nell'analisi di Gandhi e la nonviolenza.  Losurdo volge la sua attenzione alla storia politica della filosofia moderna tedesca da Kant a Marx e del dibattito che su di essa si sviluppa in Germania nella seconda metà dell'Ottocento e nel Novecento, per poi procedere a una rilettura della tradizione del liberalismo, in particolare partendo dalla critica e dalle accuse di ipocrisia rivolte a Locke per la sua partecipazione finanziaria alla tratta degli schiavi. Riprendendo ciò che afferma Arendt in Le origini del totalitarismo, per Losurdo il vero peccato originale del Novecento è nell'impero coloniale di fine Ottocento, dove per la prima volta si manifesta il totalitarismo e l'universo concentrazionario.  Controversia degli storici Losurdo critica il concetto di totalitarismo, sostenendo che fosse un concetto polisemico con origini nella teologia cristiana e che applicarlo alla sfera politica richiedeva un'operazione di schematismo astratto che utilizza elementi isolati della realtà storica per collocare la Germania nazista e altri regimi fascisti e l'Unione Sovietica e l'esperienza del socialismo reale e di altri Stati socialisti nello stesso insieme, servendo così l'anticomunismo degli intellettuali della guerra fredda piuttosto che riflettere la ricerca intellettuale.  Forte critico dell'equiparazione tra nazismo e comunismo (in particolare quello sovietico) fatta da studiosi come Furet e Nolte, ma anche da Arendt ePopper, nonché del concetto di «olocausto rosso», il suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, sollevò un dibattito sulla figura di Iosif Stalin, sul quale a suo avviso peserebbe una sorta di leggenda nera costruita per screditare tutto il comunismo. Porta l'esempio che nel lager vi era volontà omicida esplicita in quanto l'ebreo che vi entrava era destinato a non uscire più (vi è una despecificazione naturalistica) mentre nel gulag no (si tratta di despecificazione politico-morale) e nel primo venivano rinchiusi quelli che il nazismo chiamava Untermensch («sottouomini») mentre nel secondo (in cui afferma finissero solo una parte dei dissidenti), pur essendo una pratica da condannare, erano rinchiusi dissidenti da rieducare e non da eliminare. Losurdo afferma che «il detenuto nel Gulag è un potenziale compagno [la guardia stessa era tenuta a chiamarlo in questo modo] e dopo l'inizio del biennio delle grandi purghe che seguono l'assassinio di Kirov] è comunque un cittadino». Riprendendo anche l'opinione di Levi (internato ad Auschwitz, secondo cui il lager era moralmente più grave del gulag) e contro Solženicyn (internato in Siberia e che affermava l'equiparazione della volontà sterminazionistica),sostiene che pur essendo grave che un Paese socialista nato per abolire lo sfruttamento usi sistemi imperialisti e capitalisti, il gulag sia analogo a molti campi di concentramento occidentali (i cui governi hanno sostenuto e sostengono di essere paladini della libertà), che per certi versi furono anche più affini al lager in quanto campo di sterminio e non di rieducazione, riprendendo la storia del genocidio indiano. Egli sostiene anche che i campi di concentramento e le colonie penali britanniche erano peggio di qualsiasi gulag, accusando anche politici come Winston Churchill e Harry Truman di essere autori di crimini di guerra e contro l'umanità pari (se non peggiori) di quelli che sono stati poi attribuiti a Stalin. Losurdo ritiene inoltre che i comunisti soffrano di autofobia, cioè paura di se stessi e della propria storia, problema patologico che va affrontato, a differenza dell'autocritica sana. Despecificazione politico-morale e despecificazione naturalistica La despecificazione è l'esclusione di un individuo o di un gruppo dalla comunità dei civili. Esistono due tipi di despecificazione:  La despecificazione politico-morale (in questo caso l'esclusione è dovuta a fattori politici o morali). La despecificazione naturalistica (in questo caso l'esclusione è dovuta a fattori biologici). Per Losurdo la despecificazione naturalistica è qualitativamente peggiore rispetto a quella politico-morale. Infatti mentre quest'ultima offre almeno una via di scampo mediante il cambio di ideologia, questo non è possibile nel caso in cui sia in atto una despecificazione naturalistica, che è irreversibile in quanto rimanda a fattori biologici che sono di per sé immodificabili. A differenza di altri pensatori ritiene quindi che l'olocausto degli ebrei non è incomparabile ed è quindi disposto ad ammettere in questo caso una tragica peculiarità. La comparatistica che Losurdo offre a proposito non vuole essere una relativizzazione o uno sminuire, ma semplicemente considerare l'olocausto degli ebrei come incomparabile significa perdere la prospettiva storica e dimenticarsi dell'olocausto nero (l'olocausto dei neri) o dell'olocausto americano (l'olocausto dei nativi indiani d'America ottenuto negli Stati Uniti mediante la continua deportazione sempre più a ovest e la diffusione ad arte del vaiolo), oltre ad altri stermini di massa come il genocidio armeno.  Polemiche riguardanti Stalin Una recensione effettuata nell'aprile del 2009 da Guido Liguori su Liberazione (organo ufficiale del Partito della Rifondazione Comunista) di Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, libro in cui Losurdo critica la demonizzazione di Stalin effettuata dalla storiografia maggioritaria e cerca di sottrarlo a quella che definisce «la leggenda nera su di lui», è al centro di una polemica all'interno della redazione del suddetto quotidiano. Venti redattori inviano una lettera di protesta al direttore del giornale in cui si critica sia il tentativo di riabilitazione di Stalin presente nel libro di Losurdo sia la recensione di Liguori (giudicata troppo positiva nei confronti del libro), oltre che la scelta del direttore del giornale di pubblicare tale recensione. Il libro riceve delle recensioni critiche per le sue affermazioni e per la metodologia di lavoro utilizzata.I critici di Losurdo lo accusano di essere un «neostalinista». Grover Furr, autore di Krusciov mentì e descritto come un «revisionista storico», un «revisionista in una ricerca lunga una carriera per scagionare Stalin» e un «prezioso contributo alla scuola revisionista storica degli studi sovietici e comunisti», elogia il lavoro di Losurdo, in particolare quello su Stalin, iniziando un'amicizia reciproca. Nel  introduce Furr a un editore italiano che pubblica la traduzione italiana di Khruschev mentì, per cui scrive l'introduzione. Aveva già scritto l'introduzione e il retrocopertina del libro di Furr sull'assassinio di Sergej Mironovič Kirov che rimane inedito. Negli estratti di un convegno organizzato per rivalutare la figura di Stalin a cinquant'anni dalla morte critica le rivelazioni contenute nel rapporto segreto di Nikita Sergeevič Chruščёv, l'allora segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Secondo Losurdo la cattiva fama di Stalin deriverebbe non dai crimini commessi da quest'ultimo (paragod altri del suo tempo), ma dalle falsità presenti in quel rapporto che Chruščёv lesse nel corso del XX Congresso del febbraio 1956. Nella relazione al convegno dà credito a una delle accuse principali che stavano alla base della sanguinosa repressione staliniana contro gli oppositori, ovvero l'esistenza nell'Unione Sovietica della «realtà corposa della quinta colonna» pronta ad allearsi col nemico. Losurdo ribadisce di non voler riabilitare Stalin, seppur calato nella sua epoca, volendo presentare solo un'analisi dei fatti più neutrale e attuare un revisionismo sull'esperienza generale del socialismo reale ritenuta passata, ma utile da studiare per capire le dinamiche future del socialismo. Losurdo apparteneva alla corrente del marxismo-leninismo, ma ammirava anche l'interpretazione che Mao Zedong diede della pluralità della lotta di classe, da collocare nel contesto dell'attenzione che rivolge al processo di emancipazione femminile e dei popoli colonizzati. Vicino prima al Partito Comunista Italiano, poi al Partito della Rifondazione Comunista e infine al Partito dei Comunisti Italiani, confluito nel Partito Comunista d'Italia e nel Partito Comunista Italiano (), di cui è stato membro, fu anche direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Critico del liberalismo, della NATO e dell'imperialismo, in particolare quello statunitense, Losurdo contestò l'assegnazione del Premio Nobel per la pace a Xiaobo, considerato un sostenitore aperto del colonialismo occidentale, in particolare per la sua idealizzazione del mondo occidentale e per aver affermato che ci sarebbe bisogno di «300 anni di colonialismo. In 100 anni di colonialismo Hong Kong è cambiata fino a diventare ciò che è oggi. Data la grandezza della Cina, ovviamente ci vorrebbero 300 anni per trasformarla in quello che Hong Kong è oggi. E ho dei dubbi che 300 anni siano abbastanza». Saggi: “Auto-censura e compromesso” (Napoli, Bibliopolis); “La questione nazionale, restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica” (Urbino, Università degli Studi);“La rivoluzione e la crisi della cultura” (Roma, Riuniti); “Lukacs” Urbino, Quattro venti, Il comunismo e sui critici (Urbino, Quattro venti, La catastrofe e l'immagine” (Milano, Guerini, Metamorfosi del moderno.Urbino, Quattro venti); “La tradizione liberale. Libertà, uguaglianza, Stato, Roma, Riuniti); “Tramonto dell'Occidente? Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro venti, Antropologia, prassi, emancipazione. Problemi del comunismo, e Urbino, Quattro venti, Égalité-inégalité. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro venti, Prassi. Come orientarsi nel mondo. Atti del convegno organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dalla Biblioteca Comunale di Cattolica (Urbino, Quattro venti); La comunità, la morte, l'Occidente. L’ideologia della guerra, Torino, Boringhieri, Massa folla individuo. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro venti, La libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora,. Rivoluzione francese e filosofia, Urbino, Quattro venti); “Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale” (Torino, Bollati Boringhieri, Il comunismo e il bilancio storico del Novecento, Gaeta, Bibliotheca, Napoli, La scuola di Pitagora, Gramsci e l'Italia. Atti del Convegno internazionale di Urbino, Napoli, La città del sole, La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, post-fascismo, Torino, Boringhieri); “Autore, attore, autorità” (Urbino, Quattro venti); Il revisionismo storico. Problemi e miti, Roma, Laterza, Utopia e stato d'eccezione. Sull'esperienza storica del socialismo reale, Napoli, Laboratorio politico, Ascesa e declino delle repubbliche, Urbino, Quattro venti, Lenin, Atti del Convegno internazionale di Urbino, Napoli, La città del sole, Metafisica. Il mondo Nascosto, Roma, Laterza, Gramsci dal liberalismo al comunismo critic, Roma, Gamberetti, Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia” (Napoli, La città del sole); “Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Milano, Guerini, Nietzsche. Per una biografia politica, Roma, Manifesto); “Il peccato originale del Novecento, Roma, Laterza, Dal Medio Oriente ai Balcani. L'alba di sangue del secolo americano, Napoli, La città del sole, Fondamentalismi. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica Urbino, Quattro venti, URSS: bilancio di un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, L'ebreo, il nero e l'indio nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e auto-fobia, Napoli, La città del sole, poi Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, La sinistra, la Cina e l'imperialismo, Napoli, La città del sole, Universalismo e etno-centrismo nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, La comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'ideologia della guerra (Torino, Boringhieri); “Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino,  Boringhieri, Cinquant'anni di storia della repubblica popolare cinese. Un incontro di culture tra Oriente e Occidente. Atti del Convegno di Urbino, Napoli, La città del sole, Dalla teoria della dittatura del proletariato al gulag?, Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Bari, Contro-storia del liberalismo, Roma, Laterza, La tradizione filosofica napoletana e l'Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, nella sede dell'Istituto, Auto-censura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, Legittimità e critica del moderno. Sul marxismo di Gramsci” (Napoli, La città del sole); “Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana” (Roma-Bari, Laterza); “Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Roma, Carocci); “Paradigmi e fatti normativi. Tra etica, diritto e politica, Perugia, Morlacchi, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Roma, Laterza, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Roma, Laterza, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci,. Un mondo senza guerre. L'idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci. Il comunismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza.  PCI Ancona: cordoglio per la scomparsa, su il partito comuista italiano, A. Orsi, Scienza e militanza. Un ricordo, MicroMega, Cordoglio, Il Metauro, Verso, Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana, Roma, Laterza. Il comunista contro-corrente. Un comunista eterodosso. Auto-censura e compromesso in Kant, Napoli, Bibliopolis, Hegel e la libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora, Lukacs, Urbino, Quattro venti,   Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia, Napoli, La città del sole, Nietzsche. Il ribelle aristocratico. La comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'deologia della guerra; Controstoria del liberalismo, Laterza, Revisionismo storico.  Peccato originale del Novecento.  La non-violenza. Una storia fuori dal mito.  La non-violenza. Una storia fuori dal mito, su L'Ernesto, Associazione Marx, Dalla teoria della dittatura del proletariato al gulag?, in  Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Laterza, Bari David Broder. Jacobin. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. URSS: bilancio di un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, Popper falso profeta, Contro Popper, Armando Editore, B. Lai e L. Albanese.  Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra auto-critica e auto-fobia. Il linguaggio dell'impero. Lessico dell'ideologia, Lettere su Stalin; Stalin. Storia e critica di una leggenda nera,  su sissco. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera.  A. Romano,  Canfora e lo stalinismo che non fa male, ilcannocchiale. In Memoriam, La Città del Sole, Stalin nella storia del Novecento, R. Giacomini, Teti, Una teoria generale del conflitto sociale", Intervento al Congresso Nazionale del PdCI. Il Consiglio Direttivo dell'associazione Marx  Il Nobel per la pace» a un campione del colonialismo e della guerra, il cavallo oscuro della letteratura, Open Magazine, Open Magazine, H. Arendt Controstoria del liberalismo A. Gramsci Genocidio indiano Grandi purgh, Heidegger, Marx, Nietzsche Olocausto, Stalin Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" - blogspot.com. Intervista RAI Filosofia, su filosofia.rai. Intervist RTV Svizzera, su you tube.com. Domenico Losurdo. Losurdo. Keywords: il ribelle aristocratico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Losurdo, e Nietzsche, ribelle aristocratico," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Lottieri – bene commune – diritto individuale – l’eta degl’eroi – la ragione del stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. Grice: “I like Lottieri; he has quoted Hobbes and Hume and Gauthier from a game-theoretical approach to co-operation, conversational and other – all very Griceian, if I may mayself so say it!” Allievo di Caracciolo, studia a Genova, Ginevra e Parigi, su la filosofia di Mosca. Insegna a Siena e Verona. Da vita all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si ispira alla tradizione intellettuale di Einaudi e Ricossa, e di cui egli è direttore del dipartimento Teoria Politica. Cura Leoni. La filosofia di Lottieri si sviluppa all'interno del liberalismo classico e, grazie allo studio degli autori elitisti, si delinea quale critica del sistema di dominio iscritto nei regimi democratici rappresentativi. Mostra l'adesione a tale prospettiva, che rapidamente evolve grazie al contatto con il libertarianismo. Il suo libertarianismo ottieri metta in discussione "la psicologia regolamentativa e anti-innovativa del burocrate", avverso a ogni forma di rischio e cambiamento. Il saggio sul libertarismo evidenzia l'adesione ai temi classici del pensiero liberale lockiano e giusnaturalista (difesa della proprietà, del mercato, dell'auto-nomia negoziale), ma anche il maturare di questioni che sono invece tutte interne al realismo politico: specie nel confronto con Schmitt, Brunner e Miglio.  Mentre il testo sul rapporto tra economia di mercato e ordine sociale/comunitario (Denaro e comunità) è una critica della sociologia, a cui è rimproverato di avere frainteso la natura inter-personale della moneta e delle relazioni di mercato, il saggio su Leone muove dal pensatore torinese per delineare una filosofia libertaria anche oltre la lettera stessa dell'autore di Freedom and the Law. In particolare, in questa fase della riflessione Leoni viene individuato come uno studioso in grado di dare una maggiore consapevolezza filosofico-giuridica alla teoria libertaria, fino ad ora elaborata per lo più da economisti e teorici politici. “Denaro e comunità: relazioni di mercato e ordinamenti giuridici nella società liberale” (Napoli, Guida) “Il pensiero libertario contemporaneo. Tesi e controversie sulla filosofia, sul diritto e sul mercato, Macerata, Liberi “Le ragioni del diritto: libertà individuale e ordine giuridico” (Treviglio Soveria Mannelli, Facco Rubbettino); “Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a WikiLeaks” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e non: (cf. Griceiani e non.) percorsi di storia del pensiero politico” (Brescia, La Scuola); Guglielmo Ferrero in Svizzera. Legittimità, libertà e potere, Roma, Studium,  Un'idea elvetica di libertà. Nella crisi della modernità europea” (Brescia, Scuola); ““Beni comuni, diritti individuali e ordine evolutivo,”Torino, IBL. Nella sua filosofia sull'unificazione europea, in particolare, è cruciale l'opposizione tra l'armonizzazione spontanea emergente dal basso e l'unificazione coercitiva. Lottieri identifica quattro superstizioni o quattro credenze erronee che sotto alla base dei tentativi di creare un nuovo stato chiamato ‘Europa'. Primo, l'idea che la libertà individuale e il poli-centrismo giuridico causino tensioni e, in definitiva, conflitti; Secondo, che il mercato derivi dall'ordine giuridico creato dallo Stato; Terzo, che l'esistenza di una distinta identità europea esiga la costruzione di un singolo stato continentale; e quarto, che un'Europa unificata e più armoniosa e meglio in grado di sostenere lo sviluppo delle sue componenti più povere. Individuato come uno degl’esponenti di un liberalismo particolarmente radicale e volto a proporre una sorta di fuga dallo stato: Dario Fertlio, "Libertari 2001: la grande fuga dallo Stato, Corriere della Sera. Una disamina molto critica al limite dell'insulto personale di tale liberalismo libertarian si ha nella recensione che Vitale dedica al volume su Rothbard scritto a quattro mani da lui assieme a Enrico Diciotti (basato su un confronto assai franco tra prospettive molto diverse): una recensione che, rivolgendosi al solo Diciotti, si chiudeva con l'invito per il futuro “ad occuparsi di un autore più interessante con un autore più interessante” (E. Vitale, “Rothbard, un Trasimaco piccolo piccolo. E una modestissima proposta”, Teoria politica). P. Vernaglione, Il libertarismo. La teoria, gli autori, le politiche, Soveria Mannelli, Rubbettino). Un riferimento garbatamente polemico alle sue posizioni gius-naturaliste di si trova in D Antiseri (Laicità.. Le sue radici, le sue ragioni, Rubbettino). La stessa contrapposizione è al fondo di una discussione tra i due riguardante proprio i contenuti di quel volume://blog. centrodietica/?p=2005.  Questo saggio e una presentazione completa e approfondita della filosofia libertaria nelle sue diverse varianti, mentre si evidenzia anche un approccio libertario ai problemi eco-logici. Ce sono riserve nei riguardi delle tesi libertarie e dell'ispirazione anarchica della sua teoria del diritto. Nella sua monografia su Leoni (L'ordine giuridico dei private” (Soveria Mannelli, Rubbettino) pure Grondona sviluppa alcune critiche nei riguardi dell'interpretazione dello studioso torinese offerta da lui mentre in maggiore sintonia con le sue posizioni si trova A. Favaro (“ Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento” (Napoli, Scientifiche). Mostra che, contrariamente a un'opinione diffusa, le distanze fra la concezione del diritto di Leoni e quella di Hayek sono notevoli. In ogni caso non e Hayek a influenzare Leoni ma il secondo a influenzare, almeno in parte, il primo. Per un'equilibrata analisi del saggio si veda: M. Grondona, "Recensione  Le ragioni del diritto", Nuova Giurisprudenza Ligure. Carlo Lottieri. Lottieri. Keywords: bene commune, diritto individuale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lottieri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Luca – l’arte d’amare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marostica). Filosofo italiano.  Grice: “Luca expands on Alcibiades – I have touched the topic of Alcibiade when discussing eudaemonia, as literally having to do with the eudaemon – and the expression occurs in connection with Socrate/Alcibiade -- Grice: “One good thing about Luca is that if my philosophy revolves around ‘reason,’ his does it around ‘eros’!” -- Frequenta il Liceo Ginnasio G.B. Brocchi di Bassano del Grappa. Si laurea a Firenze, con la tesi, “Platone e il problema del linguaggio” con relatore Adorno.  È stato incentrato inizialmente sulla tematica dell’’amore’ nella tradizione greco-romana del Convitto e Fedro. Mmantenuto però una costante apertura al ‘mythos’ di Omero, nella convinzione che per quanto differenti possano essere i costumi o gli statuti sociali, rimane un elemento per così dire “originario”, intrinsecamente umano, nell’approccio con il desiderio, l’amore, l’amicizia, la sessualità. In Labirinti dell’Eros, pur sviluppandosi la tematica all'interno di un arco di tempo definito, l’intento non è quello di affrontare l’argomento nella sua unita longitudinale ma di esprimere, senza costrizioni di un “per-corso pre-figurato” una distinzione logico concettuale, attraverso la quale conseguire, almeno, un punto fermo nell'amatoria. Riguarda anche lo sviluppo della tradizione pitagorico-platonica, sia nelle sue caratteristiche peculiari ed in rapporto alla metafisica, sia nell'accezione più ampia rispetto all'esigenza di dare conto "dei fenomeni" o sensibilia. Si orientata alla tarda produzione platonica e al pitagorismo di seconda generazione, che vengono analizzati anche attraverso la cosmologia. Saggi: “Il Simposio, Nuova Italia, Firenze, Platone, Fedro, Nuova Italia, Firenze, Eros e Epos: il lessico d'amore nei poemi omerici, L’amatoria, L.S. Gruppo editoriale, Quarto Inferiore (BO); “Platone e la sapienza antica. Matematica, filosofia e armonia, Marsilio, Venezia, Labirinti dell’Eros. Da Omero a Platone, con un saggio, Marsilio Venezia. Roberto Luca. Luca. Luca. Keywords: l’arte d’amare, Ovidio, il convito, I dialogui dell’amore: il convito e Fedro, l’amore degl’eroi – achille e patroclo – niso ed eurialo – la filosofia dell’amore nel convito, la morte di Patroclo, la morte di Niso, la morte di Eurialo, l’eroe tragico, Achille eroe tragico, Eurialo e Niso, eroi tragici, Enea, eroe tragico, Aiace, eroe tragico, Catone di Utica, eroe tragico, la morte di Eurialo – la morte d’Eurialo – la pederastia – Eurialo piu giovane da Niso. Luigi Speranza, “Grice e Luca: amatoria conversazionale: la massima o principio dell’amore proprio conversazionale e la massima dell’amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luca” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lucano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Marco Anneo Lucano was the nephew of Seneca, who achieved fame with a poem about the civil war between Giulio Caesar and Pompeo. He followed the Porch, as tutored by Lucio Anneo Cornuto. Farsaglia.

