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Friday, May 17, 2024

Grice e Pagliaro

 LINGUA E RAZZA 

Nel 1781 lo storico tedesco Schlòzer diede per primo il nome di 
«semitico » al vasto dominio linguistico che ha il suo centro origi- 
nario fra la Mesopotamia e il Mediterraneo, le montagne dell’Arme- 
nia e le coste meridionali dell'Arabia, e che per successive migrazioni 
e conquiste si è allargato su una notevole parte del continente afri- 
cano. Tale denominazione si richiama alla «tavola dei popoli » tra- 
mandata nella Bibbia (Genesi, X), nella quale si distinguono i popoli 
discendenti da Sem, primogenito di Noè, dai popoli discendenti dagli 
altri due fratelli, Cam ed Iafet. La parentela linguistica fra l'arabo c 
l'ebraico, le due lingue più vitali del gruppo, era già stata notata 
nei secoli X e XI dai grammatici ebrei di Spagna, ma la precisa no- 
zione di unità semitica, concordante con quella che se ne ebbe nel 
mondo ebraico all’epoca in cui fu redatta la Genesi (verso la fine del 
2° millennio a. Cr. all'incirca), è ben più recente e, nella sua formu- 
lazione scientifica, è un riflesso della precisa nozione di unità ario- 
europea costituitasi nel nostro tempo. Oggi il gruppo semitico si 
suole distinguere in semitico orientale che comprende il babilonese 
e l’assiro, e in semitico occidentale. Quest'ultimo si distingue a sua 
volta in semitico nord-occidentale (che comprende il gruppo aramaico, 
di cui la più importante manifestazione è il siriaco, e il gruppo ca- 


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nanco, a cui appartiene l'ebraico), e in semitico sud-occidentale, di 
cui fanno parte l'arabo settentrionale e meridionale e l’etiopico. 
Ad indicare la vasta unità linguistica comprendente quasi tutta 
l'Europa e buona parte del continente asiatico, scientificamente accer- 
tata per primo da Franz Bopp in uno studio comparativo sulla co- 
niugazione (1816), appare per la prima volta nel 1823 nell'Asia poly- 
glotta di F. von Klaproth il termine «indogermanisch ». Tale ter- 
mine, divenuto usuale nella scienza germanica, intendeva riunire i 
due punti estremi del dominio linguistico considerato e si è affer- 
mato in tedesco, nonostante che le più vaste conoscenze posteriori 
pongano come estrema zona ad Occidente quella del celtico e ad 
Oriente il tocario. Fra tutte le denominazioni altrove usate, e cioè 
indocuropeo, ariocuropeo, ario, questa ultima è forse la più propria, 
poichè, se non nome unitario di popolo, è certo una denominazione 
che parecchi popoli del gruppo usavano darsi nei confronti degli altri 
popoli. Purtroppo, in linguistica l'uso di «ario» in senso così vasto 
può ingenerare confusione, essendo esso abitualmente riservato al 
gruppo indoiranico. Noi tuttavia l’accogliamo come il meno impro- 
prio e anche per avere una terminologia uniforme con altre discipline, 
' come la paletnologia e l'antropologia che l’usano già stabilmente 
nell'accezione più vasta. L'unità linguistica aria comprende oggi i 
seguenti gruppi storicamente accertati: in Asia l’indiano, l’iranico, il 
tocarico, l’hittito, l’armeno, il traco-frigio; in Europa l'illirico, il 
greco, lo slavo, l’italico, il baltico, il germanico e il celtico. In Asia 
delle lingue arie sopravvivono soltanto l’indiano, l’iranico e l’armeno; 
in Europa tutte le lingue oggi parlate sono di derivazione aria, fatta 
eccezione dell’ungherese, del finnico, dell’estone e del basco. 
Nessuna scienza storica opera con metodo così sicuro come la 
linguistica, la quale dispone di un materiale di osservazione vastis- 
simo, sia attuale sia documentato nel tempo. L'unità linguistica aria 
e quella semitica sono verità acquisite, assolutamente incontroverti- 
bili, anche se le lingue che ad esse partecipano siano ormai profon- 


