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MCOlAVfi MACHIAVELLI
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DISCORSI
SOPRA LA PRIMA DECA
DI TITO LIVIO
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NICCOLÒ MACHIAVELLI.
FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.
4 864.
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^Jo<roLo
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S&M
lt:
NICCOLÒ MACHIAVELLI
A ZANOBI BUONDELMONTI
E COSIMO RUCELLÀI
SALUTE.
lo vi mando un presente , il quale se
non corrisponde agli obblighi clic io ho
con voi, è tale senza dubbio, quale ha
potuto Niccolò Machiavelli mandarvi
maggiore. Perchè in quello io ho espres-
so quanto io so, c quanto io ho impa-
ralo per una lunga pratica e continova
lezione delle cose del mondo. E non por
lendo nè voi nè altri disiderare da me
più, non vi potete dolere se io non vi
ho donato più. Bene vi può incrcsccre
della povertà dello ingegno mio, quando
M \chi avelli, Discorsi. — i. 1
ÌKÌRÌ
■.»' ■
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2 31CC0LÒ MACHIAVELLI
siano queste mie narrazioni povere ; e
della fallacia del giudizio , quando io
in molte parli , discorrendo , m' inganni.
Il che essendo , won so quale di noi si
abbia ad esser meno obbligato all' altro;
o io a voi , che mi avete forzalo a scri-
vere quello eh' io mai per me medesimo
non arci scritto; o voi a me, quando
scrivendo non abbi soddisfatto . Pigliate,
adunque, questo in quello modo che si
pigliano tulle le cose degli amici: dove
si considera più sempre la intenzione
di chi manda, che le qualità della cosa
che è mandata. E crediate che in que-
sto io ho una salis fazione , quando io
penso che, sebbene io mi fussi ingan-
nato in molle sue circostanze, in questa
sola so eh * io non ho preso errore, di
avere delti voi, ai quali sopra tutti gli
altri questi miei Discorsi indirizzi : sì
A Z. BUOSDELMOIHTI E C. BUCELLAI. 3
perché, facendo questo, ini pnre aver
mostro qualche gratitudine de* benefizii
ricevuti : si perchè e* mi pare esser
uscito fuora dell * uso comune di coloro
che scrivono , i quali sogliono sempre
le loro opere a qualche Principe indi-
rizzare ; e, accecati dall* ambizione c
dall* avarizia, laudano quello di tutte
le virtuose qualitadi, quando di ogni
vituperevole parte doverrebbono biasi-
marlo. Onde io, per non incorrere in
questo errore, ho eletti non quelli che
sono Principi, ma quelli che per le in-
finite buone parti loro meriterebbono di
essere ; nè quelli che polrebbono di gra-
di, di onori e di ricchezze riempiermi,
ma quelli che, non polendo, vorrebbono
farlo. Perchè gli uomini, volendo giu-
dicare dirittamente, hanno a stimare
quelli che sono , non quelli che possono
A MCCOLÒ MACHIAVELLI EC.
esser liberali; e così quelli che sanno ,
non quelli che , senza sapere, possono
governare un regno. E gli scrittori lau-
dano più Icronc Siracusano quando egli
era privato, che Perse Macedone quan-
do egli era re: perchè a Icronc a esser
principe non mancava altro che il prin-
cipato ; quell * altro non avera parte
alcuna di re, altro che il regno. Gode-
tevi, pertanto quel bene o quel male che
voi medesimi avete voluto : e se voi sta-
rete in questo errore, che queste mie
oppinioni vi siano grate , non manche-
rò di seguire il resto della istoria, se-
condo che nel principio vi promisi.
Valete.
DEI DISCOESI ’!!
LIBRO PRIMO.
Ancouaciiè, per la invida natura de-
gli uomini, sia sempre stato pericoloso
il ritrovare modi ed ordini nuovi, quanto
il cercare acque e terre incognite, per
essere quelli più pronti a biasimare che
a laudare le azioni d’ altri ; nondimeno,
spinto da quel naturale desiderio che
fu sempre in me di operare, senza al-
cun rispetto, quelle cose che io creda
rechino comune benefìzio a ciascuno, ho
deliberato entrare per una via, la quale,
non essendo stata per ancora da al-
cuno pesta, se la mi arrecherà fastidio
e di ffìcultù, mi potrebbe ancora arre-
I •
6
DEI DISCORSI
care premio, mediante quelli che uma-
namente di queste mie fatiche conside-
rassero. E se T ingegno povero, la poco
esperienza delle cose presenti, la de-
bole notizia delle antiche, faranno que-
sto mio conato difettivo e di non molta
utilità ; daranno almeno la via ad al-
cuno, che con più virtù, più discorso e
giudizio, potrà a questa mia intenzione
satisfare: il che se non mi arrecherà
laude, non mi dovrebbe partorire bia-
simo. E quando io considero quanto
onore si attribuisca all’antichità, c co-
me molte volte, lasciando andare molti
altri esempi, un frammento d’ una an-
tica statua sia stato comperato gran
prezzo, per averlo appresso di sè, ono-
rarne la sua casa, poterlo fare imitare
da coloro che di quella arte si diletta-
no; e come quelli poi con ogni indu-
stria si sforzano in tutte le loro opere
rappresentarlo: e vcggendo, dall’altro
canto, le virtuosissime operazioni che le
istorie ci mostrano, che sono state ope-
LIBRO PRIMO.
rate da regni c da repubbliche auliche,
dai re, capitani, cittadini, datori di leggi,
ed ultri che si sono per la loro
atfaticati, esser più presto ammirate che
imitate; au/i in tanto da ciascuno in
ogni parte fuggite, che di quella antica
virtù non ci è rimaso alcun seguo:
posso fare che insieme non me ne
lavigli e dolga; e tanto più, quanto
veggio nelle differenze che intra i
ladini civilmente nascono, o nelle ina
lattie nelle quali gli uomini incorrono,
essersi sempre ricorso a quelli giudicii
o a quelli rimedi che dagli antichi sono
stati giudicati o ordinati. Perchè le leggi
civili non sono altro che sentenzio date
dagli antichi iurcconsulti, le quali, ri-
dotte in ordine, a’ presenti nostri iure-
consulti giudicare insegnano; nè ancora
la medicina è altro che cspcrienzia fatta
dagli antichi medici, sopra la quale fon-
dano i medici presenti li loro giudicii.
Nondimeno, nello ordinare le repubbli-
che, nel mantenere gli Stati, nel govcr-
s
DEI DISCORSI
nai e i regni, nell’ ordinare la milizia ed
amministrar la guerra, nel giudicare i
sudditi, nello accrescere lo imperio, non
si trova uè principi, nè repubbliche, nè
capitani, nè cittadini che agli esempi
degli antichi ricorra. Il che mi persuado
che nasca non tanto dalla debolezza
nella quale la presente educazione ha
condotto il mondo, o da quel male che
uno ambizioso ozio ha fatto a molte
provincie c città cristiane, quanto dal
nou avere vera cognizione delle istorie,
per non trarne, leggendole, quel senso,
nè gustare di loro quel sapore che le
hanno in sè. Donde nasce che infiniti
che leggono, pigliano piacere di udire
quella varietà delli accidenti che in esse
si contengono, senza pensare altrimeute
d’ imitarle, giudicando la imitazione non
solo difficile ma impossibile: come se il
cielo, il sole, gli elementi, gli uomini
fossero variati di moto, d’ordine e di
potenza, da quello eli’ egli erano antica-
mente. Volendo, pertanto, trarre gli uo-
LIBRO PRIMO. 9
mini di questo errore, ho giudicalo ne-
cessario scrivere sopra tutti quelli libri
di Tito Livio che dalla malignità dei
tempi non ci sono stati interrotti, quello
che io, secondo le antiche e moderne
cose, giudicherò esser necessario per
maggiore intelligenzia d'essi; acciocché
coloro che questi miei Discorsi legge-
ranno, possino trarne quella utilità per
la quale si debbe ricercare la cogni-
zione della istoria. G benché questa im-
presa sia difficile, nondimeno, aiutato da
coloro che mi hanno ad entrare, sotto a
questo peso confortato, credo portarlo
in modo, che ad un altro resterà breve
cammino a condurlo al luogo destinato.
Cap. I. — Quali siano stati universal-
mente i pr incipit’ di qualunque città ,
c quale fosse quello di Roma.
Coloro che leggeranno qual principio
fosse quello della città di Roma, e da
quali legislatori e come ordinato, non
10
DEI DISCORSI
si maraviglieranno che tanta virtù si
sia per più secoli mantenuta in quella
città; e che dipoi ne sia nato quello im-
perio, al quale quella repubblica ag-
giunse. E volendo discorrere prima il
nascimento suo, dico che tutte le città
sono edificate o dagli uomini natii del
luogo dove le si edificano, o dai fore-
stieri. 11 primo caso occorre quando
agli abitatori dispersi in molte e pic-
cole parli non par vivere sicuri, non
potendo ciascuna per sè, e per il sito
e per il piccol numero, resistere all’im-
peto di chi le assaltasse; e ad unirsi per
loro difensione, venendo il nemico, non
sono a tempo; o quando fossero, con-
verrebbe loro lnsciare abbandonati molti
de’ loro ridotti, e cosi verrebbero ad es-
ser sùbita preda dei loro nemici: tal-
mente che, per fuggire questi pericoli,
mossi o da loro medesimi, o da alcuno
che sia infra di loro di maggior auto-
rità, si ristringono ad abitar insieme in
luogo eletto da loro, più comodo a vi-
LIBRO PRIMO. I l
vere e più facile a difendere. Di queste,
infra molle altre, sono state Atene e Vi-
ncaia. La prima, sotto l’autorità di Te-
seo, fu per simili cagioni dalli abitatori
dispersi edificata; l’altra, sendosi molti
popoli ridotti in certe isolette che erano
nella punta del mare Adriatico, per fug-
gire quelle guerre che ogni dì, per lo
avvenimento di nuovi barbari, dopo la
declinazione dello imperio romano, na-
scevano in Italia, cominciarono infra
loro, senza altro principe particolare
clic gli ordinassi, a vivere sotto quelle
leggi che parvono loro più atte a man-
tenerli. Il che successe loro felicemente
per il lungo ozio che il sito dette loro,
non avendo quel mare uscita, e non
avendo quelli popoli che affliggevano
Italia, navigi da poterli infestare: talché
ogni picciolo principio li potò fare ve-
nire a quella grandezza nella quale sono.
11 secondo caso, quando da genti fore-
stiere è edificata una città, nasce o da
uomini liberi, oche dipendano da altri:
12 DEI DISCORSI
come sono le colonie mandate o da una
repubblica o da un principe, per Sgra-
vare le . loro terre d’abitatori, o per di-
fesa di quel paese che, di nuovo acqui-
stato, vogliono sicuramente e senza
spesa mantenersi; delle quali città il
Popolo romano ne edificò assai, e per
tutto l’imperio suo: ovvero le sono edi-
ficate da un principe, non per abitarvi,
nia per sua gloria; come la città di
Alessandria da Alessandro. E per non
avere queste cittadl la loro origine libera,
rade volte occorre che le facciano pro-
gressi grandi, e possinsi intrai capi dei
regni numerare. Simile a queste fu V edi-
ficazione di Firenze, perchè (fi edificata
da’ soldati di Siila, o, a caso, dagli abita-
tori dei monti di Fiesole, i quali, confi-
datisi in quella lunga pace che sotto Ot-
taviano nacque nel mondo, si ridussero
ad abitare nel piano sopra Arno) si edi-
ficò sotto 1* imperio romano; nè potette,
ne’ principii suoi, fare altri augumenti
che quelli che per cortesia del principe
LIBRO PRIMO. 13
li erano concessi. Sono liberi li edifica-
tori delle cittadi, quando alcuni popoli,
o sotto un principe o da per sé, sono
costretti, o per morbo o per fame o per
guerra, od abbandonare il paese potrio,
e cercarsi nuova sede : questi tali, o
egli abitano le cittadi elle e’ trovano nei
paesi eli’ egli acquistano, come fece Moi-
sè; o ne edificano di nuovo, come fe
Enea. In questo caso è dove si conosce
la virtù dello edificatore, e la fortuna
dello edificato: la quale è più o meno
meravigliosa, secondo che più o meno
è virtuoso colui che ne è stato principio.
La virtù del quale si conosce in duoi
modi: il primo è nella elezione del sito;
F altro nella ordinazione delle leggi. E
perchè gli uomini operano o per neces-
sità o per elezione; e perchè si vede
quivi esser maggiore virtù dove la ele-
zione ha meno autorità; è da conside-
rare se sarebbe meglio eleggere, per la
edificazione delle cittadi, luoghi sterili,
acciocché gli uomini, costretti ad indù*
*
1 4 dei discorsi
striarsi, meno occupati dall’ozio, vives-
sino più uniti, avendo, per la povertà
del sito, minore cagione di discordie;
come intervenne in Raugia, e in molte
altre cittadi in simili luoghi edificate:
la quale elezione sarebbe senza dubbio
più savia e più utile, quando gli uo- .
mini fossero contenti a vivere delloro,
e non volcssino cercare di comandare
altrui. Pertanto, non potendo gli uomini
assicurarsi se non con la potenza, è
necessario fuggire questa sterilità del
pnese, e porsi in luoghi fertilissimi ;
dove, potendo per la ubertà del sito am-
pliare, possa e difendersi da chi l’ assal-
tasse, e opprimere qualunque alla gran-
dezza sua si opponesse. G quanto a
quell’ozio che le arrecasse il sito, si
debbe ordinare che a quelle necessitadi
le leggi la costringhino che ’l sito non
la costringesse; ed imitare quelli che
sono stati savi, ed hanno abitato in paesi
amenissimi e fertilissimi, c alti a prò
durre uomini oziosi ed inabili ad ogni
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LIBRO PRIMO. \ 5
virtuoso esercizio: chè, per ovviare a
quelli danni i quali l’amenità del paese,
mediante l’ozio, arebbero causati, hanno
posto una necessità di esercizio a quelli
che avevano a essere soldati: di qualità
che, per tale ordine, vi sono diventati
migliori soldati che in quelli paesi i quali
naturalmente sono stati aspri e sterili.
Intra i quali fu il regno degli Egizi, che
non ostante che il paese sia amenissi-
mo, tanto potette quella necessità ordi-
nata dalle leggi, che vi nacquero uo-
mini eccellentissimi; e se li nomi loro
non fussino dalla antichità spenti, si
vedrebbe come meriterebbero più laude
che Alessandro Magno, c molti altri dei
quali ancora* è la memoria fresca. E chi
avesse considerato il regno del Soldano,
e l’ordine de’Mammaluchi. e di quella
loro milizia, avanti che da Sali, Gran
Turco, fusse stata spenta ; arebbe ve-
duto ili quello molti esercizi circa i sol-
dati, ed arebbe in fatto conosciuto
quanto essi temevano quell’ozio a che
IO
DEI DISCORSI
la benignità del paese gli poteva con-
durre, se non vi avessino con leggi for-
tissime ovviato. Dico, adunque, essere
più prudente elezione porsi in luogo
fertile, quando quella fertilità con le
leggi infra* debili termini si restringe.
Ad Alessandro Magno, volendo edificare
una città per sua gloria, venne Dino-
erate architetto, e gli mostrò come ei
la poteva fare sopra il monte Albo; il
quale luogo, oltre allo esser forte, po-
trebbe ridursi in modo che a quella
città si darebbe forma umana; il che
sarebbe cosa meravigliosa e raro, e de-
gna della sua grandezza: e domandan-
dolo Alessandro di quello che quelli abi-
tatori viverebbono, rispose, non ci avere
pensato: di che quello si rise, e lasciato
stare quel monte, edificò Alessandria,
dove gli abitatori avessero a stare vo-
lentieri per la grassezza del paese, e per
la comodità del mare e del Nilo. Chi esa-
minerò, adunque, la edificazione di Ro-
ma, se si prenderà Enea per suo primo
LIBRO PRIMO.
progenitore, sarà di quelle citladi edifi-
cate da’ forestieri ; se Romolo, di quelle
edificate dagli uomini natii del luogo;
ed in qualunciic modo, la Vedrà avere
principio libero, senza depcndere da al-
cuno: vedrà ancora, come di sotto si
dirà, a quante necessitadi le leggi fatte
da Romolo, Numa, e gli altri, la costrin-
gessino ; talmente clic la fertilità del sito,
la comodità del mare, le spesse vittorie,
la grandezza dello imperio, non la po-
terono per molti secoli corrompere, e Ir» -» **
mantennero piena di tante virtù, djp^
quante mai fusse alcun’ altra repubblica
ornata. E perchè le cose operate da lejj, ^
e che sono da Tito Livio celebrate, sono
seguite o per pubblico o per privato
consiglio, o dentro o fuori della cittade,
io comincerò a discorrere sopra quelle
cose occorse dentro, e per consiglio pub-
blico, le quali degne di maggiore an-
notazione giudicherò, aggiungendovi tut-
to quello che da loro dependessi : con
i quali Discorsi questo primo libro,
Uachiavklm, Discorsi. — 1. 2
I
I S DEI DISCORSI
ovvero Questa prima parte, si termi-
nerà.
Cap. II. — Di quante spezie sono le *e-
pnbbtiche , e di quale fu la Repubblica
Romana.
Io voglio porre da parte il ragionare
di quelle cittadi clic hanno avuto il loro
principio sottoposto ad altri; e parlerò
di quelle che hanno avuto il principio
'ontano do ogni servitù esterna, nia si
; j sono subito governate per loro arbitrio,
o come repubbliche o come principato:
U quali hanno avuto, come diversi prin-
cipi, diverse leggi ed ordini. Perchè ad
alcune, o nel principio d’esse, o dopo
non molto tempo, sono state date da un
solo le leggi, e ad un tratto ; come quelle
che furono date da Licurgo agli Spar-
tani: alcune le hanno avute a caso, ed
in più volte, e secondo li accidenti, come
Roma. Talché, felice si può chiamare
quella repubblica, la quale sortisce uno
Digitized by Google
udrò rniMo. i9
uomo sì prudente, che le dia leggi or-
dinate in modo, che senza avere bisogno
di correggerle, possa vivere sicuramente
sotto quelle. E si vede che Sparta le
osservò più che ottocento anni senza
corromperle, o senza alcuno tumulto pe-
ricoloso: e, pel contrario, tiene qualche
grado d’ infelicità quella città, che, non
si sendo abbattuta ad uno ordinatore
prudente, è necessitata da sè medesima
riordinarsi: e di queste ancora è più
infelice quella che è più discosto dal-
l’ordine; e quella è più discosto,
con suoi ordini è al tutto fuori del dritto
cammino, che la possi condurre al per-
fetto e vero fine: perchè quelle clic sono
iu questo grado, è quasi impossibile che
per qualche accidente si rassettino. Quel
le altre che, se le non hanno V ordine
perfetto, hanno preso il principio buono,
e atto a diventare migliori, possono per
la occorrenza delli accidenti diventare
perfette. Ma fia ben vero questo,
mai non si ordineranno senza pericolo
20 DEI DISCORSI
perchè li assai uomini non si accordano
mai ad una legge nuova che riguardi
uno nuovo ordine nella cit tà, se non è
mostro loro da una necessità che biso-
gni farlo ; e non potendo venire questa
necessità senza pericolo, è facil cosa che
quella repubblica rovini, avanti che la
si sia condotta a una perfezione d’ or-
dine. Di che ne fa fede appieno la re-
pubblica di Firenze, la quale fu dallo
accidente d’ Arezzo, nel 11, riordinata, e
da quel di Prato, nel XII, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali fu-
rono li ordini della città di Roma, e
quali accidenti alla sua perfezione la
condussero) dico, come alcuui che hanno
scritto delle repubbliche, dicono essere
in quelle uno de' tre stati, chiamati da
loro Principato, d’Ottimati e Popolare;
e come coloro che ordinano una città,
debbono volgersi ad uno di questi, se-
condo pare loro più a proposito. Alcuni
altri, e secondo la oppinione di molti
più savi, hanno oppinione che siano di
LIBRO PRIMO. 24
sei ragioni governi; delti quali tre ne
siano pessimi; tre altri siano buoni in
loro medesimi, ma sì focili a corrom-
persi, che vengono ancora essi ad es-
sere perniziosi. Quelli che sono buoni,
sono i soprascritti tre: quelli clic sono
rei, sono tre altri, i quali da questi tre
dependono; c ciascuno d’ essi è in modo
simile a quello che gli è propinquo, che
facilmente saltano dall’ uno all’ altro:
perchè il Principato facilmente diventa
tirannico; li Ottimati con facilità diven-
tano stato di pochi ; il Popolare senza
diflìcultà in licenzioso si converte. Tal-
mente che, se uno ordinatore di repub-
blica ordina in una città uno di quelli
tre stati, ve lo ordina per poco tempo;
perchè nessuno rimedio può farvi, a far
che non sdruccioli nel suo contrario,
per la similitudine che ha in questo
caso la virtù ed il vizio. Nacquono que-
ste variazioni di governi a caso intra
li uomini: perchè nel principio del mon-
do, sendo li abitatori rari, vissono un
22
DEI DISCORSI
tempo dispersi, a similitudine delle be-
stie; dipoi, multiplicando la generazione,
si ragunorno insieme, e, per potersi
meglio difendere, cominciorno a riguar-
dare fra loro quello che fusse più ro-
busto c di maggiore cuore, c fecionlo
come capo, e lo obedivano. Da questo
nacque la cognizione delle cose oneste
e buone, differenti dalle perniziose e
ree: perchè, veggendo che se uno no-
I* ceva al suo benefattore, ne veniva odio
e compassione intra gli uomini, biasi-
mando li ingrati ed onorando quelli che
fusscro grati, e pensando ancora che
quelle medesime ingiurie potevano esser
fatte a loro; per fuggire simile male, si
riducevano a fare leggi, ordinare puni-
zioni a chi contea facesse: donde venne
la cognizione della giustizia. La qual
cosa faceva che avendo dipoi ad eleg-
gere un principe, non andavano dietro
al più gagliardo, ma a quello che fussi
più prudente c più giusto. Ala come di-
poi si cominciò a fare il principe per
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LIBRO PRIMO. 23
successione, e non pei* elezione, subito
cominciorno li eredi a degenerare dai
loro antichi ; e lasciando 1’ opere vir-
tuose, pensavano che i principi non
avessero a fare altro clic superare li altri
di sontuosità e di lascivia c d’ ogni altra'
qualità deliziosa: in modo che, comin-
ciando il principe ad essere odialo, e
per tale odio a temere, e passando to-
sto dal timore all’ offese, ne nasceva
presto una tirannide. Da questo nacquero
appresso i principi» delle rovine, c delle
conspirazioni e congiure contea i prin-
cipi; non fatte da coloro clic fussero o
timidi o deboli, ma da coloro che per
genei'osità, grandezza d’ animo, ricchezza
e nobiltà, avanzavano gli altri; i quali
non potevano sopportare la inonesta vita
di quel principe. La moltitudine, adun-
que, seguendo l’ autorità di questi po-
tenti, si armava contra al principe, c
quello spento, ubbidiva loro come a suoi
liberatori. E quelli, avendo in odio il
nome d’ uno solo capo, constituivano di
u
DEI DISCORSI
loro medesimi un governo; e nel piin-
cipio, avendo rispetto alla passata tirati-
nide, si governavano secondo le leggi
ordinate da loro, posponendo ogni loro
comodo alla comune utilità ; e le cose
private e le pubbliche con somma dili-
genzia governavano c conservavano. Ve-
nuta dipoi questa amministrazione ai
loro figliuoli, i quali, non conoscendo la
variazione della fortuna, non avendo
mai provato il male, e non volendo stare
contenti alla civile equalità, ma rivoltisi
alla avarizia, alla ambizione, alla usur-
pazione delle donne, feciono clic d’ uno
governo d’ Ottimati diventassi un go-
verno di pochi, senza avere rispetto ad
alcuna civiltà : tal che in breve tempo
intervenne loro come al tiranno; perchè
infastidita da’ loro governi la moltitu-
dine, si fe ministra di qualunque dise-
gnassi in alcun modo offendere quelli
governatori; e cosi si levò presto al-
cuno che, con I’ aiuto della moltitudine,
li spense. Ed essendo ancora fresca la
LIBRO PRIMO. 25
memoria del principe e delle ingiurie
ricevute da quello, avendo disfatto lo
Stato de’ pochi e non volendo rifare quel
del principe, si volsero allo Stato popo-
lare; c quello ordinarono in modo, che
nè i pochi potenti, nè uno principe vi
avesse alcuna autorità. E perchè tutti
gli Stali nel principio hanno qualche re-
verenza, si mantenne questo Stato po-
polare un poco, ma non molto, massi-
me spenta che fu quella generazione che
l’aveva ordinato; perchè subito si ven-
ne alla licenzia, dove non si temevano
nè li uomini privati nè i pubblici; di
qualità che, vivendo ciascuno a suo modo,
si facevano ogni di mille ingiurie: tal-
ché, costretti per necessità, o per sug
gestione d’ alcuno buono uomo, o per
fuggire tale licenzia, si ritorna di nuovo
al principato; e da quello, di grado in
grado, si riviene verso la licenzia, nei
modi e per le cagioni dette. E questo è
il cerchio nel quale girando tutte le re-
pubbliche si sono governate, e si go-
tifi OKI DISCORSI
vernano: ina rade volte ritornano nei
governi medesimi; perchè quasi nes-
suna repubblica può essere di tanta vita,
che possa passare molle volte per que-
ste mutazioni, c rimanere in piede. Ma
bene interviene che, nel travagliare, una
repubblica, mancandoli sempre consiglio
e forze, diventa suddita d'uno Stato pro-
pinquo, clic sia meglio ordinato di lei :
ina dato che questo non fusse, sarebbe
atta una repubblica a rigirarsi infinito
tempo in questi governi. Dico, adunque,
che lutti i detti modi sono pestiferi, per
la brevità della vita che è ne’ tre buoni,
e per la malignità che è ne* tre rei. Tal-
ché, avendo quelli che prudentemente
ordinano leggi conosciuto questo difetto,
fuggendo ciascuno di questi modi per
se stesso, n’ elessero uno che partiei-
passe di lutti, giudicandolo più fermo e
più stabile ; perchè l’ uno guarda l’altro,
scudo in una medesima città il Princi-
pato, li Ottimati ed il Governo Popo-
lare. Infra quelli che hanno per simili
LIBRO PRIMO. 27
constituzioni meritato più laude, è Li-
curgo; il quale ordinò in modo le sue
leggi in Sparta, che dando le parti sue
ai He, agli Ottimali e al Popolo, fece
uno Stato che durò più che ottocento
anni, con somma laude sua, e quiete di
quella città. Al contrario intervenne a
Solone, il quale ordinò le leggi in Atene
che per ordinarvi solo lo Stato popolare
lo fece di sì breve vita, che avanti mo-
risse vi vide nata la tirannide di Pisi-
strato: e benché dipoi anni quaranta
ne fusscro cacciati gli suoi eredi, c ri-
tornasse Atene in libertà, perchè la ri-
prese lo Stato popolare, secondo gli or-
dini di Solone; non lo tenne più clic
cento anni, ancora che per mante-
nerlo facesse molte constituzioni, per
le quali si reprimeva la iusolenzia
grandi c la licenzia dell’ universale, le
quali non furou da Solonc considerate
nientedimeno, perchè la non le mescolò
con la potenzia del Principato e con
quella dclli Ottimali, visse Atene,
«
28
DEI DISCORSI
spetto di Sparla, brevissimo tempo. Ria
vegniamo a Roma ; la quale nonostante
che non avesse uno Licurgo che la ordi-
nasse in modo, ilei principio, che la po-
tesse vivere lungo tempo libera, nondi-
meno furon tanti gli accidenti che in
quella nacquero, per la disunione che
era intra la Plebe ed il Senato, che
quello che non aveva fatto uno ordina-
tore, lo fece il caso. Perchè, se Roma
non sortì la prima fortuna, sortì la se-
conda; perchè i primi ordini se furono
defettivi, nondimeno non deviarono dalla
diritta via che li potesse condurre alla
perfezione. Perchè Romolo e tutti gli al-
tri Re fecero molte e buone leggi, con-
formi ancora al vivere libero: ma perchè
il fine loro fu fondare un regno e non
una repubblica, quando quella città ri-
mase libera, vi mancavano molte cose
che era necessario ordinare in favore
della libertà, le quali non erano state
da quelli Re ordinate. E avvengachè
quelli suoi Re perdessero V imperio per
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LIBRO PRIMO. 29
le cagioni e modi discorsi; nondimeno
quelli clic li cacciarono, ordinandovi su-
bito duoi Consoli, che stessino nel luogo
del Re, vennero a cacciare di Roma il
nome, e non la potestà regia: talché,
essendo in quella Repubblica i Consoli
ed il Senato, veniva solo ad esser mista
di due qualità delle tre soprascritte:
cioè di Principato e di Ottimali. Resta-
vali solo a dare luogo al Governo Popo-
lare: onde, essendo diventatala Nobiltà
romana insolente per le cagioni che di
sotto si diranno, si levò il Popolo con-
tro di quella ; talché, per non perdere
il tutto, fu costretta concedere al Popolo
la sua parte; e, dall’altra parte, il Se-
nato e i Consoli restassino con tanta
autorità, che potcssino tenere in quella
Repubblica il grado loro. E cosi nacque
la creazione de’ Tribuni della plebe ; dopo
la quale creazione venne a essere più
stabilito lo stato di quella Repubblica,
avendovi tutte le tre qualità di governo
la parte sua. E tanto li fu favorevole la
DE! DISCORSI
30
fortuna, che benché si passasse dal go-
verno de’ Re e delli Ottimati al Popolo,
per quelli medesimi gradi e per quelle
medesime cagioni che di sopra si sono
discorse : nondimeno non si tolse mai,
per dare autorità alli Ottimati, tutta
l’autorità alle qualità regie; nè si dimi-
nuì l’autorità in tutto alli Ottimati, per
darla al Popolo; ina rimanendo mista,
fece una repubblica perfetta : alla quale
perfezione venne per la disunione della
Plebe e del Senato, come nei duoi pros-
simi seguenti capitoli largamente si di-
mostrerà.
C.aP. III. — Quali accidenti facessino
creare in Roma i Tribuni della plebe ;
il che fece la Repubblica più perfetta.
Come dimostrano lutti coloro che ra-
gionano del vivere civile, e come ne è
piena di esempi ogni istoria, è necessa-
rio a chi dispone una repubblica, ed
ordina leggi in quella, presupporre tutti
LIBRO PRIMO. 31
gli uomini essere cattivi, e clic li abbino
sempre od usure la malignità dello ani-
mo loro, qualunchc volta ne abbino li-
bera occasione: e quando alcuna mali-
gnità sta occulta un tempo, procede da
una occulta cagione, ebe, per non si es-
sere veduta esperienza del contrario,
non si conosce; ma la fa poi scoprire
il tempo, il quale dicono essere padre
d’ogni verità. Pareva clic fusse in Roma
intra la Plebe cd il Senato, cacciati i
Tarquiili, una unione grandissima; e
che i Nobili, avessino deposta quella loro
superbia, c russino diventati d'animo
popolare, c sopportabili da qualuncbc,
ancora ebe infimo. Stette nascoso que-
sto inganno, nè se ne vide la cagione,
infino ebe i Tarquini vissono; de’ quali
temendo la Nobiltà, ed avendo paura
che la Plebe mal trattata non si acco-
stasse loro, si portava umanamente con
quella: ma come prima furono morti i
Tarquini, e die a’ Nobili fu la paura
fuggita, cominciarono a sputare contro
32
DEI DISCORSI
r
Olla Plebe quel veleno che si avevàno
tenuto nel petto, ed in tutti i modi che
potevano la offendevano: la qual cosa fa
testimonianza a quello che di sopra ho
detto, che gli uomini non operano mai
nulla bene, se non per necessità; ma
dove la elezione abbonda, e che vi si
può usare licenzia, si riempie subito ogni
cosa di confusione e di disordine. Però si
dice che la fame e la povertà fu gli uo-
mini industriosi, e le leggi gli fanno
buoni. E dove una cosa per sè medesima
senza la legge opera bene, non è neces-
saria la legge; ma quando quella buona
consuetudine manca, è subito la legge
necessaria. Però, mancati i Tarqnini,
che con la paura di loro tenevano la
Nobiltà a freno, convenne pensare a uno
nuovo ordine ehe facessi quel medesimo
effetto che facevano i Tarquini quando
erano vivi. E però, dopo molte confu-
sioni, romori e pericoli di scandali, che
nacquero intra la Plebe c la Nobiltà, si
venne per sicurtà della Plebe alla crea-
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unno primo. 3 3
zionc ile* Tribuni ; e quelli ordinarono
con laute preminenze e tanta riputa-
zione, che potcssino essere sempre di
poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e
ovviare alla insolenzia de’ Nobili.
€ap. IV. — Che la disunione della Plebe
c del Senato romano fece libera e
polente quella Repubblica.
H0U njt fil ùi òVvil tf, ; il "iit*
lo non voglio mancare di discorrere
sopra questi tumulti che furono in Ro-
ma dalla morte de’ Tarquini alla crea-
zione de’ Tribuni; e di poi alcune cose
contro la oppinionc di molti clic dicono.
Roma esser stata una repubblica tumul-
tuaria, e piena di tanta confusione, clic
se la buona fortuna c la virtù militare
non avesse supplito a’ loro difetti, sa-
rebbe stata inferiore ad ogni altra re-
pubblica. Io non posso negare che la
fortuna e la milizia non fussero cagioni
dell’imperio romano; ma e’ mi pare
bene, che costoro non si avvegghino,
Macuutelii, Discorsi.— 1. 3
34
dei nisconsi
clic dove è buona milizia, conviene clic
sia buono ordine, e rade volte anco oc-
corre clic non vi sia buona fortuna. Ma
vegniamo all i altri particolari di quella
città. Io dico clic coloro clic dannano i
tumulti intra i Nobili c la Plebe, mi
pare clic biasimino quelle cose che fu-
rono prima cagione di tenere libera Ro-
ma ; c clic considerino più a’ romori ed
alle grida clic di tali tumulti nascevano,
che a’ buoni effetti clic quelli partori-
vano: e che non considerino come ei
sono in ogni repubblica duoi umori di-
versi, quello del popolo, c quello dei
grandi ; c come tutte le leggi che si fanno
in favore delia libertà, nascono dalla
disunione loro, come facilmente si può
vedere essere seguito in Roma: perchè
da’Tarquini ai Gracchi, che furono più
di trecento anni, i tumulti di Roma rade
volte partorivano esilio, radissime san-
gue. Nè si possono, per tanto, giudicare
questi tumulti nocivi, nè una repubblica
divisa, che in tanto tempo per le sue
Lineo pr. imo. 35
differenze non mondò in esilio più che
otto o dieci cittadini, e ne ammazzò po-
chissimi, e non molti ancora condennò
in danari. Nè si può chiamare in alcun
modo, con ragione, una repubblica inor-
dinata, dove siano tanti esempi di virtù;
perchè li buoni esempi nascono dalla
buona educazione; la buona educazione
dalle buone leggi ; e le buone leggi da
quelli tumulti che molti inconsiderata-
mente dannano: perchè chi esaminerò
bene il fine d’essi, non troverà ch’egli
abbino partorito alcuno esilio o violenza
in disfavore del comune bene, ma leggi
ed ordini in benefizio della pubblica li-
bertà. E se alcuno dicesse : i modi erano
straordinari, e quasi efferati, vedere il
Popolo insieme gridare contro il Senato,
il Senato contra il Popolo, correre tu-
multuariamente per le strade, serrare le
botteghe, partirsi tutta la Plebe di Ro-
ma. le quali tutte cose spaventano, non
clic altro, chi legge; dico come ogni
città debbe avere i suoi modi, con i
DEI DISCORSI
36
quali il popolo possa sfogare l’ambi-
zione sua, e massime quelle ciltadi che
uelle cose importanti si vogliono va-
lere del popolo: intra le quali la città
di Roma aveva questo modo, che quan-
do quel Popolo voleva ottenere una leg-
ge, o e’ faceva alcuna delle predette co-
se, o e’ non voleva dare il nome per
andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte satisfargli. E
i desiderò de’ popoli liberi, rade volle
sono perniziosi alla libertà, perchè e’na-
seono o da essere oppressi, o da suspi-
zionc di avere a essere oppressi. E quando
queste oppinioni fussero false, e’ vi è il
rimedio delle concioni, che sorga qualche
uomo da bene, che, orando, dimostri
loro come c’ s’ ingannano: e li popoli,
come dice Tullio, benché siano igno-
ranti, sono capaci della verità, e facil-
mente cedono, quando da uomo degno
di fede è detto loro il vero. Debbesi,
adunque, più parcamente biasimare il
governo romano, e considerare che tanti
LIBRO PRIMO.
buoni effetti quanti uscivano di quella
repubblica, non erano causati se non da
ottime cagioni. E se i tumulti furono ca-
gione della creazione dei Tribuni, meri-
tano somma laude; perchè, oltre al dare
la parte sua all’ amministrazione popo-
lare, furono constituiti per guardia della
libertà romana, come nel seguente ca-
pitolo si mostrerà.
'• •" [ *» » . ì t % l * , * )
C\p. V. — Dove più sccurnmentc si pon-
ga la guardia della libertà , o nel
Popolo o ne * Grandi ; c c/uali hanno
maggior cagione di tumultuare , o chi
vuole acquistare o chi vuole mantenere.
~~ • ìr>7 1
Quelli clic prudentemente hanno con-
stituita una repubblica, intra le più
necessarie cose ordinate da loro, è stato
constituire una guardia alla liberta: e
secondo che questa è bene collocala,
dura più o meno quel vivere libero. E
perché in ogni repubblica sono uomin
grandi e popolari, si è dubitato nelle
38
DEI DISCORSI
mani di quali sia meglio collocata detta
guardia. Ed appresso i Lacedemoni, c,
ne’ nostri tempi, appresso de’ Viniziani,
la è stata messa nelle mani de’ Nobili ;
ma appresso de’ Romani fu messa nelle
mani della Plebe. Per tanto, è necessa-
rio esaminare, quale di queste repub-
bliche avesse migliore elezione. E se si
andassi dietro alle ragioni, ci è che
dire da ogni pajte: ma se si esaminassi
il fine loro, si piglierebbe la parte
de’ Nobili, per aver avuta la libertà di
Sparla c di Vinegia più lunga vita che
quella di Roma. E venendo alle ragio-
ni, dico, pigliando prima la parte de’ Ro-
mani, come e’ si debbe mettere in guar-
dia coloro d’ una cosa, che hanno meno
appetito di usurparla. E senza dubbio,
se si considera il fine de’ nobili e deili
ignobili, si vedrà in quelli desiderio
grande di dominare, cd in questi solo
desiderio di non essere dominati; e, per
conseguente, maggiore volontà di vivere
liberi, potendo meno sperare d’ usur-
unno primo. 30
parla che non possono li granili: tal-
ché, essendo i popolani preposti a guar-
dia d’ una libertà, ò ragionevole ne
abbino più cura : e non la putendo occu-
pare loro, non permettino clic altri la
occupi. Dall’ altra parte, chi difende
l’ordine sparlano e veneto, dice clic
coloro che mettono la guardia in inano
de’ potenti, fanno due opere buone:
I’ una, che satisfanno più all’ ambizione
di coloro che avendo più parte nella
repubblica, per avere questo bastone in
mano, hanno cagione di contentarsi più;
I’ altra, clic bevano una qualità di au-
torità dagli animi inquieti della plebe,
che è cagione d’ infinite dissensioni e
scandali in una repubblica, e alta a ri-
durre la nobiltà a qualche disperazio-
ne, che col tempo faccia cattivi eliciti.
E ne danno per esempio la medesima
Roma, che per avere i Tribuni della
plebe questa autorità nelle mani, non
bastò loro aver un Consolo plcbeio, che
gli vollono avere ambedue. Da questo,
40
DEI DISCORSI
c* voltano la Censura, il Pretore, e tutti
li altri gradi dell’imperio della città:
nè bastò loro questo, chè, menati dal
medesimo furore, cominciorno poi, col
tempo, a adorare quelli uomini che ve-
devano atti a battere la Nobiltà ; donde
nacque la potenza di Alarlo, e la rovina
di Roma. E veramente, chi discorresse
bene I’ una cosa c l’ altra, potrebbe
stare dubbio, quale da lui fusse eletto
per guardia tale di libertà, non sapen-
do quale qualità d’ uomini sia più no-
civa in una repubblica, o quella ohe
desidera acquistare quello che non ha,
‘ o quella che desidera mantenere V ono-
re già acquistato. Ed in fine, chi sot-
tilmente esaminerà tutto, ne farà que-
sta conclusione: o tu ragioni d’ una
repubblica che vogli fare uno imperio,
come Roma ; o d’ una che li basti man-
tenersi. Nel primo caso, gli è necessa-
rio fare ogni cosa come Roma; nel se-
condo, può imitare Yinegia e Sparta
per quelle cagioni, e come nel seguente
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LIBRO PRIMO. 41
capitolo si dirà. .Ma, per tornare a di-
scorrere quali uomini siano in una re-
pubblica piu nocivi, o quelli clic desi-
derano d’acquistare, o quelli clic te-
mono di perdere lo acquistato; dico
die, scudo fatto Marco Meiiennio ditta-
tore, e Marco Fulvio maestro de’ caval-
li, tutti duoi plebei, per ricercare certe
congiure clic si erano falle in Capova
conlro a Roma, fu dato ancora loro au-
torità dal Popolo di poter ricercare chi
in Roma per ambizione e modi straor-
dinari s’ ingegnasse di venire al con-
solato, ed agli altri onori della città. E
parendo alla Nobiltà, che tale autorità
fusse data al Dittatore contro a lei,
sparsero per Roma, clic non i nobili
erano quelli che cercavano gli onori
per ambizione e modi straordinari, ma
gl’ ignobili, i quali, non confidatisi nel
sangue e nella virtù loro, cercavano per
vie straordinarie venire a quelli gradi;
e particolarmente accusavano il Ditta-
tore. E tanto fu potente questa accusa,
4“2
DEI DISCORSI
che Mencnnio, fatta una conclone c do-
lutosi deite calunnie dategli da* Nobili,
depose la dittatura, e sottomessesi ai
giudizio che di lui fussi fatto dal Po*
polo; c dipoi, agitala la causa sua, ne
fu assoluto: dove si disputò assai, quale
sia più ambizioso, o quel che vuole
mantenere o quel che vuole acquistare;
perchè facilmente 1* uno e V altro ap-
petito può essere cagione di tumulti
grandissimi. Pur nondimeno, il più delle
volte sono causali da chi possiede, per-
chè la paura del perdere genera in loro
le medesime voglie che sono in quelli
che desiderano acquistare; perchè non
pare agli uomini possedere sicuramente
quello clic P uomo ha, se non si acqui-
sta di nuovo dell’ altro. E di più vi è,
che possedendo molto, possono con mag-
gior potenzia c maggiore moto fare al-
terazione. Ed ancora vi è di più, che
li loro scorretti e ambiziosi portamenti
accendono ne’ petti di chi non possiede
voglia di possedere, o per vendicarsi
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LIBRO PRIMO. 43
contro di loro spogliandoli, o per po-
tere ancora loro entrare in quella ric-
chezza c in quelli onori clic veggono
essere male usati dagli altri.
Cap. VI. — Se in 1 ionia si poteva ordi-
nare uno stalo che togliesse via le
inimicizie intra il Popolo ed il Senato.
Noi abbiamo discorsi di sopra gli ef-
fetti che facevano le controversie intra
il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle
seguitate in fino al tempo de’ Gracchi,
dove furono cagione della rovina del vi-
vere libero, potrebbe alcuno desiderare
che Roma avesse fatti gli effetti grandi che
la fece, senza che in quella fussino tali
inimicizie. Però mi è parso cosa degna di
considerazione, vedere se in Roma si po-
teva ordinare uno stato che togliesse via
dette controversie. Ed a volere esaminare
questo, è necessario ricorrere a quelle
repubbliche le quali senza tante inimi-
cizie c tumulti sono state lungamente li-
il
DEI DISCORSI
bere, e vedere quale stato era il loro, e
se si poteva introdurre in Roma. In
esempio tra lì antichi ci è Sparta, tra
i moderni Yinegia, state da me di sopra
uominate. Sparla fece uno Re, con un
picciolo Senato, che la governasse. Vi-
negia non ha diviso il governo con i
nomi ; ma, sotto una appellazione, lutti
quelli che possono avere amministra-
zione si chiamano Gentiluomini. Il quale
modo lo dette il caso, più che la pru-
denza di elùdette loro le leggi: perchè,
sendosi ridotti in su quegli scogli dove
è ora quella città, per le cagioni dette
di sopra, molti abitatori; come furon
cresciuti in tanto numero, che a volere
vivere insieme bisognasse loro far leggi,
ordinorono una forma di governo; c
convenendo spesso insieme ne’ consigli a
deliberare della città, quando parve loro
essere tanti che fussero a sufficienza ad
un vivere politico, chiusono la via a tutti
quelli altri che vi venissino ad abitare
di nuovo, di potere convenire ne’ loro
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LIBRO PRIMO.
governi: e, col tempo, trovandosi in
quel luogo assai abitatori fuori del go-
verno, per dare riputazione a quelli clic
governavano, gli chiamarono Gentiluo-
mini, e gli altri Popolani. Potette questo
modo nascere e mantenersi senza tu-
multo, perchè quando e’ nacque, qua-
lunque allora abitava in Vinegia fu fatto
del governo, di modo che nessuno si po-
teva dolere; quelli che. dipoi vi vennero
ad abitare, trovando lo Stato fermo c
terminato, non avevano cagione nè co-
modità di fare tumulto. La cagione non
y* era, perchè non era stato loro tolto
cosa alcuna: la comodità non v’era,
perché chi reggeva gli teneva in freno,
c non gli adoperava in cose dove e’ po-
tessino pigliare autorità. Oltre di que-
sto, quelli che dipoi vennono ad abitare
Vinegia, non sono stali molli, c di tanto
numero, che vi sia disproporzione da
chi gli governa a loro che sono gover-
nati; perchè il numero de’ Gentiluomini
o egli è eguale a loro, o egli è supe-
f-
46
DEI DISCORSI
riore: sicché, per queste cagioni, Vine-
gia potette ordinare quello Stalo, e man-
tenerlo unito. Sparta, come ho detto, es-
sendo governata da un Re c da una
stretto Senato, potette mantenersi così
lungo tempo, perchè essendo in Sparta
pochi abitatori, ed avendo tolta la via
n chi vi venisse ad abitare, ed avendo
prese le leggi di Licurgo con repu-
tazione, le quali osservando, levavano
via tutte le cagioni de’ tumulti, po-
terono vivere uniti lungo tempo: perchè
Licurgo con le sue leggi fece in Sparta
più cqualità di sustanze, e meno equa-
lità di grado; perchè quivi era una
eguale povertà, ed i plebei erano manco
ambiziosi, perchè i gradi della città si
distendevano in pochi cittadini, ed erano
tenuti discosto dalla plebe, uè gli nobili
col trattargli male dettero mai loro de-
siderio di avergli. Questo nacque dai Re
spartani, i quali essendo collocati in
quel principato e posti in mezzo di
quella nobiltà, non avevano maggiore ri-
LIBRO PRIMO. 47
medio a tenere fermo la loro degnità,
ehc tenere la plebe difesa da ogni in-
giuria : il che faceva che la plebe non
temeva, c non desiderava imperio ; e non
avendo imperio nè temendo, era levata
via la gara che la potessi avere con !u
nobiltà, c la cagione de’ tumulti; e po-
terono vivere uniti lungo tempo. Ma due
cose principali causarono questa unione:
T una esser pochi gli abitatori di Sparta,
e per questo poterono esser governati
da pochi; l’altra, che non accettando
forestieri nella loro repubblica, non ave-
vano occasione nè di corrompersi, nè di
crescere in tanto che la fusse insoppor-
tabile a quelli pochi che la governavano.
Considerando, adunque, tutte queste cose ,
si vede come a’ legislatori di Roma era
necessario fare una delle due cose, a vo-
lere che Roma stessi quieta come le so-
praddette repubbliche: o non adoperare
la plebe in guerra, corne i Viniziani;o
non aprire la via a’ forestieri, come gli
Spartani. E loro feceno 1’una e l’altra;
|MH[
48
DEI DISCOBSI
il che dette alla plebe forza ed augu-
mento, ed infinite occasioni di tumul-
tuare. E se lo stato romano veniva ad
essere più quieto, ne seguiva questo in-
conveniente, ch’egli era anco più debile,
perchè gli si troncava la via di potere
venire a quella grandezza dove ei per-
venne: in modo che volendo Roma le-
vare le cagioni de’ tumulti, levava anco
le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le
cose umane si vede questo, chi le esa-
minerà bene: che non si può mai can-
cellare uno inconveniente, che non ne
surga un altro. Per tanto, se tu vuoi
fare un popolo numeroso ed armato per
potere fare un grande imperio, lo fai
di qualità che tu non lo puoi poi ma-
neggiare a tuo modo: se tu lo mantieni
o piccolo o disarmato per potere ma-
neggiarlo, se egli acquista dominio, non
lo puoi tenere, o diventa sì vile, che tu
sei preda di quaiunche ti assalta. E però,
in ogni nostra deliberazione si debbe
considerare dove sono meno inconve-
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LIBRO PniMO.
49
nienti, c pigliare quello per migliore
partito: perchè tutto netto, tutto senza
sospetto non si trova mai. Poteva, adun-
que, Roma a similitudine di Sparta fare
un Principe a vita, fare un Senato pic-
colo; ma non poteva, come quella, non
crescere il numero de’ cittadini suoi, vo-
lendo fare un grande imperio; il che
faceva che il- Re a vita ed il picciol nu-
mero del Senato, quanto alla unione, gli
sarebbe giovato poco. Se alcuno volesse,
per tanto, ordinare una repubblica di
nuovo, arebbe a esaminare se volesse
ch’ella ampliasse, come Roma, di domi-
nio e di potenza, ovvero ch’ella stesse
dentro a brevi termini. Nel primo caso,
è necessario ordinarla come Roma, e
dare luogo a’ tumulti e alle dissensioni
universali, il meglio che si può; perchè
senza gran numero di uomini, e bene
armati, non mai una repubblica potrà
crescere, o se la crescerà, mantenersi.
Nel secondo caso, la puoi ordinare come
Sparta c come Yinegia: ma perchè l’ani-
Macbhvelli, Discorsi. — 1. *
50
DEI DISCORSI
pitale è il veleno di simili repubbliche,
tlebbc, in tutti quelli modi che si può,
citi le ordina proibire loro lo acqui'
stare; perchè tali acquisti fondati sopra
una repubblica debole, sono al tutto la
rovina sua. Come intervenne a Sparta
ed a Yinegia : delle quali la prima aven-
dosi sottomessa quasi tutta la Grecia,
mostrò in su uno minimo accidente il
debole fondamento suo ; perchè, seguita
la ribellione di Tebe, causata da Pelo-
pitia, ribellandosi V altre cittadi, rovinò
al tutto quella repubblica. Similmente
Yinegia, avendo occupato gran parte
d’Italia, e la maggior parte non con
guerra ma con danari e con astuzia,
come la ebbe a fare prova delle forze
sue, perdette in una giornata ogni cosa.
Crederei bene, che a fare una repub-
blica che durasse lungo tempo, fussi il
miglior modo ordinarla dentro come
Sparla o come Yinegia ; porla in luogo
forte, e di tale potenza, che nessuno cre-
desse poterla subito opprimere; e dal-
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« »»
LIBRO PRIMO. 51
l’altra parte, non fussi si grande, che
la fussi formidabile a’ vicini : c così po-
trebbe lungamente godersi il suo stato.
Perchè, per due cagioni si fa guerra
ad una repubblica: Cuna per diven-
tarne signore, l’altra per paura ch’ella
non ti occupi. Queste due cagioni il so-
praddetto modo quasi in tutto toglie via;
perchè, se la è difficile ad espugnarsi,
come io la presuppongo, sendo bene or-
dinata alla difesa, rade volte accadere,
o non mai, che uno possa fare disegno
d’ acquistarla. Se la si starà intra i ter-
mini suoi, e veggasi per esperienza, che
in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sè gli faccia
guerra : e tanto più sarebbe questo, se
e’ fusse in lei constituzione o legge che
le proibisse l’ampliare. E senza dubbio
credo, clic polendosi tenere la cosa bi-
lanciata in questo modo, che e’ sarebbe
il vero vivere politico, e la vera quiete
di una città. Ma scudo tutte le cose de-
gli uomini in moto, c non potendo stare
52
DEI DISCORSI
salde, conviene che le saglino o clic le
scendino ; e a molte cose che la ragione
non t' induce, t’ induce lo necessità: tal-
mente che, avendo ordinata una repub-
blica atta a mantenersi non ampliando,
e la necessità la conducesse ad ampliare,
si verrebbe a torre via i fondamenti
suoi, ed a farla rovinare più presto.
Così, dall’altra parte, quando il Cielo le
fusse si benigno, che la non avesse a
fare guerra, ne nascerebbe che l’olio la
farebbe o effeminata o divisa; le quali
due cose insieme, o ciascuna per sè,
sorebbono cagione della sua rovina. Per-
tanto, non si potendo, come io credo,
bilanciare questa cosa, nò mantenere
questa via del mezzo a punto ; bisogna,
nello ordinare la repubblica, pensare
alla parte più onorevole; ed ordinaria
in modo, che quando pure la necessità
la inducesse ad ampliare, ella potesse
quello ch’ella avesse occupato, conser-
vare. E, per tornare al primo ragiona-
mento, credo che sia necessario seguire
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LIBRO PRIMO. • 53
l'ordine romano, e non quello dell’altre
repubbliche; perchè trovare un modo,
mezzo infra l’uno e l’altro, non credo
si possa: e quelle inimicizie che intra il
popolo ed il senato nascessino, tolle-
rarle, pigliandole per uno inconveniente
necessario a pervenire alla romana gran-
dezza. Perchè, oltre all’ altre ragioni alle-
gate dove si dimostra Y autorità tribun
zia essere stata necessaria per la guardia
della libertà, si può facilmente consi-
derare il benefizio che fa nelle repub-
bliche l’autorità dello accusare, la quale
era intra gli altri commessa a’ Tribuni ;
come nel seguente capitolo si discorrerà.
Gap. VII. — Quanto siano necessarie in
una repubblica le accuse per mante-
nere la libertà.
A coloro che in una città sono pre-
posti per guardia della sua libertà, non
si può dare autorità più utile e neces-
saria, quanto è quella di potere acca-
54
. DEI DISCORSI
sare i cittadini ai popolo, o a qualun-
que magistrato o consiglio, quando che
pcccassino in alcuna cosa contea allo
stato libero. Questo ordine fa duoi ef-
fetti utilissimi ad una repubblica. Il
primo è che i cittadini, per paura di
non essere accusati, non tentano cose
contro allo Stato: e tentandole, sono in-
continente e senza rispetto oppressi.
1/ altro è che si dà via onde sfogare a
quelli umori che crescono nelle citladi,
in qualunque modo, contea a qualun-
que cittadino: e quando questi umori
non hanno onde sfogarsi ordinariamen-
te, ricorrono a’ modi straordinari, che
fanno rovinare in tutto una repubblica.
G non è cosa che faccia tanto stabile e
ferma una repubblica, quanto ordinare
quella in modo, che l’ alterazione di
questi umori che la agitano, abbia una
via da sfogarsi ordinata dalie leggi. Il
che si può per molti esempi dimostra-
re, e massime per quello che adduce
Tito Livio di Coriolano, dove ei dice,
LIBRO PRIMO. 55
che essendo irritala contro alla Plebe
la Nobiltà romana, per parerle che la
Plebe avesse troppa autorità mediante
la creazione de’ Tribuni che la difende-
vano; ed essendo Roma, come avviene,
venuta in penuria grande di vettova-
glie, ed avendo il Senato mandato per
grani in Sicilia; Coriolano, nimico alla
fazione popolare, consigliò come egli
era venuto il tempo da potere gasti-
gare la Plebe, e torte quella autorità
die ella si aveva acquistata c in pre-
giudizio della nobiltà presa, tenendola
affamata, c non li distribuendo il fru-
mento; la qual sentenza sendo venuta
alii orecchi del Popolo, venne in tanta
indegnazione contro a Coriolano, che
allo uscire del Senato lo arebbero tu-
multuariamente morto, se gli Tribuni
non 1’ avessero citato a comparire a di-
fendere la causa sua. Sopra il quale
accidente, si nota quello che di sopra
si è detto, #quanto sia utile e necessa-
rio che le repubbliche, con le leggi loro,
56
DEI DISCORSI
diano onde sfogarsi oli’ ira clic concepc
la universalità contra a uno cittadino;
perchè quando questi modi ordinari non
vi siano, si ricorre agli estraordinari;
c senza dubbio questi fanno molto peg-
giori effetti che non fanno quelli. Per-
chè, se ordinariamente uno cittadino è
oppresso, ancora che li fusse fatto tor-
to, ne seguita o poco o nessuno disor-
dine in la repubblica: perchè la esecu-
zione si fa senza forze private, e senza
forze forestiere, che sono quelle che
rovinano il vivere libero; ma si fa con
forze ed ordini pubblici, che hanno i
termini loro particolari, nè trascendono
a cosa che rovini la repubblica. E quan-
to a corroborare questa oppinione con
gli esempi, voglio che degli antichi mi
basti questo di Coriolano; sopra il quale
ciascuno consideri, quanto male saria
resultato alla repubblica romana, se
tumultuariamente ci fussi stato morto;
perchè ne nasceva offesa ila privati a
privati, la quale offesa genera paura;
LIBRO PRIMO. 57
la paura cerca difesa; per la difesa si
procacciano i partigiani; dai partigiani
nascono le parti nelle cittadi; dalle
parti la rovina di quelle. Ma sendosi
governata la cosa mediante chi ne ave-
va autorità, si vennero a tór via tutti
quelli mali che ne potevano nascere go-
vernandola con autorità privata. Noi
avemo visto ne’ nostri tempi, quale no-
vità ha fatto alla repubblica di Firenze
non potere la moltitudine sfogare l’ nni-
ino suo ordinariamente contra a un suo
cittadino; come accadde nel tempo di
Francesco Valori, clic era come prin-
cipe della città : il quale essendo giudi-
calo ambizioso da molti, e uomo che
volesse con la sua audacia e animosità
trascendere il vivere civile; e non es-
sendo nella repubblica via a poterli re-
sistere se non con una setta contraria
alla sua ; ne nacque che non avendo
paura quello, se non di modi straordi-
nari, si cominciò a fare fautori che lo
difendessino; dall’ altra parte, quelli clic
DEI DISCOIDI
ó8
lo oppugnavano non avendo via ordi-
naria a reprimerlo, pensarono alle vie
straordinarie : intanto che si venne alle
armi. E dove, quando per l’ordinario
si fusse potuto opporseli, sarebbe la sua
autorità spenta con suo danno solo;
avendosi a spegnere per lo straordina-
rio, seguì con danno non solamente
suo, ma di molti altri nobili cittadini.
Potrebbesi ancora allegare, a fortifica-
zione della soprascritta conclusione,
l’ accidente seguito pur in Firenze so-
pra Piero Soderini; il quale al tutto
segui per non essere in quella Repub-
blica alcuno modo di accuse contra alla
ambizione de’ potenti cittadini: perchè
lo accusare un potente a otto giudici
in una repubblica, non basta : bisogna
che i giudici siano assai, perchè pochi
sempre fanno a modo de’ pochi. Tanfo
che, se tali modi vi fussono stati, o i
cittadini lo arebbono accusato, vivendo
egli male; e per tal mezzo, senza far
venire l’ esercito spagnuolo, arebbono
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LIBRO PRIMO. 59
sfogato l’animo loro: o non vivendo
male, non arebbono avuto ardire ope-
rarli contra, per paura di non essere
accusati essi : e cosi sarebbe da ogni
parte cessato quello appetito che fu ca-
gione di scandalo. Tanto che si può
concludere questo, che qualunque volta
si vede che le forze esterne siano chia-
mate da una parte d’ uomini che vi-
vono in una città, si può credere na-
sca da’ cattivi ordini di quella, per non
esser dentro a quello cerchio, ordine
da potere senza modi islraordinari sfo-
gare i maligni umori che nascono nelli
uomini: a che si provvede al tutto con
ordinarvi le accuse alii assai giudici, e
dare riputazione a quelle. Li quali modi
furono in Roma sì bene ordinati, che
in tante dissensioni della Plebe e del
Senato, mai o il Senato o la Plebe o
alcuno particolare cittadino non dise-
gnò valersi di forze esterne; perche
avendo il rimedio in casa, non erano
necessitati andare per quello fuori. E
DEI DISCORSI
60
benché gli esempi soprascritti siano as-
sai sufficienti a provarlo, nondimeno
ne voglio addurre un altro, recitato da
Tito Livio nella sua istoria: il quale
riferisce come, scudo stato in Chiusi,
città in quelli tempi nobilissima in To-
scana, da uno Lucumone violata una
sorella di Aruntc, c non potendo Arunte
vendicarsi per la potenia del violatore,
se n'andò a trovare i Franciosi, che al-
lora regnavano in quello luogo che oggi
si chiama Lombardia; e quelli confortò
a venire con annata mano a Chiusi,
mostrando loro come con loro utile lo
potevano vendicare della ingiuria rice-
vuta : che se Arunte avesse veduto po-
tersi vendicare con i modi della città,
non arebbe cerco le forre barbare. Ma
come queste accuse sono utili in una
repubblica, così sono inutili e dannose
le calunnie ; come nel capitolo seguente
discorreremo.
-
6
ì
\
LIBRO PRIMO.
Cap. Vili. — Quanto le accuse sono
utili alle repubbliche, tanto sono per
niziose le calunnie.
Non ostante che la virtù di
Cnmmillo, poi ch’egli ebbe libera Roma
dalla oppressione de’ Franciosi, avesse
fatto che tutti i cittadini romani,
parer loro tòrsi reputazione o
cedevano a quello; nondimeno Maulio
Capitolino non poteva sopportare che
gli fusse attribuito tanto onore e tanta
gloria; parendogli, quanto alla salute
di Roma, per avere salvato il Campi-
doglio, aver meritato quanto Cammillo;
c quanto all’ altre belliche laudi, non
essere inferiore a lui. Di modo che, ca-
rico d’ invidia, non potendo quietarsi
per la gloria di quello, c veggendo non
potere seminare discordia infra i Padri,
si volse alla Plebe, seminando varie
oppinioni sinistre intra quelfb. E intra
V altre cose che diceva, era come il tc-
■Digitizc
G2
DEI DISCORSI
soro il quale si era adunato insieme
per dare ai Franciosi, e poi non dato
loro, era stato usurpalo da privati
cittadini ; e quando si riavesse, si po-
teva convertirlo in pubblica utilità, al-
leggerendo la Plebe da’ tributi, o da
\ '
qualche privato debito. Queste parole
poterono assai nella Plebe; talché co-
minciò avere concorso, ed a fare u
sua posta tumulti assai nella città: la
qual cosa dispiacendo al Senato, e pa-
rendogli di momento e pericolosa, creò
uno Dittatore, perchè ei riconoscesse
questo caso, e frenasse lo impeto di
Manlio. Onde che subito il Dittatore lo
fece citare, e eondussonsi in pubblico
all’incontro l’uno dell’altro; il Ditta-
tore in mezzo de’ Nobili, e Manlio in
mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio
che dovesse dire, appresso a chi fusse
questo tesoro che ei diceva, perchè ne
era cosi desideroso il Senato d’ inten-
derlo come la Plebe: a che Manlio non
rispondeva particularmenfe; ma, an-
LIBRO PRIMO. 63
dando fuggendo, diceva come non era
necessario dire loro quello die e’ si sa-
pevano: tanto che il Dittatore lo fece
mettere in carcere. È da notare per
questo testo, quanto siano nelle città
libere, ed in ogni altro modo di vivere,
detestabili le calunnie; e come per re-
primerle, si debbe non perdonare a or-
dine alcuno che vi faccia a proposito.
Nè può essere migliore ordine a torle
via, che aprire assai luoghi alle accu-
se; perchè quanto le accuse giovano
alle repubbliche, tanto le calunnie nuo-
cono: e dall’ altra parte è questa diffe-
renza, che le calunnie non hanno biso-
gno di testimone, nè di alcuno altro
particulare riscontro a provarle, in modo
che ciascuno da ciascuno può essere
calunniato; ma non può già essere ac-
cusato, avendo le accuse bisogno di ri-
scontri veri, e di circostanze, che mo-
strino la verità dell’ accusa. Accusatisi
gli uomini a’ magistrati, a’ popoli, a’ con-
sigli ; calunniatisi per le piazze è per le
G4
DEI DISCORSI
logge. Usasi più questa calunnia dove
si usa meno 1’ accusa, c dove le città
sono meno ordinate a riceverle* Però,
uno ordinatore d’ una repubblica debbe
ordinare che si possa in quella accu-
sare ogni cittadino, senza alcuna paura
o senza alcuno sospetto; e fatto questo
e bene osservato, debbe punire aere-
mente i calunniatori: i quali non si
possono dolere quando siano puniti,
avendo i luoghi aperti a udire le ac-
cuse di colui che gli avesse per le logge
calunniato. E dove non è bene ordinata
questa parte, seguitano sempre disor-
dini grandi : perchè le calunnie irrita-
no, c non castigano i cittadini; e gli
irritali pensano di valersi, odiando più
presto, che temendo le cose che si di-
cono contea a loro. Questa parte, come
è detto, era bene ordinata in Roma ;
ed è stata sempre male ordinala nella
nostra città di Firenze. E come a Roma
questo ordine fece molto bene, a Fi-
renze questo disordine fece molto male.
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LIBRO PRIMO. 65
E chi legge le istorie di questa città,
vedrà quante calunnie sono state in
ogni tempo date a’ suoi cittadini che si
sono adoperati nelle cose importanti di
quella. Dell’ uno dicevano, ch’egli aveva
rubati danari al comune; dell’ altro, che
non aveva vinto una impresa per es-
sere stato corrotto; e che quell’ altro
per sua ambizione aveva fatto il tale e
tale inconveniente. Del che ne nasceva
che da ogni parte ne surgeva odio :
donde si veniva alla divisione; dalla di-
visione alle sètte; dalle sètte alla rovi-
na. Che se fusse stato in Firenze or-
dine d’ accusare i cittadini, c punire i
calunniatori, non seguivano infiniti scan-
dali che sono seguiti: perchè quelli cit-
tadini, o condennati o assoluti che rus-
sino, non arebbono potuto nuocere alla
città; e sarebbono stati accusati meno
assai clic non ne erano calunniali, non
si potendo, come ho detto, accusare
come calunniare ciascuno. Ed intra l’ al-
tre cose di clic si è valuto alcuno ci
Al ^CHIAVELLI, Discorsi. — 1. s
66 DEI DISCO*#!
tadino per ventre alla grandezza sua,
sono state queste calunnie: le quali ve-
nendo conira a’ cittadini potenti che
allo appetito suo si opponevano, face-
vano assai per quello; perchè, piglian-
do la parte del Popolo, e confirmandolo
nella mala oppiatone eh’ egli aveva di
loro, se lo fece amico. E benché se ne
potesse addurre assai esempi, voglio
essere contento solo d’ uno. Era lo eser-
cito fiorentino a campo a Lucca, coman-
dato da niesser Giovanni Guicciardini,
commissario di quello. Vollono o i cat-
tivi suoi governi, o la cattiva sua for-
tuna, che Ja espugnazione di quella
città non seguisse. Pur, comunque il
caso stesse, ne fu incolpato inesser Gio-
vanni, dicendo com’ egli era stato cor-
rotto da’ Lucchesi: la quale calunnia
sendo favorita da’ nimici suoi, condusse
messer Giovanni quasi in ultima dispe-
razione. E benché, per giustificarsi, ei
si volessi mettere nelle mani del Capi-
tano; nondimeno non si potette mai
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LIBRO PRIMO. 67
giustificare, per non essere modi in
quella repubblica da poterlo fare. Di
che ne nacque assai sdegno intra li
amici di messer Giovanni, che erano la
maggior parte delli uomini Grandi, ed
infra coloro che desideravano fare no-
vità in Firenze. La qual cosa, e per
queste e per altre simili cagioni, tanto
crebbe, che ne seguì la rovina di quella
repubblica. Era dunque Manlio Capito-
lino calunniatore, e non accusatore*, ed
i Romani mostrarono in questo caso
appunto, come i calunniatori si debbono
punire. Perchè si debbe fargli diventare
accusatori; e quando 1’ accusa si riscon-
tri vera, o premiarli, o non punirli :
ma quando la non si riscontri vera
Uf»5
65
DEI DISCORSI
Cap. IX. — Come egli è necessario esser
solo a volere ordinare una repubblica
di nuovo , o al lutto fuori delti anti-
chi suoi ordini riformarla.
E’ porrà forse ad alcuno,- che io sia
troppo trascorso dentro nella istoria ro-
mana, non avendo fatto alcuna menzione
ancora degli ordinatori di quella Repub-
blica, nè di quelli ordini che o alla re-
ligione o alla milizia riguardassero. E
però, non volendo tenere più sospesi gli
animi di coloro che sopra questu parte
volessino intendere alcune cose; dico,
come molti per avventura giudicheranno
di cattivo esempio, che uno fondatore
d’ un vivere civile, quale fu Romolo, ab-
bia prima morto un suo fratello, dipoi
consentito alla morte di Tito Tazio Sa-
bino, eletto da lui compagno nel regno;
giudicando per questo, che gli suoi cit-
tadini potessero con T autorità del loro
principe, per ambizione e desiderio di
LIBRO PRIMO. 60
comandare, offendere quelli che alla loro
autorità si opponessino. La quale oppi-
nionc sarebbe vera, quando non si con-
siderasse che line l’avesse indotto a fare
lai omicidio. E debbesi pigliare questo
per una regola generale: clic non mai o
di rado occorre che alcuna repubblica
o regno sia da principio ordinato bene, o
al tutto di nuovo fuori delti ordini vecchi
riformato, se non è ordinato da uno; anzi
è necessario che uno solo sia quello clic
dia il modo, e dalla cui mente dependa
qualunque simile ordinazione. Però, uno
prudente ordinatore d’ una repubblica, e
che abbia questo animo di volere gio-
vare non a sé ma al bene comune, non
alla sua propria successione ma alla co-
mune patria, debbe ingegnarsi di avere
l’autorità solo; nè mai uno ingegno sa-
vio riprenderà alcuno di alcuna azione
istraordinaria, che per ordinare un re-
gno o constituire una repubblica usasse.
Conviene bene, che, accusandolo il fallo,
lo effetto lo scusi ; e quando sia buono,
DEI DISCORSI
70
come quello di Romolo, sempre lo scu-
serà: perchè colui che è violento per
guastare, non quello che è per raccon-
ciare, si debbe riprendere. Debbe bene
in tanto esser prudente e virtuoso, che
quella autorità che si ha presa, non la
lasci ereditaria ad un altro : perchè, es-
sendo gli uomini più proni al male che
al bene, potrebbe il suo successore usare
ambiziosamente quello che da lui vir-
tuosamente fusse stato usato. Oltre di
questo, se uno è atto ad ordinare, uoti
è la cosa ordinata per durare molto,
quando la rimanga sopra le spalle d’ uno;
ma si bene, quando la rimane alla cura
di molti, e che a molti stia il mante-
nerla. Perchè, cosi come molti non sono
atti ad ordinare una cosa, per non co-
noscere il bene di quella, causato dalle
diverse oppinioni che sono fra loro;
cosi conosciuto che lo hanno, non si
accordano a lasciarlo. E che Romolo
fusse di quelli che nella morte del fra-
tello e del compagno meritasse scusa;
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LIMO MIMO.
71
e che quello che fece, fusse per il bene
comune, e non per ambizione propria ;
lo dimostra lo avere quello subito or-
dinato uno Senato, con il quale si con-
sigliasse, e secondo l’oppinione del quale
deliberasse. E chi considera bene P au-
torità che Romolo si riserbò, vedrà non
se ne essere riserbata alcun’ altra che
comandare alli eserciti quando si era
deliberata la guerra, e di ragunare il
Senato. Il che si vide poi, quando Roma
divenne libera per la cacciata de’ Tar-
quini; dove da’ Romani non fu inno-
vato alcun ordine dello antico, se non
che in luogo d’ uno Re perpetuo, fus-
sero duoi Consoli annuali; il che testi-
fica, tutti gli ordini primi di quella
città essere stati più conformi ad uno
vivere civile e libero, che ad uno as-
soluto e tirannico. Polrebbesi dare in
corroborazione delle cose sopraddette
infiniti esempi; come Moisè, Licurgo,
Solonc, ed nitri fondatori di regni e di
repubbliche, i quali poterono, per aversi
72
DEI DISCORSI
attribuito un’ autorità, formare leggi a
proposito del bene comune; ma gli vo-
glio lasciare indietro, come cosa nota.
Addurronne solamente • uno, non si ce*
lebre, ma da considerarsi per coloro
che desiderassero essere di buone leggi
ordinatori: il quale è, che desiderando
Agide re di Sparta ridurre gli Spar-
tani intra quelli termini che le leggi di
Mcurgo gli avessero rinchiusi, paren-
doli che per esserne in parte deviati,
la sua città avesse perduto assai di
quella antica virtù, e, per conseguente,
di forze e d’ imperio ; fu ne' suoi primi
principii ammazzato dalli Efori sparta-
ni, come uomo che volesse occupare la
tirannide. .Ma succedendo dopo lui . nel
regno Cleomene c nascendogli il mede-
simo desiderio per gli ricordi e scritti
eh’ egli aveva trovati di Agide, dove si
vedeva quale era la mente ed intenzione
sua, conobbe non potere fare questo
bene alla sua patria se non diventava
solo di autorità; parendogli, per 1* ara-
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LIBRO PRIMO. 73
bizione degli uomini, non potere fare
utile a molti contra alla voglia di po-
chi: e presa occasione conveniente, fece
ammazzare tutti gli Efori, e qualunque
altro gli potesse contrastare ; dipoi rin-
novò in tutto le leggi di Licurgo. La
quale deliberazione era atta a fare ri-
suscitare Sparta, e dare a Clcomcne
quella reputazione che ebbe Licurgo,
se non fussc stato la potenza de’ Mace-
doni e la debolezza delle altre repub-
bliche greche. Perchè, essendo dopo
tale ordine assaltato da’ Macedoni, e tro-
vandosi per sè stesso inferiore di for-
ze, c non avendo a chi rifuggire, fu
vinto; e restò quel suo disegno, quan-
tunque giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose,
conchiudo, come a ordinare una repub-
blica è necessario essere solo; c Romolo
per la morte di Remo e di Tazio me-
ritare iscusa, e non biasmo.
rv i .. f"- V, * .V? '•■*‘“■5/ .
74
DEI DISCORSI
Cap. X. — Quanto sono laudabili * fon-
datori d* una repubblica o dJ uno re-
gno, tanto quelli dJ una tirannide
sono vituperabili.
Intra tutti gli uomini laudati, sono i
laudatissimi quelli die sono stati capi
e ordinatori delle religioni. Appresso
dipoi, quelli che hanno fondato o re-
pubbliche o regni. Dopo costoro, sono
celebri quelli che, preposti alti esercì*
ti, hanno ampliato o il regno loro, o
quello della patria. A questi si aggiun-
gono gli uomini iilterati; e perchè que*
- sti sono di più ragioni, sono celebrati
ciascuno d’ essi secondo il grado suo.
A qualunque altro uomo, il numero
de’ quali è infinito, si attribuisce quut*
che parte di laude, la quale gli arreca
l’ arte e V esercizio suo. Sono, per lo
contrario, infumi e detestabili gli uo-
mini destruttori delle religioni, dissipa-
tori de’ regni e delie repubbliche, ini-
LIBRO PRIMO. 75
mici delle virtù, delle lettere, e d'ogni
altra arte che arrechi utilità ed onore
alla umana generazione; come sono gli
empii e violenti, gl* ignoranti, gli ozio-
si, i vili, e i dappochi. E nessuno sarà
mai sì pazzo o si savio, si tristo o si
buono, che, propostogli la elezione delle
due qualità d’ uomini, non laudi quella
che è da laudare, e Biasini quella che è
da biasmare: nientedimeno, dipoi, quasi
tutti, ingannati da un falso bene e da
una falsa gloria, si lasciano andare,
o voluntariamente o ignorantemente,
ne’ gradi di coloro che meritano più bia-
simo che laude; c potendo fare, con
perpetuo loro onore, o una repubblica
o un regno, si volgono alla tirannide:
nè si avveggono per questo partito
quanta fama, quanta gloria, quanto ono-
re, sicurtà, quiete, con satisfazione d’ani-
mo, e’fuggono; e in quanta infamia,
vituperio, biasimo, pericolo e inquietu-
dine incorrono. Ed è impossibile che
quelli che in stato privato vivono in una
mmmm
DEI DISCORSI
76
repubblica, o che per fortuna o virtù
ne diventano principi, se leggcssino
l’ istorie, e delle memorie delle antiche
cose facessino capitale, che non voles-
sero quelli tali privati, vivere nella
loro patria piuttosto Soipioni che Ce-
sari; e quelli che sono principi, piut-
tosto Agesilai, Timolconi e Dioni, clic
Nabidi, Falari e Dionisi : perchè ve-
drebbono questi essere sommamente vi-
tuperati, e quelli eccessivamente laudati.
Vedrebbono ancora come Timoleone e
gli altri non ebbero nella patria loro
meno autorità che si avessiuo Dionisio
e Falari; ma vedrebbono di lungo avervi
avuto più sicurtà. Nè sia alcuno che si
inganni per la gloria di Cesare, senten-
dolo, massime, celebrare dagli scrittori:
perchè questi che lo laudano, sono cor-
rotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla
lunghezza dello imperio, il quale reg-
gendosi sotto quel nome, non permet-
teva che gli scrittori parlassero libera-*
mente di lui. Ma chi vuole conoscere
libro primo. 77
quello che gli scrittori liberi ne direb-
bono, vegga quello che dicono di Cali*
lina: E tanto è più detestabile Cesare,
quanto più è da biasimare quello che
ha fatto, che quello che ha voluto fare
un inule. Vegga ancora con quante laudi
celebrano Bruto; talché, non potendo bia-
simare quello per la sua potenza, e’ ce-
lebrano il nemico suo. Consideri ancora
quello eh’ è diventato principe in una
repubblica, quante laudi, poiché Roma
fu diventata imperio, meritarono più
quelli imperadori che vissero sotto le
leggi e come principi buoni, che quelli
che vissero al contrario: e vedrà come
a Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Anto-
nino e Marco, non erano necessari i sol-
dati pretoriani nè la moltitudine delle
legioni a difenderli, perchè i costumi
L loro, la benivolenza del Popolo, lo amore
i del Senato gli difendeva. Vedrà ancora
come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a
tanti altri scellerati imperadori, non ba-
starono gli eserciti orientali ed occiden-
7S
DEI DISCORSI
Itili a salvarli conira a quelli nemici, che
li loro rei costumi, la loro malvagia vita
aveva loro generati. E se la istoria di
costoro fusse ben considerata, sarebbe
assai ammaestramento a qualunque priu-
cipe, a mostrargli la via della gloria o
del biasmo, e della sicurtà o del timore
suo. Perchè, di ventisei imperadori che
furono da Cesare a Massimiuo, sedici ne
furono ammazzati, dicci morirono ordi-
nariamente; c se di quelli che furono
morti ve ne fu alcuno buono, come
Galba e Pertinace, fu morto da quella
corruzione che lo antecessore suo aveva
lasciata nc’ soldati. E se tra quelli che
morirono ordinariamente ve ne fu al-
cuno scellerato, nome Severo, nacque da
una sua grandissima fortuna e virtù ; le
quali due cose pochi uomini accompa-
gnano. Vedrà ancora, per la lezione di
questa istoria, come si può ordinare un
regno buono: perchè tutti gl' imperadori
che succederono all* imperio per eredità,
eccetto Tito, furono cattivi ; quelli che per
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LIBHO PRIMO. 79
adozione, furono tutti buoni, come furono
quei cinque da Nervo a Marco: e come
P imperio cadde negli eredi, ei ritornò
nella sua rovina. Pongasi, adunque, in-
nanzi un principe i tempi da Nerva a
Marco, e conferiscagli con quelli che
erano stati prima e che furono poi; e
dipoi elegga in quali volesse essere nato,
o a quali volesse essere preposto. Per-
chè in quelli governali da’ buoni, vedrà
un principe sicuro in mezzo de’ suoi si-
curi cittadini, ripieno di pace e di giu-
stizia il mondo: vedrà il Senato con la
sua autorità, i magistrati con i suoi ono-
ri ; godersi i cittadini ricchi le loro ric-
chezze ; la nobiltà c la virtù esaltata :
vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dal-
l’altra parte, ogni rancore, ogni licenza,
corruzione e ambizione spenta: vedrà i
tempi aurei, dove ciascuno può tenere e
difendere quella oppinione che vuole. Ve-
drà, in fine, trionfare il mondo; pieno
di riverenza e di gloria il principe,
d’ amore e di sveurilà i popoli. Se con-
80
DEI DISCORSI
sidererà, dipoi, tritamente i tempi degli
altri imperadori, gli vedrà atroci per le
guerre, discordi per le sedizioni, nella
pace e nella guerra crudeli: tanti prin-
cipi morti col ferro, tante guerre civili,
tante esterne ; P Italia afflitta, e piena di
nuovi infortunii ; rovinate e saccheggiate
le città di quella. Vedrà Roma arsa, il
Campidoglio da’ suoi cittadini disfatto,
desolati gli antichi templi, corrotte le
cerimonie, ripiene le città di adulterii:
vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli
pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire
innumerabili crudeltadi ; e la nobiltà, le
ricchezze, gli onori, e sopra tutto ia virtù
essere imputata a peccato capitale. Ve-
drà premiare li accusatori, essere cor-
rotti i sèrvi contro al signore, i liberi
contro al padrone; e quelli a chi fus-
scro mancati i nemici, essere oppressi
dagli amici. E conoscerà allora benis-
simo quanti obblighi Roma, Italia, e il
mondo abbia con Cesare. E senza, dub-
bio, se e* sarà nato d’uomo, si sbigottirà
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LIBRO PRIMO.
I da ogni imitazione dei tempi cattivi, c
accenderassi d’uno immenso desiderio di
* I -
seguire i buoni. E veramente, cercando
un principe la gloria del mondo, dover-
rebbe desiderare di possedere una città
corrotta, non per guastarla in tutto co-
me Cesare, ma per riordinarla come llo-
inolo. E veramente i cieli non possono
dare all i uomini maggiore occasione di
gloria, nè li uomini la possono maggiore
desiderare. E se, a volere ordinare bene
una città, si avesse di necessità n dc-
porrc il principato, meriterebbe quello
clic non la ordinasse, per non cadere
di quel grado, qualche scusa: ma po-
tendosi tenere il principato ed ordinarla,
non si merita scusa alcuna. E in som-
ma, considerino quelli a chi i cieli dan-
no tale occasione, come sono loro pro-
poste due vie: 1’ una che gli fa vivere
sicuri, e dopo la morte gli rende glo-
riosi ; I’ altra gli fa vivere in continove
angustie, e dopo la morte lasciare di sè
una sempiterna infamia.
\ 31 *CHtAVELLf , Discorsi. — i.
S2
DEI DISCORSI
Gap. XI. — Delta religione de* Romani.
Ancora che Roma avesse il primo suo
ordinatore Romolo, e che da quello abbi
a riconoscere come figliuola il nasci-
mento e la educazione sua; nondimeno,
giudicando i cieli che gli ordini di Ro-
molo non bastavano a tanto imperio,
niessono nel petto del Senato romano di
eleggere Numa Pompilio per successore
a Romolo, acciocché quelle cose che da
lui fossero state lasciate indietro, fossero
da Numa ordinate. II quale trovando un
popolo ferocissimo, e volendolo ridurre
nelle ubbidienze civili con le arti della
pace, si volse alla religione, come oosa
al tutto necessaria a volere mantenere
una civiltà ; e la costituì in modo, che
per più secoli non fu mai tanto timore
di Dio quanto in quella Repubblica : il
che facilitò qualunque impresa che il
Senato o quelli grandi uomini romani
disegnassero fare. E ehi discorrerà in-
-j
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Libro primo.
finite azioni, e del popolo di Roma lutto
insieme, e di molli de’ Romani di per sé,
vedrà come quelli cittadini temevano più
assai rompere il giuramento che le leggi ;
come coloro clic stimavano più la po-
tenza di Dio, che quella degli uomini:
come si vede manifestamente per gli
esempi di Scipione e di Manlio Torquuto.
Perchè, dopo la rotta che Annibale aveva
dato a’ Romani a Canne, molti cittadini
si erano adunati insieme, c sbigottiti e
paurosi si erano convenuti abbandonare
l’Italia, e girsene in Sicilia: il che sen-
tendo Scipione, gli andò a trovare, e
col ferro ignudo in mano gli costrinse
a giurare di non abbandonare la patria.
Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che
fu dipoi chiamato Torquato, era stato
accusato da Marco Pomponio, Tribuno
della plebe ; ed innanzi che venissi il
di del giudizio, Tito andò a trovare
Marco, e minacciando d’ ammazzarlo se
non giurava di levare l’accusa al padre,
lo costrinse al giuramento ; e quello,
84
DEI DISCORSI
per timore avendo giurato, gli levò t'ac-
cusa. E cosi quelli cittadini i quali
l'amore della patria e le leggi di quella
non ritenevano in Italia, vi furon rite-
nuti da un giuramento che furono for-
zati a pigliare; e quel Tribuno pose da
parte l'odio che egli aveva col padre,
la ingiuria che gli aveva fatta il figliuolo,
c i’ onore suo, per ubbidire al giura-
mento preso: il che non nacque da al-
tro, che da quella religione che Numa
aveva introdotta in quella città. E ve-
desi, chi considera bene le istorie ro-
mane, quanto serviva la religione a co-
mandare agli eserciti, a riunire la plebe,
a mantenere gli uomini buoni, a fare
vergognare li tristi. Talché, se si avesse
a disputare a quale principe Roma fusse
più obbligata, o a Romolo o a Numa,
credo più tosto Numa otterrebbe il pri-
mo grado: perchè dove è religione, fa-
cilmente si possono introdurre l’armi;
e dove sono l’armi e non religione, con
diflìcultà si può introdurre quella. E si
LIBRO PRIMO.
vede che a Romolo per ordinare il Se-
nato, e per fare altri ordini civili e mi-
litari, non gli fu necessario dell’ autorità
di Dio; ma fu bene necessario a Numa,
il quale simulò di avere congresso con
una Ninfa, la quale lo consigliava di
quello ch’egli avesse a consigliare il
popolo : e tutto nasceva perchè voleva
mettere ordini nuovi ed inusitati in
quella città, e dubitava che la sua auto-
rità non bastasse. G veramente, mai non
fu alcuno ordinatore di leggi straordi-
narie in uno popolo, che non ricorresse
a Dio ; perchè altrimenlc non sarebbero
accettate: perchè sono molli beni cono-
sciuti da uno prudente, i quali non
hanno in sè ragioni evidenti da potergli
persuadere ad altri. Però gli uomini
savi, che vogliono torre questa diflìcultà,
ricorrono a Dio. Cosi fece Licurgo, cosi
Solone, cosi molti altri che hanno avuto
il medesimo fine di loro. Ammirando,
adunque, il popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cedeva ad ogni sua deli-
86
DEI DISCORSI
Iterazione, Ben è vero che l’essere quelli
tempi pieni di religione, e quelli uomini,
con i quali egli aveva a travagliare,
grossi, gli detlono facilità grande a con-
seguire i disegni suoi, potendo impri-
mere in loro facilmente qualunche nuova
forma. E senza dubbio, ehi volesse ne’pre-
senti tempi fare una repubblica, più fa-
cilità troverebbe negli uomini monta-
nari, dove non è alcuna civilità, che in
quelli che sono usi a vivere nelle città,
dove la civilità è corrotta: ed uno scul-
tore trarrà più facilmente una bella sta-
tua d’ uno marmo rozzo, che d’ uno male
abbozzato d’altrui. Considerato adun-
que tutto, conchiudo che la religione
introdotta da Piuma fu intra le prime
cagioni della felicità di quella città: per-
chè quella causò buoni ordini; i buoni
ordini fanno buona fortuna ; e dalla
buona fortuna nacquero i felici successi
delle imprese. E come la osservanza del
culto divino è cagione delia grandezza
delle repubbliche, cosi il dispregio di
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LIBRO PRIMO. 87
quella è cagione della rovina d’esse. Per-
chè, dove manca il timore di Dio, con-
viene che o quel regno rovini, o che
sia sostenuto dal timore d’ un principe
che supplisca a’ difetti della religione. E
perchè i principi sono di corta vita,
conviene che quel regno manchi presto,
secondo che manca la virtù d’ esso. Don-
de nasce che i regni i quali dependono
solo dalla virtù d’ uno uomo, sono poco
durabili, perchè quella virtù manca con
la vita di quello ; e rade volte accade
che la sia rinfrescata con la successione,
come prudentemente Dante dice:
tt Rade volte risurge per li rami
L'umana probitade: e questo vuolo
Quel che la dà, perchè da lui si chiami. „
Non è, adunque, la salute di una repub-
blica o d’uno regno avere uno principe
che prudentemente governi mentre vive ;
ma uno che l’ordini in modo, clic, mo-
rendo ancora, la si mantenga. E benché
agli uomini rozzi più facilmente si per-
suade uno ordine o una oppinione nuo-
bS DEI DISCORSI
va, non è per questo impossibile per-
suaderla ancora agli uomini civili, e che
si presumono non essere rozzi. Al po-
polo di Firenze non pare essere nè igno-
rante nè rozzo: nondimeno da frate Gi-
rolamo Savonarola fu persuaso che par-
lava con Dio. lo non voglio giudicare
s’egli era vero o no, perchè d’ un tanto
uomo se ne debbe parlare con reve-
renza : ma io dico bene, che infiniti lo
credevano, senza avere visto cosa nes-
suna istraordinaria da farlo loro cre-
dere; perchè la vita sua, la dottrina, il
soggetto che prese, erano sufhzienti a
fargli prestare fede. Non sia, pertanto,
nessuno che si sbigottisca di non potere
conseguire quello che è stato conseguito
da altri ; perchè gli uomini, come nella
Prefazione nostra si disse, nacquero,
vissero e morirono sempre con un me-
desimo ordine.
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LIBRO PRIMO.
Cap. XIF. — Di quanta importanza sia
tenere conto della religione j e come
la Italia per esserne mancata mediante
la Chiesa romana y è rovinata.
Quelli principi, o quelle repubbliche,
le quali si vogliono manienere incorrot-
te, hanno sopra ogni altra cosa a man-
tenere incorrotte le cerimonie della re-
ligione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perchè nissuno maggiore
indizio si puote avere della rovina d’una
provincia, che vedere dispregiato il culto
divino. Questo è facile a intendere, co-
nosciuto che si è in su che sia fondata
la religione dove V uomo è nato; perchè
ogni religione ha il fondamento della
vita sua in su qualche principale ordine
suo. La vita della religione gentile era
fondata sopra i responsi delti oracoli
e sopra la setta delli aridi e delli
aruspici: tutte le altre loro cerimonie,
sacrifìcii, riti, dependevano da questi;
90
DEI DISCORSI
perchè loro facilmente credevano che
quello Dio che ti poteva predire il tuo
futuro bene o il tuo futuro male, te
lo potessi ancora concedere. Di qui
nascevano i tempii, di qui i sacrifici!,
di qui le supplicazioni, ed ogni altra
cerimonia in venerarli: perchè l’oracolo
di Deio, il tempio di Giove Aminone, ed
altri celebri oracoli, tenevano il mondo
in ammirazione, e devoto. Come costoro
cominciarono dipoi a parlare n modo
de’ potenti, e questa falsità si fu sco-
perta ne’ popoli, divennero gli uomini
increduli, ed atti a perturbare ogni or-
dine buono. Debbono, adunque, i Prin-
cipi d’uria repubblica o d’un regno, i
fondamenti della religione che loro ten-
gono, mantenerli; e fatto questo, sarà
loro facil cosa a mantenere la loro re-
pubblica religiosa, e, per conseguente,
buona ed unita. C debbono, tutte le
cose che nascono in favore di quella,
come che le giudicassino false, favorirle
ed accrescerle; e tanto più Io debbono
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LIBRO PRIMO. 91
fare, quanto più prudenti sono, e quanto
più conoscitori delle cose naturali. E
perchè questo modo c stato osservato
dagli uomini savi, ne è nata l’oppinione
dei miracoli, che si celebrano nelle re-
ligioni eziandio false: perchè i prudenti
gli aumentano, da qualunche principio
e’ si nascano; e l’autorità loro dà poi
a quelli fede appresso a qualunque. Di
questi miracoli ne fu a Roma assai; e
intra gli altri fu, che saccheggiando i
soldati romani la città de’ Veienti, alcuni
di loro entrarono nel tempio di Giuno-
ne, ed accostandosi alla immagine di
quella, e dicendole vis venire Romani ,
parve od alcuno vedere che la accen-
nasse; ad alcun altro, che ella dicesse
di si. Perchè, sendo quelli uomini ri-
pieni di religione (il che dimostra Tito
Livio» perchè nell’entrare nel tempio,
vi entrarono senza tumulto, tutti devoti
e pieni di reverenza), parve loro udire
quella risposta che alla domanda loro
per avventura si avevano presupposta :
92
DEI DISCORSI
la quale oppiuione e credulità, da Cam*
millo e dagli altri principi della città fu
ni tutto favorita ed accresciuta. La quale
religione se ne’ Principi della repubblica
cristiana si fusse mantenuta, secondo che
dal datore d’ essa ne fu ordinato, sa-
rebbero gli stati e le repubbliche cri-
stiane più unite e più felici assai ch’elle
non sono. Nè si può fare altra maggio-
re conieltura della declinazione d’essa,
quanto è vedere come quelli popoli che
sono più propinqui alla Chiesa romana,
capo della religione nostra, hanno meno
religione. E chi considerasse i fonda-
menti suoi, e vedesse l’ uso presente
quanto è diverso da quelli, giudiche-
rebbe esser propinquo, senza dubbio, o
la rovina o il flagello. E perchè sono
alcuni d’oppinione, che ’l ben essere
delle cose d’ Italia dipende dalla Chiesa
di Roma, voglio contro ad essa discor-
rere quelle ragioni che mi occorrono :
e ne allegherò due potentissime, le quali,
secondo me, non hanno repugnanza. La
UDRÒ PRIMO.
, prima è, che per gli esempi rei di quella
i corte, questa provincia ha perduto ogu
I divozione ed ogni religione: il clic si
i lira dietro infiniti inconvenienti e infi-
niti disordini; perchè, così come
religione si presuppone ogni bene,
dove ella manca si presuppone il con-
trario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa
e con i preti noi Italiani questo primo
obbligo, d’essere diventati senza reli-
gione c cattivi: ma ne abbiamo ancora
un maggiore, il quale è cagione della
rovina nostra. Questo è die la Chiesa
ha tenuto e tiene questa nostra provin-
cia divisa. E veramente, alcuna provincia
non fu mai unita o felice, se la non
viene tutta alla obedienza d’ una repub-
blica o d’uno principe, come è avvenuto
alla Francia cd alla Spagna. E la ca-
gione che la Italia non sia in quel me-
desimo termine, nè abbia aneli’ ella o
una repubblica o uno principe che la
governi, è solamente la Chiesa ; perchè,
avendovi abitalo e tenuto imperio tem-
94
DEI DISCORSI
ponile, non è stata sì potente nè dì tal
virtù, che l'abbia potuto occupare il re-
stante d’Italia, e farsene principe; e
non è stata, dall’altra parte, si debile,
che, per paura di non perder il domi-
nio delie cose temporali, la non abbi
potuto convocare uno potente che la di-
fenda contra a quello che in Italia fusse
diventato troppo potente: come si è ve-
duto anticamente per assai esperienze,
quando mediante Carlo Magno la ne cac-
ciò i Lombardi, eh’ era no già quasi re
di tutta Italia; e quando ne’ tempi no-
stri ella tolse la potenza a’ Veneziani con
l’aiuto di Francia; dipoi ne cacciò i
Franciosi eoa l’aiuto de’ Svizzeri. Non
essendo, dunque, stata la Chiesa potente
da potere occupare l’ Italia, nè avendo
permesso che un altro la occupi, è stata
cagione che la non è potuta venire sotto
un capo; ma è stata sotto più principi
e signori, da’ quali è nata tanta disu-
nione e tanta debolezza, che la si è con-
dotta ad essere stata preda, non sola-
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LIBRO PRIMO. 95
melile di barbari polenti, ma di qualun-
que I* assalta. Di clic noi altri Italiani
abbiamo obbligo con la Chiesa, c non
con altri. E chi ne volesse per esperienza
certa vedere più pronta la verità, biso-
gnerebbe che fusse di tanta potenza, che
mandasse ad abitare la corte romana, con
l’autorità che l’ha in Italia, in le terre
de’ Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli
popoli che vivono, e quanto alla religione
e quanto agli ordini militari, secondo gli
antichi : e vedrebbe che in poco tempo
furebbero più disordine in quella pro-
vincia i costumi tristi di quella corte,
che qualunchc altro accidente clic in
qualunche tempo vi potessi surgere.
Cap. XIII. — Come t Romani si servi-
rono della religione per ordinare la
città, e per seguire le loro imprese e
fermare i tumulti.
Ei non mi pare fuor di proposito ad-
durre alcuno esempio dove i Romani si
SJ6 DEI DISCORSI
servirono della religione per riordinare
la cillà, e per seguire l’imprese loro; e
quantunque in Tito Livio ne siano molti,
nondimeno voglio essere contento a que-
sti. Avendo creato il Popolo romano i
Tribuni, di potestà consolare, e, fuorché
uno, tutti plebei; ed essendo occorso
quello anno peste c fame, e venuti certi
prodigii ; usorono questa occasione i No-
bili nella nuova creazione de’ Tribuni,
dicendo che li Dii erano adirati per aver
Roma male usata la maestà del suo im-
perio, e che non era altro rimedio a
placare gli Dii, che ridurre la elezione
de’ Tribuni nel luogo suo: di che nacque
che la Plebe, sbigottita da questa reli-
gione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi
ancora nella espugnazione della città
de’ Ycienti, come i capitani degli eserciti
si valevano della religione per tenergli
disposti ad una impresa : ehè essendo il
lago Albano, quello anno, cresciuto mira-
bilmente, ed essendo i soldati romani in-
fastiditi per la lunga ossidione, e volendo
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LIBRO PRIMO. 97
tornarsene a Roma, trovarono i Romani,
come Apollo e certi altri responsi dicevano
che quell* anno si espugnerebbe la città
de’ Veienti, che si derivasse il Ingo Albano :
la qual cosa fece ai soldati sopportare i
fastidi della guerra e della ossidione,
presi da questa speranza di espugnare
la terra ; e stettono contenti a seguire la
impresa, tanto che Cammillo fatto Ditta-
tore espugnò detta città, dopo dieci anni
che l’era stala assediata. E cosi la reli-
gione, usata bene, giovò e per la espu-
gnazione di quella città, e per la resti-
tuzione dei Tribuni nella Nobiltà: chè
senza detto mezzo difficilmente si sa-
rebbe condotto e l’uno e l’altro. Non
voglio mancare di addurre a questo
proposito un altro esempio. Erano nati
in Roma assai tumulti per cagione di
Terentillo Tribuno, volendo lui promul-
gare certa legge, per le cagioni che di
sotto nel suo luogo si diranno ; e tra i
primi rimedi che vi usò la Nobiltà, fu
la religione: della quale si servirono in
SI achutelli, Discorsi. — !• 7
Digitized by C
DEI DISCORSI
y.s
duo modi. Nel primo fecero vedere i li-
bri Sibillini, e rispondere, come alla
città, mediante la civile sedizione, sopra-
stavano quello anno pericoli di non per-
dere la libertà : la qual cosa, ancora che
fusse scoperta da’ Tribuni, nondimeno
messe tanto terrore ne* petti della plebe,
che la raffreddò nel seguirli. L’altro
modo fu, che avendo uno Appio Erdo-
nio, con una moltitudine di sbanditi e
di servi, in numero di quattromila uo-
mini, occupato di notte il Campidoglio,
in tanto che si poteva temere, che se
gli Equi ed i Volsci, perpetui nemici al
nome romano, ne fossero venuti a Ro-
ma, la arebbono espugnata ; e non ces-
sando i Tribuni per questo di insistere
nella pertinacia loro di promulgare la
legge Terentilla, dicendo che quello in-
sulto era fittizio c non vero: uscì fuori
del Senato uno Publio Rubezio, cittadino
grave e di autorità, con parole parte
amorevoli, parte minacciatiti, mostran-
doli i pericoli della città, e la intempe-
~
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LIBRO PRIMO.
99
stiva domanda loro; tanto che e’ con-
strinse la Plebe a giurare di non si par-
tire dalla voglia del Consolo: onde che
la Plebe obediente, per forza ricuperò
il Campidoglio. Ma essendo in tale espu-
gnazione morto Publio Valerio consolo,
subito fu rifatto consolo Tito Quinzio; il
quale per non lasciare riposare la Plebe,
nè darle spazio a ripensare alla legge Te-
rentilla, le comandò s’ uscissi di Roma
per andare contra a’ Volsci, dicendo che
per quel giuramento aveva fatto di non
abbandonare il Consolo, era obbligata a
seguirlo: a che i Tribuni si oppone-
vano, dicendo come quel giuramento
s’era dato al Consolo morto, e non a
lui. Nondimeno Tito Livio mostra, come
la Plebe per paura della religione volle
più presto obedire al Consolo, che cre-
dere a’ Tribuni; dicendo in favore della
antica religione queste parole: Nondum
htiDPj quce nunc tenet sceculum, negli-
gcntict Dcùm venerai , nec interpretando
sibi quisque jasjurandum et legcs aplas
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100
DEI DISCORSI
faciebal. Per la qual cosa dubitando i
Tribuni di non perdere allora tutta la
lor degnila, si accordarono col Consolo
di stare alla obedienza di quello; e che
per uno anno non si ragionasse della
legge Terentilla, ed i Consoli per uno
anno non potessero trarre fuori la Plebe
alla guerra. E cosi la religione fece al
Senato vincere quella diffìcultà, che sen-
za essa mai non arebbe vinto.
Cap. XIV. — I Romani interpretavano
gli auspicii secondo la necessità , c
con la prudenza mostravano di osser-
vare la religione j quando forzali non
V osservavano ; c se alcuno (emwa-
riamente la dispregiava , lo punivano.