 

Grice e Lucceio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Lucceio. He was a historian and a friend of Cicerone. Some of Cicerone’s letters to Lucceio suggests that he may have followed the sect of the Garden.

 

Grice e Luciano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was a gnostic, a follower of Cerdo.

 

Luciano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied at Rome with Nigrino  -- whom some suspect to be his invention – and Albino, of the Accademia. Also influenced by Demonax, whose philosophical outlook was more eclectic, although he is generally regarded as a Cinargo. Luciano is famous for his essays and dialogues, mostly satirical, many of which have survived. A number of philosophers appear in them, although not all of them may have existed. As a satirist, he is more interested in mocking pomposity and exposing hypocrisy than in advocating any positive doctrine. Loeb.

 

Grice e Lucilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Gaio Lucilio Alcuni romani insigni nutrirono interesse vivo per i problemi della filosofia. LUCILIO. Ciò si può dire di un membro del circolo degli Scipioni, LUCILIO, nato a Sessa Aurunca da famiglia ricca e distinta. LUCILIO ha un fratello che e senatore e, per mezzo della figlia, nonno di Pompeo. LUCILIO conosce la cultura greca (di cui si penetra) nell’Italia meridionale e a Roma, ove passa la maggior parte della vita. Forse soggiorna anche in Atene. Come cavaliere LUCILIO partecipa alla guerra contro Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano L'Affricano, con cui aveva già stretti rapporti.In seguito appoggia delL'Affricano energicamente l'azione politica. LUCILIO fa parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno più ampio. LUCILIO e amico dell'accademico Clitomaco, che gli dedica un libro. Morì a Napoli.LUCILIO scrive 30 libri di satire -- un genere filosofico --, di cui restano frammenti.In esse satire, LUCILIO rappresenta e critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto di questioni politiche.Dei vizi del tempo LUCILIO e giudice severo. LUCILIO si occupa molto di problemi logico-grammaticali, retorici e letterari.Si interessa anche di filosofia speculativa, alla quale deve avere dedicato una satira. Nei framm. del l. 28 la teoria epicurea è confutata verisimilmente da un accademico, anche perchè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale scuola. La forma e il contenuto delle satire di Lucilio rivelano l’influsso della filosofia popolare del cinismo di Bione e di Menippo. Un ampio frammento in cui Lucilio dipinta la virtù romana, secondo alcuni proviene da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone Lucilio in relazione con l'Accademia.

 

Lucilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Lucilio. Luciliowas a poet who wrote many satirical works. Although philosophy was one of his subjects, many of his writings were concerned with social morals and standards of public life. Only fragments survive. Climotaco dedicated a work on the suspension of judgment to him. Ed. Warmington Loeb ‘Remains of Old Latin.’

 

Grice e Lucilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Lucilio Minore. Lucilius was both a poet and a philosopher. He is best known as the friend of Seneca, to whom 124 letters were written discussing a wide range of issues from a primarily point of view of the Porch.

 

Grice e Lucio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio was of the Cynargo and an opponent of Favorino.