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damente differenziate. Compito della linguistica storica è per l’ap- 
punto, una volta riconosciuta l’unità genetica originaria, di seguire 
nel quadro di essa le modalità e, vorremmo dire, le leggi degli svi- 
luppi e delle differenziazioni, che hanno determinato la fisionomia 
delle singole lingue come noi oggi le conosciamo; compito a volte 
arduo, specie quando dalla ricognizione dei fatti si voglia risalire alle 
loro cause, cioè ai momenti umani che danno origine all'innovazione; 
ma tuttavia ricco di risultati grandissimi, i quali dal campo della 
glottologia si estendono a tutte le altre discipline, che studiano l’u- 
manità nelle manifestazioni concrete della sua storia. Il linguaggio 
è una delle forme più importanti, anzi la più importante, in cui l'u- 
manità realizza se stessa come realtà spirituale, e perciò le lingue 
costituiscono gli archivi, in cui si traducono con incomparabile ric- 
chezza e fedeltà gli eventi, le esperienze, le creazioni dei popoli at- 
traverso i secoli ed i millenni. 


Le nozioni di razza aria e di razza semitica, come nozioni scien- 
tifiche, sono certamente posteriori alle nozioni dell'unità linguistica 
rispettiva. 

Per quanto si riferisce agli Ari, prima della scoperta della loro 
unità linguistica non si ebbe nemmeno la nozione empirica di una 
parentela etnica fra i popoli che la compongono. L'affinità etnica è 
grossolanamente intuita presso i Greci, soltanto in base alla comu- 
nione linguistica per cui «barbari», probabilmente « balbuzienti », 
sono coloro che parlano un’altra lingua. I Romani, che pure ebbero 
così vivo il senso della loro stirpe, non ebbero mai la percezione che 
quei Galli, Germani e Parti, contro i quali strenuamente combatte- 
rono, discendevano dallo stesso loro ceppo. L'autorità della tradizione 
biblica con la babelica confusione delle lingue tolse poi del tutto 
la possibilità di pensare ad un legame linguistico fra popoli diversi 
e ad un legame etnico che non fosse quello indicato nella Genesi. 


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Tanta fu l'autorità delle Sacre Scritture, anche nel campo degli inte- 
ressi linguistici, che, se tentativi si ebbero per ricercare la derivazione 
di questa o quella lingua, furono sempre diretti a stabilire la priorità 
e la paternità dell’ebraico, come avvenne nel corso del Seicento e del 
Settecento; tentativi di nessun valore, al pari degli altri diretti alla 
creazione di una « grammatica razionale », che valesse per le lingue 
di tutti i tempi e di tutti i luoghi. 

Anche presso i popoli semitici, se se ne toglie il peso che la tradi- 
zione religiosa contenuta nella Bibbia potè avere nel mondo giudaico, 
mancò il senso di una propria reciproca parentela, mentre fu quanto 
mai vigoroso proprio presso gli Ebrei il senso della propria indivi- 
duazione come popolo, legato alla coscienza di popolo eletto. 

La scoperta e la fissazione in termini scientifici di unità lingui- 
stiche originarie come quella aria e quella semitica, a cui seguirono 
scoperte abbastanza numerose di altri gruppi linguistici, aprirono la 
via al problema se a tali unità linguistiche rispondessero unità etniche 
più o meno nettamente definite. In un primo tempo, com'è noto, ad 
opera del De Gobineau, del Chamberlain e di altri, si assunse senza 
discussione l'identità fra unità linguistica ed unità etnica, fra lingua e 
razza, e si procedette alla ricerca delle caratteristiche differenziali fisi- 
che e psicologiche, che potessero ancor meglio individuare sul piano 
razziale i diversi gruppi linguistici. Tale procedimento, ispirato in 
genere a criterio polemico, è stato condannato come dilettantesco 
e prescientifico tanto dai linguisti, quanto dagli antropologi, asse- 
rendo gli uni e gli altri che la lingua è patrimonio facilmente tra- 
smissibile da individuo ad individuo, da gruppo a gruppo e non può 
essere quindi assunta a caratteristica etnica preminente ed esclusiva. 
A rinsaldare questa convinzione, contribuirono tentativi, come quello 
fatto da Federico Miiller, di far coincidere una classificazione delle 
lingue con una classificazione antropologica, destinati all’insuccesso, 
anzitutto per l'incertezza delle classificazioni antropologiche, poi per 
l'intervento del fattore storico che fa talvolta assumere da individui 