Non solamente gli auguri!, come di so-
pra si è discorso, erano il fondamento
in buona parte dell'antica religione
de’ Gentili, ma ancora erano quelli che
erano cagione del bene essere della Re-
pubblica romana. Donde i Romani ne
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LIBRO PRIMO. 101
uvevano più cura che di alcuno altro or-
dine di quella; ed usavangli ne’ comizi
consolari, nel principiare le imprese,
nel trai* fuori gli eserciti, nel fare le
giornate, ed in ogni azione loro impor-
tante, o civile o militare; nè maisareb-
bono iti ad una espedizionc, che non
avessino persuaso ai soldati che gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed infra
gli altri nuspicii, avevano negli eserciti
certi ordini di aruspici, che e’ chiama-
vano Pollarii: e qualunque volta eglino
ordinavano di fare la giornata col ne-
mico, volevano che i Pollarii fucessino
i loro auspicii; e beccando i polli, com-
battevano con buono augurio: non bec-
cando, si astenevano dalla zuffa. Nondi-
meno, quando la ragione mostrava loro
una cosa doversi fare, non ostante che
gli auspicii fossero avversi, la facevano
in ogni modo; ma rivoltavanla con
termini e modi tanto attamente, che
non paresse che la fucessino con di-
spregio dello religione : il quale ter-
102
DEI DISCORSI
mine fu usato da Papirio consolo in
una zuffa clic fece importantissima coi
Sanniti, dopo la quale restorno in lutto
deboli ed afflitti. Perchè sendo Papirio
in su’ campi rincontro ai Sanniti, e pa-
rendogli avere nella zuffa la vittoria
certa, e volendo per questo fare la gior-
nata, comandò ai Pollarii che fucessino
i loro auspicii; ma non beccando i polli,
e veggendo il principe de’ Pollarii la
gran disposizione dello esercito di -com-
battere, e la oppinione che era nei ca-
pitano cd in tutti i soldati di vincere,
per non torre occasione di bene operare
a quello esercito, riferi al Consolo come
gli auspicii procedevano bene: talché
Papirio ordinando le squadre, ed es-
sendo da alcuni de' Pollarii detto a certi
soldati, i polli non aver beccato, quelli
lo dissono a Spurio Papirio nipote del
Consolo; e quello riferendolo al Con-
solo, rispose subito, eh’ egli attendesse
a fare l’oflìzto suo bene, e che quanto
a lui ed allo esercito gli auspicii erano
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LIBRO PRIMO. J03
rolli; e se il Pollarlo aveva detto le bu-
gie, ritornerebbono in pregiudicio suo.
E perchè lo effetto corrispondesse al
pronostico, comandò ni legati clic con*
stituìssino i Pollarii nella primo fronte
della zuffa. Onde nacque che, andando
contra ai nemici, sendo da un soldato
romano tratto uno dardo, a caso am-
mazzò il principe de’ Pollarii; la qual
cosa udita il Console, disse come ogni
cosa procedeva bene, e col favore degli
Dii; perchè lo esercito con la morte di
quel bugiardo si era purgato da ogni
colpa, e da ogni ira che quelli avessi-
no preso contra di lui. E cosi, col sa-
pere bene accomodare t disegni suoi
agli auspicii, prese partito di azzuffarsi,
senza clic quello esercito si avvedesse
che in alcuna parte quello avesse ne-
gletti gli ordini della loro religione. Al
contrario fece Àppio Pillerò in Sicilia,
nella prima guerra punica: che volendo
azzuffarsi con P esercito cartaginese, fece
fare gli auspicii a’ Pollarii; e referendo-
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Ì
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104 DEI DISCORSI
gli quelli, come i polli non beccavano,
disse : veggiamo se volessero bere ; e
gli fece giUare in mare. Donde che, az-
zuffandosi, perdette la giornata : di che
egli ne fu a Roma condennato, e Papirio
onorato; non tanto per aver V uno vinto
e P altro perduto, quanto per aver 1’ uno
fatto contra agli auspicii prudentemente
e l’altro temerariamente. Nè ad altro
line tendeva questo modo dello aruspi-
care, che di fare i soldati confidente-
mente ire alla zuffa ; dalla quale confi-
denza quasi sempre uasce la vittoria. La
qual cosa fu non solamente usala dai
Romani, ma dalli esterni : di che mi pare
di addurre uno esempio nel seguente
capitolo.
Cap. XV. — Come i Sanniti, per estre-
mo rimedio alle cose loro afflitte, ri -
corsono alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte dai
Romani, ed essendo stati per ultimo di-
4
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Linuo piumo. 105
strutti in Toscana, e morti i loro eserciti
e gli loro capitani ; ed essendo stali vinti i
loro compagni, come Toscani, Franciosi
ed Umbri ; ncc suis, nec extcrnis viri-
bus jam slare polcrant : t amen bello non
abstinebantj adeo ne infeliciler quidem
defensae libcrtatis tcedcbalj et vinci >
quarti non tentare victorianij malebant.
Onde deliberarono far ultima prova: e
perché ei sapevano che a voler vincere
era necessario indurre ostinazione negli
animi de’ soldati, c che a indurla non
v’ era miglior mezzo che la religione;
pensarono di ripetere uno antico loro sa-
crifìcio, mediante Ovio Faccio, loro sa-
cerdote. Il quale ordinarono in questa
forma : che, fatto il sacrificio solenne, e
fatto intra le vittime morte e gli altari
accesi giurare lutti i capi dello esercito,
di non abbandonare mai la zuffa, cita-
rono i soldati ad uno ad uno ; ed intra
quelli altari, nel mezzo di più centurioni
con le spade nude in mano, gli face-
vano prima giurare che non ridirebbono
I 0(1 DEI DISCORSI
cosa che vedessino o sentissino; dipoi,
con parole esecrabili e versi pieni di spa-
vento, gli facevano giurare e promettere
agli Dii, d’essere presti dove gli impe-
radori gli comandassino, c di non si fug-
gire mai dalla zuffa, e d’ ammazzare
qualunque vedessino che si fuggisse: la
qual cosa non osservata, tornasse sopra
il capo della sua famiglia e della sua
stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di
loro, non volendo giurare, subito da’ loro
centurioni erano morti; talché gli altri
che succedevano poi, impauriti dalla fe-
rocità dello spettacolo, giurarono tutti.
E per fare questo loro assembramento
più magnifico, sendo quarantamila uo-
mini, ne vestirono la metà di panni
bianchi, con creste e pennacchi sopra le
celate ; e così ordinati si posero presso
ad Aquilonia. Contra a costoro venne
Papirio; il quale, nel confortare i suoi
soldati, disse: Non enim crislas vulnera
facere, et pietà alque aurata scuta tran-
sirc ttomanum pileum. E per debilitare
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nono primo. 407
la oppinione clic avevano i suoi soldati
de’ nemici per i) giuramento. preso, disse
che quello era per essere loro a timore,
non a fortezza; perchè in quel medesi-
mo tempo avevano uvere paura de’ cit-
tadini, degli Dii, c de* nemici. E venuti
al conflitto, furono superati i Sanniti;
perchè la virtù romana, ed il timore
conccputo per le passate rotte, superò
qualunque ostinazione ei potessino avere
presa per virtù della religione e per il
giuramento preso. Nondimeno si vede
come a lóro non parve potere avere al-
tro rifugio, nè tentare altro rimedio a
poter pigliare speranza di ricuperare la
perduta virtù. Il che testifica appieno,
quanta confidcnzia si possa avere me-
diante la religione bene usata. E benché
questa parte piuttosto, per avventura, si
richiederebbe esser posta intra le cose
estrinseche ; nondimeno, dependendo da
uno ordine de’ più importanti della
Repubblica di Roma, mi è parso da
commetterlo in questo luogo, per non
r*'
^7
108 DEI DISCORSI
dividere questa materia, cd averci a
ritornare più volte.
Gap. XVI. — Un popolo uso a vìvere
sotto un principe, se per qualche ac-
cidente diventa libero, con difficultà
mantiene la libertà.
Quanta difficultà sia ad uno popolo
uso a vivere sotto un principe, preser-
vare dipoi la libertà, se per alcuno ac-
cidente l’acquista, come l’acquistò Ro-
ma dopo la cacciala de’Tarquini; io
dimostrano infiniti esempi che si leggono
nelle memorie delle antiche istorie. E
tale difficultà è ragionevole; perchè quel
popolo è non altrimenti che uno ani-
male bruto, il quale, ancora che di fe-
roce natura e silvestre, sia stato nu-
drito sempre in carcere ed in servitù,
che dipoi lasciato a sorte in una cam-
pagna libero, non essendo uso a pa-
scersi, nè sappiendo le latebre dove si
abbia a rifuggire, diventa preda del
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LIBRO PRIMO. Ì09
primo che cerca rincatenarlo. Questo me-
desimo interviene ad uno popolo, il quale
setido uso a vivere sotto i governi d’al-
tri, non snppiendo ragionare nè delle
difese o offese pubbliche, non cogno-
scendo i principi nè essendo conosciuto
ila loro, ritorna presto sotto un giogo,
il quale il più delle volte è più grave
che quello che per poco innanzi si aveva
levato d’ in su ’1 collo : e trovasi in que-
ste difficullà, ancora che la materia non
sia in tutto corrotta; perchè in uno
popolo dove in lutto è entrata la corru-
zione, non può, non che picciol tempo,
ma punto vivere libero, come di sotto si
discorrerà: e però i ragionamenti no-
stri sono di quelli popoli dove la corru-
zione non sia ampliata assai, c dove sia
più del buono che del guasto. Aggiun-
gesi alla soprascritta, un’ altra difficultò;
la quale è, che lo Stato che diventa li-
bero, si fa partigiani nemici, e non
partigiani amici. Partigiani nemici gli
diventano tutti coloro che dello Stalo ti-
no
dei dìscorsi
Tannico si prevalevano, pascendosi delle
ricchezze del principe; a’ quali sendo
tolta la facoltà del valersi, non possono
vivere contenti, e sono forzati ciascuno
di tentare di riassumere la tirannide,
per ritornare nell’ autorità loro. Non si
acquista, come ho detto, partigiani ami-
ci ; perchè il vivere libero propone onori
e premii, mediami alcune oneste e de-
. terminate cagioni, e fuori di quelle non
premia nè onora alcuno; e quando uno
ha quelli onori e quelli utili che gli pare
meritare, non confessa avere obbligo con
coloro che lo rimunerano. Oltre a que-
sto, quella comune utilità che del vivere
libero si trae, non è da alcuno, mentre
che ella si possiede, conosciuta: la quale
è di potere godere liberamente le cose
sue senza alcuno sospetto, non dubitare
dell’onore delle donne, di quel de’ fi-
gliuoli, non temere di sè; perchè nis-
suno confesserà mai aver obbligo con
uno che non 1’ offenda. Però, come di
sopra si dice, viene ad avere lo Stato
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LIBRO PRIMO.
libero c che «li nuovo surge, partigiani
non partigiani amici. E vo
nemici
lendo rimediare a questi inconvenienti,
c a quegli disordini che le soprascritte
diflìculta si arrecherebbono seco, non ci
è più potente rimedio, nè più valido, nè
più sano, nè più necessario, che am-
mazzare i figliuoli di Bruto: i quali,
come l’istoria mostra, non furono in-
dotti, insieme con altri gioveni romani,
n congiurare contra alla patria per al-
tro, se non perchè non si potevano va-
lere straordinariamente sotto i Consoli,
come sotto i Re; in modo che la libertà
di quel popolo pareva che fusse diven-
tata la loro servitù. E chi prende a go-
vernare una moltitudine, o per via„di
libertà o per via di principato, e non
si assicura di coloro che a quell’ ordine
nuovo sono nemici, fa uno Stato di poca
vita. Vero è ch’io giudico infelici quelli
principi, che per assicurare lo Stato loro
hanno a tenere vie straordinarie, avendo
per. nemici la moltitudine: perchè quello
112
DEI DISCORSI
che ha per nemici i pochi, facilmente
e senza molti scandali, si assicura; ma
chi ha per nemico 1’ universale, non si
assicura mai; e quanta più crudeltà usa,
tanto diventa più debole il suo princi*
palo. Talché il maggior rimedio che si
abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disformo
dal soprascritto, parlando qui d’ un
principe e quivi d’ una repubblica ; non-
dimeno, per non avere a tornare più in
su questa materia, ne voglio parlare bre-
vemente. Volendo, pertanto, un principe
guadagnarsi un popolo che gli fusse ne-
mico, parlando di quelli principi che
sono diventati della loro patria tiranni ;
dico eh’ ci debbe esaminare prima quello
che il popolo desidera, e troverà sem-
pre ch’ei desidera due cose; Y una ven-
dicarsi contro a coloro che sono cagione
che sia servo; l’altra di riavere la sua
libertà. Al primo desiderio il principe
può satisfare in tutto, al secondo in
parte. Quanto al primo, ce n’ è lo csem-
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LIBRO PRIMO.
m
pio appunto. Clearco, tiranno di Era-
elea, scudo in esilio, occorse che, per
controversia venuta intra il popolo e gli
ottimati di Eraclea, veggendosi gli otti-
mati inferiori, si volsono a favorire
Clearco, c congiuratisi seco lo missono,
contea alla disposizione popolare, in
Eraclea, c toisono la libertà al popolo.
In modo che, trovandosi Clearco intra
la insolenzia degli ottimati, i quali non
poteva in alcun modo nè contentare nè
correggere, c la rabbia de’ popolari, che
non potevano sopportare lo avere per-
duta la libertà, deliberò ad un tratto
liberarsi dal fastidio de’ grondi, c gua-
dagnarsi il popolo. E presa sopra que-
sto conveniente occasione, tagliò a pezzi
tutti gli ottimali, con una estrema sati-
sfazione de’ popolari. E così egli per que-
sta via satisfece ad una delle voglie che
hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma
quanto all’altro popolare desiderio di
riavere la sua libertà, non potendo il
principe satisfargli, debbe esaminare
Machiavelli, Discorsi. — 1.
Hi
DEI DISCORSI
quali cagioni sono quelle che gli fanno
desiderare d’essere liberi; e troverà che
una piccola parte di loro desidera d’es-
sere libera per comandare; ma tutti gli
altri, che sono infiniti, desiderano la li-
bertà per vivere securi. Perchè in tutte
le repubbliche, in qualunque modo or-
dinate, ai gradi del comandare non ag-
giungono mai quaranta o cinquanta cit-
tadini: e perchè questo è piccolo nu-
mero, è facil cosa assicurarsene, o con
levargli via* o con far lor parte di tanti
onori, che secondo le condizioni loro essi
abbino in buona parte a contentarsi.
Quelli altri, ai quali basta vivere securi,
si satisfanno facilmente, facendo ordini
e leggi, dove insieme con la potenza sua
si comprenda la sicurtà universale. E
quando uno principe faccia questo, e
che il popolo vegga che per accidente
nessuno ei non rompa tali leggi, comin-
cerà in breve tempo a vivere sccuro e
contento. In esempio ci è il regno di
Francia, il quale non vive securo per
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LIBItO PRIMO.
145
altro, che per essersi quelli Re obbligati
ad infinite leggi, nelle quali si com-
prende la securtn di tutti i suoi popoli.
E chi ordinò quello Stato, volle che quelli
Re, dell’ arme e del danaio facessino a
loro modo, ma che d’ogni altra cosa
non ne potessino altrimenti disporre che
le leggi si ordinassino. Quello principe,
adunque, o quella repubblica che non
si assicura nel principio dello stato suo,
conviene che si assicuri nella prima oc-
casione, come fecero i Romani. Chi lascia
passare quella, si pente tardi di non
aver fatto quello che doveva fare. Sendo,
pertanto, il popolo romano ancora non
corrotto quando ci recuperò la libertà,
potette mantenerla, morti i figliuoli di
Bruto e spenti i Tarquini, con tutti
quelli rimedi ed ordini che altra volta
si sono discorsi. Ma se fussc stato quel
popolo corrotto, nè in Roma nè altrove
si trovano rimedi validi a mantenerla;
come nel seguente capitolo mostreremo.
IIG
DEI DISCORSI
Cai». XVII. — Uno popolo coitoIIo , ve-
nuto in libertà, si può con difficullà
( grandissima mantenere libera.
lo giudico che gli era necessario, o
die i Re si estinguessino in Roma, o che
Roma in brevissimo tempo divenissi de-
bole, e di nessuno valore: perchè, con-
siderando a quanta corruzione erano
venuti quelli Re, se l'ussero seguitati
così due o tre successioni, e che quella
corruzione che era in loro, si fossi co-
minciata a distendere per le membra;
come le membra fussino state corrotte,
era impossibile mai più riformarla. Ma
perdendo il capo quando il busto era
intero, poterono facilmente ridursi a vi-
vere liberi cd ordinati. E debbesi pre-
supporre per cosa verissima, che una
città corrotta che vive sotto un prin-
cipe, ancora che quel principe con tutta
la sua stirpe si spenga, inai non si può
ridurre libera; anzi conviene che Putì
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LIBRO PRIMO. 117
principe spenga l’ allro; e senza crea-
zione d’un nuovo signore non si posa
mai, se già la bontà d’ uno, insieme con
la virtù, non la tenessi libera ; ma du-
rerà tanto quella libertà, quanto durerà
la vita di quello: come intervenne a Si-
racusa di Dione e di Timoleone, la virtù
de’ quali in diversi tempi, mentre vis-
sero, tenne libera quella città; morti clic
furono, si ritornò nell'antica tirannide.
Ma non si vede il più forte esempio che
quello di Roma; la quale cacciati i Tar-
quini, potette subito prendere e mante-
nere quella libertà: ma morto Cesare,
morto Caligula, morto Nerone, spenta
tutta la stirpe cesarea, non potette inai,
non solamente mantenere, ma pure dare
principio alla libertà. Nè tanta diversità
di evento in una medesima città nacque
da altro, se non da non essere ne’ tempi
de’Tarquini il popolo romano ancora
corrotto; ed in questi ultimi tempi es-
sere corrottissimo. Perchè allora, a man-
tenerlo saldo e disposto a fuggire i Re,
iis
DEI DISCORSI
bastò solo furio giurare che non eon-
sentirebbe mai che a Roma alcuno re-
gnasse; e negli altri tempi, non bastò
T autorità e severità di Bruto, con tutte
le legioni orientali, a tenerlo disposto a
volere mantenersi quella libertà che es-
so, a similitudine del primo Bruto, gli
aveva rendutu. Il che nacque da quella
corruzione che le parli mariane avevano
messa nel popolo; delle quali essendo
capo Cesare potette accecare quella mol-
titudine, eh* ella non conobbe il giogo
che da sè medesima si metteva in sul
collo. E benché questo esempio di Roma
sia da preporre a qualunque altro esem-
pio, nondimeno voglio a questo proposito
addurre innanzi popoli conosciuti ne* no-
stri tempi. Pertanto dico, che nessuno ac-
cidente, benché grave e violento, potrebbe
redurre mai Milano o Napoli libere, per
essere quelle membra tutte corrotte. H
che si vide dopo la morte di Filippo Vi-
sconti; che volendosi ridurre Milano alia
libertà, non potette e non seppe man-
LIBRO PRIMO. i i 9
tenerla. Però, fu felicità grande quella
di Koma, che questi Re diventassero
corrotti presto, acciò ne fussino cacciati,
cd innanzi che la loro corruzione fosse
passata nelle viscere di quella città: la
quale incorruzione fu cagione che gl’ in-
finiti tumulti che furono in Roma, avendo
gli uomini il fine buono, non nocerouo,
anzi giovarono alla Repubblica. E si può
fare questa conclusione, che dove la
materia non è corrotta, i tumulti cd
altri scandali non nuòcono: dove la è
corrotta, le leggi bene ordinate non gio-
vano, se già le non son mosse da uno
che con una estrema forza le facci os-
servare, tanto che la materia diventi
buona. Il che non so se sie mai inter-
venuto, o se fusse possibile ch’egli in-
tervenisse: perchè c’ si vede, come poco
di sopra dissi, che una città venuta in
declinazione per corruzione di materia,
se mai occorre che la si levi, occorre
per la virtù d’ uno uomo eh’ è vivo al-
lora, non per la virtù dello universale
DEI DISCORSI
1 20
clic sostengo gli ordini buoni ; c subito
che quei tale è morto, la si ritorna nei
suo pristino abito; come intervenne a
Tebe, la quale per la virtù di Epami-
nonda, mentre lui visse, potette tenere
forma di repubblica e di imperio ; ma
morto quello, la si ritornò ne’ primi di-
sordini suoi. La cagione è, che non può
essere un uomo di tanta vita, che ’l
tempo basti ad avvezzare bene una città
lungo tempo male avvezza. E se uno
d’ una lunghissima vita, o due succes-
sioni virtuose conlinove non la dispon-
gono; come una manca di loro, come
di sopra è detto, subito rovina, se già
con molti pericoli c molto sangue c’ non
la facesse rinascere. Perchè tale corru-
zione e poca attitudine olla vita libera,
nasce da una inequulità che è in quella
città: e volendola ridurre equale, è ne-
cessario usare grandissimi estraordi-
nari; i quali pochi sanno o vogliono
usare, come in altro luogo più partico-
larmente si dirà.
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LIBRO PRIMO.
Cap. XVIII. — In che modo «ci.c; min
corrotte si potesse mantenere tino stalo
liòerOj essendovi; o non essendovi ,
ordinartelo.
Io credo clic non sia fuori di propo-
sito, nè disformo dal soprascritto di-
scorso, considerare se in una città cor-
rotta si può mantenere lo stato libero,
scndovi ; o quando e’ non vi fosse, se
vi si può ordinare. Sopra la qual cosa
dico, come gli è mollo difficile fare o
l’uno o l' altro: e benché sia quasi im-
possibile darne regola, perchè sarebbe
necessario procedere secondo i gradi
della corruzione; nondimnneo, essendo
bene ragionare d’ogni cosa, non voglio
lasciare questa indietro. E presuppongo
una città corrottissima, donde verrò ad
accrescere più tale difficoltà; perché non
si trovano nè leggi nè ordini che ba-
stino a frenare una universale corru-
zione. Perchè, così come gli buoni co-
122
DEI DISCORSI
stumf, per mantenersi, hanno bisogno
delle leggi; cosi le leggi, per osservarsi,
hanno bisogno de’ buoni costumi. Oltre
di questo, gli ordini e le leggi fatte in
una repubblica nel nascimento suo,
quando erano gli uomini buoni, non sono
dipoi più a proposito, divenuti che sono
tristi. E se le leggi secondo gli accidenti
in una città variano, non variano mai,
0 rade volte, gli ordini suoi: il che fa
che le nuove leggi non bastano, perchè
gli ordini, che stanno saldi, le corrom-
pono. E per dare ad intendere meglio
questa parte, dico come in Roma era
l’ordine del governo, o vero dello Stato;
c le leggi dipoi, che con i magistrati
frenavano i cittadini. L’ordine dello
Stato era l’ autorità del Popolo, del Se-
nato, dei Tribuni, dei Consoli, il modo
di chiedere e del creare i magistrati,
ed il modo di fare le leggi. Questi or-
dini poco o nulla variarono nelii acci-
denti. Variarono le leggi che frenavano
1 cittadini; come fu la legge degli adul-
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LIBRO PRIMO. 123
feri!, la suntuaria, quella della ambi-
zione, e molte altre ; secondo clic di
mano in mano i cittadini diventavano
corrotti. Ma lenendo fermi gli ordini
dello Stato, che nella corruzione non
erano più buoni, quelle leggi che si rin-
novavano, non bastavano a mantenere
gli uomini buoni; ma sarebbonn bene
giovate, se con la innovazione delle leggi
si fussero rimutati gli ordini. G che sia
il vero che tali ordini nella- città cor-
rotta non fossero buoni, e’ si vede
espresso in due capi principali. Quanto
al creare i magistrati e le leggi, non
dava il Popolo romano il consolato, e gli
altri primi gradi della città, se non a
quelli che lo dimandavano. Questo or-
dine fu nel principio buono, perchè
e’ non gli domandavano se non quelli
cittadini che se ne giudicavano degni,
ed averne la repulsa era ignominioso;
si che, per esserne giudicati degni, cia-
scuno operava bene. Diventò questo
modo, poi, nella città corrotta pernizio*
424
DEI DISCORSI
-f7
sissiiuo ; perchè non quelli che avevano
più virtù, ma quelli che avevano più
potenza, domandavano i magistrali; e
gl’ impotenti, comecché virtuosi, se ne
astenevano di domandargli per paura.
Vcnnesi a questo inconveniente, non ad
un tratto, ma per i mezzi, come si cade
in tutti gli altri iuconveiiienti : perchè
avendo i Romani domata l’Affrica e l’Asia,
e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ohi*
dienza, erano divenuti sicuri della li-
bertà loro, nè pareva loro avere più
nimici che dovessero fare loro paura.
Questa securtà e questa debolezza de’ ne-
mici fece che il Popolo romano, nel dare
il consolato, non riguardava più la virtù,
ma la grazia ; tirando a quel grado
quelli che meglio sapevano iutrattenere
gli uomini, non quelli che sapevano me-
glio vincere i nemici: di poi, da quelli
che avevano più grazia, discesero a dar-
gli a quelli che avevano più potenza;
talché i buoni, per difetto di tale ordi-
ne, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva
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LIBRO PRIMO. 425
uno Tribuno, e qualunque altro citta-
dino, proporre al Popolo una legge; so-
pra la quale ogni cittadino poteva par-
lare, o in favore o incontro, innanzi che
la si deliberasse. Era questo ordine buo-
no, quando i cittadini erano buoni ; per-
che sempre fu bene, che ciascuno clic
intende uno bene per il pubblico, lo
possa proporre; ed è bene che ciascuno
sopra quello possa dire l’oppinione sua,
acciocché il Popolo, inteso ciascuno,
possa poi eleggere il meglio. Ma diven-
tati i cittadini cattivi, diventò tale or-
dine pessimo, perchè solo i potenti pro-
ponevano leggi, non per la comune li-
bertà, ina perla potenza loro;ccontra
a quelle non poteva parlare alcuno per
paura di quelli : talché il Popolo veniva
o ingannato o sforzato a deliberare la
sua rovina. Ero necessario, pertanto, a
volere che Roma nella corruzione si
mantenesse libera, che, cosi come aveva
nel processo del vivere suo fatte nuove
leggi, l’avesse fatti nuovi ordini: per-
126 DEI DISCORSI
«thè altri ordini e modi di vivere si
debbe ordinare in un soggetto cattivo,
che in un buono ; nè può essere la for-
ma simile in una materia al tutto con-
traria. Ma perchè questi ordini, o e’ si
hanno a rinnovare tutti ad un tratto,
scoperti che sono non esser più buoni,
o a poco a poco, in prima che si co-
noschiuo per ciascuno ; dico che 1* una
e l’altra di queste due cose è quasi im-
possibile. Perchè, a volergli rinnovare
a poco a poco, conviene che ne sia ca-
gione uno prudente, che veggio questo
inconveniente assai discosto, e quando
e’ nasce. Di questi tali è facilissima cosa
che in una città non ne surga mai nes-
suno : e quando pure ve ne surgesse,
non potrebbe persuadere mai ad altrui
quello che egli proprio intendesse; per-
chè gli uomini usi a vivere in un mo-
do, non lo vogliono variare; e tanto più
non veggiendo il male in viso, ma avendo
ad essere loro mostro per con letture.
Quando ad innovare questi ordini ad un
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LIBRO PRIMO. I 27
(ratio, quando ciascuno conosce clic non
sono buoni, dico che questa inutilità,
clic facilmente si conosce, è diffìcile a
ricorreggerla: perchè a fare questo, non
basta usare termini ordinari, essendo i
modi ordinari cattivi; ma è necessario
venire allo istraordinario, come è alla
violenza ed all’ armi, e diventare in*
nanzi ad ogni cosa principe di quella
città, e poterne disporre a suo modo. E
perchè il riordinare una città al vivere
politico presuppone uno uomo buono,
ed il diventare per violenza principe di
una repubblica presuppone un uomo
cattivo; per questo si troverà che radis-
sime volte accaggia, che uno uomo buono
voglia diventare principe per vie cattive,
ancoraché il fine suo fusse buono; e che
uno reo divenuto principe, voglia ope-
rare bene, e che gli caggia mai nell’ani-
mo usare quella autorità bene, che egli
ha male acquistata. Da tutte le sopra-
scritte cose nasce la diffìcultà, o impos-
sibilità, che è nelle città corrotte, a
1*28
DKI DISCORSI
mantenervi una repubblica, o a crear-
vela di nuovo. E quando pure la vi si
avesse a creare o a mantenere, sarebbe
necessario ridurla più verso lo stato re-
gio, che verso lo stato popolare; accioc-
ché quelli uomini i quali dalle leggi, per
la loro insolenzia, non possono essere
corretti, lusserò da una podestà quasi
regia in qualche modo frenati. Ed a vo-
lergli fare per altra via diventare buo-
ni, sarebbe o crudelissima impresa, o
al tutto impossibile; come io dissi di so-
pra che fece Cleomene; il quale se, per
essere solo, ammazzò gli Efori; e se Ro-
molo, per le medesime cagioni, ammazzò
il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi
usarono bene quella loro autorità ; non-
dimeno si debbe avvertire che V uno e
T altro di costoro non avevano il sog-
getto di quella corruzione macchiato
della quale in questo capitolo ragionia-
mo, e però poterono volere e, volendo,
colorire il disegno loro.
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Linno primo.
Cai*. XIX. — Dopo uno eccellente prin-
cipio si può mantenere un principe
debole ; ma dopo un debole, non si
può con un (diro debole mantenere
alcun regno.
» jt 4 I* f..« I n i f < K F ijk | • * (•»
Considerato la virtù ed il modo del
procedere di Romolo, Ninna c di Tulio,
i primi tre Re romani; si vede come
Roma sortì una fortuna grandissima,
avendo il primo Re ferocissimo e belli-
coso, 1’ altro quieto e religioso, il terzo
simile di ferocia a Romolo, e più ama-
tore della guerra che della pace. Perchè
in Roma era necessario che surgesse
ne’ primi principii suoi un ordinatore
«lei vivere civile, ina era bene poi
necessario che gli altri Re ripiglias-
sero la virtù di Romolo; altrimenti,
quella città sarebbe diventala effeminata,
e preda de’ suoi vicini. Donde si può
notare, che uno successore non di tanta
virtù quanto il primo, può mantenere
• è 9
Machiavelli, Discorm. — ».
1 30
DE! DISCORSI
uno Stato per la virtù di colui che PIm
retto innanzi, e si può godere te sue
fatiche: ma s’ egli avviene o che sia di
lunga vita, o che dopo lui non surga
un altro che ripigli la virtù di quel pri-
mo, è necessitato quel regno a rovinare.
Cosi, per il contrario, se due, 1* uno dopo
P altro, sono di gran virtù, si vede spesso
che fanno cose grandissime, e che ne
vanno con la fama in fino al cielo. Da-
vit, senza dubbio, fu un uomo per arme,
per dottrina, per giudizio eccellentissi-
mo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo
vinti ed abbattuti tutti i suoi vicini, la-
sciò a Salomone suo figliuolo un regno
pacifico: quale egli si potette con le arti
«Iella pace, e non della guerra, conser-
vare; e si potette godere felicemente la
virtù di suo padre. Ma non potette già
lasciarlo a Roboan suo figliuolo; il quale
non essendo per virtù simile allo avolo,
nè per fortuna simile al padre, rimase
con fatica erede della sesta parte del
rt'guo. Baisit, sultan de’ Turchi, ancora
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LIBRO PRIMO. 131
die fusse più amatore della pace che
della guerra, potette godersi le fatiche
di Maumelto suo padre; il quale avendo,
come Davit, battuti i suoi vicini, gli la-
sciò un regno fermo, e da poterlo con
F arte della pace facilmente conservare.
Ma se il figliuolo suo Salì, presente si-
gnore, fusse stalo simile al padre, c non
all’avolo, quel regno rovinava : ma e’ si
vede costui essere per superare la glo-
ria dell'avolo. Dico pertanto con questi
esempi, clic dopo uno eccellente principe
si può mantenere un principe debole;
ma dopo un debole non si può con un
altro debole mantenere alcun regno, se
già e’ non fusse come quello di Francia,
che gli ordini suoi antichi lo mantenes-
sero: e quelli principi sono deboli, che
non stanno in su la guerra. Couchiudo
pertanto con questo discorso, clic la
virtù di Romolo fu tanta, che la po-
tette dare spazio a Numa Pompilio di
potere molti anni con 1’ arte della pace
reggere Roma : ma dopo lui successe
DEI DISCORSI
13*2
Tulio, il quale pei* la sua ferocia ri-
prese la reputazione di Romolo: dopo
il quale venne Anco, in modo dalla na-
tura dotato, che poteva usare la pace,
e sopportare la guerra. E prima si di-
rizzò a volere tenere la via della pace:
ma subito conobbe come i vicini, giu-
dicandolo effeminato, lo stimavano poco:
talmente che pensò che, a voler mante-
nere Roma, bisognava volgersi alla guer-
ra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esempio tutti i prin-
cipi che tengono stato, che chi somi-
glierà Numa, lo terrà o non terrà, se-
condo ehe i tempi o la fortuna gli girerà
sotto: ma chi somiglierà Romolo, e lui
come esso armato di prudenza e d’armi,
lo terrà in ogni modo, se da una osti-
nata ed eccessiva forza non gli è tolto.
K certamente si può stimare, che se
Roma sortiva per terzo suo Re un uomo
che non sapesse con le armi renderle
la sua reputazione, non arebbe mai poi,
o con grandissima dilTìcultà, potuto pi-
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LIBRO PRIMO. 133
gliare piede, nè fare quelli effetti ch’ella
fece. E così, in mentre eh’ ella visse sotto
i Re, la portò questi pericoli di rovi-
nare sotto un Re o debole o tristo.
Cap. XX. — Due continove successioni di
principi virtuosi fanno grandi effetti:
c come le repubbliche bene ordinate
hanno di necessità virtuose successio-
ni: c però gli acquisti ctl auQumcnli
loro sono grandi.
Poi che Roma ebbe cacciati i Re, mancò
di quelli pericoli i quali di sopra
detti che la portava, succedendo in lei
uno Re o debole o tristo. Perchè la
somma dello imperio si ridusse nc’ Con-
soli, i quali non per eredità o per in-
ganni o per ambizione violenta, ma per
suffragi liberi venivano a quello impe-
rio, ed erano sempre uomini eccellen-
tissimi: de’quali godendosi Roma la virtù
e la fortuna di tempo in tempo, potette
venire a quella sua ultima grandezza in
DEI DISCORSI
IU
altrettanti unni, che la era stata sotto i
Re. Perchè si vede, come due coutinove
successioni di principi virtuosi sono suf-
fìzienti ad acquistare il mondo: come fu-
rono Filippo di Macedonia ed Alessandro
Magno, il clic tanto più debbe fare una
repubblica, avendo il modo dello eleg-
gere non solamente due successioni, ma
infiniti principi virtuosissimi, che sono
l’uno dell'altro successori: la quale vir-
tuosa successione fia sempre in ogni re-
pubblica bene ordinata.
Cap. XXI. — Quanto biasimo meriti quel
principe e quella repubblica che manca
d'armi proprie.
Debbono i presenti principi c le mo-
derne repubbliche, le quali circa le di-
fese ed offese mancano di soldati pro-
pri, vergognarsi di loro medesime j e
pensare, con lo esempio di Tulio, tale
difetto essere non per mancamento d’uo-
mini alti alla milizia, ma per colpa loro,
.-J
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LIBRO PRIMO. 135
che non hanno saputo fare i loro uo-
mini militari. Perchè Tulio, scudo stata
Roma in pace quaranta anni, non trovò,
succedendo lui nel regno, uomo che fussc
stato mai alla guerra : nondimeno, dise-
gnando lui fare guerra, non pensò di
valersi nè di Sanniti, nè di Toscani, nè
di altri che fussero consueti stare nel-
l'armi; ma deliberò, come uomo pru-
dentissimo, di valersi de’ suoi. E fu tanta
la sua virtù, che in un tratto il suo go-
verno gli potè fare soldati eccellentissi-
mi. Ed è più vero che alcuna altra ve-
rità, che se dove sono uomini non sono
soldati, nasce per difetto del principe,
e non per altro difetto o di sito o di
natura : di che ce n’*è uno esempio fre-
schissimo. Perchè ognuno sa, come
ne’ prossimi tempi il re d’Inghilterra as-
saltò il regno di Francia, nè prese altri
soldati clic i popoli suoi ; e per essere
stato quel regno più clic trenta anni
senza far guerra, non aveva nè soldato
nè capitano che avesse mai militato:
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13G DEI DISCORSI
nondimeno, ei non dubitò con quelli as-
saltare uno regno pieno di capitani e
di buoni eserciti, i quali erano stati
continovamcnte sotto l'armi nelle guerre
d’Italia. Tutto nacque da essere quel re
prudente uomo, e quel regno bene ordi-
nato; il quale nel tempo della pace non
intermette gli ordini della guerra. Pelo-
• pida ed Epaminonda tebani, poiché gli
* ebbero libera Tebe, e trattola dalla ser-
vitù dello imperio spartano; trovandosi
in una città usa a servire, ed in mezzo
di popoli effeminati ; non dubitarono,
tanta era la virtù loro ! di ridurgli sotto
Parrai, e con quelli andare a trovare
alla campagna gli eserciti spartani, e
vincergli : e chi he scrive, dice come
questi due in breve tempo mostrarono,
che non solamente in bacedemonia na-
scevano gli uomini di guerra, ma in ogni
altra parte dove nascessino uomini,
pur che si trovasse chi li sapesse indi-
rizzare alla milizia, come si vede che
Tulio seppe indirizzare i Romani. E Vir-
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LIRR0 PRIMO.
gilio non potrebbe meglio esprimere
questa oppinione, nè con altre parole
mostrare di aderirsi a quella, dove dice:
u ... . Desidesque movebit
Tullus in arma viros. „
Cap. XXII. — Quello che sia da notare
nel caso dei tre Orazi romani , e dei
Ire Curiazi albani.
Tulio, re di Roma, e Mezio, re di Al-
ba, convennero che quel popolo fusse si-
gnore dell’ altro, di cui i soprascritti tre
uomini vincessero. Furono morti tutti i
Curiazi albani, restò vivo uno degli
Orazi romani; e per questo, restò Me-
zio, re albaiio, con il suo popolo, sug-
gello ai Romani. E tornando quello Ora-
zio vincitore in Roma, e scontrando una
sua sorella, che era ad uno de’ tre Cu-
riazi morti maritata, clic piangeva la
morte del marito; 1* ammazzò. Donde
quello Orazio per questo fallo fu messo'
in giudizio, e dopo molte dispute fu li*
13S
DEI DISCORSI
bero, più per li prìeglii del padre, clic
per li suoi meriti. Dove sono da notare
Ire cose: una, che mai non si debbe
con parte delle sue forze arrischiare
tutta la sua fortuna ; l’ altra, che non
mai in una città bene ordinata li dev
meriti con li ineriti si ricompensano; la
terza, che non mai sono i partiti savi,
dove si debba o possa dubitare della
inosservanza. Perchè, gl’ importa tanto
a una città lo essere serva, che mai non
si doveva credere che alcuno di quelli
Re o di quelli Popoli stessero contenti
che tre loro cittadini gli avessino sotto*
messi ; come si vide che volle fare Me-
zio: il quale, benché subito dopo la vit-
toria de’ Romani si confessassi vinto, e
promettessi la obedienza a Tulio; non-
dimeno nella prima espedizione che egli
ebbono a convenire contra i Veienli, si
vide come ci cercò d’ ingannarlo ; come
quello che tardi s’era avveduto della
temerità del partito preso da lui. E per-
chè di questo terzo notabile se n’’è pnr-
j
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LIBRO PRIMO. 139
luto assai, parleremo solo degli altri due
ne’ seguenti duoi capitoli.
Cap. XXIII. — Che non si debbe met-
tere a pericolo tutta la fortuna e non
tutte le forze ; c per questo j spesso il
guardare i passi è dannoso.
Non fu mai giudicato partito savio
mettere a pericolo tutta la fortuna tua,
e non tutte le forze. Questo si fu in più
modi. L’uno è facendo come Tulio e Me-
zio, quando e’ commissouo la fortuna
tutta della patria loro, e la virtù di
tanti uomini quanti avea l’uno e l’altro
di costoro negli eserciti suoi, alla virtù e
fortuna di tre de’loro cittadini, clic veniva
ad essere una minima parte delle forze
di ciascuno di loro. Nè si avvidono, co-
me per questo partito tutta la fatica che
avevano durata i loro antecessori nel-
l’ ordinare la repubblica, per farla vivere
lungamente libera e per fare i suoi cit-
tadini difensori della loro libertà, era
DEI DISCORSI
uo
quasi che suta vana, stando nella po-
tenza di sì pochi a perderla. La qual cosa
da quelli Re non potè esser peggio con-
siderata. Cadesi ancora in questo incon-
veniente quasi sempre per coloro, che,
venendo il nemico, disegnano di tenere
i luoghi diffìcili, e guardare i passi: per-
chè quasi sempre questa deliberazione
sarà dannosa, se giù in quello luogo
diffìcile comodamente tu non potessi te-
nere tutte le forze tue. In questo caso,
tuie partito è da prendere; ma scndo il
luogo aspro, e non vi potendo tenere
tutte le forze tue, il partito è dannoso.
Questo mi fa giudicare cosi lo esempio
di coloro che, essendo assaltati da un
nemico potente, ed essendo il paese loro
circondato da’ monti e luoghi alpestri,
noti hanno mai tentato di combattere il
nemico in su’ passi e in su’ monti, ma
sono iti ad incontrarlo di là da essi: o,
quando non hanno voluto far questo, lo
hanno aspettato dentro a essi monti, in
luoghi benigni e non alpestri. E la cu-
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LIBRO MIMO. 141
gioite ne è suta la preallegata : perchè,
non si polendo condurre alla guardia
de’ luoghi alpestri molli uomini, sì per
non vi potere vivere lungo tempo, si
per essere i luoghi stretti e capaci di
pochi; non è possibile sostenere un ne-
mico clic venga grosso ad urtarti: ed al
nemico è facile il venire grosso, perchè
la intenzione sua è passare, e non fer-
marsi; ed a chi l’ aspetta è impossibile
aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi
per più tempo, non sapendo quando il
nemico voglia passare in luoghi, com’ io
ho detto, stretti e sterili. Perdendo,
adunque, quel passo che tu ti avevi
presupposto tenere, e nel quale i tuoi
popoli e lo esercito tuo confidava, entra
il più delle volte ne’ popoli e nel residuo
delle genti tue tanto terrore, che senza
potere esperimentare la virtù di esse,
rimani perdente; c così vieni ad avere
perduta tutta la tua fortuna con parte
delle tue forze. Ciascuno sa con quanta
diftìcultà Annibaie passasse r Alpi che
142 DEI DISCORSI
dividono la Lombardia dalia Francia, e
con quanta difficoltà passasse quelle che
dividono la Lombardia dalla Toscana :
nondimeno i Romani l’aspettarono prima
in sul Tesino, e dipoi uel piano d’Arez-
zo; e vollon più tosto, che il loro eser-
cito fusse consumato dal nemico nelli
luoghi dove poteva vincere, che con-
durlo su per l’Alpi ad esser destrutto
dalla malignità del sito. E chi leggerà
sensatamente tutte le istorie, troverà po-
chissimi virtuosi capitani over tentato
di tenere simili passi, e per le ragioni
dette, e perchè e' non si possono chiu-
dere tutti; sendo i monti come campa-
gne, ed avendo non solamente le vie
consuete e frequentate, ma molte altre,
le quali se non sono note a’ forestieri,
sono note a’ paesani ; con l’aiuto de’quali
sempre sarai condotto in qualunque luo-
go, contra alla voglia di citi ti si op-
pone. Di che se ne può addurre uno
freschissimo esempio, nel T 51 5 . Quando
Francesco re di Francia disegnava pas-
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LIBRO PRIMO.
Wò
sare in Italia per lu recuperatone dello
Stalo di Lombardia, il maggiore fonda-
mento clic facevano coloro eli’ erano alla
sua impresa contrari, era che gli Sviz-
zeri lo terrebbono a’ passi in su’ monti. E,
come per esperienza poi si vide, quel loro
fondamento restò vano: perché, lasciato
quel re da parte due o tre luoghi guardati
da loro, se ne venne per un’ altra via
incognita ; e fu prima in Italia, e loro ap-
presso, che lo avessino presentilo. Talché
loro isbigottiti si ritirarono in Milano, e
tutti i popoli di Lombardia si aderirono
alle genti franciose; sendo mancali di
quella oppinione avevano, che i Franciosi
dovessino essere tenuti su’ monti.
Cap. XXIV. — Le repubbliche bene or-
dinate costituiscono premii c pene
aJ loro cittadini; ne compensano mai
r uno con l* altro.
Erano stati i meriti di Orazio gran-
dissimi, avendo con la sua virtù vinti
1U
DLk uisconsi
i Curiazi. Era stato il fallo suo atroce,
avendo morto la sorella : nondimeno dis-
piacque tanto tale omicidio ai Romani,
che io condussero a disputare della vita,
non ostante che gli meriti suoi fossero
tanto grandi c sì freschi. La qual cosa
a chi superficialmente la considerasse,
parrebbe uno esempio d’ ingratitudine
popolare: nondimeno chi la esaminerà
meglio, e con migliore considerazione
ricercherà quali debbono essere gli or-
dini delle repubbliche, biasimerà quel
popolo più tosto per averlo assoluto,
che per averlo voluto condeunare. E la
ragione è questa, che nessuna repub-
blica bene ordinata, non mai cancellò i
demeriti con gli meriti de’ suoi cittadi-
ni; ma avendo ordinati i preraii ad
una buona opera e le pene ad una cat
tiva, ed avendo premiato uno per aver
bene operato, se quel medesimo opera
dipoi male, lo gastica, senza avere ri-
guardo alcuno alle sue buone opere. E
quando questi ordini sono bene osser-
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LIBRO PRIMO.
445
vati, una città vive libera molto tempo;
altrimenti, sempre rovinerà presto. Per-
chè, se ad un cittadino che abbia fatto
qualche egregia opera per la città, si
aggiugne, oltre alla riputazione che
quella cosa gli arreca, una audacia e
confidenza di potere, senza temer pena,
fare qualche opera non buona ; diven-
terà in brievc tempo tanto insolente, che
si risolverà ogni civilità. È ben neces-
sario, volendo clic sia temuta la pena
per le triste opere, osservare i premii
per le buone; come si vede che fece
Roma. C benché una repubblica sia po-
vera, e possa dare poco, debbe di quel
poco non astenersi; perchè sempre ogni
piccolo dono, dato ad alcuno per ricom-
penso di bene ancora che grande, sarà
stimato, da chi lo riceve, onorevole e
grandissimo. È notissima la istoria di
Orazio Code, e quella di Muzio Sccvola:
come V uno sostenne i nemici sopra un
ponte, tanto che si tagliasse: l’altro si
arse la mano, avendo errato, volendo
.VAcnuvELti, Discorsi. — 1. 10
140
DEI DISCORSI
ammazzare Porscna, re delli Toscani. A
costoro per queste due opere tanto egre-
gie, fu donato dal pubblico due staiora
di terra per ciascuno. È nota ancora la
istoria di Manlio Capitolino. A costui,
per aver salvato il Campidoglio da' Galli
che vi erano a campo, fu dato da quelli
che insieme eon lui vi erano assediati
dentro, una piccola misura di farina, il
quale premio, secondo la fortuna che al-
lora correva in Roma, fu grande; e di
qualità che, mosso poi Manlio, o da in-
vidia o dalla sua cattiva natura, a far
nascere sedizione in Roma, e cercando
guadagnarsi il popolo, fu, senza rispetto
alcuno de’ suoi meriti, gittato precipite
da quello Campidoglio ch’egli prima, cou
tanta sua gloria, aveva salvo.
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LIBRO PRIMO.
147
Cap. XXV. — Chi vuole riformare uno
stalo antico in una città libera, ri-
tenga almeno l’ombra desmodi an-
tichi.
Colui che desidera o clic vuole rifor-
mare uno stato d’una città, a volere elle
sia accetto, e poterlo con satisfazione di
ciascuno mantenere, è necessitato a ri-
tenere l’ombra almanco de’ modi anti-
chi, acciò che a’ popoli non paia avere
mutato ordine, ancora che in fatto gli
ordini nuovi fussero al tutto alieni dai
passati; perchè lo universale degli uo-
mini si pasce così di quel che pare, co-
me di quello che è; anzi molte volte si
muovono più per le cose che paiono,
che per quelle clic sono. Per questa ca-
gione i Romani, conoscendo nel princi-
pio del loro vivere libero questa neces-
sità, avendo in cambio d’ un Re creali
duoi Consoli, non vollono ch’egli aves-
sino più clic dodici littori, per non pas-
448
DEI DISCORSI
sare il numero di quelli che ministra-
vano ai Re. Olirà di questo, facendosi
in Roma uno sacrifizio anniversario, il
quale non poteva esser fatto se non
dalla persona del Re; e volendo i Ro-
mani che quel popolo non avesse a de-
siderare per la assenzia degli Re alcuna
cosa dell’ antiche j, creorono un capo di
detto sacrifìcio, il quale loro chiamo-
rono Re Sacrifìcolo, e lo sottomessono al
sommo Sacerdote : talmentechè quel po-
polo per questa via venne a satisfarsi
di quel sacrifizio, e non avere mai ca-
gione, per mancamento di esso, di de-
siderare la tornata dei Re. E questo si
debbe osservare da tutti coloro che vo-
gliono scancellare uno antico vivere in
una città, e ridurla ad uno vivere nuovo
c libero. Perchè alterando le cose nuove
le menti degli uomini, ti debbi ingegnare
che quelle alterazioni ritenghino più del-
r antico sia possibile; e se i magistrati
variano e di numero e d'autorità e di
tempo dagli antichi, che almeno riten-
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I
UDRÒ PRIMO. -149
gliino il nome. E questo, come ho detto,
debbe osservare colui che vuole ordi-
nare una potenza assoluta, o per via di
repubblica o di regno: ma quello che vuol
fare una potestà assoluta, quale dagli
autori è chiamala tirannide, debbe rin-
novare ogni cosa, come nel seguente ca-
pitolo si dirò.
I . ..
I
Cap. XXVI. — Un principe nuovo , in
i ima città o provincia presa da lui ,
1 debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d’ una
città o d’uno Stato, e tanto più quando
i fondamenti suoi lussino deboli, c non
si volga o per via di regno o di repub-
blica alla vita civile; il mcgliore rime-
dio che egli abbia a tenere quel prin-
cipato, è, sendo egli nuovo principe,
fare ogni cosa di nuovo in quello Stalo:
come è, nelle città fare nuovi governi
con nuovi nomi, con nuove autorità, con
nuovi uomini; fare i poveri ricchi,
4 50
DEI DISCORSI
fece Davil quando ei diventò Re: qui
csuricnles implevil bonis, et divites di *
mirti inanes ; edificare oltra di questo
nuove città, disfare delie fatte, cambiare
gli abitatori da un luogo ad un altro;
ed in somma, non lasciare cosa niuna
intatta in quella provincia, e che non
vi sia nè grado, nè ordine, nè stato, uè
ricchezza, che chi la tiene non la rico-
nosca da te; c pigliare per sua mira
Filippo di Macedonia, padre di Alessan-
dro, il quale con questi modi, di pic-
colo Re, diventò principe di Grecia. E
chi scrive di lui, dice che tramutava gli
uomini di provincia in provincia, come
i mandriani tramutano le mandrie loro.
Sono questi modi crudelissimi, e nemici
d’ogni vivere, non solamente cristiano,
ma umano; e debbegli qualunche uomo
fuggire, c volere piuttosto vivere pri-
vato, che Re con tanta rovina degli uo-
mini : nondimeno, colui che non vuole
pigliare quella prima via del bene,
quando si voglia mantenere, conviene
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LIBRO PRIMO. 151
die entri in questo male. >la gli uomini
pigliano certe vie del mezzo, clic sono
dannosissime; perchè non sanno essere
nè tutti buoni nè tutti cattivi: come nel
seguente capitolo, per esempio, si mo-
strerà.
Cap. XXVII. — Sanno rarissime volle
gli uomini essere al lutto tristi o al
fulto buoni.
Papa Giulio secondo, andando nel 1505
a Bologna per cacciare di quello Stato
la casa de’Bentivogli, la quale aveva te-
nuto il principato di quella città cento
anni, voleva ancora trarre Giovampa-
goto Buglioni di Perugia, della quale era
tiranno, come quello che aveva congiu-
rato contro a tutti gli tiranni che occu-
pavano le terre della Chiesa. E perve-
nuto presso a Perugia con questo animo
e deliberazione nota a ciascuno, non
aspettò di entrare in quella città con lo
esercito suo che lo guardasse, mn %i
ibi
DEI DISCORSI
entrò disarmato, non ostante vi fusse
dentro Giovampagolo con genti assai,
quali per difesa di sè aveva ragunate.
Sicché, portato da quel furore con il
quale governava tutte le cose, con la
semplice sua guardia si rimesse nelle
mani del nemico ; il quale dipoi ne menò
seco, lasciando un governadore in quella
citta, che rendesse ragione per la Chie-
sa. Fu notala dagli uomini prudenti che
col papa erano, la temerità del papa e
la viltà di Giovampagolo ; uè potevano
stimare donde si venisse che quello noti
avesse, con sua perpetua fama, oppresso
ad un tratto il nemico suo, e sè arric-
chito di preda, sendo col papa tutti li
cardinali, con tutte le lor delizie. Nè si
poteva credere si fusse astenuto o per
bontà, o per conscienza che lo ritenesse;
perchè in un petto d’ un uomo facinoroso,
che si teneva la sorella, che aveva morti
i cugini cd i nepoti per regnare, non
poteva scendere alcuno pietoso rispetto:
ina si conchiuse, che gli uomini non
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UDRÒ PRIMO. 153
sanno essere onorevolmente tristi, o per-
fettamente buoni; e come una tristizia
ha in sè grandezza, o è in alcuna parte
generosa, eglino non vi sanno entrare.
Cosi Giovampagolo, il quale non stimava
essere incesto e pubblico parricida, non
seppe, o, a dir meglio, non ardì, aven-
done giusta occasione, fare una impresa,
dove ciascuno avesse ammirato l’animo
suo, e avesse di sè lasciato memoria
eterna; sendo il primo che avesse dimo-
stro ai prelati, quanto sia da stimar
poco chi vive c regna come loro; ed
avesse fatto una cosa, la cui grandezza
avesse superato ogni infamia, ogni pe-
ricolo, clic da quella potesse depeudere.
Cap. XXVIII. — Per qual cagione i Ro-
mani furono meno ingrati agli loro
cittadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle
repubbliche, troverà in tutte qualche
spezie di ingratitudine contro a’ suoi cit-
154
DEI DISCORSI
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ladini; ma ne troverà meno in Roma
che in Atene> e per avventura in qua-
lunque altra repubblica. E ricercando la
cagione di questo, parlando di Roma c
di Atene, credo accadesse perchè i Ro-
mani avevano meno cagione di sospet-
tare de’ suoi cittadini, che gli Ateniesi.
Perchè a Roma, ragionando di lei dalla
cacciata dei Re intino a Siila e Mario,
non fu mai tolta la libertà da alcuno
.suo cittadino: in modo che in lei non
era grande cagione di sospettare di loro,
e, per conseguente, di offendergli incon-
sideratamente. intervenne bene ad Atene
il contrario: perché, sendole tolta la li-
bertà da Pisistrato nel suo più florido
tempo, e sotto uno inganno di bontà ;
come prima la diventò poi libera, ricor-
dandosi delle ingiurie ricevute e della
passata servitù, diventò acerrima vendi-
catrice non solamente degli errori, ma
delP ombra degli errori de' suoi citta-
dini. Di qui nacque l’esilio e la morte
di tanti eccellenti uomini; di qui Por-
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LIBRO PRIMO. 155
dine dello ostracismo, ed ogni altra vio-
lenza che contra i suoi ottimati in vari
tempi da quella città fu fatta. Ed è ve-
rissimo quello che dicono questi scrit-
tori della civiltà: che i popoli mordono
più fieramente poi ch’egli hanno recu-
perala la libertà, che poi che l’hanno
conservala. Chi considerrà adunque,
quanto è detto, non biasimerà in que-
sto Atene, nè lauderà Roma; ma ne ac-
cuserà solo la necessità, per la diversità
degli accidenti che in queste città nacque-
ro. Perchè si vedrà, chi considererà le
cose sottilmente, che se a Roma fusse
siila tolta la libertà come a Atene, non
sarebbe stata Roma più pia verso i suoi
cittadini, che si fusse quella. Di che si
può fare verissima conieltura per quello
che occorse, dopo la cacciata dei Re,
contra a Collatino ed a Publio Valerio:
de’ quali il primo, ancora elicsi trovasse
a liberare Roma, fu mandato in esilio
non per altra cagione che per tenere il
nome de’ Tarquini ; P altro, avendo solo
156
DEI DISCORSI
«lato di sè sospetto per edificare una
casa in sul monte Celio, fu ancora per
essere fatto esule. Talché si può sti-
mare, veduto quanto Roma fu in questi
due sospettosa e severa, che Farebbe
usata la ingratitudine come Atene, se
da’suoi cittadini, come quella ne’ primi
tempi ed innanzi allo augumento suo,
fosse stata ingiuriata. G per non avere
a tornare più sopra questa materia della
ingratitudine, ne dirò quello ne occor-
rerà nel seguente capitolo.
Cap. XXIX. — Quale sia più ingrato ,
o un popolo j o un principe.
Egli mi pare, a proposito della so-
prascritta materia, da discorrere quale
usi con maggiori esempi questa ingra-
titudine, 0 un popolo, o un principe. E
per disputare meglio questa parte, dico,
come questo vizio della ingratitudine
nasce o dalla avarizia, o dal sospetto.
Perchè, quando o un popolo o un pria-
LIBRO PRIMO. 457
cipe ha mandato fuori un suo capitano
in una cspedizione importante, dove
quel capitano, vincendola, ne abbia
acquistata assai gloria ; quel principe o
quel popolo è tenuto allo incontro a pre-
miarlo: e se, in cambio di premio, o ei
lo disonora o ei T offende, mosso dalla
avarizia, non volendo, ritenuto da que-
sta cupidità, satisfarli; fa uno errore
che non ha scusa, anzi si tira dietro
una infamia eterna. Pure si trovano mol-
ti principi che ci peccano. E Cornelio
Tacito dice, con questa sentenzia, la ca-
gione: Proclivius est inj ur ite, quarti be-
neficio vicem cxsolvcre, quia grafia one-
ri, ultio in questu fiabe tur. Ma quando
ei non lo premia, o, a dir meglio, l’of-
fende, non mosso da avarizia, ma da so-
spetto; allora merita, e il popolo e il
principe, qualche scusa. E di queste in-
gratitudini usate per tal cagione, se ne
legge assai : perchè quello capitano il
quale virtuosamente ha acquistato uno
imperio al suo signore, superando i ne-
i58
DEI DISCORSI
mici, e riempiendo sè di gloria e gli
suoi soldati di ricchezze; di necessità, e
con i soldati suoi, e con i nemici, e coi
sudditi propri di quel principe acquista
tanta reputazione, che quella vittoria
non può sapere di buono a quel signore
che lo ha mandato. G perchè la natura
degli uomini è ambiziosa e sospettosa,
e non sa porre modo a ntssuna sua for-
tuna, è impossibile che quel sospetto che
subito nasce nel principe dopo la vit-
toria di quel suo capitano, non sia da
quel medesimo accresciuto per qualche
suo modo o termine usato insolente-
mente. Talché il principe non può peu-
sare ad altro che assicurarsene; e per
fare questo, pensa o di farlo morire, o
di torgli la reputazione che egli si ha
guadagnala nel suo esercito e ne’ suoi
popoli: e con ogni industria mostrare
che quella vittoria è nata non per la
virtù di quello, ma per fortuna, o per
viltà dei nemici, o per prudenza degli
altri capitani clic sono stati seco in tale
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LIBRO PRIMO. 151)
l’azione. Poiché Vespasiano, sendo in Giu-
dea fu dichiarato dal suo esercito im-
peradore ; Antonio Primo, che si trovava
con un altro esercito in llliria, prese le
parti sue, e ne venne in Italia contea a
Vitellio il quale regnava a Roma, e vir-
luosissimamente ruppe due eserciti Vi-
telliani, c occupò Roma ; talché Muziano,
mandato da Vespasiano, trovò per la
virtù d’Antonio acquistato • il tutto, e
vinta ogni di ffìcultà. 11 premio che Au-
tonio ne riportò, fu che Muziano gli
tolse subito la ubidienza dello esercito,
e a poco a poco io ridusse in Roma
senza alcuna autorità: talché Antonio ne
andò a trovare Vespasiano, il quale era
ancora in Asia; dal quale fu in modo
ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in
nessun grado, quasi disperato morì. E
di questi esempi ne sono piene le isto-
rie. Ne’ nostri tempi, ciascuno che al
presente vive, sa con quanta industria
e virtù Consalvo Ferrante, militando nel
regno di Napoli contra a’ Franciosi per
HO
DEI DISCORSI
Ferrando Re di Ragona, conquistasse e
vincesse quel regno; e come, per pre-
mio di vittoria, ne riportò che Ferrando
si parti da Ragona, e, venuto a Napoli,
in prima gli levò la obedienza delle
genti d’ arme, c dipoi gli tolse le fortezze,
ed appresso lo menò seco in Spagna;
dove poco tempo poi, inonorato, mori.
È tanto, dunque, naturale questo so-
spetto ne’ principi, che non se ne pos-
sono difendere; ed è impossibile ch’egli
usino gratitudine a quelli che con vit-
toria hanno fatto sotto le insegne loro
grandi acquisti. E da quello che non si
difende un principe, non è miracolo, nè
cosa degna di maggior considerazione,
s.e un popolo non se ne difende. Perchè,
avendo una città che vive libera, duoi
fini, V uno lo acquistare, l’altro il man-
tenersi libera ; conviene che nell’ una
cosa e nell’ altra per troppo amore erri.
Quanto agli errori nello acquistare, se
ne dirà nel luogo suo. Quanto agli er-
rori per mantenersi libera, sono, intra
J
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LIBRO PRIMO.
i 6 1
gli altri, questi: di offendere quei cit-
tadini elicla doverrebbe premiare; aver
sospetto di quelli in cui si doverrebbe
confidare. E benché questi modi in una
repubblica venuta alla corruzione siano
cagione di grandi mali, c che molle
volte piuttosto la viene alla tirannide,
come intervenne a Roma di Cesare, che
per forza si tolse quello che la ingrati-
tudine gli negava; nondimeno in una
repubblica non corrotta sono cagione di
gran beni, e fanno che la ne vi\e li-
bera più, mantenendosi per paura ili
punizione gli uomini migliori, e meno
ambiziosi. Vero è che infra tutti i po-
poli che mai ebbero imperio, per le ca-
gioni di sopra discorse, Roma fu la meno
ingrata : perchè della sua ingratitudine
si può dire che non ci sia altro esem-
pio che quello di Scipione; perchè Co-
riolano c Cammillo fumo fatti esuli
per ingiuria che l’uno e l’altro aveva
fatto alla Plebe. Ma all’ uno non fu per-
donato, per aversi sempre riserbato
MACHIAVELLI, Discorsi.— 1-
DEI DISCORSI
%
162
contea al Popolo l’animo nemico; Pai*
teo non solamente fu richiamato, ma
per tutto il tempo della sua vita ado*
rato come principe. Ma la ingratitudine
usata a Scipione, nacque da un sospetto
che i cittadini cominciorno avere di lui,
che degli altri non s’era avuto: il quale
nacque dalla grandezza del nemico che
Scipione aveva vinto; dalla reputazione
che gli aveva data la vittoria di sì lunga
e pericolosa guerra; dalla celerità di
essa ; dai favori che la gioventù, la pru*
denza, e le altre sue memorabili virtuti
gli acquistavano. Le quali cose furono
tante, che, non che altro, i magistrati di
Roma temevano della sua autorità: la
qual cosa spiaceva agli uomini savi,
come cosa inconsueta in Roma. E parve
tanto straordinario il vivere suo, che
Catone Prisco, riputato santo, fu il primo
a fargli contra ; e a dire che una città
non si poteva chiamare libera, dove era
un cittadino che fusse temuto dai ma-
gistrati. Talché, se il popolo di Roma
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LIBRO PRIMO. 463
1 seguì in questo caso la opinione di Ca-
tone, merita quella scusa che di sopra
ho detto meritare quelli popoli e quelli
principi che per sospetto sono ingrati.
Conchiudendo adunque questo discorso,
dico, che usandosi questo vizio della in-
gratitudine o per avarizia o per sospet-
to, si vedrà come i popoli non mai per
T avarizia la usorno, e per sospetto assai
i manco che i principi, avendo meno ca-
gione di sospettare: come di sotto si
dirà.
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Cap. XXX. — Quali modi debbo usare
un principe o una repubblica per fug-
gire questo vizio della ingratitudine :
c quali quel capitano o quel cittadino
per non essere oppresso da quella.
Un principe, per fuggire questa ne-
cessità di avere a vivere con sospetto,
o esser ingrato, debbe personalmente
andare nelle espedizioni; come facevano
nel principio quelli imperadori romani,
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16t
DEI DISCORSI
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come fu ne’ tempi nostri il Turco, c co-
me hanno fatto e fanno quelli che sono
virtuosi. Perchè, vincendo, la gloria e lo
acquisto è tutto loro; e quando non vi
sono, sendo la gloria d’altrui, non pare
loro potere usare quello acquisto, s’ ei
non spengono in altrui quella gloria che
loro non hanno saputo guadagnarsi, e
diventare ingrati ed ingiusti : e senza
dubbio, è maggiore la loro perdita, che
il guadagno. Ma quando, o per negli-
genza o per poca prudenza, e’ si riman-
gono a casa oziosi, c mandano un capi-
tano; io non ho che precetto dar loro
altro, che quello che per lor medesimi
si sanno. .Ma dico bene a quel capitano,
giudicando io che non possa fuggire i
morsi della ingratitudine, che faccia una
delle due cose: o subito dopo la vittoria
lasci lo esercito c rimettasi nelle mani
del suo principe, guardandosi da ogni
atto insolente o ambizioso; acciocché
quello, spogliato d’ogni sospetto, abbia
cagione o di premiarlo o di non lo of-
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LIBRO PRIMO. 465
fendere : o, quando questo non gli paia
di fare, prenda animosamente la parte
contraria, e tenga tutti quelli modi per
li quali creda che quello acquisto sia
suo proprio e non del principe suo, fa-
cendosi benivoli i soldati ed i sudditi;
e faccia nuove amicizie coi vicini, oc-
cupi con li suoi uomini le fortezze, cor-
rompa i principi del suo esercito, e di
quelli che non può corrompere si. assi-
curi; e per questi modi cerchi di pu-
nire il suo signore di quella ingratitu-
dine che esso gli userebbe. Altre vie
non ci sono: ma, come di sopra si disse,
gli uomini non sanno essere nè al tutto
tristi, nè al tutto buoni: e sempre in-
terviene che, subito dopo la vittoria,
lasciare lo esercito non vogliono, por-
tarsi modestamente non possono, usare
termini violenti e che abbino in sè Tono-
revole, non sanno; talché, stando am-
bigui, intra quella loro dimora ed am-
biguità, sono oppressi. Quanto ad una
repubblica, volendo fuggire questo vizio
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466 DEI DISCORSI
dello ingrato, non si può dare il mede-
simo rimedio che al principe; cioè che
vadia, e non mandi, nelle cspedizioni
sue, sendo necessitate a mandare un suo
cittadino. Conviene, pertanto, che pei*
rimedio io le dia, che la tenga i mede-
simi modi che tenne la repubblica ro-
mana, ad esser meno ingrata che l’altre:
il che nacque dai modi del suo governo.
Perchè, adoperandosi tutta la città, e gli
nobili e gli ignobili, nella guerra, sur-
geva sempre in Roma in ogni età tanti
uomini virtuosi, ed ornati di varie vit-
torie, che il popolo non avea cagione di
dubitare di alcuno di loro, sendo assai,
c guardando P uuo Patirò. E in tanto
si mantenevano interi, e respettivi di
non dare, ombra di alcuna ambizione,
uè cagione al popolo, come ambiziosi,
d* offendergli ; che venendo alla dittatu-
ra, quello maggior gloria ne riportava,
che più tosto la deponeva. E cosi, non
potendo simili modi generare sospetto,
non generavano ingratitudine. In modo
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LIBRO PRIMO. 167
che, una repubblica che nott voglia
avere cagione d’essere ingrata, si debbo
governare come Roma ; c uno cittadino
che voglia fuggire quelli suoi morsi,
debbc osservare i termini osservati dai
cittadini romani.
Cap. XXXI. — Che » capitani romani
per errore commesso ?io« furono mai
istraordinariamcnlc puniti; nè furono
mai ancora puniti quando, per la
ignoranza loro o tristi partiti presi
da loro, ne fissino seguiti danni alla
repubblica.
1 Romani, non solamente, come di so-
pra avemo discorso, furono manco in-
grati die V altre repubbliche, ma furono
ancora più pii e più respctlivi nella pu-
nizione de’ loro capitani degli eserciti,
che alcune altre. Perchè, se il loro er-
rore fussc stato per malizia, e’ lo ga-
stigavano umanamente; se gli era per
ignoranza, non che lo punissino, e’ lo
m
DEI DISCORSI
premiavano ed onoravauo. Questo modo
del procedere era bene considerato da
-loro: perchè e' giudicavano che fusse di
tanta importanza a quelli che governa»
vano gli eserciti loro, lo avere l’animo
libero ed espedito, e senza altri estrin-
sechi rispetti nel pigliare i parliti, che
non volevano aggiugnere ad una cosa
per sè stessa difficile e pericolosa, nuove
difficultà c pericoli ; pensando che ag-
giugttendovcli, nessuno potesse essere
che operasse mai virtuosamente. Verbi-
grazia, e’ mandavano uno esercito in
Grecia contra a Filippo di Macedonia, o
in Italia contra ad Annibale, o contro a
quelli popoli che vinsono prima. Era
questo cupitano clic era preposto a tale
espedizione, angustiato da tutte quelle
cure che si arrecavano dietro quelle
faccende, le quali sono gravi e impor-
tantissime. Ora, se a tali cure si fus»
sino aggiunti più esempi di Romani
ch’eglino avessino crucifissi o altrimenti
morti quelli che avessino perdute le
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LIBRO PRIMO.
169
giornale, egli era impossibile che quello
capitano intra tanti sospetti potesse de-
liberare strenuamente. Però, giudicando
essi che a questi tali fusse assai pena
la ignominia dello avere perduto, non
gli vollono con altra maggior pena sbi-
gottire. Uno esempio ci è, quanto allo
errore commesso non per ignoranza.
Erono Sergio e Virginio a campo a Veio,
ciascuno preposti ad una parte dello
esercito; de’ quali Sergio era all’incon-
tro donde potevano venire i Toscani, c
Virginio dall’ altra parte. Occorse che
sendo assaltato Sergio dai Falisci e da
altri popoli, sopportò d’ essere rotto c
fugato prima che mandare per aiuto a
Virginio. E dall’altra parte, Virginio
aspettando che si umiliasse, volle piut-
tosto vedere, il disonore della patria sua,
e la rovina di quello esercito, clic soc-
correrlo. Caso veramente esemplare e
tristo, c da fare non buona coniettura
della Repubblica romana, se 1’ uno c l’al-
tro non fusscro stati gasligali. Vero è
no
DEI DISCORSI
che, dove un’altra repubblica gli a r ebbe
puniti di pena capitale, quella gli punì
in danari. II che nacque non perchè i
peccali loro non meritassino maggior
punizione, ma perchè -gli Romani voi*
iono in questo caso, per le ragioni già
dette, mantenere gli antichi costumi loro.
E quanto agii errori per ignoranza, non
ci è il più bello esempio che quello di
Varrone: per la temerità del quale sendo
rotti i Romani a Canne da Annibaie,
dove quella Repubblica portò pericolo
della sua libertà; nondimeno, perchè vi
fu ignoranza e non malizia, non sola*
mente non lo gastigorno ma lo onoror-
no, e gli andò incontro nella tornata
sua in Roma tutto l’Ordine senatorio;
e non lo potendo ringraziare della zuffa,
Io ringraziarono eh’ egli era tornato in
Roma, c non si era disperato delle cose
romane. Quando Papirio Cursore volevu
fare morire Fabio, per avere contea al
suo comandamento combattuto coi San-
niti; intra le altre ragioni che dal pa-
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Lior.o PRIMO.
171
tire di Fabio erano assegnale conira alla
ostinazione del Dittatore, era che il Po-
polo romano in alcuna perdita de’ suoi
Capitani non aveva fatto mai quello che
Papirio nella vittoria voleva fare.
Cap. XXXII. — Una repubblica o uno
principe non < lebbe differire a bene-
ficare gli uomini nelle sue necessitati.
Ancora che ai Romani succedesse fe-
licemente essere liberali al Popolo, so-
pravvenendo il pericolo, quando Por-
sena venne ad assaltare Roma per
rimettere i Tarquini ; dove il Senato du-
bitando della Plebe, che non volesse piut-
tosto accettare i Re che sostenere la
guerra, per assicurarsene la sgravò delle
gabelle del sale, e d’ogni gravezza ; di-
cendo come i poveri assai operavano in
benefizio pubblico se ci nutrivano i loro
figliuoli ; e che per questo benefizio quel
Popolo si esponesse a sopportare ossi-
dione, fame e guerra: non sia alcuno
172
DEI DISCORSI
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che, confidatosi in questo esempio, diffe-
risca ne’tempi de’ pericoli a guadagnarsi
il Popolo; perchè mai gli riuscirà quello
che riuscì ni Romani. Perchè lo univer-
sale giudicherà non avere quel bene da
te, ma dogli avversari tuoi; e dovendo
temere che, passata la necessità, tu ri-
tolga loro quello che hai forzatamente
loro dato, non arà tcco obbligo alcuno.
E la cagione perchè ai Romani tornò
bene questo partilo, fu perchè lo Stato
era nuovo, e non per ancora fermo; ed
aveva veduto quel Popolo, come innanzi
si erano fatte leggi in benefizio suo,
come quella delia appellagione alla Plebe;
in modo che ei potette persuadersi che
quel bene gli era fatto, non era tanto
causato dalla venuta dei nemici, quanto
dalla disposizione del Senato in benefi-
carli. Olirà di questo, la memoria dei
Re era fresca; dai quali erano stati in
molti modi vilipesi ed ingiuriati. E per-
chè simili cagioni accaggiono rade volte,
occorrerà ancora rade volte che simili
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LIBRO PRIMO. 173
remedi giovino. Però, debbe qualunque
tiene stato, cosi repubblica come prin-
cipe, considerare inuanzi, quali tempi
gli possono venire addosso contrari, c
di quali uomini ne’ tempi avversi si può
avere di bisogno; e dipoi vivere con
loro in quel modo che giudica, soprav-
vegnente qualunque caso, essere neces-
sitato vivere. E quello che altrimenti si
governa, o principe o repubblica, e mas-
sime un principe; e poi in sul fatto
crede, quando il pericolo sopravviene,
coi benefìzii riguadagnarsi gli uomini;
se ne inganna : perchè non solamente
non se ne assicura, ma accelera la sua
rovina.
Cap. XXXIII. — Quando uno inconve-
niente è cresciuto o in uno Stalo o
con tra ad uno Stato , è più salutifero
partito temporeggiarlo che urtarlo.
Crescendo In Repubblica romana in
reputazione, forze ed imperio, i vicini, i
174
DEI DISCORSI
quali prima non avevano pensato quanto
quella nuova Repubblica potesse arre-
care loro di danno, coniinciorno, ma
tardi, a conoscere lo errore loro ; e vo-
lendo rimediare a quello che prima non
avevano rimediato, conspirorno ben qua-
ranta popoli contra a Roma : donde i
Romani, intra gli altri rimedi soliti farsi
da loro negli urgenti pericoli, si volsono
a creare il Dittatore ; cioè dare potestà
ad uno uomo che senza alcuna consulta
potesse deliberare, e senza alcuna ap-
pellagione potesse eseguire le sue deli-
berazioni. Il quale rimedio come allora
fu utile, e fu cagione che vincessero
gl* imminenti pericoli, cosi fu sempre
utilissimo in tutti quelli accidenti che,
nello augumento dello imperio, in qua-
lunque tempo surgessino contra alla Re-
pubblica. Sopra il qual accidente è da
discorrere prima, come quando uno in-
conveniente che surga, o in una repub-
blica o contra ad una repubblica, cau*
sato da cagione intrinseca o estrinseca,
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LIDI’.O PRIMO. 475
è diventalo lauto grande clic e’ cominci
a far paura a ciascuno; è mollo più si-
curo partilo temporeggiarsi con quello,
che tentare di estinguerlo. Perchè, quasi
sempre coloro che tentano di ammor-
zarlo, fanno le sue forze maggiori, e
fanno accelerare quel male che da quello
si suspettava. E di questi simili acci-
denti ne nasce nella repubblica più
spesso per cagione intrinseca, che estrin-
seca : dove molte volte, o e’ si lascia pi-
gliare ad uno cittadino più forze che
non è ragionevole, o e’ si comincia a
corrompere uua legge, la quale è il nervo
e la vita del vivere libero; e lasciasi
trascorrere questo errore in tanto, che
gli è più dannoso partito il volervi ri-
mediare, che lasciarlo seguire. E tanto
più è difficile il conoscere questi incon-
venienti quando e’ nascono, quanto e’pa-
re più naturale agli uomini favorire
sempre i principii delle cose. E tali fa-
vori possono, più che in alcuna altra
cosa, nelle opere che paiono che abbino
176 DEI DISCORSI
in sè qualche virtù, e siano operale
da’ giovani: perchè, se in una rcpub*
blica si vede surgere un giovane nobile,
quale abbia in sè virtù istraordinaria,
lutti gli occhi de’ cittadini si cominciano
a voltare verso di lui, e concorrono
senza alcuno rispetto ad onorarlo ; in
modo che, se in quello è punto d* ambi-
zione, accozzati i favori che gli dà la
natura e questo accidente, viene subito
in luogo, che quando i cittadini si av-
veggono dell'errore loro, hanno pochi
rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli
tauti ch’egli hanno, operarli, non fanno
altro che accelerare la potenza sua. Di
questo se ne potrebbe addurre assai
esempi, ma io ne voglio dare solamente
uno della citta nostra. Cosimo de’ Medici,
dal quale la casa de’ Medici in la nostra
città ebbe il principio della sua gran-
dezza, venne in tanta reputazione col
favore che gli dette la sua prudenza e
la ignoranza degli altri cittadini, che ei
cominciò a fare paura allo Stato; in
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LIBRO PRIMO. 4 77
modo clic gli altri cittadini giudicavano
l’offenderlo pericoloso, ed il lasciarlo
stare cosa pericolosissima. Ma vivendo
in quei tempi Niccolò da Uzzano,' il
quale nelle cose civili era tenuto uomo
espertissimo, ed avendo fatto il primo
errore di non conoscere i pericoli clic
dalla reputazione di Cosimo potevano
nascere; mentre che visse, non permesse
mai clic si facesse il secondo, cioè che
si tentasse di volerlo spegnere, giudi-
cando tale tentazione essere al tutto la
rovina dello Stato loro; come si vide in
fatto clic fu, dopo la sua morte : perchè,
non osservando quelli cittadini che ri-
masono, questo suo consiglio, si feciono
forti contra a Cosimo, e lo cacciorno da
Firenze. Donde ne nacque che la sua
parte, per questa ingiuria risentitasi,
poco dipoi lo chiamò, e lo fece principe
della repubblica: al quale grado senza
quella manifesta opposizione non sarebbe
mai potuto ascendere. Questo medesimo
intervenne a Roma con Cesare; chè fa-
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DEI DISCORSI
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vorita da Pompeio e dagli altri quella
sua virtù, si convertì poco dipoi quel
favore in paura: di che fa testimonio
Cicerone, dicendo che Pompeio aveva
tardi cominciato a temer Cesare. La
qual paura fece che pensorono ai ri-
medi ; e gli rimedi che feciono, accele-
rorno la rovina della loro Repubblica.
Dico adunque, che dipoi che gii è diffi-
cile conoscere questi mali quando e’sur-
gono, causata questa difficultà da uno
inganno che ti fanno le cose in princi-
pio ; è più savio partito il temporeg-
giarle poiché le si conoscono, che l’op-
pugnarle : perchè temporeggiaudole, o
per lor medesime si spengono, o al-
meno il male si differisce in più lungo
tempo. E in tutte le cose debbono aprir
gli occhi i principi che disegnano can-
cellarle, o alle forze ed impeto loro op-
porsi; di non dare loro, in cambio di
detrimento, augumento ; e credendo so-
spingere una cosa, tirarsela dietro, ov-
vero soffocare una pianta con anuaf-
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unno primo. 479
fiarla. Ma si debbe considerare bene le
forze del malore, c quando ti vedi suf-
fizientc a sanarlo, mettervili senza ri-
spetto: altrimenti, lasciarlo stare, nò in
alcun modo tentarlo. Perchè interver-
rebbe, come di sopra si discorre, e
come intervenne a’ vicini di Roma: ai
quali, poiché Roma era cresciuta in
tanta potenza, era più salutifero con
gli modi della pace cercare di placarla
c ritenerla addietro, che coi modi
della guerra farla pensare a nuovi or-
dini e nuove difese. Perchè quella loro
congiura non fece altro che farli più
uniti, più gagliardi, e pensare a modi
nuovi, medinoti i quali in più breve
tempo ampliorono la potenza loro. In-
tra’quali fu la creazione del Dittatore;
per lo quale nuovo ordine non sola-
mente superorono gli imminenti peri-
coli, ma fu cagione di ovviare a infiniti
mali , ne’ quali senza quello rimedio
quella repubblica sarebbe incorsa,
v-.j. ;• vk'u Urlimi* llìl tòt* .
DEI DISCORSI
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Cap. XXXIV. — l/autorità dittatoria fece
bene , c non danno , alla repubblica
romana: c come le autorità che i cit-
tadini si tolgono s non quelle che sono
loro dai suffragi liberi date , sono alla
vita civile perniciose.
E’ sono stati dannati da alcuno scrit-
tore quelli Romani che trovorono in
quella città il modo di creare il Ditta-
tore, come cosa che fusse cagione, col
tempo, della tirannide di Roma; alle-
gando, come il primo tiranno che fusse
in quella città, la comandò sotto questo
titolo dittatorio; dicendo che se non vi
fusse stato questo, Cesare non arebbe
potuto sotto alcuno titolo pubblico adone-
stare la sua tirannide. La qual cosa non
fu bene da colui che tenne questa op-
pinione esaminala, e fu fuori d’ogni ra-
gione creduta. Perchè, e’ non fu il nome
nè il grado del Dittatore che facesse
serva Roma, ma fu l’ autorità presa dai
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LIBRO PRIMO. 181
cittadini per ia diuturnità dello impe-
rio: c se in Roma fusse mancato il no-
me dittatorio, ne arebbon preso un altro;
perchè e’ sono le forze che facilmente
s’acquistano i nomi, non i nomi le for-
ze. E si vedde che ’1 Dittatore, mentre
che fu dato secondo gli ordini pubblici,
c non per autorità propria, fece sempre
bene alla città. Perchè e’ nuocono alle
repubbliche i magistrati che si fanno e
l’autoritati che si danno per vie istraor-
dinarie; non quelle che vengono per vie
ordinarie: come si vede che segui in
Roma in tanto progresso di tempo, che
mai alcuno Dittatore fece se non bene
alla Repubblica. Di che ce ne sono ra-
gioni evidentissime. Prima, perchè a vo-
lere che un cittadino possa offendere e
pigliarsi autorità istraordinaria, conviene
ch’egli abbia molte qualità le quali in
una repubblica non corrotta non può
mai avere: perchè gli bisogna essere
ricchissimo, ed avere assai aderenti e
partigiani, i quali non può avere dove
482
DEI DISCORSI
le leggi si osservano; e quando pure ve
gli avesse, simili uomini sono in modo
formidabili, che i suffragi liberi non
concorrono in quelli. Oltra di questo,
il Dittatore era fatto a tempo, e non
in perpetuo, e per ovviare solamente a
quella cagione mediante la quale era
creato ; e la sua autorità si estendeva
in potere deliberare per sè stesso circa
i modi di quello urgente pericolo, e fare
ogni cosa senza consulta, e punire cia-
scuno senza appellagione: ma non po-
teva far cosa che fusse in diminuzione
dello Stato; come sarebbe stato torre
autorità al Senato o al Popolo, disfare
gli ordini vecchi della città, e farne
de’ nuovi. In modo che, raccozzato il
breve tempo della sua dittatura, c l’ au-
torità limitata che egli aveva, ed il po-
polo romano non corrotto; era impos-
sibile ch’egli uscisse de’ termini suoi, e
noccsse alla città: e per esperienza si
vede che sempre mai giovò. E veramen-
te, infra gli altri ordini romani, questo
J
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LIBRO PRIMO. 183
è uno che merita esser consideralo, e
connumerato infra quelli che furono ca-
gione della grandezza di tanto imperio;
perchè senza un simile ordine le città
con difficoltà usciranno degli accidenti
istraordinari : perchè gli ordini consueti
nelle repubbliche hanno il moto tardo
(non potendo alcuno consiglio nè alcuno
magistrato per sè stesso operare ogni
cosa, ma avendo in molle cose bisogno
l’uno dell’altro), e perchè nel raccozzare
insieme questi voleri va tempo, sono i
rimedi loro pericolosissimi, quando egli
hanno a rimediare a una cosa che non
aspetti tempo. E però le repubbliche
debbono intra’ loro ordini avere un sl-
mile modo : e la Repubblica veneziana,
la quale intra le moderne repubbliche
è eccellente, ha riservato autorità a pa-
chi cittadini, che ne’ bisogni urgenti,
senza maggiore consulta, tutti d’accordo
possino deliberare. Perchè quando in
una repubblica manca un simil modo,
è necessario, o servando gli ordini ro-
|
U4
DEI DISCORSI
vinate, o per non rovinare rompergli.
Ed in una repubblica non vorrebbe mai
accader cosa, che coi modi estraordinari
s’ avesse a governare. Perchè, ancora
che il modo istraordinario per allora
facesse bene, nondimeno lo esempio fa
male ; perchè si mette una usanza di
rompere gli ordini per bene che poi
sotto quel colore si rompono per male.
Talché mai Ha perfetta una repubblica,
se con le leggi sue non ha provvisto a
tutto, e ad ogni accidente posto ti ri*
medio, e dato il modo a governarlo. E
però, conchiudendo, dico che quelle re-
pubbliche le quali negli urgenti pericoli
non hanno rifugio o al Dittatore o a
simili autoritati, sempre ne’ gravi acci-
denti rovineranno. È da notare in que-
sto nuovo ordine, il modo dello elegger-
lo, quanto dai Romani fu saviamente
provvisto. Perchè, sendo la creazione
del Dittatore con qualche vergogna dei
Consoli, avendo, di capi della città, a
venire sotto una ubidienza come gli al-
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LIBRO PRIMO.
185
tri ; e presupponendo che di questo
avesse a nascere isdegno fra i cittadini;
vollono che l' autorità dello eleggerlo
fusse nei Consoli: pensando che quando
V accidente venisse, che Roma avesse
bisogno di questa regia potestà, e’ lo
avessino a fare volentieri; e facendolo
loro, che dolessi lor meno. Perchè le
ferite ed ogni altro male che Y uomo si
fa da sè spontaneamente e per elezione,
dolgono di gran lunga tneuo, che quelle
che ti sono fatte da altri. Ancora che
poi negli ultimi tempi i Romani usassi-
no, in cambio del Dittatore, di dare
tale autorità al Cousole, con queste pa-
role: Videat Constila ne Respublica quid
detrimenti captai . E per tornare alla
materia nostra, conchiudo, come i vicini
di Roma cercando opprimergli, gli fc-
ciono ordinare, non solamente a potersi
difendere, ma a potere, con più forza,
più consiglio e più autorità, offender
loro.
4 86
DEI DISCORSI
Cip. XXXV.- — La cagione perchè in
Roma la creazione del decemvirato fa
nociva alla libertà di quella repub'
blicaj non ostante che fosse creato
po' suffragi pubblichi e liberi.
E’ pare contrario a quel clic di sopra
è discorso; che quella autorità che si
occupa con violenza, non quella eh’ è
data con gli suffragi, nuoce alle repubbli-
che; la elezione dei dicci cittadini creati
dal Popolo romano per fare le leggi in
Roma: i quali ne diventorno col tempo
tiranni, e senza alcun rispetto occu-
porno la libertà di quella. Dove si debbe
considerare i modi del dare {'autorità,
ed il tempo perchè la si dà. E quando
e’ si dia autorità libera, col tempo lungo,
chiamando il tempo lungo un anno, o
più; sempre fia pericolosa; e farà gli
effetti o buoni o tristi, secondo che fieno
tristi o buoni coloro a chi la sarà data.
E se si considera l’autorità che ebbero
i Dicci, e quella che avevano i Ditta-
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LIBRO PRIMO. 187
P*
lori, si vedrò senza comparazione quella
de’ Dieci maggiore. Perchè, creato il Dit-
tatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli,
il Senato, con la loro autorità ; nò il
Dittatore la poteva torre loro: e s* egli
avesse potuto privare uno del consolato,
uno del senato, ei non poteva annul-
lare l’ordine senatorio, e fare nuove
leggi. In modo che il Senato, i Consoli
ed i Tribuni, restando con l’autorità
loro, venivano ad essere come sua guar-
dia, a farlo non uscire della via diritta.
Ma nella creazione dei Dieci occorse
tutto il contrario ; perchè gli annullorno
i Consoli cd i Tribuni, dettono loro au-
torità di fare leggi, ed ogni altra cosa,
come il Popolo romano. Talché, trovan-
dosi soli, senza Consoli, senza Tribuni,
senza appcllagionc al Popolo ; e per
questo non venendo ad avere chi osscr-
vassegli, ei poterono, il secondo anno,
mossi dall’ ambizione di Appio, diventare
insolenti. E per questo si debbo notare,
che quando e’ si è detto che una auto-
188
DEt DISCORSI
rità data da’ suffragi liberi, non of-
fese mai alcuna repubblica; si pre-
suppone che un popolo non si conduca
inai a darla, se non con le debite cir-
constanzie, e ne’ debiti tempi: ma
quando, o per essere ingannato, o per
qualche altra cagione che lo accecasse,
e’ si conducesse a darla imprudentemen-
te, e nel modo che ’l Popolo romano la
dette a’ Dieci, gl’ interverria sempre co-
me a quello. Questo si prova facilmente,
considerando quali cagioni mantenessero
i Dittatori buoni, e quali facessero i
Dieci cattivi; e considerando ancora,
come hanno fatto quelle repubbliche che
sono state tenute bene ordinate, nel dare
1* autorità per lungo tempo; come dava-
no gli Spartani agli loro Re, e come danno
i Veniziani ai loro Duci: perchè si ve-
drà, all* uno ed all’ altro modo di costoro
esser poste guardie, che facevano che i
Re non potevano usare male quella au-
torità. Nè giova in questo caso, che la
materia non sia corrotta; perchè una
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LIBRO PRIMO.
U9
autorità assoluta, in brevissimo tempo
corrompe la materia, c si fa amici c
partigiani. Nè gli nuoce o esser povero,
o non avere parenti; perché le ricchez-
ze cd ogni altro favore subito gli corre
dietro: come particolarmente nella crea-
zione de’ detti Dieci discorreremo.
Gap. XXXVI. — Pioti debbono i cittadini
che hanno avuti » maggiori onori,
sdegnarsi de* minori.
Avevano i Romani fatti Marco Fabio
e G. Manilio consoli, e vinta una glorio-
sissima giornata contea a’ Veicnti e gli
Etruschi; nella quale fu morto Quinto
Fabio, fratello del consolo, quale Io anno
davanti era stato consolo. Dove si deb-
be considerare, quanto gli ordini di
quella città erano atti a farla grande;
c quanto le altre repubbliche che si di-
scostano dai modi suoi, s’ingannano.
Perchè, ancora che i Romani fussino
amatori grandi della gloria, nondimeno
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190 DEI DISCORSI
non stimavano cosa disonorevole ubbi-
dire ora a chi altra volta essi avevano
comandato, e trovarsi a servire in quello
esercito del quale erano stati principi.
11 qual costume è contrario alla oppi-
nione, ordini e modi de’ cittadini de’tempi
nostri: ed in Vinegia è ancora questo
errore, che uno cittadino avendo avuto
un grado grande, si vergogni di accet-
tare uno minore; e la citta gli consente
che se ne possa discostare. La qual cosa,
quando fusse onorevole per il privato,
è al tutto inutile per il pubblico. Per-
chè più speranza debbe avere una re-
pubblica, e più confidare in uno citta-
dino che da un grado grande scenda a
governare uno minore, che in quello
clic da uno minore salga a governare un
maggiore. Perchè a costui non può ra-
gionevolmente credere, se non li vede
uomini intorno, i qiiali siano di tanta
riverenza o di tanta virtù, che la novità
di colui possa essere con il consiglio ed
autorità loro moderata. E quando in
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LIBRO PRIMO. 191
Roma fosse stata la consuetudine quale
in Vinegia, e nell' altre repubbliche c
regni moderni, che chi era stato una
volta Consolo, non volesse mai più an-
dare negli eserciti se non consolo; ne
sarebbono nate infinite cose in disfavore
del viver libero; e per gli errori che
arebbono fatti gli uomini nuovi, e per
P ambizione che loro arebbono potuto
usare meglio, non avendo uomini intor-
no, nel conspetto de’ quali ei temessino
errare; e cosi sarebbero venuti ad es-
sere più sciolti : il che sarebbe tornato
tutto in detrimento pubblico.
Cap. XXXVII. — Quali scandali partorì
in Roma la legge agraria : e come
fare una logge in una repubblica che
risguardi assai indietro > e sia conira
ad una consuetudine antica della città ,
è scandalosissimo.
Egli è sentenza degli antichi scrittori,
come gli uomini sogliono affliggersi nel
t
192 DEI DISCORSI
male c stuccarsi nel benej e come dul-
1’ una e dall* altra di queste due passioni
nascono i medesimi effetti. Perchè, qua-
lunque volta è tolto agli uomini il com-
battere per necessità, combattono per
ambizione: la quale è tanto potente ne’
petti umani, che mai, a qualunque grado
si salgano, gli abbandona. La cagione è,
perchè la natura ha creati gli uomini
in modo, che possono desiderare ogni
cosa, e non possono conseguire ogni
cosa : talché, essendo sempre maggiore
il desiderio che la potenza dello acqui-
stare, ne risulta la mala contentezza di
quello che si possiede, e la poca sati-
sfazionc di esso. Da questo nasce il va-
riare della fortuna loro: perchè deside-
rando gli uomini, parte di avere più,
parte temendo di non perdere lo acqui-
stato, si viene alle inimicizie ed alla
guerra ; dalla quale nasce la rovina di
quella provincia, e la esaltazione di quel-
1’ altra. Questo discorso ho fatto perchè
alla Plebe romana non bastò assicurarsi
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LIBRO PRIMO. 193
de’ Nobili per la creazione de’ Tribuni,
al quale desiderio fu constretta per ne-
cessità ; che lei subito, ottenuto quello,
cominciò a combattere per ambizione,
e volere con la Nobiltà dividere gli onori
e le sustanze, come cosa stimata più
dagli uomini. Da questo nacque il morbo
che partorì la contenzione della legge
agraria, ed in (ine fu causa della distru-
zione della Repubblica romana. E per-
chè le repubbliche bene ordinate hanno
a tenere ricco il pubblico, e li loro cit-
tadini poveri ; convenne che fusse nella
città di Roma difetto in questa legge:
la quale o non fusse fatta nel principio
in modo che la non si avesse ogni di a
ritrattare; o che la si differisse tanto
in farla, che fusse scandotoso il riguar-
darsi indietro; o sendo ordinata bene
da prima, era stata poi dall’ uso cor-
rotta; talché, in qualunque modo si fus-
se, mai non si parlò di questa legge in
Roma, che quella città non andasse sotto-
sopra. Aveva questa legge duoi capi
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Ai achi avelli > Discorsi. — 1.
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principali. Ter l’ uno si disponeva clic
non si potesse possedere per alcun cit-
tadino più che tanti iugeri di terra;
per V altro, che i campi di che si pri-
vavano i nimici, si dividessino intra il
popolo romano. Veniva pertanto a fare
di duoi sorte offese ai Nobili: perchè
quelli che possedevano più beni non
permetteva la legge (quali erano la mag-
gior parte de’ Nobili), ne avevano ad es-
ser privi ; e dividendosi intra la Plebe
i beni de’ nimici, si toglieva a quelli la
via dello arricchire. Sicché, venendo ad
essere queste offese contra ad uomini
potenti, e che pareva loro, contrastan-
dola, difendere il pubblico; qualunque
volta, com’ è detto, si ricordava, andava
sottosopra quella città : ed i Nobili con
pazienza ed industria la temporeggiava-
no, o con trac fuora un esercito, o che
a quel Tribuno che la proponeva si op-
ponesse uno altro Tribuno; o talvolta
cederne parte; ovvero mandare una co-
lonia in quel luogo che si avesse a di*
i
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LIBRO PRIMO. 195
stribuire: come intervenne del contado
di Anzio, per il quale surgendo questa
disputa della legge, si mandò in quel
luogo una colonia traila di Roma, alla
quale si consegnasse detto contado. Do-
ve Tito Livio usa un termine notabile,
dicendo clic con ditTìcultà si trovò in
Roma eli i desse il nome per ire in detta
colonia: tanto era quella Plebe più pron-
ta a volere desiderare le cose in Homa,
che a possederle in Anzio ! Andò questo
umore di questa legge così travaglian-
dosi un tempo, tanto che i Romani co-
minciarono a condurre le loro armi nelle
estreme parti di Italia, o fuori di Italia;
dopo al qual tempo parve che la restasse.
Il che nacque perchè i campi che pos-
sedevano i nimici di Roma essendo di-
scosti dagli occhi della Plebe, cd in luogo
dove non gli era facile il coltivargli,
veniva meno ad esserne desiderosa: ed
ancora i Romani erano meno punitori
tic’ loro nemici in siinil modo; e quando
pure spogliavano alcuna terra del suo
106
DEI DISCORSI
contado, vi distribuivano colonia. Tanto
che per tali cagioni questa legge stette
come addormentata inOno a’ Gracchi:
da’ quali essendo poi svegliata, rovinò
al tutto la libertà romana; perchè la
trovò raddoppiata la potenza de’ suoi
avversari, e si accese per questo tante
odio intra la Plebe ed il Senato, che si
venne all’ armi ed al sangue, fuor d’ogni
modo e costume civile. Talché, non po-
tendo i pubblici magistrati rimediarvi,
nè sperando più alcuna delle fazioni in
quelli, si ricorse a’ rimedi privati, e cia-
scuna delle parti pensò di farsi uno capo
che la difendesse. Pervenne in questo
scandalo e disordine la Plebe, e volse la
sua riputazione a Mario, tanto che la lo
fece quattro volte Consolo; ed in tanto
continuò con pochi intervalli il suo con-
solato, che si potette per sè stesso far
Consolo tre altre volte. Contra alla qual
peste non avendo la Nobiltà alcuno ri-
medio, si volse a favorir Siila; e fatto
quello capo della parte sua, vennero alle
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LIBRO PltlMO. 197
guerre civili * e dopo molto sangue e
variar di fortuna, rimase superiore la
Nobiltà. Risuscitorono poi questi umori
a tempo di Cesare c di Pompeo; perchè,
fattosi Cesare capo della parte di Mario,
c Pompeo di quella di Siila, venendo
alle mani rimase supcriore Cesare: il
quale fu primo (iranno in Roma; talché
mai fu poi libera quella città. Tale, adun-
que, principio e fine ebbe la legge agra-
ria. E benché noi mostrassimo altrove,
come le inimicizie di Roma intra il Se-
nato c la Plebe mantenessero libera Ro-
ma, per nascerne da quelle leggi in fa-
vore della libertà ; e per questo paia
disforme a tale conclusione il fine di
questa legge agraria ; dico come, per
questo, io non mi rimuovo da tale op-
pinionc: perchè egli è tanta P ambizio-
ne de’ grandi, che se per varie vie ed
in vari modi la non ò in una città sbat-
tuta, tosto riduce quella città alla rovina
sua. In modo che, se la contenzione della
legge agraria penò trecento anni a fare
DEI DISCORSI
\
198
Roma serva, si sarebbe condotta, per
avventura, molto più tosto iti servitù,
quando la Plebe, e con questa legge c
con altri suoi appetiti, non avesse sem-
pre frenato la ambizione de’ Nobili. Ve-
dasi per questo ancora, quanto gli uo-
mini stimano più la roba che gli onori.
Perchè la Nobiltà romana sempre negli
onori eedè senza scandali istraordinari
alla Plebe; ma come si venne alla ro-
ba, fu tanta la ostinazione sua nel di-
fenderla, che la Plebe ricorse, per Sfo-
gare 1’ appetito suo, a quelli istraordi-
nari che di sopra si discorrono. Del quale
disordine furono motori i Gracchi;
de’ quali si dcbbe laudare più la inten-
zione che la prudenza. Perchè, a voler
levar via uno disordine cresciuto in una
repubblica, e per questo fare una legge
che riguardi assai indietro, è partito
male considerato; e, come di sopra lar-
gamente si discorse, non si fa altro che
accelerare quel male a che quel disor-
dine ti conduce : ma temporeggiandolo,
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LIBRO PRIMO.
199
o il male viene più tardo, o per sè me-
desimo col tempo, avanti che venga al
fine suo, si spegne.