 

Grice e Lucrezio – alma figlia di Giove – Roma == filosofia italiana – Luigi Speranza (Pompei). Filosofo italiano. Grice: “By far the most important concept in Lucrezio’s philosoophy is that of clinamen that Strawson translates as the ‘swerve.’ It was saved from extinction by an Italian – as the novel tells you!” Grice: “While Strawson reads it in Latin, I prefer the version in the vulgar!” – Grice: “And by the vulgar I mean Marchetti!” Grice: “It’s amazing how well Marchetti interprets Lucezio – there is a little treatise on Epicureanism in the Lucrezio by Marchetti which is interesting. A real continuity in Italian philosophy!” -- possibly the most important Italian philosopher. Seguace dell'epicureismo. Della sua vita ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana, né sembra esistere negli scritti dei contemporanei, in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella sezione Ad familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse postuma, del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Ma in scrittori romani successivi egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco Aurelio, Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia fornire nuove informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta di un personaggio inventato. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon o Temporum liber, di cinque secoli dopo, in cui, ispirandosi ad alcuni dubbi passi di Svetonio, ci dice che sarebbe nato  morto suicida. Tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato, maestro di Girolamo stesso, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando indossò la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio mori  nel 55 a.C., all'età di quarantatré anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità.  Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, in particolare, dall'analisi di numerose epigrafi risalenti all'epoca dell'autore latino, risulta evidente un'ingente presenza del cognome Carus nell'antico territorio campano, secondo la critica recente la suddetta indagine prova fermamente (nei limiti del probabile) le origini campane di Lucrezio. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il fatto che la sua opera De rerum natura sia dedicata a Memmio, fine letterato e appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli optimates.  Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera una "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine. La scarsità delle fonti sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza del filosofo, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava un anonimo filosofo per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio Attico, che si suicidò, o persino lo stesso Cicerone.  Secondo lo storico Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio: nacque ad Ercolano, dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile parente, Marco Lucrezio Frontone)  appartenente quasi sicuramente all'antica famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro della "filosofia del giardino", diretta da  Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa dei papiri").  Avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno risentì il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato Roma e non sarebbe morto suicida ma avrebbe viaggiato ad Atene, nei luoghi del maestro Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di Enoanda, quindi quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il portico della sua casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco diffuso), romano, e sapiente epicureo.  Non si sa se il poema fosse diffuso nell'oriente, quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato in Grecia. Lucrezio, spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato lasciando incompiuto il suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che difatti non parla effettivamente di suicidio ma afferma: «Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis» ("le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse suicidandosi o perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di qualche altro avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso dallo stesso Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo.  Il destinatario dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato per condotta immorale, andò ad Atene, causando una nuova delusione a Lucrezio, che, tornato a Roma, sarebbe morto.  La notizia di un "filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna di facili costumi, amante gelosa di Lucrezio, viene riportata anche da Svetonio nei confronti di Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è apparsa una semplice diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De poetis) del passo di Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una spiegazione semplicistica, dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici che si aveva all'epoca (anche per Caligola si parlò, difatti, come per Lucrezio, di epilessia e malattie fisiche misteriose che l'avrebbero fatto impazzire improvvisamente, come, nel caso di studiosi moderni, l'avvelenamento da piombo, oltre che dei detti "filtri").  Se Lucrezio soffrì di un disagio psichico, che lo avrebbe spinto a cercare sollievo nella filosofia, non fu a causa di un veleno, e se il suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare l'abbandono improvviso del poema), la causa potrebbe essere stata di natura politica — come sarà più tardi il caso di Catone Uticense —, ovverosia la rovina del suo protettore Memmio e della sua cerchia culturale. Virgilio, che lo rispettava anche se era passato dall'epicureismo, abbracciato in gioventù, alle teorie pitagoriche, parla di lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche, definendolo "felix" (ossia "prediletto dalla dea Fortuna") e non "folle". Secondo Guido Della Valle, la V ecloga, che parla della morte di un personaggio chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a volte con Flacco, il fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla morte dello stesso Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè avvenuta per cause traumatiche. Il movente politico e morale del gesto potrebbe essere la causa del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per giustificarlo, dato che non si poteva cancellare la grandezza filosofica di Lucrezio, con una sorta di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici politici.  Essi erano spesso vittime delle liste di proscrizione dei vincitori, come quella di Marco Antonio che colpirà Cicerone, e molti si toglievano la vita, in quanto morte onorevole per i costumi romani; Virgilio e Orazio, estimatori di Lucrezio, facevano parte della corte di Augusto, e dovevano quindi allinearsi alla linea culturale dettata dall'imperatore, assertore dell'antica moralità e diffusore della leggenda di Cesare (per cui venivano cancellate le espressioni scomode di dissenso), e dal suo amico Mecenate, in cui l'epicureismo, se non sfumato come in Orazio appuntocosì come ogni opera che non fosse celebrativa del princeps e della grandezza di Roma non trovava spazio, per cui Lucrezio verrà ricordato solo come grande poeta, tralasciandone l'aspetto filosofico.  Secondo Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta contro la classe politica in ascesa, o perché condannato a morte da essa. Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significa sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere. Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicureismo era invece presente anche attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo nomina, ma è evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di altri. La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni (Grice), che accompagnano il poema. Alcuni teologi come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico. In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio appare oggi più plausibilmente un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni. Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione “Luc.,” impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione “Luc.” potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi. A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto filosofico che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera, considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che fondamentalmente sono due. La prima è una ragione etico-filosofica, in quanto Lucrezio, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico. Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento della situazione. Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana. Non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come farà dire Virgilio alla Sibilla Cumana in un colloquio con Enea. Non c'è una ragione seminale universale responsabile della vita nel cosmo, destinata a deflagrare per poi ricominciare un nuovo, identico, ciclo esistenziale, come voleva la fisica stoica, ma un mondo che non è unico nell'universo, peraltro infinito, essendo uno dei tanti possibili. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal libro I del De rerum natura. Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi. Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dèi, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma.[31] Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito, come risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o "elogi"):  «E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. Il De rerum natura e un poema didascalico in esametri, di genere scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), comprendente un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare ai fenomeni cosmici. Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo e il terzo libro (in quest'ultimo è presente anche un'esposizione della sua estetica) si aprono entrambi con un inno alla scienza. Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria. Il destinatario e i destinatari Il dedicatario dell'opera è la Memmi clara propago (I 42), ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è il giovane aperto ad ogni esperienza, che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: da adulto divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato probri causa, cioè per immoralità. Riparò quindi in Grecia, dove scrisse poesie licenziose e dove ce lo menziona anche Cicerone (nelle Ad Familiares), intenzionato a distruggere la casa e il giardino in cui proprio Epicuro risiedette, per costruirsi un palazzo, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone stesso di intervenire per impedirglielo, senza che però Cicerone ci riuscisse. In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo "munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici. Sul piano teorico l'opera di Lucrezio si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la parenklisis ma poi parla piuttosto di una deviazione per urto. Il celebre passaggio del libro II del De rerum natura dice:  «Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso? Lucrezio precisa poi ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo:  «Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra]»  Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli atomi nel loro processo creativo, scrivendo:  «Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. Lucrezio riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro. La religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità, da raggiungere attraverso la liberazione dalla paura della morte. Il poema ha come argomenti principali la lacerante antinomia fra ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il termine "superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dèi e della loro potenza. Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa. Afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà, come nell'Evemerismo. La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini. Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la "parenklisis" (che egli ribattezza clinamen), la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a una personalità malinconica. Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione atea, materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare gli illuministi Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei dichiarati e a loro volta divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre seguito da Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente. Lucrezio introduce nel III libro del De rerum natura una chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando non poche confusioni, circa il concetto di “animus” in rapporto a quello di “anima” «Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l'ultimo respiro". L'"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell'unità mentale. L'indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell'emozione e del sentimento. Parrebbe allora che l'animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale. L'angoscia esistenziale Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Giacomo Leopardi, che dell'opera di Lucrezio era un profondo conoscitore, anche se in realtà non è noto il lasso di tempo in cui Leopardi lesse Lucrezio. Questi elementi di angoscia hanno indotto alcuni studiosi a sottolineare il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea. S'intende, ciechi alla dottrina di Epicuro.  Sul luogo di nascita: anche se c'è chi afferma fosse nato a Roma, si ritiene quasi all'unanimità che fosse originario della Campania: di Napoli, di Ercolano, o, secondo recenti studi epigrafici, di Pompei, dove il nomen e il cognomen Tito e Lucrezio sono attestati, e la gens Lucretia aveva delle ville cfr: Biografia di Lucrezio; o perlomeno vi avesse abitato a lungo cfr. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo, cfr. anche la Lucrezio Caro, Tito su Enciclopedia Treccani  Sulla data di nascita: molti optano per il 98 a.C. o secondo altri 96 a.C.  Secondo alcune fonti: Lucretius testimonia vitae  Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Sellerio,  o secondo altri 53 a.C., cfr. Paolo Di Sacco, M. Serio, "Odi et amoStoria e testi della letteratura latina"  1 "L'età arcaica e la repubblica", Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Sezione 2, Modulo. Testimonianze su Lucrezio  Canfora. Lucrezio, De rerum natura, Lucrezio, De rerum natura, Enrico Fichera, I "templa serena" e il pessimismo di Lucrezio: echi lucreziani nella letteratura, Roma, Bonanno edizioni, G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts, Monaco. Enciclopedia dell'arte antica  Cfr. Gerlo, Benedetto Coccia, Il mondo classico nell'immaginario contemporaneo  Nel romanzo epistolare di Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo, Sellerio, Nomi romani: glossario  Canfora, Cicerone, Ep. ad Quintum fratrem, II 9.  SLucrezio  Canfora, Classici: Lucrezio e il De rerum natura  Aldo Oliviero, Il suicidio di Lucrezio, su lafrontieraalta.com. Ettore Stampini, Il suicidio di Lucrezio, Messina, Tipografia D'Amico, La risposta di Virgilio a Lucrezio  Guido Della Valle (Napoli), pedagogista e docente universitario, autore di Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano, Napoli, Accademia Pontaniana, Lucrezio in Enciclopedia Italiana  Lucrezio: informazioni biografiche  ibidem  La natura delle cose, Milano, Rizzoli, Eneide, libro VI.  