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e da gruppi lingue di popoli etnicamente diversi. A questo riguardo, 
si suole richiamare il classico esempio dei Bulgari, che dal punto di 
vista etnico sono genti turaniche e dal punto di vista linguistico sono 
slavi, cioè ari. 

D'altra parte, questo negare l’esistenza di ogni rapporto fra razza 
e lingua con l’attribuire valore discriminante nella classificazione delle 
razze ai soli caratteri strettamente biologici, non soltanto è contrario 
alle nostre reali esperienze, ma verrebbe a togliere ogni valore a 
quelle distinzioni ormai acquisite come fra razza aria e razza semi- 
tica, le quali, come si è visto sopra, hanno come precedente storico e 
come fondamento il riconoscimento della rispettiva individualità lin- 
guistica. 

Dato ciò, sembra qui opportuno chiarire in quale misura sia 
possibile fare valere il criterio linguistico nella discriminazione 
delle razze. 


Esiste certamente una differenza sostanziale e profonda fra la 
linguistica e l'antropologia, sia nell'oggetto sia nel metodo, che ne 
rende difficile e poco proficua la collaborazione. La linguistica è di- 
sciplina essenzialmente storica, tanto che le sue classificazioni hanno 
vero valore solo se abbiano fondamento genetico. Ciò si vede soprat- 
tutto nel campo della linguistica aria, che fra tutte le discipline lin- 
guistiche è certamente la più progredita. Qui dalla comparazione 
fra le lingue storiche si riesce a postulare con sufficiente sicurezza la 
struttura originaria della lingua comune da cui esse discendono; si 
riesce a fissarne i caratteri propriamente genetici, liberandoli dalle 
modificazioni successive determinate--da molteplici cause, fra cui 
principalissimi j contatti e le mistioni con popoli di altra lingua. Così 
noi sappiamo con relativa sicurezza qual’erano la struttura fonetica e 
morfologica e il patrimonio lessicale dell’ario dell’epoca comune, al- 
l’incirca come potremmo ricostruire dalle lingue romanze la lingua 


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latina, se non l’avessimo documentata. E’ una ricostruzione che ha 
quasi una realtà matematica, fondata com'è su norme di sviluppo 
fonetico che, se non sono leggi ineccepibili, come si credeva alcuni 
decenni or sono, hanno tuttavia una vastità e regolarità di applica- 
zione che non ha riscontri in altri campi delle creazioni umane. 

L'antropologia, invece, per insufficienza e discontinuità del ma- 
teriale d'osservazione, è costretta a gravitare sul presente cercando di 
classificare le razze umane in base ai caratteri morfologici attuali, e 
solo eccezionalmente qualche importante trovamento apre ad essa la 
possibilità di rintracciare precedenti sporadici, generalmente assai di- 
stanti, di questo o quel tipo umano. Il materiale antico rinvenuto 
è così scarso e frammentario che le conclusioni che se ne possono 
trarre sono molto tenui e malsicure. Così avviene che, mentre del- 
l’unità aria dal punto di vista linguistico noi abbiamo una sicura no- 
zione, poichè la comparazione ci consente di risalire oltre i confini 
della storia, della struttura somatica degli Ari nulla di sicuro sap- 
piamo, poichè nell’osservazione delle caratteristiche somatiche degli 
Ari attuali l'antropologia non è ancora in grado di distinguere i 
caratteri geneticamente originari da quelli acquisiti in seguito a me- 
scolanza. Oggi non si è davvero:in grado di dire se gli Ari fossero, 
ad esempio, dolicocefali e biondi o mesocefali e castani, a capelli lisci 
o a capelli ondulati. La ragione di ciò è dovuta al fatto che non esiste 
un’antropologia genetica, la quale consenta di chiarire, dato un tipo 
capostipite, quali siano i caratteri, permanenti nel corso delle ge- 
nerazioni e quali quelli che si mutano o si acquisiscono. Teorica- 
mente, nel confronto fra i vari tipi di probabile discendenza aria 
dovrebbero potere risultare i caratteri specifici da attribuire ad un 
Ario astratto della preistoria; praticamente ciò non è possibile per la 
insufficiente conoscenza che si ba, delle modalità con cui si traman- 
dano i caratteri biologici, sia ifisici, sia psichici. 