Cap. XXXVIII. — Le repubbliche deboli
sono male risolute , e non si sanno
deliberare ; c se le pigliano mai al-
cuno partito j nasce più da necessità
che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pe-
stilenza, e parendo per questo agli Vol-
aci ed agli Equi che fusse venuto il
tempo di potere oppressar Roma; fatti
questi due popoli uno grossissimo eser-
cito, assalirono gli Latini e gli Ernici,
e guastando il loro paese, furono con-
stretti gli Latini c gli Ernici farlo in-
tendere a Roma, c pregare che fussero
difesi da' Romani: ai quali, sendo i Ro-
mani gravati dal morbo, risposero che
pigliassero partito di difendersi da loro
medesimi e con le loro armi, perchè
essi non li potevano difendere. Dove si
200
DE! DISCÓRSI
conosce la generosità e prudenza di
quel Senato, e come sempre in ogni for-
tuna volle essere quello che fusse prin-
cipe delle deliberazioni che avessero a
pigliare i suoi; nè si vergognò mai de-
liberare una cosa che fusse contraria
al suo modo di vivere o ad altre deli-
berazioni fatte da lui, quando la neces-
sità gliene comandava. Questo dico per-
chè altre volte il medesimo Senato aveva
vietato ai detti popoli l’armarsi e di-
fendersi ; talché ad uno Senato meno
prudente di questo, sarebbe parso ca-
dere del grado suo a concedere loro
tale difensione. Ma quello sempre giu-
dicò le cose come si debbono giudicare,
e sempre prese il meno reo partilo per
migliore; perchè male gli sapeva non
potere difendere i suoi sudditi; male
gli sapeva che si armassino senza loro,
per le ragioni dette, e per molte altre
che si intendono: nondimeno, conoscendo
*
che si sarebbono armati, per necessità,
a ogni modo, avendo il nimico addos-
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LIBRO PRIMO. 201
so; prese la parte onorevole, e volle
che quello clic gli avevano a fare, lo
facessino con licenzia sua, acciocché
avendo disubbidito per necessità, non
si avvezzassino a disubbidire per ele-
zione. E benché questo paia partito che
da ciascuna repubblica dovesse esser
preso; nientedimeno le repubbliche de-
boli e male consigliate non gli sanno
pigliare, nè si sanno onorare di simili
necessità. Aveva il duca Valentino presa
Faenza, e fatto calare Bologna agli ac-
cordi suoi. Dipoi, volendosene tornare a
Roma per la Toscana, mandò in Fi-
renze uno suo uomo a domandare il
passo per sé e per il suo esercito. Con-
sultossi in Firenze come si avesse a go-
vernare questa cosa, nè fu mai consi-
gliato per alcuno di concedergliene. In
che non si seguì il modo romano: per-
chè, sendo il Duca armatissimo, ed i
Fiorentini in modo disarmati che non
gli potevano vietare il passare, era molto
piu onore loro, che paresse che passasse
202
DEI DISCORSI
con permissione di quelli, che a forza;
perchè, dove vi fu al tutto il loro vitu-
perio, sarebbe stato in parie minore
quando I* avessero governata altrimenti.
Ma la più cattiva parte che abbino le
repubbliche deboli, è essere irresolute;
in modo che lutti i partili che le pi-
gliano, gli pigliano per forza; e se vieti
loro fatto alcuno bene, lo fanno forzato,
c non per prudenza loro. Io voglio dare
di questo duoi altri esempi, occorsi
ne* tempi nostri nello stato della nostra
città, nel mille cinquecento. Ripreso che
il re Luigi XII di Francia ebbe Milauo,
desideroso di rendergli Pisa, per aver
cinquanta mila ducati che gli erano stati
promessi da’ Fiorentini dopo tale resti-
tuzione, mandò gli suoi eserciti verso
Pisa, capitanati da monsignor Beau-
monte; benché francese, nondiraanco
uomo in cui i Fiorentini assai confida-
vano. Condussesi questo esercito e que-
sto capitano intra Cascina e Pisa, per
andare a combattere le mura; dove di-
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LIBRO PRIMO.
203
morando alcuno giorno per ordinarsi
alla espugnazione, vennero oratori Pi-
sani a Beaumonte, e gli offerirono di
dare la città allo esercito francese con
questi patti: che, sotto la fede del re,
promettesse non la mettere in mano
de’ Fiorentini, prima che dopo quattro
mesi. Il qual partito fu dai Fiorentini
al tutto rifiutato, in modo che si seguì
nello andarvi a campo, e partissene con
vergogna. Nè fu rifiutato il partito per
altra cagione, che per diffidare della
fede del re; come quelli che per debo-
lezza di consiglio si erano per forza
messi nelle mani sue: e dall’altra par-
te, non se ne fidavano, nè vedevano
quanto era meglio che il re potesse ren-
dere loro Pisa sendovi dentro, e non la
rendendo scoprire P animo suo, che non
la avendo, poterla loro promettere, e
loro essere forzati comperare quelle
promesse. Talché molto più utilmente
arebbono fatto a consentire che Beau-
monlc V avesse, sotto qualunque prò-
204
DEI DISCORSI
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messa, presa: come se ne vide la espc-
rienza dipoi nel 4502, die essendosi
ribellato Arezzo, venne a’ soccorsi de* Fio-
rentini mandato dal re di Francia mon-
signor Imbalt con gente francese; il
qual giunto propinquo ad Arezzo, dopo
poco tempo cominciò a praticare ac-
cordo con gli Aretini, i quali sotto certa
fede volevano dare la terra, a similitu-
dine de’ Pisani. Fu rifiutato in Firenze
tale partito ; il che veggendo monsignor
Imbalt, e parendogli come i Fiorentini
se ne inlendessino poco, cominciò a te-
nere le pratiche dello accordo da se,
senza participazione de’ Commessaci :
tanto che e’ io conchiuse a suo modo, e
sotto quello con le sue genti se ne en-
trò in Arezzo, facendo intendere a’ Fio-
rentini come egli erano matti, e non si
intendevano delle cose del mondo: che
se volevano Arezzo, lo fucessino inten-
dere al re, il quale lo poteva dar loro
molto meglio, avendo le sue genti in
quella città, che fuori. Non si restava
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LIBRO PRIMO. 205
in Firenze di lacerare e biasimare detto
Imbalt; nè si restò mai, infino a tanto
che si conobbe che se Beaumonte fusse
stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto
Pisa come Arezzo. E cosi, per tornare
a proposito, le repubbliche irresolute
non pigliano mai partiti buoni, se non
per forza, perchè la debolezza loro non
le lascia mai deliberare dove è alcuno
dubbio; e se quel dubbio non è can-
cellalo da una violenza, che le sospinga,
stanno sempre mai sospese.
Cap. XXXIX. — In diversi popoli
si veggono spesso i medesimi accidenti.
E’ si conosce facilmente per chi con-
sidera le cose presenti e le antiche, co-
me in tutte le città ed in tutti i popoli
sono quelli medesimi desiderii e quelli
medesimi umori, e come vi furono sem-
pre : in modo che gli è facil cosa a chi
esamina con diligenza le cose passate,
prevedere in ogni repubblica le future,
DEI DISCORSI
*206
c farvi quelli rimedi che dagli antichi
sono stati usati ; o non ne trovando de-
gli usati, pensarne de’ nuovi, per la si-
militudine degli accidenti. Ma perchè
queste considerazioni sono neglette, o
non intese da chi legge ; o se le sono
intese, non sono conosciute da chi go-
verna ; ne seguita che sempre sono i
medesimi scandali in ogni tempo. Avendo
la città di Firenze, dopo il 94, perduto
parte dello imperio suo, come Pisa ed
altre terre, fu necessitata a fare guerra
* a coloro che le occupavano. E perchè
chi le occupava era potente, ne seguiva
che si spendeva assai nella guerra, senza
alcun frutto ; dallo spendere assai ne
risultava assai gravezze ; dalle gravezze,
infinite querele del popolo ; e perchè
questa guerra era amministrata da uno
magistrato di dieci cittadini che si chia-
mavano i Dieci della guerra, 1* univer-
sale cominciò a recarselo in dispetto,
come quello che fusse cagione della
guerra e delle spese di essa; e cornili-
-2
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LIBRO PRIMO.
207
ciò a persuadersi che tolto via detto
magistrato, fusse tolto via la guerra :
tanto che avendosi a rifare, non se gli
fecero gli scambi ; e lasciatosi spirare,
si commisero le azioni sue alla Signoria.
La qual deliberazione fu tanto pernizio-
sa, che non solamente non levò la guer-
ra, come lo universale si persuadeva ;
ma tolto via quelli uomini che con pru-
denza la amministravano, ne seguì tanto
disordine, die, oltre a Pisa, si perde
Arezzo e molti altri luoghi: in modo
che, ravvedutosi il popolo dello errore
suo, e come la cagione del male era la
febbre e non il medico, rifece il magi-
strato de’ Dieci. Questo medesimo umore
si levò in Roma conira al nome de’ Con-
soli : perchè, veggendo quello Popolo na-
scere 1’ una guerra dall' altra, e non po-
ter mai riposarsi ; dove e' dovevano
pensare che la nascesse dalla ambizione
de’ vicini che gli volevano opprimere;
pensavano nascesse dall’ ambizione dei
Nobili, che non potendo dentro in Roma
DEI DISCORSI
208
gastigar la Plebe difesa dalla potestà tri-
bunizia, la volevano condurre fuori di
Roma sotto i Consoli, per opprimerla
dove non aveva aiuto alcuno. E pensa-
rono per questo, che fusse necessario o
levar via i Consoli, o regolare in modo
la loro potestà, che e* non avessino au-
torità sopra il popolo, nè fuori nè in
casa. 11 primo che tentò questa legge, fu
uno Terentillo tribuno ; il quale propo-
neva che si dovessero creare cinque
uomini che dovessino considerare la po-
tenza de* Consoli, e limitarla. II che al-
terò assai la Nobiltà, parendoli che la
maiestà dell’ imperio fusse al tutto de-
clinata, talché alla Nobiltà non restasse
più alcuno grado in quella Repubblica.
Fu nondimeno tanta la ostinazione dei
Tribuni, che il nome consolare si spen-
se ; e furono in fine contenti, dopo
qualche altro ordine, piuttosto creare
Tribuni con potestà consolare, che i Con-
soli : tanto avevano più in odio il nome
che le autorità loro. E cosi seguitorno
LIBRO MIMO.
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209
lungo tempo, infino che conosciuto io
errore loro, còme i Fiorentini ritornorno
ai Dieci, così loro ricreorno i Consoli.
Gap. XL. — /.a creazione del decemvirato
in Roma, e quello che in essa è da
notare: dove si considera , intra molte
altre cose, come si può salvare per
simile accidente, o oppressore una re-
• pubblica.
Volendo discorrere particolarmente
sopra gli accidenti che nacquero in Ro-
ma per la creazione del decemvirato,
non mi pare soperchio narrare prima
tutto quello che segui per simile crea-
zione, e dipoi disputare quelle porti che
sono in esse azioni notabili : le quali sono
molte, e di grande considerazione, cosi
per coloro che vogliono mantenere una
repubblica libera, come per quelli che
disegnassino sommetterla. Perchè in tale
discorso si vedranno molti errori fatti
dal Senato e dalla Plebe in disfavore
Machiavelli, Discorsi. — 1. 1*
210 DEI DISCORSI
della libertà; e molli errori fatti da Ap-
pio, capo del decemvirato; in disfavore
di quella tirannide che egli si aveva pre-
supposto stabilire in Roma. Dopo molte
deputazioni c contenzioni seguite intra
il Popolo e la Nobiltà per fermare nuove
leggi in Roma, per le quali e’ si stabi-
lisse più la libertà di quello stato; man-
darono, d’ accordo, Spurio Postumio con
duoi altri cittadini ad Atene per gli es-
senti di quelle leggi che Solone dette a
quella città, acciocché sopra quelle po-
tessero fondare le leggi romane. Andati
e tornati costoro, si venne alla creazione
degli uomini eh’ avessino ad esaminare
e fermare de.tte leggi; e ercorno dieci
cittadini per un anno, tra i quali fu
creato Appio Claudio, uomo sagace ed
inquieto. E perchè e' potessimo senza al-
cuno rispetto creare tali leggi, si leva-
rono di Roma tutti gli altri magistrati,
ed in particolare i Tribuni e i Consoli,
e levossi lo appello al Popolo ; in modo
che tale magistrato veniva ad essere al
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libro primo.
• 211
tulio principe di Roma. Appresso ad
Appio si ridusse tutta 1’ autorità degli
altri suoi compagni, per gli favori clic
gli faceva la Plebe : perché egli s’ era
fatto in modo popolare con le dimostra-
zioni, che pareva meraviglia eh’ egli aves-
se preso sì presto una nuova natura c
uno nuovo ingegno, essendo stato te-
nuto innanzi a questo tempo un cru-
dele persecutore della Plebe. Governa-
ronsi questi Dieci assai civilmente, non
tenendo più che dodici littori, i quali
andavano davanti a quello ch’era infra
loro preposto. E bench’egli avessino
1’ autorità assoluta, nondimeno avendosi
a punire un cittadino romano per omi-
cidio, lo citorno nel conspelto del Po-
polo, e da quello lo fecero giudicare.
Scrissero le loro leggi in dicci tavole,
ed avanti che le confirmassero, le mes-
sono in pubblico, acciocché ciascuno le
potesse leggere c disputarle; acciocché
si conoscesse se vi era alcuno difetto,
per poterle binanti alla confirmazionc
213
DEI DISCORSI
loro emendare. Fece, in su questo, Ap-
pio nascere un rornorc per Bomn, che
se a queste dieci tavole se n’ aggiungcs-
siuo due altre, si darebbe a quelle la
loro perfezione ; talché questa oppinionc
dette occasione al Popolo di rifare i Dieci
per uno altro anno: a che il Popolo si ac-
cordò volentieri; si perchè i Consoli non si
rifacessino; sì perchè speravano loro po-
tere stare senza Tribuni, sendo loro giu-
dici delle cause, come di sopra si disse.
Preso, adunque, partito di rifargli, tutta
la Nobiltà si mosse a cercare questi ono-
ri, ed intra i primi era Appio; ed usava
tanta umanità verso la Plebe nel doman-
darla, che la cominciò ad essere sospetta
a suoi compagni : credebant cnim liaud
gratuitam in lanla superbia comilatcm
fore. E dubitando di opporsegli aperta-
mente, diliberarono farlo con arte; e
benché e’ fusse minore di tempo di tutti,
dettono a lui autorità di proporre i fu-
turi Dieci al popolo, credendo eh* egli
osservasse i termini degli altri di non
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LIBRO PRIMO. 21 3
proporre sè medesimo, sendo cosa inu-
sitata e ignominiosa in Roma, Me ve-
ro imprdimentum prò occasione arri*
puit ; e nominò sè intra i primi, con
meraviglia e dispiacere di tutti i Nobili:
nominò poi nove altri al suo proposito.
La qual nuova creazione fatta per uu
altro anno, cominciò a mostrare al Po-
polo cd alla Nobiltà lo error suo. Per-
chè subito Appio: finem fedi ferenda
aliena persona ; e cominciò a mostrare
la innata sua superbia, ed in pochi dì
riempiè di suoi costumi i suoi compa-
gni. E per Sbigottire il Popolo ed il Se-
nato, in scambio di dodici littori, ne fe-
ciono cento venti. Stette la paura eguale
qualche giorno ; ma cominciarono poi
ad intrattenere il Senato, e battere la
Plebe: e s’ alcuno battuto dall* uno, ap-
pellava ali’ altro, era peggio trattalo nel-
P appeltagione che nella prima causa. In
modo che la Plebe, conosciuto lo errore
suo, cominciò piena di afflizione a riguar-
dare in viso i Nobili; et inde libcrtatis
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DEI DISCORSI
21 i
captare a urani , linde servitutem tiinendoj
in cum s taluni rempublicam adduxerant.
E alla Nobiltà era grata questa loro af-
flizione, ut ipsij teedio prcesenliunij Con *
sules desiderar ent. Vennero i di clic
terminavano l’anno: le due tavole delle
leggi erano fatte, ma non pubblicate. Da
questo i Dicci presono occasione di con-
tinovare nel magistrato, c cominciorono
a tenere con violenza lo Stato, e farsi
satelliti della gioventù nobile, alla quale
davano i beni di quelli che loro con-
dannavano. Quibus donis Juventus coi'-
rumpebatur , et malebat liccnliam suoni ,
i quatn omnium liberlatcm. Nacque in que-
sto tempo, che i Sabini ed i Volsci mos-
sero guerra a’ Romani: in su la qual
paura cominciarono i Dieci a vedere la
debolezza dello Stato loro; perchè senza
il Senato non potevano ordinare la guer-
ra, e ragunando il Senato pareva loro
perdere lo Stato. Pure, necessitati, pre-
sono questo ultimo partito: e ragunali
i Senatori insieme, molti de’ Senatori
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LIBRO PRIMO.
2iÓ
parlorono contro alla superbia de’Dieci,
ed in particolare Valerio ed Orazio : e
la autorità loro si sarebbe al tutto spen-
ta, se non che il Senato, per invidia
della Plebe, non volle mostrare l’auto-
rità sua, pensando che se i Dieci depo-
nevano il magistrato voluntarii, che po-
tesse essere che i Tribuni della plebe
non si rifacessero. Dcliberossi adunque
la guerra; uscissi fuori con due eser-
citi guidati da parte di detti Dieci; Ap-
pio rimase a governare la città. Donde
nacque che si innamorò di Virginia, e
che volendola torre per forza, il padre
Virginio, per liberarla, l’ammazzò: don-
de seguirono i tumulti di Roma e degli
eserciti ; i quali ridottisi insieme con il
rimanente della Plebe romana, se ne an-
darono nel Monte Sacro, dove stettero
tanto clic i Dieci deposono il magistrato,
e che furono creali i Tribuni ed i Con-
solide ridotta Roma nella forma della
antica sua libertà. Notasi, adunque, per
questo testo, in prima esser nato in Ro-
216
DEI DISCORSI •
ma questo inconveniente di creare que-
sta tirannide, per quelle medesime ca-
gioni che nascono la maggiore parte
delie tirannidi nelle città: e questo è
da troppo desiderio del popolo d* esser
libero, e da troppo desiderio de’ nobili
di comandare. E quando c’ non conven-
gono a fare una legge in favore della
libertà, ma gettasi qualcuna delle parti
a favorire uno, allora è che subito la
tirannide surge. Convennono il Popolo
ed i Nobili di Poma a creare i Dieci, e
crearli con tanta autorità, per desiderio
che ciascuna delle parti aveva, 1’ una di
spegnere il nome consolare, l’altra il
tribunizio. Creati che furono, parendo
alla Plebe che Appio fusse diventato
popolare c battesse la Nobiltà, si volse
il Popolo a favorirlo. E quando un po-
polo si conduce a far questo errore di
dare riputazione ad uno perchè balta
quelli che egli ha in odio, e che quello
uno sia savio, sempre interverrà che di-
venterà tiranno di quella città. Perchè
LIBRO PRIMO. 217
egli attenderà, insieme con il favore del
popolo, a spegnere la nobiltà ; e non si
volterà inai alla oppressione del popolo,
se non quando ei V arà spenta; nel qual
tempo conosciutosi il popolo essere ser-
vo, non abbi dove rifuggire. Questo modo
hanno tenuto tutti coloro che hanno fon-
dato tirannidi in le repubbliche: c se
questo modo avesse tenuto Appio, quella
sua tironnide arebbe preso più vita, e
non sarebbe mancata si presto. Ma ei
fece tutto il contrario, nè si potette go-
vernare più imprudentemente; cliè per
tenere la tirannide, c’si fece inimico di
coloro che glie T avevano data c che
gliene potevano mantenere, ed amico di
quelli che non erano concorsi a dar-
gliene e che non gliene arebbono potuta
mantenere; e perdèssi coloro che gli
erano amici, e cercò di avere amici quelli
che non gli potevano essere amici. Per-
chè, ancora che i nobili desiderino ti-
ranneggiare, quella parte della nobiltà
che si truova fuori della tirannide, è
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jft
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218
DEI DISCORSI
4
I l J
1
«
sempre inimica al tiranno; nè quello se
la può mai guadagnare tutta, per l’am-
bizione grande e grande avarizia che .è
in lei, non polendo il tiranno avere nè
tante ricchezze nè tanti onori, che a tutta
satisfaccia. E così Appio, lasciando il
Popolo ed accostandosi a’ Nobili, fece uno
errore evidentissimo, e per le ragioni
dette di sopra, e perchè a volere con
violenza tenere una cosa, bisogna che
sia più potente chi sforza, che chi è
sforzato. Donde nasce che quelli tiranni
che hanno amico lo universale ed mi-
mici i grandi, sono più sicuri; per es-
sere la loro violenza sostenuta da mag-
gior forze, che quella di coloro che hanno
per inimico il popolo ed amica la no-
biltà. Perchè con quello favore bastano
a conservarsi le forze intrinseche; co-
me bastorno a Nabide tiranno di Sparta,
quando tutta Grecia ed il popolo romano
lo assaltò : il quale assicuratosi di pochi
nobili, avendo amico il popolo, con quello
si difese; il che non arebbe potuto fare
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.
:
LIBRO PRIMO. fili)
avendolo inimico. In quello nitro grado
per aver pochi amici dentro, non bastano
le forze intrinseche, ma gli conviene cer-
care di fuora. Ed hanno ad essere di
tre sorti: 1’ una satelliti forestieri, die
li guardino la persona; l’altra armare
il contado, che faccia quell’ oflìzio che
arebbe a fare la plebe; la terza aderirsi
co’ vicini potenti, che li difendino* Chi
tiene questi modi e gli osserva bene,
ancora ch’egli avesse per inimico il po-
polo, potrebbe in qualche modo salvarsi.
Ma Appio non poteva far questo di gua-
dagnarsi il contado, scudo una medesima
cosa il contado e Roma; c quel che po-
teva fare, non seppe: talmente che ro-
vinò nc’ primi principii suoi. Fecero il
Senato ed il Popolo in questa creazione
del decemvirato errori grandissimi : per-
chè ancora che di sopra si dica, in quel
discorso che si fa del Dittatore, che
quelli magistrati che si fanno da per
loro, non quelli che fa il popolo, sono
nocivi alla libertà; nondimeno il popolo
220
DEI DISCORSI
debbe, quando egli ordina i magistrali,
fargli in modo che gli abbino avere qual-
che rispetto a diventare tristi. E dove
e’ si debbe proporre loro guardia per
mantenergli buoni, i Romani lalevorono,
facendolo solo magistrato in Roma, ed*
annullando tutti gli altri, per la ecces-
siva voglia (come di sopra dicemmo) che
il Senato aveva di spegnere i Tribuni,
e la Plebe di spegnere i Consoli; la quale
gli accecò in modo, che concorsono in
tale disordine. Perchè gli uomini, come
diceva il re Ferrando, spesso fanno co-
me certi minori uccelli di rapina ;
ne’ quali è tanto desiderio di conseguire
la loro preda, a che la natura gli incita,
che non sentono un altro maggior uc-
cello che sia loro sopra, per ammazzar-
gli. Conoscesi, adunque, per questo di-
scorso, come nel principio proposi, lo
errore del Popolo romano, volendo sal-
vare la libertà ; e gli errori di Appio,
volendo occupare la tirannide.
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LIBIIO PRIMO.
221
Cap. XLI. — Sahare dalla Umilila alla
superbia j dalla pietà alta crudeltà
senza debiti mezzij è cosa impruden-
te ed inutile.
Oltre agli altri termini male usati da
Appio per mantenere la tirannide, non
fu di poco momento saltare troppo pre-
sto da una qualità ad un’altra. Perchè
la astuzia sua nello ingannare la Plebe,
simulando d’essere uomo popolare, fu
bene usata; furono ancora bene usati i
termini che tenue perchè i Dieci si
avessino a rifare; fu ancora bene usata
quella audacia di creare sè stesso con-
tra alla oppinione della Nobiltà; fu
bene usato creare colleghi a suo pro-
posito: ma non fu già bene usato, come
egli ebbe fatto questo, secondo che di
sopra dico, mutare in un subito natu-
ra; e di amico, mostrarsi nimico alla
Plebe; di umano, superbo; di facile,
difficile; e farlo tanto presto, che senza
DEI DtSCOI'.St
222
scusa veruna ogni uomo avesse a cono-
scer la fallacia dello animo suo. Perchè
chi è paruto buono un tempo, e vuole
a suo proposito diventar tristo, io deb-
be fare per gli debiti mezzi ; ed in modo
condurvisi con le occasioni, che innanzi
che la diversa natura ti tolga de’ favori
vecchi, la te ne ubbia dati tanti degli
nuovi, che tu non venga a diminuire la
tua autorità: altrimenti, trovandoti sco-
perto e senza amici, rovini.
Cap. XL1I. — Quanto gli uomini
facilmente si possono corrompere.
Notasi ancora in questa materia del
decemvirato, quanto facilmente gli uo-
mini si corrompono, e fatinosi diventare
di contraria natura, ancora che buoni
e bene educati; considerando quanto
quella gioventù che Appio si aveva
eletta intorno, cominciò ad essere ami-
ca della tirannide per uno poco d’uti-
lità che gliene conseguiva ; e come
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LIBRO PRIMO.
Quinto Fabio, uno del numero de’ se-
condi Dieci, sendo uomo oliimo, acce-
calo da un poco di ambizione, e per-
suaso dulia malignità di Appio, mutò i
suoi buoni costumi in pessimi, e diven-
tò simile a lui. Il che esaminato bene,
farà tanto più pronti i legislatori delle
repubbliche o de’ regni a frenare gli
appetiti umani, c torre loro ogni spe-
ranza di potere impune errare.
Cap. XLIII. — Quelli che combattono per
la gloria propria, sono buoni e fe-
deli soldati.
Considerasi ancora per il soprascritto
trattato, quanta differenza è da uno
esercito contento e che combatte per la
gloria sua, a quello che è male disposto
e che combatte per la ambizione d’ altri.
Perchè, dove gli eserciti romani solevano
sempre essere vittoriosi sotto i Consoli,
sotto i Decemviri sempre perderono. Da
questo essempio si può conoscere parte
224
DEI DISCORSI
delle cagioni della inutilità de’ soldati
mercenurii; i quali non hanno altra ca-
gione clic li tenga fermi, che un poco
di stipendio che tu dai loro. La qual
cagione non è nè può essere bastante a
fargli fedeli, nè tanto tuoi amici, che
voglino morire per le. Perchè in quelli
eserciti che non è una affezione verso
di quello per chi e’ combattono, che gli
facci diventare suoi partigiani, non mai
vi potrà essere tanta virtù che basti a
resistere ad uno nimico un poco virtuo-
so. G perchè questo amore non può
nascere, nè questa gara, da altro che
da’ sudditi tuoi; è necessario a volere
tenere uno stato, a volere mantenere
una repubblica o uno regno, armarsi
de’ sudditi suoi : come si vede che han-
no fatto tutti quelli che con gli eserciti
hanno fatti grandi progressi. Avevano
gli eserciti romani sotto i Dieci quella
medesima virtù; ma perchè in loro non
era quella medesima disposizione, non
facevano gli usilati loro effetti. Ma come
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LIBRO PRIMO.
225
prima il magistrato de’ Dieci fu spento,
e che loro come liberi cominciorno a
militare, ritornò in loro il medesimo
animo; e per conscguente, le loro im-
prese avevano il loro fine felice, secon-
do la antica consuetudine loro.
C\p. XLIV. — Una moltitudine senza
capo, è inutile: e non si debbo mi-
nacciare prima, c poi chiedere l'au-
torità.
Era la Plebe romana per lo acciden-
te di Virginia ridotta armata nel Monte
Sacro. Mandò il Senato suoi ambascia-
dori a dimandare con quale autorità
egli avevano abbandonati i loro capita-
ni, e ridottisi nel Monte. E tanta era
stimata l’autorità del Senato, che non
avendo la Plebe intra loro capi, ninno
si ardiva a rispondere. E Tito Livio
dice, ohe e’ non mancava loro materia
a rispondere, ma mancava loro chi fa-
cesse la risposta. La qual cosa dimon-
UACHI AVELLI, Discorsi. — 1. 15
226
dei discorsi
stra appunto la inutilità d’ una molti-
tudine senza capo. Il qual disordine fu
conosciuto da Virginio, e per suo ordi-
ne si creò venti Tribuni militari, che
fussero loro capo a rispondere e con-
venire col Senato. Ed avendo chiesto che
si mandasse loro Valerio ed Orazio, ai
quali loro direbbono la voglia loro, non
vi volsono andare se prima i Dieci non
deponevano il magistrato: ed arrivati
sopra il Monte dove era la Plebe, fu
domandato loro da quella, che volevano
che si creassero i Tribuni della plebe,
e che si avesse ad appellare al Popolo
da ogni magistrato, e che si dessino
loro tutti i Dieci, chè gli volevano ar-
dere vivi. Laudarono Valerio cd Orazio
le prime loro domande; biasimorono
P ultima come impia, dicendo : Crude -
litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis ;
e consigliamogli che dovessino lasciare
il fare menzione de’ Dieci, e ch’egli at-
tendessino a pigliare V autorità e pote-
stà loro: dipoi non mancherebbe loro
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LIBRO PRIMO. 227
modo a satisfarsi. Dove apertamente si
conosce quanta stultizia c poca pru-
denza è domandare una cosa, e dire
prima: io voglio far male con essa;
perchè non si debbo mostrare l’animo
suo, ma vuoisi cercare d’ottenere quel
suo desiderio in ogni modo. Perchè
e’ basta a dimandare a uno le armi,
senza dire: io ti voglio ammazzare con
esse; potendo poi che tu bai l’arme in
mano, satisfare allo appetito tuo.
I
Cap. XLV. — E cosa di malo esempio
| non osservare una legge falla , c mas-
I sime dallo autore d'essa: e rinfre-
► scare ogni di nuove ingiurie in una
t città, è a chi la governa dannosis-
i simo.
Seguito lo accordo, e ridotta Roma in
la antica sua forma, Virginio citò Appio
innanzi al Popolo a difendere la sua
causa. Quello comparse accompagnato
da molti Nobili. Virginio comandò che
DEI DISCORSI
228
fussc messo in prigione. Cominciò Appio
a gridare, ed appellare al Popolo. Vir-
ginio diceva che non era degno di ave-
re quella nppellagionc che egli aveva
distrutta, ed avere per difensore quel
Popolo che egli aveva offeso. Appio re-
plicava, come e’ non aveano a violare
quella appellagionc ch'egli avevano con
tanto desiderio ordinata. Pertanto egli
fu incarcerato, ed avanti al dì dei giu-
dizio ammazzò sè stesso. E benché la
scellerata vita di Appio meritasse ogni
supplicio, nondimeno fu cosa poco civile
violare le leggi, e tanto più quella che
era fatta allora. Perchè io non credo
che sia cosa di più cattivo esempio in
una repubblica, che fare una legge e
non la osservare; e tanto più, quanto
la non è osservata da chi l’ ha falla.
Essendo Firenze, dopo il XCIV, stala
riordinala nel suo stato con l'aiuto di
frate Girolamo Savonarola, gli scritti
del quale mostrano la dottrina, la pru-
denza, la virtù dello animo suo ; ed
i
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LIBRO PRIMO. 229
avendo intra P altre conslituzioni per
assicurare i cittadini, fatto fare una
legge, che si potesse appellare al popolo
dalle sentenze che, per caso di Stato,
gli Otto c la Signoria dessino; la qual
legge persuase più tempo, e con diffi-
coltà grandissima ottenne: occorse che,
poco dopo la confirmazicne d’essa, fu-
rono condcunati a morte dalla Signoria
per conto di Stato cinque cittadini; e
volendo quelli appellare, non furono
lasciati, e non fu osservata la legge. Il
che tolse più riputazione a quel frate,
che nessun altro accidente: perchè, se
quella appellagione era utile, ei doveva
farla osservare; s’ ella non era utile,
non doveva farla vincere. E tanto più
fu notato questo accidente, quanto che
il frate in tante predicazioni che fece
poi clic fu rotta questa legge, non mai
o dannò chi P aveva rotta, o lo scusò ;
come quello che dannare non voleva,
come cosa che gli tornava a proposito ;
e scusare non la poteva. Il che avendo
DEI DISCORSI
230
scoperto l’animo suo ambizioso e pai*'
tigiano, gii tolse riputazione, e dettegli
assai carico. Offende ancora uno Stato
assai, rinfrescare ogni dì nello animo
de’ tuoi cittadini nuovi umori, per nuo-
ve ingiurie ebe a questo e quello si
fucciano : come intervenne a Roma dopo
il decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed
altri cittadini, in diversi tempi furono
accusati e condannati: in modo che gli
era uno spavento grandissimo in tutta
la Nobiltà, giudicando che e’ non si aves-
se mai a porre fine a simili condenna-
gioni, fino a tanto che tutta la Nobiltà
non fusse distrutta. Ed arebbe generato
in quella città grande inconveniente, se
da Marco Duellio tribuno non vi fusse
stato provveduto; il qual fece uno edit-
to, che per uno anno non fusse lecito
ad alcuno citare o accusare alcuno cit-
tadino contano : il che rassicurò tutta
la Nobiltà. Dove si vede quanto sia dan-
noso ad una repubblica o ad un prin-
cipe, tenere con le continove pene ed
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LIBRO PRIMO.
231
offese sospesi e paurosi gli animi dei
sudditi. E senza dubbio, non si può te-
nere il più pernicioso ordine: perchè gli
uomini che cominciano a dubitare di
avere a capitar male, in ogni modo si
assicurano ne’ pericoli, e diventano più
audaci, e meno rispettivi a tentare cose
nuove. Però è necessario, o non offen-
dere mai alcuno, o fare le offese ad un
tratto; e dipoi rassicurare gli uomini,
e dare loro cagione di quietare e fer-
mare l’animo.
Cap. XLVI. — Gli uomini salgono da
una ambizione ad unJ altra ; c prima
si cerca non essere offeso t dipoi di
offendere altrui.
Avendo il Popolo romano ricuperala
la libertà, ritornato nel suo primo gra-
do, ed in tanto maggiore, quanto si
erano fatte dimolte leggi nuove In cor-
roborazione della sua potenza ; pareva
ragionevole che Roma qualche volta quic-
232
DE! DISCORSI
tasse. Nondimeno, per esperienza si vide
il contrario; perchè ogni di vi surgeva
nuovi tumulti e nuove discordie. E per-
chè Tito Livio prudentissimamente rende
la ragione donde questo nasceva, non
mi pare se non a proposito riferire ap-
punto le sue parole, dove dice che sem-
pre o il Popolo o la Nobiltà insuperbi-
va, quanto V altro si umiliava ; e stando
la Plebe quieta intra i termini suoi, co-
minciarono i giovani nobili ad ingiu-
riarla ; ed i Tribuni vi potevano fare
pochi rimedi, perchè ancora loro erano
violati. La Nobiltà, dalP altra parte, an-
cora che gli paresse che la sua gioventù
fusse troppo feroce, nondimeno aveva a
caro che avendosi a trapassare il modo,
lo trapassassino i suoi, e non la Plebe.
E cosi il desiderio di difendere la li-
bertà faceva che ciascuno tanto si pre-
valeva, eh’ egli oppressava l’ altro. E V or-
dine di questi accidenti è, che mentre
clic gli uomini cercano di non temere,
cominciano a far temere altrui; e quella
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LIBRO PRIMO. 233
ingiuria ch’egli scacciano da loro, la
pongono sopra un altro: come se fussc
necessario offendere, o essere offeso. Ve-
desi, per questo, in quale modo, fra gli
altri, le repubbliche si risolvono; e in
che modo gli uomini salgono da una
ambizione ad un’ altra ; e come quella
sentenza salustiaua posta in bocca di
Cesare, è verissima : quod omnia mala
exempla bonis mitiis orla sunt. Cerca-
no, come di sopra è detto, quelli citta-
dini clie ambiziosamente vivono in una
repubblica, la prima cosa di non potere
essere offesi, non solamente dai privati,
ma eziam da’ magistrali : cercano, per
potere fare questo, amicizie ; e quelle
acquistano per vie in apparenza oneste,
o con sovvenire di danari, o con difen-
dergli da’ potenti : e perchè questo pare
virtuoso, s’ inganna facilmente ciascuno,
c per questo non vi si pone rimedio ;
intanto che egli senza ostacolo perseve-
rando, diventa di qualità, che i privati
cittadini ne hanno paura, ed i magistrati
■r.p teft;
234
DEI DISCORSI
gli hanno rispetto. E quando egli è sa*
Jito a questo grado, c non si sia prima
ovvialo alla sua grandezza, viene od es-
sere in termine, che volerlo urtare è
pericolosissimo, per le ragioni che io
dissi di sopra del pericolo che è nello
urtare uno inconveniente che abbi di già
fatto augumento in una città: tanto che
la cosa si riduce in termine, che bisogna o
cercare di spegnerlo con pericolo di una
subita rovina j o lasciandolo fare, entrare
in una servitù manifesta, se morte o qual-
che accidente non te ne libera. Perchè,
venuto a’soprascrilti termini, che i citta-
dini ed i magistrati abbino paura ad of-
fender lui e gli amici suoi, non dura dipoi
molta fatica a fare che giudichino ed of-
fendino a suo modo. Donde una repubblica
intra gli ordini suoi debbe avere questo,
di vegghiarc che i suoi cittadini sotto
ombra di bene non possino far male ;
e di’ egli abbino quella riputazione che
giovi, e non nuoca, alla libertà: come
nel suo luogo da noi sarà disputato.
I
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LIBRO PRIMO.
Cap. XLVII. — Gli nomini j ancora clic
si ingannino ncJ generali j nei parti-
colari non si ingannano.
Essendosi il Popolo romano, come di
sopra si dice, recato a noia il nome
consolare, e volendo che potessiao esser
fatti Consoli uomini plebei, o che fusse
limitata la loro autorità ; la Nobiltà, per
non deonestare l’ autorità consolare nè
con Tuna nè con 1’ altra cosa, prese una
via di mezzo, e fu contenta che si creas-
sino quattro Tribuni con potestà conso*
lare, i quali potcssino essere cosi plebei
come nobili. Fu contenta a questo la
Plebe, parendogli spegnere il consolato,
ed avere in questo sommo grado la parte
sua. Nacquene di questo un caso nota*
bile : che venendosi alla creazione di
questi Tribuni, e potendosi creare tutti
plebei, furono dal Popolo romano creati
tutti fiobiii. Onde Tito Livio dice queste
parole: Quorum comitiorum eoenlus do-
m
Ip Ri!
p * £• i
m Bb- :
Iti:- IttRS
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236 DEI DISCORSI
cuit, alias animo s in contcntione l ib er-
ta ti s et honoris, alios secundum depo-
sita certamina in incorrupto judicio
esse. Ed esaminando donde possa proce-
dere questo, credo proceda che gii uo-
mini nelle cose generali s’ ingannano
assai, nelle particolari non tanto. Pareva
generalmente alla Plebe romana di me-
ritare il consolato, per avere più parte
in la città, per portare più pericolo nelle
guerre, per esser quella che con le brac-
cia sue manteneva Roma libera, e la fa-
ceva potente. E parendogli, come è det-
to, questo suo desiderio ragionevole, volse
ottenere questa autorità in ogni modo.
Ma come la ebbe a fare giudizio degli
uomini suoi particolarmente, conobbe la
debolezza di quelli, e giudicò che nessuno
di loro meritasse quello che tutta insie-
me gli pareva meritare. Talché vergo-
gnatasi di loro, ricorse a quelli che Io
meritavano. Della quale deliberazione
meravigliandosi meritamente Tito Livio,
dice queste parole : /lane modestiam ,
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unno primo.
237
aquila IcmquCj et allitudinem animi, ubi
moie in uno inveneris , qua: lune populi
universi fuit ? In corroborazione di que-
sto, se ne può addurre un altro notabile
essempio, seguito in Capova da poi che
Annibaie ebbe rotti i Romania Canne;
per la qual rotta sendo tutta sollevata
Italia, Capova stava ancora per tumul-
tuare, per P odio eli’ era intra il Popolo
ed il Senato; e trovandosi in quel tempo
nel supremo magistrato Pacuvio Calano,
e conoscendo il pericolo che portava
quella città di tumultuare, disegnò con
suo grado riconciliare la Plebe con la
Nobiltà ; e fatto questo pensiero, fece
ragunare il Senato, c narrò loro Podio
che M popolo aveva contra di loro, ed i
pericoli che portavano di essere ammaz-
zati da quello, e data la città ad Anni-
baie, sendo le cose de’ Romani afflitte :
dipoi soggiunse, che se volevano lasciare
governare questa cosa a lui, farebbe in
modo che si unirebbono insieme ; ma gli
voleva serrare dentro al palazzo, e col
23 $
DEI DlSCOHSt
fare potestà al popolo di potergli gasti-
gare, salvargli. Cederono a questa sua
oppinione i Senatori, e quello chiamò il
Popolo a coocione, avendo rinchiuso in
palazzo il Senato ; e disse com’ egli era
venuto il tempo di potere domare la su*
perbia della Nobiltà, e vendicarsi delle
ingiurie ricevute da quella, avendogli
rinchiusi tutti sotto la sua custodia : ma
perchè credeva che loro non volessino
che la loro città rimanesse senza gover-
no, era necessario, volendo ammazzare
i Senatori vecchi, crearne de* nuovi.
E per tanto aveva messo tutti gli nomi
degli Senatori in una borsa, e comin-
cierebbe a trargli in loro presenza j ed
egli farebbe i tratti di mano in mano
morire, come prima loro avessino tro-
vato il successore. E cominciato a trarne
uno, fu al nome di quello levato un ru-
more grandissimo, chiamandolo uomo
superbo, crudele ed arrogante : e chie-
dendo Paeuvio che facessino lo scambio,
si racchetò tutta la conclone ; c dopo
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LIBRO PRIMO* 239
alquanto spazio, fu nominato uno della
plebe ; al nome del quale chi cominciò
a fischiare, chi a ridere, chi a dirne
male in uno modo, e chi in un altro:
o così seguitando di mano in mano, tutti
quelli che furono nominati, gli giudica-
vano indegni del grado senatorio. In
modo che Pacuvio, presa sopra questo
occasione, disse: Poiché voi giudicate che
qucslu città stia male senza Senato, ed
a fare gii scambi a’ Senatori vecchi non
vi accordate, io penso che sia bene che
voi vi riconciliate insieme ; perchè que-
sta paura in la quale i Senatori sono
stati, gli arà fatti in modo raumiliare,
che quella umanità che voi cercavate al-
trove, troverete in loro. Ed accordatisi
a questo, ne segui la unione di questo
ordine ; e quello inganno in che egli
erano si scoperse, come e’ furono con-
stretti venire a’ particolari. Ingannansi,
olirà di questo, i popoli generalmente
nel giudicare le cose e gli accidenti di
esse j le quali dipoi si conoscono parti-
240
►
■
1 < •
DEI DISCORSI
colamento, si avveggono di tale ingan-
no. Dopo il 4494, sendo stati i principi
della città cacciati da Firenze, e non vi
essendo alcuno governo ordinato, ma
piuttosto una certa licenza ambiziosa, ed
andando le cose pubbliche di inale in
peggio ; molti popolari veggiendo la ro-
vina della città, e non ne intendendo al-
tra cagione, ne accusavano la ambizione
di qualche potente che nutrisse i disor-
dini, per poter fare uno Stato a suo pro-
posito, c torre loro la libertà : c stavano
questi tali per le logge c per le piazze,
dicendo male di molti cittadini, e minac-
ciandoli che se mai si trovassero de’ Si-
gnori, scoprirebbono questo loro ingan-
no, e gli gastigarebbono. Occorreva
spesso che de’ simili ne ascendeva al
supremo magistrato; e come egli era
salilo in quel luogo, e che e* vedeva le i
cose più dappresso, conosceva i disor-
dini donde nascevano, ed i pericoli che
soprastavano, e la difficoltà del rime- !
citarvi. C veduto come i tempi, e non
J
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LIBRO PRIMO. 241
gli uomini, causavano il disordine, di-
ventava subito d’ un altro animo, c di
un’ altra fatta ; perché la cognizione delle
cose particolari gli toglieva via quello
inganno che nel considerare generalmente
si aveva presupposto. Dimodoché, quelli
che lo avevano prima, quando era pri-
vato, sentito parlare, e vedutolo poi nel
supremo magistrato stare quieto, crede-
vano che nascesse, non per più vera co-
gnizione delle cose, ma perchè fusse stalo
aggirato e corrotto dai grandi. Ed ac-
cadendo questo a molti uomini c molte
volte, ne nacque tra loro un proverbio,
che diceva : Costoro hanno uno animo
in piazza, cd uno in palazzo. Conside-
rando, dunque, tutto quello si è discor-
so, si vede come e’ si può fare tosto
aprire gli occhi a’ popoli, trovando mo-
do, veggendo che uno generale gl’ in-
ganna, ch’egli abbino a descenderc ai
particolari ; come fece Pacuvio in Capo-
va, ed il --Senato in Roma. Credo ancora,
che si possa conchiudere, che mai un
Machiavelli, Discorsi. — 1.
242
DEI DISCORSI
uomo prudente non debbe fuggire il
giudizio popolare nelle eo9e particolari,
circa le distribuzioni de' gradi e delle
dignità : perchè solo in questo il popolo
non si inganna ; e se si inganna qualche
volta, Ha sì raro, che s’ inganneranno
più volte i pochi uomini che avessino a
fare simili distribuzioni. Nè mi pare su-
perfluo mostrare nel seguente capitolo,
P ordine che teneva il Senato per isgan-
nare il popolo nelle distribuzioni sue.
V
Cap. XLYIII. — Chi vuole che uno ma-
gistrato non sia dato ad un vile o ad
un tristo j lo facci domandare o ad
un troppo vile e troppo tristo , o ad
uno troppo nobile c troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tri-
buni con potestà consolare non fussino
fatti d’ uomini plebei, teneva uno de’duoi
modi: o egli faceva domandare ai più
riputati uomini di Roma;o veramente,
per i debiti mezzi, corrompeva qualche
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unno primo.
i
243
plebcio sordido ed ignobilissimo, che me-
scolati con i plebei che, di miglior qua-
lità, per T ordinario lo domandavano,
anche loro lo domandassino. Questo ul-
timo modo faceva che la Plebe si ver-
gognava a darlo ; quel primo faceva che
la si vergognava a torlo, li che tutto tor-
na a proposito del precedente discorso,
, dove si mostra che il popolo se s’ inganna
^ de’ generali, de’particolari non s’inganna.
CaP. XLIX. — Se quelle città che hanno
avuto il principio libcrOj come Romaj
hanno diffìcultà a trovare leggi che
le mantenghino ; quelle che lo hanno
immediate servo , ne hanno quasi una
impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una \
repubblica, provvedere a tutte quelle
leggi che la mantenghino libera, lo di-
mostra assai bene il processo della Re-
pubblica romana: dove non ostante che
fussino ordinate di molte leggi da Ro-
i
DEI DISCORSI
241
molo prima, dipoi da Nuraa, da Tulio
Ostilio e Servio, ed ultimamente dai
dieci cittadini creali a simile opera ; non-
dimeno sempre nel maneggiare quella
città si scoprivano nuove necessità, ed
era necessario creare nuovi ordini: co-
me intervenne quando crearono i Cen-
sori, i quali furono uno di quelli prov-
vedimenti che aiutarono tenere Roma
libera, quel tempo che la visse in libertà.
Perchè, diventati arbitri de’ costumi di
Roma, furono cagione potissima che i
Romani diflerissino più a corrompersi.
Feciono bene nel principio della crea-
zione di tal magistrato uno errore, crean-
do quello per cinque anni; ma, dipoi
non molto tempo, fu corretto dalla pru-
denza di Mamereo dittatore, il qual per
nuova legge ridusse detto magistrato a
diciolto mesi. Il che i Censori che veg-
ghiavano, ebbono tanto per male, che
privorno Mamcrco del senato: la qual
cosa e dalla Plebe c dai Padri fu assai
biasimata. E perchè la istoria non ino*
Dicfitfzca by Google
LIBRO PRIMO.
245
stra che Mamerco se ne potesse difen-
dere, conviene o che lo istorico sia di-
fettivo, o gli ordini di Roma in questa
parte non buoni : perchè non è bene che
una repubblica sia in modo ordinata,
ebe un cittadino per promulgare una
legge conforme al vivere libero, ne possa
essere senza alcuno rimedio offeso. Ma
tornando al principio di questo discorso,
dico che si dehbe, per la creazione di
questo nuovo magistrato, considerare,
che se quelle città che hanno avuto il
principio loro libero, e che per se me-
desimo si è retto, come Roma, hanno
difHcultà grande a trovar leggi buone
per mantenerle libere ; non è meravi-
glia che quelle città che hanno avuto il
principio loro immediate servo, abbino,
non che dilfìcultà, ma impossibilità ad
. ordinarsi mai in modo che le possino
vivere civilmente e quietamente. Come
si vede che è intervenuto alla città di
Firenze; la quale, per avere avuto il
principio suo sottoposto allo imperio ro-
DEI DISCORSI
24G
mano, ed essendo vivuta sempre sotto
governo d* altri, stette un tempo sog-
getta, e senza pensare a sè medesima:
dipoi, venuta la occasione di respirare,
cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo
mescolati con gli antichi, che erano tri-
sti, non poterono essere buoni: e così
è ita maneggiandosi per dugento anni
che si lia di vera memoria, senza avere
mai avuto stato per il quale ella possa
veramente essere chiamata repubblica.
E queste diflicultà che sono state in lei,
sono state sempre in tutte quelle città
che hanno avuto i principii simili a lei.
E benché molte volte, per suffragi pub-
blici e liberi, si sia dato ampia autorità
a pochi cittadini di potere riformarla;
non pertanto mai l’ hanno ordinata a
comune utilità, ma sempre a proposito
della parte loro : il che ha fatto non
ordine, ma maggiore disordine in quella
città. E per venire a qualche essempio
particolare, dico come intra le altre cose
che si hanno a considerare da uno or-
I
LIBRO PRIMO. 247
dinatore d’ una repubblica, è esaminare
nelle mani di quali uomini ci ponga
1’ autorità del sangue coutra de’ suoi
cittadini. Questo era bene ordinato in
Roma, perchè e’ si poteva appellare al
Popolo ordinariamente : e se pure fussc
occorsa cosa importante, dove il differire
la esecuzione mediante la appellagione
fusse pericoloso, avevano il refugio del
Dittatore, il quale eseguiva immediate;
al qual rimedio non rifuggivano mai, se
non per necessità. Ma Firenze, c Y altre
città nate nel modo di lei, sendo serve,
avevano questa autorità collocata in un
forestiero, il quale mandato dal principe
faceva tale uffizio. Quando dipoi ven-
nono in libertà, mantennero questa au-
torità in un forestiero, il quale chiama-
vano Capitano: il che, per potere essere
facilmente corrotto da’ cittadini potenti,
era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mu-
randosi per la mutazione degli Stati que-
sto ordine, creorno otto cittadini che fa-
cessino V uffizio di quel Capitano. Il quale
548
DEI DISCORSI
ordine, di cattivo, diventò pessimo, per
le cagioni che altre volte sono dette:
che i pochi furono sempre ministri dc’po-
ehi, e de* più potenti. Da che si è guar-
data la città di Vinegia; la quale ha
dieci cittadini, che senza appello possono
punire ogni cittadino. E perchè e* non
basterebbono a punire i potenti, ancora
die ne nvessino autorità, vi hanno con-
stituito le Quarnntie: c di più, hanno
voluto che il Consiglio de’ Pregai, elicè
il Consiglio maggiore, possa gastigargli;
In modo che non vi mancando lo accu-
satore, non vi manca il giudice a tener
gli uomini potenti a freno. Non è dun-
que meraviglia, reggendo come in Roma,
ordinata da sè medesima e da tanti
uomini prudenti, surgevano ogni di
nuove cagioni per le quali si aveva a
fare nuovi ordini in favore del viver li-
bero j se nelle altre città che hanno
più disordinalo principio, vi surgono
tuli difficoltà, che le non si possino rior-
dinar mai.
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Cap. L. — iVon dcbbc uno consiglio o
uno magistrato potere fermare le azio-
ni della città.
tirano consoli in Roma Tito Quinzio
Cincinnato c Gneo Giulio Mento, i quali
sendo disuniti, avevano ferme tutte le
azioni di quella Repubblica. 11 che veg-
gcndo il Senato, gli confortava a creare
il Dittatore, per fare quello che per le
discordie loro non poteva fare. Ma i Con-
soli discordando in ogni altra cosa, solo
in questo erano d’accordo, di non voler
creare il Dittatore. Tanto che il Senato,
non avendo altro rimedio, ricorse allo
aiuto de’ Tribuni; i quali, con l’autorità
del Senato, sforzarono i Consoli ad ub-
bidire. Dove si ba a notare, in prima,
la utilità del tribunato; il quale non era
solo utile a frenare l’ ambizione che i
potenti usavano contra alla Plebe, ma
quella ancora ch’egli usavano infra loro:
1’ altra, che mai si debba ordinare in
250
DEI DISCORSI
una città, che i pochi possino tenere al-
cuna deliberazione di quelle che ordina-
riamente sono necessarie a mantenere
la repubblica. Yerbigrazia, se tu dai una
autorità nd uno consiglio di fare una
distribuzione di onori c di utile, o ad
uno magistrato di amministrare una fac-
cenda; conviene o imporgli una neces-
sità perchè ei l’ abbia a fare in ogni
modo; o ordinare, quando non la voglia
fare egli, che la possa e debba fare un
altro: altrimenti, questo ordine sarebbe
difettivo e pericoloso; come si vedeva
che era in Roma, se alla ostinazione di
quelli Consoli non si poteva opporre
P autorità de’ Tribuni. Nella Repubblica
veneziana il Consiglio grande distribui-
sce gli onori e gli utili. Occorreva alle
volte che P universalità, per isdegno o
per qualche falsa suggestione, non crea-
va i successori ai magistrati della città,
ed a quelli che fuori amministravano lo
imperio loro. Il che era disordine gran-
dissimo: perchè in un tratto, e le terre
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LIBRO PRIMO.
251
suddite e la città propria mancavano
de’ suoi legittimi giudici; nè si poteva
ottenere cosa alcuna, se quella univer-
salità di quel Consiglio non si satisfa-
ceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe
ridotta questo inconveniente quella città
a mal termine, se dagli cittadini pru-
denti non vi si fusse provveduto: i quali,
presa occasione conveniente, fecero una
legge, che tutti i magistrati che sono o
fussino dentro e fuori della città, mai
vacassero, se non quando fussino fatti
gli scambi e i successori loro. E cosi si
tolse la comodità a quel Consiglio di po-
tere, con pericolo della repubblica, fer-
mare le azioni pubbliche.
•
Cap. LI. — Una repubblica o uno prin-
cipe debbe mostrare di fare per libe-
ralità quello a che la necessità lo con-
siringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado
sempre delle cose, in ogni loro azione,
262
DEI DISCORSI
ancora che la necessità gli constringesse
a farle in ogni modo. Questa prudenza
fu usata bene dal Senato romano, quan-
do ei deliberò che si desse lo stipendio
del pubblico agli uomini che militavano,
essendo consueti militare del loro pro-
prio. Ma veggendo il Senato come in
quel modo non si poteva fare lunga-
mente guerra, e per questo non potendo
nè assediare terre, uè condurre gli eser-
citi discosto; e giudicando essere neces-
sario potere fare 1* uno e 1’ altro ; deli-
berò che si dessino detti stipendi; ina
lo feciono in modo, che si fecero grado
di quello a che la necessità gli constrin-
geva; e fu tanto accetto alla Plebe que-
sto presente, che Roma andò «sottosopra
per la allegrezza, parendole uno bene-
fizio grande, quale mai speravano di
avere, e quale mai per loro medesimi
arebbono cerco. E benché i Tribuni s* in-
gegnassero di cancellare questo grado,
mostrando come ella era cosa che ag-
gravava, non alleggeriva, la Plebe, scodo
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LIBRO PRIMO.
253
necessario porre i tributi per pagare
questo stipendio ; nientedimeno non po-
tevano fare tanto che la Plebe non lo
avesse accetto: il che fu ancora augu-
mentalo dal Senato per il modo che di-
stribuivano i tributi; perchè i più gravi
ed i maggiori furono quelli chVposono
alla Nobiltà, e gli primi che furono pagati.
Cap. LII. — A reprimere la insolenza di
uno che surga in una repubblica po-
tente , non vi c più securo e meno scan-
daloso modo , che preoccuparli quelle
vie per le quali e* viene a quella po-
tenza.
Yedesi per il soprascritto discorso,
quanto credito acquistasse la Nobiltà con
la Plebe per le dimostrazioni fatte in
benefizio suo, sì del stipendio ordinato,
si ancora del modo del porre i tributi.
Nel quale ordine se la Nobiltà si fosse
mantenuta, si sarebbe levato via ogni
tumulto in quella città, e sarebbesi tolto
254
DEI DISCORSI
ai Tribuni quel credito che egli aveva-
no con la Plebe, e, per conseguente, quel-
la autorità. E veramente, non si può in
una repubblica, e massime in quelle che
sono corrotte, con miglior modo, meno
scandaloso e più facile, opporsi alla am-
bizione di alcuno cittadino, che preoc-
cuparli quelle vie, per le quali si vede
che esso cammina per arrivare al grado
che disegna, li qual modo se fusse stalo
usato contra Cosimo de’ Medici, sarebbe
stato miglior partito assai per gli suoi
avversari, che cacciarlo da Firenze: per-
chè, se quelli cittadini che gareggiavano
seco, avessino preso lo stile suo di fa-
vorire il popolo, gli venivano senza tu-
multo e senza violenza a trarre di mano
quelle arme di che egli si valeva più.
Piero Soderini si aveva fatto riputazione
nella città di Firenze con questo solo, di
favorire l’universale: il che nello uni-
versale gli dava riputazione, come ama-
tore della libertà della città. E veramente,
a quelli cittadini che portavano invidia
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LIBRO PRIMO.
255
alla grandezza sua, era molto più facile
ed era cosa molto più onesta, meno pe-
ricolosa, e meno dannosa per la repub-
blica, preoccupargli quelle vie con le
quali si faceva grande, che volere con*
trapporsegli, acciocché con la rovina sua
rovinasse tutto il resto della repubblica:
perchè, se gli avessero levate di mano
quelle armi con le quali si faceva ga-
gliardo (il che potevano fare facilmente),
arebbono potuto in lutti i consigli, e in
tutte le deliberazioni pubbliche, oppor-
segli senza sospetto, e senza rispetto al-
cuno. E se alcuno replicasse, che se i
cittadini che odiavano Piero, feciono er-
rore a non gli preoccupare le vie con
le quali ei si guadagnava riputazione
nel popolo, Piero ancora venne a fare
errore, a non preoccupare quelle vie per
le quali quelli suoi avversari lo facevano
temere; di’ che Piero merita scusa, si
perchè gli era difficile il farlo, sì per-
chè le non erano oneste a lui : impe-
rocché le vie con le quali era offeso,
DEI DISCORSI
256
ciano il favorire i Medici; con li quali
favori essi io battevano, e alla fine !o
rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero
onestamente pigliare questa parte, per
non potere distruggere con buona fama
quella libertà alla quale egli era stato
preposto a guardia : dipoi, non potendo
questi favori farsi segreti e ad uno tratto,
erano per Piero pericolosissimi; perchè
comunelle ei si fusse scoperto amico
de’ Medici, sarebbe diventato sospetto ed
odioso al popolo; donde ai nimici suoi
nasceva molto più comodità di oppri-
merlo, che non avevano prima. Debbono,
pertanto, gli uomini in ogni partito con-
siderare i difetti ed i pericoli di quello,
e non gli prendere, quando vi sia più
del pericoloso che dell’ utile ; nonostante
che ne fusse stata data sentenza con-
forme alla deliberazion loro. Perchè, fa-
cendo altrimenti, in questo caso inter-
verrebbe a quelli come intervenne a
Tullio; il quale volendo torre i favori a
Marc’ Antonio, gliene accrebbe. Perchè,
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LIBRO PRIMO.
257
sondo Marc’ Antonio stato giudicalo ini-
mico del Senato, ed avendo quello grande
esercito insieme adunato, in buona parte,
dei soldati che avevano seguitato la parte
di Cesare; Tullio, per torgli questi sol-
dati, confortò il Senato a dare riputa-
zione ad Ottaviano, e mandarlo con lo
esercito e con i Consoli contra a Marc' An-
tonio: allegando, che subito che i sol-
dati che seguitavano Marc’ Antonio, scn-
tissino il nome di Ottaviano nipote di
Cesare, e che si faceva chiamar Cesare,
lascerebbono quello, c si aceosterebbono
a costui ; e così restato Marc’ Antouio
ignudo di favori, sarebbe facile lo oppri-
merlo. La qual cosa riuscì tutta al con-
trario; perchè Marc’ Antonio si guadagnò
Ottaviano; e lasciato Tullio ed il Senato,
si accostò a lui. La qual cosa fu al tutto
la destruzione della parte degli Ottimati.
11 che era facile a conietturare: nè si
doveva credere quel che si persuase Tul-
lio, ma tener sempre conto di quel nome
che con tanto gloria aveva spenti i ni-
Macuiavelu, Discorsi. — i. 17
25S
DLl DISCORSI
mici suoi, ed acquistatosi il principato
in Roma; nè si dovea credere mai potere,
o da suoi eredi o da suoi fautori, avere
cosa che fusse conforme al nome libero.
Cap. LUI. — Il popolo molte volte desi-
dera la rovina sua j ingannato da una
falsa spezie di bene : e come le grandi
speranze e gagliarde promesse facil-
mente lo muovono.
Espugnata che fu la città de’ Veienti,
entrò nel Popolo romano una oppinione,
che fusse cosa utile per la città di Ro*
ma, che la metà de’ Romani andasse ad
abitare a Veio ; argomentando che, per
essere quella città ricca di contado,
piena di edifizii e propinqua a Roma, si
poteva arricchire la metà de’ cittadini
romani, e non turbare per la propin-
quità del sito nessuna azione civile. La
qual cosa parve al Senato ed a’ più savi
Romani tanto inutile e tanto dannosa,
che liberamente dicevano, essere piut-
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LIBRO PRIMO.
259
tosto per patire la morte, che consen-
tire ad una tale deliberazione. In modo
che, venendo questa cosa in disputa, si
accese tanto la Plebe contra al Senato,
che si sarebbe venuto alle armi cd al
sangue, se il Senato non si fusse fatto
scudo di alcuni vecchi e stimati citta-
dini ; la riverenza dc’quali frenò la Ple-
be, che la non procede più avanti con
la sua insolenza. Qui si hanno a notare*
due cose. La prima, che ’l popolo molte
volte, ingannato da una falsa immagine
di bene, desidera la rovina sua ; e se
non gli è fatto capace, come quello sia
male, e quale sia il bene, da alcuno in
chi esso abbia fede, si pone in le re-
pubbliche infiniti pericoli c danni. E
quando la sorte fu che il popolo non
abbi fede in alcuno, come qualche volta
occorre, sendo stato ingannato per lo
addietro o dalle cose o dagli uomini;
si viene alla rovina di necessità. E Dante
dice a questo proposito, nel discorso suo
che fa De Monarchia > che il popolo mol-
DEI DISCORSI
260
te volte grida viva la sua morie j C muoia
la sua vita. Da questa incredulità nasce,
che qualche volta in le repubbliche i
buoni partiti non si pigliano : come di
sopra si disse de’ Veneziani, quando as-
saltati da tanti inimici non poterono
prendere partito di guadagnarsene al-
cuno con la restituzione delle cose tolte
ad altri (per le quali era mosso loro la
'guerra, e fatta la congiura de’ principi
loro contro), avanti che la rovina ve-
nisse. Pertanto, considerando quello che
è facile o quello che è diffìcile persua-
dere ad un popolo, si può fare questa
distinzione: o quel che tu hai a per-
suadere rappresenta in prima fronte
guadagno, o perdita ; o veramente pare
partito animoso, o vile: e quando nelle
cose che si mettono innanzi ai popolo,
si vede guadagno, ancora che vi sia na-
scosto sotto perdila; e quando e* paia
animoso, ancora che vi sia nascosto sotto
la rovina della repubblica, sempre sarà
facile persuaderlo alla moltitudine: e
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LIBRO PRIMO.
261
così fia sempre difficile persuadere quelli
partiti dove apparisce o viltà o perdita,
ancoraché vi fusse nascosto sotto salute
e guadagno. Questo che io ho detto, si
conferma con infiniti esempi, romani e
forestieri, moderni ed antichi. Perchè da
questo nacque la malvagia opinione che
surse in Roma di Fabio Massimo, il quale
non poteva persuadere al Popolo roma-
no, che fusse utile a quella Repubblica
procedere lentamente in quella guerra,
e sostenere senza azzuffarsi V impeto di
Annibaie; perchè quel Popolo giudicava
questo partito vile, c non vi vedeva den-
tro quella utilità vi era ; nè Fabio aveva
ragioni bastanti a dimostrarla loro: c
tanto sono i popoli accecati in queste
oppinioni gagliarde, che benché il Po-
polo romano avesse fatto quello errore
di dare autorità al Maestro de’ cavalli di
Fabio di potersi azzuffare, ancora che
Fabio non volesse; e che per tale auto-
rità il campo romano fusse per esser
rotto, se Fabio con la sua prudenza non
262
DEI DISCORSI
vi rimediava; non gli bastò questa espe-
rienza, che fece dipoi consolo Yarrone,
non per altri suoi meriti che per avere,
per tutte le piazze e tutti i luoghi pub-
blici di Roma, promesso di rompere An-
nibaie, qualunque volta gliene fusse data
autorità. Di che ne nacque la zuffa e
rotta di Canne, e presso che la rovina
di Roma. Io voglio addurre a questo
proposito ancora uno altro essempio ro-
mano. Era stato Annibaie in Italia otto
o dieci anni, aveva ripieno di occhio-
ne de’ Romani tutta questa provincia,
quando venne in Senato Marco Centenio
Penula, uomo vilissimo (nondimanco
aveva avuto qualche grado nella milizia),
ed offersegli, che se gli davano autorità
di potere fare esercito di uomini voluti-
tari in qualunque luogo volesse in Italia,
ei darebbe loro, in brevissimo tempo,
preso o morto Annibaie. Al Senato parve
la domanda di costui temeraria; non-
dimeno ei pensando che s’ ella se gli
negasse, e nel popolo si fusse dipoi sa-
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LIBRO PRIMO.
263
pula la sua chiesta, che non ne nascesse
qualche tumulto, invidia e mal grado con-
tro all’ordine senatorio, gliene concesso-
no : volendo più tosto mettere a pericolo
tutti coloro che lo seguitassino, che fare
surgere nuovi sdegni nel Popolo; sap-
piendo quanto simile partito fusse per
essere accetto, e quanto fusse difficile
il dissuaderlo. Andò, adunque, costui
con una moltitudine inordinata ed in-
composita a trovare Annibaie; e non
gli fu prima giunto all* incontro, che fu
con tutti quelli che lo seguitavano rotto
e morto. In Grecia, nella città di Atene,
non potette mai Nicia, uomo gravissimo
e prudentissimo, persuadere a quel po-
polo, che non fusse bene andare ad as-
saltare Sicilia: talché, presa quella de-
liberazione contra alla voglia de’ savi,
ne seguì al tutto la rovina di Atene. Sci-
pione quando fu fatto consolo, e che
desiderava la provincia di Affrica, pro-
mettendo al tutto la rovina di Cartagi-
ne; a che non si accordando il Senato
264
DEI DISCORSI
per la sentenza di Fabio Massimo, mi-
nacciò di proporla nel Popolo, come
quello clic conosceva benissimo quanto
simili deliberazioni piaccino a’ popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare esem-
pi della nostra città : come fu quando
messere Ercole Bentivogli, governadore
delle genti fiorentine, insieme con An-
tonio Giacomini, poiché ebbono rotto
llartolommeo d’ Alviano a San Vincenti,
andarono a campo a Pisa ; la qual im-
presa fu deliberata dal popolo in su le
promesse gagliarde di messcr Ercole,
ancora che molti savi cittadini la bia-
simassero: nondimeno non vi ebbero
rimedio, spinti da quella universale vo-
lutila, la qual era fondata in su le pro-
messe gagliarde del governadore. Dico,
adunque, come non è la più facile via
a fare rovinare una repubblica dove il
popolo abbia autorità, che metterla' in
imprese gagliarde : perchè, dove il po-
polo sia di alcuno momento, sempre fieno
accettale; nè vi arà, chi sarà d’ altra
LIBRO PIUMO.
265
oppinione, alcuno rimedio. Ma se di que-
sto nasce la rovina della città, ne nasce
ancora, e più spesso, la rovina partico-
lare de* cittadini che sono preposti a
simili imprese : perchè, avendosi il po-
polo presupposto la vittoria, eomee’vienc
la perdita, non ne accusa nè la fortu-
na, nè la impotenza di chi ha governato,
ma la tristizia e la ignoranza sua; e
quello il più delle volte o ammazza, o
imprigiona, o confina: come intervenne a
infiniti capitani Cartaginesi, ed a molti
Ateniesi. Nè giova loro alcuna vittoria
che per lo addietro avessino avuta, per-
chè tutto la presente perdita cancella :
come intervenne ad Antonio Giacomini
nostro, il quale non avendo espugnata
Pisa, come il popolo aveva presupposto
ed egli promesso, venne in tanta dis-
grazia popolare, che non ostante infinite
sue buone opere passate, visse più per
umanità di coloro che ne avevano auto-
rità, che per alcun’ altra cagione che
nel popolo lo difendesse.
2C6
DEt DISCORSI
CaP liv# — Quanta autorità abbia uno
uomo grande a frenare una moltitu -
dine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel
superiore capitolo allegato, è, che ve-
runa cosa è tanto atta a frenare una
moltitudine concitata, quanto è la rive-
renza di qualche uomo grave e di au-
torità, che se le faccia incontro j nè senza
cagione dice Virgilio:
“Tutn vietate graverà ac meritis si forte virum
r (gwcm
Conspexere , sileni , arrectisque aur^®n^ci*
Per tanto, quello che è proposto a uno
esercito, o quello che si trova in una
città, dove nascesse tumulto, debbe rap-
presentarsi in su quello con maggior
grazia e piu onorevolmente che può, met-
tendosi intorno le insegne di quel grado
che tiene, per farsi più reverendo. Era,
pochi anni sono, Firenze diviso in due
fazioni, Fratesche ed Arrabbiate, che cosi
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LIBRO PRIMO.
267
si chiamavano; e venendo ali’ arme, ed
essendo superati i Frateschi, intra i quali
era Pagolantonio Soderini, assai in quelli
tempi riputato cittadino; cd andandogli
in quelli tumulti il popolo armato a casa
per saccheggiarla; messer Francesco suo
fratello, allora vescovo di Volterra, ed
oggi cardinale, si trovava a sorte in casa :
il quale, subito sentito il romore e ve-
duta la turba, messosi i più onorevoli
panni indosso, e di sopra il rocchetto
episcopale, si fece incontro a quelli ar-
mati, e con la persona e con le parole
gli fermò ; la qual cosa fu per tutta la
città per molti giorni notata e celebrata.
Conchiudo, adunque, come e’ non è il
più fermo nè il più necessario rimedio
a frenare una moltitudine concitata, che
la presenza d’ uno uomo che per pre-
senza paia e sia reverendo. Vedesi, adun-
que, per tornare al preallegato testo,
con quanta ostinazione la Plebe romana
accettava quel partito d’ andare a Yeio,
perchè Io giudicava utile, nè vi cono-
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DEI DISCORSI
268
sceva sotto il danno vi era ? e come na-
scendone assai tumulti, ne sarebbero
nati scandali, se il Senato con uomini
gravi e pieni di riverenza non avesse
frenato il loro furore.
Cap. lv. — Quanto facilmente si con -
duellino le cose in quella città dove
la moltitudine non è corrotta: e che
dove è e qualità , non si può fare
principato / e dove la non èj non si
può far repubblica.
Ancora clie di sopra si sia discorso
assai quello sia da temere o sperare
delle città corrotte; nondimeno non mi
pare fuori di proposito considerare una
deliberazione del Senato circa il voto
ehe Cammillo aveva fatto di dare la
decima parte ad Apolline della preda
de’ Veienti : la qual preda sendo venuta
nelle mani della Plebe romana, nè se ne
potendo altrimenti riveder conto, fece
il Senato uno editto, che ciascuno do-
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LIBRO PRIMO.
269
vesse rappresentare al pubblico la de-
cima parte di quello gli aveva predalo.
E benché tale deliberazione non avesse
luogo, avendo dipoi il Senato preso al-
tro modo, c per altra via satisfatto ad
Àpolliue in satisfazione della Plebe; non-
dimeno si vede per tali deliberazioni
quanto quel Senato confidasse nella bontà
di quella, e come e’ giudicava che nes-
suno fusse per non rappresentare ap-
punto tutto quello che per tale editto
gli era comandato. E dall’ altra parte si
vede, come la Plebe non pensò di frau-
dare in alcuna parte lo editto con il
dare meno che non doveva, ma di libe-
rarsi da quello con il mostrarne aperte
indignazioni. Questo essempio, con molti
altri che di sopra si sono addotti, mo-
strano quanta bontà e quanta religione
fusse in quel Popolo, e quanto bene
fusse da sperare di lui. E veramente,
dove non è questa bontà, non si può
sperare nulla di bene; come non si può
sperare nelle provincic che in questi
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270
DEI DISCORSI
tempi si veggono corrotte: come è la
Italia sopra tutte le altre; ed ancora la
Francia e la Spagna di tale corruzione
ritengono parte. E se in quelle provin-
cie non si vede tanti disordini quanti
nascono in Italia ogni di, deriva non
tanto dalla bontà de' popoli, la quale ìh
buona parte è mancata; quanto dallo
avere uno re che gli mantiene uniti,
non solamente per la virtù sua, ma per
l’ordine di quelli regni, che ancora non
sono guasti. Vedesi bene nella provin-
cia della Magna, questa bontà e questa
religione ancora in quelli popoli esser
grande; la qual fa che molte repubbli-
che vi vivono libere, ed in modo osser-
vano le loro leggi, che nessuno di fuori
nè di dentro ardisce occuparle. E che
sia vero che in loro regni buona parte
di quella antica bontà, io nc voglio da-
re uno essempio simile a questo detto
di sopra del Senato e della Plebe roma-
na. Usano quelle repubbliche, quando
gli occorre loro bisogno di avere a spen-
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LIBRO PRIMO.
27 i
dere alcuna quantità di danari per conto
pubblico, che quelli magistrati o consi-
gli che ne hanno autorità, ponghino a
tutti gli abitanti della città uno per cen-
to, o dua, di quello che ciascuno ha di
valsente. E fatta tale deliberazione se-
condo 1’ ordine della terra, si rappre-
senta ciascuno dinanzi agli esecutori di
tale imposta; e, preso prima il giura-
mento di pagare la conveniente somma,
getta in una cassa a ciò deputata quello
clic secondo la conscienza sua gli pare
dover pagare: del qual pagamento non
è testimonio alcuno, se non quello che
paga. Donde si può conictturare, quanta
bontà e quanta religione sia ancora in
quelli uomini. E debbesi stimare che
ciascuno paghi la vera somma: perchè,
quando la non si pagasse, non pitte-
rebbe la imposizione quella quantità
che loro disegnassero secondo le anti-
che che fussino usitate riscuotersi; e
non gitlando, si conoscerebbe la fraude;
e conoscendosi, arebbon preso altro modo
DEI DISCORSI
272
che questo. La quale bontà è tanto più
da ammirare in questi tempi, quanto
ella è più rara : anzi si vede essere ri-
masa sola in quella provincia. Il che
nasce da due cose : Y una, non avere
avuti commerzi grandi co’ vicini; per-
chè nè quelli sono ili a casa loro, nè
essi sono iti a casa altrui; perchè sono
stati eontenli di quelli beni, e vivere di
quelli cibi, vestire di quelle lane che dà
il paese: d’onde è stata tolta via la
cagione d’ogni conversazione, ed il prin-
cipio di ogni corruttela; perchè non
hanno possuto pigliare i costumi nè
franciosi nè spagnuoli nè italiani, le
quali nazioni tutte insieme sono la cor-
ruttela del mondo. L’ altra cagione è,
che quelle repubbliche dove si è man-
tenuto il vivere politico ed incorrotto,
non sopportano che alcuno loro citta-
dino nè sia nè viva ad uso di gentil-
uomo: anzi mantengono infra loro una
pari equalità, ed a quelli signori e gen-
tiluomini che sono in quella provincia,
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LIBRO PRIMO.
273
sono inimicissimi ; c se per caso alcuni
pervengono loro nelle mani, come pria*
cipi di corruttela e cagione di ogni scan-
dalo, gli ammazzano. E' per chiarire
questo nome di gentiluomini quale e’ sia.
dico che gentiluomini sono chiamali
quelli che ociosi vivono de’ proventi
delle loro possessioni abbondantemente,
senza avere alcuna cura o di coltivare,
o di alcuna altra necessaria fatica a
vivere. Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni provincia;
ma più perniciosi sono quelli che, oltre
alle predette fortune, comandano a ca-
stella, ed hanno sudditi che ubbidiscono
a loro. Di queste due sorti di uomini
ne sono pieni il regno di Napoli, terra
di Roma, la Romagna e la Lombardia.
Di qui nasce che in quelle provincie
non è mai stata alcuna repubblica, nè
alcuno vivere politico; perchè tali ge-
nerazioni di uomini sono al tutto ne-
mici di ogni civiltà. Ed a volere in pro-
vincie fatte in simil modo introdurre
Machiavelli, Discorsi — 1. 13
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274
DEI DISCORSI
una repubblica, non sarebbe possibile:
ma a volerle riordinare, se alcuno ne
fusse arbitro, non arebbe altra via che
farvi un regno. La ragione è questa,
che dove è tanto la materia corrotta
che le leggi non bastino a frenarla, vi
bisogna ordinare insieme con quelle
maggior forza ; la quale è una mano
regia, che con la potenza assoluta ed
eccessiva ponga freno alla eccessiva am-
bizione e corruttela de’ potenti. Verifi-
casi questa ragione cou lo esempio di
Toscana : dove si vede in poco spazio
di terreno stale longamente tre repub-
bliche, Firenze, Siena e Lucca ; e le al-
tre città di quella provincia essere in
modo serve, che, con l’ animo e con
T ordine, si vede o che le mantengono,
o che le vorrebbono mantenere la loro
libertà. Tutto è nato per non essere in
quella provincia alcun signore di ca-
stella, c nessuno o pochissimi gentiluo-
mini ; ma esservi tanta equalità, che
facilmente da uno uomo prudente, e che
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LIBRO PRIMO.
275
delle antiche civilità avesse cognizione,
vi si introdurrebbe un viver civile. Ma
lo infortunio suo è stato tanto grande,
che infino a questi tempi non ha sor-
tito alcuno uomo che lo abbia potuto
o saputo fare. Trassi adunque di que-
sto discorso questa conclusione: che co-
lui che vuole fare dove sono assai gen-
tiluomini una repubblica, non la può
fare se prima non gli spegne tutti: e
che colui che dove è assai equalità vuole
fare uno regno o uno principato, non
lo potrà mai fare se non trae di quella
«qualità molti di animo ambizioso ed
inquieto, e quelli fa gentiluomini in fat-
to, e non in nome,, donando loro ca-
stella e possessioni, c dando loro fa-
vore di sustanze e d’uomini ; acciocché,
posto in mezzo di loro, mediante quel-
li mantenga la sua potenza ; cd essi,
mediante quello, la loro ambizione; e
gli altri siano constretti n sopportare
quel giogo che la forza, e non altro
mai, può far sopportare loro. Ed essen-
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276
DEI DISCORSI
do per questa via proporzione da chi
sforza a chi è sforzato, stanno fermi
gli uomini ciascuno nello ordine loro.
E perchè il fare d’ una provincia atta
ad essere regno una repubblica, c d’ una
atta ad essere repubblica farne un re-
gno, è materia da uno uomo che per
cervello e per autorità sia raro; sono
stati molti che Io hanno voluto fare, e
pochi che lo abbino saputo condurre.
Perchè la grandezza della cosa parte
sbigottisce gli uomini, parte in modo
gli ’mpedisce, che ne’ primi principii
mancano. Credo che a questa mia op-
piatone, che dove sono gentiluomini non
si possa ordinare repubblica, parrà con-
traria la esperienza della Repubblica
veneziana, nella quale non usano avere
alcuno grado se non coloro che sono
gentiluomini. A che si risponde, come
questo essempio non ci fa alcuna op-
pugnazione, perchè i gentiluomini in
quella Repubblica sono piu in nome che
in fatto; perchè loro non hanno grandi
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LIBRO PRIMO.
277
entrate di possessioni, sendo le loro
ricchezze grandi fondate in sulla mer-
canzia e cose mobili; e di più, nessuno
di loro tiene castella, o ha alcuna iuris-
dizione sopra gli uomini: ma quel no-
me di gentiluomo in loro è nome di
degnila e di riputazione, senza essere
fondato sopra alcuna di quelle cose che
fa che nell’ altre città si chiamano i
gentiluomini. E come le altre repubbli-
che hanno tutte le loro divisioni sotto
vari nomi, così Vinegia si divide in
gentiluomini e popolari ; e vogliono che
quelli abbino, ovvero possino avere, tutti
gli onori; quelli altri ne sieno al tutto
esclusi. Il che non fa disordine in quella
terra, per le ragioni altra volta dette.
Gonstituisca, adunque, una repubblica
colui dove è, o è fatta una grande egua-
lità; ed alP incontro ordini un princi-
pato dove è grande inequalità : altri-
menti farà cosa senza propprzione, e
poco durabile.
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278
DEI DISCORSI
Gap. LYI. — Innanzi che segnino i
grandi accidenti in una città o in una
provincia , vengono segni che gli prò -
ìioslicanOj o uomini che gli predicono.
Donde e* si nasca io non so, ina si
vede pei* gli antichi e per gli moderni
essempi, che mai non venne alcuno grave
accidente in una città o in una provin-
cia, che non sia stato, o da indovini o
da revelazioni o da prodigi, o da altri
segni celesti, predetto. E per non mi di-
scostare da casa nei provare questo, sa
ciascuno quanto da frate Girolamo Sa-
vonarola fusse predetta innanzi la venuta
del re Carlo Vili di Francia in Italia;
e come, olirà di questo, per tutta To-
scana si disse esser sentite in aria e ve-
dute genti d’ arme, sopra Arezzo, che si
azzuffavano insieme. Sa ciascuno olirà
di questo, come avanti la morte di Lo-
renzo de’ Medici vecchio fu percosso il
duomo nella sua più alta parte con una
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LIBRO PRIMO.
279
saetta celeste, con l'ovina grandissima
di quello edilìzio. Sa ciascuno ancora,,
come poco innanzi che Piero Soderini,
quale era stato fatto gonfaloniere a vita
dal popolo fiorentino, fosse cacciato e
privo del suo grado, fu il palazzo me-
desimamente da un fulgore percosso. Po-
trcbbesi, olirà di questo, addurre più
essempi, i quali per fuggire il tedio la-
scerò. Narrerò solo quello che Tito Li-
vio dice, innanzi alla venuta de’ Fran-
ciosi in Roma : cioè, come uno Marco
Cedizio plebeio, riferì al Senato avere
udito di mezza notte, passando per la
Via Nuova, una voce maggiore che uma-
na, la quale lo ammoniva che riferisse
ai magistrati, come i Franciosi venivano
a Roma. La cagione di questo credo sia
da essere discorsa ed interpretata da
uomo che abbia notizia delle cose natu-
rali e soprannaturali: il che non abbia-
mo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo
questo aere, come vuole alcuno filosofo,
pieno d’ intelligenze ; le quali per na-
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280
DEI DISCORSI
turale virtù prevedendo le cose future,
ed avendo compassione agli uomini, ac-
ciò si possino preparare alle difese, gli
avvertiscono con simili segni. Pure, co-
munelle si sia, si vede cosi essere la
verità; e che sempre dopo tali accidenti
sopravvengono cose istraordinarie e nuo-
ve alle provincie.
(’ap. L VII. — La plebe insieme è gagliarda;
di per se è debole.
Erano molti Romani, scudo seguita
per la passata de* Franciosi la rovina
della lor patria, andati ad abitare a Yeio,
contea alla constituzione ed ordine del
Senato: il quale, per rimediare a que-
sto disordine, comandò per i suoi editti
pubblici che ciascuno, infra certo tempo
e sotto certe pene, tornasse ad abitare
a Roma. De’quali editti, da prima per
coloro contea a chi e* venivano, si fu
fatto beffe; dipoi, quando si appressò il
tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono.
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LIBRO PRIMO.
281
E Tito Livio dice queste parole : Ex fc-
rocibus universtSj singtili metti suo obe~
dienfes fuere. E veramente, non si può
mostrare meglio la natura d’ una molti-
tudine in questa parte, che si dimostri
in questo testo. Perchè la moltitudine è
audace nel parlare molte volte contra
alle deliberazioni del loro principe; di-
poi, come veggono la pena in viso, non
si fidando Y uno dell’ altro, corrono ad
ubbidire. Talché si vede certo, che di
quel che si dica uno popolo circa la
mala o buona disposizion sua, si debbe
tenere non gran conto, quando tu sia
ordinato in modo da poterlo mantenere,
s’ egli è ben disposto; s’ egli è mal di-
sposto, da poter provvedere che non ti
offenda. Questo s’intende per quelle male
disposizioni che hanno i popoli, nate da
qualunque altra cagione, che o per avere
perduto la libertà, o il loro principe
stato amato da loro, e che ancora sia
vivo; perchè le male disposizioni che
nascono da queste cagioni, sono sopra
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282
DEI DISCORSI
ogni cosa formidabili, e che hanno bi-
sogno di grandi rimedi a frenarle : 1' al-
tre sue indisposizioni fieno facili, quando
ci non abbia capi a chi rifuggire. Per-
chè non ci è cosa, dall’ un canto, più
formidabile che una moltitudine sciolta
e senza capo; e, dall’ altra parte, non è
cosa più debole : perchè, quantunque ella
abbi 1’ armi in mano, fia facile ridurla,
purché tu abbi ridotto da potere fug-
gire il primo impeto; perchè quando gli
animi sono un poco raffreddi, e che cia-
scuno vede di aversi a tornare a casa
sua, cominciano a dubitare di loro me-
desimi, e pensare alla salute loro, o con
fuggirsi o con l’accordarsi. Però una
moltitudine così concitata, volendo fug-
gire questi pericoli, ha subito a fare in-
fra sè medesima un capo che la correg-
ga, tenghila unita e pensi alla sua di-
fesa ; come fece la Plebe romana, quando
dopo la morte di Virginia si partì da
Roma, e per salvarsi feciono infra loro
venti Tribuni: e non facendo questo, in-
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LIBRO PRIMO.
283
terviene loro scmj)re quel che dice Tito
Livio nelle soprascritte parole, che tutti
insieme sono gagliardi; e quando cia-
scuno poi comincia a pensare al proprio
pericolo, diventa vile e debole.
Cap. LVIIL — ì.a moltitudine è più savia
e più costante che un principe.
Nessuna cosa essere più vana e più
inconstante che la moltitudine: cosi Tito
Livio nostro, come tutti gli altri isto-
rici affermano. Perchè spesso occorre,
nel narrare le azioni degli uomini, ve-
dere la moltitudine avere condannato
alcuno a morte, e quel medesimo di poi
pianto e sommamente desiderato: come
si vede avere fatto il Popolo romano di
Manlio Capitolino, il quale avendo con-
dcnnato a morte, sommamente dipoi de-
siderava. E le parole dell* autore son
queste: Populum brevi, posteaquam ab
co periculum nullum eral , dcsidcrium
rjus tenuit. Ed altrove, quando mostra
DEI DISCORSI
284
gli accidenti che nacquero in Siracusa
dopo la morte di Girolamo nipote di Ie-
rone, dice: Hcec natura mulliludinis est :
aut umiliter servii , aut superbe domi •
natur. Io non so se io mi prenderò una
provincia dura, e piena di tanta diffi-
coltà, che mi convenga o abbandonarla
con vergogna, o seguirla con carico;
volendo difendere una cosa, la quale,
come ho detto, da tutti gli scrittori è
accusata. Ma, comunehc si sia, io non
giudico nè giudicherò mai essere difetto
difendere alcune oppinioni con le ragioni,
senza volervi usare o la autorità o la
forza. Dico adunque, come di quello di-
fetto di che accusano gli scrittori la
moltitudine, se ne possono accusare tutti
gli uomini particolarmente, e massime
i principi; perchè ciascuno che non sia
regolato dalle leggi, farebbe quelli me-
desimi errori che la moltitudine sciolta.
E questo si può conoscere facilmente,
perchè e’ sono c sono stati assai prin-
cipi, e de’ buoni e de’ savi ne sono stati
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LIBRO PRIMO. 285
pochi; io dico de’ principi che hanno
potuto rompere quel freno che gli può
correggere; intra i quali non sono que-
gli re che nascevano in Egitto, quando
in quella antichissima antichità si go-
vernava quella provincia con le leggi;
nè quelli che nascevano in Sparta; nè
quelli che a’ nostri tempi nascono in
Francia: il quale regno è moderato più
dalle leggi, che alcuno altro regno di
che ne’ nostri tempi si abbi notizia. E
questi re che nascono sotto tali consti-
tuzioni, non sono da mettere in quel
numero, donde si abbia a considerare
la natura di ciascuno uomo per sè, e
vedere se egli è simile alla moltitudine:
perchè a rincontro loro si debbe porre
una moltitudine medesimamente regolata
dalle leggi come sono loro; e si troverà
in lei essere quella medesima bontà che
noi veggiamo essere in quelli, e vedrassi
quella nè superbamente dominare nè
umilmente servire: come era il Popolo
romano, il quale mentre durò la Repub-
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286
DEI DISCORSI
blica incorrotta, non servì mai umil-
mente nè mai dominò superbamente;
anzi con li suoi ordini e magistrati tenne
il grado suo onorevolmente. E quando
era necessario insurgerc contra a uno
potente, lo faceva; come si vede in Man-
lio, ne’ Dieci, ed in altri che cercorno
opprimerla : e quando era necessario
ubbidire a’ Dittatori ed a’ Consoli per la
salute pubblica, lo faceva. E se il Po-
polo romano desiderava Manlio Capito-
lino morto, non è meraviglia; perchè
e* desiderava le sue virtù, le quali erano
state tali, che la memoria di esse recava
compassione a ciascuno; cd arebbono
avuto forza di fare quel medesimo ef-
fetto in un principe, perchè 1* è senten-
za di tutti li scrittori, come la virtù si
lauda e si ammira ancora negli inimici
suoi: e se Manlio, infra tanto desiderio,
fusse risuscitato, il Popolo di Roma arebbe
dato di lui il medesimo giudizio, come
ei fece, tratto che lo ebbe di prigione,
che poco di poi lo condennò a morte;
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LIBRO PRIMO.
287
nonostante die si vegga di principi te-
nuti savi, i quali hanno fatto morire
qualche persona, e poi sommamente de-
sideratala : come Alessandro, Clito ed
altri suoi amici ; ed Erode, Marianne. Ma
quello che lo istorico nostro dice della
natura della moltitudine, non dice di
quella che è regolata dalle leggi, come
era la romana; ma della sciolta, come
era la siracusana: la quale fece quelli
errori che fanno gli uomini infuriati e
sciolti, come fece Alessandro magno, ed
Erode, ne’ casi detti. Però non è più da
incolpare la natura della moltitudine che
de’ principi, perchè tutti egualmente er-
rano, quando tutti senza rispetto pos-
sono errare. Di che, oltre a quello che
ho detto, ci sono assai essempi, ed in-
tra gli imperadori romani, ed intra gli
altri tiranni e , principi; dove si vede
tanta incostanza e tanta variazione di
vita, quanta mai non si trovasse in al-
cuna moltitudine. Conchiudo, adunque,
contea olla comune oppimene, la qual
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288
DEI DISCORSI
dice come i popoli, quando sono prin-
cipi, sono vari, mutabili, ingrati; affer-
mando che in loro non sono altrimente
questi peccati che si siano ne’ principi
particolari. Ed accusando alcuni i popoli
ed i principi insieme, potrebbe dire il
vero; ma traendone i principi, s’ingan-
na; perchè un popolo che comanda e sia
bene ordinato, sarà stabile, prudente e
grato non altrimenti che un principe, o
meglio che un principe, eziandio stimato
savio: e dall’altra parte, un priucipe
sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario
ed imprudente più che uno popolo. E che
la variazione del procedere loro nasce
non dalla natura diversa, perchè in tutti
è ad un modo: e se vi è vantaggio di
bene, è nei popolo; ma dallo avere più
o meno rispetto alle leggi, dentro alle
quali l’uno e l’altro vive. E chi consi-
derrà il Popolo romano, lo vedrà essere
stato per quattrocento anni iuimico del
nome regio, ed amatore della gloria e
del bene comune della sua patria: vedrà
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LIBRO PRIMO. 2MJ
tanti essempi usati da lui, clic testiiuo-
niauo 1’ una cosa e V altra. £ se alcuno
mi allegasse la ingratitudine eh7 egli usò
centra a Scipione, rispondo quello die
di sopra lungamente si discorse in que-
sta materia, dove si mostrò i popoli es-
sere meno iugraii de’ principi. Ma quanto
alla prudenza ed alla stabilità, dico, co-
me uno popolo è più prudente, più sta-
bile e di miglior giudicio che un prin-
cipe. E uon senza cagione si assomiglia
la voce d7 un popolo a quella di Dio;
perchè si vede una oppinioue univer-
sale fare effetti meravigliosi ne’ prono-
stichi suoi: talché pare che per occulta
virtù e’ prevegga il suo male ed il suo
bene. Quanto al giudicare le cose, si
vede rarissime volte, quando egli ode
due concionanti che tendino in diverse
parti, quando e’ sono di egual virtù, che
non pigli *ia oppinione migliore, e che
non sia capace di quella verità ch’egli ode.
£ se nelle cose gagliarde, o che paiano
utili, come di sopra si dice, egli erra ; mol-
IIacuuvelli, Discorsi. — 1. 19
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DEI DISCORSI
te volte erra ancora uri principe nelle sue
proprie passioni, le quali sono molle più
che quelle de’ popoli. Yedesi ancora, nel-
le sue elezioni ai magistrati, fare di
lunga migliore elezione che uno prin-
cipe; nè mai si persuaderà ad un po-
polo, che sia bene tirare alla degnila
uno uomo infame e di corrotti costumi:
il che facilmente e per mille vie si per-
suade ad un principe. Yedesi un popolo
cominciare ad avere in orrore una cosa,
e molti secoli stare in quella oppinione:
il che non si vede in uno principe. E
dell’ una e dell’ altra di queste due cose
voglio mi basti per testimone il Popolo
romano: il quale, in tante centinaia
d’anni, in tante elezioni di Consoli e di
Tribuni, non fece quattro elezioni di che
quello si avesse a pentire. Ed ebbe, co-
me ho detto, tanto in odio il nome regio,
che nessuno obbligo di alcuno suo cit-
tadino, che tentasse quel nome, potette
fargli fuggire le debite pene. Yedesi,
oltra di questo, le città dove i popoli
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LIBRO PRIMO.
291
sono principi, fare in brevissimo tempo
augumenti eccessivi, e molto maggiori
che quelle che sempre sono state sotto
un principe ! come fece Roma dopo la
cacciata de’ re, ed Atene da poi che la
si liberò da Pisistrato. 11 che non può
nascere da altro, se non che sono mi-
gliori governi quelli de* popoli che quelli
de* principi. Nè voglio che si opponga a
questa mia oppinione tutto quello che
lo istorico nostro ne dice nel preallcgato
testo, ed in qualunque altro; perchè, se
si discorreranno tutti i disordini de’po-
poli, tutti i disordini de* principi, tutte
le glorie de* popoli, tutte quelle de’ prin-
cipi, si vedrà il popolo di bontà e di
gloria essere di lunga supcriore. E se i
principi sono superiori a* popoli nel-
lo ordinare leggi, formare vite civili,
ordinare statuti ed ordini nuovi ; i
popoli sono tanto superiori nel mante-
nere le cose ordinate, eh’ egli aggiun-
gono senza dubbio alla gloria di coloro
che l’ordinano. Ed in somma, per epi-
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29-2
DEI DISCORSI
legare questa materia, dico come hanno
durato assai gli stati de’ principi, hanno
durato assai gli stati delle repubbliche,
e l’uno e l’ altro ha avuto bisogno d’es-
sere regolato dalle leggi : perchè un prin-
cipe che può fare ciò che vuole, è pazzo;
un popolo che può fare ciò che vuole,
non è savio. Se, adunque, si ragionerà
d' un principe obbligato alle leggi, e
d’ un popolo incatenalo da quelle, si ve-
drà più virtù nel popolo che nel prin-
cipe: se si ragionerà dell’ uno e dell’al-
tro sciolto, si vedrà • meno errori nel
popolo che nei principe; e quelli minori,
ed aranno maggiori rimedi. Perchè ad
un popolo licenzioso e tumultuario, gli
può da un uomo buono esser parlato,
e facilmente può essere ridotto nella via
buona : ad un principe cattivo non è al-
cuno che possa parlare, nè vi è altro
rimedio che il ferro. Da che si può far
coniettura della importanza della malat-
tia dell’uno e dell’altro: chè se a cu-
rare la malattia del popolo bastano le
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LIBRO PRIMO.
293
parole, ed a quella del principe bisogna
il ferro, non sarà mai alcuno che non
giudichi, che dove bisogna maggior cura,
siano maggiori errori. Quando un popolo
è bene sciolto, non si temono le pazzie
che quello fa, nè si ha paura del mal
presente, ma di quello che ne può na-
scere, potendo nascere infra tanta con-
fusione un tiranno. Ma ne’ principi tri-
sti interviene il contrario: che si teme
il male presente, e nel futuro si spera;
persuadendosi gli uomini che la sua cat-
tiva vita possa far surgere una libertà.
Sì che vedete la differenza dell’ uno e
dell’ altro, la quale è quanto dalle cose
che sono, a quelle che hanno ad essere.
Le crudeltà della moltitudine sono con-
tra a chi ei temono clic occupi il ben
comune : quelle d’ un principe sono con-
tro a chi ci temono che occupi il bene
proprio. Ma la oppiti ione contro ai po-
poli nasce perchè de’ popoli ciascuno
dice male senza paura e liberamente,
ancora mentre che regnano: de’ principi
i
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294 DEI DISCORSI
si parla sempre con mille paure e mille
rispetti. Nè mi pare fuor di proposito,
poiché questa materia mi vi tira, dispu-
tare nel seguente capitolo di quali con-
federazioni altri si possa più fidare, o
di quelle falle con una repubblica, o di
quelle fatte con ui> principe.
Cap. LIX. — Di quali confederazioni , o
lega, altri si può più fidare ; o di
quella fatta con una repubblica , o di
quella fatta con uno principe.
Perchè ciascuno dì occorre che P uno
principe con l’altro, o V una repubblica
con l’altra, fanno lega ed amicizia in-
sieme ; ed ancora similmente si contrae
confederazione ed accordo intra una re*
pubblica ed uno principe mi pare di
esaminare qual fede è più stabile, e di
quale si debba tenere più conto, o di
quella d’ una repubblica, o di quella
d’ uno principe, lo, esaminando tutto,
credo che in molti casi e’ siano simili.
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LIBRO PRIMO.
295
ed in alcuni vi sia qualche disformità.
Credo per tanto, che gli accordi fatti per
forza non ti saranno nè da un principe
nè da una repubblica osservali; credo
che quando la paura dello stato venga,
l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti
romperà la fede, e ti userà ingratilu*
dine. Demetrio, quel che fu chiamato
espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli
Ateniesi infiniti benefici! : occorse dipoi,
che sendo rotto da’ suoi inimici, e ri-
fuggendosi in Atene, come in città amica
ed a lui obbligata, non fu ricevuto da
quella : il che gli dolse assai più che
non aveva fatto la perdita delle genti e
dello esercito suo. Pompeio, rotto che
fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in
Egitto a Tolomeo, il quale era per lo
addietro da lui stato rimesso nel regno;
e fu da lui morto. Le quali cose si vede
che ebbero le medesime cagioni; non- •
dimeno fu più umanità usata e meno •
ingiuria dalla repubblica, che dal prin-
cipe. Dove è, pertanto, la paura, si tro-
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296 dei Diseonsi
verà in fallo la medesima fede. E se si
troverà o una repubblica o uno prin-
cipe, che per osservarti la fede aspetti
di rovinare, può nascere questo ancora
da simili cagioni. E quanto al principe,
può molto bene occorrere che egli sia
amico d’ un principe potente, che se
bene non ha occasione allora di difen-
derlo, ei può sperare che col tempo e* lo
restituisca nel principato suo; o vera-
mente che, avendolo seguito come par-
tigiano, ei non creda trovare nè fede
nè accordi con il nimico di quello. Di
questa sorte sono stati quelli principi
del reame di Napoli che hanno seguite
le parti franciose. E quanto alle repub-
bliche, fu di questa sorte Sagunto in
Ispagna, che aspettò la rovina per se-
guire le parti romane; e di questa Fi-
renze, per seguire nel 4512 le parti
franciose. E credo, computata ogni cosa,
che in questi casi, dove è il pericolo
urgente, si troverà qualche stabilità più
nelle repubbliche, che ne’ principi. Per-
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libro primo.
297
che, sebbene le repubbliche avessino
«
quel medesimo animo e quella medesima
voglia che un principe, lo avere il moto
loro tardo, farà che le porranno sem-
pre più a risolversi che il principe, e
per questo porranno più a rompere la
fede di lui. Romponsi le confederazioni
per lo utile. In questo le repubbliche
sono di lunga più osservanti degli ac-
cordi, che i principi. E potrebbesi ad-
durre essempi, dove uno miuinio utile
ha fatto rompere la fede ad uno prin-
cipe, e dove una grande utilità non ha
fatto rompere la fede ad una repubblica :
come fu quello partito che propose Te-
mistocle agli Ateniesi, a’ quali nella con-
clone disse che aveva uno consiglio da
fare alla loro patria grande utilità ; ma
non lo poteva dire per non lo scoprire,
perchè scoprendolo si toglieva la occa-
sione del farlo. Onde il popolo di Atene
elesse Aristide, al quale si comunicasse
la cosa, e secondo dipoi che paresse a
lui se ne deliberasse: al quale Temisto-
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298 DEI DISCORSI
de mostrò come I* armata di tutta Gre-
cia, ancora che stesse sotto la fede loro,
era in lato che facilmente si poteva gua-
dagnare o distruggere; il che faceva gli
Ateniesi al tutto arbitri di quella pro-
vincia. Donde Aristide riferì ai popolo,
il partito di Temistocle essere utilissi-
mo, ma disonestissimo : per la qual cosa
il popolo al tutto lo ricusò. II che non
arebbe fatto Filippo Macedone, e gli al-
tri principi che più utile hanno cerco
e più guadagnato con il rompere la fede,
che con verun altro modo. Quanto a
rompere i patti per qualche cagione di
inosservanza, di questo io non parlo
come di cosa ordinaria; ma parlo dì
quelli che si rompono per cagioni istra-
sordinarie: dove io credo, per le cose
(lette, che il popolo facci minori errori
che il principe, e per questo si possa
Fidar più di lui che del principe.
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f i !
* '
«
LIBRO PRIMO. 299
i
l
Gap. LX. — Come il consolato e qualun-
gue altro magistrato in Roma si (lava
senza rispetto di età.
► .
E’ si vede per V ordine della istoria,
come la Repubblica romana, poiché ’i
consolato venne nella Plebe, concesse
quello ai suoi cittadini senza rispetto di
età o di sangue; ancora cbe il rispetto
della età mai non fusse in Roma, ma
sempre si andò a trovare la virtù, o in
giovane o in vecchio cbe la fusse. Il che
si vede per il testimone di Valerio Cor-
vino, che fu fatto Consolo nell! ventitré
anni: e Valerio detto, parlando ai suoi
soldati, disse come il consolato crai prce-
tnium virfulisj, non sanguinis. La qual
cosa se fu bene considerata, o no, sarebbe
da disputare assai. E quanto al sangue, fu
concesso questo per necessità ; e quella ne-
cessità che fu in Roma, sarebbe in ogni
città che volesse fare gli effetti che fece
Roma, come altra volta si è detto: per- i!