La natura delle cose, cit. supra81.  Lucrezio, La natura delle cose,  La natura delle cose. Il De rerum natura di Lucrezio  Introduzione a Lucrezio accesso= Memmio su Enciclopedia Italiana  Lo stile di Lucrezio  C. Craca, Le possibilità della poesia. Lucrezio e la madre frigia in «De rerum natura» IBari, Edipuglia, Epicuro, Opere, E. Bignone, Laterza Lucrezio, La natura delle cose, Biagio Conte, Milano, Rizzoli,  La natura delle cose, cit. supra271.  De rerum natura, Diego Fusaro, Tito Lucrezio Caro, su filosofico.net. e rerum natura, VTasso segue Lucrezio stilisticamente, non ideologicamente: vedasi la famosa similitudine del proemio del libro IV, ripresa nel proemio della Gerusalemme liberate, La natura delle cose, cit. supra,  De rerum natura, Mario Pazzaglia, Antologia della letteratura italiana.  Lucrezio, introduzione Edizioni De rerum natura, (Brixiae), Thoma Fer(r)ando auctore, De rerum natura libri sex nuper emendati, Venetiis, apud Aldum, In Carum Lucretium poetam commentarij a Joanne Baptista Pio editi, Bononiae, in ergasterio Hieronymi Baptistae de Benedictis, De rerum natura libri sex a Dionysio Lambino emendati atque restituti & commentariis illustrati, Parisiis, in Gulielmi Rovillij aedibus, De rerum natura libri VI, Patavii, excudebat Josephus Cominus, De rerum natura libri sex, Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani, Torino, E. 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Traglia, De Lucretiano sermone ad philosophiam pertinente, Roma, Gismondi, 1947. Scritti letterari Luca Canali, Nei pleniluni sereni. Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro, Milano, Longanesi, E. Cetrangolo, Lucrezio. Tragedia, Roma, Edizioni della Cometa, Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo, Sellerio, 1993. Piergiorgio Odifreddi, Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere, Milano, Rizzoli, Alieto Pieri, Non parlerò degli dèi. Il romanzo di Lucrezio, Firenze, Le Lettere, Epicureismo Esistenzialismo ateo Storia dell'ateismo Tito Lucrezio Caro, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Tito Lucrezio Caro, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tito Lucrezio Caro Opere di Tito Lucrezio Caro, su Liber Liber.  openMLOL, Horizons Audiolibri di Tito Lucrezio Caro, su LibriVox. Goodreads. De Rerum Natura: testo con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Intervista a Luca Canali su passioni e razionalità in Lucrezio, dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, su conoscenza.rai. Analisi critica del pensiero di Lucrezio, su lucrezio.exactpages.com. V D M EpicureismoFilosofia Letteratura  Letteratura Categorie: Poeti romaniFilosofi romani 15 ottobre Roma Tito Lucrezio Caro Atomisti Epicurei Filosofi atei Lucretii Storia dell'evoluzionismo Pre-esistenzialisti Personalità dell'ateismo. Refs.: Lucretius, in The Stanford Encyclopaedia.  Alma figlia di Giove, inclita madre  Del gran germe d'Enea, Venere bella,  Degli uomini piacere e degli Dei:   Tu che sotto i girevoli e lucenti  Segni del cielo il mar profondo, e tutta  D’ animai d'ogni specie orni la terra,   Che per se fora un vasto orror soUngo :   Te Dea , fnggono i venti: al primo arrivo  Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia  Erbe e fiori odorosi il suolo indnstre :   Tu rassereni i giorni foschi, e rendi  Col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,  E splender fai di maggior lume il ciclo.  Qualor deposto il freddo ispido manto  L'anno ringiovanisce, « la soave  Aura feconda di Favonio spira,,   Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli. Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi ,   Cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;   Liete scorron saltando i grassi paschi  Le fiere , e gonfi di nuor' acqae i fìami  Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:   Tal da' teneri tuoi rezzi lascivi  Dolcemente allettato ogni animale  Desioso ti segue ovunque il gnidi.   In somma tu per mari e monti e fiumi,  Pe'boschi ombrosi e per gli aperti campi,  Di piacevole amore i petti accendi,   E cosi fai che si conservi '1 mondo.   Or se tu sol della Natura il freno  Reggi a tua voglia , e senza te non vede  Del di la luce desiata e bella,   Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa:   Te , Dea, te bramo per compagna all'opra,  In cui di scriver tento in nuovi carmi  Di Natura i segreti e le cagioni  Al gran Memmo Gemello a te si caro ,  In ogni tempo, e d’ogni laude ornato.   Tu dunque , o Diva , ogni mio detto aspergi  D’eterna grazia, e fa’ cessare intanto  E per mare e per terra il fiero Marte,   Tu, che sola puoi farlo : egli sovente  D’ amorosa ferita il cor trafitto  Umil si posa nel divin tuo grembo.   Or mentr’ ei pasce il desioso sguardo  Di tua beltà, ch'ogni beltade avanza,   E che l’anima sua da te sol pende,   Deh ! porgi a lui , vezzosa Dea , deh ! porgi  A lui soavi preghi , e fa'ch’ ei renda  Al popol suo la desiata pace.   Che se la patria nostra è da nemiche  Armi abitata, io più seguir non posso con animo quieto il preso stile,  nè può di Memmo il generoso figlio aS   l^egar sé stesso alla comaa salate.   Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi  Grate ed attente orecchie, e ti prepara,  Lungi da te cacciando ogni altra cura,   Alle vere ragioni , e non volere  I miei doni sprezzar pria che gl’ intenda. Io narrerotti in che maniera il cielo con moto alterno ognnr si volga c giri j  Degli Dei la natura, e delle cose  Gli alti principi , e come nasca il tutto ;  Come poi -si nutrichi, e come cresca,   Ed in che finalmente ei si risolva :   £ ciò da noi nell’avvenir dirassi primo corpo, materia, o primo seme, o corpo genitale , essendo quello  Onde prima si forma ogni altro corpo:   Che d'uopo é pur che’n somma eterna pace  Yivan gli Dei per lor natura , e lungi  Stian dal governo delle cose umane ,   Scevri d' ogni dolor, d’ogni periglio,  biechi sol di lor stessi, e di lor fuori di nulla bisognosi, e che nè metto  Nostro gli alletti, o colpa accenda ad ira.   Giacca l’ umana vita oppressa e stanca  Sotto religìon grave e severa.   Che mostrando dal ciel l’altero capo  Spaventevole in vista e minacciante ne soprasta. Un iiom d’Atene il primo e, che d’ergerle incontra ebbe ardimento  Gli occhi ancor che mortali, e le s’oppose.  Questi non paventò nè eie! tonante  Nè tremoto che ’l mondo empia d’ orrore ,  Nè fama degli Dei, nè fulmin torto j  Ma qual acciar su dura alpina cote quanto s’agita più tanto più splende. Tal dell’animo suo mai sempre invitto  Nelle difficoltà crebbe il desio   a    Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri,  E r ampie porte di Natura aprirne.   Cosi vins' egli , e con l' eccelsa mente  Varcando oltre a' confin del nostro mondo, e bastante a capir spazio infinito. Quindi sicuramente egli n’ insegna  Gid che nasca o non nasca, ed in qual modo  Ciò che racchiude l' Universo in seno  Ha poter limitato , e tcrmin certo :   E la religion co’pié calcata,   L' alta vittoria sua c’ erge alle stelle. Nè creder già che scelerate ed empie sian le cose eh’ io parlo. Anzi sovente  L' altrui religion ne’ tempi^antichi  Cose produsse scelerate ed empie.   Questa il fior degli eroi scelti per duci  Deir oste argiva in Aalide indusse  Di Diana a macchiar l' ara innocente  Col sangue d' Ifigenia , allor che cinto di bianca fascia il bel virgineo crine vid’ella a se davanti in mesto volto  Il padre, e alni vicini i sacerdoti  Celar 1’ aspra bipenne , e '1 popol tutto  Stillar per gli occhi in larga vena il pianto  Sol per pietà di lei , che muta e mesta  Teneva a terra le ginocchia inchine. Nè giovi punto all’innocente e casta povera verginella in tempo tale ,   Ch’ a nome della patria il prence avesse  All’ esercito greco un re donato ;   Che tolta dalle man del suo consorte  Fu condotta all’ aitar tutta tremante:   Non perchè terminato il sacrifizio,  legata fosse col soave nodo d’un illustre imeneo. Ma per cadere  Nel tempo stesso delle proprie nozze  A* piè del genitore ostia dolente per dar felice e fortunato evento  All' armata navale. Error si grave  Persuader la religion poteo. Tu stesso dall’orribili minacce de’ poeti atterrito, a i detti nostri di negar tenterai la fe dovuta. Ed oh, quanti potrei fìngerti anch'io  Sogni e chimere, a sovvertir bastanti  Del viver tuo la pace, e col timóre  Il sereno turbar della tua mente.   Ed a ragion, che se prescritto il fine vedesse l'uomo alle miserie sue. Ben resister potrebbe alle minacce  Delle religioni, e de' poeti.   Ma come mai resister può, s' ei teme  Dopo la morte aspri tormenti eterni.  Perchè dell' alma è a lui 1' essenza ignota:  S' ella sia nata, od a chi nasce infusa, E se morendo il corpo anch' ella muoia? Se le tenebre dense , e se le vaste  Paludi vegga del tremendo Inferno,   O s' entri ad informare altri animali  Per ^divino voler, siccome il nostro  Ennio cantò , che pria d' ogn' altro colse  In riva d'Elicona eterni allori.   Onde intrecciossi una ghirlanda al crine FRA L’ITALICA GENTI illustre c chiara?  Bench' ci ne' dotti versi affermi ancora  Che sulle sponde d' Acheronte s' erge  Un tempio sacro a gl' infernali Dei ,   Ove non 1' alme o i corpi nostri stanno.   Ma certi simulacri in ammirande  Guise pallidi in volto, e quivi narra d’aver visto l'imagine d’Omero  Piangere amaramente, e di Natura  Raccontargli i segreti e le cagioni.   Dunque non pnr de’più sublimi effetti Cercar le cause, e dichiarar conviensi  Della luna e del sole i morimenti.  Ma come possan generarsi in terra tutte le cose, e con ragion sagace principalmente investigar dell' alma,   £ dell'animo uman l’occulta essenza,   E ciò che sia quel, che vegliando infermi,  £ sepolti nel sonno, in guisa n'empie d’alto terror , che di veder presente  Parne , e d’udir chi già per morte in nude ossa ò converso, e poca terra asconde e so ben io qual malagevol’ opra   Sia r illustrar de’ Greci in toschi carmi  L’ oscure invenzioni, e quanto spesso  Nuove parole converrammi usare, non per la povertà della mia lingua ch’alia greca non cede , e più d’ ogn’ altra piena è di proprie e di leggiadre vocij ma per la novità di quei concetti  Ch’esprimer tento, e che nuli’ altro espresse.  Pur nondimcn la tua virtude ò tale,  e lo sperato mio dolce conforto  Della nostr’amistà, eh’ ognor mi sprona  A soffrir volentieri ogni fatica,   E m’induce a vegliar le notti intere,  sol per veder con quai parole io possa  Portare innanzi alla tua mente un lume,  Ond’ ella vegga ogni cagione occulta.   Or si vano terror , si cieche tenebre   Schiarir bisogna, e via cacciar dall’ animo nn co’ be’ rai del sol, non già co’ lucidi dardi del giorno a saettar poc’ abili fuorché 1’ ombre notturne e i sogni pallidi ,  Ma col mirar della Natura , e intendere  D’occulte cause e la velata imagine.  Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami. Sappi , che nulla per diyin volere  Pad dal nalla crearsi, onde il timore,  che qaind'il cor d'ogni mortale ingombra ,  Vano è del tutto, e se tu vedi ognora  Formarsi molte cose in terra e ’n cielo,  nè d'esse intendi le cagioni, e pensi  Perciò che Dio le faccia , erri e deliri.   Sia dunque mio principio il dimostrarti,  Che nulla mai si può crear dal nulla.  Quindi assai meglio intenderemo il resto  £ come possa generarsi il lutto  Senz'opra degli Dei. Or se dal nnlla-  Si creasser le cose, esse di seme  Non avrian d'uopo, e si vedrian produrre  Uomini ed animai nel seti dell' acque, nel grembo della terra uccelli e pesci, e nel vano dell’aria armenti e greggi;   Pe' luoghi culli, e per gl' inculti il parto  D'ogni fera selvaggia incerto fora;   Nè sempre ne darian gl'istessi frutti  Gli alberi , ma diversi ; anzi ciascuno  D' ogni specie a produrgli allo sarebbe.  Poiché come potrian da certa madre nascer le cose, ove assegnati i propri semi non fosser da ^Natura a tutte 1  Ma or perché ciascuna è da principi certi creala , indi ha il natale ed esce  Lieta a godere i dolci rai del giorno,   ov'è la sua materia e -i-vorpi primi:   E quindi nascer d'ogni cosa il tutto  Non può, perchè fra loro alcune certe cose hall l'interna facoltà distinta.   Inoltre ond' è che primavera adorna sempre è d’ erlie e di fior? che di mature  Biade all' estiv' arsura ondeggia il campo? e che sol quando Febo occupa i segni  O di Libra o di Scorpio, allor la vite  Suda il dolce liquor che inebria i sensi? Se non perché a'ior tempi alcuni certi  Semi in un concorrendo, atti a produrre  Son ciò che nasce, alJor che le stagioni  Opportune il richieggono, e la terra  «I Di rigor genital piena c di succo ,   Puote all’ aure inalzar sicuramente  Le molli erbette e l’altre cose tenere i che se pur generate esser dal nulla  Potessero, apparir dovrian repente  In contrarie stagioni e spazio incerto ,   Non vi essendo alcun seme , che impedito  Dall' Union feconda esser potesse  O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.  Né per crescer le cose avrian mestiere di spazio alcuno in cui si unisca il seme,  i' elle fosser del nulla atte a nutrirsi. Ma nati appena i pargoletti infanti  Diverrebbero adulti , e in un momento  Si vedrebber le piante inverso il cielo  Erger da terra le robuste braccia.   Il che mai non succede. Anzi ogni cosa cresce, come conviensi , a poco a poco,   E crescendo, conserva e rende eterna  La propria specie. Or tu confessa adunque  Che della sua materia , e del suo seme  Nasce, si nutre e divien grande il tutto.   S’arroge a ciò, che non daria la terra il dovuto alimento ai lieti parti. Se non cadesse a fecondarle il seno  Dal del 1' umida pioggia, e senza cibo propagar non potrebber gli animali  La propria specie, e conservar la vita,   Ond' è ben verisimile, che molte  Cose molti fra lor corpi comuni  Àbbian, come le voci han gli elementij  Anzi, che sia senza principio alcuna.   In somma ond' è che non forma Natura uomini tanto grandi e si robusti, che potesser co’ piè del mar profondo varcar l’ acque sonanti e con la mano sveller dall’imolor l’alte montagne, e viver molt’ etadi , e molti secoli? L. is known only for his long poem De rerum natura in which he sets out the doctrines of the Garden. As the only substantial systematic work of the Garden to survive from antiquity it is a work of considerable significance. Unfortunately, it is difficult to judge how accurate an account of the school’s teaching as there is little with which to compare it. However, the Garden tended towards conservatism in doctrinal matters and so it isunlikely Lurezio strayed far from orthodoxy. The first two books of the poem are mainly concerned with espounding atomism, the middle two are concerned with human nature and knowledge, and the last to analyse a number of natural phenomena.  Tito Lucrezio Caro. Lucrezio. Luigi Speranza, "Grice, Lucrezio, e la natura delle cose," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e Lucrezio: implicatura atomica” – “implicatura e composizionalita” – “implicatura elementare” – “implicatura simplex” “implicatura simplice” “implicatura complessa”, “alma figlia di Giove” --.