Avviene così, ad esempio, ghe: l'Europa, mentre è fondamental- 
mente unitaria dal punto di vista linguistico, da quello antropologico 


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annovera numerose razze, la mediterranea, l’alpina, la dinarica, la 
nordica, nè le differenze, che caratterizzano tali razze, combaciano 
con le differenze che caratterizzano i vari gruppi linguistici determi- 
natisi in seno all’originaria unità. 

Nonostante questa mancata concordanza di dati fra la linguistica 
e l'antropologia, le due discipline maggiormente impegnate nella 
definizione delle razze umane, è certo che razze esistono con carat- 
teri ben precisi e differenziati e che, nella pratica, anche al più mo- 
desto osservatore non sfugge l’esistenza di tipi umani diversi, i quali 
assommano i caratteri di unità razziali diverse. Nell'ambito stesso 
dell'unità aria, a nessuno sfuggirà l’esistenza di una unità aria medi 
terranea e di un'unità aria nordica, c, a un più attento esame, nel- 
l'ambito di queste unità, sarà possibile rintracciare altri tipi umani i 
quali danno fisionomia ai diversi popoli che le compongono. Fuori 
di ogni dubbio è poi, nell’ambito della razza bianca, la distinzione fra 
razza aria e razza semitica, anche se, per la prima più che per la 
seconda, non si riesca a individuare i caratteri biologici originari. 

Questo fatto è prova che non il solo dato antropologico ha va- 
lore nella determinazione della nozione di razza. 


Poichè, come sopra si è detto, la nozione di razza aria e razza 
semitica ha avuto come suo precedente la nozione di unità lingui- 
stica aria ed unità linguistica semitica, è indubbio che il fattore lingua 
deve avere un valore determinante nella costituzione dell’unità raz- 
ziale. Qual'è dunque il fondamento dell’obiezione in contrario, alla 
quale si è sopra accennato, che la lingua, essendo facilmente domi- 
nata da fattori storici e culturali, non sia elemento stabile nella conti- 
nuità delle generazioni, per il fatto che può essere sostituita con 
quella di altri popoli, e perciò sia inadeguata a fornire criterio nella 
discriminazione delle razze? 


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Bisogna, anzitutto, tenere presente che dalla nozione di razza 
come dalla nozione di lingua esula ogni idea di purezza in senso as- 
soluto, specie quando si tratti di popoli di cultura che hanno dietro 
a sè una storia lunga e complessa. Gli stessi Ebrei possono conside- 
rarsi razza pura, e relativamente pura, solo dal momento in cui hanno 
cominciato a volerlo essere deliberatamente, a tradurre il loro istinto 
dell'isolamento come popolo in norma di carattere religioso. Tutti 
i popoli ari dell'Europa e dell'Asia sono, senza eccezione, risultati 
dalla mistione fra la minoranza dei conquistatori ari e la vasta massa 
delle popolazioni preesistenti nelle zone occupate. Non è certo pre- 
sumibile che gli Ari al loro arrivo nelle loro sedi storiche abbiano 
distrutto le popolazioni preesistenti, le quali, ad esempio in Grecia, 
in Italia e sull’altipiano iranico, erano in possesso di civiltà notevol- 
mente progredite. D'altra parte, di tali mescolanze ci danno sicura 
testimonianza, oltre che i dati dell'archeologia preistorica, lo inte- 
grarsi della lingua aria comune in nuove unità, che sono quelle a 
noi storicamente note. 1 profondi rivolgimenti che alcune lingue 
hanno subìto anche nella struttura fonetica, ad esempio le rotazioni 
delle consonanti in germanico, non si possono altrimenti spiegare se 
non riferendole all'influenza di un sostrato alloglotto. E' noto che una 
parte non trascurabile del lessico del latino e dei volgari romanzi 
non si spiega nell’ambito dell’ario e deve essere riportato al fondo 
linguistico non ario su cui il latino venne a distendersi. 