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300
DEI DISCORSI
chè e’ non si può dare agli uomini di-
sagio senza premio, nè si può torre la
speranza di conseguire il premio senza
pericolo. E però a buona ora convenne
che la Plebe avesse speranza di avere
il consolato ; e di questa speranza si
nutrì un tempo senza averlo. Dipoi non
bastò la speranza, che e’ convenne che
si venisse allo effetto. Ma la città che
non adopera la sua plebe ad alcuna cosa
gloriosa, la può trattare a suo modo,
come altrove si disputò: ma quella elle
vuole fare quel che fe Roma, non ha a
fare questa distinzione. E dato che così
sia, quella del tempo non ha replica ;
anzi è necessaria : perchè nello eleggere
uno giovane in uno grado che abbi bi-
sogno d’ una prudenza di vecchio, con-
viene, avendovelo ad eleggere la molti-
tudine, che a quel grado lo facci per-
venire qualche sua nobilissima azione.
E quando un giovane è di tanta virtù,
che si sia fatto in qualche cosa notabile
conoscere ; sarebbe cosa dannosissima
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LIBRO PRIMO.
301
che la città non se «e potesse valere al-
lora, e che la avesse ad aspettare che
fusse invecchiato con lui quel vigore
deir animo, quella prontezza, della quale
in quella età la patria sua si poteva va-
lere : come si valse Roma di Valerio Cor-
vino, di Scipione, di Pompeio e di molti
altri che trionfarono giovanissimi.
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DEI DISCORSI
LIBRO SECONDO.
Laudano sempre gli uomini, ma noti
sempre ragionevolmente, gli antichi tem-
pi, e gli presenti accusano: ed in modo
sono delle cose passate partigiani, che
non solamente celebrano quelle etadi
che da loro sono state, per la memoria
che ne hanno lasciata gli scrittori, co-
nosciute ; ma quelle ancora che, sendo
già vecchi, si ricordano nella loro gio-
vanezza avere vedute. E quando questa
loro oppinionc sia falsa, come il più
delle volte è, mi persuado varie essere
le cagioni che a questo inganno gli con-
ducono. E la prima credo sia, che delle
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DEI DISCORSI — LIBRO SECONDO. 308
cose antiche non s’intenda al tutto lu
verità; e che di quelle il più delle volle
si nasconda quelle cose che rechereb-
bono a quelli tempi infamia; e quelle
altre che possono partorire loro gloria,
si remlino magnifiche ed amplissime.
Però che i più degli scrittori in modo *
alla fortuna de’ vincitori ubbidiscono,
che per fare le loro vittorie gloriose,
non solamente accrescono quello che da
loro è virtuosamente operato, ma an-
cora le azioni de’ nimici in modo illu-
strano, che qualunque nasce dipoi in
qualunque delle due provincie, o nella
vittoriosa o nella vinta, ha cagione di
maravigliarsi di quelli uomini e di quelli
tempi, ed è forzato sommamente lau-
dargli ed amargli. Olirà di questo,
odiando gli uomini le cose o per timo-
re o per invidia, vengono ad essere
spente due potentissime cagioni del -
P odio nelle cose passate, non ti po-
tendo quelle offendere, e non ti dando
cagione d’ invidiarle. Ma al contrario
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DEI DISCORSI
304
interviene di quelle cose che si maneg-
giano e veggono ; le quali, pei* la intera
cognizione di esse, non ti essendo in
alcuna parte nascoste* e conoscendo in
quelle insieme con il bene molte altre
cose che ti dispiacciono, sei forzato giu-
dicarle alle antiche molto inferiori, an-
✓
cora che in verità le presenti molto più
di quelle di gloria e di fama meritas-
sero: ragionando non delie cose perti-
nenti alle arti, le quali hanno tanta
chiarezza in sè, che i tempi possono
torre o dar loro poco più gloria che
per loro medesime si meritino ; ma par-
lando di quelle pertinenti alla vita e
costumi degli uomini, delle quali non
se ne veggono sì chiari testimoni. Re-
plico, pertanto, essere vera quella con-
suetudine del laudare e biasimare so-
prascritta ; ma non essere già sempre
vero che si erri nel farlo. Perchè qual-
che volta è necessario che giudichino
la verità ; perchè essendo le cose uma-
ne sempre in molo, o le salgono, o le
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LIBRO SECONDO.
305
scendono. E vedesi una città o una pro-
vincia essere ordinata al vivere politico
da qualche uomo eccellente; ed, un tem-
po, per la virtù di quello ordinatore,
andare sempre in augumento verso il
meglio. Chi nasce allora in tale stato,
ed ei laudi più li antichi tempi che i
moderni, s’ inganna ; ed è causato il suo
inganno da quelle cose che di sopra si
sono dette. Ma coloro che nascono dipoi,
in quella città o provincia, che gli è
venuto il tempo che la scende verso la
parte più rea, allora non s’ ingannano.
E pensando io come queste cose proce-
dino, giudico il mondo sempre essere
stalo ad un medesimo modo, ed in quello
esser stato tanto di buono quanto di
tristo ; ma variare questo tristo e que-
sto buono di provincia in provincia:
come si vede per quello si ha notizia di
quelli regni antichi che variavano dal-
l’uno all’altro per la variazione de’ co-
stumi; ma il mondo restava quel me-
desimo. Solo vi era questa differenza,
Machiavelli, Discorsi. — 1. 20
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DEI DISCORSI
m
che dove quello aveva prima collocata
la sua virtù in Assiria, la collocò in
Media, dipoi in Persia, tanto che la ne
venne in Italia ed a Roma: e se dopo
10 imperio romano non è seguito impe-
rio che sia durato, nè dove il mondo
abbia ritenuta la sua virtù insieme; si
vede nondimeno essere sparsa in di
molte nazioni dove si viveva virtuosa-
mente; come era il regno de’ Franchi,
11 regno de’ Turchi, quel del Soldano;
ed oggi i popoli della Magna ; e prima
quella setta Saracina che fece tante gran
cose, ed occupò tanto mondo, poiché la
distrusse lo imperio romano orientale.
In tutte queste provincie, adunque, poi-
ché i Romani rovinorono, ed in tutte
queste sètte è stata quella virtù, ed è
ancora in alcuna parte di esse, che si
desidera, e che con vera laude si lauda.
E chi nasce in quelle, e lauda i tempi
passati più che i presenti, si potrebbe
ingannare; ma chi nasce in Italia ed in
Grecia, e non sia divenuto o in Italia
I
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LIBRO SECONDO.
307
oltramontano o in Grecia turco, ha ra-
gione di biasimare i tempi suoi, e lau-
dare gli altri : perchè in quelli vi sono
assai cose, che gli fanno meravigliosi ;
in questi non è cosa alcuna che gli ri-
comperi da ogni estrema miseria, infa-
mia e vituperio: dove non è osservanza
di religione, non di leggi, non di mili-
zia; ma sono maculati d’ ogni ragione
bruttura. E tanto sono questi vizi più
detestabili, quanto ei sono più in coloro
che seggono prò tribunali, comandano
a ciascuno, e vogliono essere adorati.
.Ha tornando al ragionamento nostro,
dico che se il giudicio degli uomini è
corrotto in giudicare quale sia migliore,
o il secolo presente o l’antico, in quelle
cose dove per l’antichità ei non ha pos-
suto avere perfetta cognizione come egli
ha de’ suoi tempi ; non doverrebbe cor-
rompersi ne’ vecchi nel giudicare i lem •
pi della gioventù e vecchiezza loro, aven-
do quelli e questi egualmente conosciuti
e visti. La qual cosa sarebbe vera, se
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DEI DISCOHSl
30 &
gli uomini per tutti i tempi della lor
vita l'ussero del medesimo giudizio, ed
avessero quelli medesimi appetiti : ma
variando quelli, ancora che i tempi nou
variino, non possono parere agli uomini
quelli medesimi, avendo altri appetiti,
altri diletti, altre considerazioni nella
vecchiezza, che nella gioventù. Perchè,
mancando gli uomini quando li invec-
chiano di forze, e crescendo di giudizio
e di prudenza; è necessario che quelle
cose che in gioventù parevano loro sop-
portabili e buone, ineschino poi invec-
chiando insopportabili e cattive ; e dove
quelli ne doverrebbono accusare il giu-
dicio loro, ne accusano i tempi. Sendo.
ultra di questo, gli appetiti umani in-
saziabili, perchè hanno dalla natura di
potere e voler desiderare ogni cosa, e
dalla fortuna di potere conseguirne po-
che; ne risulta continuamente una mala
contentezza nelle menti umane, ed un
fastidio delle cose che si posseggono: il
che fa biasimare i presenti tempi, lau-
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LIBRO SECONDO.
309
dare i passati, e desiderare i futuri ;
ancora che a fare questo non fussino
mossi da alcuna ragionevole cagione. Non
so, adunque, se io meriterò d’ essere
numerato tra quelli che si ingannano,
se in questi mia discorsi io lauderò
troppo i tempi degli antichi Romani, e
biasimerò i nostri. E veramente, se la
virtù che allora regnava, ed il vizio che
ora regna, non fussino più chiari che
il sole, andrei col parlare più rattenu-
to, dubitando non incorrere in quello
inganno di che io accuso alcuni. Ma es-
sendo la cosa si manifesta che ciascuno
la vede, sarò animoso in dire manife-
stamente quello che intenderò di quelli
e di questi tempi; acciocché gli animi
de’ giovani che questi mia scritti legge-
ranno, possino fuggire questi, e prepa-
rarsi ad imitar quegli, qualunque volta
la fortuna ne dessi loro occasione. Per-
chè gli è offizio di uomo buono, quel
bene che per la malignità de’ tempi e
della fortuna tu non hai potuto operare.
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310
DEI DISCORSI
insegnarlo nd altri, acciocché sendone
molti capaci, alcuno di quelli, più ama-
to dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo
ne’ discorsi del superior libro parlato
delle deliberazioni fatte da* Romani per-
tinenti al di dentro della città, in que-
sto parleremo di quelle, che ’\ Popolo
romano fece pertinenti allo augumento
dello imperio suo.
Cap. I. — Quale fu più cagione dello
imperio che acquistarono i Romani ,
o la virtùj o la fortuna.
Molti hanno avuta oppinione, intra i
quali è Plutarco, gravissimo scrittore,
che ’1 Popolo romano nello acquistare
lo imperio fusse più favorito dalla for-
tuna che dalla virtù. Ed intra le altre
ragioni che ne adduce, dice che per con-
fessione di quel popolo si dimostra,
quello avere riconosciute dalla fortuna
tutte le sue vittorie, avendo quello edi-
ficati più templi alla Fortuna, che ad
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LIBRO SECONDO.
SII
alcun altro Dio. E pare che a questa
oppinione si accosti Livio; perchè rade
volte è che facci parlare ad alcuno Ro-
mano, dove ei racconti della virtù, che
non vi aggiunga la fortuna. La qual
cosa io non voglio confessare in alcun
modo, nè credo ancora si possa soste-
nere. Perchè, se non si è trovato mai
repubblica che abbi fatti i progressi che
Roma, è nato che non si è trovata mai
repubblica che sia stata ordinata a po-
tere acquistare come Roma. Perchè la
virtù degli eserciti gli feciono acqui-
stare Io imperio; e l’ordine del pro-
cedere, ed il modo suo proprio, e tro-
vato dal suo primo legislatore, gli fece
mantenere lo acquistato: come di sotto
largamente in più discorsi si narrerà.
Dicono costoro, che non avere mai ac*»
cozzate due potentissime guerre in uno
medesimo tempo, fu fortuna e non vir-
tù del Popolo romano ; perchè e’ non
ebbero guerra con i Latini, se non
quando egli ebbero non tanto battuti
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DEI DISCORSI
31-2
i Sanniti, quanto che la guerra fu da* Ro-
mani fatta in difensione di quelli ; non
combatterono con i Toscani, se prima
non ebbero soggiogati i Latini, ed ener-
vati con le spesse rotte quasi in tutto
i Sanniti: che se due di queste potenze
intere si fussero, quando erano fresche,
accozzate insieme, senza dubbio si può
facilmente conietturare che ne sarebbe
seguito la rovina della romana Repub-
blica. Ma, comunelle questa cosa nasces-
se, mai non intervenne che eglino aves-
sino due potentissime guerre in un
medesimo tempo: anzi parve sempre,
o nel nascere dell’ una, l’altra si spe-
gnesse; o nel spegnersi dell’ una, l’altra
nascesse. 11 che si può facilmente ve-
dere per T ordine delle guerre fatte da
loro: perchè, lasciando stare quelle che
feciono prima che Roma fusse presa
dai Franciosi, si vede che, mentre che
combatterno con gli Equi e con i Vol-
sci, mai, mentre questi popoli furono
potenti, non si levarono contro di loro
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LIBRO SECONDO.
313
uitre genti. Domi costoro, nacque la
guerra contea ai Sanniti; e benché in-
nanzi che finisse tal guerra i popoli
latini si ribellassero da’ Romani, non-
dimeno quando tale ribellione segui, i
Sanniti erano in lega con Roma, e con
il loro esercito aiutorono i Romani do-
mare la insolenza latina. I quali domi,
risurse la guerra di Sannio. Battute per
molte rotte date a’ Sanniti le loro forze,
nacque la guerra de’ Toscani; la qual
composta, si rilevarono di nuovo i San-
niti per la passata di Pirro in Italia.
Il quale come fu ribattuto, e rimandato
in Grecia, appiccarono la prima guerra
con i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guer-
ra finita, che tutti i Franciosi, e di là
e di qua dall’ Alpi, congiurarono conti a
i Romani; tanto che intra Popolonia e
Pisa, dove è oggi la torre a San Vin-
centi, furono con massima strage supe-
rati. Finita questa guerra, per ispazio
di venti anni ebbero guerra di non
molta importanza; perchè non eombat-
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DE! D'.SCORS!
314
terono con altri che con i Liguri, c con
quel rimanente de’ Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che
nacque la seconda guerra cartaginese,
la qual per sedici anni tenne occupata
Italia. Finita questa con massima gloria,
nacque la guerra macedonica ; la quale
tìnita, venne quella d’ Antioco e d’ Asia.
Dopo la qual vittoria, non restò in tutto
il mondo nè principe nè repubblica che,
di per sè, o tutti insieme, si potessero
opporre alle forze romane. Ma innanzi
a quella ultima vittoria, chi considerrà
l’ ordine di queste guerre, ed il modo
del . procedere loro, vedrà dentro me-
scolate con la fortuna una virtù e
prudenza grandissima. Talché, chi esa-
minasse la cagione di tale fortuna, la ri-
troverebbe facilmente: perchè gli è cosa
certissima, che come un principe e un
popolo viene in tanta riputazione, che
ciascuno principe e popolo vicino abbia
di per sè paura ad assaltarlo, e ne te-
ma, sempre interverrà che ciascuno di
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LIBRO SECONDO.
31 Ó
essi mai lo assalterà, se non necessi-
tato ; in modo che e’ sarà quasi come
nella elezione di quel polente, far guer-
ra con quale di quelli suoi vicini gli
parrà, e gii altri con la sua industria
quietare. I quali, parte rispetto alla po-
tenza suo, parte ingannati da quei modi
che egli terrà per nddormentargli, si
quietano facilmente; e gli altri potenti
che sono discosto, e che non hanno
coinmerzio seco, curano la cosa come
cosa longinqua, e che non appartenga
loro. Nel quale errore stanno tanto che
questo incendio venga loro presso : il
quale venuto, non hanno rimedio a spe-
gnerlo se non con le forze proprie; le
quali dipoi non bastano, sendo colui
diventato potentissimo. Io voglio lasciare
andare, come i Sanniti stettero a vedere
vincere dal Popolo romano i Yolsci e
gli Equi; e per non essere troppo pro-
lisso, mi farò da’ Cartaginesi : i quali
erano di gran potenza c di grande esti-
mazione quando i Romani combattevano
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DEI Disconsi
316
con i Sanniti e con i Toscani ; perchè
tii già tenevano tutta 1’ Affrica, tenevano
ia Stintigna e la Sicilia, avevano domi-
nio in parte della Spagna. La quale po-
lenza loro, insieme con V esser discosto
ne’ confini dal Popolo romano, fece che
non pensarono mai di assaltare quello,
nè di soccorrere i Sanniti e Toscani:
anzi fecero come si fa nelle cose che
crescono, più tosto in lor favore colle-
gandosi con quelli, e cercando l’ami-
cizia loro. Nè si avviddono prima del-
1’ errore fatto, che i Romani, domi tutti
i popoli mezzi infra loro ed i Cartagi-
nesi, cominciarono a combattere insieme
dello imperio di Sicilia e di Spagna.
Intervenne questo medesimo a’ Franciosi
che a’ Cartaginesi, e cosi a Filippo re
de’ Macedoni, e ad Antioco; e ciascuno
di loro credea, mentre che il Popolo ro-
mano era occupato con l’altro, che
quell’ altro lo superasse, ed essere a
tempo, o con pace o con guerra, difen-
dersi da lui. In modo che io credo che
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LIBRO SECONDO.
317
la fortuna che ebbono in questa parte
i Romani, 1’ arebbono tutti quelli prin-
cipl che procedessero come i Romani, c
fussero di quella medesima virtù che
loro. Sarebbeci da mostrare a questo
proposito il modo tenuto dal Popolo
romano nello entrare nelle provincie
d’ altri, se nei nostro trattato de’ prin*
cipati non ne avessimo parlato a lungo ;
perchè in quello questa materia è diffu-
samente disputata. Dirò solo questo bre-
vemente, come sempre s’ingegnarono
avere nelle provincie nuove qualche ami-
co che fusse scala o porta a salirvi o
entrarvi, o mezzo a tenerla : come si
vede che per. il mezzo de’ Capovani en-
trarono in Sannio, de’ Camertini in To-
scana, de’ Mamertini in Sicilia, de’ Sa-
guntini in Spagna, di Massinissa iti
Affrica, degli Eloli in Grecia, di Eumene
ed altri principi in Asia, de’ Massiliensi
e deili Edui in Francia. E così non man-
carono mai di simili appoggi, per po-
tere facilitare le imprese loro, e nello
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m
DEI DISCORSI
acquistare le provincie e nel tenerle. Il
che quelli popoli che osserveranno, ve-
dranno avere meno bisogno della for-
tuna, che quelli che ne saranno non
buoni osservatori. E perchè ciascuno
possa meglio conoscere, quanto potè più
la virtù che la fortuna loro ad acqui-
stare quello imperio ; noi discorreremo
nel seguente capitolo di che qualità fu-
rono quelli popoli con i quali egli eb-
bero a combattere, e quanto erano osti-
nati a difendere la loro libertà.
Cap. 11. — Con quali popoli i Romani eb-
bero a combattere , e come ostinatamen-
te quelli difendevano la loro libertà.
Nessuna cosa fece più faticoso a* Ro-
mani superare i popoli d* intorno, c
parte delle provincie discosto, quanto lo
amore che in quelli tempi molti popoli
avevano alla libertà; la quale tanto osti-
natamente difendevano, che mai se non
da una eccessiva virtù sarebbono stati
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LIBRO SECONDO. &J9
* soggiogati. Perchè, per molti essempi si
conosce a quali pericoli si mettessino
per mantenere o ricuperare quella ;
quali vendette e’ facessino contra a co-
loro che V avessino loro occupata. Co*
noscesi ancora nelle lezioni delle istorie,
quali danni i popoli e le città riccvino
per la servitù. E dove in questi tempi
ci è solo una provincia la quale si possa
dire che abbia in sè città libere, ne* tempi
antichi in tutte le provincie erano assai
popoli liberissimi. Vedesi come in quelli
tempi de’ quali noi parliamo al presente,
in Italia, dall’ Alpi che dividono ora la
Toscana dalla Lombardia, insino alla
punta d’Italia, erano molti popoli liberi;
com’erano i Toscani, i Romani, i San-
niti, e molti altri popoli che in quel re-
sto d’ Italia abitavano. Nè si ragiona mai
che vi fusse alcuno re, fuora di quelli
che regnarono in Roma, e Porsena re
di Toscaua; la stirpe del quale come si
estinguesse, non ne parla la istoria. Ma
si vede bene, come in quelli tempi che i .
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320
DE! DISCORSI
Romani andarono a campo a Veio, la
Toscana era libera : e tanto si godea
della sua libertà, e tanto odiava il nome
del principe, che avendo fatto i Veienti
per loro difensione un re in Veio, e
domandando aiuto a' Toscani contra ai
Romani ; quelli, dopo molte consulte fatte,
deliberarono di non dare aiuto a’Veienti,
infino a tanto che vivessino sotto ’1 re;
giudicando non esser bene difendere la
patria di coloro che V avevano di già
sottomessa ad altrui. E facil cosa è co-
noscere donde nasca ne’ popoli questa
affezione del vivere libero; perchè si vede
per esperienza, le cittadi non avere mai
ampliato nè di domiuio nè di ricchezza,
se non mentre sono state in libertà. E
veramente meravigliosa cosa è a consi-
derare, a quanta grandezza venne Atene
per ispazio di cento anni, poiché la si
liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma
sopra tutto meravigliosissima cosa è a
considerare, a quanta grandezza venne
Roma, poiché la si liberò da’ suoi Re.
I
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LIBRO SECONDO.
321
La cagione è facile ad intendere; per*
chè non il bene particolare, ma il bene
comune è quello che fa grandi le città.
E senza dubbio, questo bene comune non
è osservato se non nelle repubbliche;
perchè lutto quello che fa a proposito
suo, si eseguisce; e quantunque e’ torni
in danno di questo o di quello privato,
e’ sono tanti quelli per chi detto bene
fa, che lo possono tirare innanzi contra
alla disposizione di quelli pochi che ne
fussino oppressi. Al contrario interviene
quando vi è uno principe; dove il più
delle volte quello che fa per lui, offende
la città; e quello che fa per la città,
offende lui. Dimodoché, subito che nasce
una tirannide sopra un viver libero, il
manco male che ne resulti a quelle città,
è non andare più innanzi, nè crescere
più in potenza o in ricchezze ; ma il più
delle volte, anzi sempre, interviene loro,
che le tornano indietro. E se la sorte
facesse che vi surgesse un tiranno vir-
tuoso, il quale , per animo e per virtù
Machiavelli, Discorsi. — 1. 21
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DEI DISCORSI
Ii22
d’ arme ampliasse il dominio suo, non
ne risulterebbe alcuna utilità a quella
repubblica, ma a lui proprio: perchè
e’ non può onorare nessuno di quelli
cittadini che siano valenti c buoni, che
egli tiranneggia, non volendo avere ad
avere sospetto di loro. Non può ancora
le città che egli acquista, sottometterle
o farle tributarie a quella città di che
egli è tiranno: perchè il farla potente
non fa per lui; ma per lui fa tenere lo
Stato disgiunto, e che ciascuna terra e
ciascuna provincia riconosca lui. Talché
di suoi acquisti, solo egli ne profitta, e
non la sua patria. E chi volesse confer-
mare questa oppinione con infinite altre
ragioni, legga Senofonte nel suo trat-
tato che fa De Tirannide. Non è mera-
viglia adunque, che gli antichi popoli
con tanto odio perseguitassino i tiranni,
ed nmassiiio il vivere libero, e che il
nome della libertà fusse tanto stimato
da loro: come intervenne quando Giro-
lamo nipote di lerone siracusano fu
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LIBRO SECONDO.
323
morto in Siracusa, che venendo le no-
velle della sua morte in nel suo eser-
cito, che non era molto lontano da Si*
racusa, cominciò prima a tumultuare, e
pigliare 1’ armi contro agli ucciditori di
quello; ma come ei sentì che in Sira-
cusa si gridava libertà, allettato da quel
nome, si quietò tutto, pose giti V ira
contra a’ tirannicidi, e pensò come iti
quella città si potesse ordinare un viver
libero. Non è meraviglia ancora, che i
popoli faccino vendette istraordinaric
contra a quelli che gli hanno occupata
la libertà. Di che ci sono stali assai
esempi, de’ quali ne intendo referire solo
uno, seguilo in Coreica, città di Grecia,
ne’ tempi della guerra peloponnesiaca;
«love sendo divisa quella provincia in
due fazioni, delle quali 1’ una seguitava
gli Ateniesi, V altra gli Spartani, ne na-
sceva che di molte città, che erano infra
loro divise, T una parte seguiva F ami-
cizia di Sparta, l’altra di Atene: ed es-
sendo occorso clic nella detta città prc-
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324
DEI DISCORSI
valessino i nobili, e togliessino la libertà
al popolo, i popolari per mezzo degli
Ateniesi ripresero le forze, e posto le
mani addosso a tutta la nobiltà, gli rin-
chiusero in una prigione capace di tutti
loro; donde gli traevano ad otto o dieci
per volta, sotto titolo di mandargli in
esilio iti diverse parli, e quelli con molti
crudeli essempi facevauo morire. Di che
sendosi quelli che restavano accorti, de-
liberarono, in quanto era a loro possi-
bile, fuggire quella morte ignominiosa ;
ed armatisi di quello potevano, combat-
tendo con quelli vi volevano entrare, la
entrata della prigione difendevano; di
modo che il popolo, a questo romore
fatto concorso, scoperse la parte supe-
riore di quel luogo, e quelli con quelle
rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in
delta provincia molti altri simili casi
orrendi e notabili : talché si vede esser
vero, che con maggiore impeto si ven-
dica una libertà che ti è suta tolta, che
quella che li è voluta torre. Pensando
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LIBRO SECONDO.
325
dunque donde possa nascere, che in quelli
tempi antichi, i popoli fussero più ama-
tori della libertà che in questi; credo
nasca da quella medesima cagione che
fa ora gli uomini manco forti : la quale
credo sia la diversità della educazione
nostra dalla antica, fondata nella di-
versità della religione nostra dalla an-
tica. Perchè avendoci la nostra reli-
gione mostra la verità e la vera via,
ci fa stimare meno l’onore del mon-
do: onde i Gentili stimandolo assai,
ed avendo posto in quello il sommo be-
ne, erano nelle azioni loro più feroci.
Il che si può considerare da molte loro
constituzioni, cominciandosi dalla ma-
gnificenza de’ sacrificii loro, alla umilila
de’ nostri ; dove è qualche pompa più
dilicata che magnifica, ma nessuna azione
feroce o gagliarda. Quivi non mancava
la pompa nè la magnificenza delle ce-
rimonie, ma vi si aggiungeva 1* azione
del sacrificio pieno di sangue e di ferocia,
ammazzandovisi moltitudine di animali :
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326
DEI DISCORSI
il quale aspetto sendo terribile, rendeva
gli uomini simili a lui. La religione an-
tica, oltre di questo, non beatificava se
non gli uomini pieni di mondana gloria:
come erano capitani di eserciti, e prin-
cipi di repubbliche. La nostra religione
ha glorificato più gli uomini umili e
contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi
posto il sommo bene nella umilila, abie-
zione, nello dispregio delle cose umane:
quell’ altra lo poneva nella grandezza
dello animo, nella fortezza del corpo, ed
in tutte le altre cose atte a fare gli uo-
mini fortissimi. E se la religione nostra
richiede che abbi in te fortezza, vuole
che tu sia atto a patire più che a fare
una cosa forte. Questo modo di vivere,
adunque, pare che abbi rendutoil mondo
debole, e datolo in preda agli uomini
scellerati; i quali sicuramente lo pos-
sono maneggiare, veggendo come la uni-
versità degli uomini, per andare in pa-
radiso, pensa più a sopportare le sue
battiture, che a vendicarle. E benché paia
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LIBRO SECONDO.
327
che si sia effeminato il mondo, e disar-
mato il cielo, nasce più senza dubbio
dalla viltà degli uomini, che hanno in-
terpretato la nostra religione secondo
l’ ozio, e non secondo la virtù. Perchè,
se considerassino come la permette la
esultazione e la difesa della patria, ve-
drebbono come la vuole che noi l’amia-
ino ed onoriamo, e prepariamoci ad es-
ser tali che noi la possiamo difendere.
Fanno adunque queste educazioni, e si
false interpretazioni, che nel mondo non
si vede tante repubbliche quante si ve-
deva aulicamente; nè, per conscguente,
si vede ne’ popoli tanto amore alla libertà
quanto allora : ancora che io creda piut-
tosto essere cagione di questo, che lo
imperio romano con le sue arme e sua
grandezza spense tutte le repubbliche e
lutti i viveri civili E benché poi tal im-
perio si sia risoluto, non si sono potute
le città ancora rimettere insieme nè rior-
dinare alla vita civile, se non in po-
chissimi luoghi di quello imperio. Pure,
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348
DEI DISCORSI
comunelle si fusse, i Romani in ogni
minima parte del mondo trovarono una
congiura di repubbliche armatissime, ed
ostinatissime atia difesa della libertà loro.
Il che mostra che '1 Popolo romano senza
una rara ed estrema virtù mai non le
arebbe potute superare. E per darne
esseinpio di qualche membro, voglio mi
basti lo essempio de’ Sanniti : i quali
pare cosa mirabile, e Tito Livio lo con-
fessa, che fussero sì potenti, e 1’ arme
loro si valide, che potessero infino al
tempo di Papirio Cursore consolo, figliuo-
lo del primo Papirio, resistere a’ Romani
(che fu uno spazio di XLVI anni), dopo
tante rotte, rovine di terre, e tante stragi
ricevute nel paese loro; massime veduto
ora quel paese dove erano tante cittadi
e tanti uomini, esser quasi che disabi-
tato : ed allora vi era tanto ordine, e
tanta forza, eh’ egli era insuperabile,
se da una- virtù romana non fusse stato
assaltato. E facil cosa è considerare donde
nasceva quello ordine, c donde proceda
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LIBRO SECOSDO.
329
questo disordine; perchè tutto viene dal
viver libero allora, ed ora dal viver servo.
Perchè tutte le terre e le provincie che
vivono libere in ogni parte, come di so-
pra dissi, fanno i progressi grandissimi.
Perchè quivi si vede maggiori popoli,
per essere i matrimoni più liberi, e più
desiderabili dagli uomini : perchè cia-
scuno procrea volentieri quelli figliuoli
che crede potere nutrire, non dubitando
che il patrimonio gli sia tolto; thè eT co-
nosce non solamente che nascono liberi
e non schiavi, ma che possono mediante
la virtù loro diventare principi. Veg-
gonvisi le ricchezze multiplicare in mag-
giore numero, e quelle che vengono dalla
cultura, e quelle che vengono dalle arti.
Perchè ciascuno volentieri multiplica in
quella cosa, e cerca di acquistare quei
beni, che crede acquistati potersi godere.
Onde ne nasce che gli uomini a gara pen-
sano ai privati ed a’ pubblici comodi; e
l’ uno e l’altro viene meravigliosamente a
crescere. II contrario di tutte queste cose
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330
DEI DISCORSI
segue in quelli paesi che vivono scivi;
c tanto più mancano del consueto bene,
quanto è più dura la servitù. E di tutte"
le servitù dure, quella è durissima che
li sottomette ad una repubblica : E una,
perchè la è più durabile, e manco si può
sperare d’ uscirne; Y altra, perchè il fine
della repubblica è enervare ed indebo-
lire. per accrescere il corpo suo, tutti
gli altri corpi. 11 che non la un prin-
cipe che ti sottometta, quando quel
principe non sia qualche principe bar-
baro, destruttore de’ paesi, e dissipatore
di tutte le civilità degli uomini, come
sono i principi orientali. Ma s’ egli ha
in sè ordini umani ed ordinari, il più
delle volte ama le città sue soggette
egualmente, ed a loro lascia T arti tutte,
e quasi lutti gli ordini antichi. Talché,
se le non possono crescere come libere,
elle non rovinano anche come serve; in-
tendendosi della servitù in quale ven-
gono le città servendo ad un forestiero,
perchè di quella d’ uno loro cittadino
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LIBRO SE CO >1)0.
331
ne parlai di sopra. Chi considerrù, adun-
que, tutto quello che si è detto, non si
meraviglierà della potenza che i Sanniti
avevano sendo liberi, e della debolezza
in che e’ vennero poi servendo: e Tito
Livio ne fa fede in più luoghi, e mas-
sime nella guerra d’ Annibaie, dove ei
mostra che essendo i Sanniti oppressi
da una legione d’ uomini che era in Nola,
mandorono oratori ad Annibale, a pre-
garlo che gli soccorresse; i quali nel
parlar loro dissono, che avevano per
cento anni combattuto con i Romani con
i propri loro soldati e propri loro ca-
pitani, e molte volte avevano sostenuto
duoi eserciti consolari e duoi consoli; e
che allora a tanta bassezza erano venuti,
che non si potevano a pena difendere
da una piccola legione romana che era
in Nola.
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332
DEI DISCOIDI
Cap. III. — Roma divenne grande città ro-
vinando le città circonvicine , e riceven-
do i forestieri facilmente aJ suoi onori.
Crescit inlerea Roma Albce ruinis.
Quelli che disegnano che una città fac-
cia grande imperio, si debbono con ogni
industria ingegnare di farla piena di
abitatori ; perchè senza questa abbon-
danza di uomini, mai non riuscirà di
fare grande una città. Questo si fa in
duoi modi; per amore, e per forza.
Per amore, tenendo le vie aperte e se-
cure a’ forestieri che disegnassero ve-
nire ad abitare in quella, acciocché cia-
scuno vi abiti volentieri : per forza, di-
sfacendo le città vicine, e mandando gli
abitatori di quelle ad abitare nella tua
città. Il che fu tanto osservato in Ro-
ma, che nel tempo del sesto Re in Roma
abitavano ottantamila uomini da portare
armi. Perchè i Romani vollono fare ad
uso del buono cultivatore; il quale, per*
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—waiBìi mgmrn
LIBRO SECONDO. 333
che una pianta ingrossi, e possa prò*
durre e maturare i fruiti suoi, gli ta-
glia i primi rami che la mette, acciocché,
rimasa quella virtù nel piede di quella
pianta, possino col tempo nascervi più
verdi e più fruttiferi. E che questo modo
tenuto per ampliare e fare imperio,
fusse necessario e buono, lo dimostra
Io essempio di Sparta e di Atene : le
quali essendo due repubbliche armatis-
sime, ed ordinate di ottime leggi, non-
dimeno non si condussono alla gran-
dezza dello imperio romano; e Roma
pareva più tumultuaria, e non tanto
bene ordinata quanto quelle. Di che
non se ne può addurre altra cagione,
che la preallegata: perchè Roma, per
avere ingrossato per quelle due vie il
corpo della sua città, potette di già
mettere in arme dugentottantamila uo-
mini; e Sparta ed Atene non passarono
mai ventimila per ciascuna. Il che nac-
que, non da essere il sito di Roma più
benigno che quello di coloro, ma sola-
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r Vk -«t 1' .1 .
334 DEI DISCORSI
mente da diverso modo di procedere.
Perché Licurgo, fondatore della repub-
blica spartana , considerando nessuna
cosa potere più facilmente risolvere le
sue leggi che la commistione di nuovi
abitatori, fece ogni cosa perchè i fore-
stieri non avessino a conversarvi: ed,
oltre al non gli ricevere ne’ matrimoni,
alla civiltà, ed alle altre conversazioni
che fanno convenire gli uomini insieme,
ordinò che in quella sua repubblica si
spendesse monete di cuoio, per tor via
a ciascuno il desiderio di venirvi per
portarvi mercanzie, o portarvi alcuna
arte; di qualità che quella città non
potette mai ingrossare di abitatori. E
perchè tutte le azioni nostre imitano la
natura, non è possibile nè naturale che
uno pedale sottile sostenga un ramo
grosso. Però una repubblica piccola non
può occupare città nè regni che siano
più validi nè più grossi di lei; e se pu-
re gli occupa, gP interviene come a quel-
lo albero che avesse più. grosso il ramo
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LiBRO SECONDO.
335
che ’l piede," che sostenendolo con fati-
ca, ogni piccolo vento lo fiacca: come
si vede che intervenne a Sparla, la quale
avendo occupate tutte le città di Grecia,
non prima se gli ribellò Tebe, che tutte
P altre cittadi se gli ribellarono, e ri-
mase i! pedale solo senza rami. Il che
non potette intervenire a Roma, avendo
il piè si grosso, che qualunque ramo
poteva facilmente sostenere. Questo mo-
do adunque di procedere, insieme con
gli altri che di sotto si diranno, fece
Roma grande e potentissima. Il che di-
mostra Tito Livio in due parole, quando
disse: Crcscit intcrea Roma Albce ruinis.
Gap. IV. — Le repubbliche hanno te-
ntili tre modi circa lo ampliare.
Chi ha osservato le antiche istorie,
Iruova come le repubbliche hanno tre
modi circa lo ampliare. L* uno è stato
quello che osservorono i Toscani anti-
chi, di essere una lega di più repub-
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336
DEI DISCORSI
bliche insieme, dove non sia alcuna che
avanzi l’ altra nè di autorità nè di gra-
do; e nello acquistare, farsi 1’ altre città
compagne, in simil modo come in que-
sto tempo fanno i Svizzeri, e come nei
tempi antichi feciono in Grecia gli Achei
e gli Etoli. E perchè gli Romani feciono
assai guerra con i Toscani, per mostrar
meglio la qualità di questo primo modo,
ini distenderò in dare notizia di loro
particolarmente. In Italia, innanzi allo
imperio romano, furono i Toscani per
mare e per terra potentissimi: e ben-
ché delle cose loro non ce ne sia par-
ticolare istoria, pure c’è qualche poco
di memoria, e qualche segno della gran- *
dezza loro; e si sa come e* mandarono
una colonia in su ’l mare di sopra, la
quale chiamarono Adria, che fu si no-
bile, che la dette nome a quel mare che
ancora i Latini chiamano Adriatico. In-
tendesi ancora, come le loro arme fu-
rono ubbidite dal Tevere per infìno ai
piè dell’ Alpi, che ora cingono il grosso
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LIBRO SECONDO.
337
di Italia; non ostante che dugento anni
innanzi che i Romani crescessino in
molte forze, detti Toscani perderono lo
imperio di quel paese che oggi si chia-
ma la Lombardia; la quale provincia fu
occupata da’ Franciosi : i quali mossi o
da necessità, o dalla dolcezza dei frutti,
e massime del viuo, vennono in Italia
sotto Bellovcso loro duce; e rotti e cac-
ciati i provinciali, si posono in quel
luogo, dove edificarono di molte cittadi,
e quella provincia chiamarono Gallia,
dal nome che tenevano allora ; la quale
tennono fino che da’ Romani fussero
domi. Vivevano, adunque, i Toscani con
quella equalità , e procedevano nello
ampliare in quel primo modo che di
sopra si dice: e furono dodici città, tra
le quali era Chiusi, Yeio, Fiesole, Arez-
zo, Volterra, e simili: i quali per via
di lega governavano lo imperio loro;
nè poterono uscir d’Italia con gli acqui-
sti ; e di quella ancora rimase intatta
gran parte, per le cagioni che di sotto
51 \Chutei Li, Discorsi. — t. 22
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33S DEI DISCORSI
si diranno. V altro modo è farsi com-
pagni j non tanto però che non ti ri-
manga il grado del comandare, la sedia
dello imperio ed il titolo delle imprese :
il quale modo fu osservato da’ Romani.
11 terzo modo è farsi immediate sud-
diti, e non compagni; come fecero gli
Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre
modi, questo ultimo è al tutto inutile;
come c’ si vide che fu nelle sopraddette
due repubbliche: le quali non rovina-
rono per altro, se non per avere acqui-
stato quel dominio che le non potevano
tenere. Perchè, pigliar cura di avere a
governare città con violenza, massime
quelle che tassino consuete a viver li-
bere, è una cosa diffìcile e faticosa. E
se tu non sei armato e grosso d’ armi,
non le puoi nè comandare nè reggere.
Ed a voler esser così fatto, è necessa-
rio farsi compagni che ti aiutino in-
grossare la tua città di popolo. E per-
chè queste due città non feciono nè
1’ uno nè I’ altro, il modo del procedere
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LIBRO SECONDO.
339
loro fu inutile. E perché Roma, la quale
è nello esempio del secondo modo, fece
l’uno e T altro; però salse a tanta ec-
cessiva potenza. E perchè la è stata sola
a vivere cosi, è stata ancora sola a di-
ventar tanto potente : perchè, avendosi
ella fatti di molti compagni per tutta
Italia, i quali in di molte cose con eguali
leggi vivevano seco; e dall’ altro canto»
come di sopra è detto, sendosi riser-
vato sempre la sedia dello imperio ed
il titolo del comandare; questi suoi com-
pagni venivano, che non se ne avvede-
vano, con le fatiche e con il sangue
loro a soggiogar sè stessi. Perchè, co-
me cominciorono a uscire con gli eser-
citi di Italia, e ridurre i regni in pro-
vincie, e farsi soggetti coloro che per
esser consueti a vivere sotto i Re, non
si curavano d* esser soggetti; ed avendo
governadori romani, ed essendo stati
vinti da eserciti con ii titolo romano ;
non riconoscevano per superiore altro
che Roma. Di modo che quelli compa-
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DEI DISCORSI
340
gni di Roma che erano in Italia, si tro-
varono in un tratto cinti da’ sudditi
romani, cd oppressi da una grossissima
città come era Roma ; e quando e’ si
avviddono dello inganno sotto i! quale
erano vissuti, non furono a tempo a
rimediarvi: tanta autorità aveva presa
Roma con le provincie esterne, e tanta
forza si trovava in seno, avendo la sua
città grossissima ed armatissima. E ben-
ché quelli suoi compagni, per vendicarsi
delle ingiurie, gli congiurassino contea,
furono in poco tempo perditori della
guerra, peggiorando le loro condizioni;
perchè di compagni, diventarono anco-
ra loro sudditi. Questo modo di pro-
cedere, come è detto, è stato solo os-
servato da’ Romani: nè può tenere altro
modo una repubblica che voglia am-
pliare; perchè la esperienza non te ne
ha mostro nessuno più certo o più
vero. 11 modo preallegato delle leghe,
come viverono i Toscani, gii Achei e
gli Etoli, e come oggi vivono i Sviz-
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LIBRO -SECONDO
341
zeri, è dopo a quello de’ Romani il
miglior modo; perchè non si potendo
con quello ampliare assai, ne seguitano
duoi beni: l’ uno, che facilmente non ti
tiri guerra addosso; l’altro, che quel
tanto che tu pigli, lo tieni facilmente.
La cagione del non potere ampliare, è
lo essere una repubblica disgiunta, e
posta in varie sedi: il che fa che diffi-
cilmente possono consultare e deliberare.
Fa ancora che non sono desiderosi di
dominare: perchè essendo molte comu-
nità a* participarc di quel dominio, non
istimano tanto tale acquisto, quanto fa
una repubblica sola, che spera di go-
derselo tutto. Governansi, oltra di que-
sto, per concilio, c conviene che siano
più tardi ad ogni deliberazione, che
quelli che abitano dentro ad un mede-
simo cerchio. Vedesi ancora per espe-
rienza, che simile modo di procedere ha
un termine fisso, il quale non ci è esem-
pio che mostri che si sia trapassato: e
questo è di aggiugnere a dodici o quat-
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342
DEI DISCORSI
tordici comunità ; dipoi non cercare
di andare più avanti : percliè sendo
giunti al grado che par loro potersi di-
fendere da ciascuno, non cercano mag-
giore dominio ; sì perchè la necessità
non gli stringe di avere piò potenza;
si per non conoscere utile negli acqui-
sti, per le cagioni dette di sopra. Per-
chè gli arebbono a fare una delle due
cose; o seguitare di farsi compagni, e
questa moltitudine farebbe confusione;
o gli arebbono a farsi sudditi : e per-
chè e’ veggono in questo difficultà, e
non molto utile nel tenergli, non lo sti-
mano. Pertanto, quando e’ sono venuti
a tanto numero che paia loro vivere
sicuri, si voltano a due cose: P una a
ricevere raccomandati, e pigliare pro-
tezioni ; c per questi mezzi trarre da
ogni parte danari, i quali facilmente
intra loro si possono distribuire: 1* al-
tra è militare per altrui, e pigliar sti-
pendio da questo e da quello principe
che per sue imprese gli soldo ; come si
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LIBRO SECONDO. ÓA'Ò
vede che fanno oggi i Svizzeri, e come
si legge che facevano i preallegati. Di
che il* è testimone Tito Livio, dove dice
che, venendo a parlamento Filippo re
di Macedonia con Tito Quinzio Flammi-
nio, e ragionando d'accordo alla pre-
senza d’ un pretore degli Etoli ; in ve-
nendo a parole detto pretore con Filip-
po, gli fu da quello rimproverato la
avarizia e la infidelità, dicendo che gli
Etoli non si vergognavano militare con
uno, e poi mandare loro uomini ancora
al servigio del nimico ; talché molte
volte intra dnoi contrari eserciti si ve-
devano le insegne di Etolia. Conoscesi,
pertanto, come questo modo di proce-
dere per leghe, è stato sempre simile,
ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora,
che quel modo di fare sudditi è stato
sempre debole, ed avere fatto piccoli
profitti; e quando pure egli hanno pas-
sato il modo, essere rovinati tosto. E se
questo modo di fare sudditi è inutile
nelle repubbliche armate, in quelle che
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34 Ì- DEI DISCORSI
sono disarmate è inutilissimo: come sono
state ne’ nostri tempi le repubbliche di
Italia. Conoseesi, pertanto, essere vero
modo quello che tennono i Romani 5 il
quale è tanto più mirabile, quanto e’ non
ee il’ era innanzi a Roma essempio, e do-
po Roma non è stalo alcuno elio gli
abbi imitati. E quanto alle leghe, si
trovano solo i Svizzeri e la lega di Sve-
via che gli imita. E, come nel fine di
questa materia si dirà, tanti ordini os-
servati da Roma, così pertinenti alle
cose di dentro come a quelle di fuora,
non sono ne* presenti nostri tempi non
solamente imitati, ma non n’è tenuto
alcuno conto ; giudicandoli alcuni non
veri, alcuni impossibili, alcuni non a
proposito ed inutili : tanto che standoci
con questa ignoranza, siamo preda di
qualunque ha voluto correre questa pro-
vincia. E quando la imitazione de’ Ro-
mani paresse difficile, non doverrebhe
parere cosi quella degli antichi Toscani,
massime a’ presenti Toscani. Perchè, se
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•A--
LIBRO SECONDO.
•345
quelli non poterono, per le cagioni dette,
fare uno imperio simile a quel di Roma,
poterono acquistare in Italia quella po-
tenza che quel modo del procedere con-
cesse loro. 11 che fu per un gran tempo
securo, con somma gloria d’ imperio e
d’arme, e massima laude di costumi e
di religione. La qual potenza e gloria
fu prima diminuita da’ Franciosi, dipoi
spenta da’ Romani; e fu tanto spenta,
che, ancora che duemila anni fa la po-
tenza de’ Toscani fusse grande, al pre-
sente non ce n’ è quasi memoria. La
qual cosa mi ha fatto pensare donde
nasca questa oblivione delle cose: come '
nel seguente capitolo si discorrerà.
Gap. V. — Che la variazione delle sèlle
e delle lingue insieme con l'acci-
dente de' diluvi o delle pesti j spegno
- la memoria delle cose.
A quelli filosofi che hanno voluto che’l
mondo sia stato eterno, credo che si
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346 dei discorsi
potesse reificare, che se tanta antichità
fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che
ci fusse memoria di più che cinque
mila anni; quando e’ non si vedesse co-
me queste memorie de* tempi per di-
verse cagioni si spengano: delle quali
parte vengono dagli nomini, parte dal
cielo. Quelle che vengono dagli uomini,
sono le variazioni delle sètte e delle
lingue. Perchè quando surge una setta
nuova, cioè una religione nuova, il pri-
mo studio suo è, per darsi reputazione,
estinguere la vecchia; e quando egli oc-
corre che gli ordinatori delia nuova
setta siano di lingua diversa, la spen-
gono facilmente. La qual cosa si cono-
sce considerando i modi che ha tenuti
la religione cristiana contra alla setta
gentile; la quale ha cancellati tutti gli
ordini, tutte le ceremonie di quella, e
spenta ogni memoria di quella antica
teologia. Vero è che non gli è riuscito
spegnere in tutto la notizia delle cose
fatte dagli uomini eccellenti di quella :
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LIBRO SECONDO.
347
il die è nato per avere quella mante-
nuta la lingua latina ; il che fecero
forzatamente, avendo a scrivere questa
legge nuova con essa. Perchè, se V aves-
sino potuta scrivere con nuova lingua,
considerato le altre persecuzioni gli fe-
ciono, non ci sarebbe ricordo alcuno
delle cose passate. E chi legge i modi
tenuti da san Gregorio e dagli altri
capi della religione cristiana, vedrà con
quanta ostinazione e’ perseguitarono
tutte le memorie antiche, ardendo P o-
pere de* poeti e delli istorici, minando
le immagini, e guastando ogni altra cosa
che rendesse alcun segno della antichità.
Talché, se a questa persecuzione egli
avessino aggiunto una nuova lingua, si
sarebbe veduto in brevissimo tempo
ogni cosa dimenticare. È da credere,
pertanto, che quello che ha voluto fare
la religione cristiana contra alla setta
gentile, la gentile abbi fatto contra u
quella che era innanzi a lei. E perchè
queste sètte in cinque o in seimila anni
✓
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348
DEI DISCORSI
variarono due o tre volle, si perdè in
memoria delle cose fatte innanzi a quel
tempo. E se pure ne resta alcun segno,
si considera come cosa favolosa, e non
è prestato loro fede : come interviene
alla istoria di Diodoro Siculo, che ben-
ché e’ renda ragione di quaranta o cin-
quanta mila anni, nondimeno è riputata,
come io credo che sia, cosa mendace.
Q uanto alle cause che vengono dal cie-
lo, sono quelle che spengono la umana
generazione, e riducono a pochi gli abi-
tatori di parte del mondo. E questo
viene o per peste o per fame o per una
inondazione d* acque : e la più impor-
tante è questa ultima, sì perchè la è
più universale, sì perchè quelli che si
salvano sono uomini tutti montanari e
rozzi, i quali non avendo notizia di al-
cuna antichità, non la possono lasciare
a’ posteri. E se infra loro si salvasse
alcuno che ne avesse notizia, per farsi
riputazione e nome, la nasconde, e la
perverte a suo modo ; talché ne resta
V
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LIBRO SECONDO.
349
solo a* successori quanto ei ne ha vo-
luto scrivere, e non altro. E che queste
inondazioni, pesti e fami venghino, non
credo sia da dubitarne; sì perchè ne
sono piene tutte le istorie, sì perchè si
vede questo effetto della oblivione delle
cose, sì perchè e’ pare ragionevole che
sia: perchè la natura, come ne’ corpi
semplici, quando vi è ragunato assai
materia superflua, muove per sè mede-
sima molte volte, e fa una purgazione,
la quale è salute di quel corpo ; così
interviene in questo corpo misto della
umana generazione, che quando tutte le
provincie sono ripiene di abitatori, in
modo che non possono vivere, nè pos-
sono andare altrove, per esser occupati
e pieni tutti i luoghi; e quando la astu-
zia e malignità umana è venuta dove
la può venire, conviene di necessità che
il mondo si purghi per uno de’ tre mo-
di ; acciocché gli uomini essendo dive-
nuti pochi e battuti, vivano più como-
damente, e diventino migliori. Era
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350 DEI DISCORSI '
adunque, come di sopra è detto, già tu
Toscana potente, piena di religione e
di virtù ; aveva i suoi costumi e la sua
lingua patria: il che tutto è stato spento
dalla potenza romana. Talché, come si
è detto, di lei ne rimane solo la memo-
ria del nome.
Cap. Vi. — Come i Romani procedevano
nel fare la guerra.
I 4
Avendo discorso come i Romani pro-
cedevano nello ampliare, discorreremo
ora come e’ procedevano nel fare la
guerra ; ed in ogni loro azione si ve-
drà con quanta prudenza ei diviarono
dal modo universale degli altri, per fa-
cilitarsi la via a venire a una suprema
grandezza. La intenzione di chi fa
guerra per elezione, o vero per ambi-
zione, è acquistare e mantenere lo acqui-
stato; e procedere in modo con esso,
che I’ arricchisca c non impoverisca il
paese e la patria sua. È necessario dun-
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«■ i
LIBRO SECONDO. 351
quc, e nello acquistare e nel mantene-
re, pensare di non spendere; anzi far
ogni cosa con utilità del pubblico suo.
Chi vuol fare tutte queste cose, convie-
ne che tenga lo stile e modo romano:
il quale fu in prima di fare le guerre,
come dicono i Franciosi, corte e gros-
se; perchè, venendo in campagna con
eserciti grossi, tutte le guerre eh’ egli
ebbono co’ Latini, Sanniti e Toscani le
espedirono in brevissimo tempo. E se
si noteranno tutte quelle che feciono dal
principio di Roma infino alla ossidione
de’ Yeienti, tutte si vedranno espedite,
quale in sei, quale in dieci, quale in
venti di. Perchè l’uso loro era questo:
subito che era scoperta la guerra, egli
uscivano fuori con gli eserciti all’ in-
contro del nimico, e subito facevano la
giornata. La quale vinta, i nimici, per-
chè non fussc guasto loro il contado
affatto, venivano alle condizioni; ed i
Romani gli condennavano in terreni: i
quali terreni gli convertivano in privati
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35 2
DEI DISCORSI
comodi, o gli consegnavano ad una co-
lonia; la quale posta in su le frontiere
di coloro, veniva ad esser guardia de’ con-
fini romani, con utile di essi coloni, che
avevano quelli campi, e con utile del
pubblico di Roma, che senza spesa te-
neva quella guardia. Nè poteva questo
modo esser più seeuro, o più forte, o
piu utile: perchè mentre che i nimici
non erano in su i campi, quella guar-
dia bastava : come e’ fussino usciti fuori
grossi per opprimere quella colonia,
ancora i Romani uscivano fuori grossi,
e venivano a giornata con quelli; e fatta
e vinta la giornata, imponendo loro più
gravi condizioni, si tornavano in casa.
Così venivano ad acquistare di mano
in mano riputazione sopra di loro, e
forze in sè medesimi. E questo modo
vennono tenendo infino che mutorno
modo di procedere in guerra: il che fu
dopo la ossidione de’ Veienti ; dove, pei*
potere fare guerra lungamente, gli or-
dinarono di pagare i soldati, che pri-
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LIBRO SECONDO.
353
ma, per non essere necessario, essendo
le guerre brevi, non gli pagavano. E
benché i Rotflani dessino il soldo, e che
per virtù di questo ei potessino fare le
guerre più lunghe, e per farle più di-
scosto la necessità gli tenesse più in
su’ campi ; nondimeno non variarono
mai dal primo ordine di finirle presto,
secondo il luogo ed il tempo; nè varia-
rono mai dal mandare le colonie. Per-
chè nel primo ordine gli tenne, circa
il fare le guerre brevi, olirà il loro na-
turale uso, T ambizione de’ Consoli ; i
quali avendo a stare un anno, e di
quello anno sei mesi alle stanze, vole-
vano finire la guerra per trionfare. Nel
mandare le colonie, gli tenne 1’ utile e
la comodità grande che ne risultava.
Variarono bene alquanto circa le prede,
delie quali non erano cosi liberali come
erano stati prima ; sì perchè e* non pa-
reva loro tanto necessario, avendo i sol-
dati lo stipendio; sì perchè essendo le
prede maggiori, disegnavano d* ingras-
Macbiatelli, Discorsi. — 1. 23
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DEI DISCORSI
'ÒÒ ì
saie di quelle in modo il pubblico, che
non lussino constretti a fare le imprese
con tributi della città. li * quale ordine
in poco tempo fece il loro erario ric-
chissimo. Questi duoi modi, adunque, e
circa il distribuire la preda, e circa il
mandar le colonie, feciono che Roma ar-
ricchiva della guerra j dove gli altri
principi e repubbliche non savie ne
impoveriscono. E ridusse la cosa in ter-
mine, che ad un Consolo non pareva
poter trionfare, se non portava col suo
trionfo assai oro ed argento, e d’ ogni
altra sorte preda, nello erario. Cosi i
Romani con i soprascritti termini, e coti
il finire le guerre presto, sendo con-
tenti con lunghezza straccare i nemici,
e con rotte e con le scorrerie e con
accordi a loro avvantaggi, diventarono
sempre più ricchi e più potenti.
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LIBRO SECOXDO.
855
Cap. VII — Quanto terreno i Romani
davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuii-
sino per colono, credo sia molto diffìcile
trovarne la verità. Perchè io credo ne
dessino più o manco, secondo i luoghi
dove e* mandavano le colonie. E giudi-
casi che ad ogni modo ed in ogni luogo
la distribuzione fusse parca : prima, per
poter mandare più uomini, sendo quelli
diputati per guardia di quel paese; di-
poi perchè vivendo loro poveri a caso,
non era ragionevole che volessino che I
loro uomini abbondassino troppo fuo-
ra. E Tito Livio dice, come preso Veio
e’ vi mandorno una colonia, e distribui-
rono a ciascuno tre iugeri e sette once
di terra; che sono al modo nostro . .
Perchè, oltre alle cose
soprascritte, e’ giudicavano che non lo
assai terreno, ma il bene coltivato ba-
stasse. È necessario bene, che tutta la
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DEI DISCORSI
356
colonia abbi campi pubblici dove cia-
scuno possa pascere il suo bestiame, e
selve dove prendere del legname per ar-
dere ; senza le quali cose non può una
colonia ordinarsi.
Gap. Vili. — La cagione perchè i po-
poli si partono da * luoghi patriij cd
inondano il paese altrui.
Poiché di sopra si è ragionato del
modo nel procedere della guerra osser-
vato da’ Romani, c come i Toscani fu-
rono assaltati da* Franciosi ; non mi pare
alieno dalla materia discorrere, come e’ si
fanno di due generazioni guerre. L’una
è fatta per ambizione de* principi o delle
repubbliche, che cercano di propagare
lo imperio; come furono le guerre che
fece Alessandro Magno, e quelle che fe-
ciono i Romani, e quelle che fanno cia-
scuno di, 1* una potenza con F altra. Le
quali guerre sono pericolose, ma non
cacciano al tutto gli abitatori d* una pro-
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LIBRO SECONDO.
357
vincia ; perchè e’ basta al vincitore solo
la ubbidienza de’ popoli, e il più delle
volte gli lascia vivere con le loro leggi,
e sempre con le loro case, e ne’ loro
beni. L’altra generazione di guerra è,
quando un popolo intero con tutte le
sue famiglie si beva d’ uno luogo, ne-
cessitato o dalla fame o dalla guerra, e
va a cercare nuova sede e nuova pro-
vincia; non per comandarla, come quelli
di sopra, ma per possederla tutta par-
ticolarmente, e cacciarne o ammazzare
gli abitatori antichi di quella. Questa
guerra è crudelissima e paventosissima.
E di queste guerre ragiona Salustio nel
fine dell’ Iugurtiuo, quando dice che vinto
lugurta, si senti il moto de’ Franciosi che
venivano in Italia : dove e’ dice che ’l
Popolo romano con tutte le altre genti
combattè solamente per chi dovesse co-
mandare, ma con i Franciosi si com-
battè sempre per la salute di ciascuno.
Perchè ad un principe o una repub-
blica che assalta una provincia, basta
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358
DEI DISCORSI
spegnere solo coloro che comandano ; ma
a queste popolazioni conviene spegnere
ciascuno, perchè vogliono vivere di quel-
lo che altri viveva. I Romani ebbero tre
di queste guerre pericolosissime. La prima
fu quella quando Roma fu presa, la quale
fu occupata da quei Franciosi che ave-
vano tolto, come di sopra si disse, la
Lombardia a’ Toscani, e fattone loro se-
dia; della quale Tito Livio ne allega due
cagioni: la prima, come di sopra si dis-
se, che furono allettati dalla dolcezza
delle frutte, c del vino di Italia, delle
quali mancavano in Francia; la secon-
da che, essendo quel regno francioso
moltiplicato in tanto di uomini, che non
vi si potevano più nutrire, giudicarono
i principi di quelli luoghi, che fusse ne-
cessario che una parte di loro andasse
a cercare nuova terra; e fatta tale de-
liberazione, elcssono per capitani di
quelli che si avevano a partire, Bello-
veso e Sicoveso, duoi re de’ Franciosi :
de’ quali Belloveso venne in Italia, e Si»
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LIBRO SECONDO.
359
coveso passò in Ispagna. Dalla passata
del quale Belloveso, nacque la occupa-
zione di Lombardia, c quindi la guerra
che prima i Franciosi fecero a Roma.
Dopo questa, fu quella che fecero dopo
la prima guerra cartaginese, quando tra
Piombino e Pisa ammazzarono più che
dugentomila Franciosi. La terza fu quando
i Todeschi e Cimbri vennero in Italia :
i quali avendo vinti più eserciti romani,
furono vinti da Mario. Vinsero adunque
i Romani queste tre guerre pericolosis-
sime. Ne era necessario minore virtù a
vincerle; perchè si vede poi, come la
virtù romana mancò, e che quelle arme
perderono il loro antico valore, fu quello
imperio distrutto da simili popoli : i quali
furono Goti, Vandali c simili, che oc-
cuparono tutto lo imperio occidentale.
Escono tali popoli de* paesi loro, rome
di sopra si disse, cacciati dalla neces-
sitò: e la necessitò nasce o dalla fame,
o da una guerra ed oppressione clic
ne’ paesi propri è loro fatta; talché e’
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•360 DEI DISCORSI
sono constretti cercare nuove terre. E
questi tali, o e’ sono grande numero ;
ed allora con violenza entrano ne' paesi
altrui, ammazzano gli abitatori, posseg-
gono i loro beni, fanno uno nuovo re-
gno, mutano il nome della provincia:
come fece Moisè, e quelli popoli che oc-
cuparono lo imperio romano. Perchè que-
sti nomi nuovi che sono nella Italia e nelle
altre provincie, non nascono da altro che
da essere state nomate così da’ nuovi
occupatoci : come è la Lombardia, che
si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia
si chiamava Gallia Transalpina, ed ora
è nominata da’ Franchi, chè cosi si chia-
mavano quelli popoli che la occuparono:
la Schiavoniu si chiamava Illiria, l’Un-
gheria Pannonia; l’Inghilterra Britan-
nia: c molte altre provincie che hanno
mutato nome, le quali sarebbe tedioso
raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea
quella parte di Soria occupata da lui.
E perchè io ho detto di sopra, che qual-
che volta tali popoli sono cacciati della
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LIBRO SECOSDO.
361
propria sede per guerra, donde -sono
constretti cercare nuove terre; ne vo-
glio addurre lo essempio de’ Maurusii,
popoli anticamente in Soria : i quali, sen-
- tendo venire i popoli ebraici, e giudi-
cando non poter loro resistere, pensarono
essere meglio salvare loro medesimi, t*
lasciare il paese proprio, che per volere
salvare quello, perdere ancora loro; e
levatisi con loro famiglie, se ne anda-
rono in Affrica, dove posero la loro se-
dia, cacciando via quelli abitatori che in
quelli luoghi trovarono. G così quelli che
non avevano potuto difendere il loro
paese, poterono occupare quello d’ altrui.
E Procopio, che scrive la guerra che
fece Bellisario co’ Vandali occupatori della
Affrica, riferisce aver letto lettere scritte
in certe colonne ne’ luoghi dove questi
Maurusii abitavano, le quali dicevano :
S os Maurusii , qui fugimus a facie Jesu
latronis filii flava. Dove apparisce In
cagione della partita loro di Soria. Sono,
pertanto, questi popoli formidolosissimi,
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362
DEI DISCORSI
sendo cacciati da una ultima necessità ;
e s’ egli non riscontrano buone armi, non
saranno mai sostenuti. Ula quando quelli
che sono constretti abbandonare la loro
patria non sono molti, non sono sì pe-
ricolosi come quelli popoli di chi si è
ragionato; perchè non possono usare
tanta violenza, ma conviene loro con
arte occupare qualche luogo, e, occupa-
tolo, mantenervisi per via di amici e di
confederali : come si vede che fece Enea,
Didone, i Massiliesi e simili ; i quali lutti,
per consentimento de’ vicini, dove e’ po-
sorno, poterono mantenervisi. Escono i
popoli grossi, e sono usciti quasi tutti
de’ paesi di Scizia ; luoghi freddi e po-
veri: dove, per essere assai uomini, cd
il paese di qualità da non gli potere nu-
trire, sono forzati uscire, avendo molte
cose che gli cacciano, e nessuna che gli
ritenga. E se da cinquecento anni in qua,
non è occorso che alcuni di questi po-
poli abbino inondato alcuno paese, è nato
per più cagioni. La prima, la grande
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LIBRO SECONDO.
363
evacuazione che fece quel paese nella
declinazione dello imperio; donde usci-
rono più di trenta popolazioni. La se-
conda è che la Magna e 1’ Ungheria, donde
ancora uscivano di queste genti, hanno
ora il loro paese bonificato in modo, che
vi possono vivere agiatamente; talché
non sono necessitati di mutare luogo.
Dall’ altra parte, sendo loro uomini bel-
licosissimi, sono come uno bastione a
tenere che gli Sciti, i quali con loro con-
finano, non presumino di potere vincer-
gli o passargli. E spesse volte occorrono
movimenti grandissimi da’ Tartari, che
sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di
Polonia sostenuti; e spesso si gloriano,
che se non fussino 1’ arme loro, la Italia
e la Chiesa arebbe molle volle sentito il
peso degli eserciti tartari. E questo vo-
glio basti quanto a’ prefati popoli.
:
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i
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;
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364
DEI DISCORSI
Cap. IX. — Quali cagioni comunemente
faccino nascere le guerre intra i polenti.
La cagione che fece nascere guerra
intra i Romani ed i Sanniti, che erano
stati in lega gran tempo, è una cagione
comune che nasce infra tutti i princi-
pati potenti. La qual cagione o la viene
a caso, o la è fatta nascere da colui che
desidera muovere la guerra. Quella che
nacque intra i Romani ed i Sanniti, fu
a caso; perchè la intenzione de’ Sanniti
non fu, muovendo guerra a’Sidicini, e
dipoi a’ Campani, muoverla ai Romani.
.\Ia sendo i Campani oppressati, e ricor-
rendo a Roma fuora della oppinione
de’ Romani e de’ Sanniti, furono forzati,
dandosi i Campani ai Romani, come cosa
loro difendergli, e pigliare quella guerra
che a loro parve non potere con loro
onore fuggire. Perchè e’pareva benea’Ro-
mani ragionevole non potere difendere
i Campani come amici, eontra ai San-
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LIBRO SECONDO.
365
uiti amici, ma pareva ben loro vergo-
gna non gli difendere come sudditi, ov-
vero raccomandali; giudicando, quando
e’ non avessino presa tal difesa, torre
la via a tutti quelli che disegnassino ve-
nire sotto la potestà loro. Ed avendo
Roma per fine lo imperio e la gloria, e
non la quiete, non poteva ricusare que-
sta impresa. Questa medesima cagione
dette principio alla prima guerra conira
a’ Cartaginesi, per la difensione che i
Romani presono de* Messinesi in Sicilia:
la quale fu ancora a caso. Ma non fu
già a caso di poi la seconda guerra che
nacque infra loro; perchè Annibaie ca-
pitano Cartaginese assaltò i Saguntini
amici de’ Romani in Ispagna, non per
offendere quelli, ma per muovere l’arme
romane, ed avere occasione di combat-
terli, c passare in Italia. Questo modo
nello appiccare nuove guerre è stato
sempre consueto intra i potenti, e che
si hanno e della fede, e d’altro, qual-
che rispetto. Perchè, se io voglio fare
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DEI DISCORSI
366
guerra con uno principe, ed infra noi
siano fermi capitoli per un gran tempo
oservati, con altra giustificazione e con
altro colore assalterò io un suo amico
che lui proprio 5 sappiendo massime, che
nello assaltare lo amico, o ci si risen-
tirà, ed io arò V intento mio di fargli
guerra ; o non si risentendo, si scuo-
prirà la debolezza o la infidelità sua di
non difendere un suo raccomandato. E
1’ una e I' altra di queste due cose è per
torgli riputazione, e per fare più facili
i disegni miei. Debbesi notare, adunque,
e per la dedizione de' Campani, circa il
muovere guerra, quanto di sopra si è
detto; e di più, qual rimedio abbia una
città che non si possa per sè stessa di-
fendere, e voglisi difendere in ogni modo
da quel clic l'assalta: il quale è darsi
Uberamente a quello che tu disegni che
ti difenda; come feciono i Capovani ai
Romani, ed i Fiorentini al ré Roberto
di Napoli : il quale non gli volendo di-
fendere come amici, gli difese poi come
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LIBRO SECONDO. 367
sudditi contra alle forze di Castruceio
da Lucca, die gli opprimeva.
CàP. X. — I danari non sono il nervo
della guerra j secondo che è la comune
oppi ninne.
Perchè ciascuno può cominciare una
guerra a sua posta, ma non finirla, debbe
uno principe, avanti che prenda una im-
presa, misurare le forze sue, e secondo
quelle governarsi. Ma debbe avere tanta
prudenza, che delle sue forze ei non
s’inganni; ed ogni volta s’ingannerà,
quando le misuri o dai danari, o dal
sito, o dalla benivoienza degli uomini,
mancando dall’ altra parte d’ arme pro-
prie. Perchè le cose predette ti accre-
scono bene le forze, ma le non te ne
danno ; e per sè medesime sono nulla ;
e non giovano alcuna cosa senza l’arme
fedeli. Perchè i danari assai, non ti ba-
stano senza quelle; non ti giova la for-
tezza de! paese; e la fede ‘e benivoienza
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365>
DE! DISCORSI
degli uomini non dura, perchè questi
non ti possono essere fedeli, non gli po-
tendo difendere. Ogni monte, ogni lago,
ogni luogo inaccessibile diventa piano,
dove i forti difensori mancano. I danari
ancora non solo non ti difendono, ina
ti fanno predare più presto. Nè può es-
sere più falsa quella comune oppinione
che dice che i danari sono il nervo della
guerra. La quale sentenza è detta da
Quinto Curzio nella guerra che fu in-
tra A'ntipatro macedone c il re spartano:
dove narra, che per difetto di danari il
re di Sparta fu necessitato azzuffarsi,
e fu rotto; che se ei differiva la zuffa
pochi giorni, veniva la nuova in Grecia
della morte di Alessandro, donde e* sa-
rebbe rimaso vincitore senza combattere.
Ma mancandogli i danari, e dubitando
che lo esercito suo per difetto di quelli
non Io abbandonasse, fu constretto ten-
tare la fortuna della zuffa: talché Quinto
Curzio per questa cagione afferma, i da-
nari essere il nervo della guerra. La
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LIBRO SECONDO.
.3 CU
qual sentenza è allegata ogni giorno, v
da’ principi non tanto prudenti che ba-
sti, seguitata. Perchè, fondatisi sopra
quella, credono che basti loro a difen-
dersi avere tesori assai, e non pensano
che se ’1 tesoro bastasse a vincere, che
Dario arebbe vinto Alessandro, i Greci
nrebbon vinti i Romani; ne’ nostri tempi
il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri;
e pochi giorni sono, il Papa ed i Fio-
rentini insieme non arebbono avuta dif-,
ficultà in vincere Francesco Maria, ni-
pote di papa Giulio II, nella guerra di
Urbino. Ma tutti i soprannominali fu-
rono vinti da coloro che non il danaro,
ma i buoni soldati stimano essere il ner-
vo della guerra. Intra le altre cose che
Creso re di Lidia mostrò a Solone ate-
niese, fu un tesoro innumerabile ; c do-
mandando quel che gli pareva della po-
tenza sua, gli rispose Solone, che per
quello non lo giudicava più potente; per-
chè la guerra si faceva col ferro e non
con P oro, e che poteva venire uno che
HI ACHIAVELI.!t Discorsi. — 1. 2*
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370
DEI DISCORSI
avesse piu ferro di lui, e torgliene. Ol-
ir’ a questo, quando, dopo la morte di
Alessandro Magno, una moltitudine di
Franciosi passò in Grecia, e poi in Asia;
e mandando i Franciosi oratori al re di
Macedonia per trattare certo accordo ;
quel re, per mostrare la potenza sua e
per {sbigottirli, mostrò loro oro ed ar-
gento assai: donde quelli Franciosi che
di già avevano come ferma la pace, la
j uppono ; tanto desiderio in loro crebbe
di torgli quell’oro: e cosi fu quel re
spogliato per quella cosa che egli aveva
per sua difesa accumulata. 1 Yeniziani,
pochi anni sono, avendo ancora lo era-
rio loro pieno di tesoro, perderono tutto
lo Stato, senza potere essere difesi da
quello. Dico pertanto, non l’ oro, come
grida la comune oppinione, essere il
nervo della guerra, ma i buoni soldati :
perchè 1’ oro non è suflìzienle a trovare
i buoni soldati, ma i buoni soldati son
ben sutlìzienti a trovare l’ oro. Ai Ro-
mani, s’egli avessero voluto fare la guerra
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LIDHO SECONDO.
371
più con i danari che con ii ferro, non
sarebbe bastato avere tutto il tesoro del .
mondo, considerato le grandi imprese
che fcciono, e le difficoltà che vi ebbono
dentro. Ma facendo le loro guerre con
il ferro, non patirono mai carestia del-
l' oro; perchè da quelli cheli temevano
era portato Toro infino ne’ campi. E se
quel re spartano per carestia di danari
ebbe a tentare la fortuna della /uffa,
intervenne a lui quello, per conto de’da-
nari, che molte volte è intervenuto per
altre cagioni; perchè si è veduto che,
mancando ad uno esercito le vettovaglie,
ed essendo necessitati o a morire di
fame o azzuffarsi, si piglia il partito
sempre di azzuffarsi, per essere più ono*
revole, e dove la fortuna ti può in qual-
che modo favorire. Ancora è interve-
nuto molte volte, che veggendo uno
capitano al suo esercito nimico venire
soccorso, gli conviene o azzuffarsi con
quello e tentare la fortuna della zuffa ;
o aspettando eh’ egli ingrossi, avere a
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372
DEI DISCORSI
combattere in ogni modo, con mille suoi
disavvantaggi. Ancora si è visto (come
intervenne ad Asdrubale quando nella
Marca fu assaltato da Claudio Verone,
insieme con l’altro Consolo romano), che
un capitano che è necessitato o a fug-
girsi o a combattere, come sempre elegge
il combattere ; parendogli in questo par-
tito, ancora che dubbiosissimo, potere
vincere; ed in quello altro, avere a per-
dere in ogni modo. Sono, adunque, molte
necessitati che fanno a uno capitano fuor
della sua intenzione pigliare partito di
azzuffarsi; intra le quali qualche volta
può essere la carestia de’ danari : nè per
questo si debbono i danari giudicare
essere il nervo della guerra, più che le
altre cose che inducono gli uomini n
simile necessità. Non è, adunque, repli-
candolo di nuovo. 1’ oro il nervo della
»
guerra; ma i buoni soldati. Son bene
necessari i danari in secondo luogo, ina
è una necessità che i soldati buoni per
sè medesimi la vincono; perchè è ini-
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LIBRO SECONDO.
373
possibile che a’ buoni soldati manchino
i danari, come che i denari pei* loro
medesimi truovino i buoni soldati. Mo-
stra questo che noi diciamo essere vero,
ogni istoria in mille luoghi; non ostante
che Pericle consigliasse gli Ateniesi a
fare guerra con tutto il Peloponneso,
mostrando che e* potevano vincere quella
guerra con la industria e con la forza
del danaio. E benché in tale guerra gli
Ateniesi prosperassino qualche volta, in
ultimo la perderono; e valsoti più il con-
siglio e gli buoni soldati di Sparta, che
la industria ed il danaio di Atene. Ma
Tito Livio è di questa oppinione più vero
testimone che alcuno altro, dove discor-
rendo se Alessandro Magno fusse venuto
in Italia, s’ egli avesse vinto i Romani,
mostra esser tre cose necessarie nella
guerra ; assai soldati e buoni, capitani
prudenti, e buona fortuna : dove esami-
nando quali o i Romani o Alessandro
prevalessino in queste cose, fa dipoi la
sua conclusione senza ricordare mai i
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374 DEI DISCORSI
danari. Doverono i Capovani, quando
furono ricfiiesti da’ Sidicini che prendes-
sino T arme per loro contea ai Sanniti,
misurare la potenza loro dai danari, c
non dai soldati: perchè, preso ch’egli
ebbero partito di aiutarli, dopo due rotte
furono constretti farsi tributari de’ Ro-
mani, se si vollono salvare.
Cap. Xf. — Non è partito prudente fa-
re amicizia con un principe che abbia
più oppinionc che forze.
Volendo Tito Livio mostrare lo erro-
re de’ Sidicini a fidarsi dello aiuto
de’ Campani, e lo errore de’ Campani a
credere potergli difendere, non lo po-
trebbe dire con più vive parole, dicen-
do: Campani magie nomen in auxilium
Sidicinorunij quam vires ad prcesidium
atlulcrunl. Dove si debbe notare, che le
leghe si fanno co’ principi che non ab-
bino o comodità di aiutarti per la di-
stanzia del sito, o forze di farlo per suo
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LIBRO SECONDO.
375
disordine o altra sua cagione, arrecano
più fama che aiuto a coloro ehe se ne
fidano: come intervenne ne’ dì nostri
a* Fiorentini, quando, nel 147£t, il papa
ed il re di Napoli gli assaltarono; che
essendo amici del re di Francia, tras-
sono di quella amicizia magis nomcn ,
r/nam praesidium : come interverrebbe
ancora a quel principe, che confidatosi
di Massimiliano imperatore, facesse qual-
che impresa; perchè questa è una di
quelle amicizie che arrecherebbe a chi
la facesse magis nomcn 9 quam prassi -
ditinij come si dice in questo testo, che
arrecò quella de’ Capovani ai Sidicini.
Errarono, adunque, in questa parte i
Capovani, per parere loro avere più
forze che non avevano. E così fa la
poca prudenza delti uomini qualche vol-
ta, che non sappiendo nè potendo di-
fendere sè medesimi, vogliono prendere
imprese di difendere altrui : come fece-
ro ancoro i Tarentini, i quali, sendo gli
eserciti romani allo Incontro dello eser-
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376
DEI DISCORSI
cito de’ Sanniti, mandorono ambasciadori
al Consolo romano, a fargli intendere
come ci volevano pace intra quelli duoi
popoli, e come erano per fare guerra
centra a quello che dalla pace si di-
scostasse*, talché il Consolo, ridendosi
di questa proposta, alla presenza di
detti ambasciadori fece sonare a batta-
glia, ed al suo esercito comandò che
andasse a trovare il nimico, mostrando
ai Tarentini con 1’ opera, e non con le
parole, di che risposta essi erano de-
gni. Ed avendo nel presente capitolo
ragionato dei parliti che pigliano i prin-
cipi al contrario per la difesa d’ altrui,
voglio nel seguente parlare di quelli che
si pigliano per la difesa propria.
Cap. XII. — Scegli è meglio , temendo
di essere assaltalo > inferire , o aspet-
tare la guerra.
lo lio sentito da uomini assai prati-
chi nelle cose della guerra qualche volta
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LIBRO SECONDO.
377
disputare, se sono duoi principi quasi
di eguali forze, se quello più gagliardo
abbi bandito la guerra contra a quello
altro, quale sia miglior partito per Pol-
tro; o aspettare il nimico dentro ai con-
fini suoi, o andarlo a trovare in casa,
ed assaltare lui: e ne fio sentito ad-
durre ragioni da ogni parte. E chi di-
fende lo andare assaltare altrui, nc al-
lega il consiglio che Creso dette a Ciro,
quando arrivato in su* confini de’ Mas-
sageli per fare lor guerra, la lor re-
gina Tarniri gli mandò a dire, che eleg-
gesse quale de' duoi partiti volesse; o
entrare nel regno suo, dovè essa Ip
aspetterebbe; o volesse che ella venisse
a trovar lui. E venuta la cosa in di-
sputazionc, Creso, contra alla oppinione
degli altri, disse che si andasse a tro-
var lei ; allegando che se egli la vin-
cesse discosto al suo regno, che non gli
torrebbe il regno, perchè ella arebbe
tempo a rifarsi; pia se la vincesse den-
tro a’ suoi confini, potrebbe seguirla in
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DEI DISCORSI
378
su la fuga, e non le dando spazio a
rifarsi, torli io Stato. Allegane ancora il
consiglio che dette Annibaie ad Antioco,
quando quel re disegnava fare guerra
ai Romani: dove ei mostrò come i Ro-
mani non si potevano vincere se non
in Italia, perchè quivi altri si poteva
valere delle arme e delle ricchezze e
degli amici loro ; chi gli combatteva
fuora d’ Italia, e lasciava loro la Italia
libera, lasciava loro quella fonte, che
mai li mancava vita a somministrare
forze dove bisogna ; e conchiuse che ai
Romani si poteva prima torre Roma
che lo imperio; prima la Italia che le
altre provincie. Allega ancora Agatocle.
che non potendo sostenere la guerra di
casa, assaltò i Cartaginesi clic glieuc
facevano, e gli ridusse a domandare
pace. Allega Scipione, che per levare la
guerra d’ Italia, assaltò la Affrica. Chi
parla al contrario dice, che chi vuole
fare capitare male uno nimico, lo di-
scosti da casa. Allegane gli Ateniesi,
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LIBRO SECONDO.
379
che mentre che feciono la guerra co-
moda alla casa loro, restarono superio-
ri; e come si discostarono, ed andaro-
no con gli eserciti in Sicilia, perderono
la libertà. Allega le favole poetiche, dove
si mostra che Anteo, re di Libia, assal-
tato da Ercole Egizio, fu insuperabile
mentre che Io aspettò dentro a* confini
del suo regno; ma come e’ se ne disco-
sto per astuzia di Ercole, perdè lo Stalo
e la vita. Onde è dato luogo alla favola
di Anteo, che sendo in terra ripigliava
le forze da sua madre, che era la Ter-
ra; e che Ercole avvedutosi di questo,
lo levò in alto, e discostollo dalla terra.
Allegane ancora i giudizi moderni. Cia-
scuno sa come Ferrando re di .Napoli
fu ne’ suoi tempi tenuto uno savissimo
principe: e venendo la fama, duoi anni
avanti la sua morte, come il re di Fran-
cia Carlo Vili voleva venire ad assal-
tarlo, avendo fatte assai preparazioni,
ammalò; e venendo a morte, intra gli
altri ricordi che lasciò ad Alfonso suo
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380
DEI DISCORSI
figliuolo, fu che egli aspettasse il ni-
mico dentro al regno; e per cose del
mondo non traesse forze fuori dello
Stato suo, ma lo aspettasse dentro ai
suoi confini tutto intero; il che non fu
osservato da quello; ma mandato uno
esercito in Romagna, senza combattere
perdè quello c lo Stato. Le ragioni che,
oltre alle cose dette, da ogni parte si
adducono, sono : che chi assalta viene
con maggiore animo che chi aspetta, il
che fa più confidente lo esercito; toglie,
oltra di questo, molte comodità al ni-
mico di potersi valere delle sue cose,
non si potendo valere di quei sudditi
che sieno saccheggiati; e per avere il
nimico in casa, è constretto il signore
avere più rispetto a trarre da loro da-
nari ed affaticargli : sicché e’ viene a
seccare quella fonte, come dice Anniba-
ie, che fa che colui può sostenere la
guerra. Oltre di questo, i suoi soldati,
per trovarsi ne* paesi d’ altrui, sono più
necessitati a combattere; e quella nc-
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LIBRO SECONDO. 3S1
cessila fa virtù, come più volte abbia-
mo detto. Dall’ altra parte si dice ; come
aspettando il nimico, si aspetta con as-
sai vantaggio, perchè senza disagio
alcuno tu puoi dare a quello molti di-
sagi di vettovaglia, e d’ ogni altra cosa
che abbia bisogno uno esercito : puoi
meglio impedirli i disegni suoi, per la
notizia del paese cheta hai più di lui:
puoi con più forze incontrarlo, per po-
terle facilmente tutte unire, ma non po-
tere già tutte discostarle da casa: puoi
sendo rotto rifarti facilmente; sì perchè
del tuo esercito se ne salverà assai,
per avere i rifugi propinqui; si perchè
il supplemento non ha a venire disco-
sto: tanto che tu vieni arrischiare tutte
le forze, e non tutta la fortuna ; e di-
scostandoti, arrischi tutta la fortuna, e
non tutte le forze. Ed alcuni sono stati
che per indebolire meglio il suo nimi-
co, Io lasciano entrare parecchie gior-
nate in su il paese loro, e pigliare assai
terre; acciò che lasciando i presidii in
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382 DEI DISCORSI
tutte, indebolisca il suo esercito, e pos-
siulo dipoi combattere più facilmente.
Ma, per dire ora io quello che io ne
intendo, io credo che si abbia a fare que-
sta distinzione: o io ho il mio paese
armato, come i Romani, o come hanno
i Svizzeri; o io l’ho disarmato, come
avevano i Cartaginesi, o come Y hanno i
re di Francia e gli Italiani. In questo
caso, si debbe tenere il nimico discosto
a casa; perchè scudo la tua virtù nel
danaio e non negli uomini, qualunque
volta ti è impedita la via di quello, tu
sei spacciato; nè cosa veruna te lo im-
pedisce quanto la guerra di casa. In es-
sempi ci sono i Cartaginesi; i quali
mentre che ebbero la casa loro libera,
poterono con le rendite fare guerra con
i Romani; e quando la avevano assal-
tata, non potevano resistere ad Agato-
eie. I Fiorentini non avevano rimedio
ulcuuo con Castruccio signore di Lucca,
perchè ci faceva loro la guerra in casa;
tanto che gli ebbero a darsi, per essere
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LIBRO SECONDO.
383
difesi, al re Roberto di Napoli. Ma morto
Castruccio, quelli medesimi Fiorentini
ebbero animo di assaltare il duca di
Milano in casa, ed operare di torgli il
regno: tanta virtù monstrarono nelle
guerre louginque, e tanta viltà nelle
propinque. Ma quando i regni sono ar-
mati, come era armata Roma e come
sono i Svizzeri, sono più difficili a vin-
cere quanto più ti appressi loro: perchè
questi corpi possono unire più forze a
resistere ad uno impeto, che non pos-
sono ad assaltare altrui. Nè mi muove
in questo caso I’ autorità di Annibaie,
perchè la passione e Y utile suo gli fa-
ceva cosi dire ad Antioco. Perchè, se i
Romani avessino avute in tanto spazio
di tempo quelle tre rotte in Francia*
ch’egli ebbero in .Italia da Annibaie,
senza dubbio erano spacciati: perchè
non si sarebbono valuti de’ .residui de-
gli eserciti, come si valsono in Italia;
non arebbono avuto a rifarsi quelle co-
modità; nè potevano con quelle forze
*
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DEI DISCORSI
384
resistere ai nimico, che poterono. Non
si trova che, per assaltare una provin-
cia, loro mandassino mai fuora eserciti
clic passassino cinquantamila persone;
ma per difendere la casa ne misono in
arme conira ai Franciosi, dopo la prima
guerra punica, diciotto centinaia di mi-
gliaia. Nè arebbono potuto poi romper
quelli in Lombardia, come gli ruppono
in Toscana; perchè contro a tanto nu
mero di ninnici non arebbono potuto
condurre tante forze sì discosto, nè com-
battergli con quella comodità. I Cimbri
ruppono uno esercito romano in la Ma-
gna, nè vi ebbono i Romani rimedio.
Ma come egli arrivorono in Italia, e che
poterono mettere tutte le loro forze in-
sieme, gli spacciarono. I Svizzeri è fa-
cile vincergli fuori di casa, dove e’ non
possono mandare più che un trenta o
quarantamila uomini; ma vincergli in
casa, dove e’ ne possono raccozzare cen-
tomila, è difficilissimo. Conchiuggo adun-
que di nuovo, che quel principe che ha
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LIBRO SECONDO.
385
i suoi popoli armati ed ordinali alla
guerra, aspetti sempre in casa una
guerra potente e pericolosa, e non la
vadia a rincontrare: ma quello che ha
i suoi sudditi disarmati, ed il paese
inusitato della guerra, se la discosti
sempre da casa il più che può. E così
r uno e l* altro, ciascuno nel suo grado,
si difenderà meglio.
Gap. XIII. — Che si viene di bassa a
gran fortuna più con la fraude, che
con la forza.
Io stimo essere cosa verissima, che
rado, o non mai, intervenga che gli
uomini di piccola fortuna venghino a
gradi grandi, senza la forza e senza la
fraude; purché quel grado al quale al-
tri è pervenuto, non ti sia o donalo, o
lasciato per eredità. Xè credo si truovi
mai che la forza sola basti, ma si tro-
verà bene che la fraude sola basterà:
còme chiaro vedrà colui che leggerà la
Machiavelli, Discorsi — i. 25
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3S6
DEI DISCORSI
vita di Filippo di Macedonia, quella di
Agatocle siciliano, e di molti altri simili,
che d’ infima ovvero di bassa fortuna,
sono pervenuti o a regno o ad imperi
grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua
vita di Ciro, questa necessità delio in-
gannare; consideralo che la prima ispe-
dizione che fa fare a Ciro contea il re
di Armenia, è piena di fraude, e come
con inganno, e non con forza, gli fa oc-
cupare il suo regno; e non conchiude
altro per tale azione, se non che ad un
principe che voglia fare gran cose, è
necessario imparare a ingannare. Fagli,
olirà di questo, ingannare Ciassare, re
de’ .Medi, suo zio materno, in più modi;
senza la quale fraude mostra che Ciro
non poteva pervenire a quella gran-
dezza che venne. Nè credo che si truovi
mai alcuno constiluito in bassa fortuna,
pervenuto a grande imperio solo con
la forza aperta ed ingenuamente, ma sì
bene solo con la fraude : come fece Gio-
vanni Galeazzo per tor lo Stato e lo
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LIBRO SECONDO.
387
imperio di Lombardia a messer Bernabò
suo zio. E quei che sono necessitati fare
i principi ne’ principi! degli augumenti
loro, sono ancora necessitate a fare le
repubbliche, infimo che le sieno diven-
tate potenti, e che basti la forza sola.
E perchè Roma tenne in ogni parte, o
per sorte o per elezione, tutti i modi
necessari a venire a grandezza, non
mancò ancora di questo. Nè potè usare,
nel principio, il maggiore inganno, che
pigliare il modo di sopra discorso da
noi, di farsi compagni ; perchè sotto
questo nome se li fece servi: come fu-
rono i Latini, ed altri popoli all’ intor-
no. Perchè prima si valse dell* arme loro
in domare i popoli convicini, e pigliare
la riputazione dello Stato: dipoi, doma-
togli, venne in tanto augumento, che la
poteva battere ciascuno. Ed i Latini non
si avviddono mai di essere al tutto servi,
se non poi che viddono dare due rotte
ni Sanniti, e costrettigli ad accordo. La
(piale vittoria, come ella accrebbe gran
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DEI DISCORSI
!i88
riputazione ai Romani eoi principi lon-
ginqui, clic mediante quella sentirono il
nome romano e non l’armi; così ge-
nerò invidia e sospetto in quelli che
vedevano e sentivano l’armi, intra i
quali furono i Latini. E tanto potè que-
sta invidia e questo timore, che non
solo i Latini, ma le colonie che essi ave-
vano in Lazio, insieme con i Campani,
stati poco innanti difesi, congiurarono
contra al nome romano. E mossono que-
sta guerra i Latini nel modo che si dice
di sopra, che si muovono la maggior
parte delle guerre, assaltando non i Ro-
mani, ma difendendo i Sidicini contra
ai Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano
guerra con licenza de’ Romani. E che sia
vero che i Latini si movessino per avere
conosciuto questo inganno, lo dimostra
Tito Livio nello bocca di Annio Setiuo
pretore latino, il quale nel consiglio loro
disse queste parole : Nam, si ctìam mine
sub umbra feederis cequi servilutem pati
«
possumus ctc. Yedesi pertanto i Romani
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LIBRO SECONDO.
3K9
ne’ primi augumenti loro non essere
mancati eziam della fraude; la quale
fu sempre necessaria ad usare a coloro
che di piccoli principii vogliono a su-
blimi gradi salire : la quale è meno vi-
tuperabile quanto è più coperta, come
fu questa de’ Romani.
«
Gap. XIV. — Ingannatisi molte volle gli
uomini j credendo con la umilila vin-
cere la superbia.
Vedesi molle volte come la umilila non
solamente* non giova, ma nuoce, massi-
mamente usandola con gli uomini in-
solenti, che, o per invidia o per altra
cagione, hanno concetto odio teco. Di
che ne fa fede lo istorico nostro in que-
sta cagione di guerra intra i Romani
ed i Latini. Perchè, dolendosi i Sanniti
con i Romani, che i Latini gli avevano
assaltati, i Romani non vollono proibire
ai Latini tal guerra, desiderando non
gli irritare: il che non solamente non
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DEI DISCORSI
390
gli irritò, ma gli fece diventare più ani-
mosi contro a loro, e si scopersono più
presto inimici. Di che ne fanno fede le
parole usate da! prefato Annio pretore
latino nel medesimo concilio, dove dice:
Tentaslis patientiam negando mililem:
(jais dubitai cxarsisse eos ? Pcrtulerunt
(amen hunc dolorem. Excrcitus nos pa-
rare adversus Snmnilcs feederatos suos
audierunl, ncc mnverunt se ab urbe.
I Inde hcec illis tanta modestia j, ni si a
eonscienlia virium , et n os trarum , et
suarum? Conoscesi, pertanto, chiaris-
simo per questo testo, quanto la pa-
zienza de’ Romani accrebbe P arroganza
de’ Latini. E però, mai uno principe
debbe volere mancare del grado suo, e
non debbe mai lasciare alcuna cosa d’ac-
cordo, volendola lasciare onorevolmente,
se non quando e’ la può, o e’ si crede
che la possa tenere : perchè gli è me-
glio quasi sempre, sendosi condotta la
cosa in termine che tu non la possa la-
sciare nel modo detto, lasciarsela torre
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LIBRO SECONDO.
391
con le forze, che con la paura delle
forze. Perchè se tu la lasci con In paura,
lo fai per levarli la guerra, ed il più
delle volte non te la lievi: perche colui
a chi tu arai con una viltà scoperta
concesso quella, non starà saldo, rao ti
vorrà torre delle altre cose, e si accen-
derà più contra di te, stimandoti meno;
e dall'altra parte, in tuo favore trove-
rai i difensori più freddi, parendo loro
che tu sia o debole, o vile: ma se tu,
subito scoperta la voglia dello avversa-
rio, prepari le forze, ancoraché le siano
inferiori a lui. quello ti comincia a sti-
mare; stimanti più gli altri principi
allo intorno; ed a tale viene voglia di
aiutarti, sendo in su P arme, che ab-
bandonandoti non ti aiuterebbe mai.
Questo si intende quando tu abbia uno
inimico; ma quando ne avessi più, ren-
dere delle cose che tu possedessi ad al •
euno di loro per riguadagnarselo, an-
coraché fusse di già scoperta la guerra,
e per smembrarlo dagli altri confede-
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392
DEI DISCORSI
rati tuoi inimici, fia sempre partito pru-
dente.
( ì a p . XV. — Gli Stati deboli sempre
fieno ambigui nel risolversi : e sem-
pre le deliberazioni lente sono nocive.
in questa medesima materia, ed in
questi medesimi principi! di guerra in-
tra i Latini ed i Romani, si può notare
come in ogni consulta è bene venire allo
individuo di quello die si ha a delibe-
rare, e non stare sempre in ambiguo,
nè in su lo incerto della cosa. Il che si
vede manifesto nella consulta che fe-
ciono i Latini, quando c’pensavano alie-
narsi da’ Romani. Perchè avendo presen-
tito questo cattivo umore che ne’ popoli
latini era entrato, i Romani, per eerti-
ficarsi della cosa, c per vedere se po-
tevano senza mettere mano all’arme ri-
guadagnarsi quelli popoli, fecero loro
intendere, come e’ mandassero a Roma
otto cittadini, perchè avevano a consul-
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libro si.condo.
393
lare con loro. I Latini, inteso questo ed
avendo conscienza di molte cose fatte
centra alla voglia de’ Romani, fcciono
consiglio per ordinare chi dovesse ire
a Roma, e dargli commissione di quello
ch’egli avesse a dire. E stando nel con-
siglio in questa disputa, Annio loro pre-
tore disse queste parole: Ad sumiuam
veruni nostrarum pertinerc arbitrar , ut
vogilctis magis , quid agendum nobis,
quam quid loqucndum sii. Facile crii,
cxphcatis consiliis j accommodarc rebus
nerba. Sono, senza dubbio, queste pa-
role verissime, e debbono essere da ogni
principe e da ogni repubblica gustate :
perchè nella ambiguità e nella incerti-
t udine di quello che altri voglia fare,
non si sanno accomodare le parole; ma
fermo una volta 1’ animo, e deliberalo
quello sia da eseguire, è facil cosa tro-
varvi le parole, lo ho notato questa
parte più volentieri, quanto io ho molte
volte conosciuto tale ambiguità avere
nociuto alle pubbliche azioni, con danno
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394
DEI Disconsi
i* con vergogna della repubblica nostra.
E sempre mai avverrà, che ne* partiti
ilubbii, e dove bisogni animo a delibe-
rargli, sarà questa ambiguità, quando
abbino ad esser consigliati e deliberati
da uomini deboli. Non sono meno nocive
ancora le deliberazioni lente e tarde,
che ambigue ; massime quelle che si
hanno a deliberare in favore di alcuno
amico : perchè con la lentezza loro non
si aiuta persona, e nuocesi a sè mede-
simo. Queste deliberazioni così fatte pro-
cedono o da debolezza di animo e ili
forze, o da malignità di coloro che hanno
a deliberare; i quali, mossi dalla pas-
simi propria di volere rovinare lo Stato
o adempire qualche suo desiderio, non
lasciano seguire la deliberazione, ma la
impediscono e la attraversano. Perchè i
buoni cittadini, ancora che vegghino una
foga popolare voltarsi alla parte perni-
ciosa, mai impediranno il deliberare,
massime di quelle cose che non aspet-
tano tempo. Morto che fu Girolamo li-
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LIBRO SECONDO.
395
ranno in Siracusa, essendo la guerra
grande intra i Cartaginesi ed i Romani,
vennono i Siracusani in disputa se do-
vevano seguire V amicizia romana o la
cartaginese. E tanto era lo ardore delle
parti, che la cosa stava ambigua, uè se
ne prendeva alcuno partito; insino a
tanto che Apollonide, uno de’ primi in
Siracusa, con una sua orazione piena
di prudenza, mostrò come non era da
biasmare chi teneva E oppinione ili ade-
rirsi ai Romani, nè quelli che volevano
seguire la parte cartaginese; ma era
bene da detestare quella ambiguità e
tardità di pigliare il partito, perchè ve-
deva al tutto in tale ambiguità la ro-
vina della repubblica; ma preso che si
fusse il partito, qualunque e’ si fosse, si
poteva sperare qualche bene. Nè po-
trebbe mostrare più Tito Livio che si
faccia in questa parte, il danno che si
tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo
ancora in questo caso de’ Latini : per-
chè, sendo i Latini ricerchi da loro
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LIBRO SECONDO.
307
gli stessine neutrali, e che il re ve-
nendo in Italia gli avesse a mantenere
nello Stato e ricevere in proiezione: e
dette tempo un mese alla città a rati-
ficarlo. Fu differita tale ratificazione da
chi per poca prudenza favoriva le cose
di Lodovico: intantoehè, il re già sendo
in su la vittoria, e volendo poi i Fio-
rentini ratificare , non fu la ratifica-
zione accettata ; come quello che conobbe
i Fiorentini essere venuti forzati, e non
voluntari nella amicizia sua. Il che costò
alla città di Firenze assai danari, e fu
per perdere lo Stato : come poi altra
volta per simile causa li intervenne. E
tanto più fu dannabile quel partito, per-
chè non si servi ancora il duca Lodo-
vico; il quale se avesse vinto, arebbe
mostri molti più segni di inimicizia con-
ira ai Fiorentini, che non fece il re. E
benché del male che nasce alle repub-
bliche di questa debolezza se ne sia di
sopra in uno altro capitolo discorso;
nondimeno, avendone di nuovo occasione
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DEI DISCORSI
398
per un nuovo accidente, ho voluto re-
plicarne', parendomi, massime, materia
che debba esser dalie repubbliche simili
alla nostra notala.
Gap. XVI. — Quanto i soldati ne’ nostri
tempi si disformino dalli anttcht or-
dini.
ha più importante giornata che fu mai
fatta in alcuna guerra con alcuna na-
zione dal Popolo romano, fu questa che
ei fece con i popoli latini, nel consolato
di Torquato e di Decio. Perchè ogni ra-
gione vuole, che cosi come i Latini per
averla perduta diventarono servi, così
sarebbono stati servi i Romani, quando
non la avessino vinta. E di questa op-
pinone è Tito Livio; perchè in ogni
parte fa gli eserciti pari di ordine, di
virtù, di ostinazione c di numero : solo
vi fa differenza, che i capi dello esercito
romano furono più virtuosi che quelli
dello esercito latino. Yedesi ancora come
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LIBRO SECOSDO.
399
nel maneggio di questa giornata nacque-
ro duoi accidenti non prima nati, e che
dipoi hanno rari esempi: che de’ duoi
Consoli, per tenere fermi gli animi
de’ soldati, ed ubbidienti al comanda-
mento loro, e diliberati al combattere,
1’ uno ammazzò sè stesso, e I’ altro il
figliuolo. La parità, che Tito Livio dice
essere in questi eserciti, era che, per
avere militato gran tempo insieme, erano
pari di lingua, d’ ordine e d’ arme: per-
chè nello ordinare la zuffa tenevano uno
modo medesimo $ e gli ordini ed i capi
degli ordini avevano medesimi nomi.
Era dunque necessario, sondo di pari
forze e di pari virtù, che nascesse qual-
che cosa istraordinaria, che fermasse e
facesse più ostinati gli animi dell’ uno
che dell’altro: nella quale ostinazione
consiste, come altre volte si è detto, la
vittoria; perchè, mentre che la dura
ne’ petti di quelli che combattono, mai
non danno volta gli eserciti. E perchè
la durasse più ne’ petti de’ Romani che
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400
DEI DISCORSI
de’ Latini, parte la sorte, parte la virtù
de’ Consoli fece nascere, che Torquato
ebbe ad ammazzare il figliuolo, e Decio
sè stesso. Mostra Tito Livio, nel mo-
strare questa purililà di forze, tutto
l’ ordine che tenevano i Romani nelli
eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando
egli largamente, non replicherò altri-
menti; ma solo discorrerò quello che io
vi giudico notabile, e quello che per es-
sere negletto da tutti i capitani di que-
sti tempi, ha fatto negli eserciti e nelle
zuffe di molti disordini. Dico, adunque,
che per il testo di Livio si raccoglie,
come lo esercito romano aveva tre di-
visioni principali, le quali toscanamente
si possono chiamare tre schiere; e no-
minavano la prima astati, la seconda
principi, la terza triarii: e ciascuna di
queste aveva i suoi cavalli. Nello ordi-
nare una zuffa, ei mettevano gli astati
innanzi ; nel secondo luogo, per diritto,
dietro alle spalle di quelli, ponevano i
principi ; nel terzo, pure nel mede»imo
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LIBRO SECONDO. 401
filo, collocavano i triadi. I cavalli di
tulli questi ordini gli ponevano a destra
ed a sinistra di queste tre battaglie; le
schiere de’ quali cavalli, dalla forma loro
e dal luogo, si chiamavano alce , perchè
parevano come due alie di quel corpo.