 

Grice e Lucullo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Lucio Licinio Lucullo. Lucullo si distingue nella guerra sociale come tribunus militum. Avendo avuto quale pro-questore sotto Silla nella guerra mitridatica l’incarico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto e di raccogliere una flotta, Lucullo volle avere presso di sè Antioco d’Ascalona in quel pericoloso viaggio sul mare. Pretore, propretore in Africa, e console, ottenne il governo proconsolare della Cilicia e il comando della guerra contro Mitridate e sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re di Armenia. Negl'anni del suo comando, batiè con poche forze grossi eserciti nemici. Ma per il malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè i suoi avversari lo fanno richiamare a Roma ove soltanto gli e concesso il trionfo. Lucullo contribuì potentemente alla diffuzione della filosofia in Roma. LUCULLO e oratore, storico (scrive un’opera sulla guerra sociale) e si interessa vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da pro-questore che da pro-console e con gli studi filosofici si consolò degli insuccessi politici. Lucullo was a rich Roman who made a career in public and military life. He was a friend and pupil of Antioco, although his philosophical tastes appear to have been quite eclectic. He spend his last years quietly going insane.

 

Grice e Luporini – i corpi di Vinci – il leopardi fascita – leopardi fascisti – ultra-filosofico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo italiano. Grice: “I like Luporini; I lerarned from him how silly Austin is when talking of ‘material object’ – a contradiction in terminis for Kant who uses ‘materie’ very strictly; Luporini’s study of Leopardi is brilliant – and he has explored the genius of Vinci, which is good!” Si recò a Friburgo, dove frequenta le lezioni di Heidegger, e poi a Berlino, dove poté seguire le lezioni di Hartmann. Si laurea a Firenze. Insegna a Cagliari, Pisa e Firenze. Dopo un in interesse per l'esistenzialismo, aderì al marxismo, iscrivendosi al Partito Comunista, per il quale fu eletto senatore nella terza legislature. Tra le altre iniziative parlamentari, fu firmatario di un progetto di legge, "Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni.” Fonda la rivista Società.  Collabora ai periodici politico-culturali del PCI, Il Contemporaneo, Rinascita, Critica marxista. Durante il dibattito che, a seguito degli eventi, porta alla trasformazione del PCI in PDS, si schierò decisamente contro la "svolta" di Occhetto, aderendo alla mozione "due" di opposizione interna, in un'orgogliosa difesa e per un rilancio della prospettiva e degli ideali comunisti. Il marxismo di Luporini si fonda su una critica radicale allo storicismo, sul rifiuto di ogni concezione finalistica dello sviluppo storico: il comunismo, quello marxista in particolare, non è assimilabile con la tematica tipicamente storicista del progresso come traccia dell'evoluzione umana. Egli rifiuta letture dogmatiche del marxismo e le sue deteriori forme di economicismo e meccanicismo, ma, pur apprezzando lo strutturalismo di Althusser con cui cercò di far dialogare tutto il marxismo italiano, non ne condivideva l'anti-umanismo, in quanto il pensiero di Marx conserva per lui un profondo umanesimo, anche negli scritti successivi alla "rottura epistemologica" in cui le strutture, cioè i modelli interpretativi della società, non sono astratti ma in funzione degli individui concreti, umani.  Nello stesso ambito marxista, tra i suoi obiettivi polemici vi furono quelle posizioni che proponevano una interpretazione di radicale discontinuità tra Marx e Hegel, cioè quelle di Volpe e della sua scuola. Centrale è infatti per Luporini la nozione di “contra-dizione,” la marxiana "oggettività reale", che lo pone comunque in relazione con Hegel. Marx deve essere considerato una concezione aperta e complessa, dove materialismo e dialettica compongono una sintesi mai totalizzante (da qui il suo interesse per l'elaborazione di Gramsci) e parte fondamentale di una più generale teoria dei condizionamenti umani.  Fondamentale è il concetto di formazione economico-sociale, espressione già utilizzata da Sereni, ma in senso storicistico e cioè la possibilità per il marxismo di costituire un modello per l'analisi degli specifici modi di produzione della società capitalista, nonché per la previsione scientifica delle sue varie forme. La legge generale delle formazioni economico-sociali è tratta dall’Introduzione ai Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica di Marx. La struttura economica va indagata secondo logica scientifica e bisogna stabilire un "criterio oggettivo", il momento dominante che condiziona tutti gli altri assetti produttivi.  L'approccio storico-genetico non è un continuum evoluzionistico come nella tradizione storicistica, è la fase dell'osservazione e descrizione empirica del fenomeno dalla sua origine ed è secondario rispetto all'approccio genetico-formale, cioè all'indagine che permette di stabilire la categoria dominante di una determinata fase storica della produzione. Il modello de Il Capitale può dunque aspirare all'universalità, ma anche alla flessibilità di applicazione. La formalizzazione di un “modello” attraverso il metodo genetico, individua anche il processo per cui i rapporti di produzione si riflettono in qualcos’altro, la coscienza dei singoli, le relazioni inters-oggettive (l’inter-azione’) e le radici stesse della vita morale. È palese così il contrasto di Luporini ad ogni disegno provvidenzialista e di filosofia della storia e anche in questo si rende chiaro il rapporto dialettico-oppositivo tra Hegel e Marx. Per quanto riguarda Leopardi, secondo Luporini, la sua poesia non è permeata solo di pessimismo, ma ci invita anch'essa alla resistenza attiva. La formazione filosofica di Leopardi, infatti, illuminista e materialista, permette di leggere ad esempio, nelle "magnifiche sorti e progressive" de "La Ginestra", una possibilità di rinnovamento politico-sociale non in antitesi con la concezione della 'natura matrigna', un compito storico degli esseri umani altrimenti o comunque destill'infelicità esistenziale. “Filosofia e politica: scritti dedicati a Luporini, Firenze, La Nuova Italia, Una  completa e aggiornata, L. Fonnesu, è stata pubblicata nel numero speciale dedicato a Luporini di "Il Ponte" (Firenze). Oltre agli studi sulla storia della filosofia e a un'elaborazione teorica del marxismo incentrata sui temi etici, si ricordano, fra le sue opere principali:  “Situazione e libertà” (Firenze, Monnier); “Filosofi vecchi e nuovi” (Firenze, Sansoni); “Spazio e materia in Kant” (Firenze, Sansoni); “L'ideologia comunista” (Riuniti, Roma); “Dialettica e materialismo, Roma, Riuniti,  Il soggetto e il comune, Il marxismo e la cultura italiana, in Storia d'Italia, I documenti, Einaudi. Un'incidenza notevolissima ha sugli studi leopardiani il suo saggio Leopardi progressivo.  Sulle lezioni di Heidegger e Hartmann vedi l'aneddoto in Intervista in "Repubblica", E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di formazione economico-sociale, Quaderni di Critica marxista, Realtà e storicità: economia e dialettica nel marxismo, in Critica marxista, Per l'interpretazione della categoria formazione economico-sociale, in Critica marxista, Le radici della vita morale, in  Morale e società, Riuniti, Roma); S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, Saggi critici in Garin, Esistenza e libertà, in Critica marxista, G. Mele, Esistenzialismo e significato della libertà, Critica Marxista, A. Zanardo, Un orizzonte filosofico materialistico, in Critica marxista, C. Rocca, Esistenzialismo e nichilismo «Belfagor», R. Mapelli, Milano, ed. Punto Rosso, Ponte, Ponte, Convegni  Quarant'anni di filosofia in Italia. "Critica marxista", Il fascicolo contiene gli atti delle due giornate di studio sulla sua filosofia oorganizzate dalla Facoltà di Lettere e filosofia dell'Firenze e dalla fondazione Gramsci di Roma, Feltrinelli. Nella loro maggior parte i contributi riprendono gli interventi al Convegno promosso dall'Firenze e organizzato dal Dipartimento di Filosofia. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Senato della Repubblica; Biblioteche dei Filosofi (SNS), su picus unica. L'ultima lezione (una grande avventura intellettuale attraverso il Novecento), su hyperpoli.  Sebbene questo titolo rimandi a questioni di critica letteraria, e di fatto i risultati della critica leopardiana costituiscano l’oggetto principale da cui muove questo studio, essi saranno presentati e analizzati nelle prossime pagine innanzitutto come un ‘documento’ storico : un documento che forse non ci darà risposte soddisfacenti per comprendere meglio il pensiero leopardiano, ma contribuirà invece alla nostra riflessione sull’iter culturale e ideologico di alcuni intellettuali italiani, tra il 1940 e il 1948. Per affrontare il problema della transizione e tentare di isolare alcuni elementi di continuità e di rottura, il discorso svolgerà un percorso circolare : partendo dal saggio pubblicato da Cesare Luporini nel 1947, Leopardi progressivo, al quale, in un primo momento, si accennerà solo molto brevemente ; seguendo poi un cammino a ritroso per rintracciare l’itinerario e le origini anche abbastanza lontane del dibattito – iniziato sin da prima del Ventennio – da cui trae origine questo testo ; e tornando infine al 1947 e al libro di Luporini, molto noto, anche fuori dalla cerchia degli specialisti di Leopardi, tanto da esser divenuto un ‘classico’ studiato spesso sin dal liceo1.  2 Scrive Sebastiano Timpanaro a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo che per un vers (...) 3 Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. I, Poesie, a cura di M. A. (...) 4 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 64. 2 La scelta dell’aggettivo progressivo, benché avesse un’eco politica particolare nella cultura comunista del primissimo dopoguerra2, era dettata dal richiamo letterario alle « magnifiche sorti e progressive » de La Ginestra di Leopardi3. Ma nella citazione di Luporini l’aggettivo perdeva il sapore amaramente ironico di quel verso leopardiano ed assumeva invece un significato totalmente positivo, per indicare una forma di fiducia nel « generale progresso dell’incivilimento »4 che, secondo il critico, emana dalla lettura complessiva di una poesia come La Ginestra e, forse soprattutto, da un’attenta analisi dello Zibaldone di Leopardi. Questa fiducia non risiede però, per Luporini, nell’individuo, bensì nella moltitudine, ovvero nel popolo e nella sua virtù, e sfocia in una dichiarazione di solidarietà tra gli uomini tutti, contro la natura, per un progresso generale della condizione umana.  3 La vivacità delle reazioni che suscitò il saggio quando fu pubblicato dà una preziosa indicazione di quanto originale e quanto importante fosse l’interpretazione proposta da Luporini. Per illustrare l’accoglienza che ricevette è particolarmente utile la recente testimonianza di Franz Brunetti, che sarebbe poi diventato professore di filosofia e specialista di Galilei, ma che allora era ancora al terzo anno di studi della Scuola normale superiore di Pisa, dove Luporini appunto insegnava. Brunetti ricorda perfettamente  il Leopardi progressivo, la cui lettura creò interesse e agitazione fra i normalisti : ne discutevano animatamente nei corridoi, nelle stanze e durante i pasti nella sala da pranzo soprattutto gli italianisti Giulio Bollati, Luigi Blasucci, Dante della Terza, che trascinavano tutti gli altri. Era lecita una definizione politica del poeta ? Era corretta siffatta operazione ideologica ? Non era forse più opportuna una ricomposizione unitaria del pensiero leopardiano […] ?  5 F. Brunetti, Il « nostro » professore Cesare Luporini, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. M (...) La discussione, animata e per certi versi lacerante, si protrasse per giorni, riecheggiando sotto le volte dei corridoi nel Palazzo dei Cavalieri. Fu però efficace, perché fece rientrare la sensazione provocatoria del saggio e ricondurre l’elemento ideologico e il « tecnicismo filosofico » nelle giuste dimensioni, sortendo d’altro canto l’effetto di mettere in discussione l’apollineità in cui la critica crociana mirava a rinchiudere la poesia e insieme il poeta. Non è un caso che da quello stesso anno [1948] anche il lavoro critico di Luigi Russo si attestò in una valorizzazione della « politicità » dei poeti, rompendo, proprio lui, il dominante schema crociano. Una pietra gettata nello stagno, una fertile provocazione intellettuale.5  4 Quanto racconta Brunetti è, per molti aspetti, significativo e rappresentativo del clima ideologico e culturale di quegli anni, e della transizione che si sta operando, anche nel piccolo mondo della critica letteraria.  6 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 38 e 92. 7 W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947. Sebbene molto diversi, il testo di  (...) 5 Brunetti definisce il testo di Luporini un’« operazione ideologica », in quanto offre una lettura non solo eminentemente politica dell’opera leopardiana, ma una lettura esplicitamente comunista. Luporini vede in Leopardi un « anticipatore di ulteriori dottrine », « fedele ai principi della democrazia rivoluzionaria, anche più avanzata »6. In questo senso, il 1947 segna, col saggio di Luporini – e col saggio altrettanto noto di Walter Binni, La nuova poetica leopardiana, pubblicato lo stesso anno7 – una svolta decisiva nella storia della fortuna leopardiana, inaugurando la proficua stagione della critica leopardiana del secondo Novecento, segnatamente della critica detta marxista.  