Ordinavano la prima schiera delli astati,
che era nella fronte, serrata in modo
insieme che la potesse spignere e so-
stenere il nimico. La seconda schiera
de’ principi, perchè non era la prima
a combattere, ma bene le conveniva soc-
correre alla prima quando fusse battuta
o urtata, non la facevano stretta, ma
mantenevano i suoi ordini radi, e di
qualità che la potesse ricevere in sè
senza disordinarsi la prima, qualunque
volta, spinta dal nimico, fusse necessi-
tata ritirarsi. La terza schiera de* triadi
aveva ancora gli ordini più radi che la
seconda, per potere ricevere in sè, bi-
sognando, le due prime schiere de’ prin-
cipi e degli astati. Collocate, dunque,
queste schiere in questa forma, appic-
ci ACHIAVELLI, Discorsi.— 1. 20
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402
DEI DISCORSI
cavano la zuffa : e se gli astati erano
sforzati o vinti, si ritiravano nella ra-
dila degli ordini de’ principi ; e tutti
insieme uniti, fatto di due schiere un
J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi
ancora erano ributtati e sforzati, si ri-
tiravano tutti nella radila degli ordini
de* trioni; e tutte tre le schiere diven-
tate un corpo, rinnovavano la zuffa :
dove essendo superati, per non avere
più da rifarsi, perdevano la giornata.
E perchè ogni volta che questa ultima
schiera de’ triarii si adoperava, lo eser-
cito era in pericolo, ne nacque quel pro-
verbio: Res redacta est ad triarios ; che
ad uso toscano vuol dire: Noi abbiamo
messo I’ ultima posta. I capitani dei no-
stri tempi, come egli hanno abbando-
nato tutti gli altri ordini, e della antica
disciplina ei non ne osservano parte al-
cuna, cosi hanno abbandonata questa
parte, la quale non è di poca impor-
tanza: perchè chi si ordina da potersi
nelle giornate rifare tre volte, ha ad
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LIBRO SECONDO. 40.3
avere tre volte inimica la fortuna a vo-
lere perdere, ed ha ad avere per riscon-
tro una virtù che sia atta tre volte a
vincerlo. Ma chi non sta se non in su M
primo urto, come stanno oggi gli eser-
citi cristiani, può facilmente perdere ;
perchè ogni disordine, ogni mezzana
virtù gli può torre la vittoria. Quello
che fa agli eserciti nostri mancare di
potersi rifare tre volte, è lo avere per-
duto il modo di ricevere I* una schiera
uelP altra. Il che nasce perchè al pre-
sente sf ordinano le giornate con uno
di questi duoi disordini: o ei mettono
le loro schiere a spalle P una delP al-
tra, e fanno la loro battaglia larga per
traverso, e sottile per diritto; il che la
fa più debole, per aver poco dal petto
alle schiene. E quando pure, per farla
più forte, ei riducono le schiere per il
verso de’ Romani, se la prima fronte è
rotta, non avendo ordine di essere ri-
cevuta dalla seconda, s’ ingarbugliano
insieme tutte, e rompono sè medesime:
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DEI DISCORSI
404
perché se quella dinanzi è spinta, ella
urta la seconda; se la seconda si vuol
far innanzi, ella è impedita dalla prima :
donde che urlando la prima la seconda,
e la seconda la terza, ne nasce tanta
confusione, che spesso uno minimo ac-
cidente rovina uno esercito. Gli eserciti
spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ra-
venna, dove mori monsignor de Pois,
capitano delle genti di Prandi (la quale
fu, secondo i nostri tempi, assai bene
combattuta giornata) s’ ordinarono con
uno de’ soprascritti modi; cioè clic l’uno
e 1’ altro esercito venne con tutte le sue
genti ordinate a spalle : in modo che
non venivano’ avere nè 1’ uno nè 1’ altro
se non una fronte, ed erano assai più
per il traverso cìie per il diritto. E que-
sto avviene loro sempre dove egli hanno
la campagna grande, come gli avevano
a Ravenna : perché, conoscendo il disor-
dine che fanno nel ritirarsi, mettendosi
per un filo, lo fuggouo quando e’ pos-
sono col fare la fronte larga, coni’ t
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LIBRO SECONDO.
405
detto ; ma quando il paese gli ristringe,
si stanno nel disordine soprascritto,
senza pensare il rimedio. Con questo
medesimo disordine cavalcano per il
paese inimico, o se e’ predano, o se
e’ fanno altro maneggio di guerra. Ed
a santo Regolo in quel di Pisa, ed al-
trove, dove i Fiorentini furono rotti
da' Pisani ne’ tempi della guerra che fu
tra i Fiorentini e quella città, per la sua
ribellione dopo la passata di Carlo re
di Francia in Italia, non nacque tal ro-
vina d’ altronde, clic dalla cavalleria
amica; la quale sendo davanti e ribut-
tata da’ nimici, percosse nella fanteria
fiorentina, e quella ruppe : donde tutto
il restante delle genti dierono volta : e
messcr Ciriaco dal Borgo, capo antico
delle fanterie fiorentine, ha affermato
alla presenza mia molte volle, non es-
sere mai stato rotto se non dalla caval-
leria degli amici. 1 Svizzeri, che sono i
maestri delle moderne guerre, quando
ei militano coi Franciosi, sopra tulle le
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406
DEI DISCORSI
cose hanno cura di mettersi in lato, che
la cavalleria amica, se fusse ributtata,
non gli urti. E benché queste cose
paiano facili ad intendere, e facilissime
a farsi; nondimeno non si è trovato an-
cora alcuuo de’ nostri contemporanei ca-
pitani, che gli antichi ordini imiti, e
gli moderni corregga. E benché gli ab-
bino ancora loro tripartito lo esercito,
chiamando 1’ una parte antiguardo, l’al-
tra battaglia e l’altra retroguardo; non
se ne servono ad altro che a coman-
dargli nelli alloggiamenti: ma nello ado-
perargli, rade volte è, come di sopra è
detto, che a tutti questi corpi non fac-
cino correre una medesima fortuna. E
perchè molti, per scusare la ignoranza
loro, allegano che la violenza delle ar-
tiglierie non patisce che in questi tempi
si usino molti ordini degli antichi, vo-
glio disputare nel seguente capitolo que-
sta materia, ed esaminare se le arti-
glierie impediscono che non si possa
usare l’ antica virtù.
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LIBRO SECONDO.
407
Cap. XVII. — Quanto si debbino sii
inave dagli eserciti ne' presenti tempi
le artiglierie; e se quella oppiatone
che se ne ha in universale j è vera.
Considerando io, oltre alle cose so-
prascritte, quante zuffe campali (chia-
mate ne’ nostri tempi, con vocabolo
francioso, giornate, e dagl’ Italiani fatti
d’arme) furono fatte dai Romani in diversi
tempi ; mi è venuto in considerazione
la oppinione universale di molti, che
vuole che se in quelli tempi fussino
state le artiglierie, non sarebbe stato
lecito a’ Romani, nè sì facile, pigliare
le provincie; farsi tributari i popoli,
come e’ feciono ; nè arebbono in alcuno
modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono
aiTcora, che mediante questi instrumenti
de’ fuochi, gli uomini non possono usare
nè mostrare la virtù loro, come e’ po-
tevano anticamente. E soggiungono una
terza cosa : che si viene con piu diflì-
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408
DEI DISCORSI
eultà alle giornale che non si veniva
allora, nè vi si può tenere dentro que-
gli ordini di quelli tempi ; talché la
guerra si ridurrà col tempo in su le
artiglierie. E giudicando non fuora di
proposito disputare se tali oppiuioui
sono vere, e quanto le artiglierie ab-
bino cresciuto o diminuito di forze agli
eserciti, e se le tolgano o danno occa-
sione ai buoni capitani di operare vir-
tuosamente ; comiucerò a parlare quanto
alla prima loro oppinione : che gli eser-
citi antichi romani non arebbono fatto
gli acquisti che feciono, se le artiglierie
lussino state. Sopra che, rispondendo,
dico: come e’si fa guerra o per difen-
dersi, o per offendere; donde si ha pri-
ma ad esaminare a quale di questi duoi
modi di guerra le faccino più utile, o
più danno. E benché sia che dire fla
ogni parte, nondimeno io credo che
senza comparazione faccino più danno
a chi si difende, che a chi offende. La
ragione che io ne dico è, che quel che
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LIBRO SECONDO.
•401)
si difende, o egli è dentro a una terra,
o egli è in su’ campi dentro ad uno stec-
cato. S* egli è dentro ad una terra, o
questa terra è piccola, come sono la
maggior parte delle fortezze, o la è
grande: nel primo caso, chi si difende
è al tutto perduto, perchè P impeto delle
artiglierie è tale, che non trova muro,
ancoraché grossissimo, che in pochi
giorni ei non abbatta; e se chi è dentro-
non ha buoni spazi da ritirarsi c con
fossi e con ripari, si perde; nè può so-
stenere 1* impeto del nimico che volesse
dipoi entrare per la rottura del muro,
nè a questo gli giova artiglieria che
avesse: perchè questa è una massima,
che dove gli uomini in frotta e con im-
peto possono andare, le artiglierie non
gli sostengono. Però i furori oltramon-
tani nella difesa delle terre non sono
sostenuti: sou bene sostenuti gli assalti
italiani, i quali non in frolla, ma spic-
ciolati si conducono alle battaglie, le
quali loro, per nome mollo proprio,
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DEI DISCORSI
410
chiamano scaramuccio. E qucsli che
vanno con questo disordine e questa
freddezza ad una rottura d’ un muro
dove sia artiglierie, vanno ad una ma-
nifesta morte, c conira a loro le arti-
glierie vogliono: ma quelli clic in frotta
condensati, e che runo spinge l’altro,
vengono ad una rottura, se non sono
sostenuti o da fossi o da ripari, en-
trano in ogni luogo, c le artiglierie non
gli tengono; e se ne muore qualcuno,
non possono essere tanti che gl’ impe-
dischino la vittoria. Questo esser vero,
si è conosciuto in molte espugnazioni
fatte dagli oltramontani in Italia, e mas-
sime in quella di Brescia : perchè, sen-
dosi quella terra ribellata da’ Franciosi,
e tenendosi ancora per il re di Francia
la fortezza, avevano i Veneziani, per so-
stenere V impeto che ila quella potesse
venire nella terra, munita tutta la strada
di artiglierie che dalla fortezza alla città
scendeva, e postane a fronte e ne’ fian-
chi, ed in ogni altro luogo opportuno.
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LIBRO SECONDO.
411
Delle quali monsignor di Fois non fece
alcuno conto ; anzi quello con il suo
squadrone, disceso a piede, passando per
il mezzo di quelle, occupò la città, nè
per quelle si sentì eli’ egli avesse rice-
vuto alcuno memorabile danno. Talché,
chi si difende in una terra piccola, conte
è detto, c trovisi le mura in terra, e
non abbia spazio di ritirarsi con r ri-
pari e con fossi, ed abbiasi a fidare in
su le artiglierie, si perde subito. Se tu
difendi tuta terra gronde, e che tu ab-
bia comodità di ritirarti, sono nondi-
inanco senza comparazione più utili le
artiglierie a chi è di fuori, che a chi è
dentro. Prima, perchè a volere che una
artiglieria nuoca a quelli che sono di
fuora, tu sei necessitato levarti con essa
dal piano della terra; perchè, stando
in sul piano, ogni poco di argine e di
riparo che il nimico faccia, rimane si-
curo, e tu non gli puoi nuocere. Tanto
che avendoti ad alzare, e tirarti sul cor-
ridoio delle mura, o in qualunque modo
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412
DEI DISCO l>SI
levarti da terra, tu ti tiri dietro due
difficoltà: la prima, che non puoi con-
durvi artiglieria della grossezza e della
potenza che può trarre colui di fuora,
non si potendo ne’ piccoli spazi maneg-
giare le cose grandi ; I’ altra, che quando
bene tu ve la potessi condurre, tu non
puoi fare quelli ripari fedeli e sicuri,
per salvare detta artiglieria, che pos-
sono fare quelli di fuora, essendo in su M
terreno, ed avendo quelle comodità e
quello spazio che loro medesimi voglio-
no: talmentechè, gli è impossibile a chi
difende una terra, tenere le artiglierie
ne’ luoghi alti, quando quelli che soli di
fuora abbino assai artiglierie e polenti;
e se egli hanno a venire con essa ne’ luo-
ghi bassi, ella diventa in buona parte
inutile, come è detto. Talché la difesa
della città si ha a ridurre a difenderla
con le braccia, come anticamente si fa-
ceva, e con la artiglieria minuta : di
che se si trae un poco di utilità rispetto
a quella artiglieria minuta, se ne cava
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LIBRO SECONDO.
413
incomodità che contrappesa alia como-
dità della artiglieria ; perchè, rispetto
a quella,. si riducono le mura delle terre,
basse e quasi sotterrate ne’ fossi: tal-
ché, com’e’ si viene alle battaglie di
mano, o per essere battute le mura o
per essere ripieni i fossi, ha chi è den-
tro molti più disavvantaggi che non
aveva allora, E però, come di sopra si
disse, giovano questi instrumenti molto
più a chi campeggia le terre, che a chi
è campeggiato. Quanto alla terza cosa,
di ridursi in uno campo dentro ad uno
steccato per non fare giornata, se non
a tua comodità o vantaggio; dico che
in questa parte tu non hai più rimedio
ordinariamente a difenderti di non com-
battere, che si avessino gli antichi; e
qualche volta, per conto delle artiglie-
rie, hai maggiore disavvantaggio. Per-
chè, se il nimico ti giunge addosso, ed
abbia un poco di vantaggio del paese,
come può facilmente intervenire; e truo-
vìsi più alto di te; oche nello arrivare
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ili DF.l DISCORSI
alio tu non abbi ancora fatti i
gini, e copertoli bene con que
luto, e senza che tu abbi alcun
ti disalloggia, e sei forzato usci
fortezze tue, e venire alla zuffa
intervenne agli Spagnuoli nel
nata di Ravenna* i quali essent
nili tra il fiume del Ronco ed
gine, per non lo avere tirato U
che bastasse, e per avere i Frai
poco il vantaggio del terreno,
constretti dalle artiglierie usci
fortezze loro, e venire alla zi
dato, come il più delle volte de
sere, che il luogo che tu avess
con il campo fusse più eminenti
altri all’ incontro, c che gli ar;
sino buoni e sicuri, tale che, r
il sito e 1’ altre tue preparazio
miro non ardisse di assaltarti;
in questo caso a quelli modi c
cainente si veniva, quando uno
il suo esercito in lato da non pi
sere offeso: i quali sono, co
LIBRO SECONDO.
445
paese, pigliare o campeggiare le terre
tue amiche, impedirti le vettovaglie;
tanto che tu sarai forzato da qualche
necessità a disalloggiare, e venire a gior-
nata ; dove le artiglierie, come di sotto
si dirà, non operano molto. Considerato,
adunque, di quali ragioni guerre feciono
i Romani, e reggendo come ei feciono
quasi tutte le lor guerre per offendere
altrui, e non per difender loro; si ve-
drà, quando sieno vere le cose dette di
sopra, come quelli arebbono avuto più
vantaggio, e piu presto arebbono fatto
i loro acquisti, se le fussino state in
quelli tempi. Quanto alla seconda cosa,
che gli uomini non possono mostrare
la virtù loro, come ei potevano antica-
mente, mediante la artiglieria ; dico
eh’ egli è vero, che dove gli uomini
spicciolati si hanno a mostrare, eh’ e’
portano più pericoli che allora, quando
avessino a scalare una terra, o fare si-
mili assalti, dove gli uomini non ristretti
insieme, ma di per sè 1’ uno dall’ altro
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DEI DISCORSI
416
avessiuo a comparire. E vero
die gli capitoni e capi degli
stanno sottoposti più al perii!
morte che allora, potendo esser
con le artiglierie in ogni lu
giova loro lo essere nelle ultii
«Ire, e muniti di uomini fortissi
dimeno si vede che P uno c P
questi duoi pericoli fanno ra
danni istraordinari : perchè
munite bene non si scalano, i
con assalti deboli ad assaltarh
volerle espugnare, si riduce la
una ossidionc, come anticamen
ceva. Ed in quelle clic pure pe
si espugnano, non sono molto
i pericoli che allora: perchè n
cavano anche in quel tempo a
fendeva le terre, cose da trarre
se non erano si furiose, facevam
all’ ammazzare gli uomini, *il s
fello. Quanto alla morte de’ci
de’ condottieri, ce ne sono, in v
tro anni che sono state le guerre
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LIBRO SECONDO.
417
«
simi tempi in Italia, meno esempi, che
non era in dieci anni di tempo appresso
agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico
della Mirandola, che morì a Ferrara
quando i Veniziani pochi anni sono as-
saltarono quello Stato, ed il Duca di
Nemors, che morì alla Ciriguuola, in
fuori; non è occorso che d’artiglierie
ne sia morto alcuno; percdiè monsignor
di Pois a Ravenna mori di ferro, e non
di fuoco. Tanto che, se gli uomini non
dimostrano particolarmente la loro virtù,
nasce non dalle artiglierie, ma dai cat-
tivi ordini, e dalla debolezza degli eser-
citi; i quali, mancando di virtù nel
tutto, non la possono dimostrare nella
parte. Quanto alla terza cosa detta da
costoro, che non si possa venire alle
mani, fc che la guerra si condurrà tutta
in su P artiglierie, dico questa oppinione
essere al tutto falsa; e così ila sempre
tenuta da coloro che secondo P antica
virtù vorranno adoperare gli eserciti
loro. Perchè, chi vuole fare uno esercito
GIACHI AVELLI, Discorsi. — 1. 27
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41S
DEI DlSCOP.Sl
buono, gli conviene, con eser<
o veri, assuefare gli uomini s
costarsi al nimico, e venire c
menare della spada, e al pig
il petto; e si debbe fondare i
le fanterie clic in su’ cavagli,
gioni che di sotto si diranno,
si fondi in su i fanti ed in i
predetti, diventano al tutto le
inutili; perchè con più facilit
terie nello accostarsi al nimict
fuggire il colpo delle artiglieri)
potevano anticamente fuggire
degli elefanti, de’ carri falcati
riscontri inusitati, clic le far
mane riscontrarono ; contra
sempre trovarono il rimedio:
più facilmente lo arebbono tr<
tra a queste, quanto egli è pi
tempo nel quale le artiglierie i
nuocere, che non era quello
potevano nuocere gli elefanti <
Perchè quelli nel mezzo delb
disordinavano; queste solo in
LIBRO SECONDO.
419
zuffa (i Spediscono: il quale impedì-
mento facilmente le fanterie fuggono, o
con andare coperte dalla natura del sito,
o con abbassarsi in su la terra quando
le tirano. 11 che unclie per esperienza
si è visto non essere necessario, mas-
sime per difendersi dalle artiglierie
grosse ; le quali non si possono in modo
bilanciare, o che se le vanno alte le non
ti truovino, o che se le vanno basse le
non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti
alle mani, questo è più chiaro che la
luce, che nè le grosse nè le piccole ti
possono poi- offendere: perchè, se quello
che ha 1’ artiglierie è davanti, diventa
tuo prigione; s’ egli è dietro, egli of-
fende prima 1’ amico che te; a spalle
ancora non ti può ferire in modo che
tu non lo possa ire a trovare, e ne vie-
ne a seguitare l’effetto detto. Nè questo
ha molta disputa ; perchè se ne è visto
l’essempio de’ Svizzeri, i quali a No-
vara, nel 4513, senza artiglierie e senza
cavagli, andarono a trovare lo esercito
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420
DEI DISCORSI
francioso munito di artiglierie
alle fortezze sue, e Io ruppon
aver alcuno impedimento da q
la ragione è, oltre alle cose
sopra, clic l’artiglieria ha biso
sere guardata, a volere che la
da mura o da fossi o da argini
gli manca una di queste guani
prigione, o la diventa inutile :
interviene quando la si ha a e
con gli uomini; il che gli ii
nelle giornate e zuffe campali. P
le non si possono adoperare, s
quel modo che adoperavano gl
gli instrumenti da trarre; che
levano fuori delle squadre, p
comhatlessino fuori dell i ordini
volta che o da cavalleria o
erano spinti, il refugio loro er
alle legioni. Chi altrimenti ne !
non la intende bene, e fidasi s<
cosa che facilmente lo può in
E se il Turco, mediante l’ ar
conila al Sofi ed il Soldauo h
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ria
LIBRO SECONDO.
421
vittoria, è nato non per altra virtù di
quella, che per lo spavento elle lo inu-
sitato roraore messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di
questo discorso, l’ artiglieria essere utile
in uno esercito quando vi sia mescolata
l’antica virtù; ma senza quella, contea
a uno esercito virtuoso è inutilissima.
Cap. XVIII. — Come per V autorità de’ Ro-
mani j c per lo cssempio della antica
milizia, si debbe stimare più lè fan-
terie che i cavagli.
E’ si può per molte ragioni e per molti
essempi dimostrare chiaramente, quanto
i Romani in tutte le militari azioni sti-
massino più la milizia a piè che a ca-
vallo, e sopra quella fondassino tutti i
disegni delle forze loro: come si vede
per molti essempi, ed infra gli altri,
quando si azzuffarono con i Latini ap-
presso il lago Regiilo; dove già essendo
inclinato lo esercito romano, per soc-
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DUI DISCORSI
422
correre ai suoi fecero discenti
uomini da cavallo a piede, e f
via, rinnovata la zuffa, ebbon<
toria. Dove si vede manifeste
Romani avere più confidato in
scudo a piede, che manleneiu
vallo. Questo medesimo termini
in molte altre zuffe, e sempre
rono ottimo rimedio in gli lort
Nè si opponga a questo la <
di Annibaie, il quale veggendo i
nata di Canne, che i Consoli
fatto discendere a piè gli loro
facendosi belle di simile parti
Quatti tnallem vinclos milii
cquilcs ; cioè: io arci più car
gli dessino legati. La quale <
ancoraché la sia stata in bo
uomo eccellentissimo, nondimt
ha a ire dietro alla autorità,
più credere ad una Repubblicf
e a tanti Capitani eccellentissin
rono in quella, che ad uno s<
baie: ancoraché senza le auto
LIBRO SECONDO.
423
siano ragioni manifeste. Perchè 1’ uomo
a piede può andare in molti luoghi, dove
uon può andare il cavallo; puossi in-
segnarli servare 1' ordine, e turbato che
fusse, come e’ lo abbia a riassumere:
a’ cavagli è diffìcile fare servare l’ordi-
ne, ed impossibile, turbati che sono,
riordinargli. Olirà di questo, si trova,
come negli uomiui, de’ cavagli che kanno
poco animo, e di quelli che ne hanno
assai: e molte volte interviene che un
cavallo animoso è cavalcato da un uomo
vile, ed uno cavallo vile da uno animo-
so; ed in qualunque modo che segua
questa disparità, ne nasce inutilità e di-
sordine. Possono le fanterie ordinate fa-
cilmente rompere i cavagli, e difficil-
mente esser rotte da quelli. La quale
oppinione è corroborata, oltre a molti
essempi antichi e moderni, dalla auto-
rità di coloro che danno delle cose ci-
vili regola : dove mostrano come in pri-
ma le guerre si cominciarono a fare
con i cavagli, perchè non era ancora
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DEI DISCORSI
iU
1’ onlinc delle fanterie; ma coi
si ordinarono, si conobbe subi
loro erano più utili, che quell
per questo però che i cavalli i
necessari negli eserciti, e per
perle, e per scorrere e predai
per seguitare i nimici quando
in fuga, c per essere ancora
una opposizione ai cavagli dej.
sari: ma il fondamento e il n
l’esercito, c quello chesi debl
mare, debbono essere le fan
infra i peccali de* principi ita1
hanno fatto Italia serva de’ I
n q ii ci è il maggiore, clic ave
poco conto di questo ordine,
volto tutta la loro cura alla
cavallo. Il quale disordine è na
malignità de* capi, e per la ign
coloro che tenevano stato. Pere
dosi ridotta la milizia italiana,
ticinque anni indietro, in uo
non avevano stato, ma erano <
pitali! di ventura, pcusorono s
unno secondo.
425
me polessino mantenersi la riputazione
stando armati loro, e disarmati i prin-
cipi. E perchè uno numero grosso di
fanti non poteva loro essere continua-
mente pagato, e non avendo sudditi da
poter valersene, ed uno piccolo numero
non dava loro riputazione, si volgono a
tenere cavagli : perchè dugcnto o tre-
cento cavalli che erano pagati ad uno
condottiere, lo mantenevano riputato; ed
il pagamento non era tale, che dagli
uomini che tenevano stato non potesse
essere adempiuto. E perchè questo se-
guisse più facilmente, e per mantenersi
più in riputazione, levarono tutta l’ affe-
zione e la riputazione da’ fanti, e ridus-
sonla in quelli loro cavalli: e in tanto
crebbono questo disordine, che in qua-
lunque grossissimo esercito era una mi-
nima parte di fanteria. La quale usanza
fece in modo debole, insieme con molti
altri disordini che si mescolarono con
quella, questa milizia italiana, che que-
sta provincia è stata facilmente calpe-
426 DEI DISCORSI
sta (ia tutti gii oltramontani. >
più apertamente questo errore,
mare più i cavalli che le fantei
uno altro essempio romano. E
Romani a campo a Sora, ed i
usciti fuori della terra una tu
cavalli per assaltare il campo,
fece all’ incontro il Maestro de
romano con la sua cavalleria, e
di petto, la sorte dette che nel
scontro i capi dell’ uno e dell’ alti
cito morirono; e restali gli alti*
governo, e durando nondimeno I
i Romani per superare più fac
lo inimico, scesono a piede, e cc
sono i cavalieri nimici, se si voi
fendere, a fare il simile: e co
questo, i Romani ne riportarom
toria. Non può esser questo eì
maggiore in dimostrare quanto
virtù nelle fantericche ne’ cavag
che se nelle altre fazioni i Con
cevano discendere i cavalieri i
era per soccorrere alle fanterie i
L1BH0 SECONDO.
4*27
tivano, e che avevano bisogno ili aiuto;
ma in questo luogo e’ discesono, non per
soccorrere alle fanterie nè per eombat-
tere con uomini a piè de’ nimici, ma
combattendo a cavallo co’ cavalli, giudi*
careno, non potendo superargli a ca-
vallo, potere scendendo più facilmente
vincergli. Io voglio adunque conchiude-
re, che una fanteria ordinata non possa
senza grandissima diffìcultà esser su*
perata, se non da una altra fanteria.
Crasso e Marc’ Antonio romani corsone
per il dominio de’ Parti molte giornate
con pochissimi cavalli ed assai fanteria,
ed all’ incontro avevano innumerabili
cavalli de’ Parti. Crasso vi rimase con
parte dello esercito morto. Marc’ Anto-
nio virtuosamente si salvò. Nondimanco,
in queste afflizioni romane si vede quanto
le fanterie prevalevano ai cavalli : per-
chè essendo in un paese largo, dove i
monti son radi, ed i fiumi radissimi, le
marine longinque, e discosto da ogni co-
modità; nondimanco Marc’ Antonio, al
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428
DEI DISCORSI
giudicio de’ Parti medesimi,
mente si salvò; nè mai ebbe
tutta la cavalleria pnrtica te
ordini dello esercito suo. Se
rimase, chi leggerà bene le s
vedrà come e’ vi fu piuttosto
che forzato: nè mai, in tutti
sordini, i Parti ardirono di uri
sempre andando costeggiando
pedendogli le vettovaglie, prò
gli e non gli osservando, lo et
od una estrema miseria. Io
avere a durare più fatica in p
quanto la virtù delle fanterie
lente ebe quella de’ cavalli, :
fussino assai moderni essenv
rendono testimonianza pieniss
è veduto novemila Svizzeri i
da noi di sopra allegata, and
frontale diecimila cavalli ed
fanti, e vincergli: perchè i cf
li potevano offendere: i fanti, ]
gente in buona parte guascoi
ordinata, stimavano poco. Yid
LIBRO SECONDO. 429
ventiseimila Svizzeri andare a trovare
sopra Milano Francesco re di Francia,
che aveva seco ventimila cavalli, qua-
♦ rantamila fanti e cento carra d’arti-
glieria ; e se non vinsono la giornata
come a Novara, combatterono due giorni
virtuosamente; e dipoi, rotti che furono,
la metà di loro si salvarono. Presunse
Marco Regolo Attilio, non solo con la fan-
teria sua sostenere i cavalli, ma gli ele-
fanti; e se il disegno non gli riuscì,
non fu però che la virtù della sua fan-
teria non fusse tanta, che ei non con-
fidasse tanto in lei che credesse supe-
rare quella difficoltà. Replico, pertanto,
che a voler superare i fanti ordinati, è
necessario opporre loro fanti meglio or-
dinati di quelli: altrimenti, si va ad una
perdita manifesta. Ne’ tempi di Filippo
Visconti, duca di Milano, scesouo ili
Lombardia circa sedicimila Svizzeri:
donde il Duca avendo per capitano al-
lora il Carmignuola, lo mandò con circa
mille cavalli e pochi fanti allo incontro
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430
DEI DISCORSI
loro. Costui non sappiendo 1* 01
combatter loro, ne andò ad inc<
con i suoi cavalli, presu me nd(
subito rompere. Ma trovatogli i
avendo perduti molti de’ suoi u
ritirò : ed essendo valentissimo
sappiendo negli accidenti nuovi
nuovi partiti, rifattosi di gente
a trovare; e venuto loro all’i
fece smontare a piè tutte le s
d’ arme, e fatto testa di quelle
fanterie, andò ad investire i S
quali non ebbono alcun rimet
chè, sendo le genti d’arme de
gnuola a piè e bene armate,
facilmente entrare infra gli 01
Svizzeri, senza patire alcuna lei
entrati tra questi, poterono- fu
offendergli: talché di tutto il ni
quelli, ne rimase quella parte
per umanità del Carmignuola
servata. Io credo che molti co
questa differenza di virtù che
I’ uno e 1’ altro di questi ordir:
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LIBRO SECONDO.
431
tanta la infelicità di questi tempi, che
nè gli essempi antichi nè i moderni, nè
la confessione dello errore è sufficiente
a fare che i moderni principi si rav-
vegghino ; e pensino che a volere ren-
dere riputazione alla milizia d’ una pro-
vincia o d’ uno Stato, sia necessario ri-
suscitare questi ordini, tenergli appresso,
dar loro riputazione, dar loro vita, ac-
ciocché a lui e vita c riputazione ren-
dino. E come e’diviano da questi modi,
così diviano dagli altri modi detti di
sopra : onde ne nasce che gli acquisti
sono a danno, non a grandezza d’uno
Stato, come di sotto si dirà.
Cap. XIX. — Che gli acquisii nelle re-
pubbliche non bene ordinate e che
secondo la romana virtù non proce-
dono, sono a rovina, non a esalta-
zione di esse.
Queste contrarie oppinioni alla verità,
fondale in su’ mali essempi che da que-
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432 DEI DISCORSI
sti nostri corrotti secoli sono stati in-
trodotti, fanno che gli uomini non pen-
sano a limare dai consueti modi. Quando
si sarebbe potuto persuadere a uno ita-
liano da trenta anni in dietro, che die-
cimila fanti potessino assaltare in uii
piano diecimila cavalli ed altrettanli,fanti,
e con quelli non solamente combattere,
ina vincergli; come si vede per lo es-
sempio da noi più volle allegato, a No-
vara? E benché le istorie ne siano piene,
/amen non ci arebbero prestato fede;
e se ci avessero prestato fede, arebbe-
ro detto che in questi tempi s’arma
meglio, e che una squadra d’ uomini
d’arme sarebbe atta ad urtare uno sco-
glio, non che una fanteria: e così con
queste false scuse corrompevano il giu-
dizio loro; nè arebbero considerato, che
Lucullo con pochi fanti ruppe cento cin-
quanta mila cavalli di Tigrane; e che
tra quelli cavalieri era una sorte di ca-
valleria simile al tutto agii uomini d’arme
nostri: c così questa fallacia è stata sco-
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LIBRO SECONDO.
433
perla dallo essempio delle genti oltra-
montane. E come e’ si vede per quello
essere vero, quanto alla fanteria, quello
che nelle istorie si narra; così doverreb-
bero credere esser veri ed utili tutti gli
altri ordini antichi. E quando questo fusse
credulo, le repubbliche ed i principi er-
rerebbero meno; sariano più forti ad op-
porsi ad uno impeto che venisse loro ad-
dosso; non spererebbero nella fuga: e
quelli che avessino nelle mani un vivere
civile, Io saperebbero meglio indirizzare,
o per la via dello ampliare, o per la
via del mantenere; e crederebbero che
lo accrescere la città sua d’ abitatori,
farsi compagni e non sudditi, mandare
colonie a guardare i paesi acquistati,
far capitale delle prede, domare il ni-
mico con le scorrerie e con le giornate
e non con le ossidioni, tenere ricco il
pubblico, povero il privato, mantenere
con sommo studio li esercizi militari,
sono le vie a fhre grande una repub-
blica, ed acquistare imperio. E quando
M achiavfLLi, Discorsi. — 1. 28
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434
DEI DISCORSI
questo modo dello ampliare non gli pia-
cesse, penserebbe che gli acquisti per
ogni altra via sono la rovina delle re-
pubbliche, e porrebbe freno ad ogni
ambizione; regolando bene la sua città
dentro con le leggi e co’ costumi, proi-
bendogli r acquistare e solo pensando a
difendersi, e le difese tenere ordinate
bene: come fanno le repubbliche della
Magna, le quali in questi modi vivono
e sono vi v ute libere un tempo. Nondi-
meno, come altra volta dissi quando di-
scorsi la differenza che era da ordinarsi
per acquistare a ordinarsi per mante-
nere; è impossibile che ad una repub-
blica riesca lo stare quieta, c godersi la
sua libertà e gli pochi confini: perchè,
se lei non molesterà altrui, sarà mole-
stata ella ; e dallo essere molestata le
nascerà la voglia e la necessità dello
acquistare; c quando non avesse il ni-
mico fuora, lo troverebbe in casa : come
pare necessario intervenga a tutte le
grandi cittadi. b se le repubbliche della
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LIBRO SECONDO.
435
Magna possono vivere loro in quel mo-
do, ed hanno potuto durare un tempo;
nasce da certe condizioni che sono in
quel paese, le quali non sono altrove,
- senza le quali non potrebbero tenere si-
mil modo di vivere. Era quella parte
della Magna di che io parlo, sottoposta
allo imperio romano come la Francia e
la Spagna: ma venuto dipoi in declina-
zione 1* imperio, e ridottosi il titolo di
tale imperio in quella provincia, comin-
ciarono quelle ciltadi più potenti, se-
condo la viltà o necessità degFimpera-
dori, a farsi libere, ricomperandosi dallo
imperio, con riservargli un piccolo censo
annuario; tanto che, a poco a poco,
tutte quelle cittadi che erano immediate
dello imperadore, e non erano soggette
ad alcuno principe, si sono in simil modo
ricomperate. Occorse in questi medesi-
mi tempi che queste cittadi si ricompe-
ravano, che certe comunità sottoposte al
duca d’Austria si ribellarono da lui; tra
le quali fu Filiborgo, c Svizzeri, e si-
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436
DEI DISCORSI
mili ; le quali prosperando nel principio,
pigliarono a poco a poco tanto augu-
mento, che, non che e’sieno tornati sotto
il giogo d’ Austria, sono in timore a
tutti i loro vicini: e questi sono quelli
che si chiamano Svizzeri. É, adunque,
questa provincia compartita in Svizzeri,
repubbliche (che chiamano terre fran-
che), principi ed imperadore. E la ca-
gione che, intra tante diversità di vivere,
non vi nascono, o, se le vi nascono, non
vi durano molto le guerre, è quel segno
dell’ imperadore ; il quale, avvenga che
non abbi forze, nondimeno ha fra loro
tanta riputazione, eli’ egli è uno loro
conciliatore, e con T autorità sua, inter-
ponendosi come mezzano, spegne subito
ogni scandalo. E le maggiori e le più
lunghe guerre vi siano state, sono quelle
che sono seguite intra i Svizzeri ed il
duca d’Austria; e benché da molti anni
in qua lo imperadore ed il duca d’Au- '
stria sia una cosa medesima, non per
tanto non ha mai potuto superare l’au-
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LIBRO SECONDO.
437
dacia ilei Svizzeri, dove non è mai stato
modo d’accordo, se non per forza. Nè
il resto della Magna gli ha porti molti
aiuti; sì perchè le comunità non sanno
offendere chi vuole vivere libero come
loro ; sì perchè quelli principi, parte
non possono per esser poveri, parte non
vogliono per avere invidia alla potenza
sua. Possono vivere, adunque, quelle
comunità contente del piccolo loro do-
minio, per non avere cagione, rispetto
aii’dulorità imperiale, di disiderarlo mag-
giore: possono vivere unite dentro alle
mura loro, per aver il nimico propin-
quo, e. che piglierebbe 1’ occasione d’-oc-
euparle, qualunque volta le discordassino.
Che se quella provincia fusse condizio-
nata altrimenti, converrebbe loro cer-
care d’ ampliare e rompere quella loro
quiete. E perchè altrove non sono tali
condizioni, non si può prendere questo
modo di vivere; e bisogna o ampliare
per via di leghe, o ampliare come i Ro-
mani. E ehi si governa altrimenti, cerca
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438
DEI DISCORSI
non la sua vila, ma la sua morte e ro-
vina: perchè in mille modi e per molte
cagioni gli acquisii sono dannosi; per-
chè gli sta molto bene insieme acqui-
stare imperio, c non forze; e chi acqui-
sta imperio e non forze insieme, conviene
che rovini. Non può acquistare forze chi
impoverisce nelle guerre, ancora che sia
vittorioso; che ei mette più che non
trae degli acquisti: come hanno fatto i
Veniziani ed i Fiorentini, i quali sono
stati molto più deboli, quando V uno
aveva la Lombardia e V altro la Toscana,
che non erano quando 1’ uno era con-
tento del mare, e V altro di sei .miglia
di confini. Perchè tutto è nato da avere
voluto acquistare, e non avere saputo
pigliare il modo; e tanto più meritano
biasimo, quanto egli hanno meno scusa,
avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il
loro essempio, quando i Romani, senza
alcuno essempio, per la prudenza loro,
da loro medesimi lo seppono trovare.
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LIBRO SECO.NDO. ' 439
Fanno, oltra di questo, gli acquisti qual-
che volta non mediocre dauuo ad ogni
bene ordinata repubblica, quando e’ si
acquista una città o una provincia piena
di delizie, dove si può pigliare di quelli
costumi per la conversazione che si ha
con quelli: come intervenne a Roma,
prima, nello acquisto di Capova; e di-
poi, ad Annibale. E se Capova fusse
stata più longinqua dalla città, che lo
errore de* soldati non avesse avuto il
rimedio propinquo; o che Roma fusse
stata in alcuna parte corrotta; era senza
dubbio quello acquisto la rovina della
Repubblica romana. E Tito Livio fa fede
di questo con queste parole: Jam lune
minime salubris militari disciplina Ca-
pita j instrumentum omnium nolupta-
tunij dclinitos militimi animos avertit a
memoria patria, E veramente, simili
città o provincie si vendicano contra al
vincitore senza zuffa e senza sangue ;
perchè, riempiendoli de’ suoi tristi co-
stumi, gli espongono ad essere vinti da
i
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f i
ti
a
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t:
Li
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440
DEI DISCORSI
qualunque gli assalta. E Iuvenale non
potrebbe meglio, nelle sue salire, aver
considerata questa parte, dicendo: thè
nei petti romani per gli acquisti delle
terre peregrine erano intrati i costumi
peregrini ; ed in cambio di parsimonia
e di altre eccellentissime virtù, gala et
luxuria incubuitj victumque ulciscìtur
orbem. Se, adunque, V acquistare fu per
esser perniziosi ai Romani nei tempi
che quelli con tanta prudenza e tanta
virtù procedevano, che sarà adunque a
quelli che discosto dai modi loro pro-
cedono ? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se ne è di sopra di-
scorso assai, si vagliono dei soldati o
mercenari o ausiliari ? Donde ne risulta
loro spesso quei danni di che nel se-
guente capitolo si farà menzione.
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LlBr.O SECONDO.
441
Gap. XX. — Quale pericolo porti quel
principe o quella repubblica che si
vale della milizia ausiliare o merce-
naria.
Se io non avessi lungamente trattato
in altra mia opera, quanto sia inutile
la milizia mercenaria ed ausiliare, e
quanto utile la propria, io mi disten-
derei in questo discorso assai più clic
non farò ; ma avendone altrove parlato
a lungo, sarò in questa parte brieve.
Nè mi è paruto in tutto da passarla,
avendo trovato in Tito Livio, quanto ai
soldati ausiliari, sì largo essempio ; per-
chè i soldati ausiliari sono quelli che un
principe o una repubblica manda, ca-
pitanati c pagati da lei, in tuo aiuto.
E venendo al testo di Tito Livio, dico
che, avendo i Romani, in diversi luoghi,
rotti due eserciti de’ Sanniti con li eser-
citi loro, i quali avevano mandati al soc-
corso de* Capovani; e per questo liberi
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DEI DISCORSI
i Capovani da quella guerra ehe i San-
niti facevano loro; e volendo ritornare
verso Roma; ed acciò che i Capovani,
spogliati di presidio, non diventassino
di nuovo preda dei Sanniti; lasciarono
due legioni nel paese di Capova, che gli
difendesse. Le quali legioni marcendo
nell* ozio, cominciarono a dilettarsi in
quello; tanto che, dimenticata la patria
e la riverenza del Senato, pensarono di-
prendere T armi, ed insignorirsi di quel
paese che loro con la loro virtù avevano
difeso, parendo loro che gli abitatori
non fussino degni di possedere quelli
beni che non sapevano difendere. La
qual cosa presentita, fu dai Romani op-
pressa e corretta: come, dove noi par-
leremo delle congiure, largamente si
mostrerà. Dico pertanto di nuovo, come
di tutte V altre qualità di soldati, gli
ausiliari sono i più dannosi. Perchè in
essi quel principe o quella repubblica
che gli adopera in suo aiuto, non ha
autorità alcuna, ma vi ha solo V autorità
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LIBRO SECO.XBO. 413 .
colui che li manda. Perchè i soldati au-
siliari sono quelli che ti sono mandati
da un principe, come ho detto, sotto
suoi capitani, sotto sue insegne e pagati
da lui: come fu questo esercito che i
Romani mandarono a Capova. Questi
tali soldati, vinto eh’ egli hanno, il più
delle volte predano così colui che gli ha
condotti, come colui contea a chi e’ sono
condotti ; e lo fanno o per malignità del
principe che gli manda, o per ambizion
loro. E benché la intenzione de’ Romani
non fusse di rompere 1’ accordo e le
convenzioni che avevano fatte coi Capo-
vani; nondimeno la facilità che pareva
a quelli soldati di opprimergli fu tanta,
che gli potette persuadere a pensare di
torre ai Capovani la terra e lo stato.
Potrebbesi di questo dare assai essempi;
ma voglio mi basti questo, e quello dei
Regini, ai quali fu tolto la vita e la
terra da una legione che i Romani vi
avevano messa in guardia. Debbe, adun-
que, un principe o una repubblica pi-
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4U
DE! DISCORSI
gliare prima ogni altro partilo, che ri-
correre a conti aì re nello Stato suo per
sua difesa genti nusiliarie, quando ei
s’ abbia a fidare sopra quelle ; perchè
ogni patto, ogni convenzione, ancora che
darà, di’ egli arà col nemico, gli sarà
più leggieri che tal partito. E se si leg-
geranno bene le cose passate, c diseor-
rerannosi le presenti, si troverà, per
uno che n’abbia avuto buon fine, infi-
niti esser rimasi ingannati. Ed uno prin-
cipe o una repubblica ambiziosa non
può avere la maggiore occasione di oc-
cupare una città o una provincia, che
esser richiesto che mandi gli eserciti
suoi alla difesa di quella. Pertanto, co-
lui che è tanto ambizioso che, non so-
lamente per difendersi ma per offendere
altri, chiama simili aiuti, cerca d’acqui-
stare quello che non può tenere, e che
da quello che gliene acquista gli può
facilmente esser tolto. Ma l’ ambizione
dell’ uomo è tanto grande, che per ca-
varsi una presente voglia, non pensa al
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LIBRO SECONDO.
445
male che è in brieve tempo per risul-
targliene. Nè lo muovono gli antichi es-
sempi, cosi in questo come nell’ altre
cose discorse; perchè, se e’ fussino mossi
da quelli, vedrebbero come quanto più
si mostra la liberalità coi vicini, e d’es-
sere più alieno da occupargli, tanto più
ti si gettano in grembo: come di sotto,
per lo essempio de’ Capovani, si dirà.
Gap. XXI. — Il primo Pretore che i Ro-
mani mandarono in alcun luogoj fu
a Capova, dopo quattrocento anni che
cominciarono a far guerra.
Quanto i Romani nei modo del pro-
cedere loro circa Y acquistare fossero
differenti da quelli che ne’ presenti tempi
ampliano la iuri&dUionc loro, si è assai
di sopra discorso; e come e’ lasciavano
quelle terre, che non disfacevano, vivere
con le leggi loro, eziandio quelle che
non come compagne, ma come soggette
si arrendevano loro; ed in esse non lu-
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DEI DISCORSI
446
sciavano alcun segno d’ imperio per il
Popolo romano, ma Y obbligavano ad
alcune condizioni, le quali osservando,
le mantenevano nello stato e dignità
loro. E conoscesi questi modi esser stati
osservati infino che gli uscirono d’ Ita-
lia, e che cominciarono a ridurre i re-
gni e gli Stati in provincie. Di questo
ne è chiarissimo essempio, che il primo
Pretore che fusse mandato da loro in
alcun luogo, fu a Capova: il quale vi
mandarono, non per loro ambizione, ma
perchè e’ ne furono ricerchi dai Capo-
vani; i quali, essendo intra loro discor-
dia, giudicarono esser necessario avere
dentro nella città un cittadino romano
che gli riordinasse e riunisse. Da questo
essempio gli Anziati mossi, e constretti
dalla medesima necessità, domandarono
ancora loro un Prefetto; e Tito Livio
dice in su questo accidente, ed in 6U
questo nuovo modo d’ imperare, quod
/aro non solttm arma j sed jura romana
pollebant. Yedesi, pertanto, quanto qu$-
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LIBRO SECONDO.
447
sto modo facilitò I’ augumento romano.
Perché quelle città, massime, che sono
use a viver libere, o consuete governarsi
per suoi provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che
non veggono, ancora eli’ egli avesse in
sè qualche gravezza, che sotto quello
che veggendo ogni giorno, pare loro
che ogni giorno sia rimproverata loro
la servitù. Appresso, ne seguita un al-
tro bene per il principe: che non avendo
i suoi ministri in mano i giudizi, ed i
magistrati che civilmente o criminal-
mente rendono ragione in quelle cittadi,
non può nascere mai sentenza con ca-
rico o infamia del principe; e vengono
per questa via a mancare molte cagioni
«li calunnia e d’ odio verso di quello. E
che questo sia il vero, oltre agli antichi
esscinpi che se ne potrebbono addurre,
ee n’ è uno essempio fresco in Italia.
Perchè, come ciascuno sa, scudo Genova
stata più volte occupata da’ Franciosi,
sempre quel re, eccetto che ne’ presenti
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448
DEI DISCORSI
tempi, vi ha mandato un governatore
francioso che in suo nome la governi.
Al presente solo, non per elezione del
re, ma perchè cosi ha ordinato la ne-
cessità, ha lasciato governarsi quella
città per sè medesima, e da un gover-
natore genovese. E senza dubbio, chi
ricercasse quali di questi duoi modi
rechi più sicurtà al re dell* imperio di
essa, e più contentezza a quelli popolari,
senza dubbio approverebbe questo ultimo
modo. Oltra di questo, gli uomini tanto
più ti si gettano in grembo, quanto più
tu pari alieno dallo occupargli ; e tanto
meno ti temono per conto della loro li-
bertà, quanto più sei umano e dome-
stico con loro. Questa dimestichezza e
liberalità fece i Capovani correre a chie-
dere il Pretore ai Romani : che se dai
Romani si fusse mostro una minima
voglia di mandarvelo, subito sarebbono
ingelositi, c si sarebbono discostati da
loro. Ma che bisogna ire per gli essempi
a Capova ed a Roma, avendone in Fi-
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LIBRO SECONDO.
449
lenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto
tempo è che la città di Pistoia venne
volontariamente sotto V imperio fioren-
tino. Ciascuno ancora sa quanta inimi-
cizia è stata intra i Fiorentini, ed i Pi-
sani, Lucchesi e Sanesi : e questa diver-
sità d’animo non è nata perchè i Pi-
stoiesi non prezzino la loro libertà
come gli altri, e non si giudichino da
quanto gli altri; ma per essersi i Fio-
rentini portoti con loro sempre come
fratelli, e con gli altri come nimici.
Questo ha fatto clic i Pistoiesi sono corsi
volontari sotto F imperio loro : gli altri
hanno fatto e fanno ogni forza per non
vi pervenire. E senza dubbio, i Fioren-
tini se, o per vie di leghe o di aiuto,
avessero dimesticati e non inselvatichiti
i suoi vicini, a quest’ora sarebbero si-
gnori di Toscana. Non è per questo che
io giudichi che non si abbia ad operare
l’armi e le forze; ma si debbono riser-
vare in ultimo luogo, dove e quando gli
altri modi non bastino.
Machiavelli, Discorsi. — i- 29
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450
DEI DISCORSI
Cap. XXII. — Quanto siano false molte
volte le oppinioni degli uomini nel
giudicare le cose grandi.
Quanto siano false molte volle le op-
pinioui degli uomini, 1’ hanno visto e
veggono coloro che si trovano testimoni
delle loro deliberazioni: le quali molle
volte, se non sono deliberate da uomini
eccellenti, sono contrarie ad ogni verità.
E perchè gli eccellenti uomini nelle
repubbliche corrotte, nei tempi quieti
massime, e per invidia c per altre am-
biziose cagioni, sono inimicati; si va
dietro a quello che da uno comune in-
ganno è giudicato bene, o da uomini
che più presto vogliono i favori che il
bene deir universale, è messo innanzi. Il
quale inganno dipoi si scuopre nei tempi
avversi, e per necessità si rifugge a
quelli che nei tempi quieti erano come
dimenticati : come nel suo luogo in questa
parte appieno si discorrerà. Nascono an-
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«
LIBRO SECONDO. 451
cora certi accidenti, dove facilmente sono
ingannali gli uomini che non hanno
grande Esperienza delle cose, avendo in
sè quello accidente che nasce molti ve*
risimili, atti a far credere quello die
gli uomini sopra tal caso si persuadono.
Queste cose si sono dette per quello che
Numicio pretore, poiché i Latini furono
rotti dai Romani, persuase loro; e per
quello che pochi anni sono si credeva
per molti, quando Francesco 1 re di
Francia venne ali’ acquisto di Milano,
che era difeso dai Svizzeri. Dico per-
tanto, che, essendo morto Luigi XII, e
succedendo nel regno di Francia Fran-
cesco d’ Angolem, c desiderando resti-
tuire al regno il ducato di Milano, stato
pochi anni innanzi occupato dai Sviz-
zeri mediante il conforto di Papa Giu-
lio II, desiderava aver aiuti in Italia che
gli facilitassero l’ impresa ; cd oltre ni
Veniziani, che il re Luigi s’aveva rigua-
dagnati, tentava i Fiorentini e Papa
Leone X ; parendogli la sua impresa più
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452
DEI DISCORSI
fucile qualùnque volta s’ avesse riguada-
gnati costoro, per essere le genti del re
di Spagna in Lombardia, ed altre forze
dello imperadore in ^Verona. Non cede
\
Papa Leone alle voglie del re, ma fu
persuaso da quelli che lo consigliavano
(secondo si disse), si stesse neutrale,
mostrandogli in questo partito consistere
la vittoria certa: perchè per la Chiesa
non si faceva avere potenti in Italia nè
il re nè i Svizzeri; ma volendola ridurre
nell’antica libertà, era necessario libe-
rarla dalla servitù dell’ uno e dell’altro.
E perchè vincere 1’ uno e 1’ altro, o di
per sè o tutti due insieme, non era possi-
bile 'r conveniva che superassino 1’ uno
l’altro, e che la Chiesa con gli amici
suoi urlasse quello poi che rimanesse
vincitore. Ed era impossibile trovare
migliore occasione che la presente, sen-
do 1’ uno e 1’ altro in su’ campi, ed aven-
do il Papa le sue forze ad ordine da
potere rappresentarsi in sui confini di
Lombardia, e propinquo all’ uno e l’altro
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LIBRO SECONDO.
453
esercito, sotto colore di voler guardare
le cose sue, e quivi tanto stare che ve-
nissero alla giornata; la quale ragione-
volmente, sendo Y uno e V altro esercito
virtuoso, doverrebbe esser sanguinosa
per tutte due le parti, e lasciare in modo
debilitato il vincitore, che fusse al Papa
facile assaltarlo e romperlo: e cosi ver-
rebbe con sua gloria a rimanere signore
di Lombardia, ed arbitro di tutta Italia.
E quanto questa oppiuione fusse falsa,
si vide per lo evento della cosa: perchè,
sendo dopo una lunga zuffa sufi supe-
rati i Svizzeri, non che le genti del Papa
c di Spagna presumessero assaltare i
vincitori, ma si prepararono alla fuga ; la
quale ancora non sarebbe loro giovata,
se non fusse stato o la umanità o la
freddezza del re, che non cercò la se-
conda vittoria, ma gli bastò fare accordo
con la Chiesa. Ha questa oppinione certe
ragioni che discosto paiono vere, ma
sono al tutto aliene dalla verità. Perchè,
rade volte accade che M vincitore perda
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454
DEI DISCORSI
assai suoi soldati: perchè de5 vincitori ne
muore nella zuffa, non nella fuga ; e nello
ardore del combattere, quando gli uo-
mini hanno volto il viso 1* uno all* altro,
ne cade pochi, massime perchè la dura
poco tempo il più delle volte; e quando
pur durasse assai tempo, e de’ vincitori
ne morisse assai, è tanta la riputazione
che si tira dietro la vittoria, ed il ter-
rore che la porta seco, che di lunga
avanza il danno che per la morte de'suoi
soldati avesse sopportato. Talché, se uno
esercito il quale, in su la oppinione che
e* fusse debilitato, andasse a trovarlo,
si troverebbe ingannato; se già non fusse
l’esercito tale, che d’ogni tempo, e to-
nanti alla vittoria e poi, potesse com-
batterlo. In questo caso e’ potrebbe, se-
condo la sua fortuna e virtù, vincere
e perdere; ma quello clic si fusse az-
zuffato prima, ed avesse vinto, arebbe
piuttosto vantaggio dall’altro. 11 che si
conosce certo per la esperienza de’ Lati-
ni e per la fallacia che Nummo pretore
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LIBRO SECONDO.
455
prese, e per il danno che ne riportorno
quelli popoli che gli crederono: il quale,
vinto che i Romani ebbero i Latini, gri-
dava per tutto il paese di Lazio, che
allora era tempo assaltare i Romani de-
bilitati per la zuffa avevano fatta con
loro; e che solo appresso i Romani era
rimaso il nome della vittoria, ma tutti
gli altri danni avevano sopportati come
se fussino stati vinti; c che ogni poco
di forza che di nuovo gli assaltasse, era
per spacciargli. Donde quelli popoli che
gli crederono, fecero nuovo esercito, e su-
bito furono rotti, e patirono quel danno
che patiranno sempre coloro che ter-
ranno simili oppinioni.
Gap. XXIIL — Quanto i Romani nel
giudicare i sudditi per alcuno acci-
dente che necessitasse tal giudizio j
fuggivano la via del mezzo.
Jam Laiio is status crai rerum * ut
ncque pacem , ncque bcllum pati possnnt.
DEI DISCORSI
ÌÒ6
Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo
quello d’ un principe o d’ una repub-
blica clic è ridotto in termine che non
può ricevere la pace, o sostenere la
guerra : a che si riducono quelli che
sono dalie condizioni della pace troppo
offesi ; e dall’ altro canto, volendo far
guerra, convien loro o gittarsi in preda
di chi gli aiuti, o rimanere preda del
nimico. Ed a tutti questi termini, si
viene per cattivi consigli, e cattivi pala-
titi, da non avere misuralo bene le forze
sue, come di sopra si disse. Perchè
quella repubblica o quei principe che
bene le misurasse, con difficultà si cou-
durrebbe nel termine si condussono i
Latini: i quali quando non dovevano
accordare con i Romani, accordarono;
e quando non dovevano rompere loro
guerra, la ruppono: e così seppono fare
in modo, che la inimicizia ed amicizia
dei Romani fu loro ugualmente danno-
sa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al
tutto afflitti, prima da Manlio Torquato,
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LIBRO SECONDO.
457
e dipoi da Cammillo: il quale avendogli
costretti a darsi e rimettersi nelle brac-
cia de’ Romani, ed avendo messo la guar-
dia per tutte le terre di Lazio, e preso
da tutte gli staticità ; tornato in Roma,
riferì al Senato come tutto Lazio era
nelle mani' del Popolo romano. E per-
chè questo giudizio è notabile, e inerita
d’ essere osservato, per poterlo imitare
quando simili occasioni sono date a’ prin-
cipi, io voglio addurre le parole di Li-
vio poste in bocca di Cammillo; le quali
fanno fede e del modo che i Romani
tennono in ampliare, e come ne’ giudizi
di Stato sempre fuggirono la via del
mezzo, e si volsono agli estremi: perchè
un governo non è altro che tenere in
modo i sudditi, che non ti possano o
debbano offendere. Questo si fu o con
assicurarsene in tutto, togliendo loro
ogni via da nuocerti; o con beneficargli
in modo, che non sia ragionevole ch’egli-
no abbino a desiderare di mutar for-
tuna. li che tutto si comprende, e prima
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458
DEI Disconsi
per la proposta di Cammillo, c poi per
il giudizio dato dal Senato sopra quella.
Le parole sue furono queste: Dii im-
mortale s ita vos potentcs hujus constiti
fecerunl, ut sit Lalium, an non sii , in
vostra manu posuerint. Jtaque pacctn
vobiSj quod ad Lalinos allinei, parare
in perpeluum, vcl scevicndo, vel ig na-
scendo potestis. Vultis crudeliter consti-
leve in dedilos, viclosque ? licei delere
omno I. aduni. Vultis, exemplo majorum,
auqcrc rem romanam , viclos in civita-
lem accipiendo ? materia crescendi per
summam gloriam suppeditat. Certe id
fìrmissimum imperium est, quo obedien-
tes gaudenl. Illorum igitur anirnos , dum
cxpcctatione , slupenl, seti pana, seu
benefìcio prceoccupari opportet. A questa
proposta successe la deliberazione del
Senato: la quale fu, secondo le parole
del Consolo, che recatosi innanzi, terra
per terra, tutti quelli eh’ erano di mo-
mento, o gli beneficarono o gli spenso-
no ; facendo ai beneficati esenzioni, pri-
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LIBRO SECOSDO.
45‘J
vilegi, donando loro la città, e da ogni
parte assicurandogli ; di quelli altri dis-
fecero le terre, mandaronvi colonie, ri-
dussongli in Roma, dissiparongli tal-
mente che con \9 arme e con il consiglio
non potevano più nuocere. Nè usorno
mai la via neutrale in quelli, come ho
detto, di momento. Questo giudizio deb-
bono i principi imitare. A questo do-
vevano accostarsi i Fiorentini, quando
nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la
Val di Chiana : il che se avessino fatto,
nrebbero assicurato l’ imperio loro, e
fatta grandissima la città di Firenze, e
datogli quelli campi che per vivere gli
mancano. Ma loro usarono quella via
del mezzo, la quale è perniziosissima
nel giudicare gli uomini; e parte degli
Aretini ne confinarono, parte ne con-
dennarono; a tutti tolsono gli onori e
gli loro antichi gradi nella città; e la-
sciarono la città intera. E se alcuno cit-
tadino nelle deliberazioni consigliava che
Arezzo si disfacesse ; a quelli che pareva
DEI DISCORSI
Ì60
esser più savi, dicevano come sarebbe
poco onore della repubblica disfarla,
perchè parrebbe che Firenze mancasse
di forze di tenerla. Le quali ragioni sono
di quelle che paiono e non sono vere;
perchè con questa medesima ragione non
si arebbe ad ammazzare uno parricida,
uno scellerato e scandaloso, sendo ver-
gogna di quel principe mostrare di non
aver forze da poter frenare uno uomo
solo. E non veggono questi tali che
hanno simili oppinioni, come gii uomini
particolarmente, ed una città tutta in-
sieme pecca talvolta contra ad uno
Stato, che per esempio agli altri, per
sicurtà di sé, non ha altro rimedio un
principe che spengerla. E l’onore con-
siste nel sapere e potere castigarla ; non
nel potere con mille pericoli tenerla:
perchè quel principe che non castiga chi
erra, in modo che non possa più erra-
re, è tenuto o ignorante o vile. Questo
giudizio che i Romani dettero, quanto
sia necessario si conferma ancora per
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TT
«
LIBRO SECONDO. 461
la sentenza che dettero de’ Privernati.
Dove si debbe, per ii testo di Livio, no-
tare due cose: 1’ una, quello che di so-
pra si dice, che i sudditi si debbono o
beneficare o spengere: Poltra, quanto
la generosità dell’ animo, quanto il par-
lare il vero giovi, quando egli è detto
uel conspetto degli uomini prudenti. Era
ragunato ii Senato romano per giudicare
de’ Privernati, i quali sendosi ribellati,
erano di poi per forza ritornati sotto
la ubbidienza romana. Erano mandati
dal popolo di Priverno molti cittadini
per impetrare perdono dal Senato; ed
essendo venuti al conspetto di quello,
fu detto ad un di loro da un de’ Sena-
tori, quam pcenam merilos Privernales
censeret. Al quale Privernate rispose :
E am y quam merentur qui se libevtale
dignos ccnsent. Al quale il Consolo re-
plicò : Quid si pcenam remiltimus vobis,
qualcm nos pacati i vobiscum habituros
speremus ? A che quello rispose: Si bo~
m tm dederitis , et fidelem et perpetuarli ;
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4G'2 DEI DISCORSI
si malam , haud diuturna m. Donde la
più savia parte del Senato, ancora che
molli se n’ alterassino, disse: se audi •
visse vocem el liberi et viri ; nec credi
posse Uhm popolum , aul hominem, de-
nique in ea condilione cujus eum pestìi -
teat, diutius quam nccesse sii, mansu-
rum. ibi pacem esse fidam , ubi volun-
tarii pacati svit , ncque eo loco ubi scr-
vitutem esse velini , / idem sperandovi
esse. Ed in su queste parole, deliberorno
che i Privcrnati fussero ciltadini roma-
ni, e de’ privilegi della civililà gli ono-
rarono, dicendo : eos demum qui nihil
prceterquam de liberiate cogitant,dignos
esse , qui Romani fiant. Tanto piacque
agli animi generosi questa vera e ge-
nerosa risposta; perchè ogni altra ri-
sposta sarebbe stata bugiarda e vile. E
coloro che credono degli uomini altri-
menti, massime di quelli che sono usi
o ad essere o a parere loro essere li-
beri, se n’ingannano; e sotto queslo
inganno pigliano partiti non buoni per
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LIBRO SECO.IDO.
463
sé, e da non satisfare a loro. Di che
nascono le spesse ribellioni e le rovine
degli Stati. Ma per tornare al discorso
nostro, conchiudo, e per questo e per
quello giudizio dato dai Latini: quando
si ha a giudicare cittadi potenti, e che
sono use a vivere libere, conviene o *
spegnerle o carezzarle ; altrimenti, ogni
giudizio è vano. E debbesi fuggir al
tutto la via del mezzo, la quale è pcr-
niziosn, come la fu a’ Sanniti quando
avevano rinchiuso i Romani alle forche
Caudine; quando non volleno seguire il
parere di quel vecchio, che consigliò
che i Romani si lasciassero andare ono-
rati, o che s’ ammazzassero tutti ; ma
pigliando una via di mezzo disarman-
dogli c mettendogli sotto il giogo, gli
lasciarono andare pieni d’ ignominia e
di sdegno. Talché poco dipoi conobbero
con lor danno la sentenza di quel vec-
chio essere stata utile, e la loro dili-
berazione dannosa; come nel suo luogo
più appieno si discorrerà.
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m
DEI DISCORSI
Cap. XXIV. — Le fortezze generalmente
sono molto più dannose che utili.
Parrà forse a questi savi de* nostri
tempi cosa non bene considerata, che i
Romani nel volere assicurarsi dei popoli
di Lazio e della città di Priverno, non
pensassino di edificarvi qualche fortezza,
la qual fusse un freno a tenergli in fe-
de; sendo, massime, un detto in Firenze,
allegato da* nostri savi, che Pisa e P al-
tre simili città si debbono tenere con le
fortezze. E veramente, se i Romani fus-
sino stati fatti come loro, egli arebbero
pensato di edificarle; ma perchè egli
erano d* altra virtù, d’ altro giudizio,
d’ altra potenza, e’ non le edificarono.
E mentre che Roma visse libera, e che
la seguì gli ordini suoi e le sue vir-
tuose constiluzioni, mai n’edificò per
tenere o città o provincie; ma salvò
bene alcune delle edificate. Donde ve-
duto il modo del procedere de’ Romani
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LIBRO SECONDO.
5G5
in questa parte, e quello eie’ prìncipi
de’ nostri tempi, mi pare da mettere in
considerazione, se gli è bene edificare
fortezze, se le fanno danno o utile a
quello che I’ edifica. Dehbesi, adunque,
considerare come le fortezze si fanno o
per difendersi da’nimici, o per difen-
dersi da’ soggetti. Nel primo caso le
non sono necessarie; nel secondo dan-
nose. E cominciando a render ragione
perchè nel secondo ^caso le siano dan-
nose, dico che quel principe o quella
repubblica che ha paura de’ suoi sud-
diti e delta ribellione loro, prima con-
viene che tal paura nasca da odio che
abbiano i suoi sudditi seco; l’odio,
da’ mali suoi portamenti ; i mali porta-
menti nascono o da poter credere te-
nergli con forza, o da poca prudenza di
chi gli governa : ed una delle cose clic
fa credere potergli forzare, è l’ avere
loro addosso le fortezze; perchè i mali
trattamenti, clic sono cagione dell’ odio,
nascono in buona parte per avere quel
.Vachi avelli, Discorsi. — 1. 30
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DEI DISCORSI
4<36
principe, o quella repubblica, le fortez-
ze: le quali, quando sia vero questo, di
gran lunga sono più nocive, che utili.
Perchè in prima, come è detto, le ti
fanno essere più audace e più violento
nei sudditi; dipoi, non ci è quella si-
curtà che tu ti persuadi : perchè tutte
le forze, tutte le violenze che si usano
per tenere un popolo, sono nulla eccetto
che due; o che tu abbia sempre da met-
tere in campagna* un buono esercito,
come avevano i Romani; o che gli dis-
sipi, spenga, disordini, disgiunga, in
modo che non possino convenire ad of-
fenderti. Perchè se tu gP impoverisci,
spoliatis arma supersunt : se tu gli di-
sarmi, furor arma ministrai: se tu
ammazzi i capi, e gli altri segui d’ ingiu-
riare, rinascono i capi, come quelli det-
P idra: se tu fai le fortezze, le sono
utili ne’ tempi di pace, perchè ti danno
più animo a far loro male; ma ne’ tempi
di guerra sono inutilissime, perchè le so-
no assaltate dal nimico e da’ sudditi, nè è
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LIBRO SECONDO.
467
possibile che le faccino resistenza ed
all’uno ed all’altro. E se inai furono
disutili, sono ne’ tempi nostri rispetto
alle artiglierie ; per il furore delle quali
i luoghi piccoli, e dove altri non si possa
ritirare con li ripari, è impossibile di-
fendere, come di sopra discorremmo. Io
voglio questa materia disputarla più
tritamente. 0 tu, principe, vuoi con que-
ste fortezze tenere in freno il popolo
delia tua città; o tu, principe, o tu, re-
pubblica, vuoi frenare una città occu-
pata per guerra. Io ini voglio voltare
al principe, e gli dico: che tal fortezza
per tenere in freno i suoi cittadini non
può essere più inutile di quello eh’ ella
è, per le cagioni dette di sopra ; perchè
la ti fa più pronto c men rispettivo ad
oppressateli ; e quella oppressione gli
fa si esposti alla tua roviua, e gli ac-
cende in modo, che quella fortezza che
ne è cagione, non ti può poi difendere.
Tanto che un principe savio e buono,
per mantenersi buono, per non dare
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4G8
DEI DISCORSI
cagione nè ardire a’ figliuoli di diven-
tare tristi, mai non farà fortezza, ac-
ciocché quelli non in su le fortezze, ina
in su la benivolenza degli uomini si
fondino. E se il conte Francesco Sforza,
diventato duca di Milano, fu riputato
savio, e nondimeno fece in Milano una
fortezza ; dico che iti questo caso ei non
fu savio, e V effetto ha dimostro, come
tal fortezza fu a danno, e non a sicurtà
de’ suoi eredi. Perchè giudicando me-
diante quella viver sicuri, e potere of-
fendere gli cittadini e sudditi loro, non
perdonarono ad alcuna generazione di
violenza; talché diventati sopra modo
odiosi, perderono quello Stato come
prima il nimico gli assaltò: nè quella
fortezza gli difese, nè fece loro nella
guerra utile alcuno, e nella pace avea
loro fatto danno assai. Perchè se non
avessiuo avuto quella, e se per poca
prudenza avessino maneggiati agramente
i loro cittadini, arebbero scoperto il pe-
ricolo più presto, e sarebbonsene riti-
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LIBRO SCCOXDO.
46ì>
rati; ed orebbero poi potuto più ani-
mosamente resistere all’ impeto francioso
co’ sudditi amici senza fortezza, die con
quelli inimici con la fortezza: le quali
non ti giovano in alcuna parte; perchè,
o le si perdono per frali de di chi le
guarda, o per violenza di chi I’ assalta,
o per fame. E se tu vuoi che le ti gio-
vino, e ti aiutino a ricuperare uno Stato
perduto, dove ti sia solo rimaso la for-
tezza ; ti conviene avere uno esercito, con
il quale tu possa assaltare colui che
t’ha cacciato: e quando tu abbia questo
esercito, tu riavesti lo Stato in ogni mo-
do, eziandio che la fortezza non \i fusse ;
c tanto più facilmente, quanto gli uomini
ti fussiuo più amici che non ti erano
avendogli mal trattati per l’orgoglio
della fortezza. E per isperienzn s’ è vi-
sto, come questa fortezza di Milano, nè
agli Sforzeschi nè a’ Franciosi, ne’ tempi
avversi dell’ uno e dell’ altro, non ha
fatto a alcunb di loro utile alcuno; anzi
a tutti ha recato danni e rovine assai.
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470
DEI DISCORSI
non avendo pensato mediante quella a
più onesto modo di tenere quello Stato.
Guido Ubaldo duca di Urbiuo, figliuolo
di Federigo, che fu ne’ suoi tempi tanto
stimato capitano, sendo cacciato da Ce*
sarc Borgia, figliuolo di papa Alessan-
dro VI, dello stato; come dipoi, per uno
accidente nato, vi ritornò, fece rovinare
tutte le fortezze clic erano in quella pro-
vincia, giudicandole dannose. Perchè,
sendo quello amato dagli uomini, per
rispetto di loro non le voleva ; e per
conto de’ nimici, vedeva non le poter di-
fendere, avendo quelle bisogno d’ uno
esercito in campagna, che le difendesse;
talché si volse a rovinarle. Papa Iulio,
cacciati i Bentivogli di Bologna, fece in
quella città una fortezza ; e dipoi faceva
assassinare quel popolo da un suo go-
vernatore : talché quel popolo si ribellò,
e subito perde la fortezza ; e cosi non
gli giovò la fortezza e 1* offese, intanto
clic portandosi altrimenti, gli arebbe
giovato. Niccolò da Castello, padre de’ Yi-
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LIBRO SECONDO.
471
teili, tornato nella sua patria donile era
esule, subito disfece due fortezze vi
aveva edificale papa Sisto IV, giudican-
do, non la fortezza, ma la benivolenza
del popolo l’avesse a tenere in quello
stato. Ma di tutti gli altri essempi il
più fresco, il più notabile in ogni parte,
ed atto a mostrare la inutilità dello edi-
ficarle e 1’ utilità del disfarle, è quello
di Genova, seguito ne’ prossimi tempi.
Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si
ribellò da Luigi XII re di Francia, il
quale venne personalmente e con tutte
le forze sue a racquietarla ; e ricuperata
che 1’ ebbe, fece una fortezza, fortissima
di tutte l’ altre delle quali al presente
si avesse notizia: perchè era per silo e
per ogni altra circonstanza inespugna-)
bile, posta in su una punta di colle che
si distende nel mare, chiamato dai Ge-
novesi Codefa ; e per questo batteva tutto
il porto, e gran parte della terra di Ge-
nova. Occorse poi, nel 1512, che sendo
cacciate le genti franciose d’ Italia,. Gc-
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472
DEI DISCORSI
novo, nonostante la fortezza, si ribellò;
e prese lo stalo di quella Ottaviano Fre- *
goso, il quale con ogni industria, in
termine di sedici mesi, per fame la
espugnò. E ciascuno credeva e da molti»
n* era consigliato, che la conservasse per
suo rifugio in ogni accidente: ma esso,
come prudentissimo, conoscendo che non
le fortezze, ma la volontà degli uomini
mantenevano i principi in stato, la ro-
vinò. E cosi, senza fondare lo stato suo
in su la fortezza, ma in su la virtù e
prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E
dove a variare lo stato di Genova sole-
vano bastare mille fanti, gli avversari
suoi l’ hanno assaltato con diecimila, e
non T hanno potuto offendere. Vedesi
adunque per questo, come il disfare la
fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il
farla non difese il re di Francia. Per-
chè, quando e’ potette venire in Italia
con l’ esercito, e’ potette ricuperare Ge-
nova, non vi avendo fortezza; ma quando
e’ non potette venire in Italia con l’cser-
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LIBRO SECONDO.
473
cito, e* non potette tenere Genova, aven-
dovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa
al re di farla, e vergognoso il perderla;
a Ottaviano glorioso il racquistarla, ed
utile il rovinarla. Ma vegnamo alle re-
pubbliche che fanno le fortezze noli
nella patria, ma nelle terre che le acqui-
stano. Ed a mostrare questa fallacia,
quando e’ non bastasse V essempio detto
di Francia e di Genova, voglio mi basti
Firenze e Pisa : dove i Fiorentini fecero
le fortezze per tenere quella città ; e non
conobbero che una città stata sempre
inimica del nome fiorentino, vissuta li-
bera, e che ha alla ribellione per rifu-
gio la libertà, era necessario, volendola
tenere, osservare il modo romano; o
farsela compagna, o disfarla. Perchè la
virtù delle fortezze si vidde nella venula
del re Carlo; al quale si dettono o per
poca fede di chi le guardava, o per ti-
more di maggior male: dove, se le non
fussino state, i Fiorentini non arcbbero
fondato 11 potere tenere Pisa sopra
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474
DEI DISCORSI
quelle, e quel re non arebbe potuto per
quella via privare i Fiorentini di quella
città; e gli modi con li quali si fussi
mantenuta fino a quel tempo, sarebbero
stati per avventura sufficienti a conser-
varla, e senza dubbio non arebbero fatto
più cattiva pruova che le fortezze. Con-
chiudo dunque, che per tenere la patria
propria, la fortezza è dannosa ; per te-
nere le terre che si acquistano, le for-
tezze sono inutili: e voglio mi basti
I’ autorità de’ Romani, i quali nelle terre
che volevano tenere con violenza, smu-
ravano, e non muravano. E chi contra
questa oppinione n’allegassi negli anti-
chi tempi Taranto, e ne’ moderni Bre-
scia, i quali luoghi mediante le fortezze
furono ricuperati dalla ribellione dei
sudditi ; rispondo che alla ricuperazione
di Taranto, in capo d’ uno anno, fu
mandato Fabio Massimo con tutto lo
esercito, il quale sarebbe stato alto a
ricuperarlo eziandio se non vi fusse
stata la fortezza; e se Fabio usò quella
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LIBRO SECONDO.
• F>f
4/o
via, quando la non vi fusse stata dareb-
be usata un’altra, che arebbe fatto il
medesimo effetto. Ed io non so di che
utilità sia una fortezza che, a renderti
la terra, abbia bisogno, per la ricupe-
razione d’ essa d* uno esercito consolare,
e d’ un Fabio Massimo per capitano. E
che i Romani 1* avessino ripresa in ogni
modo, si vide per V essempio di Capova ;
dove non era fortezza, e per virtù dello
esercito la riacquistarono. Ma vegliamo a
Brescia. Dico, come rade volte occorre
quello che è occorso in quella ribellione,
clic la fortezza che rimane nelle forze
tue, sendo ribellata la terra, abbia uno
esercito grosso e propinquo, coiti’ era
quel de’ Franciosi : perchè, essendo mon-
signor di Fois, capitano del re, con
l’esercito a Bologna, intesa la perdita
di Brescia, senza differire ne andò a
quella volta, ed in tre giorni arrivato
a Brescia, per la fortezza riebbe la
terra. Ebbe, pertanto, ancora la fortezza
di Brescia, a volere clic la giovasse, bi-
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476
DEI DISCORSI
sogno d’ un monsignor di Fois, c d’ un
esercito francioso che in tre dì la soc-
corresse. Sì clic F esscmpio di questo,
all’ incontro degli essempi contrari, non
basta ; perchè assai fortezze sono state,
nelle guerre de’ nostri tempi, prese e
riprese con la mcdesimu fortuna che si
è ripresa e presa la campagna, non so-
lamente in Lombardia, ma in Romagna,
nel regno di Napoli, c per tutte le parti
d’ Italia. Ma, quanto allo edificar for-
tezze per difendersi da’ n inaici di fuora,
dico che le non sono necessarie a quelli
popoli nè a quelli regni che hanno buoni
eserciti; ed a quelli che non hanno buoni
eserciti, sono inutili: perchè i buoni
eserciti senza le fortezze sono sufficienti
a difendersi ; le fortezze senza i buoni
eserciti non ti possono difendere. E que-
sto si vede per isperienza di quelli che
sono stati e nei governi e nell* altre
cose tenuti eccellenti; comesi vede dei
Romani e degli Spartani: che se i Ro-
mani non edificavano fortezze, gli Spar-
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LIBRO SECONDO.
477
tani non solamente si astenevano da
quelle, ma non permettevano d’ aver
mura alla loro città; perchè volevano
che la virtù dell* uomo particolare, non
.altro difensivo, gli difendesse. Dondechè,
essendo domandato uno Spartano da
uno Ateniese, se le mura d’ Atene gli
parevano belle, gli rispose: Si, se le
fussino abitate da donne. Quel principe,
adunque, che abbi buoni eserciti, quan-
do in sulle marine alla fronte dello
Stato suo abbia qualche fortezza che
possa qualche dì sostenere lo inimico
infino che sia a ordine, sarebbe qualche
volta cosa utile, ma la non è necessaria.
Ma quando il principe non ha buono
esercito, avere le fortezze per il suo
Stato o alle frontiere, gli sono o dan-
nose o inutili : dannose, perchè facil-
mente le perde, e perdute gli fanno
guerra ; o se pur le fussino sì forti che M
nimico non le potesse occupare, sono
lasciate indietro dallo esercito nimico, e
vennono ad essere di nessuno frutto:
V
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478
DEI DISCORSI
perchè i buoni eserciti, quando non hanno
gagliardissimo riscontro, entrano nei
paesi nitnici senza rispetto di città o di
fortezza che si lascino indietro; come
si vede nell* antiche istorie, e come si
vede fece Francesco Maria, il quale
ne’ prossimi tempi per assaltare Urbino
si lasciò indietro dieci città ni miche,
senza alcuno rispetto. Quel principe,
adunque, che può fare buono esercito,
può fare senza edificare fortezza; quello
che non ha V esercito buono, non debbe
edificare. Debbe bene afforzare la città
dove abita, e tenerla munita, e ben di-
sposti i cittadini di quella, per poter
sostenere tanto un impelo nimico, o che
accordo, o che aiuto esterno lo liberi.
Tutti gli altri disegni sono di spesa
ne’ tempi di pace, ed inutili ne’ tempi
di guerra. E così, chi considererà tutto
quello ho detto, conoscerà i Romani,
come savi in ogni altro loro ordine,
cosi furono prudenti in questo giudizio
dei Latini e de’ Privernati ; dove, non
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LIBRO SECONDO.
479
pensando a fortezze, con più virtuosi
modi e più savi se ne assicurarono.
Gap. XXV. — Che lo assaltare una città
disunita, per occuparla mediante la
sua disunione, è partito contrario.
Era tanta disunione nella Repubblica
romana intra la Plebe e la Nobiltà, clic
i Veienti insieme con gli Etrusci, me-
diante tale disunione, pensarono potere
estinguere il nome romano. Ed avendo
fatto esercito, e corso sopra i campi di
Roma, mandò il Senato loro contra Gii.
Manlio e 2M. Fabio; i quali avendo con-
dotto il loro esercito propinquo allo eser-
cito de’ Veienti, non cessavano i Veien-
ti, e con assalti e con obbrobri, offendere
e vituperare il nome romano: e fu tanta
la loro temerità ed insolenza, che i Ro-
mani di disuniti diventarono uniti; e
venendo alla zuffa, gli ruppono e vin-
sono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini
s’ ingannano, come di sopra discorrem-
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DEI DISCORSI
480
mo, nel pigliare de’ parliti; c come molte
volte credono guadagnare una cosa, e
la perdono. Credeltono i Veienti assal-
tando i Romani disuniti, vincergli; c
quello assalto fu cagione della unione
di quelli, e della rovina loro. Perchè la
cagione della disunione delle repubbli-
che il più delle volte è P ozio e la pace;
la cagione della unione è la paura e la
guerra. E però, se i Veienti fussiuo stati
savi, eglino arebbono, quanto più disu-
nita vedevano Roma, tanto più tenuta
da loro la guerra discosto, e con Parti
della pace cerco d’oppressargli. Il modo è
cercare di diventare confidente di quella
città ciré disunita; ed infino che non
vengono alP arme, come arbitro, maneg-
giarsi intra le parli. Venendo alParme,
dare lenti favori alla parte più debole;
si per tenergli più in su la guerra, e
fargli consumare; si perchè le assai
forze non gli facessero tutti dubitare che
tu volessi opprimergli, e diventar loro
principe. E quando questa parte è go-
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LIBRO SECONDO.
481
vernata bene, interverrà quasi sempre
che Y ara quel fine che tu hai presup-
posto. La città di Pistoia, come in altro
discorso e ad altro proposito dissi,
non venne alla Repubblica di Firenze
con altra arte che con questa; perchè,
sendo quella divisa, c favorendo i Fio-
rentini or Furia parte or l’altra, senza
carico dell’ una e dell’ altra, la condus-
sono in termine, che, stracca di quel
suo vivere tumultuoso, venne sponta-
neamente a gittarsi nelle braccia di Fi-
renze. La città di Siena non ha mai mu-
tato stato col favore de’ Fiorentini,' se
non quando i favori sono stati deboli e
pochi. Perchè, quando e’ sono stali assai
e gagliardi, hanno fatto quella città unita
alla difesa di quello stato che regge. Io
voglio aggiungere ai soprascritti un al-
tro essempio. Filippo Visconti, duca di
Milano, più volte mosse guerra ai Fio-
rentini, fondatosi sopra le disunioni loro,
e sempre ne rimase perdente; talché
gli ebbe a dire, dolendosi delle sue im-
Machiavei li, Discorsi. — 1. 31
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ORI DISCORSI
482
prese, come le pazzie de’ Fiorentini gli
avevano fatto spendere inutilmente due
milioni d’ oro. Restarono, adunque, co-
me di sopra si dice, ingannati i Veienli
e gli Toscani da questa oppinione, e fu-
rono alfine in una giornata superati dai
Romani. IT così per Io avvenire ne re-
sterà ingannato qualunque per simile
via e per simile cagione crederà oppres-
sore un popolo.
Cai». XXVI. — Il vilipendio e V impro-
perio genera odio conira a coloro che
r usano j senza alcuna loro utilità.
•
lo eredo che sta una delle grandi pru-
denze che usino gli uomini, astenersi o
dal minacciare, o dallo ingiuriare alcuno
con le parole: perchè 1’ una cosa e l’al-
tra non tolgono forze al nimico; ma
l’una lo fa più cauto; l’altra gli fa
avere maggiore odio contra di te, e
pensare con maggiore industria di of-
fenderti. Yedesi questo per lo essempio
. -J
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LIBRO SECONDO.
483
de* Veienti, de’ quali nel capitolo supe-
riore si è discorso; i quali alla ingiu-
ria della guerra aggiunsono, contra ai
Romani, l’obbrobrio delle parole: dal
quale ogni capitano prudente debbe fare
astenere i suoi soldati ; perchè le son
cose che infiammano ed accendono il
nimico alla vendetta, ed in uessuna parte
lo impediscono, come è detto, alla offesa;
tanto che le sono tutte arme che ven-
gono contra a te. Di che ne seguì già
uno essempio notabile in Asia: dove
Gabade, capitano de’ Persi, essendo stato
a campo ad Amida più tempo, ed avendo
diliberato, stracco dal tedio della ossi-
dione, partirsi; levandosi già col campo,
quelli della terra venuti tutti in su le
mura, insuperbiti della vittoria, non
perdonarono a nessuna qualità d’ ingiu-
ria, vituperando, accusando, rimprove-
rando la viltà e la poltroneria del ni-
mico. Da che Gabade irritato, mutò
consiglio; e ritornato alla ossidione, tan-
ta fu la indegnazione della ingiuria, che
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DF.I DISCORSI
484
in pochi giorni gli prese e saccheggiò.
E questo medesimo intervenne a’Veienti:
a’ quali, coni’ è detto, non bastando il
far guerra a’ Romani, ancora con le pa-
role gli vituperarono; ed andando in-
iìno in su lo steccato del campo a dir
loro ingiuria, gl’ irritarono molto più
con le parole che con P arme : e quelli
soldati che prima combattevano mal vo-
lentieri, costrinsero i Consoli ad appic-
care la zuffa; talché i Veienti portarono
la pena, come gli antedetti, della con-
tumacia loro. Hanno adunque i buoni
principi di esercito, ed i buoni governa-
tori di repubblica, a far ogni opportuno
l imedio, che queste ingiurie e rimproveri
non si usino o nella città o nello eser-
cito suo, nè infra loro, nè contra il ni-
mico: perchè usati contra al nimico, ne
nascono gli inconvenienti soprascritti;
infra loro, farebbono peggio non vi si
riparando, come vi hanno sempre gli
uomini prudenti riparato. Avendo le le-
gioni romane state lasciate a Capova
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LIBRO SECONDO.
-4*5
congiurato conil a a’ Capovani, come nel
suo luogo si narrerà; ed essendone di
questa congiura nata sedizione, la quale
fu poi da Valerio Corvino quietata ; in-
tra all* altre conslituzioni che nella con-
venzione si fecero, ordinarono pene gra-
vissime a coloro che improverassino mai
ad alcun di quelli soldati tale sedizione.
Tiberio Gracco, fatto nella guerra di An-
nibaie capitano sopra certo numero di
servi che i Romani, per carestia d’uo-
mini, avevano armati, ordinò, intra le
prime cose, pena capitale a qualunque
rimproverasse la servitù di alcuno di
loro. Tanto fu stimato dai Romani, co-
me di sopra s’è detto, cosa dannosa il
vilipendere gli uomini, ed il rimprove-
rare loro alcuna vergogna; perchè non
è cosa che accenda tanto gli animi loro,
nè generi maggiore sdegno, o da vero
o da beffe che si dica : ISam facetice
aspcrcCj quando nimium ex vero traxe-
rc, acretn sui memorianx relinquunt.
DEI DISCORSI
48G
Cap. XXVII. — Ai principi e repubbli-
che prudenti debbe bastare vincere;
perchè il più delle volle j quando non
basti j si perde.
Lo usare parole contra al nimico poco
onorevoli, nasce il più delle volte da
una insolenza che ti dà o la vittoria o
la falsa speranza della vittoria; la quale
falsa speranza fa gli uomini ‘non sola-
mente errare nel dire, ma ancora nello
operare. Perchè questa speranza, quando
la entra ne’ petti degli uomini, fa loro
passare il segno, e perdere il più delle
volte quella occasione d’ avere un bene
certo, sperando d’ avere un meglio in-
certo. E perchè questo è un termine
die merita considerazione, ingannando-
cisi dentro gli uomini molto spesso, e
con danno dello stato loro; e’ mi pare
da dimostrarlo particolarmente con es-
sempi antichi e moderni, non si potendo
con le ragioni così distintamente dimo-
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LIBRO SECONDO.
487
strare. Annibaie, poi ch’egli ebbe rotti
i Romani a Canne, mandò suoi oratori
a Cartagine a significare la vittoria, e
chiedere sussidi. Disputossi nel senato
di quello s’ avesse a fare. Consigliava
Annone, un vecchio e prudente cittadino
cartaginese, che si usasse questa vitto-
ria saviamente in far pace coi Romani,
potendola avere con condizioni oneste
avendo vinto; e non s’aspettasse d’averla
a fare dopo la perdita: perchè la in-
tenzione de’ Cartaginesi doveva essere,
mostrare ai Romani come e’ bastavano
a combattergli ; ed avendosene avuto
vittoria, non si cercasse di perderla per
la speranza d’ una maggiore. Non fu
preso questo partito; ma fu bene poi
dal senato cartaginese conosciuto savio,
quando 1’ occasione fu perduta. Avendo
Alessandro Magno già preso tutto l’orien-
te, la repubblica di Tiro, nobile in quelli
tempi e potente per avere la loro città
in acqua come i Veniziani, veduta la
grandezza d’ Alessandro, gli mandarono
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488
DEI DISCORSI
oratori a dirgli, come volevano essere
suoi buoni servitori e dargli quella ub-
bidienza voleva, ma che non erano già
per accettare nè lui nè le sue genti nella
terra : donde sdegnato Alessandro che
una città gli volesse chiudere quelle
porte che tutto il mondo gli aveva aper-
te, gli ributtò, e non accettate le condi-
zioni loro, vi mandò a campo. Era la
terra in acqua, e benissimo di vettova-
glie e d’ altre munizioni necessarie alla
difesa munita: tanto che Alessandro do-
po quattro mesi s* avvide, che una città
gli toglieva quel tempo alla sua gloria
che non gli avevano tolti molti altri
acquisti ; e diliberò di tentare 1* accordo,
e concedere loro quello che per loro
medesimi avevano domandato. Ma quelli
di Tiro insuperbiti, non solamente non
volsero accettare l* accordo, ina ammaz-
zorono chi venne a praticarlo. Di che
Alessandro sdegnato, con tanta forza si
mise alla espugnazione, che la prese e
disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli
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LIBRO SECONDO.
489
uomini. Venne, nel 4512, uno esercito
spagnuolo in su 'I dominio fiorentino
per rimettere i Medici in Firenze, e ta-
glieggiare la città, condotti da’ cittadini
d’ entro, i quali avevano dato loro spe-
ranza, che subito fussero in su ’1 domi-
nio fiorentino, piglierebbono V arme in
loro favore; ed essendo entrati nel piano,
e non si scoprendo alcuno, ed avendo
carestia di vettovaglie, tentarono V ac-
cordo: di che insuperbito il popolo di
Firenze, non lo accettò-; donde ne nacque
la perdita di Prato, e la rovina di quello
Stato. Non possono, pertanto, i principi
che sono assaltati far il maggiore errore,
quando 1* assalto è fatto da uomini di
gran lunga più potenti di loro, che ri-
cusare ogni accordo, massime quando
gli è offerto: perchè non sarà mai of-
ferto si basso, che non vi sia dentro in
qualche parte il bene essere di colui
che io accetta, e vi sarà parte della sua
vittori?. Perchè e’ doveva bastare al po-
polo di Tiro, clic Alessandro accettasse
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490
DEI DISCORSI
quelle condizioni che egli aveva prima
rifiutate; ed era assai vittoria la loro,
quando con Y armi in mano avevano
fatto condiscendere un tanto uomo alla
voglia loro. Doveva bastare ancora al
popolo fiorentino, e gli era assai vittoria,
se lo esercito spagnuolo cedeva a qual-
cuna delle voglie di quello, e le sue non
adempieva tutte: perchè la intenzione
di quello esercito era mutare lo stato
in Firenze, e levarlo dalla devozione di
Francia, e trarre da lui danari. Quando
di tre cose e’ ne avesse avute due, che
son 1’ ultime; ed al popolo ne fusse re*
stata una, che era la conservazione dello
stato suo; ci aveva dentro ciascuno qual-
che onore e qualche satisfazione, nè si
doveva il popolo curare delle due cose,
rimanendo vivo ; nè doveva, quando bene
egli avesse veduta maggiore vittoria, e
quasi certa, voler mettere quella in al-
cuna parte a discrezione della fortuna,
andandone Y ultima posta sua: la quale
qualunque prudente mai arrischierà se
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LIBRO SECOSDO.
491
non necessitato. Annibaie partito iT Ita-
lia, dove era stato sedici anni glorioso,
richiamato da’ suoi Cartaginesi a soc-
correre la patria, trovò rotto Asdrubale
e Siface; trovò perduto il regno di Nu-
midia; ristretta Cartagine intra i termini
delle sue mura, alla quale non restava
altro rifugio, che esso e T esercito suo :
e conoscendo come quella era 1’ ultima
posta della sua patria, non volle prima
metterla a rischio, di’ egli ebbe ten-
tato ogni altro rimedio; e non si ver-
gognò di domandare la pace, giudicando
se alcuno rimedio aveva la sua patria,
era in quella, e non nella guerra: quale
sendogli poi negata, non volle mancare,
dovendo perdere, di combattere; giudi-
cando potere pur vincere ; o perdendo,
perdere gloriosamente. E se Annibaie,
il quale era tanto virtuoso ed aveva il
suo esercito intero, cercò prima la pace
che la zuffa, quando ci vide che per-
dendo quella, la sua patria diveniva ser-
va ; che debbe fare un altro di manco
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I
492 DEI DISCORSI
virtù e di manco isperienza di lui? Ma
gli uomini fanno questo errore: che non
sanno porre termini alle speranze loro,
ed in su quelle fondandosi, senza mi*
surarsi altrimenti, rovinano.
Cap. XXVIII. — Quanto sia pericoloso
ad una repubblica o ad uno principe
non vendicare una ingiuria falla con-
tro al pubblico o conira al privalo.
Quello che facciano fare agli uomini
gli sdegni, facilmente si conosce per
quello che avvenne ai Romani, quando
e’ mandarono i tre Fabi oratori ai Fran-
ciosi, che erano venuti ad assaltare la
Toscana, ed in particolare Chiusi. Per-
chè, avendo mandato il popolo di Chiusi
per aiuto a Roma, i Romani mandarono
ambasciatori a’ Franciosi, che in nome
del Popolo romano significassero a quelli,
si astenessino di far guerra ai Toscani.
I quali oratori, sendo in su M luogo, e
più atti a fare che a dire, venendo i
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LIBRO SECONDO.
493
Franciosi c i Toscani alla zuffa, si mi-
sero intra i primi a combattere contra
a quelli : onde ne nacque che essendo
conosciuti da loro, tutto lo sdegno che
avevano contra a’ Toscani, volsero con-
tea ai Romani. 11 quale sdegno diventò
maggiore, perchè, avendo i Franciosi
per loro ambasciadori fatto querela con
il Senato romano di tale ingiuria, e do-
mandato che in satisfazione del danno
fussino dati loro i soprascritti Fabi;
non solamente non furono consegnati
loro, o in altro modo castigati; ma ve-
nendo i comizi, furono fatti Tribuni con
potestà eousolare. Talché, veggendo i
Franciosi quelli onorati che dovevano
esser puniti, ripresono tutto esser fatto
in loro dispregio ed ignominia; ed ac-
cesi d’ ira e di sdegno, vennero ad as-
saltare Roma, e quella presero, eccetto
il Campidoglio. La quale rovina nacque
a* Romani solo per la inosservanza della
giustizia; perchè avendo peccato i loro
ambasciatori conira jus gcntiunij e do-
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494 DE! DISCORSI
vendo esser gastigati, furono onorati.
Però è da considerare quanto ogni re-
pubblica ed ogni principe debbe tenere
conto di fare simile ingiuria, non sola-
mente contra ad una universalità, ma
ancora contra ad uno particolare. Per-
chè, se uno uomo è offeso grandemente
o dal pubblico o dal privato, e non sia
vendicato secondo la satisfazione sua;
se e’ vive in una repubblica, cerca an-
cora con la rovina di quella vendicarsi ;
se e’ vive sotto un principe, ed abbia
in sè alcuna generosità, non si acquieta
mai, in fino che in qualunque modo si
vendichi contra di lui, ancora che egli
vi vedesse dentro il suo proprio male.
Per verificare questo, non ci è il più
bello nè il più vero essemrpio che quello
di Filippo di Macedonia, padre di Ales-
sandro. Aveva costui in la sua corte
Pausania, giovine bello e nobile, del
quale era innamorato Aitalo; uno de' pri-
mi uomini che fusse presso a Filippo;
cd a\endolo più volte ricerco che dovesse
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LIBRO SECONDO.
495
consentirgli, e trovandolo alieno da si-
mili cose, deliberò di avere con inganno
e per forza quello che per altro verso
vedeva non potere avere. E fatto un so-
lenne convito, nel quale Pausania e molti
altri nobili baroni convennero, fece, poi-
ché ciascuno fu pieno di vivande e di
vino, prendere Pausania ; e condottolo
allo stretto, non solamente per forza
sfogò la sua libidine, ma ancora, per
maggiore ignominia, lo fece da molti
degli altri in simile modo vituperare.
Della quale ingiuria Pausania si dolse
più volte con Filippo ; il quale, avendolo
tenuto un tempo in speranza di vendi-
carlo, non solamente non lo vendicò,
ma prepose Attalo al governo d’ una
provincia di Grecia. Donde Pausania,
vedendo il suo nimico onorato e non
gastigato, volse tutto lo sdegno suo non
contra a quello che gli aveva fatto in-
giuria, ma conira a Filippo che non
P aveva vendicato: ed una mattina so-
lenne, in su le nozze della figliuola di
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DEI DISCORSI
496
Filippo maritata ad Alessandro di Epiro,
andando Filippo al tempio a celebrarle,
in mezzo di due Alessandri, genero e
figliuolo, l’ammazzò. Il quale essempio
è molto simile a quello de’ Romani, no-
tabile a qualunque governa: che mai
non debba tanto poco stimare un uomo,
che e’ creda, aggiungendo ingiuria sopra
ingiuria, che colui che è ingiuriato non
pensi di vendicarsi con ogni .suo peri-
colo e particolar danno.
Cap. XXIX. — La fortuna accieca gli
animi degli uominij quando la non
imolc che quelli si opponghino a* di-
segni suoi.
/
Se e’ si considerrà bene come proce-
dono le cose umane, si vedrà molte volte
nascere cose e venire accidenti a’ quali
i cieli al tutto non hanno voluto che si
provvegga. E quando questo eh’ io dico
intervenne a Roma, «love era tanta virtù,
tanta religione e tanto ordine; non è
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LIBRO SECONDO.
497
meraviglia che gli intervenga molto più
spesso in una città o in una provincia
che manchi delle cose sopradette. E per-
chè questo luogo è notabile assai a di-
mostrare la potenza del cielo sopra le
cose umane, Tito Livio largamente e
con parole efficacissime lo dimostra ; di-
cendo come, volendo il cielo a qualche
fine, che i Romani conoscessono la po-
tenza sua, fece prima errare quelli Fa-
bi che andarono oratori a’ Franciosi,
e mediante F opera loro gli concitò a
far guerra a Roma: dipoi ordinò, che
per reprimere quella guerra non si fa-
cesse in Roma cosa alcuna degna del
Popolo romano; avendo prima ordinato
che Camillo, il quale poteva essere solo
unico rimedio a tanto male, fusse man-
dato in esilio ad Ardea: dipoi venendo
i Franciosi verso Roma, coloro che per
rimediare allo impeto de’Volsci, ed altri
finitimi loro inimici, avevano creato molte
volte un Dittatore, venendo i Franciosi
non lo crearono. Ancora, nel fare la
Machiavelli, Discorsi.— 1. 32
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498
DEI DISCORSI
elezione de’ soldati, la feciono debole e
senza alcuna istraordinaria diligenza; e
furono tanto pigri a pigliare l’ arme,
che a fatica furono a tempo a scontrare i
Franciosi sopra il fiume d’ Allia, disco*
sto a Roma dieci miglia. Qui i Tribuni
posero il loro campo, senza alcuna con*
sueta diligenza ; non provvedendo il
luogo prima, nou si circondando con
fossa e con steccato, non usando alcuno
rimedio umauo o divino ; e nello ordi-
nare la zuffa, fecero gli ordini rari e
deboli: in modo che nè i soldati uè i
capitani fecero cosa degna della romana
disciplina. Combattessi poi senza alcuno
sangue; perchè e’ fuggirono prima che
fussiuo assaltati, e la maggior parte se
ne andò a Veio, 1’ altra si ritirò a Ro-
ma; i quali senza entrare altrimenti
nelle case loro, se ne entrarono in Cam-
pidoglio; in modo che il Senato, senza
peusare di difender Roma, non chiuse,
non che altro, le porte; e parte se ne
fuggi, parte con gli altri se ne entra-
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LIBRO SECONDO.