6 D’altra parte, Brunetti considera che l’opera di Luporini era, nel contesto culturale della seconda metà degli anni Quaranta, una vera e propria « pietra gettata nello stagno » e una « fertile provocazione intellettuale », in quanto rimetteva in questione il « dominante schema crociano ». Con quest’ultima osservazione, Brunetti non rende, tuttavia, conto di quanto fosse recente tale « dominio ». Se è vero, infatti, che il metodo crociano si era imposto nel mondo culturale di quel primissimo dopoguerra, durante tutto il Ventennio e anche durante la guerra esso era stato sì prevalente, ma solo nella cerchia, in realtà abbastanza ristretta, degli intellettuali ostili o estranei al fascismo. Di sicuro non era stato lo « schema dominante » imposto negli studi letterari, nelle riviste, nelle accademie e nelle università dell’Italia fascista.  8 Croce conia la voce « allotrio » per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocab (...) 9 Per l’influenza di Giovanni Gentile sul mondo culturale in epoca fascista, si veda in particolare G (...) 10 Il ruolo di Vittorio Cian (1862-1951) negli studi letterari del Ventennio e nel periodo di transizi (...) 11 Arturo Marpicati (1891-1961) compie studi di letteratura italiana a Firenze, pubblica alcune raccol (...) 12 Ecco quanto scriveva, ad esempio, Vittorio Cian, nel 1933, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli (...) 13 Mi sia consentito di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili in linea : S.  (...) 7 In realtà, durante il Ventennio solo una minoranza di critici – pur trattandosi di una minoranza quantitativamente e soprattutto qualitativamente importante – aveva seguito l’idea crociana dell’autonomia dell’arte, e quindi perlopiù evitato di dare una lettura apertamente politica dei testi letterari. Erano relativamente pochi i critici che aderivano al principio secondo cui gli elementi che in un’opera d’arte contengono un messaggio dichiaratamente politico o morale sono « allotri »8, ovvero estranei alla vera poesia del testo, perché non corrispondono allo slancio primo e poetico dell’intuizione estetica. A questi si opponeva la critica di stampo fascista, nelle cui file, ben più folte, troviamo uomini di grande influenza e di grande potere nell’ambiente culturale ed accademico, come un Giovanni Gentile9, un Vittorio Cian10, ma anche un Arturo Marpicati11. Essi contestavano, anche violentemente, la lezione crociana12, mentre rivendicavano, per tutti i testi letterari, la legittimità di una lettura morale, politica, improntata all’attualità. La tendenza ad ‘attualizzare’ il significato delle opere fu portata a tal segno da far loro presentare, talvolta e anzi spesso, i classici della letteratura italiana come precursori del fascismo13.  8 Non era dunque la prima volta che si buttavano pietre nello stagno della critica crociana ; si potrebbe quasi dire, anzi, che non si era fatto altro che buttarvi pietre durante tutto il Ventennio.  14 In realtà, i primi sintomi di « insofferenza » Russo li diede sin dal 1941, mentre scriveva un arti (...) 15 Ibid., p. 4. 9 Perciò, quando Brunetti denuncia « l’apollineità » in cui Croce rinchiude i poeti, e quando ricorda l’itinerario di Luigi Russo – che in quegli anni, dopo esser stato a lungo un fedele discepolo crociano, da Croce prende appunto le distanze14 – egli ci fa intuire non tanto una rottura, quanto una ‘transizione’ interessante. Tra i critici che erano stati antifascisti negli anni Venti e Trenta, molti cominciano, sin dai primissimi anni Quaranta, a maturare un progressivo allontanamento dalla posizione crociana, proprio perché si sentono vincolati da quell’implicito divieto di ‘allotrismo’ che caratterizza la produzione critica crociana, rivendicando la possibilità di considerare « la politicità nascosta » anche nella « grande poesia »15. Arrivati al 1947 o 1948, sembrano ormai giunti al punto di rottura. Ma quel che preme qui sottolineare è che vi è dunque una continuità, non certo nei contenuti politici – affatto diversi – ma potremmo dire nel metodo e nei presupposti teorici ed estetici che vengono opposti a Croce durante e dopo il Ventennio, ovvero nella comune rivendicazione ‘allotrica’.  10 Il testo di Luporini segna senz’altro una svolta nella fortuna critica di Leopardi nel Novecento, quando lo si studia come punto di partenza di una tradizione critica, e in questo modo esso viene generalmente e giustamente valutato. L’intento di questo lavoro sarà invece di considerarlo come punto di approdo problematico di un’altra tradizione critica, non posteriore ma anteriore, vigente nel Ventennio e di stampo generalmente fascista, con cui il testo di Luporini, nonostante le fondamentali differenze, ha in comune almeno due aspetti essenziali. Il primo è appunto l’opposizione all’estetica crociana che è già stata evocata e che potrebbe, senz’altro, esser estesa a gran parte della critica letteraria, non trattandosi di una specificità leopardiana ; il secondo è l’idea – sulla quale verterà più precisamente questo studio – di un fondamentale ottimismo leopardiano. Ora, una certa paternità del tema dell’ottimismo leopardiano, così come lo sviluppa Luporini, può essere attribuita a Giovanni Gentile e ad un suo saggio sulle Operette morali di Leopardi, scritto nel 1916. Questo, invece, è un discorso specifico, valido per la sola critica leopardiana.  11 L’ipotesi di una continuità tra l’interpretazione che Luporini dà di Leopardi nel 1947 e la produzione critica degli anni Venti e Trenta, con una comune opposizione a Croce, ma anche una comune matrice – almeno parziale – gentiliana, è convalidata sia dall’analisi dei testi, come vedremo, che dalla stessa biografia di Luporini e da quanto lui stesso racconta della propria esperienza. La vicenda umana, ideologica e culturale di Luporini in quel decennio che va dalla seconda metà degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta è, per molti aspetti, emblematica proprio di quel profilo di intellettuale nella transizione tra fascismo e Repubblica.  16 C. Luporini, Critica e metafisica nella filosofia kantiana, « Rendiconti della Reale Accademia Nazi (...) 17 Il testo faceva parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove Luporini insegnava, in occasi (...) 18 Nella sua autobiografia, Norberto Bobbio cita un disegno di Renato Guttuso che illustra una delle p (...) 19 C. Luporini, Qualcosa di me stesso (25 maggio 1979), in Cesare Luporini 1909-1993, cit., p. 239. Qu (...) 12 Cesare Luporini (1909-1993) si è laureato a Firenze nel 1935, dopo aver studiato anche in Germania, dove fu in contatto con Heidegger e Hartmann. La sua tesi di filosofia su Kant, d’impostazione esistenzialistica, è letta e molto apprezzata da Gentile, il quale decide di presentarla, nel febbraio del 1935, all’Accademia dei Lincei di cui era socio16. Dopo aver conseguito la laurea, Luporini insegna al liceo, prima a Livorno, dove pubblica un primo testo su Leopardi, di cui dà un’interpretazione esistenzialistica e la cui impostazione reca già segni evidenti di anticrocianesimo17. Nel 1938 torna a Firenze ed entra a far parte del movimento liberalsocialista di Aldo Capitini e Guido Calogero, nel quale frequenta anche Norberto Bobbio, Renato Guttuso e Umberto Morra18. Nel 1939 Gentile lo chiama alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove era disponibile un posto di lettore di tedesco. C’era, tra Gentile e Luporini, un rapporto che Luporini stesso ebbe a definire « di grande franchezza politica », sin dal 1937, quando i due uomini si conobbero meglio, e fino alla morte di Gentile, avvenuta nel 194419. Luporini non aveva approvato la decisione del movimento liberalsocialista di confluire nel Partito d’Azione e si era perciò ritirato nel 1942, per aderire invece, nell’agosto del 1943, al Partito Comunista. Luporini si trovava quindi agli esatti antipodi politici di Gentile : eppure egli stesso racconta di come avesse tentato, nel 1943, di convincerlo ad abbandonare la Repubblica di Salò e avesse anche creduto di riuscire nel suo intento, definendo « tragica » ma anche « consapevole » la sua fine :  20 Ibid., p. 240. Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile, tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Nel novembre del ’43, al Salviatino, dove abitava, ebbi con lui un incontro che non finiva mai, perché non riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage – mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così : due giorni dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato (ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza.20  13 Poche settimane dopo quest’episodio, Gentile propone a Luporini di diventare bibliotecario dell’Accademia d’Italia. Ma Luporini rifiuta, sancendo così la fine del suo rapporto con Gentile : un rapporto che, nella nostra prospettiva, è senz’altro importante e che invece è stato quasi integralmente passato sotto silenzio. In realtà, di Luporini si ricorda soprattutto l’attività posteriore al 1945, in particolare quella che svolse come co-fondatore – con Bianchi Bandinelli – della rivista “Società”, e in seguito come direttore della stessa. La storia di questa rivista illustra l’evoluzione di molti intellettuali di sinistra dopo la Liberazione, proprio per il vincolo che venne rapidamente a crearsi col partito comunista. Parlando di « Società » e dei suoi intenti programmatici, Luporini dichiara nel 1979 che per lui, l’idea principale era  21 Ibid., p. 244. d’una saldatura fra quella cultura degli anni trenta di cui ho parlato – quella rottura con il passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente, molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con Vittorini, con la sua idea, nel « Politecnico » d’una « nuova cultura ». I contenuti li avevamo in comune, più o meno ; però io ero per un continuismo, non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto.21  22 Ibid., p. 241. 14 Per illustrare meglio le forme di questo « continuismo », bisogna rifarsi alle pagine che precedono questa citazione, in cui Luporini descrive l’ambiente culturale della Firenze degli anni Trenta e il gruppo di intellettuali antifascisti che vi frequentava. Luporini dichiara in quest’occasione che « da un certo punto di vista la vera dittatura era proprio quella idealistica » e che, nel campo specifico della letteratura e della storiografia, l’idealismo « dittatoriale » era forse più crociano che non gentiliano22. Continua poi la narrazione del proprio iterintellettuale, negli anni Trenta e Quaranta, che Luporini descrive come un percorso che consta di due tappe fondamentali, due svolte, anzi due transizioni. La prima avviene negli anni Trenta, quando Luporini prende le distanze dall’idealismo crociano e scopre l’esistenzialismo ; la seconda, negli anni Quaranta, quando dall’esistenzialismo Luporini si sposta verso posizioni marxiste.  15 Questi pochi elementi biografici offrono due spunti notevoli per l’analisi della produzione di Luporini. In primo luogo, il rapporto personale più approfondito che Luporini aveva con Gentile e non con Croce induce a riconsiderare l’influenza dell’uno e dell’altro sulla sua prima formazione, da giovane studente e studioso di filosofia e di letteratura. In secondo luogo, nell’esprimere a posteriori il programma della sua rivista « Società », Luporini formula una precisa volontà culturale ed ideologica propria di quel periodo di transizione, che consiste nel superare l’idealismo crociano e nel consentire una forma di « continuismo » tra una certa cultura anticrociana degli anni Trenta e quella degli anni Quaranta. Applicati alla critica leopardiana del dopoguerra, questi due elementi dimostrano quanto fosse complessa e problematica l’eredità della critica fascista e della critica idealista.  23 C. Luporini, Con Heidegger 1931-1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heideg (...) 24 G. Gentile, Manzoni e Leopardi (1928), in Opere, vol. XXIV, Firenze, Sansoni, 1960. 16 Leopardi, d’altronde, offre una prospettiva privilegiata per analizzare il rapporto tra Croce, Gentile e Luporini. Era il poeta prediletto di Luporini : « Leopardi è stato sempre il mio autore », dichiarava Luporini nel 198923, e come tale, egli continuò a leggerlo e a rileggerlo da un capo all’altro della sua vita. Ma era anche un poeta molto amato da Gentile – benché numerose e importanti fossero le differenze tra il materialismo dell’uno e l’attualismo dell’altro – e la costanza del suo interesse per Leopardi ci è testimoniata dalla regolarità con la quale il filosofo siciliano pubblicò per più di trent’anni, tra il 1907 e il 1938, testi sul pensiero e sulla poesia di Leopardi, poi raccolti in un unico volume24. D’altro canto, invece, Leopardi non è stato un autore particolarmente apprezzato né compreso da Croce. Citiamo qui l’allegro commento di uno studioso che era stato suo discepolo, Vincenzo Gerace, e che nel 1929 dichiarava :  25 V. Gerace, Leopardiana, in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Folig (...) Croce non ama Leopardi. Non può amarlo. Gli dà forte sui filosofici nervi. Gli è d’impaccio al teorico passo, uso a scalciare stizzoso, ovunque lo trovi, quel terribile nemico della sua teoria estetica : l’intellettualismo e il moralismo nel mondo dell’arte. Or se c’è un intellettualista e un moralista convinto e di altissimo stile nella storia della nostra poesia, e tenace in teorie e in fatti, questi è Leopardi.25  26 B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923, pp. 103-119. 27 Ibid., p. 107. 17 Gerace allude qui senz’altro al celebre testo che Croce pubblica dapprima su « La Critica » e poi nel volume Poesia e non poesia del 192326. La principale critica che Croce rivolge alla poesia di Leopardi è di esser intrisa di elementi allotri, di momenti meditativi, filosofici, polemici, che sono, per il critico idealista, profondamente estranei alla pura ispirazione e intuizione poetica. Come tali, Croce non li considera veramente poetici, tanto che, nel suo esame complessivo dei versi leopardiani, egli considera che solo un numero relativamente ridotto corrisponda alla sua definizione di poesia. Croce non emette riserve unicamente sulla poesia di Leopardi, ma ne esprime di ancora più forti sul valore della sua filosofia. Per Croce, il pensiero leopardiano è dettato innanzitutto dal sentimento, anzi dal risentimento per una « vita strozzata », ed è dunque troppo soggettivo per essere considerato un pensiero filosofico universale. In questa prospettiva, Croce interpreta il pessimismo o ottimismo di Leopardi come un indizio dell’origine prettamente sentimentale del suo pensiero, e quindi come una prova della sua pochezza concettuale : « La filosofia », afferma Croce, « in quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinsecamente pseudo-filosofia, filosofia a uso privato »27.  28 I due testi si trovano oggi nel volume di G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le Operett (...) 29 Ibid., p. 164 30 Ibid., p. 163. 18 In queste pagine, Croce sta in realtà dialogando con colui che era, da molti anni ma per pochi mesi ormai, un amico ed un collaboratore, Giovanni Gentile, il quale aveva pubblicato, nel 1916 e nel 1919 due saggi – il primo sulle Operette morali, il secondo intitolato Prosa e poesia nel Leopardi – decisivi per la questione della filosofia pessimistica o ottimistica di Leopardi28. Anche Gentile, come Croce, giudica severamente la qualità filosofica del pensiero leopardiano, dichiarando che « se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre nell’invenzione »29. Gentile formula, tuttavia, un’interpretazione ben diversa, molto più feconda ed originale, della questione del pessimismo o ottimismo di Leopardi. Senza negare del tutto il suo pessimismo, Gentile lo ridimensiona attribuendolo storicamente e concettualmente alla sola influenza della filosofia materialista, direttamente ereditata dai Lumi. Si tratta quindi di un « pessimismo della ragione » settecentesca, che Gentile giudica, tutto sommato, superficiale e poco originale, e al quale oppone invece un « ottimismo del cuore », profondamente radicato nell’animo leopardiano. Così scrive nel 1919 : « Il Leopardi, pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo : tanto più acutamente pessimista col progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista »30.  31 Vi è, nello Zibaldone, un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, un (...) 32 Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Augusto Del Noce, secondo cui Gentile « sent (...) 33 F. Pasini, Tutto il pessimismo leopardiano, Parenzo, Coanna, 1928, p. 5. 19 Gentile dà particolare rilievo alla tesi di un’ultrafilosofialeopardiana31, supponendo l’esistenza di una sorta di pensiero leopardiano oltre la filosofia pessimistica e materialistica : un pensiero più autentico, perché più intimamente poetico, più spirituale e quindi, per Gentile, più leopardiano32. La rivalutazione gentiliana delle Operette morali e l’interpretazione in chiave ottimistica del pensiero leopardiano segnano un momento importante nella storia della critica, avviando un nuovo filone esegetico che gode di particolare successo durante il Ventennio. Si assiste allora, come nota un critico nel 1928, ad un « capovolgimento, del punto di vista dal quale si usava considerare Leopardi » : da « poeta del pessimismo » che era « per tutti », Leopardi « è diventato il poeta dell’ottimismo »33.  34 F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Scritti critici e Ricordi, Torino, Utet, 1986, p. 159. 35 Per una presentazione dei testi, dei contenuti e degli autori di questa particolare produzione crit (...) 20 Sin dall’Ottocento, De Sanctis aveva esaltato l’effettopositivo prodotto dalla lettura della poesia leopardiana, dichiarando che « Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare ; non crede alla libertà, e te la fa amare »34. Negli anni Venti e Trenta, tuttavia, l’intento della critica leopardiana è rivelare elementi intrinsecamente positivi ed ottimistici, non nell’effetto prodotto sui lettori, ma alla matrice stessa del pensiero leopardiano. L’opposizione proposta da Gentile nel 1919, tra un pessimismo della ragione ed un ottimismo del cuore viene ampliamente ripresa e riesplorata, dando adito a tutta una serie di interpretazioni che potremmo definire irrazionali e fideistiche. Oltre il pessimismo materialista, oltre il razionalismo disperato, la cui importanza viene sistematicamente sminuita, molti critici cercano ed esaltano lo slancio ottimistico della fede leopardiana : fede nella poesia, ma anche e spesso soprattutto fede nella patria e nella stirpe italiana. In questo senso potremmo interpretare alcune letture mistiche che vengono date di Leopardi e del suo pensiero negli anni Trenta soprattutto35.  36 S. Lanfranchi, De centenaire en centenaire. L’Italie fasciste célèbre ses poètes (Foscolo 1927, Leo (...) 21 Non è certo questo il luogo per analizzare questa produzione, vasta seppur povera di elementi filologici e critici realmente nuovi. Ai fini del nostro discorso, preme tuttavia osservare che un argomento ricorre sovente tra questi testi, che consiste nel dare una spiegazione prettamente contestuale e storica al pessimismo di Leopardi, negandogli di fatto un valore universale. Il motivo fondamentale del pessimismo leopardiano è, per la critica di stampo fascista degli anni Venti e Trenta, di natura politica, anzi patriottica. Morto nel 1837, Leopardi non ha assistito né agli albori del Risorgimento, né alla prima guerra mondiale, né tanto meno alla marcia su Roma : se invece fosse stato spettatore e attore di tali avvenimenti, egli – assicurano tali critici – non sarebbe stato pessimista. Questo argomento costituisce un vero e proprio topos oratorio, ripetuto centinaia di volte in occasione dei discorsi ufficiali e delle commemorazioni del Ventennio, poiché, nonostante sia fondato su un anacronismo e quindi scientificamente non abbia alcun valore, la sua efficacia retorica è notevole. E segnatamente lo si trova nel 1937, quando, in occasione del centenario della morte, il regime organizzò, spesso controllandoli e canalizzandoli, tutta una serie di festeggiamenti ufficiali, in cui Leopardi veniva molto spesso presentato come un precursore del fascismo36.  22 Vi furono però alcune celebrazioni che riuscirono a rimanere in margine delle commemorazioni ufficiali e quindi a garantire una certa libertà di espressione rispetto alla produzione su Leopardi. Tra queste, troviamo l’annuario di un liceo livornese, che nel 1938 pubblicò un numero speciale con vari studi consacrati a Leopardi. Il secondo, intitolato Il pensiero di Leopardi, era proprio il testo di Cesare Luporini, che in quel liceo appunto insegnava filosofia. In questo saggio, l’intento primo di Luporini non è solo di presentare un Leopardi esistenzialista, ma anche e forse soprattutto di contestare la posizione dell’idealismo, sia crociano che gentiliano, rivendicando innanzitutto il valore filosofico del pensiero leopardiano e quindi anche del suo pessimismo. Luporini non esita a metterlo a confronto con i maggiori filosofi dell’Occidente :  37 C. Luporini, Il pensiero di Leopardi, cit., p. 68. Tra il pessimismo del Pascal, ultima grandiosa affermazione del medioevo religioso e il pessimismo del Leopardi, c’è l’età dell’illuminismo nei suoi ideali più alti, c’è Cartesio e Kant (che pur Leopardi non conosceva), c’è insomma il pensiero moderno che fonda tutto il valore dell’uomo nella sua dignità morale e questa sua dignità morale nella verità che egli ha raggiunto colle proprie forze, rivelata alla sua ragione.37  38 Secondo Sebastiano Timpanaro : « L’esperienza esistenzialistica [Luporini] se l’era ormai lasciata  (...) 39 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 97. 40 Ibid., pp. 101-102. 23 Sarebbe opportuno comprendere se vi siano elementi comuni tra i due testi di Luporini su Leopardi, scritti a distanza di dieci e decisivi anni. Sussistono poche tracce del Leopardi esistenzialista del 1938 nel Leopardi progressivo del 194738. Un lascito più evidente consiste invece nella condanna duratura e permanente di Croce – di cui Luporini cita esplicitamente « l’infelice giudizio » su Leopardi39. Per Luporini, non solo la poesia di Leopardi è sempre vera poesia, ma anche il suo pensiero, potremmo dire, è vero pensiero, vera filosofia. Leopardi, dice Luporini nel 1947, « fu un pensatore progressivo ; in certo modo, dentro i limiti della sua funzione di moralista, di non-tecnico della filosofia né di alcuna disciplina particolare, il più progressivo che abbia avuto l’Italia nel xix sec. »40.  24 L’interpretazione data da Gentile – che invece Luporini nel suo testo non cita mai – e la stagione di studi sul Leopardi ottimistico che essa inaugurò per il Ventennio fascista lasciano invece dietro di sé, e sul saggio di Luporini in particolare, un’eredità molto più complessa da cogliere e da valutare. Nell’insistere sul materialismo del pensiero leopardiano, Luporini intendeva senz’altro opporsi alla lettura idealistica e spirituale di Gentile. È inoltre significativa la scelta di Luporini, che non parla di un Leopardi ottimista, ma progressivo, rifacendosi perciò ad un lessico di tutt’altra connotazione ideologica. Vi sono, tuttavia, anche alcuni elementi di continuità, e ci soffermeremo brevemente su tre di questi.  41 Ibid., pp. 49 e 69. 42 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo, cit., p. 180. 25 Il primo sta nell’origine contestuale e storica che Luporini attribuisce al pessimismo leopardiano, il quale deriva, secondo lui, da una delusione storica : la delusione della Rivoluzione francese. « Questa delusione – scrive Luporini – non spiega solo il pessimismo storico di Leopardi, ma il suo successivo e rapido ‘pessimismo cosmico’ ; ossia spiega tutto il pensiero leopardiano. I due pessimismi nascono da un unico germe, appartengono a un unico processo di pensiero »41. Nel 1965, esprimendo un giudizio complessivamente molto positivo sul testo di Luporini, Sebastiano Timpanaro emette la principale sua riserva proprio su questa interpretazione, che giudica insufficiente in quanto non rende conto del « valore permanente del pessimismo leopardiano »42. Nella nostra prospettiva, è importante notare che la spiegazione storica, benché usasse altri mezzi e perseguisse altri fini, era già usata in modo sistematico dalla critica fascista, escludendo a priori l’idea di un pessimismo non fondato sulla storia, ma sulla condizione umana in senso universale e astorico.  43 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 50. 44 Ibid., p. 60. 26 Il secondo elemento di continuità sta nel giudizio, proprio di Luporini ma anche della critica fascista, secondo cui nonostante il pessimismo scaturito dalla delusione storica, vi fosse in Leopardi una “inconcussa e nascosta fede”43, qualcosa che lo induceva comunque a sperare. Come Gentile, anche Luporini dà un notevole rilievo a quell’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia » nello Zibaldone, ma le attribruisce contenuti affatto diversi perché in essa « sembra condensarsi la “disperata speranza” dell’individuo Leopardi »44.  45 Ibid., p. 38. Timpanaro considera che non era « accettabile » il « rimprovero » mosso a Luporini, d (...) 27 Il terzo ed ultimo elemento di continuità, tra il testo di Luporini e la produzione critica del Ventennio, sta infine nel presentare Leopardi quale un « anticipatore di ulteriori dottrine »45. In entrambi i casi, Leopardi diventa precursore politico di un’ideologia del Novecento e, in entrambi i casi, diventa precursore di un’ideologia strutturalmente ottimistica. L’ottimismo era, infatti, un aspetto culturale e ideologico programmatico per il fascismo ma, d’altra parte, il progresso – e quindi la visione ottimistica del divenire umano che lo sottende – è a sua volta un perno essenziale dell’ideologia comunista.  46 C. Luporini, Leopardi moderno, intervista a cura di F. Adornato, « L’Espresso », 1°marzo 1987, p. 1 (...) 