499
rono in Campidoglio Pure, nel difender
quello usarono qualche ordine non tu-
multuario; perchè e’ non lo aggravarono
di genti inutili; messonvi tutti i fru-
menti che poterono, acciocché potessino
sopportare 1’ ossidione j e della turba
inutile de’ vecchi e delle donne e de’ fan-
ciulli, la maggior parte se ne fuggi nelle
terre circunvicine, il rimanente restò in
Roma in preda de’ Franciosi. Talché, chi
avesse letto le cose fatte da quel popolo
tanti anni innanzi, e leggesse dipoi quelli
tempi, non potrebbe a nessun modo cre-
dere che fusse stato un medesimo po-
polo. E detto che Tito Livio ha tutti i
sopraddetti disordini, conchiude: Adeo
obcoecat animo» fortuna , cum vini suam
ingruentem refringi non vult. Nè può
essere -43ÌÙ vera «{«està conclusione: on-
de gli uomini che vivono ordinariamente
nelle grandi avversità 0 prosperità, me-
ritano manco laude 0 manco biasimo.
Perchè il più delle volte si vedrà quelli
ad una rovina e ad una grandezza es-
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500 DF.1 DISCORSI
scr stati condotti da una comodità grande
che gli hanno fatto i cieli, dandogli oc-
casione, o togliendoli di potere operare
virtuosamente. Fa bene la fortuna que-
sto, che la elegge uno uomo, quando la
voglia condurre cose grandi, di tanto
spirito e di tanta virtù, che e’ conosca
quelle occasioni che la gli porge. Cosi
medesimamente, quando la voglia con-
durre grandi rovine, la vi prepone uo-
mini che aiutino quella rovina. E se
alcuno fusse che vi potesse ostare, o la
lo ammazza, o la lo priva di tutte le
facultà da potere operare alcun bene.
Conoscesi questo benissimo per questo
testo, come la fortuna per far maggiore
Roma, e condurla a quella grandezza
venne, giudicò fusse necessario batterla
(come a lungo nel principio del seguente
libro discorreremo), ma non volle già
in tutto rovinarla. E per questo si vede
che la fece esulare, e non morire, Cam-
mino; fece pigliare Roma, e non il Cam-
pidoglio ; ordinò che i Romani, per ri-
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LIBRO SECONDO.
501
parare Roma, non pensassino alcuna
cosa buona; per difendere il Campido-
glio, non mancarono di alcuno buono or-
dine. Fece, perchè Roma fusse presa,
che la maggior parte de’ soldati che fu-
rono rotti ad Allia, se n’ andarono a
Veio; e così, per la difesa della città di
Roma, tagliò tutte le vie. E nell’ ordinar
questo, preparò ogni cosa alla sua ricupe-
razione ; avendo condotto uno esercito
romano intero a Veio, e Cammillo ad
Ardea, da poter fare grossa testa, sotto
un capitano non maculato d’ alcuna igno-
minia per la ' perdita, ed intero nella
sua riputazione, per la ricuperazione
della patria sua. Sarebbeci da addurre
in confirmazione delle cose delle qual-
che essempio moderno; ma per non gli
giudicare necessari, potendo questo a
qualunque satisfare, gli lascerò indietro.
Affermo bene di nuovo, questo essere
verissimo, secondo che per tutte ì’islo-
rie si vede, che gli uomini possono se-
condare la fortuna e non opporsegli;
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DEI DISCORSI
502
possono tessere gli orditi suoi, e non
rompergli. Debbono bene non si abban-
donare mai ; perchè non sappiendo il
fine suo, ed andando quella per vie tra-
verse ed incognite, hanno sempre a spe-
rare, e sperando non si abbandonare in
qualunque fortuna ed in qualunque tra-
vaglio si trovino.
Cap. XXX. — Le repubbliche c gli prin-
cipi veramente polenti non comperano
l* amicizie con danari, ma con la
virtù e con la riputazione delle forze.
Erano i Romani assediati nel Campi-
doglio, ed ancoraché gli aspettassino il
soccorso da Veio e da Cammillo, sendo
cacciati dalla fame, vennono a compo-
sizione con i Franciosi di ricomperarsi
certa quantità d'oro; e sopra tale con-
venzione pesandosi di già l’oro, so-
pravvenne Cammillo con V esercito suo :
il che fece, dice lo istorico, la fortuna,
ut Romani auro redempti non vivcrent.
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LIBRO SECONDO.
503
La qual cosa non solamente è notabile
in questa parte, ma cziam nel processo
delle azioni di questa Repubblica ; dove
si vede che mai acquistarono terre con
danari, mai feciono pace con danari,
ma sempre con la virtù delle armi: il
che non credo sia mai intervenuto ad
alcuna altra repubblica. Ed intra gli
altri segni per i quali si conosce la po-
tenza d’ uno Stato, è vedere come e' vive
con gli vicini suoi. E quando e’ si go-
verna in modo che i vicini, per averlo
amico, siano suoi pensionari, allora è
certo segno che quello Stato è potente:
ma quando detti vicini, ancoraché in-
feriori a lui, traggono da quello danari,
allora è segno grande di debolezza di
quello. Legghinsi tutte le istorie romane,
e vedrete come i Massiliensi, gli Edui,
Rodiani, lerone siracusano, Eumene e
Massinissa regi, i quali tutti erano vi-
cini ai confini dello imperio romano,
per avere l’amicizia di quello, concor-
revano a spese ed a tributi ne’ bisogni
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504
DEI DISCORSI
d’ esso, non cercando da lui altro pre-
mio che lo essere difesi. Al contrario
si vedrà negli Stati deboli: e comin-
ciandosi dal nostro di Firenze, ne’ tempi
passati, nella sua maggior riputazione,
non era signorotto in Romagna che non
avesse da quello provvisione; e di più
la dava ai Perugini, ai Castellani, e a
tutti gli altri suoi vicini. Che se questa
città fusse stata armata e gagliarda, sa-
rebbe tutto ito per contrario: perchè
tutti, per avere la protezione di essa,
arebbero dato danari a lei, e cereo non
di vendere la loro amicizia, ma di com-
perare la sua. Nè sono in questa viltà
vissuti soli i Fiorentini, ma i Yiniziani,
ed il re di Francia; il quale, con uno
tanto regno, vive tributario de’ Svizzeri
e del re d’ Inghilterra. Il che tutto na-
sce dallo avere disarmali i popoli suoi,
ed avere piuttosto voluto, quel re e gli
altri prenominati, godersi un presente
utile di potere saccheggiare i popoli, e
fuggire uno immaginato piuttosto che
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LIBRO SECONDO.
505
vero pericolo, che fare cose che gli as-
sicurino, e faccino i loro Stati felici in
perpetuo. li quale disordine se parto-
risce qualche tempo qualche quiete, è
cagione col tempo di necessità, di danni
e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo
raccontare quante volte i Fiorentini, Ve-
niziani, e questo regno, si sono ricom-
perati in su le guerre ; e quante volte
si sono sottomessi ad una ignominia, che
i- Romani furono una sola volta per
sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare
quante terre i Fiorentini e Veniziatri
hanno comperate; di che si è veduto
poi ii disordine, e come le cose che
si acquistano con 1’ oro, non si sanno
difendere col ferro. Osservarono i Ro-
mani questa generosità e questo modo
di vivere, mentre che vissono liberi;
ma poiché egli entrarono sotto gli im-
peradori, e che gli imperadori comin-
ciarono ad esser cattivi, ed amore più
P ombra che il sole, cominciarono an-
cora essi a ricomperarsi, ora dai Parti,
506
DE! DISCORSI
ora dai Germani, ora da altri popoli
convicitty: il che fu principio della ro-
vina di tanto imperio. Procedevano, per-
tanto, simili inconvenienti dallo avere
disarmati i suoi popoli: di che ne re-
sulta un altro maggiore, che quanto il
nimico più ti s’ appressa, tanto ti trova
più debole. Perchè chi vive ne’ modi
delti di sopra, traila male quelli sud-
diti che sono dentro all’ imperio suo,
per avere uomini ben disposti a tenere
il nimico discosto. Di questo nasce, che
per. tenerlo più discosto, ei dà provvi-
sione a questi signori e popoli che sono
propinqui ai confini suoi. Donde nasce
che questi Stati così fatti fanno uu poco
di resistenza in sui confini, ma comeii
nimico gli ha passati, ei non hanno ri-
medio alcuno. E non si avveggono, co-
me questo modo del loro procedere è
conila ad ogni buono ordine. Perchè il
cuore c le parti vitali d* uu corpo si
hanno a tenere armate, e non l’ estre-
mità d’esso; perchè senza quelle si vive,
4
4
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LIBRO secondo. 507
•
ed offeso quello si muore : c questi Stati
tengono il cuore disarmato, e le maui
c li piedi armati. Quello che abbia fatto
questo disordine a Firenze, si è veduto,
e vedesi ogni di: chè come uno eser-
cito passa i confini, e che gli entrano
propinquo al cuore, non ritrova più
alcuno rimedio. De’ Veniziani si vidde
pochi anni fono la medesima pruova;
c se la lorp città non era fasciata dal-
P acque, se ne sarebbe veduto it fine.
Questa isperienza non si è vista sì spesso
in Francia, per essere quello sì gran
regno, eh* egli ha pochi nimici supe-
riori. Nondimeno, quando gli Inghilesi,
nel 1513, assaltarono quel regno, tremò
tutta quella provincia; ed il re mede-
simo, e ciascuno altro, giudicava che
una rotta sola gli potesse torre lo Stato.
Ai Romani interveniva il contrario; per-
chè quanto più il nimico si appressava
a Roma, tanto più trovava quella città
potente a resistergli. E si vidde nella
ventila d’ Annibaie in Italia, che dopo
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DEI DISCORSI
tre rotte, c dopo tante morti di capi-
tani e di soldati, ei poterono non solo
sostenere il nimico, ma vincere la guerra.
Tutto nacque dallo avere bene armato
il cuore, e delle estremità tenere poco
conto. Perchè il fondamento dello stato
suo era il popolo di Roma, il nome la-
tino, e V altre terre compagne in Italia,
e le loro colonie; donde e' traevano tanti
soldati, che furono suftmenti con quelli
a combattere, e tenere il mondo. E che
sia vero, si vede per la domanda che
fece Annone cartaginese a quelli oratori
d’ Annibaie dopo la rotta di Canne: i
quali avendo magnificato le cose fatte
da Annibaie, furono domandali da An-
none, se del popolo romano alcuno era
venuto a domandar pace, e se del nome
latino e delle colonie alcuna terra si era
ribellata dai Romani; e negando quelli
l’ una e l’altra cosa, replicò Annone:
Questa guerra è ancora intera come
prima. Vedesi, pertanto, e per questo
discorso, e per quello che più volte ab-
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LIBRO SECONDO.
509
bianio altrove detto, quanta diversità
sia dal modo del procedere delle repub-
bliche presenti, a quello delle antiche.
Vedesi ancora per questo ogni di mira-
colose perdite e miracolosi acquisti. Per-
chè, dove gli uomini hanno poca virtù,
la fortuna dimostra assai la potenza sua;
e perchè la è varia, variano le repub-
bliche e gli Stati spesso; e varieranno
sempre, iniino che non surga qualcuno
che sia dell’ antichità tanto amatore, che
la regoli in modo, che la non abbi ca-
gione di dimostrare ad ogni girare di
sole quanto ella puote.
Cap. XXXI. — Quanto sia pericoloso
credere agli sbandili.
E’ non mi pare fuori di proposito ra-
gionare, intra questi altri discorsi, quanto
sia cosa pericolosa credere a quelli che
sono cacciati della patria sua, essendo
cose che ciascuno di si hanno a prati-
care da coloro che tengono Stati: po-
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510 DEI DISCORSI
tendo, massime, dimostrare questo con
uno memorabile essempio detto da Tito
Livio nelle sue istorie, ancora che sia foo- x
ra di proposito suo. Quando Alessandro
Magno passò con Y esercito suo in Asia,
Alessandro di Epiro, cognato e zio di
quello, venne con genti in Italia, chia-
mato dagli sbanditi Lucani, i quali gli
dettono speranza che potrebbe mediatiti
loro occupare tutta quella provincia.
Donde che quello, sotto la lode e spe-
ranza loro, venuto in Italia, fu morto
da quelli; sendo loro promesso Hi ritor-
nata nella patria dai loro cittadini, se
10 ammazzavano. Debbesi considerare,
pertanto, quanto sia vana e la fede e le
promesse di quelli che si trovano privi
della loro patria. Perchè, quanto alla
fede, si ha ad estimare che qualunque
volta possono per altri mezzi che per
11 tuoi rientrare nella patria loro, che
iasceranno te ed aceosterannosi ad altri,
nonostante qualunque promessa ti aves-
sino fatta. E quanto alla vana promessa
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LIBRO SECONDO.
51 i
e speranza, egli è tanta la voglia estrema
die è in loro di ritornare in casa, che
e’ credono naturalmente molte cose che
sono false, e molte ad arte ne aggiun-
gono: talché, tra quello che credono e
quello che dicono di credere, ti riem-
piono di speranza }. tulmentechè fonda-
toti in su quella, tu fai una spesa in
vano, o tu fai una impresa dove tu ro-
vini. Io voglio per cssempio mi basti
Alessandro predetto, e di più Temisto-
cle ateniese; il quale essendo fatto ri-
bello, se ne fuggi in Asia a Dario, dove
gli promisse tanto, quando ei volesse
assaltare la Grecia, che Dario si volse
alla impresa. Le quali promesse non gli
potendo poi Temistocle osservare, o per
vergogna o per tema di supplicio, av-
velenò sè stesso. E se questo errore fu
fatto da Temistocle, nomo eccellentissi-
mo, si debbe stimare che tanto più vi
errino coloro che, per minor virtù, si
lasceranno più tirare dalla voglia e dalla
passione loro. Debbe, adunque, un prin-
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512
DEI DISCORSI
cipe andare adagio a pigliare imprese
sopra la relazione d’ un confinato, per-
chè il più delle volle se ne resta o con
vergogna, o con danno gravissimo. E
perchè ancora rade volle riesce il pi-
gliare le terre di furto, e per intelli-
genza che altri avesse in quelle, non mi
pare fuor di proposito discorrerne nel
seguente capitolo; aggiungendovi con
quanti modi i Romani le acquistavano.
Cap. XXXII. — In quanti modi i Romani
occupavano le terre.
4
Essendo i Romani tutti volti alla guer-
ra, fecero sempre mai quella con ogni
vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto
ad ogni altra cosa che in essa si ricerca.
Da questo nacque che si guardarono dal
pigliare le terre per ossidione ; perchè
giudicavano questo modo di tanta spesa
e di tanto scomodo, che superasse di
gran lunga la utilità che dello acquisto
si potesse trarre: e per questo pensa-
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LIBRO SECONDO.
513
rono che fusse meglio e più utile sog-
giogare le len e per ogni altro modo che
assediandole; donde in tante guerre ed
in tanti anni ci sono pochissimi essem-
pi di ossidioni fatte da loro. I modi,
adunque, con i quali gli acquistavano
le città, erano o per espugnazione, o
per dedizione. La espugnazione era o
per forza e per violenza aperta, o per
forza mescolata con fraude. La violenza
aperta era o con assalto, senza percuo-
tere le mura (il che loro chiamavano
aggredì urbem coronaj perchè con tutto
l’ esercito circondavano la città, e da
tutte le parti la combattevano; e molte
volte riuscì loro che in uno assalto piglia-
rono una città, ancora che grossissima,
come quando Scipione prese Cartagine
nuova in (spaglia) : o, quando questo
assalto non bastava, si dirizzavano a
rompere le mura con arieti, o con al-
tre loro macchine belliche: o e’ facevano
una cava, e per quella entravano nella
città (nel qual modo presono la città
JIachiavel' I, Discorsi. — 1. 33
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514
DEI DISCORSI
de’ Veìenti) : o, per essere eguali a quelli
che difendevano le mura, facevano torri
di legname, o facevano argini di terra
appoggiati alle mura di fuori, per ve-
nire all’ altezza di esse sopra quelli.
Contea questi assalti, chi difendeva le
terre, nel primo caso circa lo essere
assaltato intorno intorno, portava più
subito pericolo, ed avea più dubbi rime-
di: perchè bisognandoli in ogni loco
avere assai difensori, o quelli ch’egli
aveva non erano tanti che potessero o
supplire per tutto, o cambiarsi ; o se
potevano, non erano tutti di eguale ani-
mo a resistere, e da una parte che fusse
inclinata la zuffa, si perdevano tutti.
Però occorse, come io ho detto, che
molte volte questo modo ebbe felice suc-
cesso. Ma quando non riusciva al primo,
non lo ritentavano molto, per esser mo-
do pericoloso per lo esercito : perchè
difendendosi in tanto spazio, restava per
tutto debile a potere resistere ad una
eruzione che quelli di dentro avessino
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LIBRO SECONDO.
515
fatta, ed anche si disordinavano e strac-
cavano i soldati; ma per una volta ed
allo improvviso tentavano tal modo.
Quanto alla rottura delle mura, sì op-
ponevano, come re’ presenti tempi, con
ripari. E per resistere alle cave, face-
vano una contraccava, e per quella si
opponevano al nimico, o con le armi o
con altri ingegni: intra i quali era que-
sto, che egli empivano dogli di penne,
nelle quali appiccavano il fuoco, ed ac-
cesi gli mettevano nella cava, i quali
con il fumo e con il puzzo impedivano
l'entrata a' nimici. E se con le torri gli
assaltavano, s' ingegnavano con il fuoco
rovinarle. E quanto agli argini di terra,
rompevano il muro da basso, dove l'ar-
gine s'appoggiava, tirando dentro la ter-
ra che quelli di fuori vi ammontavano;
talché ponendosi di fuori la terra, e le-
vandosi di dentro, veniva a non cre-
scere 1' argine. Questi modi di espugna-
zione non si possono lungamente tentare:
ma bisogna o levarsi da campo, e cer-
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DEI DISCORSI
care per altri modi vincere la guerra;
come fece Scipione, quando entrato in
Affrica, avendo assaltato litica e non gli
riuscendo pigliarla, si levò dal campo,
e cercò di rompere gii eserciti cartagi-
nesi: ovvero volgersi alla ossidione;
come feciono a Vcio, Capova, Cartagine
e lerusalem e simili terre, che per os-
sidione occuparono. Quanto allo acqui-
stare le terre per violenza furtiva, oc-
corre come intervenne di Palepoli, che
per trattato di quelli di dentro i Romani
la occuparono. Di questa sorte espugna-
zione dai Romani c da altri ne sono
state tentate molte, e poche ne sono riu-
scite : la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gli
impedimenti vengono facilmente. Perchè,
o la congiura si scuopre innanzi che si
venga all’atto : e scuopresi non con molta
diftìcultà, sì per la infedelità di coloro
con chi la è comunicata, sì per la diffì-
cullù del praticarla, avendo a convenire
con nimici, e con chi non ci è licito, se
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LIBRO StCOXDO.
517
non sotto qualche colore, parlare. Ma
quando la congiura non si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi nel met-
terla in atto mille dilYicultà. Perchè, o
se tu vieni innanzi al tempo disegnato,
o se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa :
se si lieva un rumore furtivo, come
1’ oche del Campidoglio : se si rompe
uno ordine consueto : ogni minimo erro-
re ed ogni minima fallacia che si piglia,
rovina la impresa. Aggiungonsi a que-
sto le tenebre della notte; le quali met-
tono più paura a chi travaglia in quelle
cose pericolose. Ed essendo la maggior
parte degli uomini che si conducono a
simili imprese, inesperti del sito del
paese e de’ luoghi, dove ei sono menati,
si confondono, inviliscono, ed implicano
per ogni minimo e fortuito accidente;
ed ogni immagine falsa è per fargli met-
tere in volta. Nè si trovò mai alcuno
che fusse più felice in queste espedizioni
fraudolente c notturne, che Arato Sicio-
neo; il quale quanto valeva in queste,
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DEI DISCORSI
tanto nelle diurne ed aperte fazioni era
pusillanime: il che si può giudicare
fusse più tosto per una occulta virtù clic
era in lui, che perchè in quelle natu-
ralmente dovesse essere più felicità. Di
questi modi, adunque, se ne praticano
assai, pochi se ne conducono alla pruova,-
e pochissimi ne riescono. Quanto allo
acquistare le terre per dedizione, o le
si danno volontarie, o forzate. La vo-
lontà nasce o per qualche necessità estrin-
seca che gli costringe a rifuggirsi sotto;
come fece Capova ai Romani; o per de-
siderio di esser governati bene, sendo
allettati dal governo buono che quel prin-
cipe tiene in coloro che se gli sono vo-
lontari rimessi in grembo ; come fcrono
i Rodiani, i Massiliensi ed altri simili
cittadini, che si deltono al Popolo ro-'
mano. Quanto alla dedizione forzata, o
tale forza nasce da una lunga ossidione,
come di sopra si è detto; o la nasce da
una continua oppressione di correrie,
depredazioni, ed altri mali trattamenti, i
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LIBRO SECONDO.
519
»
quali volendo fuggire, una città si arren-
de. Di tutti i modi detti, ì Romani usa-
rono più questo ultimo che nessuno; ed
attesono più che quattrocento cinquanta
anni a straccare i vicini con le rotte e con
le scorrerie, e pigliare mediani! gli accor-
di riputazione sopra di loro, come altre
volte abbiamo discorso. E sopra tal modo
si fondarono sempre, ancora che gli ten-
tassino tutti; ma negli altri trovarono
cose o pericolose, o inutili. Perchè nella
ossidione è la lunghezza e la spesa;
nella espugnazione, dubbio e pericolo;
nelle congiure, la incerlitudine. E vid-
dono che con una rotta d’esercito ini-
mico acquistavano un regno in un gior-
no; e nel pigliare per ossidione una
città ostinata, consumavano molti anni.
* i
Cap. XXXUI. — Come i Romani davano
agli loro capitani degli eserciti le
commissioni libere.
lo stimo che sia da considerare, leg-
gendo questa liviana istoria, volendone
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DEI DISCORSI
520
far profitto, tutti i modi del procedere
del Popolo e Senato romano. E infra
P altre cose che meritano considerazione,
sono : vedere con quale autorità ei man-
davano fuori i loro Consoli, Dittatori
ed altri Capitani degli eserciti ; de’ quali
si vede V autorità essere stata grandis-
sima, ed il Senato non si riservare al-
tro che P autorità di muovere nuove
guerre, e di confirmare le paci; tutte
P altre cose rimetteva nell’ arbitrio e
potestà del Consolo. Perchè, deliberata
eh* era dal Popolo e dal Senato una
guerra, verbigrazia contra ai Latini,
tutto il resto rimettevano nelP arbitrio
del Consolo; il quale poteva o fare uua
giornata o non la fare, e campeggiare
questa o quell* altra terra, come a lui
pareva. Le quali cose si verificano per
molti essempi, e massime per quello che
occorse in una ispedizione contra ai
Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo
vinto quelli presso a Sutri, e disegnando
con P esercito dipoi passare la selva
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LIBRO SECONDO.
.V2 1
Cimino, ed andare in Toscana; non so-
lamente non si consigliò col Senato,
raa non gli ne dette alcuna notizia, an-
cora che la guerra fusse per aversi a
fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso.
Il che si testifica ancora per la dilibe-
razione che all’ incontro di questo fu
fatta dal Senato : il quale avendo inteso
la vittoria che Fabio aveva avuta, du-
bitando che quello non pigliasse partito
di passare per le dette selve in Tosca-
na, giudicando che fusse bene non ten-
tare quella guerra e correre quel peri-
colo, mandò a Fabio due Legati u far-
gli intendere non passasse in Toscana;
i quali arrivarono che vi era già pas-
sato, ed aveva avuta la vittoria, ed in
cambio di impeditoci della guerra, tor-
narono ambasciadori dello acquisto e
della gloria avuta. E chi considera bene
questo termine, lo vedrà prudentissima-
mente usato : perchè, se il Senato avesse
voluto che un Consolo procedesse nella
guerra di mano in mano, secondo che
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52 2
DEI DISCORSI
quello gli commelteva, lo faceva meno
circunspetlo e più lento; perchè non
gli sarebbe parato che la gloria della
vittoria fusse tutta sua, ma che ne par-
ticipasse il Senato con il consiglio del
quale ei si fusse governato. Oltra di
questo, il Senato si obbligava a voler
consigliare una cosa che non se ne po-
teva intendere; perchè, nonostante che
in quello fussino tutti uomini esercita-
tissimi nella guerra, nondimeno non
essendo in sul luogo, e non sappiendo
infiniti particolari che sono necessari
sapere a voler consigliar bene, areb-
bono, consigliando, fatti infiniti errori.
E per questo e’ volevano che ’1 Consolo
per sè facesse, e che la gloria fusse
tutta sua; lo amore della quale giudica-
vano che fusse freno e regola a farlo
operar bene. Questa parte si è più vo-
lentieri notata da me, perchè io veggio
che le repubbliche de’ presenti tempi,
come è la veneziana e fiorentina, la
intendono altrimenti ; e se gli loro ca-
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UBnO SECONDO.
523
pitani, provveditori o commissari hanno
a piantare una artiglieria, lo vogliono
intendere, e consigliare. Il quale modo
merita quella laude che meritano gli
altri, i quali tutti insieme I’ hanno con-
dotte ne’ termini che al presente si
truovano. .
-
DEI DISCORSI
LIBRO TERZO.
Cap. I. — A volere che una sella o una
repubblica viva lungamente , è neces-
sario ritirarla spesso verso il suo
principio.
Egli è cosa verissima, come tutte le
cose del mondo hanno il termine della
vita loro. Ma quelle vanno tutto il corso
che è loro ordinato dal cielo general-
mente, che non disordinano il corpo
loro, ma tengonlo in modo ordinato, o
che non altera, o s' egli altera, è a sa-
lute, e non a danno suo. E perchè io
parlo de’ corpi misti, come sono le re-
pubbliche e le sètte, dico clic quelle al-
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DEI DISCORSI — LIBRO TERZO. 525
(eruzioni sono u salute, che le riducono
verso i principi! loro. E però quelle
sono meglio ordinate, ed hanno più lunga
vita, che mediatiti gli ordini suoi si pos-
sono spesso rinnovare; ovvero che per
accidente, fuori di detto ordine, vengono
a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara
che la luce, che non si rinnovando que-
sti corpi, non durano. Il modo del rin-
novargli è, come è detto, ridurgli verso
i principii suoi. Perchè tutti i pri nei pi i
delle sètte, e delle repubbliche, e dei
regni, conviene che abbino in sè qual-
che bontà, mediante la quale ripiglino
la prima riputazione, ed il primo augu-
mento loro. E perchè nel processo del
tempo quella bontà si corrompere non
interviene cosa che la riduca al segno,
ammazza di necessità quel corpo. E que-
sti dottori di medicina dicono, parlando
dei corpi degli uomini, quoti quolidie
aggregatur aliquidj quod quandoque
indiget curalione. Questa riduzione verso
il principio, parlando delle repubbliche,
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526
DEI DISCORSI
si fa o per accidente estrinseco, o per
prudenza intrinseca. Quanto al primo,
si vede come gli era necessario che Roma
fusse presa dai Franciosi, a volere che
la rinascesse; e rinascendo, ripigliasse
nuova vita e nuova virtù; e ripigliasse
la osservanza della religione e della giu-
stizia, le quali in lei cominciavano a
macularsi. Il che benissimo si comprende
per l’istoria di, Livio, dove ei mostra
che nel trar fuori 1’ esercito contra ai
Franciosi, e nel creare i Tribuni con
potestà consolare, non osservarono al-
cuna religiosa cerimonia. Così medesi-
mamente, non solamente non privarono
i tre Fabi i quali conira jus gcntium
avevano combattuto contra i Franciosi,
ma gli crearono Tribuni. E debbesi fa-
cilmente presupporre, che dell’ altre con-
stituzioni buone ordinate da Romolo, e
ila quelli altri principi prudenti, si co-
minciasse a tenere meno conto che non
era ragionevole e necessario a tenere il
vivere libero. Veline, adunque, questa
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LIBRO TERZO.
527
battitura estrinseca, acciocché tutti gii
ordini di quella città si ripigliassero;
e si mostrasse a quel popolo, non so-
lamente essere necessario mantenere la
religione e la giustizia, ma ancora sti-
mare i suoi buoni cittadini, e far più
conto della loro virtù, che di quelli co-
modi che e’ paresse loro mancare me-
diante 1’ opere loro. Il che si vede che
successe appunto; perchè, subito Ripresa
Roma, rinnovarono tutti gli ordini del-
1’ antica religione loro; punirono quelli
Fabi die avevano combattuto conira
jus genfìum ; ed oppresso stimarono
tanto la virtù e bontà di Cammillo, che
posposto, il Senato e gli altri, ogni in-
vidia, rimettevano in lui tutto il pondo
di quella Repubblica. È necessario, adun-
que, come è detto, che gli uomini che
vivono insieme in qualunque ordine,
spesso si riconoschino, o per questi ac-
cidenti estrinsechi o per gli intrinsechi.
E quanto a questi, conviene che nasca
o da una legge la quale spesso rivegga
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DEI DISCORSI
528
il conto agii uomini che sono in quel
corpo; o veramente da uno uomo buono
che nasca fra loro, il quale con gli suoi
essempi e con le sue opere virtuose,
faccia il medesimo effetto che l’ordine.
Surge, adunque, questo bene nelle re-
pubbliche, o per virtù d’un uomo o per
virtù d’ uno ordine. E quanto a questo
ultimo, gli ordini che ritirarono la Re-
pubblica romana verso il suo principio,
furono i Tribuni della plebe, i Censori,
e tutte 1’ altre leggi che venivano con-
tra all’ambizione ed alla insolenza degli
uomini. I quali ordini hanno bisogno
d’ esser fatti vivi dalla virtù d’ un cit-
tadino, il quale animosamente concorra
ad eseguirli contra alla potenza di quelli
che gli trapassano. Delle quali esecu-
zioni, innanzi alla presa di Roma dai
Franciosi, furon notabili, la morte de’
figliuoli di Bruto, la morte de’ dieci cit-
tadini, quella di Melio Frumentario: dopo
la presa di Roma, fu la morte di Man-
lio Capitolino, la morte del figliuolo di
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LIBRO TERZO.
' 529
Manlio Torquato, la esecuzione di Papi-
rio Cursore conira a Fabio suo maestro
de’ Cavalieri, la accusa degli Scipioni.
Le quali cose, perchè erano eccessive e
notabili, qualunque volta ne nasceva una,
facevano gli uomini ritirare verso il se-
gno: e quando le cominciarono ad es-
ser più rare, cominciarono ancora a dare
più spazio agii uomini di corrompersi,
e farsi con maggiore pericolo e più tu-
multo. Perchè dalP una all’altra di simili
esecuzioni non vorrebbe passare, il più,
dieci anni: perchè, passato questo tempo,
gli uomini cominciano a variare co’ co-
stumi, e trapassare le leggi ; e se non
nasce cosa per la quale si riduca loro
a memoria la pena, e ritruovisi negli
animi loro la paura, concorrono tosto
tanti delinquenti, che non si possono
più punire senza pericolo. Dicevano, a
questo proposito, quelli che hanno go-
vernato lo Stato di Firenze dal 1434
infino al 1494, come egli era necessario
ripigliare ogni cinque anni lo Stato;
Machiavelli, Discorsi. — 1. 3»
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530
DEI DISCORSI
altrimenti, era difficile mantenerlo : e
chiamavano ripigliare lo Stato, mettere
quel terrore e quella paura negli uo-
mini che vi avevano messo nel pigliarlo,
avendo in quel tempo battuti quelli che
avevano, secondo quel modo di vivere,
male operato. Ma come di quella batti-
tura la memoria si spegne, gli uomini
prendono ardire di tentare cose nuove,
e di dir male; c però è necessario prov-
vedervi, ritirando quello verso i suoi
principii. Nasce ancora questo ritira-
mento delle repubbliche verso il loro
principio dalle semplici virtù d’un uomo,
senza dipendere da alcuna legge che ti
stimoli ad alcuna esecuzione: nondiman-
co sono di tanta riputazione e di tanto
essempio, che gli uomini buoni dispe-
rano imitarle, e gli tristi si vergognano
a tenere vita contraria a quelle. Quelli
che in Roma particolarmente feciono
questi buoni effetti, furono Orazio Code,
Scevola, Fabrizio,* i duoi Deci, Regolo
Attilio, ed alcuni altri ; i quali con i loro
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LIBRO TERZO.
531
essempi rari e virtuosi facevano in Roma
quasi il medesimo effetto che si faces-
sino le leggi e gli ordini. E se le ese-
cuzioni soprascritte, insieme con questi
particolari essempi, fussino almeno se-
guite ogni dieci anni in quella città, ne
seguiva di necessità che la non si sarebbe
mai corrotta: ma coinè e’ cominciarono a
diradare 1’ una e V altra di queste due
cose, cominciarono a moltiplicare le cor-
ruzioni. Perchè dopo Marco Regolo non
vi si vidde alcun simile essempio: e ben-
ché in Roma surgessino i duoi Catoni,
fu tanta distanza da quello a loro, ed
intra loro dall’ uno all’ altro, e rimasono
sì soli, che non potettono con gli es-
sempi buoni fare alcuna buona opera;
e massime P ultimo Catone, il quale tro-
vando in buona parte la città corrotta,
non potette con lo essempio suo fare
che i cittadini diventassino migliori. E
questo basti quanto alle repubbliche. Ma
quanto alle sètte, si vede ancora queste
rinnovazioni essere necessarie per lo es-
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5a2
DEI DISCORSI
sempio della nostra religione; la quale
se non fusse stata ritirata verso il suo
principio da san Francesco c da san Do-
menico, sarebbe al lutto spenta. Perchè
questi, con la povertà e con ressempio
della vita di Cristo, la ridussono nella
mente degli uomini, che già vi era spen-
ta : e furono sì potenti gli ordini loro
nuovi, cli’ei sono cagione che la diso-
nestà de’ prelati e de’ capi della reli-
gione non la rovini; vivendo ancora po-
veramente, ed avendo tanto credito nelle
confessioni con i popoli e nelle predi-
cazioni, che c’ danno loro ad intendere
come egli è male a dir male del male,
e che sia bene vivere sotto 1* ubbidienza
loro, e se fanno errori, lasciargli gasli-
gare a Dio: e così quelli fanno il peg-
gio che possono, perchè non temono
quella punizione che non veggono e non
credono. Ha, adunque, questa rinnova-
zione mantenuto, e mantiene questa re-
ligione. Hanno ancora i regni bisogno
di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quelli
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LìBRO TLRZO.
533
verso il suo principio. E si vede quanto
buono effetto fa questa parte nel regno
di Francia; il quale regno vive sotto le
leggi e sotto gli ordini più clic alcuno
altro regno Delle quali leggi ed ordini
ne sono mnntenitori i parlamenti, c mas-
sime quel di Parigi ; le quali sono da
lui rinnovate qualunque volta e’ fa una
esecuzione contra ad uno principe di
quel regno, e che ei condanna il re
nelle sue sentenze. Ed infino a qui si è
mantenuto per essere stato uno ostinato
esecutore contra a quella nobiltà : ma
qualunque volta e’ ne lasciasse alcuna
impunita, c che le venissino a multi-
plicare, senza dubbio ne nascerebbe o
che le si arebbono a correggere con
disordine grande, o che quel regno si
risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non
esser cosa più necessaria in un vivere
comune, o setta o regno o repubblica
che sia, che rendergli quella riputazione
ch’egli aveva ne’ princi pii suoi; ed in-
gegnarsi che siano ol gli ordini buoni
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534 DEI DISCORSI
O i buoni uomini che facciano questo
effetto, e non l’ abbia a fare una for/.a
estrinseca. Perchè, ancora che qualche
volta la sia ottimo rimedio, come fu a
Roma, ella è tanto pericolosa, che non
è in modo alcuno da disperarla. E per
dimostrare a qualunque, quanto le azioni
degli uomini particolari facessino grande
Roma, e causassimo in quella città molti
buoni effetti, verrò alla narrazione e is-
corso di quelli: intra i termini de qua I.
questo terzo libro ed ultima parte d.
questa prima Deca si conchiudera. E
benché le azioni degli re bissino grand,
e notabili, nondimeno, dichiarandole la
istoria diffusamente, le lasceremo indie-
tro; nè parleremo altrimenti di loro,
eccetto che di alcuna cosa che «vessino
operata appartenente alti loro privat,
comodi ; e coniincierenci da BiutOj pa
drc della romana libertà.
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LIBRO TERZO.
535
Cap. FI. — Come gli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudenti1, -
nè tanto stimato savio, per alcuna sua
egregia operazione, quanto merita d’ es-
ser tenuto lunio Bruto nella sua simu-
lazione della stultizia. Ed ancora che
Tito Livio non esprima altro che una
cagione che Io inducesse a tale simula-
zione, quale fu di potere più sicura-
mente vivere, e mantenere il patrimonio
suo; nondimanco, considerato il suo
modo di procedere, si può credere che
simulasse ancora questo per essere man-
co osservato, ed avere più comodità di
opprimere i re e di liberare la sua pa-
tria, qualunque volta gliene fussc data
occasione. E che pensasse a questo, si
vide, prima, nello interpretare l’oracolo
di Apolline, quando simulò cadere per
baciare la terra, giudicando per quello
aver favorevoli gli Dii ai pensieri suoi;
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DEI DISCORSI
536
e dipoi, quando sopra la moria Lucre-
zia, inira il padre ed il marito ed altri
parenti di lei, ei fu il primo a trarle il
coltello dalla ferita, e far giurare ai
circonstanli, che mai sopporterebbono
che per lo avvenire alcuno regnasse in
Roma. Dallo essempio di cgsIuì hanno
ad imparare tutti coloro che sono mal-
contenti d’ uno principe; e debbono pri-
ma misurare e pesare le forze loro, e
se sono si potenti che possino scoprirsi
suoi nimici e fargli apertamente guerra,
debbono entrare per questa via, come
manco pericolosa e più onorevole. Ma
se sono di qualità che a fargli guerra
aperta le forze loro non bastino, deb-
bono con ogni industria cercare di far-
segli amici ; cd a questo effetto, entrare
per tutte quelle vie che giudicano esser
necessarie, seguendo i piaceri suoi, e
pigliando diletto di tutte quelle cose che
veggono quello dilettarsi. Questa dipie-
sticliezza, prima, ti fa vivere sicuro; e,
senza portare alcun pericolo, ti fa go-
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LIBRO TERZO.
Ó37
derc la buona fortuna di quel principe
insieme con esso lui, e ti arreca ogni
comodità di satisfare all* animo tuo. Vero
è ebe alcuni dicono che si vorrebbe con
gli principi non stare sì presso che la
rovina loro ti coprisse, nè sì discosto
che rovinando quelli tu non fussi a
tempo a salire sopra la rovina loro: la
qual via del mezzo sarebbe la più vera,
quando si potesse conservare; ma per-
chè io credo che sia impossibile, con-
viene ridursi ai duoi modi soprascritti,
cioè di allargarsi o di stringersi con
loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo per
le qualità sue notabile, vive in conti*
novo pericolo. Nè basta dire: io non mi
curo d’ alcuna cosa, non desidero nè
onori nè utili, io mi voglio vivere quie-
tamente e senza briga; perchè queste
scuse sono udite e non accettate : nè
possono gii uomini che hanno qualità
eleggere lo starsi, quando bene lo eleg-
gessino veramente e senza alcuna am-
bizione, perchè non è loro creduto ; tal-
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DEI DISCORSI
538
chè se si vogliono star loro, non sono
lasciati stare da altri. Conviene adun-
que fare il pazzo, come Bruto ; ed assai
si fa il matto, laudando, parlando, veg-
gendo, faccendo cose eontra all* animo
tuo, per compiacere al principe. E poi-
ché noi abbiamo parlato della prudenza
di questo uomo per ricuperare la li-
bertà di Roma, parleremo ora della sua
severità in mantenerla.
Cap. HI. — Come egli è necessariOj a
voler mantenere una libertà acquistata
di nuovo 9 ammazzare i figliuoli di
Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la
severità di Bruto nel mantenere in Roma
quella libertà che egli vi aveva acqui-
stala ; la quale è di un essempio raro
in tutte le memorie delle cose: vedere
il padre sedere prò tribunali, e non
solamente condennare i suoi figliuoli a
morte, ma esser presente alla morte
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LIBRO TERZO.
539
loro. E sempre si conoscerà questo per
coloro che le cose antiche leggeranno:
come dopo una mutazione di Stato, o
da repubblica in tirannide o da tiran-
nide in repubblica, è necessaria una
esecuzione memorabile contra a’ nimici
delle condizioni presenti. E chi piglia
una tirannide e non ammazza Bruto, e
chi fa uno Stato libero e non ammazza
i figliuoli di Bruto, si mantiene poco
tempo. E perchè di sopra è discorso
questo luogo largamente, mi rimetto a
quello che allora se ne disse: solo ci
addurrò uno essempio stato ne’ dì no-
stri, e nella nostra patria memorabile.
E questo è Piero Soderini, il quale si
credeva con la pazienza e bontà sua
superare quello appetito che era ne’ fi-
gliuoli di Bruto di ritornare sotto un
altro governo, e se ne ingannò. E ben-
ché quello, per la sua prudenza, cono-
scesse questa necessità J e che la sorte
e la ambizione di quelli che lo urtava-
no, gli desse occasione a spegnerli ; non-
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540
DEI DISCORSI
dimeno non volse mai Y animo a farlo.
Perchè, oltre al credere di potere con
la pazienza e con la bontà estinguere i
mali umori, e con i premi verso qual-
cuno consumare qualche sua inimicizia;
giudicava (e molte volle ne fece con gli
amici fede) che a volere gagliardamente
urtare le sue opposizioni, e battere i
suoi avversari, gli bisognava pigliare
straordinaria autorità, e rompere con
le leggi la civile equalità : la qualcosa,
ancora che dipoi non fusse da lui usata
tirannicamente, arebbe tanto sbigottito
I’ universale, che non sarebbe mai poi
concorso dopo la morte di quello a ri-
fare un gonfaloniere a vita; il quale
ordine egli giudicava fusse bene uugu-
mentarc c mantenere. Il quale rispetto
era savio e buono : nondimeno, e’ non
si debbe mai lasciare scorrere un male
rispetto ad un bene, quando quel bene
facilmente possa essere da quel male
oppressalo. E doveva credere che, aven-
dosi a giudicare* Y opere sue c la in-
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LIBRO TERZO.
541
tenzione sua dal One, quando la fortuna
e la vita lo avesse accompagnato, che
poteva certificare ciascuno, come quello
aveva fatto, era per salute della patria,
e non per ambizione sua ; e poteva re-
golare le cose in mòdo, che un suo suc-
cessore non potesse fare per male quello
che egli avesse fatto per bene. Ma lo
ingannò la prima oppinione, non cono-
scendo che la malignità non è doma da
tempo, nè placata da alcun dono. Tanto
che, per non sapere somigliare Bruto,
ei perde, insieme con la patria sua, lo
Stato e la riputazione. E come egli è
cosa difficile salvare uno Stato libero,
cosi è difficile salvarne un regio; come
nel seguente capitolo si mostrerà.
Cap. IV. - — Non vive sicuro un prin-
cipe in un principato, mentre vivono
coloro che ne sono stati spogliali.
La morte di Tarquinio Prisco causata
dai figliuoli di Anco, e la morte di Ser-
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DEI DISCORSI
542
vio Tulio causata da Tarquinio Super-
bo, mostra quanto difficile sia e peri-
coloso spogliar uno del regno, e quello
lasciar vivo, ancora che cercasse con
meriti guadagnarselo. E vedesi come
Tarquinio Prisco fu ingannato da pa-
rergli possedere quel regno giuridica-
mente, essendogli stato dato dal Popolo,
e confermato dal Senato: nè credette
che nei figliuoli di Anco potesse tanto
lo sdegno, che non avessino a conten-
tarsi di quello che si contentava tutta
Roma. E Servio Tulio s’ ingannò, cre-
dendo potere con nuovi meriti guada-
gnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodo-
ché, quanto al primo, si può avvertire
ogni principe, che non viva mai sicuro
del suo principato, finché vivono coloro
che ne sono stati spogliati. Quanto al
secondo, si può ricordare ad ogni po-
tente, che mai le ingiurie vecchie non
furono cancellate da’ benefizi nuovi; e
tanto meno, quanto il benefizio nuovo
è minore che non è stata l’ingiuria. E
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LIBRO TERZO.
5 43
senza dubbio, Servio Tulio fu poco pru-
dente a credere che i figliuoli di Tar-
quinio fussino pazienti ad esser generi
di colui di chi e’ giudicavano dovere es-
sere re. E questo appetito del regnare
è tanto grande, che non solamente en-
tra nei petti di coloro a chi s’ aspetta
il regno, ma di quelli a chi non s’ aspet-
ta: come fu nella moglie di Tarquinio
giovine, figliuola di Servio; la quale,
mossa da questa rabbia, coutra ogni
pietà paterna, mosse il marito contro al
padre a torgli la vita ed il regno: tanto
stimava più essere regina, che figliuola
di re ! Se, adunque, Tarquinio Prisco e
Servio Tulio perdettono il regno per
non si sapere assicurare di coloro a
chi ei l’ avevano usurpato, Tarquinio
Superbo lo perdè per non osservare gli
ordini degli antichi re; come nel se-
guente capitolo si mostrerà.
i*-
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544
Dei DISCORSI
Cap. V. — Quello che fa perdere uno
regno ad uno re che sia ereditario
di quello.
Avendo Tarquinio Superbo morto Ser-
vio Tulio, e di lui non rimanendo eredi,
veniva a possedere il regno sicuramen-
te, non avendo a temere di quelle cose
che avevano offeso i suoi antecessori. E
benché il modo dell’ occupare il regno
fusse stato istraordinario ed odioso;
nondimeno, quando egli avesse osservato
gli antichi ordini degli altri re, sarebbe
stato comportato, nè si sarebbe conci-
tato il Senato e la Plebe contra di lui
per torgli lo Stato. Non fu, adunque,
costui cacciato per aver Sesto suo figliuo-
lo stuprata Lucrezia, ma per aver rotte
le leggi del regno, e governatolo tiran-
nicamente; avendo tolto al Senato ogni
autorità, e ridottola a sé proprio; e
quelle faccende che nei luoghi pubblici
con satisfazione del Senato romano si
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LIBRO TERZO.
545
facevano, le ridusse a fare nel palazzo
suo con carico ed invidia suo ; talché
in breve tempo egli spogliò Roma di
tutta quella libertà cl»’ ella aveva sotto
gli altri Re mantenuta. Nò gli bastò
farsi nimici i Padri, che si concitò an-
cora contra la Plebe, affaticandola in
cose meccaniche, e tutte aliene da quello
a che P avevano adoperata i suoi ante-
cessori: talché, avendo ripiena Roma di
essempi crudeli e superbi, aveva dispo-
sti già gli animi di tutti i Romani alla
ribellione, qualunque volta ne avessino
occasione. E se lo accidente di Lucrezia
non fusse venuto, come prima ne fussc
nato un altro, arebbe partorito il me-
desimo effetto. Perchè, se Tarquinio
fusse vissuto come gli altri Re, e Sesto
suo figliuolo avesse fatto quello errore,
sarebbero Bruto e Collatino ricorsi a
Tarquinio per la vendetta contru a Se-
sto, e non al Popolo romano. Soppino
adunque i principi, come a quella ora
e* cominciano a perdere lo Stato, eh’ ei
Machi stelli, Discorsi. — 1.
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546
DEI DISCORSI
cominciano a rompere le leggi, e quelli
modi e quelle consuetudini che sono
antiche, e sotto le quali gli uomini lungo
tempo sono vivuti. E se privati di’ ei
sono dello Stato, e' diventassino mai
tanto prudenti, che conoscessino con
quanta facilità i principati si tenghino
da coloro che saviamente si consiglia-
no; dorrebbe molto più loro tal perdi-
ta, ed a maggiore pena si condanne-
rebbono, che da altri fussino condan-
nati. Perchè egli è molto più facile es-
sere amato da’ buoni che dai cattivi, ed
ubbidire alle leggi che volere comandare
loro. E volendo intendere il modo aves-
sino a tenere a fare questo, non hanno
a durare altra fatica che pigliare per
loro specchio la vita dei principi buo-
ni; come sarebbe Tiinoleone Corintio,
Arato Sicioneo, e simili: nella vita
de’ quali ei troveranno tanta sicurtà e
tanta «atisfazione di chi regge e di chi
è retto, che doverrebbe venirgli voglia
di imitargli, potendo facilmente, per le
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LIBRO TERZO.
547
ragioni dette, farlo. Perchè gli uomini,
quando sono governati bene, non cer-
cano uè vogliono altra libertà : come
intervenne ai popoli governati dai duoi
prenominati ; che gli costrinsono ad es-
sere principi mentre che vissono, ancora
che da quelli più volte fusse tentato di
ridursi in vita privata. E perchè in que-
sto, e ne' duoi antecedenti capitoli, si è
ragionato degli umori concitati contra
a' principi, e delle congiure fatte dai
figliuoli di Bruto contra alla patria, e
di quelle fatte contra a Tarquinio Pri-
sco ed a Servio Tulio; non mi pare
cosa fuori di proposito, nel seguente
capitolo, parlarne diffusamente, sendo
materia degna di essere notata dai prin-
cipi e dai privati.
Cap. VI. — Delle congiure.
E' non mi è parso da lasciare indie-
tro il ragionare delle congiure, essendo
cosa tanto pericolosa ai principi ed ai
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DEI DISCORSI
548
privali ; perché si vede per quelle molli
più principi aver perduta la vita e lo
Stato, die per guerra aperta. Perchè il
poter fare aperta guerra con un prin-
cipe, è conceduto a pochi ; il potergli
congiurar contra, è conceduto a ciascuno'
DalP altra parte, gli uomini privati non
entrano in impresa più pericolosa nè
più temeraria di questa; perchè la è
difficile e pericolosissima in ogni sua
parte. Donde ne nasce, che molte se ne
tentano, e pochissime hanno il line de-
siderato. Acciocché, adunque, i principi
imparino a guardarsi da questi pericoli,
e che i privati più timidamente vi si
niellino; anzi imparino ad esser contenti
a vivere sotto quello imperio che dalla
sorte è stato loro preposto; io ne par-
lerò diffusamente, non lasciando indietro
alcun caso notabile in documento del-
1’ uno e dell’ altro. E veramente, quella
sentenza di Cornelio Tacito è aurea,
che dice: che gli uomini hanno ad ono-
rare le cose passate, ed ubbidire alle
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LIBRO TLRZO.
549
presenti ; e debbono desiderare i buoni
principi, e comunque si siano fatti tol-
lerargli. E veramente chi fa altrimenti,
il più delle volte rovina sè e la sua
patria. Dobbiamo, adunque, entrando
nella materia, considerare prima contra
a chi si fanno le congiure; e troveremo
farsi o contra alla patria, o contra ad
uno principe; delle quali due voglio
che al presente ragioniamo; perchè di
quelle che si fanno per dare una terra
ai nimici che la assediano, o che abbino
per qualunque cagione similitudine con
questa, se, n’ è parlato di sopra a suf-
ficienza. E tratteremo in questa prima
parte di quelle contra al principe, e pri-
ma esamineremo le cagioni di esse: le
quali sono molte; ma una ne è impor-
tantissima più che tutte V altre. E que-
sta è l’essere odiato dall’universale;
perchè quel principe che si è concitato
questo universale odio, è ragionevole
che abbi de’ particolari i quali da lui
siano stati più offesi, e che desiderino
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550
DEI Disconsi
vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto
loro da quella mala disposizione univer-
sale, che veggono essergli concitata con-
tra. Debbe, adunque, un principe fug-
gire questi carichi pubblici : e come egli
abbia a fare a fuggirli, avendone altrove
trattato, non ne voglio parlare qui; per-
chè guardandosi da questo, le semplici
offese particolari gli faranno meno guer-
ra. L’ una, perchè si riscontra rade volte
in uomini che stimino tanto una ingiu-
rio, che si menino a tanto pericolo per
vendicarla; l’altra, che quando pur ei
lussino d’animo e di potenza da farlo,
sono ritenuti da quella benivolenza uni-
versale, che veggono avere ad uno prin-
cipe. Le ingiurie, conviene che siano
nella roba, nel sangue, o nell’onore. Di
quelle del sangue sono più pericolose le
minacce che la esecuzione; anzi, le mi-
nacce sono pericolosissime, e nella ese-
cuzione non vi è pericolo alcuno: perchè
chi è morto, non può pensare alla ven-
detta; quelli che rimangono vivi, il più
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LIBRO TERZO.
551
delle volte ne lasciano il pensiero al
morto. Ma colui che è minacciato, e che
si vede constretto da una necessità o di
fare o di patire, diventa un uomo pe-
ricolosissimo per il principe: come nel
suo luogo particolarmente diremo. Fuora
di queste necessità, la roba e l’onore
sono quelle due cose che offendono più
gii uomiui che alcun’ altra offesa, e dalle
quali il principe si debbe guardare : per-
chè e’ non può mai spogliare uno tanto,
che non gli resti un coltello da vendi-
carsi: non può mai tanto disonorare
uno, che non gli resti un animo ostinato
alla vendetta. E degli onori che si tol-
gono agli uomini, quello delle donne
importa più: dopo questo, il vilipendio
della sua persona. Questo armò Pausa-
sania contro a Filippo di Macedonia;
questo ha armato molti altri contra a
molti altri principi: e nei nostri tempi
Iulio Belanti non si mosse a congiurare
contra Pandolfo tiranno di Siena, se non
per avergli quello data, e poi tolta per
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DEI DISCORSI
5d“2
moglie una sua figliuola ; come nel suo
luogo diremo. La maggior cagione che
fece che i Pazzi congiurarono contea
a’ Medici, fu l’eredità di Giovanni Bon-
romei, la quale fu loro tolta per ordine
di quelli. Un’altra cagione ci è, e gran-
dissima, che fu gli uomini congiurare
contro al principe; la quale è il, disi-
derio di liberare la patria stata da
quello occupata. Questa cagione mosse
Bruto e Cassio contro a Cesare; questa
ha mosso molti altri contro ai Palali,
Dionisi, ed altri oceupatori della patria
loro. Nè può da questo umore alcuno
tiranno guardarsi, se non con diporre
la tirannide. E perchè non si truovu
alcuno che faccia questo, si truovauo
pochi che non capitino male; donde
nacque quel verso di Iuvenale:
« Adgcnerum Cereria sineccedeet vulnere parici
Descendunt reges, et sicca morte tiranni. »
1 pericoli che si portano, come io dissi
di sopra, nelle congiure, sono grandi,
portandosi per lutti i tempi; perchè in
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LIBRO TERZO.
5Ó3
tali casi si coire pericolo nel maneg-
giarli, nello eseguirli, ed eseguiti che
sono. Quelli che congiurano, o e’sono
uno, o e’ sono più. Uno non si può dire
che sia congiura, ma è una ferma dispo-
sizione nata in un uomo d’ ammazzare
il principe. Questo solo dei tre pericoli
che si corrono nelle congiure, manca
del primo; perchè innanzi alla esecu-
zione non porta alcun pericolo, non
avendo altri il suo segreto, nè portando
pericolo che torni il disegno suo all* orec-
chie del principe. Questa diliberazione
cosi fatta può cadere in qualunque uomo,
di qualunque sorte, piccolo, grande, no-
bile, ignobile, famigliare e non famiglia-
re al principe; perchè ad ognuno è le-
cito qualche volta parlargli; ed a chi è
lecito parlare, è lecito sfogare T animo
suo. Pausanio, del quale altre volte si è
parlato, ammazzò Filippo di Macedonia
che andava al tempio, con mille armati
d* intorno, ed in mezzo intra il figliuolo
ed il genero: ma costui fu nobile e co-
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554
DEI DISCORSI
gnito al principe. Uno Spagnuolo povero
ed abietto, dette una coltellata in su M
collo al re Ferrante, re di Spagna : non
fu la ferita mortale, ma per questo si
vidde che colui ebbe animo e comodità
a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco,
trasse d’ una scimitarra a Baisit, padre
del presente Turco: non lo ferì, ma ebbe
pur animo e comodità a volerlo fare.
Di questi animi «fatti cosi, se ne truo-
vano, credo, assai che lo vorrebbono
fare, perchè nel volere non è pena uè
pericolo alcuno ; ma pochi che lo facci-
no. Ma di quelli che lo fanno, pochis-
simi o nessuno che non siano ammaz-
zati in sul fatto: però non si truova chi
voglia andare ad una certa morte. Ma
lasciamo andare queste uniche volontà,
e veniamo alle congiure intra i più.
Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le con-
giure esser fatte da uomini grandi, o
famigliarissimi de! principe: perchè gli
altri, se non sono matti affatto, non pos-
sono congiurare ; perchè gli uomini de-
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LIBRO TERZO.
555
boli, e non famiglial i al principe, man-
cano di tutte quelle speranze e di tutte
quelle comodità che si richiede alla ese-
cuzione d’ una congiura. Prima, gli uo-
mini deboli non possono trovare riscon-
tro di chi tenga lor fede; perchè uno
non può consentire alla volontà loro,
sotto alcuna di quelle speranze che fa
entrare gli uomini ne’ pericoli grandi;
in modo che, come e’ si sono allargati
in due o in tre persone, e’ trovano lo
accusatore c rovinano: ma quando pure
ei fussino tanto felici che mancassino
di questo accusatore, sono nella esecu-
zione intorniati da tale difficultà, per
non aver V entrata facile al principe,
che gli è impossibile che in essa ese-
cuzione ei non rovinino. Perchè, se gli
uomini grandi, e che hanno Y entrata
facile, sono oppressi da quelle difficultà.
che di sotto si diranno, conviene che in
costoro quelle difficultà senza fine crc-
schino. Pertanto gli uomini (perchè dove
ne va la vita e la roba non sono al tutto
%
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DEI DISCORSI
556
insani), quando si veggono deboli, se ne
guardano; e quando egli hanno a noia
un principe, attendono a biastemmarlo,
cd aspettano che quelli che hanno mag-
giore qualità di loro, gli vendichino. E
se pure si trovasse che alcuno di que-
sti simili avesse tentato qualche cosa, si
debbe laudare in loro la intenzione, e
non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli
che hanno congiurato, essere stali tutti
uomini grandi, o famiglial i del princi-
pe; de’ quali molti hanno congiuralo,
mossi cosi da troppi benefìzi, come
dalle troppe ingiurie: come fu Peren-
nio contra a Commodo, Plauziano con-
tro a Severo, Sciano contra a Tiberio.
Costoro tutti furono dai loro imperadori
con stituiti in tanta ricchezza, onore e
grado, che non pareva che mancasse
loro alla perfezione della potenza altro
che l’ imperio; e di questo non volendo
mancare, si missono a congiurare con-
ila al principe: ed ebbono le loro con-
giure tutte quel fine che meritava la
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LIBRO TERZO.
557
loro ingratitudine; ancora che di que-
ste simili ne’ tempi più freschi ne avesse
buon fine quella di Iacopo d’Appiano
contra a messer Piero Gambacorti, prin-
cipe di Pisa : il quale Iacopo, allevato e
nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse
poi lo Stato. Fu di queste quella del
Coppola, ne’ nostri tempi, contra al re
Ferrando d' Aragona ; il quale Coppola
venuto a tanta grandezza che non gli
pareva gli mancasse se non il regno,
per volere ancora quello, perde la vita.
E veramente, se alcuna congiura contra
a’ principi fatta da uomini grandi do-
vesse avere buon fine, doverrebbé es-
sere questa; essendo fatta da un altro
re, si può dire, e da chi ha tanta co-
modità di adempire il suo desiderio:
ma quella cupidità del dominare che
gli accieca, gli accieca ancora nel ma-
neggiare questa impresa ; perchè, se
sapessino fare questa cattività con pru-
denza, sarebbe impossibile non riuscisse
loro. Debbe, adunque, un principe che
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DEI DISCORSI
558
si vuole guardare dalie congiure, temere
più coloro a chi egli ha fatto troppi
piaceri, che quelli a chi gli avesse fatte
troppe ingiurie. Perchè questi mancano
di comodità, quelli ne abbondano; e la
voglia è simile, perchè gli è così grande
o maggiore il desiderio del dominare,
che non è quello della vendetta. Deb-
bono, pertanto, dare tanta autorità agli
loro amici, che da quella al principato
sia qualche intervallo, e che vi sia in
mezzo qualche cosa da disiderare: al-
trimenti, sarà coso rara se non inter-
verrà loro come ai principi soprascritti.
.Ma torniamo all’ ordine nostro. Dico,
che avendo ad esser quelli che congiu-
rano uomini grandi, e che abbino l’adito
facile al principe, si ha a discorrere i
successi di queste loro imprese quali
siano stati, e vedere la cagione che gli «
ha fatti essere felici ed infelici. E come
io dissi di sopra, ci si trovano dentro
in tre tempi, pericoli: prima, in su ’l
fatto, e poi. Però se ne trovano poche
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LIBRO TERZO. 559
che abbiano buono esito, perchè gli è
impossibile quasi passargli tutti felice-
mente. E cominciando a discorrere i
pericoli di prima, che sono i più impor-
tanti; dico, come e’ bisogna essere molto
prudente, ed avere una gran sorte, che
nel maneggiare una congiura la non si
scuopra. E si scuoprono o per relazio-
ne, o per coniettura. La relazione nasce
da trovare poca fede, o poca prudenza,
negli uomini con chi tu la comunichi.
La poca fede si truova facilmente, per-
chè tu non puoi comunicarla se non
con tuoi fidati, che per tuo amore si
mettino alla morte, o con uomini che
siano malcontenti del principe. De’ fidati
se ne potrebbe trovare uno o due; ma
come tu Li distendi in molti, è impos-
sibile gli truovi: dipoi, c’bisogna bene
che la benevolenza che ti portano sia
grande, a volere che non paia loro mag-
giore il pericolo e la paura della pena.
Dipoi gli uomini s' ingannano il più
delle volte dello amore che tu giudichi
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DEI DISCORSI
500
che un uomo ti porti, nè le ne puoi
mai assicurare, se tu non ne fai espe-
rienza: e farne esperienza in questo è
pericolosissimo: e sebbene he avessi fatto
esperienza in qualche altra cosa perico-
losa dove e’ ti fussono stali fedeli, non
puoi da quella fede misurare questa,
passando questa di gran lunga ogni al-
tra qualità di pericolo. Se misuri la fede
dalla mala contentezza che uno abbia
del principe, in questo tu ti puoi facil-
mente ingannare: perchè subito che tu
hai manifestato a quel malcontento l’ani-
mo tuo, tu gli dai materia di conten-
tarsi, e convien bene o che 1’ odio sia
grande, o che 1’ autorità tua sia gran-
dissima a mantenerlo in fede. Di qui
nasce che assai ne sono rivelate ed
oppresse ne’ primi principii loro; e che
quando una è stata infra molti uomini
segreta lungo tempo, è tenuta cosa mi-
racolosa: come fu quella di Pisone con-
tea a Nerone, e ne' nostri tempi quella
de’ Pazzi conira a Lorenzo e Giuliano
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LIBRO TERZO.
561
de' Medici; delle quali erano consapevoli
più clic cinquanta uomini, c condus-
sonsi alla esecuzione a scoprirsi. Quanto
a scoprirsi per poca prudenza, nasce
quando uno congiurato ne parla poco
cauto, in modo che un servo o altra
terza persona intenda; come intervenne
ai figliuoli di Bruto, che nel maneggiare
la cosa con i legali di Tarquinio, fu-
rono intesi da un servo, che gli accusò:
ovvero quando per leggerezza ti viene
comunicala a donna o a fanciullo che
tu ami, o a simile leggieri persona ;
come fece Dinno, uno de* congiurati con
Filota centra ad Alessandro Magno, il
quale comunicò la congiura a Nicomaco
fanciullo amato da lui, il quale subito
lo disse a Ciballino suo fratello, e Ci-
bullino al re. Quanto a scoprirsi per
conieltura, ce tf è in essempio la con-
giura Pisoniana conira a Nerone; nella
quale Scevino, uno de’ congiurati, il dì
dinanzi eh’ egli aveva ad ammazzare
Nerone, fece testamento, ordinò che Me-
Machiavelli, Discorsi — i. 36
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562 DEI DISCORSI
lichio suo liberto facesse arrotare un
suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò
tutti i suoi servi e dette loro danari,
fece ordinare fasciature da legare ferite:
per le quali conietture accertatosi .Meli-
chio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu
preso Scevino, e con lui Natale, un altro
congiurato, i quali erano stati veduti
parlare a lungo e di segreto insieme il
di davanti; e non si accordando del
ragionamento avuto, furono forzati a
confessare il vero; talché la congiura
fu scoperta, con rovina di tutti i con-
giurati. Da queste cagioni dello scoprire
le congiure è impossibile guardarsi, che
per malizia, per imprudenza o per leg-
gerezza, la non si scuopra, qualunque
volta i conscii d’essa passano il numero
di tre o di quattro. E come e’ ne è preso
più che uno, è impossibile non riscon-
trarla, perchè due non possono esser
convenuti insieme di tutti i ragiona-
menti loro. Quando e’ sia preso solo
uno che sia uomo forte, può egli con la
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LIBRO TERZO.
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fortezza dello animo tacere i congiurati;
ina conviene che i congiurati non ab-
bino meno animo di lui a star saldi,
e non si scoprire con la fuga : perchè
da una parte che P animo manca, o da
chi è sostenuto o da chi è libero, la
congiura è scoperta. Ed è raro lo es-
sempio addotto da Tito Livio nella con-
giura fatta contra a Girolamo re di
Siracusa ; dove, sendo Teodoro uno de’
congiurati preso, celò con una virtù
grande tutti i congiurati, ed accusò gli
amici del re; e dall’altra parte, tulli i
congiurati confidarono tanto nella virtù
di Teodoro, che nessuno si parti di
Siracusa, o fece alcuno segno di timore.
Passasi, adunque, per tutti questi peri-
coli nel maneggiare una congiura in-
nanzi che si venga alla esecuzione
d'essa: i quali volendo fuggire, ci sono
questi rimedi. Il primo ed il più vero,
anzi a dir meglio, unico, è non dare
tempo ai congiurati di accusarti; e
perciò comunicare loro la cosa quando
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DEI DISCORSI
tu ia vuoi fare, e non prima: quelli
che hanno fatto cosi, fuggono al certo i
pericoli che sono nel praticarla, e il più
delle volte gli altri ; anzi hanno tutte
avuto felice fine: e qualunque prudente
arebbe comodità di governarsi in que-
sto modo, lo voglio che mi basti ad-
durre due essempi. Nelemato, non po-
tendo sopportare la tirannide di Ari-
slotimo tiranno di Epiro, ragunò in casa
sua molti parenti ed amici, e conforta-
togli a liberare la patria, alcuni di loro
chiesono tempo a deliberarsi ed ordi-
narsi; donde Nelemato fece a’ suoi servi
serrare la casa, ed a quelli che esso
aveva chiamati, disse: 0 voi giurerete
di andare ora a fare questa esecuzione,
o io vi darò tutti prigioni ad Aristoti-
mo. Dalle quali parole mossi coloro,
giurarono; ed andati senza intermissio-
ne di tempo, felicemente l’ ordine di
Nelemato eseguirono. Avendo un Mago,
per inganno, occupato il regno de’Persi,
ed avendo Orlano, uno de’grandi uomini
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LIBRO TERZO.
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del regno, intesa e scoperta la fraude,
lo conferì con sei altri principi di quello
Stato, dicendo come egli era da vendi-
care il regno dalla tirannide di quel
Mago; e domandando alcuno di loro
tempo, si levò Dario, uno de’ sei chia-
mati da Orlano, e disse: 0 noi andre-
mo ora a far questa esecuzione, o io vi
andrò ad accusar tutti. E così d’ac-
cordo levatisi, senza dar tempo ad al-
cuno di pentirsi, eseguirono felicemente
i disegni loro. Simile a questi duoi
essempi ancora è il modo che gli Etoli
tennero ad ammazzare Nabide, tiranno
spartano ; i quali mandarono Alessame-
no loro cittadino, con trenta cavalli e
dugento fanti, a Nabide, sotto colore di
mandargli aiuto; ed il segreto solamente
comunicarono ad Alessameno; ed agli
altri imposono che lo ubbidissino in
ogni e qualunque cosa, sotto pena di
esilio. Andò costui in Sparta, e non co-
municò mai la commissione sua se non
quando ei la voile eseguire: donde gli
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DEI DISCORSI
riusci d’ ammazzarlo. Costoro, adunque,
per questi modi hanno fuggiti quelli
pericoli che si portano ne! maneggiare
le congiure ; e chi imiterà loro, sempre
gli fuggirà. E che ciascuno possa fare
come loro, io ne voglio dare lo essein-
pio di Pisone, preallegato di sopra. Era
Pisone grandissimo e riputatissimo
uomo, e famigliare di Nerone, e in chi
egli confidava assai. Andava Nerone
ne’ suoi orli spesso a mangiare seco.
Poteva, adunque, Pisone farsi amici
uomini d’animo, di cuore, e di dispo-
sizione atti ad una tale esecuzione (il
che ad uno uomo grande è facilissimo);
e quando Nerone fusse stato ne* suoi
orti, comunicare loro la cosa, e con
parole convenienti inanimirli a far quello
che loro non avevano tempo a ricusa-
re, e che era impossibile che non riu-
scisse. E cosi, se si esamineranno tutte
1’ altre, si troverà poche non esser po-
tute condursi nel medesimo modo: ma
gli uomini per lo ordinario poco inten-
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LIBRO TERZO.
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denti delie azioni del mondo, spesso
fanno errori grandissimi, e tanto mag-
giori in quelle che hanno più dello
istraordinario, come è questa. Debbesi,
adunque, non comunicare mai la cosa
se non necessitato ed in sul fatto; e
se pure la vuoi comunicare, comunicala
ad un solo, del quale abbi fatto lun-
ghissima isperienza, o che sia mosso
dalle medesime cagioni che tu. Tro-
varne uno così fatto è molto più facile
che trovarne più, e per questo vi è
meno pericolo; dipoi, quando pure ei
ti ingannasse, vi è qualche rimedio a
difendersi, che non è dove siano con-
giurati assai: perchè da alcuno prudente
ho sentito dire che con uno si può par-
lare ogni cosa, perchè tanto vale, se tu
non ti lasci condurre a scrivere di tua
mano, il sì dell* uno quanto il no del-
l’altro; e dallo scrivere ciascuno debbe
guardarsi come da uno scoglio, perchè
non è cosa che più facilmente ti con-
vinca, che lo scritto di tua mano. Plau-
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568 DEI DISCORSI
ziano volendo fare ammazzare Severo
imperadore ed Antonino suo figliuolo,
commise la cosa a Saturnino tribuno;
il quale volendo accusarlo e non ubbi-
dirlo, e dubitando che venendo alla ac-
cusa non fusse più creduto a Plauziano
che a lui, gli chiese una cedola di sua
mano, che facesse fede di questa cora-
missione ; la quale Plauziano , acce-
cato dalla ambizione, gli fece: donde
seguì che fu dal tribuno accusato e
convinto ; e senza quella cedola, e
certi altri contrassegni, sarebbe stato
Plauziano superiore : tanto audacemente
negava. Truovasi, adunque, nella accusa
d’uno qualche rimedio, quando tu non
puoi esser da una scrittura, o altri
contrassegni, convinto: da che uno si
debbe guardare. Era nella congiura Pi-
soniana una femmina chiamata Epicari,
9tata per lo addietro amica di Nerone;
la quale giudicando che fusse a propo-
sito mettere tra i congiurati uno capi-
tano di alcune triremi che Nerone teneva
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LIBRO TERZO.
569
per sua guardia, gli coipunicò la con-
giura, ma non i congiurati. Donde, rom-
pendogli quel capitano la fede ed accu-
sandola a Nerone, fu tanta l’ audacia di
Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso
confuso, non la condennò. Sono, adun-
que, nel comunicare la cosa ad un solo
due pericoli : l’ uno, che non ti accusi in
pruova; l’altro, che non ti accusi con-
vinto e constretto dalla pena, sendo egli
preso per qualche sospetto o per qual-
che indizio avuto di lui. Ma nell’ uno e
nell’altro di questi duoi pericoli è qual-
che rimedio, potendosi uegare l’uno al-
legandone l’odio che colui avesse teco,
e negare l’altro allegandone la forza
che lo costringesse a dire le bugie. E,
adunque, prudenza non comunicare la
cosa a nessuno, ma fare secondo quelli
essenipi soprascritti; o quando pure la
comunichi, non passare uno, dove se è
qualche più pericolo, ve n’è meno assai
che comunicarla con molti. Propinquo
a questo modo è quando una necessità
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DEI DISCORSI
ti constringa a fare quello al principe
che tu vedi che '1 principe vorrebbe
fare a te, la quale sia tanto grande che
non ti dia tempo se non a pensare d’as*
sicurarti. Questa necessità conduce quasi
sempre la cosa al (ine disiderato: ed a
provarlo voglio bastino duoi essempi.
Aveva Commodo, imperadore, Leto ed
Eletto, capi de’ soldati pretoriani, intra
i primi amici e famigliaci suoi, ed aveva
Marzia intra le sue prime concubine ed
amiche; e perchè egli era da costoro
qualche volta ripreso de' modi con i
quali maculava la persona sua e lo im-
perio, deliberò di fargli morire, e scrisse
in su una lista: Marzia, Leto ed Eletto,
ed alcuni altri che voleva la notte se-
guente far morire; e questa lista messe
sotto il capezzale del suo letto. Ed essen-
do ito a lavarsi, un fanciullo favorito
di lui scherzando per camera e su pel
letto, gli venne trovata questa lista, ed
uscendo fuora con essa in mano, ri-
scontrò Marzia; la quale gliene tolse,
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LIBRO TERZO.
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e lettola, e veduto il contenuto d’essa,
subito mandò per Leto ed Eletto; e co-
nosciuto tutti tre il pericolo in quale
erano, diliberarono prevenire; e, senza
metter tempo in mezzo, la notte seguente
ammazzarono Commodo. Era Antonino
Caracalla, imperadore, con gli eserciti
suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo
prefetto Macrino, uomo più civile che
armigero; e, come avviene che. i prin-
cipi non buoni temono sempre che altri
non operi contra di loro quello che par
loro meritare, scrisse Antonino a Ma-
terniano suo amico a Roma, che inten-
desse dagli astrologi, se gli era alcuno
che aspirasse allo imperio, e gliene av-
visasse. Donde Materniano gli riscrisse,
come Macrino era quello che vi aspira-
• va; e pervenuta la lettera, prima alle
mani di Macrino che dello imperadore,
e per quella conosciuta la necessità o
d’ammazzare lui prima che nuova let-
tera venisse da Roma, o di morire,
commise a Marziale centurione, suo fida-
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DEI DISCORSI
lo, ed a chi Antonino aveva morto pochi
giorni innanzi un fratello, che lo am-
mazzasse: il che fu eseguito da lui fe-
licemente. Vedesi, adunque, che questa
necessità che non dà tempo, fa quasi
quel medesimo effetto che ’l modo da
me sopraddetto che tenne Nelemato di
Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi
quasi nel principio di questo discorso,
come le minacce offendono più gii prin-
cipi, e sono cagione di più efficaci con-
giure che le offese : da che un principe
si debbe guardare; perchè gli uomini
si hanno o a carezzare, o assicurarsi di
loro, e non gli ridurre mai in termine
che gli abbino a pensare che bisogni
loro o morire, o far morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su
la esecuzione, nascono questi o da va-
riare l’ordine, o da mancare V animo
a colui che eseguisce, o da errore che
lo esecutore faccia per poca prudenza,
o per non dar perfezione alla cosa, ri-
manendo vivi parte di quelli che si di-
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LIBRO TERZO.
673
segnavano ammazzare. Dico, adunque,
come e' non è cosa alcuna che faccia
tanto sturbo o impedimento a tutte le
azioni degli uomini, quanto è in uno
instante, senza aver tempo, avere a va-
riare un ordine, e pervertirlo da quello
che si era ordinato prima. E se questa
variazione fa disordine in cosa alcuna,
lo fa nelle cose della guerra, ed in cose
simili a quelle di che noi parliamo; per-
chè in tali azioni non è cosa tanto ne-
cessaria a fare, quanto che gli uomini
fermino gli animi loro ad eseguire quella
parte che tocca loro; e se gli uomini
hanno volto la fantasia per più giorni
ad un modo e ad uno ordine, e quello
subito varii, è impossibile che non si
perturbino tutti, e non rovini ogni co-
sa; in modo ch'egli è meglio assai ese-
guire una cosa secondo l' ordine dato,
ancora che vi si vegga qualche incon-
veniente, che non è, per voler cancellare
quello, entrare in mille inconvenienti.
Questo interviene quando e’ non si ha
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• 574
DEI DISCORSI
tempo a riordinarsi; perchè quando si
ha tempo, si può 1’ uomo governare a
suo modo. La congiura de’ Pazzi contra
a Lorenzo e Giuliano de’ Medici, è nota.
L’ ordine dato era, che dessino desinare
al cardinale di San Giorgio, ed a quel
desinare ammazzargli: dove si era di-
stribuito chi aveva a ammazzargli, chi
aveva a pigliare il palazzo, e chi correre
la città e chiamare il popolo alla libertà.
Accadde che essendo nella chiesa catte-
drale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il
Cardinale ad uno offizio solenne, s’in-
tese come Giuliano la mattina non vi
desinava : il che fece che i congiurati
s’adunarono insieme,^ quello che gli
avevano a far in casa i Medici, dilibe-
rarono di farlo in chiesa. Il che venne
a perturbare tutto l’ordine; perchè Gio-
vambatista da Montesecco non volle con-
correre all’ omicidio, dicendo non lo co-
lere fare in chiesa: talché gli ebbono a“
mutare nuovi ministri in ogni azione; i
quali, non avendo tempo a fermare l’ani-
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LIBRO TERZO.
575
mo, feci ono tali errori, che in essa ese-
cuzione furono oppressi. Manca l’animo
a chi eseguisce, o per riverenza, o per
propria viltà dello esecutore, lì) tanta la
maestà e la riverenza che si tira dietro
la presenza d’uno principe, eh’ egli è fa-
cil cosa o che mitighi o ch’egli sbigot-
tisca uno esecutore. A Mario, essendo
preso da’ Minturnesi, fu mandato uno ser-
vo che lo ammazzasse ; il quale spaventato
dalla presenza di quello uomo e dalla me-
moria del nome suo divenuto vile, per-
de ogni forza ad ucciderlo. E se que-
sta potenza è in uno uomo legato e
prigione, ed affogato in la mala fortuna,
quanto si può temere che la sia mag-
giore in un principe sciolto, con la
maestà degli ornamenti, della pompa c
della comitiva sua? talché ti può questa
pompa spaventare, o vero con qualche
grata accoglienza raumiliare. Congiura-
rono alcuni contro a Sitalce re di Tra-
cia; deputarono il dì della esecuzione;
convennono al luogo deputato, dov’ era
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576 DEI DISCORSI
il principe; nessuno di loro si mosse
per offenderlo: Unto che si partirono
senza aver tentato alcuna cosa e senza
sapere quello che se gli avesse impediti;
ed incolpavano 1’ uno 1’ altro. Caddono
in tale errore più volte ; tanto che sco-
pertasi la congiura, portarono pena di
quel male che poterono e non volleno
fare. Congiurarono contra Alfonso duca
di Ferrara due suoi fratelli, ed usarono
mezzano Giennes prete e cantore del
duca; il quale più volte a loro richiesta,
condusse il duca fra loro, talché gli
avevano arbitrio di ammazzarlo. Nondi-
meno, mai nessuno di loro non ardì di
farlo; tanto che scoperti, portarono la
pena della cattività e poca prudenza
loro. Questa negligenza non potette na-
scere da altro, se non che convenne o
che la presenza gli sbigottisse o che
qualche umanità del principe gli umi-
liasse. Nasce in tali esecuzioni inconve-
niente o errore per poca prudenza, o
per poco animo; perchè V una e 1’ altra
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LIBRO TERZO.
577
di queste due cose ti ’nvasa, e, portato
da quella confusione di cervello, ti fa
dire e fare quello che tu non debbi. E
che gli uomini invasino e si confondino,
non lo può meglio dimostrare Tito Livio
quando descrive d’ Alessameno elolo,
quando ei volse ammazzare Nabide spar-
tano^ di che abbiamo di sopra parlato;
che, venuto il tempo della esecuzione,
scoperto che egli ebbe a’ suoi quello
che af aveva a fare," dice Tito Livio
queste parole: Collegi! et i psc animunij
confusimi tanice cogilatione rei. Perchè
gli è impossibile eh* alcuno, àncora che
di animo fermo, ed uso alla morte de-
gli uomini e ad operare il ferro, non
si confonda. Però si debbe eleggere uo-
mini sperimentati in tali maneggi, ed a
nessun altro credere, ancora che tenuto
animosissimo. Perchè, dello animo nelle
cose grandi, senza avere fatto isperien-
za, non sia alcuno che se ne prometta
cosa certa. Può, adunque, questa con-
fusione o farti cascare Panni di mano,
.Machiavelli, Discorsi. — 1. 37
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DEI DISCORSI
o farti dire cose che faccino il medesi-
mo effetto. Lucilla, sorella di Commodo,
ordinò che Quinziano lo ammazzasse.
Costui aspettò Commodo nella entrata
dello anfiteatro, c con un pugnale ignudo
accosta ndosegli, gridò: Questo ti manda
il Senato: le quali parole fecero che fu
prima preso eh’ egli avesse calato il
braccio per ferire. Messer Antonio da
Volterra, diputato, come di sopra si
disse, ad ammazzare Lorenzo de* Medici,
nello accostategli, disse: Ah traditore!
la qual voce fu la salute di Lorenzo, e
la rovina di quella congiura. Può non
si dare perfezione alla cosa, quando si
congiura contro ad un capo, per le ca-
gioni delle: ma facilmente non se le dà
perfezione quando si congiura contro a
due capi; anzi è tanto difficile, che gli
è quasi impossibile eli» la riesca. Per-
chè fare una simile azione in un mede-
simo tempo in diversi luoghi, è quasi
impossibile; perchè in diversi tempi
non si può fare, non volendo che l’una
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LIBRO TLRZO.
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guasti 1’ altra. In modo clic, se il con-
giurare contro ad uu principe è cosa
dubbia, pericolosa e poco prudente ;
congiurare contro a due, è al tutto vana
e leggieri. E se non fusse la riverenza
dello istorieo, io non crederei mai che
fusse possibile quello che Erodiano dice
di Plauziano, quando ei commise a Sa-
turnino centurione, che egli solo am-
mazzasse Severo ed Antonino, abitanti
in diversi luoghi: perchè la è cosa tanto
discosto dal ragionevole, che altro che
questa autorità non me lo farebbe cre-
dere. Congiurarono certi giovani ateniesi
contra a Diocle ed Ippia, tiranni di
Alene. Ammazzarono Diocle; ed Ippia
che rimase, Io vendicò. Chione e Leo-
nide, eradensi e discepoli di Platone,
congiurarono contro a Clearco e Satiro,
tiranni: ammazzarono Clearco; e Satiro
che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, piu
volte da noi allegati, non successe di
ammazzare se non Giuliano. In modo
che, di simili congiure contro a più capi
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DEI DISCORSI
se ne dcbbe astenere ciascuno, perchè
non si fa bene nè a sè nè olla patria
nè ad alcuno: anzi quelli che riman-
gono , diventano più insopportabili c
più acerbi; come sa Firenze, Atene
ed Eraclea, state da ine preallegate.
È vero che la congiura clic Pelopida
fece per liberare Tebe sua patria ,
ebbe tutte le diffìcultù; nondimeno
ebbe felicissimo fine: perchè Pelopida
non solamente congiurò contra a due
tiranni, ma contra a dieci; non sola-
mente non era confidente e non gli era
facile 1’ entrata ai tiranni, ma era ri-
bello: nondimeno ei potè venire iti Te-
be, ammazzare i tiranni, e liberare la
patria. Pur nondimeno fece lutto, con
I’ aiuto d’ uno Carione, consigliere de’ ti-
ranni, dal quale ebbe 1’ entrata fucile
alla esecuzione sua. Non sia alcuno, non-
dimeno, che pigli lo essempio da co-
stui : perchè come la fu impresa impos-
sibile, e cosa maravigliosa a riuscire,
cosi fu ed è tenuta dagli scrittori i
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LIBRO TERZO.
581
quali la celebrano come cosa rara, e
quasi senza essempio. Può essere inter-
rotta tale esecuzione da una falsa im-
maginazione, o da uno accidente im-
provviso che nasca in su M fatto. La
mattina che Bruto e gli altri congiurati
volevano ammazzare Cesare, accadde, che
quello parlò a lungo con Gneo Popiiio
Cenate, uno de’ congiurati ; e vedendo
gli altri questo lungo parlamento, du-
bitarono che detto Popiiio non rivelasse
a Cesare la congiura. Furono per ten-
tare d* ammazzare Cesare quivi, e non
aspettare che fusse in Senato; ed areb-
bonlo fatto, se non che il ragionamento
fini, e visto non fare a Cesare moto
alcuno straordinario, si rassicurarono.
Sono queste false immaginazioni da con-
siderarle, ed avervi con prudenza ri-
spetto ; e tanto più, quanto egli è facile
ad averle. Perchè chi ha la sua con-
l|
scienza macchiata, facilmente crede che
si parli di lui: puossi sentire una pa-
rola detta ad un altro fine, che ti fac-
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DEI DISCORSI
h 8 2
eia perturbare t’ animo, e credere che
ia sia detta sopra il caso tuo; e farti
o con la fuga scoprire la congiura da
te, o confondere I' azione con accelerarla
fuora di tempo. E questo tanto più fa-
cilmente nasce, quanto ei sono molti ad
esser consci della congiura. Quanto agli
accidenti, perchè sono insperati, non si
può se non con gli essempi mostrargli,
e fare gli uomini cauti secondo quelli,
lulio Belanti da Siena, del quale di so-
pra abbiamo futto menzione, per lo
sdegno aveva contra a Pandolfo, che gli
aveva tolta la figliuola che prima gli
aveva data per moglie, deliberò d’ am-
mazzarlo, ed elesse questo tempo. An-
dava Pandolfo quasi ogni giorno a vi-
sitare un suo parente infermo, e nello
andarvi passava dalle case di lulio. Co-
stui adunque, veduto questo, ordinò
d* avere i suoi congiurali in casa ad
ordine per ammazzare Pandolfo nel pas-
sare ; e messisi dentro alP uscio armati,
teneva uno alla fenestra, che, passando
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LIBRO TERZO.
Ò.S3
Pandolfo, quando ci fosse slato presso
all’ uscio, facesse un cenno. Accadde che
venendo Pandolfo, ed avendo fallo colui
il cenno, riscontrò uno amico che Io
fermò; ed alcuni di quelli che erano con
lui, vennero a trascorrere innanti, e
veduto e sentito il rornore d’arme, sco-
persono l’agguato; in modo che Pan-
dolfo si salvò, e tulio coi compagni s’ eh*
bono a fuggire di Siena. Impedì quello
accidente di quello scontro quella azione,
e fece a Iulio rovinare la sua impresa.
Ai quali accidenti, perchè ei sono rari,
non si può fare alcuno rimedio. È ben
necessario esaminare tutti quelli che
possono nascere, e rimediarvi. Restaci,
*
al presente, solo a disputare de’ pericoli
che si corrono dopo la esecuzione : i
quali sono solamente uno; e questo è,
quando e’ rimane alcuno che vendichi
il principe morto. Possono rimanere,
adunque, suoi fratelli, o suoi figliuoli, o
altri aderenti, a chi s’ aspetti il prin-
cipato; e possono rimanere o per tua.
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DEI DISCORSI
584
negligenza, o per le cagioni dette di so-
pra, che faccino questa vendetta: come
intervenne a Giovannandrea da Lampo-
gnano, il quale, insieme con i suoi con-
giurati, avendo morto il duca di Mi-
lano, ed essendo rimaso uno suo figliuolo
c due suoi fratelli, furono a tempo a
vendicare il morto. E veramente, in
questi casi i congiurati sono scusati,
perchè non ci hanno rimedio; ma quando
ei ne ripiene vivo alcuno per poca pru-
denza, o per loro negligenza, allora è
che non meritano scusa. Ammazzarono
alcuni congiurati Forlivesi il conte Gi-
rolamo loro signore, presono la moglie,
cd i suoi figliuoli, che erano piccoli ; e
non parendo loro poter vivere sicuri se
non si insignorivano della fortezza, e
non volendo il castellano darla loro,
Madonna Caterina (che così si chiamava
la contessa) promise a’ congiurati, se la
lasciavano entrare in quella, di farla
consegnare loro, e che ritenessino ap-
presso di loro i suoi figliuoli per ista-
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LIBRO TERZO.
585
ticiii. Costoro sotto questa fede ve la la-
sciarono entrare ; la quale come fu den-
tro dalie mura rimproverò loro la morte
del marito, e minacciógli d’ ogni qua-
lità di vendetta. B per mostrare che
de’ suoi figliuoli non si curava, mostrò
loro le membra genitali, dicendo che
aveva ancora il modo a rifarne. Cosi
costoro, scarsi di consiglio e tardi av-
vedutisi del loro errore, con uno per-
petuo esilio patirono pene della poca
prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che
possono dopo la esecuzione avvenire,
non ci è il più certo, nè quello che sia
più da temere, che quando il popolo è
amico del principe che tu hai morto:
perchè a questo i congiurati non hanno
rimedio alcuno, perchè e’ non se ne pos-
sono mai assicurare. In essempio ci è
Cesare, il quale per avere il popolo di
Roma amico, fu vendicato da lui; per-
chè avendo cacciati i congiurati di Ro-
ma, fu cagione che furono tutti in vari
tempi e in vari luoghi ammazzati. Le
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DEI DISCORSI
586
congiure che si fanno contro alla patria
sono meno pericolose per coloro che le
fanno, che non sono quelle che si fanno
contro ai principi: perchè nel maneg-
giarle vi sono meno pericoli che in
quelle; nello eseguirle vi sono quelli
medesimi; dopo la esecuzione, non ve
li* è alcuno. Nel maneggiarle non vi è
pericoli molti: perchè un cittadino può
ordinarsi alia potenza senza manifestare
l’animo e disegno suo ad alcuno; e se
quelli suoi ordini non gli sono inter-
rotti; seguire felicemente I* impresa sua;
se gli sono interrotti con qualche legge,
aspettar tempo, ed entrare per altra via.
Questo s’ intende in una repubblica dove
è qualche parte di corruzione; perchè
iu una non corrotta, non vi avendo
luogo nessuno principio cattivo, non
possono cadere in un suo cittadino que-
sti pensieri. Possono, adunque, i cittadini
per molti mezzi e molte vie aspirare al
principato, dove ei non portano peri-
colo d’ essere oppressi: si perchè le re-
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LIBRO TERZO.
òhi
pubbliche sono più tarde che uno prin-
cipe, dubitano meno, e per questo sono
manco caute; sì perchè hanno più ri-
spetto ai loro cittadini grandi, e per
questo quelli sono più audaci e più
animosi a far loro contro. Ciascuno ha
letto la congiura di Catilina scritta da
Salustio, e sa come poi che la congiura
fu scoperta, Catilina non solamente stette
in Roma, ma venne in Senato, e disse
villania al Senato ed al Consolo: tanto
era il rispetto che quella città aveva ai
suoi cittadini. E partito che fu di Roma,
e eh’ egli era di già in su gli eserciti,
non si sarebbe preso Lentolo e quelli
altri, se non si fussero avute lettere di
lor mano che gli accusavano manifesta-
mente. Annone, grandissimo cittadino
in Cartagine, aspirando alla tirannide,
aveva ordinato nelle nozze d’ una sua
figliuola di avvelenare tutto il Senato,
e dipoi farsi principe. Questa cosa in-
tesasi, non vi fece il Senato altra prov-
visione che d’ una legge, la quale po-
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DEI DISCORSI
588
neva termine alle spese de’ conviti e
delle nozze: tanto fu il rispetto die gli
ebbero alle qualità sue. È ben vero, che
nello eseguire una congiura contra alla
patria, Vi è più difficoltà e maggiori
pericoli; perchè1 rade volte è che ba-
stino le tue forze proprie conspirando
contra u tanti; e ciascuno non è prin-
cipe d’ uno esercito, come era Cesare o
Agatocle o Cleomene e simili, che hanno
ad un tratto e con la forza occupata la
patria. Perchè a simili è la via assai
facile, ed assai sicura; ma gli altri che
non hanno tante aggiunte di forze, con-
viene che faccino la cosa o con inganno
ed arte, o con forze forestiere. Quanto
allo inganno ed all’arte, avendo Pisi-
strato ateniese vinti i Megarensi, e per
questo acquistata grazia nel popolo, uscì
una mattina fuori ferito, dicendo che
la nobiltà per invklia P aveva ingiuria-
to, e domandò di poter menare armati
seco per guardia sua. Da questa auto-
rità facilmente salse a tanta grandezza,
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• LIBRO TERZO.
589
che diventò tiranno d’ Alene. Pandolfo
Petrucci tornò con altri fuorusciti in
Siena, e gli fu data la guardia della
piazza in governo, come cosa meccanica,
e che gli altri rifiutarono; nondiinaneo
quelli armati, con il tempo, gli dierono
tanta riputazione, che in poco tempo
ne diventò principe. Molti altri hanno
tenute altre industrie ed altri modi, e
con ispazio di tempo e senza pericolo
vi si sono condotti. Quelli che con forza
loro, o con eserciti esterni, hanno con-
giurato per occupare la patria, hanno
avuti vari eventi, secondo la fortuna.
Catilina preallegato vi rovinò sotto. An-
none, di chi di sopra facemmo men-
zione, non essendo riuscito il veleno,
armò di suoi partigiani molte migliaia
di persone, e loro ed eglino furono mor-
ti. Alcuni primi cittadini di Tebe per
farsi tiranni chiamarono in aiuto uno
esercito spartano, e presono la tirannide
di quella città. Tanto che, esaminate
tutte le congiure fatte contro alla pa-
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DEI DISCORSI
590
Iria, non ne troverai alcuna, o poche,
che nel maneggiarle siano oppresse;
ma tutte q sono riuscite, o sono rovi-
nate nella esecuzione. Eseguite che le
sono, ancora non portano altri pericoli,
che si porti la natura del principato in
sé: perchè divenuto che uno è tiranno,
ha i suoi naturali ed ordinari pericoli
che gli arreca la tirannide, alli quali
non ha altri rimedi che di sopra si
siano discorsi. Questo è quanto mi è
occorso scrivere delle congiure; e se io
ho ragionato di quelle che si fanno con
il ferro, e non col veleno, nasce che
P hanno tutte un medesimo ordine. Vero
è che quelle del veleno sono più pe-
ricolose, per esser più incerte: per-
chè non si ha comodità per ognuno;
e bisogna conferirlo con chi la ha ; e
questa necessità del conferire ti fa pe-
ricolo. Dipoi, per molte cagioni, un be-
veraggio di veleno non può esser mor-
tale: come intervenne a quelli che am-
mazzarono Commodo, che, avendo quello
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LIBRO TERZO. 591
ributtato il veleno che gli avevano dato,
furono forzati a strangolarlo, se volleno
che morisse. Non hanno, pertanto, i
principi il maggiore nimico che la con*
giura ; perchè fatta che è una congiura
loro conira, o la gli ammazza, o la gli
infama. Perchè, se la riesce, e’ muoio-
no; se la si scopre, e loro ammazzino
i congiurati, si crede sempre che lu
sia stata invenzione di quel principe,
per isfogarc 1* avarizia e la crudeltà sua
conira al sangue ed alla roba di quelli
eh’ egli ha morti. Non voglio però man-
care di avvertire quel principe o quella
repubblica contra a chi fusse congiu-
rato, che abbino avvertenza, quando
una congiura si manifesta loro, innanzi
che faccino impresa di vendicarla, di
cercare ed intendere molto bene la qua-
lità di essa, e misurino bene le condi-
zioni de’ congiurati e le loro ; c quando
la truovino grossa e potente, non la
scuoprino mai, infimo a tanto che si
siano preparati con forze sufficienti ad
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DEI DISCORSI
592
opprimerla: altrimenti facendo, scopri-
rebbono la loro rovina. Però debbono
con ogni industria dissimularla, perchè
i congiurati veggendosi scoperti, cac-
ciati da necessità, operano sema ris-
petto. In esseinpio ci sono i Romani;
i quali aveudo lasciate due legioni di
soldati a guardia de’ Capovani contra
ai Sanniti, come altrove dicemmo, con-
giurarono quelli capi delle legioni in-
sieme di opprimere i Capovani: la qual
cosa intesasi a Roma, commessono a
Rutilio nuovo consolo che vi provve-
desse: il quale, per addormentare i con-
giurali, pubblicò come il Senato aveva
raffermo le stanze alle legioni capovane.
Il che credendosi quelli soldati, e pa-
rendo loro aver tempo ad eseguire il
disegno loro, non cercarono di accele-
rare la cosa ; e così stettono infino che
cominciarono a vedere che il Consolo
gli separava 1’ uno dull’ altro ; la qual
cosa generato in loro sospetto, fece che
si scopersono, e mandarono ad esecu-
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LIBRO TERZO.
503
zionc la voglia loro. Nè può essere
questo maggiore essempio nell’ una e nel-
Y altra parte: perchè per questo si vede,
quanto gli uomini sono lenti nelle cose
dove ei credono avere tempo; e quanto
ei sono presti dove la necessità gli cac-
cia. Nè può uno principe o una repub-
blica, che vuole differire lo scoprire una
congiura a suo vantaggio, usare ter-
mine migliore che offerire di prossimo
occasione con arte ai congiurati, accioc-
ché aspettando quella, o parendo loro
aver tempo, diano tempo a quello o a
quella a castigargli. Chi ha fatto altri-
menti, ha accelerato la sua rovina:
come fece il duca di Atene e Guglielmo
de* Pazzi. Il duca, diventato tiranno di
Firenze, ed intendendo essergli congiu-
rato contro, fece, senza esaminare altri-
menti la cosa, pigliare uno de’ congiu-
rali: il che fece subito pigliare V anni
agli altri e torgli lo Stato. Guglielmo,
sendo commessario in Val di Chiana
nel 1501, ed avendo inteso come in
SI achuvelii. Discorsi. — 1. 38
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DEI DISCOr.Si
59Ì
Arezzo erti congiura in favore de* Vi-
telli per tórre quella terra ai Fiorentini,
subito se uè andò in quella città, e
senza pensare alle forze de’ congiurati
o alle sue, e senza prepararsi di alcuna
forza, con il consiglio del Vescovo suo
figliuolo, fece pigliare uno de’ congiu-
rati: dopo la qual presura, gli altri
subito presono 1’ armi e tolseno In ter-
ra ai Fiorentini; e Guglielmo, di com-
tnessario, diventò prigione. Ma quando
le congiure sono deboli, si possono e
debbono senza rispetto opprimere. Non
è ancora da imitare in alcun modo duoi
termini usati, quasi contrari 1’ uno al-
I’ altro ; 1’ uno dal prenominato duca
d’ Atene, il quale, per mostrare di cre-
dere d’ avere la benivolenza de’ cittadini
fiorentini, fece morire uno che gli ma-
nifestò una congiura: l’altro da Dione
siracusano, il quale, per tentare 1’ animo
di alcuno ch’egli aveva a sospetto, con-
sentì a Callippo, nel quale ei confidava,
che mostrasse di fargli una congiura
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LIBRO TERZO.
595
contra. E tutti due questi capitarono
male: perchè l’uno tolse l’animo agli
accusatori, e dettelo a chi volse congiu-
rare: l’altro dette la via fucile alta
morte sua, anzi fu egli proprio capo
della sua congiura; come per isperienza
gli intervenne, perchè Callippo potendo
senza rispetto praticare contra a Dione,
praticò tanto, che gli tolse lo Stato e
la vita.
Cap. VII. — Donde nasce che le muta-
zioni dalla libertà alla servitù , e dalla
servitù alla libertàj alcuna n' è senza
sangue , alcuna n* è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca
che molte mutazioni che si fanno dalla
vita libera alla tirannica e per contra-
rio, alcuna se ne faccia con sangue, al-
cuna senza ; perchè, come per le istorie
si comprende, in simili variazioni alcuna
volta sono stali morti infiniti uomini,
alcuna volta non è stato ingiurialo al-
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596 DEI DISCORSI
cimo: come intervenne nella mutazione
clic fece Roma dai Re ai Consoli, dove
non furono cacciati altri die i Tarquini,
fuora delia offensione di qualunque altro.
Il che dipende da questo: perchè quello
stato che si muta, nacque con violenza,
o non ; e perchè quando e’ nasce con
violenza, conviene nasca con ingiuria di
molti, è necessario poi, nella rovina sua,
che gl’ ingiuriati si vogliono vendicare;
e da questo disiderio di vendetta nasce
il sangue e la morte degli uomini. Ma
quando quello stato è causato da uno
comune consenso di una universalità
che lo lia fatto grande, non ha cagione
i
poi, quando rovina detta universalità,
di offendere altri che il capo. E di que-
sta sorte fu lo stato di Roma e la cac-
ciata de* Tarquini; come fu ancora in
Firenze lo stato de* Medici, che poi nelle
rovine loro nel 1494, non furono offesi
altri che loro. E così tali mutazioni non
vengono ad esser molto pericolose : ma
son bene pericolosissime quelle che sono
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LIBRO TERZO.
597
fatte da quelli che si hanno a vendica-
re; le quali furono sempre mai di sorte,
da fare, non che altro, sbigottire chi
le legge. E perchè di questi essempi ne-
son piene l’ istorie, io le voglio lasciare
indietro.
Cap. Vili. — Chi vuole alterare una re-
pubblicaj debbo considerare il sogget-
to di quella.
E’ si è di sopra discorso, come un tri-
sto cittadino non può male operare in
una repubblica clic non sia corrotta : la
quale conclusione si fortifica, oltre alle
ragioni che allora si dissono, con l’es*
sempio di Spurio Cassio e di Manlio
Capitolino. 11 quale Spurio sendo uomo
ambizioso, e volendo pigliare autorità
istraordinaria in Roma, e guadagnarsi
la Plebe con il fargli molti benefizi, come
era di vendergli quelli campi che i Ro-
mani avevano tolti alt i Ernici; fu sco-
perta dai Padri questa sua ambizione,
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598
DEI DISCORSI
ed in tanto recata a sospetto, r:lie par-
lando egli al Popolo, ed offerendo dì
dargli quelli danari che s’ erano ritratti
de’ grani che il pubblico aveva fatti ve-
nire di Sicilia, al tutto gli recusò, pa-
rendo a quello che Spurio volesse dare
loro il pregio della loro libertà. Ma se
tal Popolo fusse stato corrotto, non areb-
be recusato detto prezzo, e gli arebbe
aperta alla tirannide quella via che gli
chiuse. Fa molto maggiore essempio di
questo, Manlio Capitolino ; perchè me-
diante costui si vede quanta virtù d’ani-
mo e di corpo, quante buone opere fatte
in favore della patria, cancella dipoi
una brutta cupidità di regnare: la quale,
come si vede, nacque in costui per la
invidia che lui aveva degli onori erano
fatti a Cammillo; e venne in tanta cecità
di niente, che nou pensando al modo
del vivere della città, non esaminando
il soggetto quale esso aveva, non atto
a ricevere ancora trista forma, si mise
a fare tumulti in Roma contra al Se-
Digi
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LIBRO TERZO.
59#
nato e con tra alle leggi patrie. Dove
si conosce la perfezione di quella città,
e la bontà della materia sua : perchè
nel caso suo nessuno della Nobiltà, an-
cora che fussino acerrimi difensori l’uno
deli’ altro, si mosse a favorirlo ; nessuno
de’ parenti fece impresa in suo favore:
e con gli altri accusati solevano com-
parire sordidati, vestiti di nero, tutti
mesti, per cattare misericordia in fa-
vore dello accusato; e con Manlio non
se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe,
che solevano sempre favorire le cose
che pareva venissino in benefizio del
Popolo ; e quanto erano più contra ai
Nobili, tanto piu le tiravano innanzi; in
questo caso si unirono coi Nobili, per
opprimere una comune peste. Il Popolo
di Roma, disiderosissimo dello utile pro-
prio, ed amatore delle cose che veniva-
no contra alla Nobiltà, avvenga clic
facesse a Manlio assai favori; nondi-
meno, come i Tribuni lo citarono, e che
rimessono la causa sua al giudizio del
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eoo
DEI DISCORSI
Popolo, quel Popolo, diventalo di difen*
sore giudice, sema rispetto alcuno lo
condennò a morte. Pertanto io non credo
che sia essempio in questa istoria più
atto a mostrare la bontà di tutti gli
ordini di quella Repubblica, quanto è
questo ; veggendo che nessuno di quella
città si mosse a difendere un cittadino
pieno d’ ogni virtù, e che pubblicamente
e privatamente aveva fatte moltissime
opere laudabili. Perchè in tutti loro potè
più T amore della patria, che nessuno
-altro rispetto; e considerarono molto
più ai pericoli presenti che da lui di-
pendevano, che ai meriti passati: tanto
che con la morte sua e’ si liberarono.
.E Tito Livio dice: Hunc ex itimi habuìt
vii', nisi in libera civilate natus esset,
memorabili Dove sono da considerare
due cose: P una, che per altri modi
s’ ha a cercare gloria in una città cor-
rotta, che in una che ancora viva poli-
ticamente; V altra (che è quasi quel me-
desimo che la prima) , che gli uomini
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LIBRO TERZO.
601
nel proceder loro, e tanto più nelle
azioni grandi, debbono considerare i
tempi, ed accomodarsi a quelli. E coloro
cbe, per cattiva elezione o per naturale
inclinazione, si discordano dai tempi,
vivono il più delle volte infelici, ed hanno
cattivo esito razioni loro; al contrario
Y hanno quelli cbe si concordano col
tempo. E senza dubbio, per le parole
preallegate dello istorico si può con-
chiudere, che se Manlio fusse nato ne’
tempi di Mario e di Siila, dove già la
materia era corrotta e dove esso arebbe
potuto imprimere la forma dell’ ambi-
zione sua, arebbe avuti quelli medesimi
seguiti e successi cbe Mario e Siila, e
gli altri poi, che dopo loro alla tiran-
nide aspirarono. Così medesimamente,
se Siila e Mario fussino stati ne’ tempi
di Manlio, sarebbero stati intra le prime
loro imprese oppressi. Perchè un uomo
può bene cominciare con suoi modi e
con suoi tristi termini a corrompere un
popolo di uno città, ma gli è impossi-
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602 DEI DISCOIISI
bile che la vita d* uno basti a corrom-
perla in modo che egli medesimo ne
possa trai* frutto; e quando bene e’fusse -
possibile con lunghezza di tempo che lo
facesse, sarebbe impossibile quanto al
modo del procedere degli uomini, che
sono impazienti, e non possono lunga-
mente differire una loro passione. Ap-
presso, s’ ingannano nelle còse loro, ecl
in quelle, massime, che disiderano assai:
talché, o per poca pazienza o per in-
gannarsene, entrerebbero in impresa
contea a tempo, e capiterebbero male.
Però è bisogno, a voler pigliare auto-
rità in una repubblica e mettervi trista
forma, trovare la materia disordinata
dal tempo, e che a poco a poco, e di
generazione in generazione, si sia con-
dotta al disordine: la quale vi si con-
duce di necessità, quando la non sia,
come di sopra si discorse, spesso rin-
frescata di buoni essempi, o con nuove
leggi ritirata verso i principii suoi. Sa-
rebbe, adunque, stato Manlio un uomo
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LIBRO TERZO.
603
raro e memorabile, se lusso nato in una
città corrotta. E però debbono i citta-
dini che nelle repubbliche fanno alcuna
impresa o in favore della libertà o in
favore della tirannide, considerare il
soggetto che eglino hanno, e giudicare
da quello la dilficultà delle imprese loro.
Perchè tanto è diffìcile e pericoloso voler
fare libero un popolo che voglia viver
servo, quanto è voler fare servo un po-
polo che voglia viver libero. E perchè
di sopra si dice, che gli uomini nello
operare debbono considerare la qualità
de’ tempi e procedere secondo quelli, ne
parleremo a lungo nel seguente capi-
tolo.
Cap. IX. — Come conviene variare coi
tempi , volendo sempre aver buona
fortuna.
Io ho considerato più volte come la
cagione della trista e della buona for-
tuna degli uomini è riscontrare il modo
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DEI DISCORSI
604
del procedere suo coi tempi: perché e’ si
vede che gli uomini nell’ opere loro pro-
cedono alcuni con impeto, alcuni con
rispetto e con cauzione. E perchè nel-
l’uno e nell’ altro di questi modi si pas-
sano i termini convenienti, non si po-
tendo osservare la vera via, nell’uno e
nell’ altro si erra. Ma quello viene ad
errar meno, ed avere la fortuna pro-
spera, che riscontra, come io ho detto,
con il suo modo il tempo, e sempre mai
si procede, secondo ti sforza la natura.
Ciascuno sa come Fabio Massimo proce-
deva con lo esercito suo rispettivamente
c cautamente, discosto da ogni impeto
e da ogni audacia romana; e la buona
fortuna fece, che questo suo modo ris-
contrò bene coi tempi. Perchè, sendo
venuto Annibaie in Italia, giovine e con
una fortuna fresca; ed avendo già rotto
il popolo romano due volte; ed essendo
quella repubblica priva quasi della sua
buona milizia, e sbigottita ; non potette
sortire miglior fortuna, che avere un
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LIBRO TERZO.
605
capitano il quale, con la sua tardità e
cauzione, tenesse a bada il nimico. Nè
ancora Fabio potette riscontrare tempi
più convenienti ai modi suoi: di che
nacque che fu glorioso. E che Fabio
facesse questo per natura e non per
elezione, si vede, che volendo Scipione
passare in Affrica con quelli eserciti
per ultimare la guerra, Fabio la con-
tradisse assai, come quello che non si
poteva spiccare dai suoi modi e dalla
consuetudine sua; talché, se fosse stato
, a lui, Annibaie sarebbe ancora in Italia,
come quello che non si avvedeva che
gli erano mutati i tempi, e che bisogna-
va mutar modo di guerra. E se Fabio
fusse stato re di Roma, poteva facil-
mente perdere quella guerra : perchè
non arebbe saputo variare col proce-
dere suo, secondo che variavano i tempi :
ma sendo nato in una repubblica dove
erano diversi cittadini e diversi umori,
come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne’
tempi debiti a sostenere la guerra, cosi
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606
DEI DISCORSI
ebbe poi Scipione ne’ tempi atti a vin-
cerla. Di qui nasce, che una repubblica
ha maggior vita, ed ha più lungamente
buona fortuna che un principato; per-
chè la può meglio accomodarsi alla di-
versità de’ temporali, per la diversità
de’ cittadini che sono in quella, che non
può un principe. Perchè un uomo che
sia consueto a procedere in un modo,
non si muta mai, come è detto; e con-
viene di necessità, quando si mutano i
tempi disformi a quel suo modo, che
rovini. Piero Soderini, altre volte preal-
legato, procedeva in tutte le cose sue
con umanità e pazienza. Prosperò egli
e la sua patria mentre che i tempi fu-
rono conformi al modo del proceder
suo: ma come vennero dipoiìempi dove
bisognava rompere la pazienza e 1’ umi-
lila, non lo seppe fare; talché insieme
con la sua patria rovinò. Papa lulio 11
procedette in tutto il tempo del suo pon-
tificato con impeto e con furia ; e per-
chè i tempi l’accompagnarono bene, gli
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LIBRO TERZO.
607
riuscirono le sue imprese tulle. Ma se
fossero venuti altri tempi che avessero
ricerco altro consiglio, di necessità ro-
vinava; perchè non arebbe mutato nè
modo nè ordine nel maneggiarsi. E clic
noi non ci possiamo mutare, ne sono
cagione due cose: V una, che noi non ci
possiamo opporre a quello a che c’ in-
clina la natura ; 1* altra, che avendo uno
con un modo di procedere prosperato
assai, non è possibile persuadergli che
possa far bene a procedere altrimenti:
donde ne nasce che in uno uomo la for-
tuna varia, perchè ella varia i tempi,
ed egli non varia i modi. Nascene an-
cora la rovina della città, per non
si variare gli ordini delle repubbliche
co’ tempi ; come lungamente di sopra dis-
corremmo : ma sono più tarde, perchè
le penano più a variare, perchè biso-
gna che venghino tempi che commovino
tutta la repubblica; a che un solo col
variare il modo del procedere non ba-
sta. E perchè noi abbiamo fatto inenzio-
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608 DEI DISCORSI
ne di Fabio Massimo che tenne a bada
* «
Annibale, mi pare da discorrere nel ca-
pitolo seguente, se un capitano, volendo
far la giornata in ogni modo col nimico,
può essere impedito da quello, che non
la faccia.
Cap. X. — Che un capitano non può
fuggire la giornata , quando V av-
versario la vuol fare in ogni moda.
Cncus Sulpitius Diclator advcrsus Gal-
lo s bcllum trahcbal, nolens se fot tunce
coturni Nere ad versus hostentj qucm lem-
pus dcteriorcm in dieSj et locus alte-
rnisi faccrct. Quando e’ seguita uno er-
rore dove lutti gli uomini o la maggior
parte s' ingannino, io non credo che sia
male molte volle riprovarlo. Pertanto,
ancora che io abbia di sopra più volte
mostro, quanto le azioni circa le cose
grandi siano disformi a quelle degli
antichi tempi, nondimeno non mi par
superfluo al presente replicarlo. Perchè,
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LIBRO TERZO.
609
se in alcuna parte si devia dagli anti-
chi ordini, si devia massime nelle azioni
militari, dove al presente non è osser-
vata alcuna di quelle cose che dagli an-
tichi erano stimate assai. Ed è nato
questo inconveniente, perchè, le repub-
bliche ed i principi hanno imposta que-
sta cura ad altrui; e per fuggire i pe-
ricoli, si sono discostati da questo eser-
cizio: e se pure si vede qualche volta
un re de’ tempi nostri andare in per -
sona, non si crede però che da lui na-
scano altri modi clic meritino più laude.
Perchè quello esercizio, quando pure Io
fanno, lo fanno a * pompa, e non per
alcuna altra laudabile cagione. Pure,
questi fatino minori errori rivedendo i
loro eserciti qualche volta in viso, te-
nendo appresso di loro il titolo del-
V imperio, che non fanno le repubbli-
che, e massime le italiane; le quali, *
fidandosi d’ altrui, nè s’ intendendo in
alcuna cosa di quello che appartenga
alla guerra; e dall’ altro canto, volendo,
Machiavelli, Discorsi. — 1. 39
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610
DEI DISCORSI
per parere d* essere loro il principe,
diliberarne, fanno in tale diliberazione
mille errori. E benché d’ alcuno ne abbi
discorso altrove, voglio al presente non
ne tacere uno importantissimo. Quando
questi principi ociosi, o repubbliche ef-
feminate, mandano fuori un loro capi-
tano, la più savia commissione che paia
loro darli, è quando gl* impongono che
per alcun modo non venga a giornata,
anzi sopra ogni cosa si guardi dalla
zuffa ; e parendo loro in questo imitare
la prudenza di Fabio Massimo, clic dif-
ferendo il combattere salvò lo Stato
a’ Romani, non intendono che la mag-
giore parte delle volte questa commis-
sione è nulla o è dannosa. Perchè si
debbe pigliare questa conclusione: che
un capitano che voglia stare alla cam-
pagna, non può fuggire la giornata
qualunche volta il nimico la vuole fare
in ogni modo. E non è altro questa
commissione che dire : fa* la giornata a
posta del nimico, e non a tua. Perchè
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LIBRO TERZO.
611
a volere stare in campagna, e non far
la giornata, non ci è altro rimedio si-
curo che porsi cinquanta miglia almeno
discosto al nimico; e dipoi tenere buone
spie, che venendo quello verso di te,
tu abbi tempo a discostarti. Uno altro
partito ci è; rinchiudersi in una città:
e P uno e P altro di questi due partiti
è dannosissimo. Nel primo si lascia in
preda il paese suo al nimico ; ed uno
principe valente vorrà più tosto tentare
la fortuna della zuffa, che allungare la
- guerra con tanto danno de’ sudditi. Nel
secondo partito è la perdita manifesta;
perchè conviene che, riducendoti con
uno esercito in una città, tu venga ad
essere assediato, ed in poco tempo pa-
tir fame, e venire a dedizione. Talché
fuggire la giornata per queste due vie,
è dannosissimo. Il modo che tenne Fa-
bio Massimo di stare ne’ luoghi forti, è
buono quando tu hai si virtuoso eser-
cito, che il nimico non abbia ardire di
venirti a trovare dentro a’ tuoi vantag-
612
DEI DISCORSI
gi. Nè si può dire che Fabio I
la giornata, ma più tosto che la
fare a suo vantaggio. Perchè s
buie fusse ilo a trovarlo, Fabio 1
aspettato, e fatto giornata se
Annibale non ardi mai di con
con lui a modo di quello. Tanti
giornata fu fuggita cosi da A
come da Fabio: ma se uno
l’ avesse voluta fare in ogni mo
Irò non vi aveva se non uno
rimedi; cioè i due sopraddetti
girsi. Clic questo eh’ io dico si
si vede manifestamente con n
sempi, e massime nella guerra
Romani feciono con Filippo di
nia, padre di Perse: perchè
seudo assaltato dai Romani,
non venire alla zuffa; e per nc
nire, volle fare prima come ave
Fabio Massimo in Italia; e si ;
suo esercito sopra la sommil
monte, dove si afforzò assai, giu
che i Romani non avessero ardii
V
LIBRO TER i£0 . 613
ilare a trovarlo. Ma andativi c combat-
tutolo, lo cacciarono di quel monte; ed
egli non potendo resistere, si fuggì con
la maggior parte delle genti. E quel
che lo salvò, che non fu consumato in
tutto, fu la iniquità del paese, qual fece
che i Romani non poterono seguirlo.
Filippo, adunque, non volendo azzuf-
farsi, ed essendosi posto con il campo
presso ai Romani, si ebbe a fuggire;
ed avendo conosciuto per questa espe-
rienza, come non volendo combattere,
non gli bastava stare sopra i monti, e
nelle terre non volendo rinchiudersi,
diliberò pigliare l’altro modo, di stare
discosto molte miglia al campo romano.
Donde, se i Romani erano in una pro-
vincia, ei se ne andava nell’altra; e
così sempre donde i Romani, partivano,
esso entrava. E veggendo, al fine, come
nello allungare la guerra per questa
via, le sue condizioni peggioravano, e
che i suoi soggetti ora da lui ora dai
minici erano oppressi, diliberò di ten-
t.
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j.
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614
DEI D1SC0RS
lare la fortuna della zu(¥
coi Romani ad una giori
utile, adunque, non comi
gli eserciti hanno queste
aveva 1’ esercito di Fabic
quello di Caio Sulpizio:
esercito sì buono, che il
disca venirti a trovare <
tezze tue ; e che il nimh
tua senza avere preso ir
ei patisca necessità del
questo caso il partito ut
gioni che dice Tito Li'
far lance commi lieve adì
quem lempus deteriorati
cus alicnuSj faccret. Ma
termine non si può fugg
se non con tuo disonore
che fuggirsi, come fece
essere rotto; e con più vi
meno s’ è fatto prova de
se a lui riuscì salvarsi, i
ad un altro che non fus
paese come egli. Che Ann
B
V
».
LIBRO TERZO. 615
»
maestro di guerra, nessuno mai non io
dirà ; ed essendo allo ’neontro di Sèi-
li*
pione in Affrica, s’egli avesse veduto
vantaggio in allungare la guerra, ei
Farebbe fatto; e per avventura, sendo
lui buon capitano, ed avendo buono
esercito, lo arebbe potuto fare, come
fece Fabio in Italia: ma non l’avendo
fatto, si debbe credere che qualche ca-
gione importante lo movesse. Perchè un
principe che abbi uno esercito messo
insieme, e vegga che per difetto di da- !>
nari o di amici ei non può tenere lun-
gamente tale esercito, è matto al tutto
se non tenta la fortuna innanzi che tale
esercito si abbia a risolvere: perchè
aspettando, ei perde al certo; tentando,
potrebbe vincere. Un’altra cosa ci è
ancora da stimare assai : la quale è,
che si debbe, eziandio perdendo, volere
acquistar gloria; e più gloria si ha ad
esser vinto per forza, che per altro in-
conveniente che t’abbia fatto perdere.
Sì che Annibaie doveva essere constretto
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GI6
dei niscons
«la queste necessità. E dì
Scipione, quando Anuiba
ferita la giornata, e non
stalo l’animo andarlo a t
ghi forti, non pativa, pe
vinto Siface, e acquistate
Affrica, che vi poteva sta
comodità come in Italia,
terveniva ad Annibaie, q
V incontro di Fabio ; nè
ciosi, che erano all’ inct
zio. Tanto meno ancora
giornata colui che con l’
il paese altrui ; perchè,
trare nel paese del nii
viene quando il nimico s
contro, azzuffarsi seco; <
campo ad una terra, si
più alla zuffa: come ne’ t
tervenne al duca Carlo di
sendo a campo a Moratto,
zeri, fu da’ Svizzeri assa
come intervenne all’ ese
eia, che campeggiando P
desimamentc da’ Svizzeri
LIBRO TERZO.
617
Cap. XI. — Che chi ha a fare con assaij
ancora che sia inferiore, purché possa
sostenere i primi impeli, vince.
La potenza de’ Tribuni della plebe nella
città di Roma fu grande, e fu necessaria,
come molte volte da noi è stato discorso;
perchè altrimenti non si sarebbe potuto
por freno all’ambizione della Nobiltà, la
({«ale arebbe molto tempo innanzi corrot-
ta quella Repubblica, che la non si cor-
ruppe. Nondimeno, perchè in ogni cosa,
come altre volte si è detto, è nascoso
qualche proprio male, che fa surgere nuo-
vi accidenti, è necessario a questi con
nuovi ordini provvedere. Essendo, per-
tanto, divenuta l’autorità tribunizia in-
solente e formidabile alla Nobiltà ed a
tutta Roma, e’ ne sarebbe nato qualche
inconveniente dannoso alla libertà ro-
mana, se da Appio Claudio non fosse
stato mostro il modo con il quale si
avevano a difendere contro all’ ambizione
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Gl 8 DEI DISCORÌ
de’ Tribuni: il quale fu
sempre infra loro qualci
pauroso, o corruttibile,
comun bene ; talmenteebè
ad opporsi alla volontà
che volessino tirare inn
liberazione contro alla i
nato. Il quale rimedio
temperamento a tanta f
molti tempi giovò a Ron
ha fatto considerare,
volta e’ sono molli poter
ad un altro potente, an
insieme siano molto più
nondimanco si debb
più in quello solo ■
, che in quelli assai,
gliardissimi. Perchè,» 1
ulte quelle cose delle q
più die molti previ
infinite), sempre occorri
potrà, usando un poco
sunire gli assai, e quel
gagliardo, far debole. li
LIBRO TERZO.
619
questo addurre antichi essempi, che ce
ne sarebbono assai j ma voglio mi ba-
stino i moderni, seguiti ne’ tempi no-
stri. Congiurò net 1484 tutta Italia con- .
tra a’ Vinizianij e poiché loro al tutto
erano persi, e non potevano stare più
con 1’ esercito in campagna, corruppono
il signor Lodovico che governava Mi*
lano; e per tale corruzione feciono uno
accordo, ne! quale non solamente deb-
bono le terre perse, ma usurparono
parte dello Stato di Ferrara. E cosi co-
loro che perdevano nella guerra, resta-
rono superiori nella pace. Pochi anni
sono congiurò contea a Francia tutto il
mondo: nondimeno, avanti che si ve-
desse il fine della guerra, Spagna si
ribellò da’ confederati, e fece accordo
seeo; in modo che gli altri confederati
furono constretti poco dipoi ad accor-
darsi ancora essi. Talché, senza dubbio,
si debbe sempre mai fare giudizio,
quando e’ si vede una guerra mossa da
molti contea ad uno, che quello uno
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C20
DEI Discoli*
abbia a restar superio»
di tale virtù, che possa se
impeti, e col temporegg
tempo. Perchè quando e’
porterebbe mille perieoi
venne ai Viniziani nclP
avessero potuto tempori
esercito francioso, ed i
guadagnarsi alcuni di
erano collegati contra, ai
quella rovina; ma non i
armi da potere temporeg
c per questo non aventi
a separarne alcuno, rovi
si vidde che il papa, 1
ebbe le cose sue, si fece
così Spagna : e molto v
e V altro di questi due
bono salvato loro lo Stai
contea a Francia, per i
grande in Italia, se gli ;
Potevano, adunque, i
parte per salvare il resti
avessino fatto in tempo
LIBRO TERZO.
621
la non fusse stata necessità, ed innanzi
ai moti della guerra, era savissimo par-
tito; ma in su’ moti era vituperoso, e
per avventura di poco profitto. Ma in-
uanzi a tali moti, pochi in Yinegia
de’ cittadini potevano vedere il pericolo,
pochissimi vedere il rimedio, e nessuno
consigliarlo. Ma, per tornare al princi-
pio di questo discorso, conchiudo: che
così come il Senato romano ebbe rime-
dio per la salute della patria contra al-
1' ambizione de’ Tribuni, per essere mol-
ti; così arà rimedio qualunque principe
che sia assaltato da molti, qualunque
volta ei sappia con prudenza usare ter-
mini convenienti a disunirgli.
r « « ,
Cap. XII. — Come un capitano prudente
debbo imporre ogni necessità di com-
battere ai suoi soldati, e a quelli
delti ninnici torta.
Altre volte abbiamo discorso quanto
sia utile alle umane azioni la necessità,
622 DEI DISCORSI
ed a qual gloria siano sul
da quella; c come da alcuni
sofi è slato scritto, le mani
degli uomini, due nobilissimi i
a nobilitarlo, non arcbbero o
fellamente, nè condotte l’op
a quella altezza si veggono <
dalla necessità non fussero sp
conosciuto, adunque, dagli a
talli degli eserciti la virtù c
sita, e quanto per quella
de’ soldati diventavano ostini
battere; facevano ogni oper
soldati loro fussino costretti
E dall’altra parte, usavano
stria, perchè gli nimiei se
sino: e per questo molte voli
al nimico quella via che lor
vano chiudere ; ed a’ suoi s<
pri chiusono quella che pc
sciare aperta. Quello, adì
disidera o che una città si di
natamente, o che uno esercì
paglia ostinatamente comba
LIBRO TERZO. 623
sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di
mettere ne’ petti di chi ha a combat-
lere, tale necessità. Onde, un capitano
pi udente, che avesse ad andare ad una
espugnazione d’ una città, debbe misu-
rai e la facilità o la difficultà ilell’ espu-
gnarla dal conoscere e considerare quale
necessità costringa gli abitatori di quella
a difendersi: e quando vi trovi assai
necessità che gli constringa alla difesa,
giudichi la ispugnazioue difficile; altri-
menti la giudichi facile. Di qui nasce
che le terre dopo la ribellione sono più
difficili ad acquistare, che le non sono
nel primo acquisto: perchè nel princi-
pio non avendo cagione di temer di
pena, per non avere offeso, si arrendono
facilmente; ma parendo loro, scndosi
dipoi ribellate, avere offeso, e per que-
sto temendo la pena, diventano difficili
ad essere ispugnate. Nasce ancora tale
ostinazione dai naturali odii che hanno
i principi vicini e repubbliche vicine
l’uno con l’altro: il che procede da
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g-24 DEl DISCORSI
ambizione di dominare, e gelosia del
loro Stato, massimamente se le sono
repubbliche, come interviene in Tosca-
na • la quale gara c contenzione ha fatto
e farà sempre difficile la espugnatone
p una dell’ altra. Pertanto, chi considerila
bene i vicini della città di Firenze ed i
vicini della città di Yincgia, non si me-
ra viglierà, come molti fanno, che Firenze
abbia più speso nelle guerre, ed acqui-
stato meno di Yinegia: perchè tutto
nasce da non avere avuto i NmUiani le
terre vicine si ostinate alla difesa, quanto
ha avuto Firenze, per esser state tutte
le ciltadi finitime a Yinegia use a vi-
vere sotto un principe, e non libere; c
quelli che sono consueti a servire, sti-
mano molte volle poco il mutare pa-
drone, anzi molte volte lo desiderano.
Talché Yinegia, benché abbia avuti i
vicini più potenti che Firenze, per avere
trovate le terre meno ostinate, le ha
potute piu tosto vincere, che non ha
fatto quella scudo circundala da tutte
LIBRO TERZO.
625
città libere. Debbe adunque un capitano,
per tornare al primo discorso, quando
egli assalta una terra, con ogni dili-
genza ingegnarsi di levare a* difensori
di quella tale necessità, e per conse-
guenza tale ostinazione; promettendo
perdono, se gli hanno paura della pe-
na ; c se gli avessino paura della li-
bertà, mostrare di non andare contra
al comune bene, ma contra a pochi
ambiziosi della città: la quale cosa molte
volte ha facilitato V imprese e 1’ espu-
gnazioni delle terre. E benché simili co-
lori siano facilmente conosciuti, e mas-
sime dagli uomini prudenti; nondimeno
vi sono spesso ingannati i popoli, i
quali, cupidi della presente pace, chiug-
gono gli occhi a qualunque altro laccio
che sotto le larghe promesse si ten-
desse. E per questa via infinite città
sono diventale serve: come intervenne
a Firenze nei prossimi tempi; e come
intervenne a Crasso ed allo esercito suo,
il quale ancora che conoscesse le vane
Machiavelli, Discorsi. — i. 40
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nr.i discorsi
626
promesse de’ Parti, le qu
per tor via la necessità \
del difendersi, nondimam
tenerli ostinati, accecati
della pace che erano fall
nimici: come si vnde p
leggendo la vita di quel
tanto, che avendo i Sano
convenzione dello accordo
zionc di pochi corso e pi
campi de’ confederali Rom
dipoi mandati ambasciati
chieder pace, offerendo d
cose predate, c di dare p
tori de’ tumulti e della \
ributtati dai Romani: e ri
nio senza speranza d’ acc
Ponzio, capitano allora
de’ Sanniti, con una sua
zionc mostrò, come i Roi
in ogni modo guerra; e l)<
si desiderasse la pace, la
faceva seguire la guerra ;
sic parole : Juslum est bi
LIBRO TtnZO.
627
necessariuitij et pia arma , quibus ni si
in armis spes est : sopra la qual ne-
cessità egli fondò con gli suoi soldati
la speranza della vittoria. E per non
avere a tornare più sopra questa ma-
teria, mi pare da addurvi quelli essempi
romani che sono più degni (E annota-
zione. Era Caio Manilio con lo esercito
alP incontro dei Vcienti; ed essendo
parte dello esercito veicolano entrato
dentro agii steccati di Manilio, corse
Manilio con una banda al soccorso di
quelli; e perchè i Vcienti non potessino
salvarsi, occupò tutti gli aditi del cam-
po: donde veggendosi i Veienti rin-
chiusi, cominciarono a combattere con
tanta rabbia, eh’ egli ammazzarono Ma-
nilio; ed arebbero tutto il resto dei
Romani oppressi, se dalla prudenza
d* uno Tribuno non fusse stato loro
aperta la via ad andarsene. Dove si ve-
de, come mentre la necessità costrinse
i Veienti a combattere, e* combatterono
ferocissiraamente; ma quando videro
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G2S
DEI DISCORSI
aperta la via, pensarono |
elio a combattere. Erano <
sci e gli Equi con gli
nc* confini romani. Mandi
I’ incontro i Consoli. Talcl
gliare la zuffa, lo esercito
del quale era capo Vetti
trovò ad un tratto rinchit
steccati suoi occupali da
P altro esercito romano;
eome gli bisognava o mor
via col ferro, disse ai suo
ste parole: Ile mecum ; n<
valium , armati arinatis obi
pareSj qii(e ullùnum ac ma
est, necessitate super iores
questa necessitò è chiama
vio ultimum ac maximum
millo prudentissimo di tui
romani, sendo già dentro i
Yeienti con il suo esercito,
il pigliare quella e torre i
ultima necessità di difende
in modo che i Yeienti udir
UDRÒ TERZO.
629
suno offendesse quelli che fussino disar-
mati; talché, gittate Tarmi in terra, si
prese quella città quasi senza sangue.
Il quale modo fu dipoi da molli capi-
tani osservato.
Gap. XIII. — Dove sia più da confidare ,
o in uno buono capitano che abbia
l* esercito debole, o in uno buono
esercito che abbia il capitano debole.
Essendo diventato Coriolano esule di
Roma, se ne andò ai Volsci, dove con-
tratto uno esercito per vendicarsi con-
tro ai suoi cittadini, se ne venne a Ro-
ma ; donde dipoi si parti, più per pietà
della sua madre, che per le forze dei
Romani. Sopra il quale luogo Tito Li-
vio dice, essersi per questo conosciuto,
come la Repubblica romana crebbe più
per la virtù dei Capitani, che de’ sol-
dati; considerato come i Volsci per lo
addietro erano stati vinti, e solo poi
avevano vinto che Coriolano fu loro
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030
DEI DISCORSI
Capitano. E benché Livio
pinionc, nondimeno si v
luoghi della sua istoria I;
dati senza capitano aver
gliose pruove, ed esser sta
e più feroci dopo la nr
soli loro, che innanzi cl
come occorse nello esercì
mani avevano in Ispagna
pioni ; il quale, morti i <
potè con la virtù sua n
salvare sè stesso, ma vin
e conservare quella provi
pubblica. Talché, discorre
troverà molli essempi, dov
dei soldati ara vinto la
molti altri, dove solo la
pitan i ara fatto il medesi
modo che si può giudicar
bisogno dell’ altro, e V a
Ecci bene da considerare
sia più da temere, o d’ ui
cito male capitanato, o
capitano accompagnato d
LIBRO TERZO.
631
cito. E seguendo in questo 1’ oppiniouc
di Cesare, si debbe stimare poco l’uno
e l’altro. Perchè andando egli in Ispa-
gna contra ad Afranio e Petreio, che
avevano un buono esercito, disse che
gli stimava poco, quia ibat ad exercitum
sino duce, mostrando la debolezza dei
capitani. Al contrario, quando andò in
Tessaglia conira Pompeo, disse: Vado
ad ducem sine exerciiu. Puossi consi-
derare un’ altra cosa : a quale è più fa-
cile, o ad uno buono capitano fare un
buono esercito, o ad uno buono eser-
cito fare un buono capitano. Sopra che
dico, che tale questione pare decisa ;
perchè più facilmente molti buoni tro-
veranno o inslruiranno uno, tanto che
diventi buono, che non farà uno molti.
Lucullo, quando fu mandato contra a
Mitridate, era al tutto inesperto della
guerra; uondimanco quel buono eser-
cito, dove erano assai ottimi capi, lo
feciono tosto un buon capitano. Arma-
rono i Komani, per difetto d’ uomini,
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G32 DEI DISCORSI
assai servi, o gli dierono
n Sempronio Gracco, il qi
tempo fece un buono eseri
ed Epaminonda, come alt r<
poich’egli ebbero tratta T
trio della servitù degli Spa:
tempo feciono de’conladin
dati ottimi, che poterono n
sostenere la milizia spartii
cerla. Sì clic la cosa è
V uno buono' può trovare
dimeno, un esercito buoni
buono suole diventare ins
ricoloso; come diventò l’e
cedonia dopo la morte di
come erano i soldati veleran
civili. Tanto che io credo
da confidare assai in uno
abbi tempo a instruire ut
dità di armargli, che in
insolente, con uno capo
fatto da lui. Però è da dii
ria e la laude a quelli caj
solamente hanno avuto a
LIBRO TERZO.
633
mieo, ma prima che venghino alle mani
con quello, è convenuto loro instruire
l’esercito loro e farlo buono: perchè
in questi si mostra doppia virtù, e
tanto rara, che se tale fatica fusse stata
data a molti, ne sarebbero stimati e ri-
putati meno ussai che non sono.
Cap. XIV. — Le invenzioni nuove che
appariscono nel mezzo della zuffa, e
le voci nuove che si odono, quali ef-
fetti faccino.
Di quanto momento sia ne* conflitti e
nelle zuffe un nuovo occidente che na-
sca per cosa che di nuovo si vegga o
oda, si dimostra in assai luoghi, e mas-
sime per questo essempio che occorse
nella zuffa che i Romani fecero coi Vol-
sci ; dove Quinzio veggendo inclinare
uno de’ corni del suo esercito, cominciò
a gridare forte, che gli stessino saldi,
perchè 1’ altro corno dello esercito era
vittorioso: con la qual parola, avendo
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631 DEI DISCORSI
dato animo a’ suoi e si
nimici, vinse. E se tali ve
cito bene ordinato fanno
in uno tumultuario e ni;
fanno grandissimi, pere
mosso da siinil vento. Io
durre uno cssenipio nc
ne’ nostri tempi. Era la (
pochi anni sono divisa
Oddi e Buglioni Questi re
altri erano esuli: i qua
elianti loro amici, ragun
ridottisi iu alcuna loro t
a Perugia con il favor
una notte entrarono in
senza essere scoperti, s
per pigliare la piazza. F
città iu su tutti i cani
catene che la tengono sb;
le genti oddesche davani
una mazza ferrata romjr
di quelle, acciocché i C£
passare; e restandogli i
quella che sboccava iu pi;
LIBRO TERZO.
I VÒJ
già levato il romore all7 armi, ed essen-
do colui che rompeva oppresso dalla
turba che gli veniva dietro, nè potendo
per questo alzare bene le braccia per
rompere per potersi maneggiare gli
venne detto: Fatevi indietro: la qual
voce andando di grado in grado dicendo
addietro, cominciò a far fuggire gli
ultimi, e di mano in mano gii altri,
con tanta furia, che per loro medesimi
si ruppono; e cosi restò vano il disegno
degli Oddi, per cagione di sì debole acci-
dente. Dove è da considerare, che non
tanto gli ordini in uno esercito sono
necessari per potere ordinatamente com-
battere, quanto perchè ogni minimo
accidente non ti disordini. Perchè, non
per altro le moltitudini popolari sono
disutili per la guerra, se non perchè
ogni rumore, ogni voce, ogni strepito
gli altera, e fagli fuggire. E però un
buon capitano intra gli altri suoi ordini
debbe ordinare chi sono quelli che ab-
bino a pigliare la sua voce e rimetterla
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636
DEI DISCORSI
ad altri, ed assuefare i suoi soldati che
non credino se non a quelli suoi capi,
che non dichino se non quel che da lui
è commesso ; perchè, non osservata bene
questa parte, si è visto molte volte
avere fatti disordini grandissimi. Quanto
al vedere cose nuove, debbe ogni capi-
tano ingegnarsi di farne apparire al-
cuna, mentre che gli eserciti sono alle
mani, che dia animo agli suoi e tolgalo
agli nimici; perchè, intra gli accidenti
che ti diano la vittoria, questo è effica-
cissimo. Di che se ne può addurre per
testimone Caio Sulpizio dittatore roma-
no; il quale venendo a giornata con i
Franciosi, ormò tutti i saccomanni e
gente vile del campo; e quelli fatti sa-
lire sopra i muli ed altri somieri con
armi ed insegne da parere gente a ca-
vallo, gli mise dietro a un colle, e co-
mandò che ad un segno dato, nel tempo
che la zuffa fusse più gagliarda, si sco-
prissero e mostrassiusi a* nimici. La
qual cosa così ordinata e fatta, dette
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LIBRO TERZO.
637
tanto terrore ai Franciosi, che perita-
rono la giornata. E però un buon ca-
pitano debbo fare due cose: 1* una, di
vedere con alcune di queste nuove in-
venzioni di sbigottire il nimico; 1’ altra,
di stare preparato che essendo fatte
dal nimico contro di lui, le possa sco-
prire, c fargliene tornar vane: come
fece il re d’india a Semiramis; la quale
veggendo come quel re aveva buon nu-
mero d’elefanti, per sbigottirlo, e per
mostrargli che ancora essa n’ era co-
piosa, ne formò assai con cuoia di bu-
fali e di vacche, e quelli messi sopra i
cammelli, gli mandò davanti; ma cono-
sciuto dal re 1’ inganno, gli tornò non
solamente quel suo disegno vano, ma
dannoso. Era Mamerco dittatore contea
a’ Fidenati, i quali, per isbigott ire lo
esercito romano, ordinarono che in sul-
P ardore della zuffa uscisse fuora di Fi-
ttane numero di soldati con fuochi in
sulle lance, acciocché i Romani occupati
dalla novità della cosa, rompessino in-
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63S
DEI DISCORSI
Ira lóro gli ordini. Sopra clic è da no-
tare, che quando tali invenzioni hanno
più del vero che del fìnto, si può bene
allora rappresentarle agli uomini, per-
chè avendo assai del gagliardo, non si
può scoprire così presto la debolezza
loro: ma quando Y hanno pjp del fìnto
che del vero, è bene o non le fare, o,
facendole, tenerle discosto, di qualità clic
le non possino essere così presto sco-
perte; come fece Caio Sulpizio de* mu-
lattieri. Perchè quando vi è dentro de-
bolezza, appressandosi, le si scuoprono
tosto, e ti fanno danno, e non favore;
come feciono gii elefanti a Semiramis,
e a’ Fidenali i fuochi: i quali benché
nel principio turbassino un poco l’eser-
cito; nondimeno come e’ sopravvenne il
Dittatore, e cominciò a sgridargli, di-
cendo che non si vergognavano a fug-
gire il fumo come le pecchie, e che do-
vessino rivoltarsi a loro, gridando: Suis
flammit deletc FidenaSj qnas veslris bc -
nefìctts placare non potuistis ; tornò
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LIBRO TERZO. 6^9
quello trovato ai Fidenati inutile, e re-
starono perditori della zuffa.
Cap. XV. — Come uno c non molti sia-
no preposti ad uno esercito , e coinè
i più comandatovi offendono.
Essendosi ribellati i Fidenati, ed aven-
do morto quella colonia che i Romani
avevano mandata in Fidene, crearono i
Romani, per rimediare a questo insulto,
quattro Tribuni con potestà consolare;
de’ quali lasciatone uno alla guardia di
Roma, ne mandarono tre contro ai Fi-
denati ed i Veienti: i quali per esser
divisi intra loro e disuniti, ne riporta-
rono disonore, e non danno. Perchè del
disonore, ne furono cagione loro; del
non ricevere danno, ne fu cagione la
virtù de* soldati. Donde i Romani, veu-
gendo questo disordine, ricorsono alla
creazione del Dittatore, acciocché un
solo riordinasse quello che tre avevano
disordinato. Donde si conosce la inuti-
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DEI DISCORSI
640
lilà di molti comandatoci in uno eser-
cito, o in una terra die s’abbia a di-
fendere; e Tito Livio 11011 lo può più
chiaramente dire che con le infrascritte
parole! Tres Tribuni potcsUitc consil-
iari documento fucre , quam plurium
imperium bello inutile esscl ; tendendo
ad sua quisque consilia , cutn aht ali ad
videreluvj aperuerunt ad occasionem lo-
cum hosti. E beneliè questo sia assai
csscmpio a provare il disordine che
fanno nella guerra i più comandatori,
ne voglio addurre alcuno altro, e mo-
derno ed antico, per maggiore dichia-
razione. Nel 1500, dopo la ripresa che
fece il re di Trancia Luigi XII di Mi-
lano, mandò le sue genti a Pisa per
restituirla ai Fiorentini; dove furono
mandali commessaci Giovambatista Ri-
dolfi e Luca iV Antonio degli Albizi. E
perchè Giovambatista era uomo di ri-
putazione, e di più tempo, Luca lasciava
al tutto governare ogni cosa a lui: e
se egli non dimostrava la sua ambizione
Digitized by Googl
LIBRO TERZO.
641
con opporseli, la dimostrava col ta-
cere, e con lo stracurare e vilipendere
ogni cosa in. modo, che non aiutava le
azioni dei campo nè coll’ opere nè col
consiglio, come se fosse stato uomo di
nessuno momento. Ma si vidde poi tutto
il contrario quando Giovambatista, per
certo accidente seguito, se n* ebbe a tor-
nare a Firenze; dove Luca, rimasto solo,
dimostrò quanto con V animo, con la
industria e con il consiglio valeva : le
quali tutte cose mentre vi fu la com-
pagnia erano perdute. Voglio di nuovo
addurre in confirmazione di questo le
parole di Tito Invio; il quale referendo
come essendo mandato dai Romani con-
tro agli Equi Quinzio cd Agrippa suo
collega, Agrippa volle che tutta 1* am-
ministrazione della guerra fusse ap-
presso a Quinzio, e’ dice: Suluberri -
mum in adminislralione magnarum re-
rum eilj summam imperii apud unum
esse. Il che è contrario a quello che
oggi fanno queste nostre repubbliche c
SIaciii atcli.1, Discorsi. — i. -VI
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642
DEI DISCORSI
princìpi, (li mandare ne’ luoghi, per mi-
nistrargli meglio, più d’ un commessa-
rio e più d’ un capo: il che fa una
inestimabile confusione. E se si cercasse
la cagione della rovina degli eserciti
italiani e franciosi ne’ nostri tempi, si
troverebbe la potissima cagione essere
stata questa. E puossi conchiudere ve-
ramente, come gli è meglio mandare in
una espedizione un uomo solo di co-
munale prudenza, che duoi valentissimi
uomini insieme con la medesima au-
torità.
Cap XVf. — Che la vera viriti si va
ne ' tempi difficili a trovare ; e ne3 tem-
pi facili non gli uomini virtuosi , ma
quelli che per ricchezze o per paren-
tado prcvaglionO; hanno più grazia.
Egli fu sempre, e sempre sarà, che
gli uomini grandi e rari in una repub-
blica nei tempi pacifichi sono negletti ;
perchè per la invidia che s’ ha tirato
Digitized by Google
LIBRO TERZO.
643
dietro la riputazione che la virtù d’essi
ha dato loro, si truova in tali tempi
assai cittadini che vogliono, non che
esser loro eguali, ma esser loro supe-
riori. E di questo n’ è un luogo buono
in Tucidide istorico greco; il quale mo-
stra come sendo la repubblica ateniese
rimusa superiore in la guerra pelopon-
nesiaca, ed avendo frenato l’ orgoglio
degli Spartani, e quasi sottomessa tutta
la Grecia, satse in tanta riputazione,
che la disegnò d’ occupare la Sicilia.
Venne questa impresa in disputa in
Atene. Alcibiade e qualche altro citta-
dino consigliavano che la si facesse,
come quelli che pensando poco al bene
pubblico, pensavano all’ onor loro, di-
segnando esser capi di tale impresa.
Ma Micia, che era il primo intra i ri-
putati d’ Atene, la dissuadeva; e la mag-
gior ragione che nel concionare al po-
polo, perchè gli fusse prestato fede,
adducesse, fu questa: clic consigliando
esso che non si facesse questa guerra,
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Gii
DEI DISCORSI
ci consigliava cosa che non faceva per
lui; perchè stando Atene in pace, sa-
peva come v’ erano infiniti cittadini che
gli volevano andare innanzi; ma facen-
dosi guerra, sapeva che nessuno citta-
dino gli sarebbe superiore, o eguale.
Vedesi, pertanto, come nelle repubbliche
è questo disordine, di fare poca stima
de’ valentuomini ne’ tempi quieti. La
qua) cosa gli fa indeguare in due modi:
I’ uno per vedersi mancar del grado
loro; l’altro per vedersi fare compagni
e superiori uomini indegni e di manco
sufficienza di loro. 11 quale disordine
nelle repubbliche ha causato di molte
rovine; perchè quelli cittadini che ini-
meritamenle si veggono sprezzare, e co-
noscono clic e’ ne sono cagione i tempi
facili c non pericolosi, s’ ingegnano di
turbargli, movendo nuove guerre in
pregiudizio della repubblica. E pensan-
do quali potessino essere i rimedi, ce
ne trovo due: l’uno, mantenere i cit-
tadini poveri, acciocché con le ricchezze
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LIBRO TERZO. G 45
senza virtù non potessino corrompere
ni loro nò altri; l’altro, eli ordinarsi
in modo alla guerra, die sempre si po-
tesse far guerra, e sempre s’avesse bi-
sogno di cittadini riputati, come fe Ro-
ma ne’ suoi primi tempi. Perchè te-
nendo fuori quella città sempre eserciti,
sempre v’ era luogo alla virtù degli uo-
mini ; nè si poteva torre il grado .ad
uno che lo meritasse, e darlo ad uno
altro che non lo meritasse. Perchè se
pure lo faceva qualche volta per er-
rore, o per provare, ne seguiva tosto
tanto suo disordine e pericolo, che la
ritornava subito nella vera via. Ma le
altre repubbliche che non sono ordinate
come quella, e che fanno solo guerra
quando la necessità le constringe, non
si possono difendere da tale inconve-
niente: anzi sempre vi correranno den-
tro; e sempre ne nascerà disordine,
quando quel cittadino negletto e vir-
tuoso, sia vendicativo, ed abbia nella
città qualche riputazione e aderenza.
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616
DEI DISCORSI
E se la città (ti Roma un tempo se ne
difese, a quella ancora, poiché la ebbe
vinto Cartagine cd Antioco (come al-
trove si disse), non temendo più di
guerra, pareva poter commettere gli
eserciti a qualunque la voleva ; non ri-
guardando tanto alla virtù, quanto alle
altre qualità che gli dessino grazia nel
popolo. Perchè si vede che Paulo Emi-
lio ebbe più volte la repulsa nel con-
solato, nò fu prima fatto Consolo che
surgesse la guerra macedonica ; la quale
giudicandosi pericolosa, di consenso di
tutta la città fu commessa a lui. Sendo
nella città nostra di Firenze seguite
dopo il 1494 di molte guerre, ed aven-
do fatto i cittadini fiorentini tutti una
cattiva pruova, si riscontrò la città, a
sorte, in uno che mostrò in che ma-
niera s’aveva a comandare agli eser-
citi; il quale fu Antonio Giacomini: e
mentre che si ebbe a far guerre peri-
colose, tutta P ambizione degli altri cit-
tadini cessò, e nella elezione del Com-
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LIBRO TERZO.
647
messa rio e capo degli eserciti non aveva
competitore alcuno ; ma come s’ ebbe u
fare una guerra dove non era dubbio
alcuno, ed assai onore e grado, ei vi
trovò tanti competitori, che avendosi ad
eleggere tre Commessa ri per campeg-
giar Pisa, fu lasciato indietro. E benché
e* non si vedesse evidentemente che
male ne seguisse al pubblico per non
v’avere inandato Antonio, nondimeno
se ne potette fare facilissima coniettura;
perchè non avendo più i Pisani da di-
fendersi nè da vivere, se vi fusse stalo
Antonio, sarebbero stati tanto innanzi
stretti, che si sarebbero dati a discre-
zione de’ Fiorentini. Ma sendo loro as-
sediati da capi che non sapevano nè
stringerli nè sforzarli, furono tanto in-
trattenuti, che la città di Firenze gli
comperò, dove la gli poteva avere a
forza. Convenne che tale sdegno potesse
assai in Antonio; e bisognava che fusse
bene paziente e buono, a non dispe-
rare di vendicarsene o con la rovina
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DEI DISCORSI
648
della città, potendo, o con i* ingiuria
d’ alcuno particolare cittadino; da che
si debbe una repubblica guardare; come
nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap. XVII. — Che non si offenda uno,
e poi quel medesimo si mandi in am-
ministrazione e governo d* impor-
tanza.
Debbe una repubblica assai conside-
rare di non preporre alcuno ad alcuna
importantè amministrazione, al quale
sia stato fatto da altri alcuna notabile
ingiuria. Claudio Nerone, il quale si part ì
dallo esercito che lui aveva a fronte ad
Annibaie, e con parte d’esso n’andò
nella Marca a trovare 1* altro Consolo
per combattere con Asdrubale avanti che
si congiungesse con Annibaie ; s’ era
trovato per lo addietro in Ispagna a
fronte d’ Asdrubale, ed avendolo serrato
in luogo con lo esercito, che bisognava
o che Asdrubale combattesse con suo
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LIBRO TERZO.
649
disavvantaggio, o si morisse di fame,
fu da Asdrubale astutamente tanto in*
trattenuto con certe pratiche d* accordo,
che gli usci di sotto, e totsegli quella
occasione d’ oppressarlo. La qual cosa
saputa a Roma, gli dette carico grande
appresso al Senato ed al Popolo, e di
lui fu parlato inonestamente per tutta
quella città, non senza suo grande di-
sonore ed isdegno. Ma sendo poi fatto
Consolo, e inandato all* incontro d’ An-
nibale, prese il soprascritto partito: il
quale fu pericolosissimo; talmente che
Roma stette tutta dubbia c sollevata,
infino a tanto che vennono le nuove
della rotta d’ Asdrubale. Ed essendo do-
mandato poi Claudio per qual cagione
avesse preso si pericoloso partito, dove
senza una estrema necessità egli aveva
giocata quasi la libertà di Roma ; ri-
spose che V aveva fatto perchè sapeva
che, se gli riusciva, riacquistava quella
gloria che s'aveva perduta in Ispagua;
e se non gli riuscivo, e che questo suo
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650
DEI DISCORSI
partito avesse avuto contrario fine, sa-
peva come ei si vendicava contra a
(jucila città ed a quelli cittadini clic
Tavevano tanto ingratamente ed indi-
scretamente offeso. E quando queste
passioni di tali offese possono tanto in
un cittadino romano, e in quelli tempi
che Roma ancora era incorrotta, si
debbe pensare quanto elle possino in un
cittadino d’ una città che non sia fatta
come era allora quella. E perchè a si-
mili disordini che nascono nelle repub-
bliche non si può dare certo rimedio,
ne seguita che gli è impossibile ordi-
nare una repubblica perpetua, perchè
per mille inopinate vie si causa la sua
rovina.
Cip. XVIII. — Nessuna cosa è più de-
gna d* un capitano che presentire «
parlili del nimico.
Diceva Epaminonda tebano, nessuna
cosa esser più necessaria c più utile ad
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LIBRO TERZO.
65i
un capitano, che conoscere le ^libera-
zioni e partiti del nimico. E perchè tale
cognizione è diffìcile, merita tanto più
laude quello che adopera in modo che
le conicttura. E non tanto è diffìcile in-
tendere gli disegni del nimico, eh’ egli
è qualche volta diffìcile intendere le
azioni sue ; e non tanto le azioni sue
che per lui si fanno discosto, quanto le
presenti e le propinque. Perché molte
volte è accaduto, che sendo durala una
zuffa infino a notte, chi ha vinto crede
aver perduto, e chi ha perduto crede
aver vinto. 11 quale errore ha fatto di-
liberare cose contrarie alla salute di co-
lui che ha diliberato: come intervenne a
Bruto e Cassio, i quali per questo er-
rore perderono la guerra; perchè, aven-
do vinto Bruto dal corno suo, credette
Cassio, che aveva perduto, che tutto
1’ esercito fusse rotto ; e disperatosi per
questo errore della salute, ammazzò «è
stesso. Nei nostri tempi, nella giornata
che fece in Lombardia a Santa Cecilia
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652 dei discorsi
Francesco re di Francia con i Svizzeri,
sopravvenendo la notte, credetleno quella
parte dei Svizzeri che erano rimasti in-
teri aver vinto, non sappiendo di quelli
che erano stati rotti e morti: il quale
errore fece che loro medesimi non si
salvarono, aspettando di ricombattere
la mattina con tanto loro disavvantag-
gio ; e fecero ancora errare, e per tale
errore presso che rovinare, F esercito
del papa e di Spagna, il quale in su
la falsa nuova della vittoria passò il
Po, e se procedeva troppo innanzi, re-
stava prigione de’ Franciosi che erano
vittoriosi. Questo simile errore occorse
ne’ campi romani e in quelli delli Equi.
Dove, sendo Sempronio consolo con
l’esercito all’ incontro degli inimici, ed
appiccandosi la zuffa, si travagliò quella
giornata infino a sera con varia fortuna
dell’ uno e dell’altro: e venuta la notte,
sendo l’ uno e l’ altro esercito mezzo
rotto, non ritornò alcuno di loro ne’ suoi
alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse
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LIBRO TERZO.
653
uc’ prossimi colli, dove credevano esser
più sicuri; e l’esercito romano si di-
vise in due parti : 1’ una n’ andò col
Consolo, 1’ altra con un Teinpanio cen-
turione, per la virtù del quale 1’ eser-
cito romano quel giorno non era stato
rotto interamente. Venuta la mattina,
il Consolo romano senza intendere altro
de’ nimici si tirò verso Roma ; il simile
fece l’esercito degli Equi: perchè cia-
scuno di questi credeva che il nimico
avesse vinto, c però ciascuno si ritrasse
senza curare di lasciare i suoi allog-
giamenti in preda. Accadde che Tempa-
nio, eh’ era col resto dello esercito ro-
mano, ritirandosi ancora esso, intese
da certi feriti degli Equi, come i capi-
tani loro s’ erano partiti, cd avevano
abbandonati gli alloggiamenti: donde
che egli, in su questa nuova, se ne en-
trò negli alloggiamenti romani, c salvò-
gli; e dipoi saccheggiò quelli degli Equi,
e se ne tornò a Roma vittorioso. La
qual vittoria, come si vede, consistè solo
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DE! DISCORSI
65-4
in chi prima di loro intese i disordini
del nimico. Dove si debbe considerare,
come e’ può spesso occorrere che i duci
eserciti che siano a fronte V uno del-
P altro, siano nel medesimo disordine,
e patischino le medesime necessità; e
che quello resti poi vincitore che è il
primo a intendere le necessità dell’ al-
tro. Io voglio dare di questo un essem-
pio domestico e moderno. Nel 1498,
quando i Fiorentini avevano uno eser-
cito grosso in quel di Pisa, e stringe-
vano forte quella città; della quale
avendo presa i Viniziani la protezione,
non veggeudo altro modo a salvarla,
diliberarono di divertire quella guerra,
assaltando da un’altra banda il domi-
nio di Firenze; e fatto uno esercito po-
tente, entrarono per la Val di Lamona,
ed occuparono il borgo di Marradi, ed
assediarono la ròcca di Castiglione, che
è in sul colle di sopra. Il che sentendo
i Fiorentini, diliberarono soccorrer Mar-
radi, e non diminuire le forze avevano
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LIBRO TERZO.
655
in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie,
ed ordinale nuove genti a cavallo, le
mandarono a quella volta: delle quali
ne furono capi Iacopo quarto d’ Appiano
signore di Piombino, ed il conte Rinuc-
cio da Marciano. Sendosi, adunque, con*
dotte queste genti in sul colle sopra
Marradi, si levarono i ninnici di ’ntorno
a Castiglione, e ridussonsi tutti nel bor-
go: ed essendo stato P uno e P altro di
questi due eserciti a fronte qualche
giorno, pativa P uno e l’altro assai di
vettovaglie e d’ogni altra cosa neces-
saria : e non avendo ardire P uno d* af-
frontare P altro, nè sappiendo i disor-
dini P uno dell’altro, diliberarono in
una sera medesima P uno e P altro di
levare gli alloggiamenti la mattina ve-
gnente, e ritirarsi in dietro; il Mili-
ziano verso Berzighella e Faenza, il
Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Ve-
nula adunque la mattina, ed avendo cia-
scuno de’ campi cominciato ad avviare*
i suoi impedimenti; a caso una donna
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DEI DISCORSI
656
si partì dal borgo di Ùarradi, e venne
verso il campo fiorentino, secura per la
vecchiezza e per la povertà, disiderosa
di vedere certi suoi che erano in quel
campo: dalla quale intendendo i capitani
delle genti fiorentine, come il campo vi-
niziano partiva, si fecero in su questa
nuova gagliardi; e mutato consiglio,
come se gli avessino disalloggiati i ni-
nnici, ne andarono sopra di loro, e scris-
sero a Firenze avergli ributtati, e vinta
la guerra. La qual vittoria non nacque
da altro, che dallo aver inteso prima
dei nemici, come e’ se ne andavano: la
quale notizia se fusse prima venuta dal-
r altra parte, arebbe fatto conira ai no-
stri il medesimo effetto.
Cap. XIX. — Se a reggere una molti-
tudine è più necessario lo ossequio
che la pena.
Era la Repubblica romana sollevata
per le inimicizie de’ Nobili e de’ Plebei:
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LIBRO TERZO.
057
nondimeno, soprastando loro la guerra,
mandarono fuori con gli eserciti Quin-
zio ed Appio Claudio. Appio, per essere
crudele e rozzo nel comandare, fu male
ubbidito da’ suoi; tanto che quasi rotto
si fuggì della sua provincia. Quinzio,
per esser benigno e di umano ingegno,
ebbe i suoi soldati ubbidienti, e ripor-
to mie la vittoria. Donde e’ pare elle sia
meglio, a governare una moltitudine,
essere umano che superbo, pietoso che
crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al
quale molti altri scrittori acconsentono,
in una sua sentenza couchiude il con-
trario, quando dice : In molliludine
regenda plus pana, quam obsequium
vaici. E considerando come si possa sal-
vare I’ una e l’altra di queste oppinio-
ni, dico: o clic tu bai a reggere uomini
che ti sono per l’ordinario compagni,
o uomini che ti sono sempre soggetti.
Quando ti sono compagni, non si può
interamente usare la pena, nè quella se-
verità di che ragiona Cornelio: e perchè
U «chiavelli, Discorsi. — 1. 42
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05 S
DEI DISCORSI
la Plebe romana aveva in Roma eguale
imperio con la Nobiltà, non poteva uno
che ne diventava principe a tempo, con
crudeltà e rozzezza maneggiarla. £ molte
volle si vide che miglior frutto feciono
i Capitani romani che si facevano amare
dagli eserciti, e che con ossequio gli
maneggiavano, che quelli che si face-
vano straordinariamente temere; se già
e’ non erano accompagnati da una ec-
cessiva virtù, come fu Manlio Torquato.
Ma chi comanda ai sudditi, de’ quali
ragiona Cornelio, acciocché non diven-
tino insolenti, e che per troppa tua fa-
cilità non ti calpestino, debbe volgersi
più tosto alla pena che allo ossequio.
Ma questa ancora debbe esser iu modo
moderata, che si fugga l’odio; perchè
farsi odiare non torna mai bene ad al-
cuno principe. Il modo del fuggirlo è
lasciar stare la roba de’ sudditi: perchè
del sangue, quando non vi sia sotto
ascosa la rapina, nessuno principe ne
è disideroso se non necessitato, c que-
LIBRO TLRZO.
659
sta necessità viene rare volte; ma seti»
dovi mescolata la rapina, viene sempre,
nè mancano mai le cagioni ed il disi*
derio di spargerlo: come in altro trat-
tato sopra questa materia s’ è larga-
mente discorso. Meritò, adunque, più
laude Quinzio che Appio ; e la sentenza
di Cornelio dentro ai termini suoi, c
non ne* casi osservati da Appio, merita
d* essere approvata. E perchè noi ab-
biamo parlato della pena e dello osse-
quio, non mi pare superfluo mostrare,
come uno essempio d’ umanità potè ap-
presso ai Falisci più che V armi.
Cap. XX. — Uno essempio df umanità
appresso ai Falisci potette più d* ogni
forza romana.
Essendo Cammillo con V esercito in-
torno alla città de* Falisci, e quella as-
sediando, un maestro di scuola de’ più
nobili fanciulli di quella città, pensando
di gratificarsi Cammillo ed il Popolo
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DEI DISCORSI
C60
romano, sotto colore di esercizio usciendo
con quelli fuora della città gli con-
dusse lutti nel campo innanzi a Cani-
inilio, e, presentatigli, disse, come me-
diami loro quella terra si darebbe nelle
sue mani. Il quale preseute non sola-
mente non fu accettato da Cammillo,
ma fatto spogliare quel maestro, c lega-
togli le mani di dietro, e dato a cia-
scuno di quelli fanciulli una verga in
inano, lo fece da quelli con di molte bat-
titure accompagnare nella terra. La qual
cosa intesa da quelli cittadini, piacque
tanto loro l’ umanità ed integrità di
Cammillo, che senza voler più difendersi,
diliberarono di dargli la terra. Dove è
da considerare, con questo vero essem-
pio, quanto qualche volta possa più
nelli animi degli uomini un atto umano
e pieno di carità, che un atto feroce e
violento; e come molte volte quelle pro-
vincie e quelle città che le armi, gl’ instru-
menti bellici ed ogni altra umana forza
non ha potuto aprire, uno essempio
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LIBRO TERZO. GG I
ti* umanità c di pietà, di castità o di
liberalità, ha aperte. Di che ne sono
nelle istorie, oltre a questo, molti altri
essempi. E vedesi come 1* armi romane
non potevano cacciare Pirro d’ Italia, e
ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio,
quando li manifestò Y offerta die aveva
fatta ai Romani quel suo famigliare,
d’avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Sci-
pione Afifricano non dette tanta riputa-
zione in Ispagna la espugnazione di
Cartagine nuova, quanto gli dette quello
essempio di castità, d’ aver fenduta la
moglie giovine, bella ed intatta al suo
marito; la fuma della quale azione gli
fece amica tutta l’Ispagna. Vedesi ancora
questa parte quanto la sia disiderata
dai popoli negli uomini grandi, c quanto
sia laudata dagli scrittori ; e da quelli
che descrivono la vita dei principi, e
da quelli che ordinano come debbono
vivere. Intra i quali Senofonte s' affatica
assai in dimostrare quanti onori, quante
vittorie, quanta buona fama arrecasse a
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DEI DISCORSI
662
Ciro l’essere umano ed affabile; c non
dare alcuno essempio di sè nè di su-
perbo, nè di crudele, nè di lussurioso,
nè di nessuno altro vizio che macelli
la vita degli uomini. Pur nondimeno,
veggendo Annibaie con modi contrari
a questi avere conseguito gran fama e
grandi vittorie, mi. pare da discorre*
re nel seguente capitolo, donde questo
nacque.
Cap. XXI. — Donde nacque che Annibaie
con diverso modo dì procedere da
ScipionCj fece quelli medesimi effetti
in Italia che quello in I spugna.
Io stimo che alcuni si potrebbono
meravigliare veggendo qualche capitano,
nonostante eh’ egli abbia tenuta contra-
ria via, aver nondimeno fatti simili ef-
fetti a coloro che sono vissuti nel modo
soprascritto : talché pare che la cagione
delle vittorie non dipenda dalle predette
cause; anzi pare che quelli modi non
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LIBRO TLRZO.
G63
fi rechino nè più forza nè più fortuna,
potendosi per contrari modi acquistare
gloria e riputazione. E per non mi par-
tire dagli uomini soprascritti, e per
chiarir meglio quello che io ho voluto
dire; dico come e’ si vede Scipione
entrare in Ispagna, c con quella sua
umanità e pietà subito farsi amica quella
provincia, e adorare ed ammirare dai
popoli. Vedesi, all* incontro, entrare An-
nibaie in balia, e con modi tutti con-
trari, cioè con violenza e crudeltà e
rapina ed ogni ragione d’ infedeltà, fa-
re il medesimo effetto che aveva fatto
Scipione in Ispagna; perchè ad Annibaie
si ribellarono tutte le città d’ Italia, tutti
i popoli lo seguirono. E pensando donde
questa cosa possa nascere, ci si veggono
dentro più ragioni. La prima è, che gli
uomini sono disiderosi di cose nuove;
in tanto che cosi desiderano il più delle
volte novità quelli che stanno bene, come
quelli che stanno male : perchè come altra
volta si disse, ed è il vero, gli uomini si
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tì'U
DEI DISCORSI
stuccano nel bene, e nel male s’ afflig-
gono. Fu, adunque, questo disiderio apri-
re le porle a ciascuno che in una pro-
vincia si fa capo d’ una innovazione; e
s’ egli è forestiero, gli corrono dietro;
s’ egli è provinciale, gli sono intorno,
angumentanlo e favoriscono: lalmente-
cliè, in qualunque modo che egli pro-
ceda, gli riesce il fare progressi grandi
in quelli luoghi. Oltre a questo, gli
uomini sono spinti da due cose princi-
pali ; o dallo amore, o dal timore: tal-
ché cosi gli comanda chi si fa amare,
come colui che si fa temere; anzi, il
più delle volte è seguito ed ubbidito più
chi si fa temere, che chi si fa amare.
Imporla, pertanto, poco ad un capitano,
per quaiunehe di queste vie ei si cam-
mini, purché sia uomo virtuoso, e che
quella virtù lo faccia riputato intra gli
uomini. Perchè, quando la è grande,
come la fu in Annibaie ed in Scipione,
ella cancella tutti quelli errori che si
fanno per farsi troppo amare, o per
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Lì BKO TERZO.
665
farsi troppo temere. Perchè dell’ uno c
delP altro di questi duoi modi possono
nascere inconvenienti grandi, ed atti
a far rovinare un principe : perchè co-
lui che troppo disidera esser amato,
ogni poco che si parte dalla vera via,
diventa disprezzabile: quell’ altro che
disidera troppo d’ esser temuto, ogni
poco ch’egli eccede il modo, diventa
odioso. E tenere la via del mezzo, non
si può appunto, perchè la nostra natura
non ce io consente: ma è necessario
queste cose che eccedono mitigare con
una eccessiva virtù, come faceva Anni-
baie e Scipione. Nondimeno si vede co-
me l’ uno e l’ altro furono offesi da questi
loro modi di vivere, e così furono es-
saltati. La essudazione di tutti due s’è
detta. La offesa quanto a Scipione fu,
che gl» suoi soldati in Ispagna se gli
ribellarono insieme con pai*te degli suoi
amici: la qual cosa non nacque da altro
che da non lo temere; perchè gli uomini
sono tanto inquieti, che ogni poco di
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DI'.! Dlsl'.onsi
C66
porta clic si apra loro all’ambizione,
dimenticano subito ogni amore ch’egli
avessero posto al principe per la uma-
nità sua; come fecero i soldati ed amici
predetti: tanto che Scipione, per rime-
diare a questo inconveniente, fu con-
stretto usare parte di quella crudeltà
che egli aveva fuggita. Quanto ad Au-
nihaie, non ci è essempio alcuno parti-
colare, dove quella sua crudeltà e poca
fede gli nocesse: ma si può bene pre-
supporre che Napoli e molte altre terre,
che stettero in fede del Popolo romano,
stessero per paura di quella. Vedcsi
bene questo, che quel suo modo di vi-
vere impio, lo fece più odioso al Popolo
romano, che alcuno altro nimico che
avesse mai quella Repubblica: in modo
che dove a Pirro, mentre che egli era
con lo esercito in Italia, manifestarono
quello che lo voleva avvelenare, ad An-
nibaie mai, ancora che disarmalo e
disperso, perdonarono, tanto che lo fe-
ciono morire. Nacquero, dunque, ad
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LIBRO TERZO.
667
Annibaie, per essere tenuto impio e rom-
pitore di fede e crudele, queste incomo-
dità; ma gliene risultò all’ incontro una
comodità grandissima, la quale è am-
mirata da tutti gli scrittori: clic nel
suo esercito, ancoraché composto di
varie generazioni d’ uomini, non nacque
mai alcuna dissensione, nè infra loro
medesimi, nè contra di lui. Il che non
potette derivare da altro, che dal ter-
rore che nasceva dalla persona sua: il
quale era tanto grande, mescolato con
la riputazione che gli dava la sua vir-
tù, che teneva gli suoi soldati quieti ed
uniti. Conchiudo, adunque, come e’ non
importa molto in qual modo un capi-
tano si proceda, purché in esso sia virtù
grande, che condisca bene l’uno e l’al-
tro modo di vivere: perchè, come è
detto, nell’uno e nell’ altro è difetto e
pericolo, quando da una virtù istraor-
dinaria non sia corretto. C se Annibaie
e Scipione, l’uno con cose laudabili,
l’altro con detestabili, feciono il mede-
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DEI DISCORSI
668
simo effetto; non mi pare ila lasciar
indietro il discorrere ancora di duoi
cittadini romani, che conseguirono con
diversi modi, ma tutti duoi laudabili,
una medesima gloria.
Cap. XXII. — Come la durezza di Man-
lio Torquato e T umanità di Valerio
' Corvino acquistò a ciascuno la mede-
sima gloria.
E* furono in Roma in un medesimo
tempo due capitani eccellenti, Manlio
Torquato e Valerio Corvino: i quali di
pari virtù, di pari trionfi e gloria, vis-
sono in Roma; e ciascuno di loro, in
quanto s’ apparteneva al nimico, con
pari virtù l’acquistarono; ma quanto
s’apparteneva agli eserciti ed agl’ in-
trattenimenti de’ soldati, diversissima-
mente procederono: perchè Manlio con
ogni generazione di severità, senza in-
termettere ai suoi soldati o fatica, o pe-
na, gli comandava: Valerio, dall’ altra
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LIBRO TERZO.
G6U
parte, con ogni modo e termine umano,
e pieno d’ una famigliare dimestichezza
gl’ intratteneva. Perchè si vede, che per
aver 1’ ubbidienza dei soldati, 1’ uno ani'
mazzo il figliuolo, e 1’ altro non offese
mai alcuno. Nondimeno, in tanta diver-
sità di procedere, ciascuno fece il me-
desimo frutto, e contro a’ nimici, ed in
favore della Repubblica e suo. Perchè
nessuno soldato non mai o detratto la
zuffa, o si ribellò da loro, o fu in alcuna
parte discrepante dalla voglia di quel! i ;
quantunque gl’ imperii di Manlio fussino
si aspri, che tutti gii altri imperii che
eccedevano il modo, erano chiamati man-
liana imperia. Dove è da considerare
prima donde nacque che Manlio fu co-
stretto procedere sì rigidamente; l’al-
tro, donde avvenne che Valerio potette
procedere si umanamente; l’altro, qual
cagione fe che questi diversi modi faces-
sero il medesimo effetto; ed in ultimo,
quale sia di loro meglio e più utile imita-
re. Se alcuno considera bene la natura di
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070 DEI DISCORSI
Manlio dall’ora che Tilo Livio nc comin-
cia a far menzione, lo vedrà uomo fortissi-
mo, pietoso verso il padre e verso la pa-
tria, e reverentissimo a’ suoi maggiori.
Queste cose si conoscono dalla morte di
quel Francioso; dalla difesa del padre
contea al Tribuno; e come avanti ch'egli
andasse alla zuffa del Francioso, ei
n’andò al Consolo con queste parole:
Injussu tuo adversus hoslem nunquam
pugnalo, non si ccrtam victoriam vi-
dcam. Venendo, adunque, un uomo così
fatto a grado che comandi, desidera di
trovare tutti gli uomini simili a sè; e
l’animo suo forte gli fa comandare cose
forti; e quel medesimo, comandate che
le sono, vuole si osservino. Ed è una
regola verissima, che quando si coman-
da cose aspre, conviene con asprezza
farle osservare: altrimenti, te ne tro-
veresti ingannato. Dove è da notare,
clic a voler essere ubbidito, è necessario
saper comandare : e coloro sanno co-
mandare, che fanno comparazione della
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LIBRO TIIRZO.
G71
qualità loro a quelle ili dii ha a ubbi-
dire; e quando vi veggnino proporzio-
ne, allora comandino; quando spropor-
zione, se ne astenghino. E però diceva
un uomo prudente, che a tenere una
repubblica con violenza, conveniva fusse
proporzione da chi sforzava a quel ch’ero
sforzato. E qualunque volta questa pro-
porzione v’ era, si poteva credere che
quella violenza fusse durabile: ma quan-
do il violentato era più forte del violen-
tante, si poteva dubitare che ogni giorno
quella violenza cessasse. Ma tornando al
discorso nostro, dico che a comandare
le cose forti, conviene esser forte; e
quello che è df questa fortezza e che le
comanda, non può poi con dolcezza farle
osservare. Ma chi non è di questa for-
tezza d’animo, si debbe guardare da-
gl’imperii istraordinari, e negli ordi-
nari può usare la sua umanità: perchè
le punizioni ordinarie non sono impu-
tate al principe, ma alle leggi ed agli
ordini. Debbesi, adunque, credere che
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672
DEI DISCORSI
Manlio fosse costretto procedere si ri-
gidamente dagli istraordinari suoi im-
perii, ai fjuali lo inclinava la sua natu-
ra: i quali sono utili in una repubblica,
perchè e’ riducono gli ordini di quella
verso il principio loro, e nella sua an-
tica virtù. E se una repubblica fussc si
felice, eh* ella avesse spesso, come di
sopra dicemmo, citi con io esseinpio suo
le rinnovasse le leggi; e non solo la ri-
tenesse che la non corresse alla rovi-
na, ma la ritirasse indietro; la sarebbe
perpetua. Si che Manlio fu uno di quelli
che con l’asprezza de’ suoi i inperii ri-
- tenne la disciplina mUitarc in Roma,
constretto prima dalla natura sua, dipoi
dal desiderio che aveva s’ osservasse
quello che il suo naturale appetito gii
aveva fatto ordinare. Dall’ altro canto,
Valerio potette procedere umanamente,
come colui a cui bastava s’ osservassino
le cose consuete osservarsi negli eserciti
romani. La qual consuetudine, perchè
era buona, bastava ad onorarlo, c non
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LIBRO TERZO.
673
era faticosa ad osservarla, e non neces-
sitava Valerio a punire i transgressori;
si perchè e’ non ve n’ erano; sì perchè
quando e* ve ne Tassino stati, imputa-
vano, come è detto, la punizione loro
agli ordini, c non alla crudeltà del prin-
cipe. In modo che, Valerio poteva far
nascere da lui ogni umanità, dalla quale
ei potesse acquistare grado con i solda-
ti, e la contentezza loro. Donde nacque,
che avendo l’uno e l’altro la medesima
ubbidienza, poterono, diversamente ope-
rando, fare il medesimo effetto. Possono
quelli che volessero imitar costoro, ca-
dere in quelli vizi di dispregio e d* odio
che io dico di sopra d’ Annibaie e di
Scipione: il che* si fugge con una virtù
eccessiva che sia in te, e non altrimenti.
Resta ora considerare quale di questi
modi di procedere sia più laudabile. Il
che credo sia disputabile, perchè gli
scrittori lodano l’ un modo e l’ altro.
Nondimeno, quelli che scrivono come
un principe s’ abbia a governare, si
Machiavelli, Discorsi.-—!. *3
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DEI DISCORSI
C74
accostano piu a Valerio che a Manlio ;
c Senofonte, preallegato da me, dando
di molti essempi della umanità di Ciro,
si conforma assai con quello che dice
di Valerio Tito Livio. Perchè, sendo fatto
Consolo contro i Sanniti, e venendo il
dì che doveva combattere, parlò ai suoi
soldati con quella umanità con la quale
ei si governava ; e dopo tal parlare,
Tito Livio dice queste parole: Non
alias militi familiarior dux fuit , inter
infimos militimi omnia hauti gravate
munia obcuntlo. In ludo praterea mili-
tari, cum velocitatis viriumquc in ter se
cequales cer lamina ineuntj comiler faci-
lis vincere ac vinci, nulla eodcm ; nec
qucmquam aspcrnari parem qui se offer-
ret ; factis benignus prò re; clic ti s,
hauti minus libertalis aliena , quam sua
dignilatis memor ; et (quo nihil popu-
lariit8 est) quibus artibus pelierat magi-
strati^, iisdem gerebat. Parla medesi-
mamente di Manlio Tito Livio onorévol-
mente, mostrando che la sua severità
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LIBRO TERZO.
G75
nella mol te del figliuolo fece tanto ub-
bidiente l' esercito al Consolo, che fu
cagione delia vittoria che il Popolo ro-
mano ebbe contro ai Latini ; ed in tanto
procede in laudarlo, che dopo tal vit-
toria, descritto eh’ egli ha tutto 1’ ordine
di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli
che ’1 Popolo romano vi corse, e le dif-
ficoltà che vTTurono a vincere, fa questa
conclusione: che solo la virtù di Manlio
dette quella vittoria ai Romani. E facen-
do comparazione delle forze dell’ uno .e
dell’ altro esercito, afferma come quella
parte arebbe vinto che avesse avuto per
Consolo Manlio: talché, considerato tutto
quello che gli scrittori ne parlano, sa-
rebbe difficile giudicarne. Nondimeno,
per non lasciare questa parte indecisa,
dico, come in un cittadino che viva
sotto le leggi d’ una repubblica, credo
sia piu laudabile c meno pericoloso il
procedere di Manlio; perchè questo modo
tutto è in favore del pubblico, e non
risguarda in alcuna parte all’ ambizione
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(J7G DEI DISCORSI
privata; perchè per tale modo non si
può acquistare partigiani, mostrandosi
sempre aspro a ciascuno, ed amando
solo il ben comune; perchè chi fa que-
sto, non s’ acquista particolari amici,
quali noi chiamiamo, come di sopra
si disse, partigiani. Talmentechè, simil
modo di procedere non può esser più
utile nè più desiderabile in una repub-
blica; non mancando in quello l’ utilità
pubblica, e non vi potendo essere alcun
sospetto della potenza privata. Ma nel
modo di procedere di Valerio è il con-
trario: perchè se bene in quanto al
pubblico si fanno i medesimi effetti,
nondimeno vi surgono molte dubitazioni,
per la particolar benivolenza che colui
s’ acquista con i soldati, da fare in un
lungo imperio cattivi effetti contra alla
libertà. E se in Publicola questi cattivi
effetti non nacquero, ne fu cagione non
essere ancora gli animi dei Romani cor-
rottile quello non esser stato lun-
gamente e continovamente al governo
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LIBRO TERZO. 677
loro. Ma se noi abbiamo a considerare
un principe, come considera Senofonte,
noi ci accosteremo al tutto a Valerio, e
lasceremo Manlio; perchè un principe
debbe cercare nei soldati e nei sudditi
1* ubbidienza e 1’ amore. 1/ ubbidienza
gli dà lo essere osservatore degli ordini,
Tesser tenuto virtuoso: lo amore gli
dà P affabilità, P umanità, la pietà e
quell' altre parli che erano in Valerio,
e che Senofonte scrive essere state in
Ciro. Perchè lo essere un principe ben
^voluto particolarmente, ed avere lo eser-
cito suo partigiano, si conforma con
tutte P altre parti dello Stato suo: ma
in un cittadino che abbia P esercito suo
partigiano, non si conforma già questa
parte con P altre sue parti, che P hanno
a far vivere sotto le leggi, ed ubbidire
ai magistrali. Leggesi intra le cose an-
tiche della Repubblica viniziana, come
essendo le galee viniziane tornate in
Vinegia, e venendo certa differenza in-
tra quelli delle galee ed il popolo, donde
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C78
DEI DISCORSI
si venne al tumulto ed all’ armi; nè si
potendo la cosa quietare nè per forza
di ministri, nè per reverenza de’ citta-
dini, nè timore di magistrati; subito
che a quelli marinari apparve innanzi
un gentiluomo che era 1’ anno davanti
stato capitano loro, per amore di quello
si partirono e lasciarono la zuffa. La
qual ubbidienza generò tanta sospizioue
al Senato, che poco tempo dipoi i Vini-
ziani, o per prigione o per morte, se
ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il
procedere di Valerio essere utile in uno
principe, e pernizioso in un cittadino;
non solamente alia patria, ma a sè: a
lei, perchè quelli modi preparano la via
alla tirannide; a sè, perchè in sospet-
tando la sua città del modo del proce-
dere suo è costretta assicurarsene con
suo danno. E così, per il contrario, af-
fermo il procedere di Manlio in un prin-
cipe esser dannoso, ed in uno cittadino
utile, e massime alla patria: ed aneora
rare volte offende; se già questo odio
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LiBRO TERZO. 679
clic ti tira dietro la tua severità non è
accresciuto da sospetto che 1’ altre tue
virtù per la gran riputazione ti arrecas-
sino: come di sotto di Cammillo si di-
scorrerà.
Cap. XXIH. — Per quale cagione Cammillo
fosse cacciato di Roma.
Noi abbiamo conchiuso di sopra, come
procedendo come Valerio, si nuoce alla
patria ed a sè; c procedendo come
Manlio, si giova alia patria, e nuocesi
qualche volta a sè. Il che si pruova as-
sai bene per lo essempio di Cammillo,
il quale nel procedere suo simigliava
più. tosto Manlio che Valerio. Donde
Tito Livio, parlando di lui, dice, come
ejus virlutem mililes odorante et mira-
banlur . Quello che lo faceva tenere me-
raviglioso, era la sollicitudine, la pru-
denza, la grandezza dell’ animo, il buono
ordine che lui servava nello adoperarsi
e nel comandare agli eserciti: quello
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680
DEI DISCORSI
che lo faceva odiare, era essere piu se-
vero nel gastigargli, che liberale nel ri-
munerargli. G Tito Livio ne adduce di
questo odio queste cagioni: la prima,
che i danari che si trassero de* beni
dei Veienti che si venderono, esso gli
applicò al pubblico, e non gli divise con
la preda : V altra, che nel trionfo ei fece
tirare il suo carro trionfale da quattro
cavagli bianchi, dove essi dissero che
per superbia ei s’ era voluto agguagliare
al sole : la terza, che fece voto di dare
ad Apolline la decima parte della preda
dei Veienti, la quale, volendo satisfare
al voto, s’ aveva a trarre dalle mani dei
soldati che l’ avevano di già occupata.
Dove si notano bene e facilmente quelle
cose che fanno un principe odioso ap-
presso il popolo; delle quali la princi-
pale è privarlo d’ uno utile. La qual co-
sa è di importanza assai; perchè le cose
che hanno in sè utilità, quando I’ uomo
n* è privo, non le dimentica mai, ed
ogni minima necessità te ne fa ricorda-
j- —
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LIBRO TERZO.
681
re; e perchè le necessità vengono ogni
giorno, tu te ne ricordi ogni giorno.
L’altra cosa è lo apparire superbo ed
enfiato; il che non può essere più odioso
ai popoli, e massime ai liberi. E ben-
ché da quella superbia e da quel fasto
non ne nascesse loro alcuna incomodi-
tà, nondimeno hanno in odio chi l’usa:
da che un principe si debbe guardare
come da uno scoglio; perchè tirarsi
odio addosso senza suo profitto, è al
tutto partito temerario e poco pru-
dente.
Cap. XXIV. — La prolungazione
degl* imperi fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere
della Repubblica romana, si vedrà due
cose essere state cagione della resolu-
zione di quella Repubblica: l’una fu-
rono le contenzioni che nacquero dalla
legge agraria; l’altra la prolungazione
degli imperi: le quali cose se fussino
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682
DEI DISCORSI
stale conosciute bene da principio, e
fattivi debiti rimedi, sarebbe stato il vi-
ver libero più lungo, e per avventura
più quieto. C benché, quanto alia pro-
lungazione dello imperio, non si vegga
che in Roma nascesse mai alcuno tu-
multo; nondimeno si vedde in fatto,
quanto noce alla città quella autorità
che i cittadini per tali diliberazioni pre-
sono. E se gli altri cittadini a chi era
prorogato il magistrato, fussino stali
savi e buoni come fu Lucio Quinzio,
non si sarebbe incorso in questo incon-
veniente. La bontà del quale è d’ uno
essempio notabile; perchè, sendosi fatto
intra la Plebe ed il Senato convenzione
d’ accordo, ed avendo la Plebe prolun-
gato in uno anno V imperio ai Tribuni,
giudicandogli atti a poter resistere al-
l’ambizione dei Nobili, volle il Senato,
per gara della Plebe e per non parere
da meno di lei, prolungare il consolato
a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò
questa diliberazionc, dicendo che i cat-
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LIBRO TERZO.
683
livi essempi si volevano cereare ili spe-
gnergli, non di accrescergli con uno al-
tro più cattivo essempio; e volle si fa-
cessino nuovi Consoli. La qual bontà e
prudenza se fusse stata in tutti i citta-
dini romani, non arebbe lasciata intro-
durre quella consuetudine di prolungare
i magistrati, e da quella non si sarebbe
venuto alla prolungazione delti imperi:
la qua! cosa, col tempo, rovinò quella
Repubblica. Il primo a eli i fu proro-
gato l’imperio, fu Publio Pilone; il
quale essendo a campo alla città di Pa-
lepoli, e venendo la line del suo conso-
lato, e parendo al Senato ch’egli avesse
in mano quella vittoria, non gli manda-
rono il successore, ma lo fecero Procon-
solo; talché fu il primo Proconsolo. La
qual cosa, ancora che mossa dal Senato
per utilità pubblica, fu quella che con
il tempo fece serva Roma. Perchè, quanto
più i Romani si discostaron con le ar-
mi, tanto più pareva loro tale proroga-
zione necessaria, e più P usarono. La
%
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tìS4
DEI DISCORSI
qual cosa fece due inconvenienti: l’uno
che meno numero di uomini si eserci-
tarono negl’imperi; e si venne per
questo a ristringere la reputazione in
pochi: l’altro, che stando un cittadino
assai tempo comandatole d’ uno eserci-
to, se lo guadagnava, e facevaselo par-
tigiano; perchè quello esercito col tem-
po dimenticava il Senato, e riconosceva
quello capo. Per questo Siila e Mario po-
terono trovare soldati che contea al bene
pubblico gli seguitassino : per questo Ce-
sare potette occupare la patria. Che se
mai i Romani non avessiuo prolungati i
magistrati e gli imperi, se non venivano
si tosto a tanta potenza, e se fussino
stati più tardi gli acquisti loro, sarebbe-
ro ancora venuti più tardi nella servitù.
Cap. XXV. — Della povertà di Cincinnato ,
e di molti cittadini romani.
; Noi abbiamo ragionato altrove, come
la più ulil cosa che si ordini in un vi-
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LIBRO TERZO.
685
ver libero è che si mantenghino i citta-
dini poveri. E benché iti Roma non ap-
parisca quale ordine fusse quello che
facesse questo effetto, avendo, massime,
la legge agraria avuta tanta oppugna-
zione; nondimeno per esperienza si vid-
de, ' che dopo quattrocento anni che
Roma era stata edificata, v’era una gran-
dissima povertà ;**nè si può credere che
altro ordine maggiore facesse questo ef-
fetto, che vedere come per la povertà
non t’ era impedita la via a qualunque
grado ed a qualunque onore, e come
s’ andava a trovare la virtù in qualun-
que casa l'abitasse. 11 qual modo di
vivere faceva manco disperabili le ric-
chezze. Questo si vede manifesto; per-
chè essendo Minuzio consolo assediato
con lo esercito suo dagli Equi, si empiè
di paura Roma, che quello esercito non
si perdesse; tanto che ricorsero a creare
il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro
cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio
Cincinnato, il quale allora si trovava
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DEI DISCORSI
C$6
«ella sua piccola villa, la quale lavora-
va di sua mano. La qual cosa con pa-
role auree è celebrala da Tito Livio, di-
cendo: Opera precium est audire, qui
omnia prue divifiis Humana spera uni,
ncque honori magno locum, neque tir-
tuli putanl esse, nisi effuse affluant
opes. Arava Cincinnato la sua piccola
villa, la quale non trapassava il termi-
ne di quattro iugeri, quando da Roma
vennero i Legati del Senato a signifi*
Carli la elezione della sua dittatura, ed
a mostrarli in quale pericolo si trovava
la romana Repubblica. Egli, presa la sua
toga, venuto in Roma e ragunato uno
esercito, n’andò a liberar Minuzio; ed
avendo rotti e spogliati i nimici, e libe-
rato quello, non volle che 1’ esercito as-
sediato fusse partecipe della preda, di-
cendogli queste parole: Io non voglio
che tu participi della preda di coloro
de’ quali tu sei stato per essere preda;
— e privò Minuzio del consolato, e fe-
eclo Legato, dicendogli: Starai tanto in
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LIBRO TERZO.
6S7
questo grado, che tu impari a sapere
essere Consolo. — Aveva fatto suo Maestro
de’ cavalli Lucio Tarquiuio, il quale per
la povertà militava a piede. Notasi, co-
me è detto, T onore che si faceva in
Roma alla povertà; e come ad uno uo-
mo buono e valente, quale era Cincin-
nato, quattro iugeri di terra bastavano
a nutrirlo. La quale povertà si vede co-
me era ancora nei tempi di Marco Re-
golo; perchè sendo in Affrica con gli
eserciti, domandò licenzia al Senato per
poter tornare a custodire la sua villa,
la quale gli era guasta da’ suoi lavora-
tori. Dove si vede due cose notabilissi-
me : 1* una la povertà, e come vi sta-
vano dentro contenti, e come bastava a
quelli cittadini trarre della guerra ono-
re, e l’ utile tutto lasciavano al pub-
blico. Perchè, s’ egli avessero pensato
d’arricchire della guerra, gli sarebbe
dato poca briga, che i suoi campi fus-
sino stati guasti. L’ altra è, considerare
la generosità dell’ animo di quelli citta-
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688
DEI DISCORSI
dini, i quali preposti ad uno esercito,
saliva la grandezza dell’animo loro so-
pra ogni principe; non stimavano i re,
non le repubbliche ; non gli sbigottiva
nè spaventava cosa alcuna; e tornati
dipoi privati, diventavano parchi, umili,
curatori delle piccole facultà loro, ubbi-
dienti ai magistrati, reverenti alti loro
maggiori: talché pure impossibile che
uno medesimo animo patisca tanta mu-
tazione. Durò questa povertà ancora to-
sino ai tempi di Paulo Emilio, che fu-
rono quasi gli ultimi felici tempi di
quella Repubblica, dove un cittadino che
col trionfo suo arricchì Roma, nondi-
meno mantenne povero sè. E cotanto si
stimava ancora la povertà, che Paulo
nell’ onorare chi s’ era portato bene
nella guerra, donò a un suo genero una
tazza d’ oriento, il quale fu il primo
oriento che fusse nella sua casa. E po-
trebbesi con un lungo parlare mostrare
quanti migliori frutti produca la po-
vertà che la ricchezza, e come V una ha
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LIBRO TERZO.
689
onorato le città, le provincia, le sètte;
c l’altra V ha rovinate; se questa ma-
teria nou fusse stata molte volte da al-
tri uomini celebrata.
4
C\p. XXVI. — Come per cagione
di femmine si rovina uno Slato.
Nacque nella città d’ Ardea intra i pa-
trizi e i plebei una sedizione per ca-
gione d’ un parentado, dove avendosi a
maritare una. femmina erede, la doman-
darono parimente un plebeo ed un no-
bile; e non avendo quella padre, i tu-
tori la volevano congiugnere al plebeo,
la madre al nobile: di che nacque. tanto
tumulto, che si venne all’ armi ; dove
tutta la Nobiltà s’ armò in favore del
nobile, e tutta la Plebe in favore del
plebeo. Talché essendo superata la Ple-
be, s’ uscì d’ Ardea, e mandò ai Yolsci
per aiuto: i nobili mandarono a Roma.
Furono prima i Volsci, e, giunti intorno
ad Ardea, s’accamparono. Sopravvenne-
Machiave.hi, Discorsi — l. '*'*
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690
DEI DISCORSI
ro i Romani, e rinchiusone i Volsci in-
fra ia terra e loro; tanto che gli co;
slrinsono, essendo stretti dalla fame, a
darsi a discrezione. Ed entrati i Romani
in Ardea, e morti lutti i capi della se-
dizione, composono le cose di quella
città. Sono in questo testo più cose da
notare. Prima si vede, come le donne
sono state cagioni di molte rovine, ed
hanno fatti gran danni a quelli che go-
vernano una città, ed hanno causato di
molte divisioni in quella : e, come si è
veduto in questa nostra istoria, V ec-
cesso fatto contra a Lucrezia tolse lo
stato ai Tarquini; quell’ altro fatto con-
tra a Virginia privò i Dieci dell’ auto-
rità loro. Ed Aristotele intra le prime
cose che mette della rovina dei tiranni,
è V avere ingiuriato altrui per conto di
donne, o con stuprarle, o con violarle,
o corrompere i matrimoni ; come di que-
sta parte, nel capitolo dove noi trat-
tammo delle congiure, largamente si
parlò. Dico, adunque, come i principi
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LIBRO TERZO.
691
assoluti ed i governatot i delle repub*
bliche non hanno a tenere poco conto
di questa parte ; ma debbono conside-
rare i disordini clic per tuie accidente
possono nascere, e rimediarvi in tempo
che il rimedio non sia con danno e vi-
tuperio delio Stato loro o della loro re?
pubblica: come intervenne agli Ardenti,
i quali per avere lasciato crescere quella
gara intra i loro cittadini, si condusso-
tio a dividersi infra loro; e volendo riu-
nirsi, ebbono a mandare per soccorsi
esterni : il che è un gran principio d’una
propinqua servitù. Ma vegniamo all’ al-
tro notabile del modo del riunire le città,
del quale nel futuro capitolo parleremo.
C*r. XXVII. — Come e* si ha a unire
una città divisa ; c come quella oppi-
nionc non è vera , che a tenere le città
bisogna tenerle disunite.
Per lo essempio dei Consoli romani
che riconciliarono insieme gli Ardeati,
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692 DEI DISCORSI
si nota il modo come si debbe comporre
una citta divisa: il quale non è altro,
nè altrimenti si debbe medicare, clic
ammazzare i capi de’ tumulti. Perché
gli è necessario pigliare uno de’ tre
modi : o ammazzargli, come fecero co-
storo ; o rimuovergli della città; o far
loro far pace insieme, sotto obblighi di
non si offendere. Di questi tre modi,
questo ultimo è più dannoso, men cer-
to e più inutile. Perchè gli è impossi-
bile, dove sia corso assai sangue, o al-
tre simili ingiurie, che una pace fatta
per forza duri, riveggendosi ogni di in-
sieme in viso; ed è difficile che si asten-
gano dallo ingiuriare V uno V altro, po-
tendo nascere infra loro ogni dì, per la
conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore
essempio che la città di Pistoia. Era di-
visa quella città, come è ancora, quin-
dici anni sono, in Panciatichi e Cancel-
lieri ; ma allora era in sull’ orme, ed
oggi V ha posate. E dopo molte dispute
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LIBRO TERZO.
693
infra loro, vennero al sangue, alla ro-
vina delle case, al predarsi la roba, e
ad ogni altro termine di nimico. Ed i
Fiorentini, che gli avevano a comporre,
sempre vi usarono quel terzo modo; e
sempre ne nacquero maggiori tumulti
c maggiori scandali: tanto che, strac-
chi, si venne al secondo modo, di ri-
muovere i capi delle parli; de’ quali al-
cuni messono in prigione, alcuni altri
confinarono in vari luoghi: tanto che
1’ accordo fatto potette stare, ed è stato
infino a oggi. Ma senza dubbio più si-
curo saria stato il primo. Ma perchè
simili esecuzioni hanno il grande ed il
generoso, una repubblica debole non le
sa fare, ed ènne tanto discosto, che a
fatica la si conduce al rimedio secondo.
E questi sono di quelli errori che io
dissi nel principio, che fanno i principi
dei nostri tempi, che hanno a giudicare
le cose grandi; perchè doverebbouo vo-
ler vedere, come si sono governati co-
loro che hanno avuto a giudicare auti-
A.
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694 DEI DISCORSI
canìcole simili casi. Ma la debolezza
de’ presenti uomini, causala dalla debole
educazione loro e dalla poca notizia
delle cose, fa che si giudichino i giudizi
antichi parte inumani, parte impossibili.
Ed hanno certe loro moderne oppinioni
discoste al tutto dal vero; corn’è quella
che dicevano i savi della nostra città,
un tempo è: che bisognava tener Pi-
stoia con le parti j e Pisa con le for-
tezze ; e non s’avveggono, quanto runa
e l’ altra di queste due cose è inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perchè di
sopra ne parlammo a lungo; e voglio
discorrere la inutilità che si trae dai
tenere le terre, che tu hai iu governo,
divise. In prima, c impossibile che tu ti
mantenga tutte due quelle parti amiche
o principe o repubblica che le governi.
Perchè dalla natura è dato agli uomini
pigliar parte in qualunque cosa divisa,
e piacergli più questa che quella. Tal-
ché, avendo una parte di quella terra
malcontenta, fa che lu prima guerra che
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LIBRO TERZO.
605
viene, tu la perdi ; perchè gli è impos-
sibile guardare una città che abbia i
ni mici fuori e dentro. Se la è una re-
pubblica che la governi, non ci è il più
bel modo a far cattivi i tuoi cittadini
cd a far dividere la tua città, clic avere
in governo una città divisa; perchè cia-
scuna parte cerca d’aver favori, ciascu-
na si fa amici con varie corruttele : tal-
ché ne nasce due grandissimi inconve-
nienti; l’uno, che tu non to gli fai mai
amici, per non gli poter governar bene,
variando il governo spesso, ora con
l’uno, ora con l’altro umore; l’altro,
clic tale studio di parte divide di neces-
sità la tua repubblica. Ed il Biondo,
parlando dei Fiorentini c de’ Pistoiesi,
ne fa fede, dicendo: Mentre che i Fio-
ventini disegnavano di riunir PistoiaJ
divisano se medesimi. Pertanto, si può
facilmente considerare il male che da
questa divisione nasca. Nel 1501, quan-
do si perdè Arezzo, c tutto Val di Te-
vere e Val di Chiana, occupatoci dai
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69o
DEI DISCORSI
Vitelli e dal duca Valentino, venne un
monsignor di Lant, mandato dal re di
Francia a fare restituire ai Fiorentini
tutte quelle terre perdute; e trovando
Lant in ogni castello uomini die, nel
visitarlo, dicevano che erano della parte
di Marzocco, biasimò assai questa divi-
sione: dicendo, che se in Francia uuo
di quelli sudditi del re dicesse d’essere
della parte del re, sarebbe gastigato,
perchè tal voce non significherebbe al-
tro, se non che in quella terra fusse
gente nimica del re ; e quel re vuole
che le terre tutte siano sue amiche, uni-
te, e senza parti. Ma tutti questi modi
e queste oppinioni diverse dalla verità
nascono dalla debolezza di chi sono si-
gnori; i quali, veggendo di non poter
tenere gli Stati con forza e con virtà, si
voltano a simili industrie: le quali qual-
che volta nei tempi quieti giovano qual-
che cosa; ma come e’ vengono l’avver-
sità ed i tempi forti, le mostrano la
fallacia loro.
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LIBRO TERZO.
697
Gap. XXVIII. — Che si debbe por mente
alle opere de* cittadini , perchè molte
volte sotto un'opera pia si nasconde
un principio di tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata
dalla fame, e non bastando le provvi-
sioni pubbliche a cessarla, prese animo
uno Spurio Melio, essendo assai ricco
secondo quelli tempi, di far provvisione
di frumento privatamente, e pascerne
con suo grado la Plebe. Per la qual cosa
egli ebbe tanto concorso di popolo in
suo favore, che ’l Senato pensando al-
P inconveniente che di quella sua libe-
ralità poteva nascere, per opprimerla
avanti che la pigliasse più forze, gli
creò un Dittatore addosso, e fecelo mo-
rire. Qui è da notare, come molle volte
P opere che paiono pie c da non le po-
tere ragionevolmente dannare, diventano
crudeli, e per una repubblica sono pe-
ricolosissime, quando non siano a buo-
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69S
DEI DISCORSI
n* oi a corrette. E per discorrere questa
cosa più particolarmente, dico che una
repubblica senza cittadini riputati non
può stare, nè può governarsi in alcun
modo bene. Dall’ altro canto, la ripu-
tazione de’ cittadini è cagione della ti-
rannide delle repubbliche. E volendo re-
golare questa cosa, bisogna talmente
ordinarsi, che i cittadini sieno riputati
di riputazione che giovi, c non nuoca,
alla città ed alla libertà di quella. E
però si debbe esaminare i modi con i
quali ei pigliano riputazione j che sono
in effetto due: o pubblici o privati. I
modi pubblici sono, quando uno consi-
gliando bene, e operando meglio in be-
nefìzio comune, acquista riputazione. A
questo onore si debbe aprire la via ai
cittadini, e proporre prèmi ed ai con-
sigli ed all’ opere, talché se n’abbino
ad onorare e satisfare. E quando queste
riputazioni prese per queste vie, siano
schiette e semplici, non saranno mai
pericolose: ina quando le sono prese
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LIBRO TERZO.
699
per vie private, che è l’altro modo preal-
legato, sono pericolosissime ed in tutto
nocive. Le vie private sono, facendo be-
nefizio a questo ed a quell’ altro privato,
con prestargli danari, maritargli le fi-
gliuole, difendendolo dai magistrali, e
facendogli simili privati favori, i quali
si fanno gli uomini partigiani, e danno
animo a chi è cosi favorito di poter
corrompere il pubblieoe sforzar le leggi.
Debbe, pertanto, una repubblica bene
ordinata aprire le vie, come è detto, a
chi cerca favori per vie pubbliche, e
chiuderle a chi li cerca per vie private;
come si vede che fece Roma: perchè in
premio di chi operava bene per il pubbli-
co, ordinò i trionfi c tutti gli altri onori
che la dava ai suoi cittadini ; ed in danno
di chi sotto vari colori per vie private
cercava di farsi grande, ordinò l’accuse;
e quando queste non bastassero, per
èssere accecato il popolo da una spezie
di falso bene, ordinò il Dittatore, il quale
con il braccio regio facesse tornare den-
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700
DEI DISCORSI
tro al seguo chi ne fusse uscito, come
la fece pei* punir Spurio Melio. Ed una
che di queste cose si lasci impunita, è
atta a rovinare una repubblica; perchè
difficilmente con quello essempio si ri-
duce dipoi in la vera via.
Cap. XXIX. — Che gli peccali dei popoli
nascono dai principi.
Non si dolghino i principi d’ alcuno
peccato che faccino i popoli €11’ egli ab-
biano in governo ; perchè tali peccali
conviene che naschino o per sua negli-
genza, o per esser lui macchialo di si-
mili errori. E chi discorrerà i popoli
che nei nostri tempi sono stati tenuti
pieni di ruberie e di simili peccati, ve-
drà che sarà al tutto nato da quelli che
gli governavano, che erano di simile
natura. La Romagna, innanzi che in
quella fossero spenti da papa Alessan-
dro \ 1 quelli signori che la comanda-
vano, era uno essempio d’ ogni seclle-
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LIBRO TERZO.