28 Su questo punto vorremmo abbozzare le nostre prime rapide conclusioni. Parallelamente al discorso critico più tradizionale e canonico, che sin dall’Ottocento va definendo le varie fasi del pessimismo leopardiano, si possono rintracciare nel Novecento le tappe di elaborazione del mito di un Leopardi ottimista : un mito che forse proprio durante il Ventennio conosce la maggiore diffusione, ma che non muore con la caduta del regime fascista. Il suo permanere, sotto forme diverse, è forse proprio dovuto al vincolo che lo unisce ad ideologie strutturalmente ottimistiche, le quali, quando designano nel Leopardi un precursore, lo « piegano » naturalmente in questo senso. Alla luce di queste considerazioni, assumono un significato particolare le parole che pronuncia lo stesso Luporini, in un altro periodo di transizione, alla fine degli anni Ottanta, davanti al crollo del regime comunista e davanti alla crisi di quest’altra ideologia novecentesca. Non a caso, Luporini ritorna allora a studiare Leopardi, per trovarvi l’espressione del suo sgomento : « Il sapersi soli di fronte alla storia, senza speranze – senza nessuna garanzia, senza nessuna ideologia, senza nessuna consolazione »46. Siamo molto lontani dal messaggio ottimistico del Leopardi progressivo, e rimane poco delle antiche speranze (di Luporini). Rimane però quello stesso amore per Leopardi, e quel sentimento della sua ‘attualità’ più pregnante :  47 Ibid. Nella nostra epoca così confusa e in fase di assestamento, nella crisi di tutte le categorie con le quali ci siamo mossi finora, questa mi sembra un’idea liberatoria. Si può, anzi si deve, essere disillusi : ma non per questo inerti e rassegnati. Essere nichilisti e insieme attivi : ecco l’attualissimo messaggio di Leopardi.47Débat  Inizio pagina NOTE 1 Il testo Leopardi progressivo fu pubblicato per la prima volta nel volume Filosofi vecchi e nuovi : Scheler-Hegel-Kant-Fichte-Leopardi, Sansoni, Firenze, 1947. Come Luporini scrive in un’avvertenza ad una nuova edizione, datata del febbraio 1980, « questo Leopardi progressivoebbe subito una sua risonanza particolare, così che poi, nel corso di tutti questi anni, molte volte sono stato sollecitato a ripubblicarlo in edizione separata. Questa domanda proveniva da varie parti, ma soprattutto dal mondo della scuola (insegnanti e studenti), il che mi ha sempre fatto particolare piacere » (C. Luporini, Avvertenze dal 1980 al 1992, in Id., Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti, 2006, p. ix).  2 Scrive Sebastiano Timpanaro a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo che per un verso alludeva polemicamente alle “magnifiche sorti e progressive” derise nella ninestra (volendo indicare che Leopardi, nemico del falso progresso borghese-moderato, mirava ad un progresso molto più radicale, al di là dell’orizzonte politico della propria epoca e del proprio ambiente), per un altro accoglieva quell’accezione un po’sottile e non immune da ambiguità che questo aggettivo ebbe per alcuni anni nel linguaggio politico italiano : non equivalente a “progressista” (che sapeva troppo di radicalismo borghese), ma piuttosto a “democratico avanzato”, di una democrazia destinata, senza rivoluzione, a sfociare nel socialismo. Gli equivoci politici di quest’uso di “progressivo” ne causarono la rarefazione e poi la scomparsa quando era ancora in vita Togliatti, che ne era stato, se non l’inventore, certo il massimo diffusore attraverso la formula della “democrazia progressive -- TIMPANARO, Anti-leopardiani e neo-moderati nella sinistra italiana, Pisa, ETS, 1982, p. 150).  3 Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. I, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori (I Meridiani. L., “Leopardi progressive”. Brunetti, Il « nostro » professore L., in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. Moneti, numero speciale della rivista « Il Ponte », LXV, 11, 2009, p. 60.  6 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 38 e 92.  7 W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni. Sebbene molto diversi, il testo di L. e quello di Binni hanno in comune l’originalità dell’impostazione critica, che contribuì a rinnovare gli studi leopardiani nel dopoguerra. La migliore illustrazione e analisi di tale svolta critica si trova forse ancora nelle pagine, ormai non più recenti, di TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri Lischi, 1965, p. 133-137.  8 Croce conia la voce « allotrio » per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocabolario filosofico tedesco dell’Ottocento, e al greco “ἀλλóτριος,” che signifca « estraneo, altrui ».  9 Per l’influenza di Giovanni Gentile sul mondo culturale in epoca fascista, si veda in particolare G. Turi, Giovanni Gentile : una biografia, Firenze, Giunti, 1996.  10 Il ruolo di CIAN negli studi letterari nel periodo di transizione è stato recentemente studiato d’Allasia in una serie di lavori, tra cui « Il virus malefico » dell’ideologia nazionale e le illusioni di un « maestro di metodo » : Vittorio Cian, in Fascisme et critique littéraire. Les hommes, les idées, les institutions, a cura di Vento e Tabet, Caen, PUC (Transalpina). MARPICATI compie studi di letteratura italiana a Firenze, pubblica alcune raccolte di poesie e vari testi di critica letteraria. Ma sin dalla prima guerra mondiale mette da parte l’attività letteraria – alla quale si consacra solo sporadicamente – per dedicarsi invece alla politica, dapprima a Fiume, poi nella militanza e nel regime fascisti. Assume vari incarichi prestigiosi, tra cui quello di Cancelliere dell’Accademia d’Italia dal 1929, poi di direttore, nel 1930, dell’ISTITUTO NAZIONALE DI CULTURA FASCISTA, e anche di vice segretario del Partito Nazionale Fascista dal 1931 al 1934.  12 Ecco quanto scriveva, ad esempio, Vittorio Cian, nel 1933, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli : « Questi cerebrali, più o meno giovini, chierici sterili e sterilizzatori, officianti nella cappella all’insegna dello Spegnitoio, dovrebbero ormai decidersi. O smetterla, rassegnandosi a tacere e a sparire dalla scena letteraria – e sarebbe tanto di guadagnato – oppure mettersi al passo coi tempi nuovi » (V. CIAN, Rassegna bibliografica, Giornale Storico della letteratura italiana. Mi sia consentito di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili in linea : S. Lanfranchi, La recherche des précurseurs, Lectures critiques et scolaires de Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo et Leopardi dans l’Italie fasciste -- archives-ouvertes.fr/docs/00/37/21/89/7-12-08.pdf] ; Id., « Verrà un dì l’Italia vera », Poesia e profezia dell’Italia futura nel giudizio fascista, « California Italian Studies », II, 1, 2011 [http://escholarship.org/uc/ismrg_cisj], In realtà, i primi sintomi di’insofferenza RUSSO li da mentre scrive un articolo sulla critica foscoliana recente, nel quale rivendicava la « politicità » di un testo come Le Grazie e la legittimità di una lettura che non si attenesse ad un’analisi strettamente letteraria, estetica e formale. Questo esempio viene a dimostrare quanto detto subito dopo nel nostro studio, ovvero l’ipotesi di un allontanamento progressivo dalle posizioni crociane durante gli anni Quaranta, che nel 1947-1948 giunge a compimento (L. Russo, Le Grazie di Foscolo e la critica contemporanea, “Italia che scrive”.  Luporini, “Critica e metafisica nella filosofia kantiana, « Rendiconti della Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche », s. VI, XI, 1935, pp. 87-115.  17 Il testo faceva parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove L. insegna, in occasione del centenario della morte di Leopardi, nel 1937 : C. Luporini, Il pensiero di Leopardi, in Studi su Leopardi, Livorno, Belfronte e C., 1938 (Pubblicazioni del R. Liceo Scientifico « Costanzo Ciano », 1), Nella sua autobiografia, BOBBIO cita un disegno di GUTTUSO che illustra una delle prime riunioni clandestine del movimento, riunito nella villa di Umberto Morra, vicino a Cortona, nel 1939. Vi si vedono Bobbio, Luporini, Capitini (con davanti a sé un testo che porta la scritta « Non violenza »), MORRA, lo stesso GUTTUSO e CALOGERO (con un altro testo intitolato invece « Liberalismo sociale ») (N. Bobbio, Autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 41 e 172).  19 C. Luporini, Qualcosa di me stesso (25 maggio 1979), in Questo testo è la trascrizione dell’ultima lezione tenuta, dall’autore, nella Facoltà di Lettere di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo » (ibid., p. 233).  20 Ibid., p. 240.  21 Ibid., p. 244.  22 Ibid., p. 241.  23 C. Luporini, Con Heidegger 1931-1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heidegger in discussione, Atti del Convegno internazionale « L’eredità di Heidegger », Roma, 29-31 maggio 1989, a cura di F. Bianco, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 39.  24 G. Gentile, Manzoni e Leopardi (1928), in Opere, vol. XXIV, Firenze, Sansoni, Gerace, Leopardiana, in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Foligno, Franco Campitelli Editore, 1929, p. 194.  26 B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923, pp. 103-119.  27 Ibid., p. 107.  28 I due testi si trovano oggi nel volume di GENTILE, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le Operette morali, fu pubblicato per la prima volta in « Annali delle Università toscane », poi come proemio di un’edizione delle Operette morali curata da Gentile nel 1918 (G. Leopardi, Operette morali, con proemio e note di Gentile, Bologna, Zanichelli; il secondo, Prosa e poesia nel Leopardi, fu invece pubblicato nel « Messaggero della domenica ».  Vi è, nello Zibaldone, un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, una sola occorrenza del termine « pessimismo », ma nella critica leopardiana questi due hapax hanno goduto di grandissimo successo. Leopardi scrive. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo -- manoscritto dello Zibaldone. Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Noce, secondo cui GENTILE « sentì se stesso come il filosofo di Leopardi, come il suo vero continuatore perché l’attualismo avrebbe realizzato quell’ultrafilosofia a cui Leopardi aspira: Noce, Gentile, Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino. PASINI, Tutto il pessimismo leopardiano, Parenzo, Coanna, Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Scritti critici e Ricordi, Torino, Utet. Per una presentazione dei testi, dei contenuti e degli autori di questa particolare produzione critica leopardiana, oggi poco nota, rimando alla mia già citata tesi di dottorato (S. Lanfranchi, La recherche des précurseurs, LANFRANCHI, De centenaire en centenaire. L’Italie fasciste célèbre ses poètes (Foscolo, Leopardi, in Fascisme et critique littéraire, Caen, PUC (Transalpina 12). L., Il pensiero di Leopardi, cit., p. 68.  38 Secondo TIMPANARO: L’esperienza esistenzialistica [Luporini] se l’era ormai lasciata decisamente alle spalle ; eppure essa aveva lasciato una traccia nell’interesse per i temi leopardiani della “vitalità” e del rapporto natura-ragione, nel rifiuto di un’interpretazione troppo storicisticamente angusta del problema Leopardi. Timpanaro, Anti-leopardiani e neomoderati. L., Leopardi progressivo, Timpanaro, Classicismo e illuminismo, c L., Leopardi progressivo.TIMPANARO considera che non era accettabile il « rimprovero » mosso a Luporini, di aver fatto di Leopardi un « precursore del marxismo. Timpanaro, Classicismo e illuminismo. Ma certe pagine del libro di Luporini e alcune formule in esse contenute (segnatamente quell’anticipatore di ulteriori dottrine) se non rendono « accettabile » un tale giudizio, perlomeno ne spiegano l’origine.   L., Leopardi moderno, intervista a cura d’Adornato, « L’Espresso ». Cesare Luporini. Luporini. Keywords: corpo e mente, corpo animato – l’anima di Vinci – la mente di Leonardo – i corpi di Vinci – il Leopardi fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luporini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Luzzago—implicature – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. Nato da Girolamo e da Paola Peschiera, in una delle più importanti famiglie del patriziato cittadino, e educato alla pratica devota e all'apostolato. Nel convento di S. Antonio dei gesuiti si impegna in un corso di filosofia. Dibatte in pubblico 737 argomenti filosofici! Con l'aiuto di Borromeo partecipa a Milano ai corsi di teologia dei gesuiti di Brera. Si laurea a Padova. Desideroso di entrare a far parte della Compagnia di Gesù, le difficoltà economiche della famiglia, causate da alcune transazioni inopportune del padre, glielo impedirono. Conservatore dei Monti di Pietà, e  protettore della Compagnia delle Dimesse di S. Orsola e di altri due istituti caritativi bresciani: il Soccorso e le Zitelle. Ri-organizza e da nuovo impulse a un'altra istituzione sorta dopo il Concilio di Trento: la Scuola della dottrina cristiana. Fonda la Congregazione di S. Caterina da Siena. Per far sì che il suo operato continuasse, fonda la Congregazione dello Spirito Santo, che raccolse i membri della classe dirigente cittadina con l'obiettivo di co-operare più efficacemente e concordemente al sostegno di tutte le buone istituzioni e mantenere un clima di Concordia. Infatti, intercede per la conciliazione delle famiglie nobili bresciane spesso in conflitto.  La sua indole caritativa emerse soprattutto quando venne a far parte del Consiglio di Brescia, dove sa armonizzare le strutture governative ed organismi canonici. Nelle opere scritte vi sono indicazioni per i cavalieri di Malta, sulla carità, ispirati al modello della Compagnia di Gesù. Durante il suo viaggio a Roma esamina le strutture di beneficenza per poi proporle a Brescia. Ha la possibilità di conoscere F. Neri. In un'epistola a Morosini, e informato che Clemente VIII, prende in considerazione il suo nome per la carica di arcivescovo di Milano. Fu avviata presso la Congregazione dei riti la causa di beatificazione. Leone XIII, riconosciute le sue virtù eroiche, gli conferì il titolo di venerabile.  Dizionario Biografico degli Italiani, A. Cottinelli, Vita del venerabile patrizio bresciano: dedicata ai comitati parrocchiali, Tipografia e libreria Salesiana, A. Cistellini, Il movimento cattolico a Brescia, Morcelliana. A. Fappani, Enciclopedia bresciana, Opera San Francesco di Sales, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, S. Negruzzo, L'allievo santo: Roccio precettore, in «Annali di Storia dell'Educazione e delle Istituzioni Scolastiche», S. Negruzzo, Dalla scuola dell'ajo al collegio dei gesuiti: il caso di Luzzago, in Dalla virtù al precetto. L'educazione del gentiluomo,  Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Alessandro Luzzago. Luzzago. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luzzago” – The Swimming-Pool Library.