701
ratissima vita, perchè quivi si vedeva
per ogni leggiere cagione seguire occi-
sioni e rapine grandissime. Il che na-
sceva dalla tristizia di quei principi $
non dalla natura trista degli uomini,
come loro dicevano. Perchè sendo quelli
principi poveri, e volendo vivere da ric-
chi, erano forzati volgersi a molte ra-
pine, e quelle per vari modi usare. Ed
intra Poltre disoneste vie che e’ tene-
vano, facevano leggi, e proibivano alcuna
azione; dipoi erano i primi che davano
cagione della inosservanza d’ esse, nè
inai punivano gli inosservanti, se non
poi quando vedevano esser incorsi assai
in simile pregiudizio; ed allora si vol-
tavano alla punizione, non per zelo della
legge fatta, ma per cupidità di riscuo-
ter la pena. Donde nascevano molti in-
convenienti, e sopra tutto questo: che i
popoli si impoverivano, e non si cor-
reggevano; e quelli che erano impove-
riti, s’ ingegnavano contra ai meno po-
tenti di loro prevalersi. Donde surgevano
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702
DEI DISCORSI
tutti questi mali che di sopra si dicono,
de’ quali era cagione il principe. E che
questo sia vero, lo mostra Tito Livio
quando ei narro, che portando i Legati
romani il dono della preda dei Veienti
ad Apolline, furono presi dai corsari di
Lipari in Sicilia, e condotti in quella
terra : ed inteso Timasiteo loro principe
che dono era questo, dove egli andava
e chi lo mandava, si portò, quantunque
nato a Lipari, come uomo romano, e
mostrò al popolo quanto era impio oc-
cupare simil dono; tanto che, con il con-
senso dell* universale, ne lasciò andare
i Legati con tutte le cose loro. E le pa-
role dello istorieo sono queste: Tima-
sitheus muhitudinem religione implevilj
guoe seniper regenti est similis. E Lorenzo
dei Medici, a con Orinazione di questa
sentenza, dice :
«
u E quel che fa il signor, fanno poi molti ;
Chè nel signor son tutti gli occhi volti. „
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LIBRO TERZO.
703
Cap. XXX. — Ad uno cittadino che t co-
glia nella sua repubblica far di sua
autorità alcuna opera buona , è neces-
sario prima spegnere /* invidia: c co-
me, venendo il nimico j s' ha a ordi-
nare la difesa dJ una città.
Intendendo il Senato romano come la
Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto
per venire a' danni di Roma; e cornei
Latini e gli Ernici, stati per lo addietro
amici del Popolo romano, s’ erano acco-
stati coi Volaci, perpetui nimici di Ro-
ma ; giudicò questa guerra dovere esser
pericolosa. E trovandosi Cnnimilio tri-
buno di potestà consolare, pensò che si
potesse fare senza creare il Dittatore,
quando gli altri Tribuni suoi colleglli
volessino cedergli la somma dello impe-
rio. Il che detti Tribuni fecero volonta-
riamente: nec quicquam (dice Tito Livio)
de majestate sua delractum crcdcbant,
rjund ma j està li ejus concessissent. Onde
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DEI DISCORSI
704
Cammillo, presa a parole questa ubbi-
dienza, comandò che si scrivessino tre
eserciti. Del primo volse esser capo lui,
per ire eontra i Toscani. Del secondo
fece capo Quinto Servilio, il quale volle
stesse propinquo a Roma, per ostare ai
Latini ed agli Ernici, se si movessino.
Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio,
il quale scrisse per tenere guardata la
città, e difese le porte e la curia, in
ogni caso che nascesse. Oltre a questo
ordinò che Orazio, uno de’ suoi colleglli,
provvedesse 1* arme, ed il frumento, e
l’ altre cose che richieggono i tempi
della guerra. Prepose Cornelio, ancora
suo collega, al Senato ed al pubblico
consiglio, acciocché potesse consigliare
le azioni che giornalmente s’ avevano a
fare ed eseguire. Iu questo modo furo-
no quelli Tribuni, in quelli tempi, per
la salute della patria disposti a coman-
dare e ad ubbidire. Notasi per questo
testo, quello che faccia uno uomo buono
e savio, e di quanto bene sia cagione,
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LIBRO TERZO.
705
c quanto utile ei possi fare alla sua pa-
tria, quando, mediante la sua bontà e
virtù, egli ba spenta l’ invidia ; la quale
è molte volte cagione che gli uomini
rton possono operar bene, non permet-
tendo detta invidia che gli abbino quella
autorità la quale è necessaria avere
nelle cose d’ importanza. Spegnesi que-
sta invidia in duoi modi: o per qualche
accidente forte e difficile, dove ciascuno
veggendosi perire, posposta ogni ambi-
zione, corre volontariamente ad ubbidi-
re a colui che crede che con la sua
virtù lo possa liberare: come interven-
ne a Cammillo; il quale avendo dato di
sè tanti saggi d’ uomo eccellentissimo,
ed essendo stato tre volte Dittatore, ed
avendo amministrato sempre quel grado
ad utile pubblico, e non a propria uti-
lità, aveva fatto che gli uomini non te-
mevano della grandezza sua ; e per esser
tanto grande e tanto ripututo, non sti-
mavano cosa vergognosa essere inferio-
re a lui. E però dice Tito Livio savia*
Machiavelli. Discorsi. — 1. 45
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DEI DISCORSI
706
mente quelle parole: JSep quicquam eie.
In un altro modo si spegne l’invidia,
quando o per violenza o per ordine na-
turale muoiono coloro che sono stati
tuoi concorrenti nel venire a qualche
riputazione ed a qualche grandezza ; i
quali veggendoti riputato più di loro, è
impossibile che mai acquieschino, e stia-
no pazienti. E quando sono uomini eh»
siano usi a vivere in una citta corrot-
ta, dove la educazione non abbia fatto
in loro alcuna bontà, è impossibile che
per accidente alcuno mai si indichino;
e per ottenere la voglia loro, e satisfare
alla loro perversità d’animo, sarebbero
contenti vedere la rovina della loro pa-
tria. A vincer questa invidia non ci è
altro rimedio che la morte di coloro
che l’hanno; e quando la fortuna è
tanto propizia a quell’ uomo virtuoso,
che si muoiano ordinariamente, diventa
senza scandalo glorioso, quando senza
ostacolo e senza offesa ei può mostrare
la sua virtù: ma quando ei non abbi
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LIBRO TERZO.
707
questa ventura, gli conviene pensare per
ogni via torsegli dinanzi; e prima che
ei facci cosa alcuna, gli bisogna tenere
modi eli* ei vinca questa difTìcultà. E chi
legge la Bibbia sensatamente, vedrà
Moisè essere stato sforzato, a volere che
le sue leggi e gli suoi ordini andassero
innanzi, ad ammazzare infiniti uomini,
ì quali, non mossi da altro che da in-
vidia, si opponevano a* disegni suoi.
Questa necessità conosceva benissimo
frate Girolamo Savonarola; conoscevala
ancora Pietro Soderini, gonfaloniere di
Firenze. V uno non potette vincerla, per
non avere autorità a poterlo fare (che
fu il frate), e per non essere inteso be-
ne da coloro che lo seguitavano, che ne
arebbono avuto autorità. Nondimeno per
lui non rimase, e le sue prediche sono
piene d’ accuse dei savi del mondo, e di
invettive contro a loro; perchè chiama-
va così questi invidi, e quelli che si op-
ponevano agli ordini suoi. Quell’ altro
credeva col tempo, con la bontà, con la
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70S
DEI DISCORSI
fortuna sua, con beneficarne alcuno, spe-
gner questa invidia ; vedendosi d* assai
fresca età, e con tanti nuovi favori che
gli arrecava il modo del suo procedere,
che credeva poter superare quelli tanti
che per invidia se gli opponevano, senza
alcuno scandalo, violenza e tumulto : e
non sapeva che M tempo non si può
aspettare, la bontà non basta, la fortu-
na varia, e la malignità non trova dono
che la plachi. Tanto che V uno e l’altro
di questi due rovinarono, e la rovina
loro fu causata da non aver saputo o
potuto vincere questa invidia. 1/ altro
notabile è 1’ ordine che Cammillo dette
dentro e fuori per la salute di Roma.
E veramente, non senza cagione, gli isto-
rici buoni, com’ è questo nostro, metto-
no particolarmente e distintamente certi
casi, acciocché i posteri imparino come
gli abbino in simili accidenti a difen-
dersi. E debbesi in questo testo notare,
che non è la più pericolosa nè la più
inutile difesa, che quella che si fa tu-
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LIBRO TERZO.
709
multuariamente e senza ordine. E que-
sto si mostra per quello terzo esercito
che Carminilo fece scrivere per lasciarlo
in Roma a guardia della città : perchè
molti arebbero giudicato e giudichereb-
bono questa parte superflua, scudo quel
popolo per 1’ ordinario armato e belli-
coso; e per questo, che non gli biso-
gnasse di scriverlo altrimente, ma ba-
stasse farlo armare quando il bisogno
venisse. Ma Cammillo, e qualunche fusse
savio come era esso, la giudica altri-
mente; perchè non permette mai che
una moltitudine pigli 1’ arme, se non cou
certo ordine e certo modo. E però, iu
su questo essempio, uno che sia prepo-
sto a guardia d’ una città, debbe fug-
gire come uno scoglio il fare armare
gli uomini tumultuosamente; ma dcbbc
prima avere scritti e scelti quelli che
voglia s’ armino, chi gli abbino a ubbi-
dire, dove a convenire, dove andare; ed
a quelli che non sono scritti, comanda-
re che stiano ciascuno alle case sue a
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DEI DISCORSI
710
guardia di quelle. Coloro che terranno
questo ordine in uiia città assaltata, fa-
cilmente si potranno difendere: chi farà
altrimenti, non imiterà Cammillo, e non
si difenderà.
» »
Gap. XXXI. — Le repubbliche forti e gli
uomini eccellenti ritengono in ogni
fortuna il medesimo animo e la loro
medesima dignità.
.Intra 1* altre magnifiche cose che il
nostro istorico fa dire e fare a Cammil-
lo, per mostrare come debbo esser fatto
un uomo eccellente, gii mette in bocca
queste parole: iSec mi hi diclattira ani -
mo8 fecilj nec exilium ademil. Per le
quali parole si Yede, come gli uomini
grandi sono sempre io ogni fortuna
quelli medesimi ; e se la varia, ora con
esaltargli ora con opprimergli, quelli
non variano, ma tengono sempre P ani-
mo fermo, ed in tal modo congiunto
con il modo del vivere loro, che fncil-
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♦
LIBRO TERZO. 711
mente si conosce per ciascuno, la for-
tuna non aver potenza sopra di loro.
Altrimenti si governano gli uomini de-
boli; perchè invaniscono ed inebriano
nella buona fortuna, attribuendo tutto
il bene che gli hanno a quelle virtù che
' non conobbero mai. D’onde nasce che
diventano insopportabili ed odiosi a tutti
coloro che gli hanno intorno. Da che
poi dipende la subita variazione della
sorte; la quale come veggono in viso,
caggiono subito nell’ altro difetto, e di-
ventano vili ed abietti. Di qui nasce che
i principi così fatti pensano nella av-
versità più a fuggirsi che a difendersi,
come quelli che per aver male usata la
buona fortuna, sono ad ogni difesa im-
preparati. Questa virtù e questo vizio,
eh’ io dico trovarsi in uno uomo solo, si
trova ancora in una repubblica: ed in
fessempio ci sono i Romani ed i Vini-
ziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte
gli fece mai divenire abietti, nè nessu-
na buona fortuna gli fece mai essere in-
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7i-2
DEI DISCORSI
solenti; come si vidde manifestamente
dopo la rotta eli’ egli ebbouo a Canile,
e dopo la vittoria eli’ egli ebbono con-
tea ad Antioco; perchè per quella rot-
ta, ancora che gravissima per esser
stata la terza, non invilirono mai; e
mandarono fuori eserciti; non volleno
riscattare i loro prigioni contra agli or-
dini loro; non mandarono ad Annibaie
o a Cartagine a chiedere pace : ma, la-
sciate stare tutte queste cose abiette in-
dietro, pensarono sempre alla guerra ;
armando, per carestia d’ uomini, i vec-
chi ed i servi loro. La qual cosa cono-
sciuta da Annoile cartaginese, come di
sopra si disse, mostrò a quel Senato
quanto poco conto s’ aveva a tenere
della rotta di Canne. E così si vidde
come i tempi difficili non gli sbigottiro-
no, nè gli renderono umili. Dall’ altra
parte, i tempi prosperi non gli fecero
insolenti; perchè mandando Antioco ora-
tori a Scipione a chiedere accordo,
avanti che fussino venuti alla giornata,
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LIBRO TERZO.
713
e eh' egli avesse perduto, Scipione gli
delle certe condizioni della pace; quali
erano che si ritirasse dentro alla Siria,
ed il resto lasciasse nello arbitrio de’ Ro-
mani. Il quale accordo ricusando Antio-
co, e venendo alla giornata, e perden-
dola, rimandò ambasciadori a Scipione,
con commissione che pigliassero tutte
quelle condizioni erano date loro da)
vincitore: ai quali non propose altri
patti che quelli s’avesse offerti innanzi
che vincesse; soggiungendo queste pa-
role: quod Romani j si vincunluVj non
minuunlur animi s ; ncc si vincimi in-
solescere solent. Al contrario appunto di
questo s’è veduto fare ai Yiniziani: i
quali nella buona fortuna, parendo loro
aversela guadagnata con quella virtù che
non avevano, erano venuti a tanta inso-
lenza, che chiamavano il re di Francia
figliuolo di San Marco; non stimavano
la Chiesa ; non capivano in modo alcu-
no in Italia; e avevansi presupposto nel-
1’ animo d’ aver a fare una monarchia
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714
DEI DISCORSI
simile alla romana. Dipoi, come la buo-
na sorte gli abbandonò, e eli’ egli eb*
bero una mezza rotta a Vaila dal re di
Francia, pcrderono non solamente tutto
lo Stato loro per ribellione, ma buona
parte ne dettero ed al papa ed al redi
Spagna per viltà ed abiezione d’animo;
ed in tanto invilirono, che mandarono
nmbasciadori allo imperadore a farsi
(libatori; e scrissono al papa lettere
piene di viltà, e di sommissione per
muoverlo a compassione. Alla quale in*
felicità pervennero in quattro giorni, e
dopo una mezza rotta: perchè avendo
combattuto il loro esercito, nel ritirarsi
venne a combattere ed essere oppresso
circa la metà; in modo che, l’uno de’
provveditori che si salvò, arrivò a Ve-
rona con più di venticinquemila soldati,
intra piè e cavallo. Talmentechè, se a
Vinegia e negli ordini loro fusse stata
alcuna qualità di virtù, facilmente si po-
tevano rifare, e dimostrare di nuovo il
viso alla fortuna ed essere a tempo o a
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LIBRO TERZO. 715
vincere, o a perdere più gloriosamente,
o ad avere accordo più onorevole. Ma la
viltà dell’ animo loro, causata dalla qua-
lità de’ loro ordini non buoni nelle cose
della guerra, gli fece ad un tratto per-
dere lo Stato e 1’ animo. E sempre in-
tervewà così a qualunque si governi
come loro. Perchè questo diventare in-
solente nella buona fortuna ed abietto
nella cattiva, nasce dal modo del pro-
ceder tuo, e dalla educazione, nella quale
tu sei nudrito: la quale quando è de-
bole c vana, ti rende simile a sè: quan-
do-è stata altrimenti, ti rende ancora
d’ un’ altra sorte; e facendoli migliore
conoscitore del mondo, ti fa meno ral-
legrare del bene, e meno rattristare del
male. E quello che si dice d’ un solo, si
dice di molti che vivono in una repub-
blica medesima; i quali si fanno di
quella perfezione, che ha il modo del
vivere di quella. E benché altra volta si
sia detto, come il fondamento di tutti
gli Stali è la buona milizia ; e come do-
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DEI DISCORSI
716
ve non è questa, non possono essere nè
leggi buone, nè alcuna altra cosa buo-
na ; non mi pare superfluo replicarlo :
perchè ad ogni punto nel leggere que-
sta istoria si vede apparire questa ne-
cessità; e si vede come la milizia non
puote essere buona, se la non è «ecci-
tata; e come la non si può esercitare,
se la non è composta di tuoi sudditi.
Perchè sempre non si sta in guerra, nè
si può starvi ; però conviene poterla cser-,
citare a tempo di pace: e con altri che
con sudditi non si può fare questo eser-
cizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo
andato, come di sopra dicemmo, con
l’esercito conira ai Toscani; ed avendo
i suoi soldati veduto la grandezza dello
esercito dei nimici, s’ erano tutti sbigot-
titi, parendo loro essere tanto inferio-
ri da non poter sostenere l’ impeto di
quelli. E pervenendo questa mala dispo-
sizione del campo agli orecchi di Cam-
millo, si mostrò fuora, ed andando par-
lando per il campo a questi ed a quelli
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LIBRO TERZO.
717
soldati, trasse loro del capo quella op-
pinione; e nell’ultimo, senza ordinare
altrimenti il campo, disse: Quod qinsque
didicit, aiti consucvilj facict. E chi con-
sidererà bene questo termine, e le pa-
role disse loro, per inanimarli a ire con-
tro al nimici, considererà come e’ non
si poteva nè dire nè far fare alcuna di
quelle cose ad uno esercito che prima
non fusse stalo ordinato ed esercitato
ed in pace ed in guerra. Perchè di quelli
soldati che non hanno imparato a far
cosa alcuna, non può un capitano fidar-
si. e credere che faccino alcuna cosa che
stia bene; e se gli comandasse un nuo-
vo Annibaie, vi rovinerebbe sotto. Per-
chè, non potendo un capitano essere
mentre si fa la giornata in ogni parte,
se non ha prima in ogni parte ordinato
di potere avere uomini che abbino lo
spirito suo, e bene gli ordini ed i modi
del procedere suo, conviene di necessità
che ci rovini. Se, adunque, una città
sarà armata ed ordinata come Roma; c
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DEI DISCORSI
718
che ogni dì ai suoi cittadini, ed in par*
ticolare ed in pubblico, tocchi a fare
isperienza c della virtù loro, e delia po-
tenza della fortuna; interverrà sempre
che in ogni condizione di tempo e’ siano
dei medesimo animo, e manterranno la
medesima loro degnila: ma quaudo e’ sia-
no disarmati, e che si appoggeranno
solo olii impeti della fortuna, e non alla
propria virtù, varieranno col variare di
quella, e daranno sempre di loro quello
essempio che hanno dato i Viniziani.
Gap. XXXII. — Quali modi hanno tentili
alcuni a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano
Circe» e V elitre, due sue colonie, sotto
speranza d’ esser difese dai Latini; ed
essendo dipoi vinti i Latini, e mancando
di quelle speranze; consigliavano, assai
cittadini che si dovesse mandare a Roma
oratori a raccomandarsi al Senato : il
qual partilo fu turbato da coloro che
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LIBRO TKRZO.
719
erano stali autori della ribellione, i quali
temevano che tutta la pena non si vol-
tasse sopra le teste loro. E per tor via
ogni ragionamento di pace, incitarono
la moltitudine ad armarsi, ed a correr
sopra i confini romani. E veramente,
quando alcuno vuole o che uno popolo
o un principe levi al tutto 1’ animo da
uno accordo, non ci è altro modo più
vero nè più stabile, che fargli usare
qualche grave scelleratezza contro a co-
lui con il quale tu non vuoi che l’ac-
cordo si faccia : perchè sempre lo terrà
discosto quella paura di quella pena che
a lui parrà per lo errore commesso
aver meritata. Dopo la prima guerra
che i Cartaginesi ebbono coi Romani,
quelli soldati che dai Cartaginesi erano
stati adoperati in quella guerra in Si*
cilia ed in Sardigna, fatta che fu la pa-
ce, se ne andarono in Affrica; dovè non
essendo satisfatti del loro stipendio, mos-
sono l’armi contra ai Cartaginesi; e
fatti di loro due capi, Nato e Spendio,
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DEI DJSCOnSl
720
occuparono molte terre ai Cartaginesi,
e molte ne saccheggiarono. I Cartagine-
si, per tentare prima ogni altra via che
la zuffa, mandarono a quelli ainbascia-
dore Asdrubale loro cittadino, il quale
pensavano avesse alcuna autorità con
quelli, essendo stato per lo addietro lor
capitano. Ed arrivato costui, e volendo
Spendio e .Muto obbligare tutti quelli sol-
dati a non sperare d’ aver mai più pace
coi Cartaginesi, e per questo obbligarli
alla guerra; persuasono loro, ch’egli
era meglio ammazzare costui, con lutti
i cittadini cartaginesi, quali erano ap-
presso loro prigioni. Donde, non sola-
mente gli ammazzarono, ma con mille
supplizii in prima gli straziarono ; ag-
giungendo a questa scelleratezza uno
editto, che tutti i Cartaginesi che per lo
avvenire si pigliassino, si dovessino in
simil modo oecidere. La qual dilibera-
zione ed esecuzione fece quello esercito
crudele ed ostinato contra ai Cartagi-
nesi.
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Lier.O TLRZO.
721
Gap. XXXlll. — Egli è necessario , a vo-
ler vincere una giornalaj fare lJ eser-
cito confidente ed infra lorOj e con il
capitano.
A volere che uno esercito vinca una
giornata, è necessario farlo confidente,
in modo che creda dovere in ogni mo-
do vincere. Le cose che lo fanno confi-
dente sono: che sia armato ed ordinato
bene; conoschinsi l’uno 1’ altro. Nè può
nascer questa confidenza o questo ordi-
ne, se non in quelli soldati che sono
nati e vissuti insieme. Conviene che ’l
capitano sia stimato, di qualità che con-
fidino nella prudenza sua: e sempre
confideranno, quando lo vegghino ordi-
nato, sollecito ed animoso, e che tenga
bene e con riputazione la maestà del
grado suo: c sempre la manterrà, quan-
do gli punisca degli errori, e non gli
affatichi invano; osservi loro le promes-
se; mostri facile la via del vincere;
M fieni elli, Discorsi. — t . *0
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DEI DISCORSI
722
quelle cose che discosto potessino mo-
strare i pericoli, le nasconda, le allegge-
risca. Le quali cose osservate bene, sono
cagione grande che P esercito confida, e
confidando vince. Usavano i Romani di
far pigliare agli eserciti loro questa con-
fidenza per via di religione: donde na-
sceva, che con gli augurii ed auspizii
creavano i Consoli, facevano il dcletto,
partivano con li eserciti, e venivano alla
giornata: e senza aver fatto alcuna di
queste cose, non inai arebbe un buon
capitano e savio tentata alcuna fazione,
giudicando d’ averla potuta perdere fa-
cilmente, se i suoi soldati non avessero
prima inteso gli dii essere dalla parte
loro. E quando alcuno Consolo, o altro
loro capitano, avesse combattuto contra
agli auspizii, P arebbero punito; come
e* punirono Claudio Pulero. E benché
questa parte in tutte P istorie romane
si conosca, nondimeno si pruova più
certo per le parole che Livio usa nella
bocca di Appio Claudio; il quale, dolen-
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LIBRO TERZO.
723
dosi col popolo della insolenza de’ Tri-
buni della plebe, e mostrando che me-
diatiti quelli, gli auspizii e 1’ altre cose
pertinenti alla religione si corrompeva-
no, dice così : Etudaut nttnc licet reli -
gionem. Quid cnim interest , si pulii non
pasccnlur , si ex cavea tardine rxierint ,
si occinuerit avis ? Parva sunt hcec ; sed
parva isla non contemnendoj major e*
nostri maximam Itane Rcmpublicam fe-
cerunt. Perchè in queste cose piccole è
quella forza di tenere uniti e confidenti
i soldati: la qual cosa è prima cagione
d’ ogni vittoria. Nondi manco, conviene
con queste cose sia accompagnata la
virtù: altrimenti, le non vogliono. I Pre-
nestini, avendo contra ai Romani fuori
il loro esercito, se n* andarono ad al-
loggiare in sul fiume d’ Allia, luogo do-
ve i Romani furono vinti da* Franciosi ;
il che fecero per metter fiducia nei loro
soldati, e sbigottire i Romani per la
fortuna del luogo. E benché questo loro
partito fusse probabile, per quelle ra-
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724
DEI Disconsi
gioni che di sopra si sono discorse ;
nientedimeno il (ine della cosa mostrò,
che la vera virtù non teme ogni mini-
mo accidente. Il che l’ istorico benissi-
mo dice con queste parole, in bocca po-
ste del Dittatore, che parla così al suo
Maestro de’ cavagli : Vides tu, fortuna
illos fvelos ad Alliam conscdisse ; al tu,
frelus armis animisque, invade mediani
acietn. Perchè una vera virtù, un ordi-
ne buono, una sicurtà presa da tante
vittorie, non si può con cose di poco
momento spegnere; nè una cosa vana
fa lor paura, nè un disordine gli offen-
de: come si vede certo, che essendo due
Manlii consoli contra ai Volsci, per aver
mandato temerariamente parte del cam-
po a predare, ne seguì che in un tem-
po e quelli che erano iti, e quelli che
erano rimasti, si trovarono assediati;
dal qual pericolo non la prudenza dei
Consoli, ma la virtù de’ propri soldati
gli liberò. Dove Tito Livio dice queste
parole: Militimi, etiam sine reclorc , sta -
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UDRÒ TERZO.
725
bilia virtus lutala est. Non voglio lascia-
re indietro un termine usato da Fabio,
sendo entrato di nuovo con V esercito
in Toscana, per farlo confidente; giudi-
cando quella tal fidanza esser più ne-
cessaria per averlo condotto in paese
nuovo, e contra a ninnici nuovi : che,
parlando avanti la zuffa ai soldati, e
detto eli* ebbe molte ragioni, mediante
le quali e’ potevano sperare la vittoria,
disse che potrebbe ancora loro dire certe
cose buone, e dove e’ vedrebbono la vit-
toria certa, se non fusse pericoloso il ma-
nifestarle. Il qual modo come fu savia-
mente usato, così merita d’essere imitato.
Cap. XXXIV. — Quale fama o voce o
oppiatone fa che il popolo comincia
a favorire un cittadino: e se ei di-
stribuisce i magistrati con maggior
prudenza che un principe.
Altra volta parlammo come Tito Man-
lio, clic fu poi detto Torquato, salvò Lu-
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726
DEI DISCORSI
ciò Manlio suo padre da una accusa clic
gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno
della plebe. E benché il modo del sal-
varlo fusse alquanto violento ed istraor-
dinario, nondimeno quella Oliale pietà
verso del padre fu tanto grata all’uni-
versale, che non solamente non nc fu
ripreso, ma avendosi a fare i Tribuni
delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel
secondo luogo. Per il quale successo,
credo che sia bene considerare il modo
che tiene il popolo a giudicare gli uo-
mini nelle distribuzioni sue; e che per
quello noi veggiamo, se egli è vero quanto
di sopra si conchiuse, che il popolo sia
migliore distributore che un principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo
distribuire va dietro a quello che si dice
d’uno per pubblica voce e fama, quando
per sue opere note non lo conosce al-
trimenti; o per presunzione o oppinione
che s’ ha di 1 ni. Le quali due cose sono
causate o dai padri di quelli tali, che
per esser stati grandi uomini e valenti
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LIBRO TERZO.
727
nelle città, si crede che i figliuoli deb-
bino esser simili a loro, infino a tanto
che per l’ opere di quelli non s’intende
il contrario; o la è causata dai modi
che tiene quello di chi si parla. I modi
migliori che si possono tenere, sono : avere
compagnia d’uomini gravi, di buoni co-
stumi, e riputati savi da ciascuno. E per-
chè nessuno indizio si può aver mag-
giore d’uii uomo, che le compagnie con
quali egli usa; meritamente uno che usa
con compagnia onesta, acquista buon
nome, perchè è impossibile che non ab-
bia qualche similitudine con quella. 0
veramente s’ acquista questa pubblica
fama per qualche azione istraordinaria
e notabile, ancora che privata, la quale
ti sia riuscita onorevolmente. E di tutte
tre queste cose che danno nel principio
buoua riputazione ad uno, nessuna la
dà maggiore che questa ultima : perchè
quella prima de’ parenti e de’ padri è
sì fallace, che gli uomini vi vanno a
rilento ; ed in poco si consuma, quando
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728 dei discorsi
la virtù propria di colui che ha ad es-
sere giudicato non I’ accompagna. La
seconda che ti fa conoscere per via delle
pratiche tue, è miglior della prima, ma
è mollo inferiore alla terza ; perchè, in-
fino a tanto che non si vede qualche
segno che nasca da te, sta la riputa-
zione tua fondata in su V oppili ione, la
quale è facilissima a cancellarla. Ma
quella terza, essendo principiata e fon-
data in su le opere lue, ti dà nel prin-
cipio tanto nome, che bisogna bene che
tu operi poi molte cose contrarie a que-
sto, volendo annullarla. Debbono, adun-
que, gli uomini che nascono in una
repubblica pigliare questo verso, ed in-
gegnarsi con qualche operazione istraor-
dinaria cominciare a rilevarsi. Il che
molti a Roma in gioventù feciono o con
il promulgare una legge che venisse in
comune utilità ; o con accusare qualche
pytente cittadino come transgressore
delle leggi; o col fare simili cose nota-
bili c nuove, di che s’ avesse a parlare.
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LIBRO TERZO. 729
Nè solamente sono necessarie simili cose
per cominciare a darsi riputazione, ma
sono ancora necessarie per mantenerla
ed accrescerla. Ed a voler fare questo,
bisogna rinnovarle; come per tutto il
tempo della sua vita fece Tito Manlio:
perchè, difeso eh’ egli ebbe il padre
tanto virtuosamente e straordinariamen-
te, e per questa azione presa la prima
reputazione sua, dopo certi anni com-
battè con quel Francioso, e morto gli
trasse quella collana d’oro che gli dette
il nome di Torquato. Non bastò questo,
che dipoi, già in età matura, ammazzò
il figliuolo per aver combattuto senza
licenza, ancora ch’egli avesse superato
il nimico. Le quali tre azioni allora gli
dettono più nome e per tutti i secoli lo
fanno più celebre, che non lo fece alcuno
trionfo, alcuna vittoria, di che egli fu or-
natoquanto alcun altro Romano. E la ca-
gione è perchè in quelle vittorie Manlio
ebbe moltissimi simili; in queste partico-
lari azioni n’ebbe o pochissimi o nessu-
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730
DEI DISCORSI
no. A Scipione maggiore non arrecarono
tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto
gli dette l'avere, ancora giovinetto, in
sul Tesino difeso il padre; e l’aver, dopo
la rotta di Canne, animosamente con la
spada sguainata fatto giurare più gio-
veni romani, che ei non abbandonerei)-
bono Italia, come di già intra loro ave-
vano diliberato: le quali due azioni fu-
rono principio alla riputazione sua, e
gli fecero scala ai trionfi della Spagna
e dell’ Affrica. La quale oppinione da lui
fu ancora accresciuta, quando ei ri-
mandò la figliuola al padre e la moglie
al marito in Ispagna. Questo modo del
procedere non è necessario solamente
a quelli cittadini che vogliono acqui-
star fama per ottenere gli onori nella
loro repubblica, ma è ancora necessa-
rio ai principi per mantenersi la ri-
putazione nel principato loro : perchè
nessuna cosa gli fa tanto stimare, quan-
to dare di sè rari esempi con qualche
fatto o detto raro, conforme al bene
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LIBRO TERZO.
73 1
comune, il quale mostri il signore o
magnanimo o liberale o giusto, e che
sia tale che si riduca come in prover-
bio intra i suoi soggetti. Ma, per tor-
nare donde noi cominciammo questo
discorso, dico come il popolo quando
ei comincia a dare un grado ad un suo
cittadino, fondandosi sopra quelle tre
cagioni soprascritte, non si fonda male;
ma quando poi gli assai essempi de’ buoni
portamenti d’uno lo fanno più noto,
si fonda meglio, perchè in tal caso non
può essere che quasi mai s’ inganni, lo
parlo solamente di quelli gradi che si
danno agli uomini nel principio, avanti
che per ferma isperienza siano cono-
sciuti, o che passano da una azione ad
un’altra dissimile: dove, e quanto alia
falsa oppinione, e quanto alla corru-
zione, sempre fanno minori errori che
i principi. E perchè e’ può essere che i
popoli s’ ingannerebbono della fama,
della oppinione e delle opere d’ uno
uomo stimandole maggiori che in verità
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DEI DISCORSI
732
non sono; il che non interverrebbe ad
uno principe, perchè gli sarebbe detto,
e sarebbe avvertito da chi lo consiglias-
se : perchè ancora i popoli non man-
chino di questi consigli, i buoni ordi-
natori delle repubbliche hanno ordinalo
che, avendosi a creare i supremi gradi
nelle città, dove fusse pericoloso met-
tervi uomini insufficienti, e reggendosi
la voglia popolare esser diritta a creare
alcuno che fusse insuffiziente, sia lecito
ad ogni cittadino, e gli sia imputato a
gloria, di pubblicare nelle concioni i di-
fetti di quello, acciocché il popolo, non
mancando della sua conoscenza, possa
meglio giudicare. E che questo si usasse
a Roma, ne rende testimonio la ora-
zione di Fabio Massimo, la quale ei fece
al Popolo nella seconda guerra punica,
quando nella creazione dei Consoli i
favori si volgevano a creare Tito Otta-
cilio;e giudicandolo Fabio insuffiziente
a governare in quelli tempi il consolato,
gli parlò contro, mostrando la insuffi*
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UDRÒ TF.RZO.
733
ziciua sua ; tanto che gli tolse quel gra-
do, e volse i favori del Popolo a chi
più lo meritava che lui. Giudicano, adun-
que, i popoli nella elezione a’ magistrati
secondo quei contrassegni che degli uo-
mini si possono aver più veri; e quando
ei possono esser consigliati come i prin-
cipi, errano meno che i principi; e quel
cittadino che voglia cominciare ad avere
i favori del popolo, debbe con qualche
fatto notabile, come fece Tito Manlio,
guadagnarseli.
Cap. XXXV. — Quali perìcoli si portino
nel farsi capo a consigliare una cosa ;
e quanto ella ha più dello straordi-
nario, maggiori pericoli vi si cor~
rono.
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo
d’ una cosa nuova che appartenga a
molti, e quanto sia difficile trattarla ed
a condurla ; e condotta, a mantenerla,
sarebbe troppo lunga e troppo alta ma-
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DEI DISCORSI
734
leria a discorrerla: però, riserbandola
a luogo più conveniente, parlerò solo di
quelli pericoli che portano i cittadini, o
quelli che consigliano uno principe a
farsi capo d’ una diliberazione grave ed
importante, in modo che tutto il consi-
glio d’ essa sia imputato a lui. Perchè,
giudicando gli uomini le cose dal fine,
tutto il male che ne risulta, s’ imputa
all’autore del consiglio; e se ne risulta
bene, ne è commendato: ma di lunga il
premio non contrappesa il danno. Il pre-
sente Sultan Sali, dello Gran Turco, es-
sendosi preparato (secondo che uè ri-
feriscono alcuni che vengono de’ suoi
paesi) di fare l’ impresa di Soria e di
Egitto, fu confortato da un suo Rascia,
quale ei teneva ai confini di Persia, d’an-
dare contea al Sofi: dal quale consiglio
mosso, andò con esercito grossissimo a
quella impresa; ed arrivando in paese
larghissimo, dove sono assai deserti e
le fiumare rade, e trovandovi quelle
diflìculta che già fecero rovinare molli
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LIBRO TERZO.
735
eserciti romani, fu in modo oppressalo
da quelle, che vi perdè per fame e per
peste, ancora che nella guerra fusse su-
periore, gran parte delle sue genti : tal-
ché irato contro all’autore del consiglio,
l’ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati
confortatori d’ una impresa, e per avere
avuto quella tristo fine, essere stati man-
dati in esilio. Fecionsi capi alcuni cit-
tadini romani, che si facesse in Roma
il Consolo plebeo. Occorse che il primo
che uscì fuori con gli eserciti, fu rotto ;
onde a quelli consigliatori sarebbe av-
venuto qualche danno, se non fusse stata
tanto gagliarda quella parte, in onore
della quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quelli
che consigliano una repubblica, e quelli
che consigliano un principe, sono posti
intra queste angustie, che se non con-
sigliano le cose che paiono loro utili, o
per la città o per il principe, senza ri-
spetto, ei mancano dell’ uffìzio loro; se
le consigliano, egli entrano nel pericolo
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736 DEI DISCORSI
della vita e dello Stato: essendo lutti
gli uomini in questo ciechi, di giudi-
care i buoni e cattivi consigli dal fine.
E pensando in che modo ei potessino
fuggire o questa infamia o questo pe-
ricolo, non ci veggo altra via che pi-
gliar le cose moderatamente, e non ne
prendere alcuna per sua impresa, e dire
V oppinione sua senza passione, e senza
passione con modestia difenderla : in modo
che, se la città o il principe la segue,
(die la segua volontario, e non paia che
vi venga tirato dalla tua importunità.
Quando tu faccia così, non è ragione-
vole che un principe ed un popolo del
tuo consiglio ti voglia male, non essendo
seguito contra alla voglia di molti : perchè
quivi si porta pericolo dove molti han-
no contradetto, i quali poi nello infelice
fine concorrono a farti rovinare. E se
in questo caso si manca di quella gloria
che si acquista nell’ esser solo contra
molti a consigliare una cosa, quando
ella sortisce buon fine, ci sono al riu-
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LIBRO TERZO.
737
contro due beni : il primo, di mancare
del pericolo ; il secondo, che se tu con-
sigli una cosa modestamente, e per la
contradizione il tuo consiglio non sia
preso, e per il consiglio d’altrui ne se-
guiti qualche rovina, ne risulta a te
grandissima gloria. E benché la gloria
che s’acquista de’ mali che abbia o la
tua città o il tuo principe, non si possa
godere, nondimeno è da tenerne qualche
conto. Altro consiglio non credo si possa
dare agli uomini in questa parte: per-
chè consigliandogli che tacessino, e non
dicessino I’ oppinione loro, sarebbe cosa
inutile alla repubblica o ai loro principi,
e non fuggirebbono il pericolo ; perchè
in poco tempo diventerebbono sospetti:
e ancora potrebbe loro intervenire co-
me a quelli amici di Perse re dei Ma-
cedoni, il quale essendo stato rotto da
Paulo Emilio, c fuggendosi con pochi
amici, accadde che nel replicar le cose
passate, uno di loro cominciò a dire a
Perse molti errori fatti da lui, che erano
Machiavelli, Discorsi. — t. *7
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73S
DEI DISCORSI
stati cagione della sua rovina; al quale
Perse rivoltosi, disse: Traditore, si che
tu hai indugiato a dirmelo ora ch’io
non ho più rimedio; e sopra queste pa-
role, di sua mano l’ammazzò. E cosi
colui portò la pena d’essere stato cheto
quando ci doveva parlare, e d’aver par-
lato quando ei doveva tacere; nè fuggi
il pericolo per non avere dato il con-
siglio. Però credo che sia da tenere ed
osservare i termini soprascritti. "
Gap. XXXVI. — La cagione perchè « Fran-
ciosi sono stali e sono ancora giudi-
cati nelle zuffe da principio più che
uomini j e dipoi meno che femmine.
La ferocità di quel Francioso che pro-
vocava qualunque Romano appresso al
Piume Aniene a combatter seco, dipoi
la zuffa falla intra lui e Tito Manlio,
mi fa ricordare di quello che Tito Livio
più volte dice, che i Franciosi sono ne
principio della zuffa più che uomini, e
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LIBRO TERZO.
739
nel successo di combattere riescono poi
meno che femmine. E pensando donde
questo nasca, si crede per molti che sia
la natura loro così fatta: il che credo
sia vero; ma non è per questo, che
questa loro natura che gli fa feroci nel
principio, non si potesse in modo con
I* arte ordinare, che la gli mantenesse
feroci infino nell’ ultimo. Ed a voler
provare questo, dico come e’ sono di tre
ragioni eserciti: V uno dove è furore ed
ordine; perchè dall’ ordine nasce il furo-
re e la virtù, come era quello dei Ro-
mani: perchè si vede in tutte l’ istorie,
clic in quello esercito era uno ordine
buono, che v’ aveva introdotto una di-
sciplina militare per lungo tempo. Per-
chè in uno esercito bene ordinato, nes-
suno debbe fare alcuna opera se non
regolato: e si troverà per questo, che
nello esercito romano, dal quale, avendo
egli vinto il mondo, debbono prendere
essempio tutti gli altri eserciti, non si
mangiava, non si dormiva, non si mer-
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740
DEI DISCORSI
calava, non si faceva alcuna azione o
militare o domestica senza l'ordine del
consolo. Perchè quelli eserciti che fanno
altrimenti, non sono veri eserciti; c se
fanno alcuna pruova, la fanno per fu-
rore e per impeto, non per virtù. Mu
dove è la virtù ordinata, usa il furore
suo coi modi e co’ tempi; nè diflicultà
veruna lo invilisce, nè gli fa mancare
l'animo: perchè gli ordini buoni gli
rinfrescano l’ animo ed il furore, nu-
triti dalla speranza del vincere; la quale
mai non manca, infìno a tanto che gli
ordini stanno saldi. Al contrario inter-
viene in quelli eserciti dove è furore c
non ordine, come erano i franciosi : i
quali tuttavia nel combattere mancavano;
perchè non riuscendo loro col primo
impeto vincere, e non essendo sostenuto
da una virtù ordinata quello loro furore
nel quale egli speravano, nè avendo fuori
di quello cosa in la quale ei confidassi-
no, come quello era raffreddo, manca-
vano. Al contrario i Romani, dubitando
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LIBRO TER 7.0.
741
meno dei pericoli per gli ordini loro
buoni, non diffidando della vittoria, fer-
mi ed ostinali combattevano col mede-
simo animo e con la medesima virtù
nel fine che nel principio: anzi, agitati
dall’ arme, sempre s’ accendevano. La
terza qualità d’eserciti, è, dove non è
furore naturale, nè ordine accidentale:
come sono gli eserciti nostri italiani
de’ nostri tempi, i quali sono al tutto
inutili; e se non si abbattono ad uno
esercito che per qualche accidente si
fugga, mai non vinceranno. E senza ad-
durne altri essempi, si vede ciascuno
di come ei fanno pruove di non avere
alcuna virtù. E perchè con il testimo-
nio di Tito Livio ciascuno intenda co-
me debbe esser fatta la buona milizia,
e come è fatta la rea; io voglio addurre
le parole di Papirio Cursore, quando ei
voleva punire Fabio maestro de’ cavalli,
quando disse: Nano hominum y nano
Deorum verecundiam hubcat ; non cdù
da impcralorum^ non auspicio, obser-
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742 DEI DISCORSI
ventar: sine commenta , vagì tnililcs in
pacato , in hostico errcnt; immcmores
sacramenti , se ubi velini exauctorenl /
infrequentia deserant tigna ; ncque con -
veniant ad edictum, nec discernant in-
terdiuj nodo ; (equo, iniquo loco, jussu,
injussu imperatorie pugncnt ; et non
sigila, non ordines serventi lalroctnti
modo, cieca et fortuita, prò solcami et
sacrala rnilitia sit. Puossi per questo
testo, adunque, facilmente vedere, se la
milizia de’ nostri tempi è cieca e fortuita,
o sacrata e solenne j e quanto le manca ad
esser simile a quella die si può chiamar
milizia ; e quanto ella è discosto da. es-
sere furiosa ed ordinala come la roma-
na, o furiosa solo come la franciosa.
Cap. XXXVII. — Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie,
e come si debbe fare a conoscere un
nimico nuovo , volendo fuggire quelle.
E’ pare che nelle azioni degli uomini,
come altre volte abbiamo discorso, si
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LIBRO TERZO. 743
tvuovi, oltre all’ altre diftìcultà, nel vo-
ler condurre la cosa olla sua perfezio-
ne, che sempre propinquo al bene sia
qualche male, il quale con quel bene sì
facilmente nasce, che pare impossibile
poter mancare dell’ uno volendo I’ altro.
E questo si vede in tutte le cose che
gli uomini operano. E però s’ acquista
il bene con diftìcultà, se dalla fortuna
tu non se’ aiutato in modo, che ella con
la sua forza vinca questo ordinario e
naturale inconveniente. Di questo mi ha
fatto ricordare la zuffa di Manlio Tor-
quato e dei Fraucioso, dove Tito Livio
dice: Tanti ca dimicatio ad universi
belli eventtim momenti fuitj ut Gallo-
rum excrciluSj relictis trepide castri s,
in Tiburlem agrum , inox in Campaniam
transierit. Perchè io considero dall’ un
canto, che un buon capitano debbe fug-
gire al tutto di operare alcuna cosa che,
essendo di poco momento, possa fare
cattivi effetti nel suo esercito: perchè
cominciare una zuffa dove non si ope-
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744
DEI DISCORSI
l ino tutte le forze e vi si arrisichi tutta
la fortuna, è cosa al tutto temeraria;
come io dissi di sopra, quando io dan-
nai il guardare de’ passi. Dall’ altra parte
io considero come capitani savi, quando
ei vengono all’ incontro d’ un nuovo ni-
mico, e che sia riputato, ei sono neces-
sitati, prima che venghino alia giornata,
far provare con leggieri zuffe ai loro
soldati tali nimici; acciocché comincian-
dogli a conoscere c maneggiare, perdino
quel terrore che la fama e la riputa-
zione aveva dato loro. E questa parte
in un capitano è importantissima ; per-
chè ella ha in sé quasi una necessità che
ti constringe a farla, parendoti andare
ad una manifesta perdita, senza aver
prima fatto con piccole isperienze de-
porre ai tuoi soldati quello terrore che
la riputazione del nimico aveva messo
negli animi loro. Fu Valerio Corvino
mandato dai Romani con gli eserciti
contro ai Sanniti, nuovi nimici, e che
per lo addietro mai non avevano pro-
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LIBRO TERZO.
745
vate 1* arme 1’ uno dell’ altro; dove dice
Tito Livio, che Valerio fece fare ai Ro-
mani coi Sanniti alcune leggieri zuffe:
jV© eos novum bellutn , ne novus hoslis
. lerreret. Nondimeno è pericolo grandis-
simo, che restando i tuoi soldati in quelle
battaglie vinti, la paura e la viltà non
cresca loro, e ne conseguitino contrari
effetti ai disegni tuoi; cioè che tu gli
sbigottisca, avendo disegnalo d’ assicu-
rarli: tanto che questa è una di quelle
cose che ha il male sì propinquo al bene,
e tanto sono congiunti insieme, che gli
è facil cosa prendere l’ uno credendo
pigliar P altro. Sopra che io dico, che
• un buon capitano debbo osservare con
ogni diligenza, che non surga alcuna
cosa che per alcuno accidente possa torre
Panimo alP esercito suo. Quello che gli
può torre P animo è cominciare a per-
dere; e però si debbe guardare dalle
zuffe piccole, e non le permettere se
non con grandissimo vantaggio e con
certa speranza di vittoria ; non debbo
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746 ■
DEI DISCORSI
fare impresa di guardar passi, dove
non possa tenere tutto l’esercito suo:
non debbe guardare terre, se non quelle
che perdendole di necessità ne seguis-
se la rovina sua; e quelle che guar-
da, ordinarsi in modo, e con le guar-
die d’ esse e con l’esercito, clic trat-
tandosi della espugnazione di esse, ei
possa adoperare tutte le forze sue;
P altre debbe lasciare indifese. Perchè
ogni volta che si perde una cosa che si
abbandoni, e P esercito sia ancora in-
sieme, e’ non si perde la riputazione della
guerra, nè la speranza di vincerla: ma
quando si perde una cosa che tu hai
disegnata difendere, e ciascuno crede che
tu la difenda, allora è il danno e la per-
dita ; ed hai quasi, come i Franciosi, con
una cosa di piccolo momento perduta la
guerra. Filippo di Macedonia padre di
Perse, uomo militare e di gran condi-
zione ne’ tempi suoi, essendo assaltato
dai Romani; assai de’ suoi paesi, i quali
ei giudicava non potere guardare, ab-
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LIBRO TERZO.
747
bandonò e guastò scoine quello che, per
essere prudente, giudicava più perni-
cioso perdere la riputazione col non po-
tere difendere quello che si metteva a
difendere, che lasciandolo in preda al
nimico, perderlo come cosa negletta. I
Romani, quando dopo la rotta di Canne
le cose loro erano afflitte, negarono a
molti loro raccomandati e sudditi li aiuti,
commettendo loro che si difendessino il
meglio potessino. I quali partiti sono
migliori assai, che pigliare difese, e poi
non le difendere: perchè in questo par-
tito si perde amici e forze; in quello,
amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe,
dico che se pure un capitano è costretto
per la novità del nimico far qualche zuffa,
debbe farla con tanto suo vantaggio, che
non vi sia alcun pericolo di perderla :
o veramente far come Mario (il che è
migliore partito), il quale andando con-
tro ai Cimbri, popoli ferocissimi, che
venivano e predare Italia, e venendo con
uno spavento grande per la ferocità e
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748
DEI DISCORSI
moltitudine loro, e per avere di già vinto
un esercito romano ; giudicò Mario esser
necessario, innanzi che venisse alla zuffa,
operare alcuna cosa per la quale l’ eser-
cito suo deponesse quel terrore che la
paura del nimico gli aveva dato; e, co-
me prudentissimo capitano, più che una
volta collocò l’esercito suo in luogo donde
i Cimbri con 1* esercito loro dovessino
passare. E così, dentro alle fortezze del
suo campo, volle che i suoi soldati gli
vedessino, ed assuefacessino gli occhi
alla vista di quello nimico ; acciochè, ve-
dendo una moltitudine inordinata, piena
di impedimenti, con arme inutili, e parte
disarmati, si rassicurussino, e diventas-
sino disiderosi della zuffa. 11 quale par-
tito come fu da Mario saviamente preso,
così dagli altri debbe essere diligente-
mente imitato, per non incorrere in
quelli pericoli che io di sopra dico, e
non avere a fare come i Franciosi, qui
ob rem parvi ponderis trepidi iti Ti-
burietn agrum et in Campaniam trans-
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LIBRO TERZO.
749
ierunt. E perchè noi abbiamo allegato
in questo discorso Valerio Corvino, vo-
glio, mediatiti le parole sue, nel seguente
capitolo, come debbe esser fatto un ca-
pitano, dimostrare.
Cap. XXXVIII. — Come debbe esser fatto
un capitano nel quale V esercito suo
possa confidare.
Era, come di sopra dicemmo, Valerio
Corvino con 1’ esercito contea ai Sanniti, *
nuovi nimici del Popolo romano: donde
che, per assicurare i suoi soldati, e per
fargli conoscere i nimici, fece fare ai
suoi certe leggieri zuffe j nè gli bastando
questo, volle avanti alla giornata parlar
loro, e mostrò con ogni efficacia quanto
e' dovevano stimare poco tali nimici, al-
legando la virtù de’ suoi soldati e la pro-
pria. Dove si può notare, per le parole
che Livio gli fa dire, come debbe essere
fatto un capitano in chi I’ esercito abbia
a confidare j le quali parole sono queste:
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750
DEI DISCORSI
Tutti ctiam intuerì cujtis ductu auspi-
cioque ineunda pugna sii: ulritm qui
audtcndus dumlaxat magnifìcus adhor-
tator sit, ver bis tantum ferox , operimi
mililarium expers ; an qui, et ipsc tela
frodare, procedere ante signa, versavi
media in mole pugna sciai. Facla mea,
non dieta vos militcs sequi volo ; nec
disciplinavi modo, sed cxcmplum ctiam
a me potere , qui hac dextra tnihi tres
consulalus, summamque laudem pepcri.
Le quali parole considerate bene, inse-
gnano a qualunque, come ei debbe pro-
cedere a voler tenere il grado del capi-
tano : e quello che sarà fatto altrimenti,
troverà, con il tempo, quel grado, quando
per fortuna o per ambizione vi sia con-
dotto, torgli e non dargli riputazione;
perchè non i titoli illustrano gli uomini,
ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora
dal principio di questo discorso consi-
derare, che se i capitani grandi hanno
usato termini istraordinari a fermare
gli animi d’uno esercito veterano quando
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LIBRO TERZO. 751
coi nimici inconsueti debbe affrontarsi ;
quanto maggiormente si abbia ad usare
l’ industria quando si comandi uno eser->
cito nuovo, che non abbia mai veduto
il nimico in viso. Perchè, se lo inusitato
nimico allo esercito vecchio dà terrore,
tanto maggiormente lo debbe dare ogni
nimico ad uno esercito nuovo. Pure, s’ò
veduto molte volte dai buoni capitani
tutte queste diflìcultù con somma pru-
denza esser vinte: come fece quel Gracco
romano, ed Epaminonda tebano, de’quali
altra volta abbiamo parlato, che con
eserciti nuovi vinsono eserciti veterani
ed esercitatissimi. I modi che tenevano,
erano: parecchi mesi esercitargli in bat-
taglie fìnte; assuefargli alla ubbidienza
ed all’ ordine: e da quelli dipoi, con
massima confidenza, nella vera zuffa gli
adoperavano. Non si debbe, adunque,
diffidare alcuno uomo militare di non
poter fare buoni eserciti, quando non
gli manchi uomini ; perchè quel prin-
cipe che abbonda d’ uomini e manca di
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752
DEI DISCORSI
soldati, debbe solamente, non della viltà
degli uomini, ma della sua pigrizia e
e poca prudenza dolersi.
C*p. XXXIX. — Che un capitano
debbe esser conoscitore dei eiti.
Intra 1’ altre cose che sono necessarie
ad un capitano d’ eserciti, è la cogni-
zione dei sili e de’ paesi; perchè senza
questa cognizione generale e particola-
re, un capitano d’ eserciti non può be-
ne operare alcuna cosa. E perchè tutte
le scienze- vogliono pratica a voler per-
fettamente possederle, questa è una che
ricerca pratica grandissima. Questa pra-
tica, ovvero questa particolare cognizio-
ne, s’ acquista più mediatiti le cacce,
che per verun altro esercizio. Però gli
antichi scrittori dicono, che quelli ^roi
che governarono nel loro tempo il mon-
do, si nutrirono nelle selve e nelle cac-
ce; perchè la caccia, oltre a questa co-
gnizione, ti insegna infìttile cose che
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LIBRO TERZO.
753
sono nella guerra necessarie. E Seno-
fonte, nella vita di Ciro, mostra che
andando Ciro od assaltare il re d’ Arme-
nia, nel divisare quella fazione, ricordò
a quelli suoi, che questa non era altro
che una di quelle cacce le quali molle
volte avevano fatte seco. E ricordava a
quelli che mandava in aguato su i monti,
che gli erano simili a quelli eh’ anda-
vano a tendere le reti in su i gioghi; ed
a quelli che scorrevano per il piano, che
erano simili a quelti che andavano a
levare del suo covile la fera, acciocché,
cacciata, desse nelle reti. Questo si dice
per mostrare come le cacce, secondo che
Senofonte appruova, sono una immagine
d’ una guerra: e per questo agli uomini
grandi tale esercizio è onorevole e ne-
cessario. Non si può ancora imparare
questa cognizione de’ paesi in altro co-
modo modo che per via di caccia; per-
chè la caccia fa a colui che 1’ usa sa-
pere come sta particolarmente quel paese
dove ei 1* esercita. E fatto che uno s’ è
Machiavelli, Discorsi. — t . 48
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DEI DISCORSI
754
familiare bene una regione, con facilità
comprende poi tulli i paesi nuovi j per-
chè ogni paese ed ogni membro di quelli
hanno insieme qualche conformità, in
modo clic dalla cognizione d’ uno facil-
mente si passa alla cognizione dell’ al-
tro. Ma chi non ne ha ancora bene pra-
tico uno, con difficoltà, anzi non mai se
non con un lungo tempo, può conoscer
1’ altro. E chi ha questa pratica, in un
voltar d’ occhio sa come giace quel pia-
no, come surge quel monte, dove arriva
quella valle, e tutte l* altre simili cose,
di che ei ha per lo addietro fatto una
ferma scienza. E che questo sia vero, ce
lo mostra Tito Livio con lo essempio
di Publio Decio; il quale essendo Tri-
buno de’ soldati nello esercito che Cor-
nelio consolo conduceva contro ai San-
niti, ed essendosi il Consolo ridotto in
una valle, dove l’ esercito dei Romani
poteva dai Sanniti esser rinchiuso, e
vedendosi in tanto pericolo, disse al Con-
solo : Vtdes tuj Aule Corneli, cacume»
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LIBRO TERZO. ‘V3
iilud supra hostcm ? arx ilici est spei
salutisquc nostra, si eam fquoniam caa
rcliquerc SamnitesJ impigre capimus. Ed
innanzi a queste parole dette da Decio,
Tito Livio dice: Publtus Dcctus, tribù -
nus militimi , unum editum in saltu col -
lenij immincnteni hostium castns , adilu
arduum impedito agmini, expeditis haud
difficilcm. Donde, essendo stato mandato
sopra esso dal Consolo con tremila soldati,
ed avendo salvo l’esercito romano j e dise-
gnando, venendo la notte, di partirsi e sal-
vare ancora sè ed i suoi soldati, gii fa dire
queste parole: Ite niecum, ut dum lucis
aliquid superest, quibus locts hostes
prcesidia ponant, qua palcat hinc exitus,
exploremus. Hcec ornnta sagulo militari
amiclus, ne ducem circuire hostes no-
larentj perlustrarli. Chi considererà,
adunque, tutto questo testo, vedrà quanto
sia utile e necessario ad un capitano
sapere la natura de’ paesi: perché se
Decio non gli avesse saputi e conosciuti,
non arebbe potuto giudicare qual utile
756
DEI DISCORSI
faceva pigliare quel colle allo esercito
romano; uè arebbe potuto conoscere di
discosto, se quel colle era accessibile o
no ; e condotto che si fu poi sopra esso,
volendosene partire per ritornare al Con-
solo, avendo i nimici intorno, non arebbe
dal discosto potuto speculare le vie dello
andarsene, e li luoghi guardati dai ni-
mici. Tanto che, di necessità conveniva,
che Decio avesse tale cognizione per-
fetta: la qual fece che con il pigliare
quel colle, ei salvò l’esercito romano;
dipoi seppe, scndo assedialo, trovare la
via a salvare sè e quelli che erano stati
seco.
Cap. XL. — Come, usare la fraude
nel maneggiare la guerra è cosa gloriosa.
Ancoraché usare la fraude in ogni
azione sia detestabile, nondimanco nel
maneggiar la guerra è cosa laudabile e
gloriosa; e parimente è laudato colui
che con fraude supera il nimico, come
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LIBRO TERZO.
757
quello che M supera con le forze. E ve-
desi questo pei* il giudizio che ne fanno
coloro che scrivono le vite degli uomini
grandi, i quali lodano Annibaie e gli
* altri che sono stati notabilissimi in si-
mili modi di procedere. Di che per leg-
gersi assai essempi, non ne replicherò
alcuno. Dirò solo questo, che io non
intendo quella fraudo essere gloriosa,
che ti fa rompere la fede data ed i patti
fatti; perchè questa, ancora che la ti
acquisti qualche volta stalo e regno, co-
me di sopra si discorse, la non ti acqui-
sterà mai gloria. Ma parlo di quella fraudo
che si usa con quel nimico che non si
fida di te, e che consiste proprio nel
maneggiare la guerra : come fu quella
d’Annibale, quando in sul lago di Peru-
gia simulò la fuga per rinchiudere il
Consolo e lo esercito romano; e quando,
per uscire di mano di Pabio Massimo,
accese le corna dello armento suo. Alle
quali fraudi fu simile questa che usò
Ponzio capitano dei Sanniti, per rin-
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758 DEI DISCORSI
chiudere 1’ esercito romano dentro alle
forche Caudine-. i( quale avendo messo
lo esercito suo a' ridosso dei monti, mandò
più suoi soldati sotto vesti di pastori con
assai armento per il piano; i quali sen--
do presi dai Romani, e domandati dove
era l’esercito dei Sanniti, convennero
tutti, secondo 1’ ordine dato da Ponzio,
a dire come egli era allo assedio di No-
terà. La qual cosa creduta dai Consoli,
fece eh’ ei si rinchiusero dentro ai balzi
caudini; dove entrati, furono subito as-
sediati dai Sanniti. E sarebbe stata que-
sta vittoria, avuta per fraude, glorio-
sissima a Ponzio, se egli avesse seguitati
i consigli del padre ; il quale voleva che
i Romani o si salvassino liberamente, o
si ammazzassino tutti, e che non si pi-
gliasse la via del mezzo, qu ce neque ami-
co* parai , ncque inimicos tollil. La qual
via fu sempre perniziosa nelle cose di
Stato; come di sopra in altro luogo si
discorse.
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LIBRO TERZO.
759
C*p. XLi. — Che la patria si debbo di-
fendere o con ignominia o con glo-
ria; ed in qualunque modo è ben di-
fesa.
Era, come di sopra s’è dello, il Con-
solo e l’esercito romano assedialo dai
Sanniti: i quali avendo proposto ai Ro-
mani condizioni ignominiosissime; come
era, volergli mettere sotto il giogo, e
disarmati mandargli a Roma: e per que-
sto stando i Consoli come attoniti, e tutto
l’esercito disperato; Lucio Lentolo le-
gato romano disse, che non gli pareva
che fusse da fuggire qualunque partito
per salvare la patria: perchè, consisten-
do la vita di Roma nella vita di quello
esercito, gli pareva da salvarlo in ogni
modo; e che la patria è ben difesa in
qualunque modo la si difende, o con
ignominia, o con gloria : perchè salvandosi
quello esercito, Roma era a tempo a cancel-
lare l’ignominia: non si salvando, ancora
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760
DEI DISCORSI
che gloriosamente morisse, era perduta
Koma e la libertà sua. E così fu segui-
tato il suo consiglio. La qual cosa me-
rita d’ esser notata ed osservata da qua-
lunque cittadino si truova a consigliare
la patria sua: perchè dove si dilibera
al tutto della salute della patria, non
vi debbe cadere alcuna considerazione
nè di giusto nè di ingiusto, nè di pie-
toso, nè di crudele, nè di laudabile, nè
di ignominioso; anzi, posposto ogni al-
tro rispetto, seguire al tutto quel par-
tito che li salvi la vita, e mantenghile la
libertà. La qualcosa è imitata con i detti e
con i fatti dai Franciosi, per difendere la
maestà del loro re e la potenza del loro
regno; perchè nessuna voce odono più
impazientemente che quella che dicesse:
il tal partito è ignominioso per il re;
perchè dicono che il loro re non può
patire vergogna in qualunque sua dili-
berazione, o in buona o in avversa for-
tuna: perchè se perde o se vince, tutto
dicono esser cosa da re.
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LIBRO TERZO.
761
Cap. XLII. — Che le promesse fatte
per forza non si debbono osservare.
♦ »
Tornati i Consoli con 1’ esercito di-
sarmato e con la ricevuta ignominia a
Roma, il primo che in Senato disse
che la pace fatta a Cuudo non si do-
veva osservare, fu il consolo Spurio Po-
stumio; dicendo, come il Popolo romano
non era obbligato, ma eh’ egli era bene
obbligato esso, e gli altri che avevano
promesso la pace : e però il Popolo vo-
lendosi liberare da ogni obbligo, aveva
a dar prigione nelle mani dei Sanniti
lui e tutti gli altri che V avevano pro-
messa. E con tanta ostinazione tenne que-
sta conclusione, che il Senato ne fu con-
tento; e mandando prigioni lui e gli
altri in Sannio, protestarono ai Sanniti,
la pace non valere. E tanto fu in que-
sto caso a Postumio favorevole la for-
tuna, che i Sanniti non lo ritennero; e
ritornato in Roma, fu Postumio appresso
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762
DEI DISCORSI
.ai Romani più glorioso per avere per-
duto, che non fu l’onzio appresso ai San-
niti per aver vinto. Dove sono da no-
tare due cose ; 1* una, che in qualunque
azione si può acquistar gloria, perchè
nella vittoria s’ acquista ordinariamente;
nella perdita s’ acquista o col mostrare
tal perdita, non esser venuta per tua
colpa, o per far subito qualche azione
virtuosa che la cancelli : 1’ altra è, che
non è vergognoso non osservare quelle
promesse che ti sono state fatte pro-
mettere per forza ; e sempre le promesse
forzate che riguardano il pubblico, quan-
do e’ manchi la forza, si romperanno,
e fia senza vergogna di chi le rompe.
Di che si leggono in tutte l’ istorie vari
essempi, e ciascuno dì ne’ presenti tempi
se ne veggono. E non solamente non si
osservano intra i principi le promesse
forzate, quando e* manca la forza ; ma
non si osservano ancora tutte \* altre
promesse, quando e’ mancano le cagioni
che le fanno promettere. Il che se è cosa
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LIBRO TERZO.
763
laudabile o no, o se da un principe si
debbono osservare simili modi o no,
largamente è disputato da noi nel no-
stro trattato del Principe; però al pre-
sente lo taceremo.
Cap. XLIII. — Che gli uomini che nasco-
no in una provincia , osservano per
lutti i tempi quasi quella medesima
natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e
non a caso nè immeritamente, che cbi
vuol veder quello che ha ad essere, con-
sideri quello che è stato; perchè tutte le
cose del mondo, in ogni tempo, hanno
il proprio riscontro con gli antichi tem-
pi. Il che nasce perchè essendo quelle
operate dagli uomini che hanno ed eb-
bero sempre le medesime passioni, con-
viene di necessità che le sortischino il
medesimo effetto. Vero è, che le sono
P opere loro ora in questa provincia più
virtuose che in quella, ed in quella più
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DEI DISCORSI
764
che in questa, secondo la forma delia
educazione nella quale quelli popoli hanno
preso il modo del viver loro. Fa ancora
facilità il conoscere le cose future per
le passate; vedere una nazione lungo
tempo tenere i medesimi costumi, essendo
o continovamente avara, o continovamen-
te fraudolenta, o avere alcun altro si*
mile vizio o virtù. E chi leggerà le cose
passale della nostra città di Firenze, e
considererà ancora quelle che sono ne*
prossimi tempi occorse, troverà i popoli
tedeschi e franciosi pieni d’ avarizia, di
superbia, di ferocia e di infcdelità; per-
chè tutte queste quattro cose in diversi
tempi hanno offeso molto la nostra città.
E quanto alla poca fede, ognuno sa quante
volte si dette danari al re Carlo Vili, ed
egli prometteva rendere le fortezze di
Pisa, c non mai le rendè. In che quel
re mostrò la poca fede, e la assai ava-
rizia sua. Ma lasciamo andare queste
cose fresche. Ciascuno può avere inteso
quello che segui nella guerra che fece
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LIBRO TERZO.
765
il popolo fiorentino contea ai Visconti
duchi di Milano; che essendo Firenze
privo degli altri espedienti, pensò di
condurre T iroperadore in Italia, il quale
con la riputazione e forze sue assaltasse
la Lombardia. Promise l’ imperadore ve-
nire con assai gente, e far quella guerra
contra ai Visconti, e difendere Firenze
dalla potenza loro, quando i Fiorentini
gli dessino centomila ducati per levarsi,
e centomila poi che fusse in Italia. Ai
quali patti consentirono i Fiorentini; e
pagatogli i primi danari, e dipoi i secon-
di, giunto che fu a Verona, se ne tornò
indietro senza operare alcuna cosa, cau-
sando esser restato da quelli che non
avevano osservato le convenzioni erano
fra loro. In modo che, se Firenze non
fusse stata o constretla dalla necessità
o vinta dalla passione, ed avesse letti e
conosciuti gli antichi costumi de’borbari,
non sarebbe stata nè questa nè molte
altre volte ingannata da loro; essendo
loro stati sempre a un modo, ed avendo
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760
DEI DISCORSI
in ogni parte e con ognuno usati i me-
desimi termini. Come e' si vede eh’ e’ fe-
cero anticamente ai Toscani ; i quali
essendo oppressi dui Romani, per essere
stati da loro più volte messi in fuga e
rotti; e veggendo mediami le loì* forze
non poter resistere aìr impeto di quelli;
convennero con i Franciosi che di qua
dall' Alpi abitavano in Italia, di dar loro
somma di danari, e che fussino obbli-
gati congiugnere gli eserciti con loro,
ed andare contea ai Romani: donde ne
seguì che i Franciosi, presi i danari,
non volleno dipoi pigliare l’ arme per
loro, dicendo averli avuti non per far
guerra coi loro nimici, ma perchè s’aste-
nessino di predare il paese toscano. E
così i popoli toscani, per l’ avarizia e
poca fede dei Franciosi, rimasono ad un
tratto privi de' loro danari, e degli aiuti
che gli speravano da quelli. Talché si
vede per questo essempio dei Toscani
antichi, e per quello de’ Fiorentini, i
Franciosi avere usati i medesimi termi-
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L!BRO TERZO.
767
ni; e per questo facilmente si può con-
ielturare, quanto i principi si possono
fidare di loro.
Cap. XLIV. — E' si ottiene con V impeto
c con lJ audacia molte volte quello che
con modi ordinari non si otterrebbe
mai.
Essendo i Sanniti assaltati dallo eser-
cito di Roma, e non polendo con l’eser-
cito loro stare alla campagna a petto
ai Romani, diliberarono, lasciate guar-
date le terre in Sannio, di passare con
tutto V esercito loro in Toscana, la quale
era in triegua coi Romani; e vedere per
tal passata, se ei potevano con la pre-
senza dello esercito loro indurre i To-
scani a ripigliar 1’ arme ; il che avevano
fregato ai loro ambasciadori. E nel par-
lare che feeiono i Sanniti ai Toscani,
nel mostrar, massime, qual cagione gli
aveva indotti a pigliar 1* arme, usarono
un termine notabile, dove dissono : Re-
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768
DEI DISCORSI
bollasse j quod pax sci'vicnlibus gravior t
quam liboris bcllum esset. E cosi, parie
con le persuasioni, parte con la pre-
senza dello esercito loro, gli indussono
a pigliar 1* arme. Dove è da notare, che
quando un principe disidera d’ ottenere
una cosa da un altro, debbe, se l’ oc-
casione lo patisce, non gli dare spazio
a diliberarsi, e fare in modo ch’ei vegga
la necessità della presta diliberazione:
la quale è quando colui che è doman-
dato vede che dal negare o dal differire
ne nasca una subita e pericolosa inde-
gnazione. Questo termine s’ è veduto
bene usare nei nostri tempi da papa
lulio con i Franciosi, e da monsignor
di Fois capitano del re di Francia col
marchese di Mantova : perchè papa lulio
volendo cacciare i Bentivogli di Bologna,
e giudicando per questo aver bisogno
delle forze franciose, e che i Yiniziani
stessino neutrali j ed uvendone ricerco
F uno e I’ altro, e traendo da loro ri-
sposta dubbia e varia j diliberò col non
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LIBRO TERZO.
769
dare lor tempo far venire I’ uno e l’al-
tro nella sentenza sua : e, partitosi da
Roma con quelle tante genti cli’ei potò
raccozzare, n’ andò verso Bologna, ed
a’Viniziani inandò a dire che stessino
neutrali, ed ai re di Francia che gli
mandasse le forze. Talché, rimanendo
tutti ristretti dal poco spazio di tempo,
e veggeudo come nel papa doveva na-
scere una manifesta indegnazione difle-
rendo o negando, cederono alle voglie
sue; ed il re gli mandò aiuto, ed i Vi*
uiziani si steltono neutrali. Monsignor
di Fois, ancora, essendo con l’esercito
ili Bologna, ed avendo intesa la ribel-
lione di Brescia, e volendo ire alla ri-
cuperazione di quella, aveva due vie ;
F una per il dominio del re, lunga e
tediosa; l’altra brievc per il dominio
di Mantova: e non solamente era neces-
sitato passare per il dominio di quel
marchese, ina gli conveniva entrare per
certe chiuse intra paludi e laghi, di che
è piena quella regione, le quali con for-
II acuì avelli, Discorsi. — 1. 49
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770
DF.I DISCORSI
lezzo cd altri modi erano serrate c guar-
dale da lui. Onde che Pois, diliberalo
d* andare }>er la più corta, e per vin-
cere ogni di (Tic ulta nè dar tempo al mar-
chese a diliberarsi, ad un tratto mosse
le sue genti per quella via, cd al mar-
chese significò gli mandasse le chiavi di
quel passo. Talché il marchese, occu-
pato da questa subita diliberazione, gli
mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe
mandate se Pois più lepidamente si fussc
governato, essendo quel marchese in lega
eoi papa e coi Viniziani, ed avendo uu
suo figliuolo nelle mani del papa; le
quali cose gli davano molte oneste scuse
a negarle. Ma assaltato dal subito par-
tito, per le cagioni che di sopra si di-
cono, le concesse. Cosi feciono i Toscani
eoi Sanniti, avendo per la presenza del-
T esercito di Sannio preso quelle arme
che gli avevano negato per altri tempi
pigliare.
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LIBRO TERZO.
77 1
Cap. XLV. — Qual sia miglior partito
nelle giornale , o sostenere lf impeto
de* nimicij c sostenuto urtargli ; ov-
vero dapprima con furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani,
con due eserciti all’ incontro degli eser-
citi dei Sanniti e dei Toscani; e venendo
alla zuffa ed alla giornata insieme, è da
notare in tal fazione, quale di due di-
versi modi di procedere tenuti dai due
Consoli sia migliore. Perchè Decio con
ogni impeto e cor» ogni suo sforzo as-
saltò il nimico; Fabio solamente lo so-
stenne, giudicando V assalto lento es-
sere più utile, riserbando l' impeto suo
nell’ ultimo, quando il nimico avesse
perduto il primo ardore del combat-
tere, e come noi diciamo, la sua foga.
Dove si vede, per il successo della eosa,
che a Fabio riuscì molto meglio il di-
segno che a Decio : il quale si straccò
nei primi impeti ; in modo che, veden-
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772
DEI DISCORSI
do la banda sua piuttosto in volta die
altrimenti, per acquistare con la morte
quella gloria alla quale con la vittoria
non aveva potuto aggiungere, ad imita-
zione del padre sacrificò sè stesso per
le romane legioni. La qual cosa intesa
da Fabio, per non acquistare manco ono-
re vivendo, che s’avesse il suo collega
acquistato morendo, spinse innanzi tutte
quelle forze che s’ aveva a tale necessità
riservate ; donde ne riportò una felicis-
sima vittoria. Di qui si vede che ’l modo
del procedere di Fubio è più sicuro e
più imitabile.
Cap. XLVI. — Donde nasce che una fa-
mìglia iìi una città tiene un tempo i
medesimi costumi.
E’ pare clic non solamente 1’ una città
dall* altra abbi certi modi ed instituti
diversi, e procrei uomini o più duri o
più effeminati; ma nella medesima città
si vede tal differenza esser nelle fumi-
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LIBRO TERZO.
773
glie I’ una dall’ altra. H che si riscontra
essere vero in ogni città, e nella città
ili Roma se ne leggono assai essempi :
perché e’ si vede i Manlii essere stati
duri ed ostinati, i Pubi icoli uomini be-
nigni ed amatori del popolo, gli Appii
ambiziosi e ni mici della Plebe: e cosi
molte altre famiglie avere avute ciascuna
le qualità sue spartite dall’ altre. La qual
cosa non può nascere solamente dal san-
gue, perchè e’ conviene eh’ ei varii me-
diante la diversità dei matrimoni; ma
è necessario venga dalla diversa educa-
zione che ha una famiglia dall’ altra.
Perchè gl’ importa assai che un giova-
netto dai teneri anni cominci a sentir
dire bene o male di una cosa; perchè
conviene che di necessità ne faccia im-
pressione, e da quella poi regoli il modo
del procedere in tutti i tempi della vita
sua. E se questo non fosse, sarebbe im-
possibile che tutti gli Appii avessino
avuta la medesima voglia, c Rissino stati
agitati dalle medesime passioni, come
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774
DF.I DISCORSI*
nota Tilo Livio in molti di loro: e per
ultimo, essendo uno di loro fatto Cen-
sore, ed avendo il suo collega alla fine
de* diciotto mesi, come ne disponeva la
legge, deposto il magistrato, Àppio non
lo volle deporre, dicendo che lo poteva
tenere cinque anni secondo la prima
legge ordinata dai Censori. E benché
sopra questo se ne facessero assai con-
cioni, e se ne generassino assai tumulti,
non pertanto ci' fu mai rimedio che vo-
lesse deporlo, conira alla volontà del
Popolo e della maggior parte del Senato.
E chi leggerà P orazione che gli fece
contro Publio Sempronio tribuno della
plebe, vi noterà tutte l’ insolenze oppiane,
e tulle le bontà ed umanità usale da in-
finiti cittadini per ubbidire alle leggi ed
agli auspicii della loro patria.
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LIBRO TERZO. 775
Cap. XLVII. < — Che un buon cittadino
per amore della patria debbo dimen-
ticare l* ingiurie private.
Era Manlio consolo con l’esercito con-
ira ai Sanniti* ed essendo stato in una
zuffa ferito, e per questo portando le
genti sue pericolo, giudicò il Senato es-
ser necessario mandarvi Papirio Cur-
sore dittatore, per sopplire ai difetti del
Consolo. Ed essendo necessario che ’l
Dittatore fusse nominato da Fabio, il
quale era con gli eserciti in Toscana; e
dubitando, per essergli nimico, che non
volesse nominarlo; gli mandarono i Se-
natori due ambasciadori a pregarlo, che,
posti da parte gli privati odii, dovesse
per benefìzio pubblico nominarlo. Il che
Fabio fece, mosso dalla carità della pa-
tria; ancora che col tacere e con mol-
ti altri modi facesse segno che tale
nominazione gli premesse. Dal quale
debbono pigliare essempio tutti quelli,
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776 DEI DISCORSI
che cercano d* essere tenuti buoni cit-
tadini.
Cap. XLVJII. — Quando si vede fare
uno errore grande ad un nimico ,
si debbe credere che vi sia sono in-
ganno.
Essendo rintaso Fulvio Legato nello
esercito che i Romani avevano in To-
scana, per esser ito il Consolo per al-
cune cerimonie a Roma; i Toscani, per
vedere se potevano avere quello alla
tratta, posono un aguato propinquo ai
campi romani, e mandarono alcuni sol-
dati con veste di pastori con assai ar-
mento, e gli feciono venire alla vista
dello esercito romano: i quali così tra-
vestiti si accostarono allo steccato del
campo; onde il Legato meravigliandosi
di questa loro presunzione, non gli pa-
tendo ragionevole, tenne modo ch’egli
scoperse la fraude; e cosi restò il di*
>igno de Toscani rotto. Qui si può co-
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LIBRO TERZO.
777
moramente notare, che un capitano di
eserciti non debbe prestar fede ad uno
errore che evidentemente si vegga fare
al nimico: perchè sempre vi sarà sotto
fronde, non sendo ragionevole che gli
uomini siano tanto incauti. Ma spesso il
disiderio del vincere acceca gli animi
degli uomini, che non veggono altro che
quello pare facci per loro. I Franciosi
avendo vinti i Romani ad Allia, e ve-
nendo a Roma, e trovando le porte aperte
e senza guardia, stettero tutto quel giorno
e la notte senza entrarvi, temendo di
fraude, e non potendo credere clic fusse
tanta viltà c tanto poco consiglio ne’
petti romani, che gli nbbandonassino la
patria. Quando nel 4508 s’andò per gli
Fiorentini a Risa a campo, Alfonso del
Mutolo, cittadino pisano, si trovava pri-
gione dei Fiorentini, e promise che s’egli
era libero, darebbe una porta di Pisa
all’esercito fiorentino. Fu costui libero.
Dipoi, per praticare la cosa, venne molte
volte a parlare coi mandati dc’commis-
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778
DEI DISCORSI
sari; e veniva non di nascosto, ma sco-
perto, ed accompagnato da’ Pisani; i
quali lasciava da parte, quando parlava
eoi Fiorentini. Talmentechè si poteva
conietturare il suo animo doppio ; per-
chè non era ragionevole, se la pratica
fussc stata fedele, eh’ egli 1’ avesse trat-
tata sì alla scoperta. .Ma il disiderio che
s* aveva d’ aver Pisa, accecò in modo i
Fiorentini, che condottisi con l’ ordine
suo alla porta a Lucca, vi lasciarono
più loro capi ed .altre genti con diso-
nore loro, per il tradimento doppio che
fece detto Alfonso.
Cap. XLIX. — Una repubblica, a volerla
mantenere libera, ha ciascuno di bi-
sogno di nuovi provvedimenti ; e per
guali meriti Quinto Fabio fu chiamato
Massimo.
. E di necessità, come altre volte s’ è
«letto, che ciascuno dì in una città grande
'taschino' accidenti che abbino bisogno
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LIBRO TERZO.
779
elei medico ; e secondo che gli importano
più, conviene trovare il medico più savio.
E se in alcune città nacquero mai si-
mili accidenti, nacquero in t\oma e strani
ed insperati; come fu quello quando e’
parve cha tutte le donne romane aves-
sino congiurato contra ai loro mariti
d’ ammazzargli : tante se ne trovò clic
gli avevano avvelenati, e tante eh’ ave-
vano preparato il veleno per avvelenar-
gli. Come fu ancora quella congiura de’
Baccanali, clic si scopri nel tempo della
guerra macedonica, dove erano già in-
viluppati molti migliaia d’ uomini e di
donne; e se la non si scopriva, sarebbe
stata pericolosa per quella città ; o sep-
pure i Romani non fussino stati con-
sueti a gasligare le muititudiui degli uo-
mini erranti: perchè, quando e’ non si
vedesse per altri infiniti segni la gran-
dezza di quella Repubblica, e la potenza
delle esecuzioni sue, si vede per la qua-
lità della pena che la imponeva a chi
errava. Nè dubitò far morire per via di
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DEI DISCORSI
780
giustizia una legione intera per volta,
ed una città tutta; e di confinare otto
o diecimila uomini con condizioni straor-
dinarie, da non essere osservate da un
solo, non che da tanti: come intervenne
a quelli soldati che infelicemente ave-
vano combattuto a Canne, i quali con-
finò in Sicilia, c impose loro che non
alkergassino in terre, e che mangias-
sino ritti. Ma di tutte 1’ altre esecuzioni
era terribile il decimare gli eserciti, dove
a scorte da tutto uno esercito era morto
d’ogni dieci uno. Nè si poteva, a gasli-
gare una multit udine, trovare più spa-
ventevole punizione di questa. Perchè
quando una moltitudine erra, dove non
sia 1’ autore certo, tutti non si possono
gastigare, per esser troppi; punirne
parte e parte lasciare impuniti, si fa-
rebbe torto a quelli che si punissino, e
gli impuniti arebbono animo di errare
un’ altra volta. Ma ammazzare la decima
parte a sorte, quando lutti la meritano,
0,1 ' è punito si duole della sorte; ehi
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LIBRO TERZO.
781
non è punito, ha paura che un’ altra
volta non tocchi a lui, c guardasi di er-
rare. Furono punite, adunque, le vene-
fiche e le baccanali secondo che meri-
tavano i peccali loro. K. benché questi
morbi in una repubblica faccino cattivi
effetti, non sono a morte, perchè sempre
quasi s’ ha tempo a correggerli : ma non
s’ ha già tempo in quelli che riguardano
lo Stato, i quali se non sono da un pru-
dente corretti, rovinano la città. Erano
in Roma, per la liberalità che i Romani
usavano di donare la civilità a’ forestieri,
nate tante genti nuove, che le comin-
ciavano avere tanta parte ne’ suffragi,
che ’l governo cominciava a variare, e
partivasi da quelle cose e da quelli uo-
mini dove era consueto andare. Di che
accorgendosi Quinto Fabio che era Cen-
sore, messe tutte queste genti nuove
da chi dipendeva questo disordine sot-
to quattro Tribù, acciocché non po-
tessino, ridotte in si piccioli spazi,
corrompere tutta Roma. Fu questa cosa
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7S2 DEI DISCORSI — LIBRO TERZO.
ben conosciuta da Fabio, e postovi sen*
za alterazione conveniente rimedio; il
quale fu tanto accetto a quella civi-
lità, che meritò d’esser chiamato Mas*
sirno.
F I .v E.
962472
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INDICE.
Niccolò Machiavelli a Zanobi Buondel-
monti e Cosimo Rucellai salute. Pag. 1
Libro Primo. .
I. Quali siano stati universalmente i
principii di qualunque città, e quale
fosse quello di Roma 9
II. Di quanto spezie sono le repubbliche,
e di quale fu la Repubblica Romana. 1$
III. Quali accidenti facessino creare in
Roma i Tribuni della plebe; il che
fece la Repubblica più perfetta ... 30
IY. Che la disunione della Plebe e del
Senato romano' fece libera e potente
quella Repubblica ; . . . 33
Y. Dove più securamente si ponga la
guardia della libertà, o nel Popolo o
ne’ Grandi; e quali hanno maggiore
cagione di tumultuare, o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere. . . 37
VI. Se in Roma si poteva ordinare uno
Stato che togliesse via le inimicizie
intra il Popolo ed il Senato 43
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784 INDICE,
VII. Quanto siano necessarie in una Re-
pubblica le accuse per mantenere la
libertà Pag. 53
Vili. Quanto lo accuse sono utili alle
repubbliche, tanto sono perniziose le
calunnie. hi
IX. Come egli è necessario esser solo
a volere ordinare una repubblica di
nuovo, o al tutto fuori delli antichi
suoi ordini riformarla 68
X. Quanto sono laudabili i fondatori
d’una repubblica o d’uno regno, tanto
quelli d’ una tirannide sono vitupera-
bili 74
XI. Della religione de’ Romani 8*2
XII. Di quanta importanza sia tenero
conto della religione, e come la Italia
per esserne mancata mediante la Chie-
sa romana, è rovinata 89
XIII. Come i Romani si servirono della
religione per ordinare la città, e per
seguire le loro imprese e fermare i
tumulti . . 9.~>
XIV. I Romani interpretavano gli au-
spicii secondo la necessità, o con la
prudenza mostravano di osservare la
religione, quando forzati non 1‘ osser-
vavano; e se alcuno temerariamente
la dispregiava, lo punivano 100
dio alle cose loro afflitte, ricorsono
alla religione ~104
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INDICE.
7s:
XVI. Un popolo USO a vivere sotto un
principe, se per qualche accidente di-
venta libero, con difficult-à mantiene
la libertà. . ^ag. ^
XVII. Uno popolo corrotto, venuto in li-
bertà, si può con dit'ticnltà grandis-
sima mantenere libero LLH
XVIII. In che modo nelle città corrotte
si potesse mantenere uno Stato libero,
essendovi; o non essendovi, ordinar-
velo
XIX. Dopo uno eccellente principe si può
mantenere un principe debole; ma
dopo un debole, non si può con un
altro debole mantenere alcun regno. 1*20
XX. Due continove successioni di prin-
cipi virtuosi fanno grandi effettive
come le repubbliche bene ordinate
hanno di necessità virtuose succes-
sioni: e però gli acquisti ed augu-
menti loro sono grandi ~ •
XXI. Quanto biasimo meriti quel prin-
cipe e quella repubblica che manca
d"armi proprie
XXII. Quello che sia da notare nel caso
dei tre Orazi romani, e dei tre Curiazi
albani
133
1M
131
XXIII. Che non si debbe mettere a pe-
ricolo tutta la fortuna e non tutte
le forze; e per questo, spesso il guar-
dare i passi è dannoso
XXIV. Le repubbliche bene ordinate
Machiavelli, Discorsi. — 1. SO
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786
INDICE.
costituiscono premii e pene a' loro
cittadini, nè compensano mai P uno
con r altro Pag. 143
XXV. Chi mole riformare nno Stato
antico in una città libera, ritenga al-
meno V ombra desmodi antichi . . . . HI
XXVI. Un principe nnoro, in nna città
o provincia presa da Ini, debbo faro
ogni cosa nnova ♦ . 14y
XXVII. Sanno rarissime volte gli nomi-
ni essere al tutto tristi o al tatto
buoni. Ini
XXVIII. Per qual cagione i Romani fu-
rono meno ingrati agli loro cittadini
che gli Ateniesi 153
XXIX. Quale sia più ingrato, o un po-
polo, o un principe 15<*
XXX. Quali modi debbe usare un prìn-
cipe o nna repubblica per fuggirò que-
sto vizio della ingratitudine; e qnali
quel capitano o quel cittadino per non
essere oppresso da quella 163
XXXI. Che i capitani romani per errore
commesso non furono mai istraordi-
nariamente puniti; nè furono inai an-
cora puniti quando, per la ignoranza
loro o tristi partiti presi da loro» ne
fussino seguiti danni alla repubblica, lfil
XXXII. Una repubblica o nno principe
non dobbe differire a beneficare gli
uomini nelle sue necessitati. . . . . . ITI
XXXIII. Quando uno inconveniente è
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INDICE.
787
cresciuto o in uno Stato o contra ad
uno Stato, è più salutifero partito tem-
poreggiarlo che urtarlo P&g»
XXXIV. L'autorità dittatoria fece tene,
e non danno, alla repubblica romana :
o come lo autorità che i cittadini si toP
gono, non quelle che sono loro dai
suffragi liberi date, sono alla- vita ci^
vile perniciose
XXXV. La cagione perchè in Roma la
creazione del decemvirato fu nociva
alla libertà di quella repubblica, non
ostante che fosse creato per suffragi
pubblichi e liberi
XXXVI. Non debbono i cittadini che
hanno avuti i maggiori onori, sdegnarsi
de' minori
113
ISO
186
139
XXXVII. Quali scandali partorì in Ro-
ma la legge agraria: e come fare una
legge in una repubblica che risguardi
assai indietro, e sia contra ad una
consuetudine antica della città, è
scandolosissimo
XXXVIII. Le repubbliche deboli sono
male risolute, e non si sanno delibe-
rare; e se le pigliano mai alcuno par-
tito, nasce più da necessità che da
elezione
XXXIX. In diversi popoli si veggono
spesso i medesimi accidenti . . rrr~. m
XL. La creazione del decemvirato in
Roma, e quello che in essa è da no-
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788 IXD1CE.
tare: dove si considera, intra molte
altre cose, come si può salvare per
simile accidente, o oppressare una re-
pubblica Pag. 200
XLI. Saltare dalla urailità alla superbia,
dalla pietà alla crudeltà, senza debiti
mezzi, è cosa imprudente ed inutile. 221
XLII. Quanto gli uomini facilmente si
possono corrompere . * 222
XLIII. Quelli che combattono per la glo-
ria propria, sono buoni e fedeli soldati 223
XL1Y. Una moltitudine senza capo è
inutile: e non si debbe minacciare
prima, e poi chiedere P autorità . . . 225
XLY. È cosa di malo esempio non os-
servare una legge fatta, e massime
dallo autore d'essa: e rinfrescare ogni
dì nuove ingiurie in una città, è a
chi la governa dannosissimo 227
XLYI. Gli uomini salgono da un' ambi-
zione ad un'altra; e prima si cerca
non essere offeso, dipoi di offendere
altrui 231
XLVII. Gli uomini, ancora che si ingan-
nino ne’ generali, nei particolari non
si ingannano 235
XLYIII. Chi vuolo che uno magistrato
non sia dato ad un vile o ad un tri-
sto, lo facci domandare o ad un
troppo vile e troppo tristo, o ad uno
troppo nobile e troppo buono 242
XLIX. Se quelle città che hanno avuto
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INDICE.
789
il principio libero, come Roma, hanno
difficoltà a trovare leggi che le man-
tenghino; quelle che lo hanno im-
mediate servo, ne hanno quasi una
impossibilita Pag. 2411
L. Non debbo uno consiglio o uno ma-
gistrato potere fermare le azioni della
città 249
LT. Una repubblica o uno principe debbo
mostrare di fare per liberalità quello
a che la necessità lo constringe ... 251
LII. A reprimere la insolenza di uno
che sorga in una repubblica potente,
non vi è piu securo e meno scando-
loso modo, che preoccuparli quelle vie
per lo quali o’vieno a quella potenza. 253
LIII. Il popolo molte volto desidera la
rovina sua, ingannato da una falsa
spezie di bene : e come le grandi spe-
ranze e gagliardo promesse facilmente
lo muovono 25S
LIV. Quanta autorità abbia uno uomo
grande a frenare una moltitudine
2fìfi
LY. Quanto facilmente si conduchino le
cose in quella città dove la moltitu-
dine non è corrotta: e che dove è
eqnalità, non si può faro principato;
e dove la non è, non si può far re-
pubblica 26S
LVI. Innanzi che seguino i grandi acci-
denti in una città o in una provin-
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700
ÌNDICE.
eia, vengono segui che gli pronosti-
cano, o Domini che gli predicono. Pag. 279
LV1I. La plebe insieme è gagliarda; di
per se è debole 260
LVIII. La moltitudine è più savia e più
costante che un principe 283
altri si può più fidare; o di quella
fatta con una repubblica, o di quella
fatta con nno principe 294
LX. Come il consolato o qualunque al-
tro magistrato in Roma si dava senza
rispetto di età 299
Libro Secondo.
I. Quale fu più cagione dello imperio
che acquistorono i Romani, o la virtù,
o la fortuna 310 .
II. Con quali popoli i Romani ebbero a
combattere, e come ostinatamente
quelli difendevano la loro libertà. . . 31S
III. Roma divenne grande città rovi-
nando le città circonvicine, e rice-
vendo i forestieri facilmente a' suoi
onori 333
IV. Le repubbliche hanno tenuti tre modi
circa lo ampliare 335
lingue, insieme con 1~ accidente de-1 di-
luvi o delle pesti, spegno la memo-
ria dello cose, . 34.r>
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IXD'.CE. 791
VI. Come i Romani procedevano nel fare
la guerra Pag. 350
VII. Quanto terreno i Romani davano
per colono 355
Vili. La cagione perchè i popoli si par-
tono da’ luoghi patrii, ed inondano il
paose altrui 356
IX. Quali cagioni comunemente faccino
X. I danari non sono il nervo della
guerra, secondo elio è la comune op-
pinone 367
XI. Non è partito prudento fare amici-
zia con un principe che abbia più
oppinione che forze 374
assaltato, inferire, o aspettare la
guerra 37fi
XIII. Che si viene (li bassa a gran for-
tuna più con la fraude, che con la
forza t 385
XIV. Ingannansi molte volto gli uomini,
credendo con la nmilità vincere la su-
perbia 389
XV. Gli Stati deboli sempre fieno ambi-
gui nel risolversi: e sempre le deli-
berazioni lente sono nocive 392
XVI. Quanto i soldati ne’ nostri tempi
si disformino dalli antichi ordini . 398
XVII. Quanto si debbino stimare dagli
eserciti ne’ presenti tempi le artiglie-
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702 IKDlCE.
rie ; e se quella oppinione che se ne
ha in universale, è vera Pag. iiLZ
XYIII. Come per I’ autorità de* Romani,
e per lo essempio della antica mili-
zia, si debbe stimare più le fanterie
che i cavagli . 421
XIX. Che gli acquisti nelle repubbli-
che non bene ordinate e che secondo
la romana virtù non procedono, sono
a rovina, non a esaltazione di esse . 431
XX. Quale pericolo porti quel principe
o quella repubblica che si vale della
milizia ausiliare a mercenaria . . . . 441
XXI. Il primo Pretore che i Romani
mandarono in alcun luogo, fu a Capo-
va, dopo quattrocento anni che co-
minciarono a far guerra 445
XXII. Quanto siano false molte volte le
oppinioni degli uomini nel giudicare
le cose grandi 450
XXIII. Quanto i Romani nel giudicare
i sudditi per alcuno accidente che ne-
cessitasse tal giudizio, fuggivano la
via del mezzo 455
XXIY. Le fortezze generalmente sono
molto più dannose che utili 464
XXV. Che Io assaltare una città disu-
nita, per occuparla mediante la sua
disunione, è partito contrario. . . . .479
XVI. Il vilipendio e l’improperio ge-
nera odio contra a coloro che l’usa-
no, senza alcuna loro utilità 482
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INDICE.
793
XXVII. Ai principi e repubbliche pru-
denti debbe bastare vincere ; perchè il
più delle volte, quando non basti, si
perde Pag. 4S0*
XXVIII. Quanto sia pericoloso ad una
repubblica o ad uno principe non ven-
dicare una ingiuria fatta contra al
pubblico o contra al privato 492
XXIX. La fortuna accieca gli animi de-
gli uomini, quando la non vuole che
quelli si opponghino a’ disegni suoi . 49(5
XXX. Le repubbliche e gli principi ve-
ramente potenti non comperano l' ami-
cizie con danari, ma con la virtù e
con la riputazione delle forzo .... 502
XXXI. Quanto sia pericoloso credere agli
sbanditi 509
XXXII. In quanti modi i Romani occu-
pavano le terre 512
XXXIII. Come i Romani davano agli
loro capitani degli eserciti le commis-
sioni libere 519
Libro Terzo.
I. A volere che una setta o una repub-
blica viva lungamente, è necessario
ritirarla spesso verso il suo principio. 524
II. Come gli è cosa sapientissima simu-
lare in tempo la pazzia 535
III. Come egli è necessario, a voler
mantenere una libertà acquistata di
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79-1 INDICE.
nuovo, ammazzare i figliuoli di Bru-
to Pag- 538
IV. Non vive sicuro un principe in un
principato, mentre vivono coloro che
ne sono stati spogliati 541
V. Quello che fa perdere uno regno ad
uno re che sia ereditario di quello . 544
VI. Delle congiure 547
VII. Donde nasce che le mutazioni dalla
libertà alla servitù, e dalla servitù
alla libertà, alcuna n1 è senza sangue,
alcuna n" è piena 595
Vili. Chi vuole alterare una repubbli-
ca, debbo considerare il soggetto di
quella 591
IX. Come conviene variare coi tempi,
volendo sempre aver buona fortuna . 603
X. Che uu capitano non può fuggire la
giornata, quando 1’ avversario la vuol
fare in ogni modo 608
XI. Che chi ha a fare con assai, an-
cora Che sia inferiore, purché possa
sostenere i primi impeti, vince. . . . 617
XTI. Come un capitano prudente debbo
imporre ogni necessità di combattere
ai suoi soldati, e a quelli delli minici
torla gol
P0Ye 8*a Più confidare, o in
nuo buono capitano che abbia l;eser-
cp° debole, o in uno buono esercito
che abbia il capitano debole . , . , . 629
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INDICE.
795
XIV Le invenzioni nuove che appari-
scono nel mezzo della zuffa, e le voci
nuove che si odono, quali effetti fac-
cino Pag. 633
XV. Come uno e non molti siano pre-
posti ad uno esercito, o come i più
comandatori offendono 630
XVI. Che la vera virtù si va ne' tempi
difficili a trovare; e ne* tempi facili
non gli uomini virtuosi, ma quelli
che per ricchezze o per parentado pre-
vagliono, hanno più grazia 642
XVII Che non si offenda uno, e poi
quel medesimo si mandi in ammini-
strazione e governo d’ importanza . . 648
XVIII. Nessuna cosa è più degna d' un
capitano, che presentire i partiti del
nimico 650
XIX. Se a reggere una moltitudine è
più necessario lo ossequio che la pena. 656
XX. Uno essempio d'umanità appresso
ai Falisci potette più d' ogni forza
romana
XXI. Donde nacque che Annibaie con
diverso modo di procedere da Sci pio-
ne, fece quelli medesimi effetti in
Italia che quello in Ispagna
662
XXII. Come la durezza di Manlio Tor-
quato e l’umanità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima
gloria. . 669
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796 indice.
XXIII. Per quale cagione Cammillo fnsse
cacciato di Roma ....... Pag^ 679
XXIV. La prolungazione degl1 imperi
fece serva Roma . .... . 7 681
XXV. Della povertà di Cincinnato, e di
molti cittadini romani 681
XXVI. Come per cagione di femmine si
rovina uno Stato . 689
XXVII. Come e' si ha a nnire una città
divisa; e come quella oppinione non
è vera, che a tenere le città bisogna
tenerle disunite 691
XXVIII. Che si debbe por mente alle
opere de’ cittadini, perchè molte volte
sotto un’opera pia si nasconde un prin-
cipio di tirannide 697
XXIX. Che gli peccati dei popoli na-
scono dai principi. 109
XXX. Ad uno cittadino che voglia nella
sua repubblica far di sua autorità al-
cuna opera buona, è necessario prima
spegnere T invidia: e come, venendo
il nimico, s’ha a ordinare la difesa
d’ una città 708
XXXI. Le repubbliche forti o gli uo-
mini eccellenti ritengono in ogni for-
tuna il medesimo animo e la loro me-
desima dignità 710
XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni
a turbare una paco 718
XXXIII. Egli è necessario, a voler vin-
cere una giornata, fare T esercito con-
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13 DICE .
71)7
Attente ed infra loro, e con il capi- _
tano Pag* '-1
XXXIV. Quale fama o voce o oppinione
fa che il popolo comincia a favorire
un cittadino: e se ei distribuisce i
magistrati con maggior prudenza che
un principe 72o
XXXV. Quali pericoli si portino nel farsi
capo a consigliare una cosa ; e quanto
ella ha più dello straordinario, mag-
giori pericoli vi si corrono . . . . ... 733
XXXVI. La cagione perchè i Franciosi
sono stati e sono ancora giudicati
nelle zuffe da principio più che uomi-
ni, e dipoi meno che femmine .... 738
XXXVII. Se le piccolo battaglie innanzi
alla giornata sono necessarie, e come
si debbo fare a conoscere un nimico
nuovo, volendo fuggire quelle .... 742
XXXVIII. Come debbe esser fatto un ca-
pitano nel quale 1’ esercito suo possa
confidare 749
XXXIX. Che un capitano debbe esser
conoscitore dei siti 752
XL. Come usare la fraudo nel maneg-
giare la guerra è cosa gloriosa. . . . 756
XLI. Che la patria si debbe difendere
o con ignominia o con gloria; ed in
qualunque modo è ben difesa 759
XLII. Che le promesse fatte per forza
non si debbono osservare 761
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798
INDICE.
XLIII. Clie gli uomini che nascono in
una provincia, osservano per tutti i
tempi quasi quella medesima na-
tura Pag. 763
XL1Y. E’ si ottiene con l'impeto e con
1’ audacia molte volte quello che con
modi ordinari non si otterrebbe mai . 767
XLV . Qual sia miglior partito nelle gior-
nate, o sostenere l'impeto de' nimici,
e sostenuto urtargli; ovvero dappri-
ma con furia assaltargli ...... 771
XLVI. Donde nasce che una famiglia in
una città tiene un tempo i medesimi
costumi 772
XLYII. Che un buon cittadino per amore
della patria debbe dimenticare P in-
giurie private 775
XLVIII. Quando si vede fare uno errore ,
grande ad un nimico, si debbe credere
die vi sia sotto inganno 776
XLIX. Una repubblica, a volerla man-
tenere libera, ha ciascuno di bisogno
di nuovi provvedimenti; e per quali
meriti Quinto Fabio fu chiamato Mas-
simo 778
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