Orbene, che un popolo, come è il caso di quello bulgaro, abbia 
assunto una lingua diversa non è altro se non un fatto di sincretismo 
in cui prevale la civiltà di maggiore prestigio. Quello che importa te- 
nere fermo è per l'appunto che il sincretismo, cioè la creazione di 
un risultato nuovo non inferiore agli elementi che vi hanno concorso, 
si ha solo quando la mescolanza sia guidata da un senso più o meno 
vivo di affinità elettiva. 


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Ciò si può osservare con sufficiente sicurezza sia nel senso posi- 
tivo sia in quello negativo. Nella penisola greca la civiltà minoica si 
è confusa con quella degli Ari sopravvenuti ed ha dato origine alla 
meravigliosa civiltà ellenica. In Italia il senso di conquista degli Ari 
nomadi e guerrieri si è trasfuso nell'ordine civile delle popolazioni 
stanziali ed ha dato origine alla mirabile e grandiosa civiltà romana 
che è poi la civiltà dell'Occidente. Evidentemente, fra le genti arie 
sopravvenute e le popolazioni mediterranee si determinò una facile 
intesa, dovuta al fatto che non vi dovettero essere fra esse sostanziali 
differenze di ordine fisico e spirituale e tali da produrre una corru- 
zione anzichè un miglioramento, dal punto di vista etnico e cultu- 
rale. In Italia, in Grecia, e dovunque si affermò la lingua aria, i ca- 
ratteri dominanti furono indubbiamente dati dalla stirpe aria e per 
questo, nonostante le differenze che si osservano fra i diversi popoli 
di questo gruppo, è facile cogliere in numerosi e cospicui tratti gli in- 
dizi della comune origine. 

Vi sono invece casi in cui questa affinità elettiva che dà la premi- 
nenza ai caratteri del tipo superiore non ha luogo, per motivi che 
non è sempre facile individuare. La storia di alcuni millenni di- 
mostra, per esempio, come fra gli Ari e i Semiti essa sia comple- 
tamente mancata e che le due stirpi si sono sempre tenute in reciproca 
difesa, quasi istintivamente conscie che da una fusione si dovesse 
avere la perdita da una parte e dall'altra dei rispettivi caratteri dif- 
ferenziali. Dovunque Semiti ed Ari si sono trovati in contatto si 
sono sempre scontrati in lotta senza quartiere: gli Irani contro 
l'impero di Assiria, Roma contro Cartagine, il mondo cristiano con- 
tro l'Islam. Sia che vincessero gli uni, sia che vincessero gli altri 
la barriera fra i due mondi non fu mai superata. Da una parte e 
dall’altra, tranne sporadiche infiltrazioni, due mondi diversi hanno 
conservato tenacemente la loro autonomia, e gli stessi apporti cultu- 


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rali che l'uno ha dato all'altro sono stati da ciascuno svolti, interpre- 
tati ed elaborati secondo la propria natura. Il Cristianesimo è diven- 
tato universale nell’interpretazione romana. Il senso ario della con- 
quista e dell'espansione assume nella coscienza e nella prassi giu- 
daica aspetti e modalità, per cui non è quasi più riconoscibile. 

Ed è certo bene che sia così, che cioè la barriera sussista, poichè 
il suo abbattimento non è, come la storia categoricamente dimostra, 
nella natura delle cose. Ciò si potrà rilevare in molti campi, ma a 
noi preme rilevarlo proprio nel campo della lingua, che oggi è senza 
dubbio uno dei più importanti fattori differenziali degli aggruppa- 
menti razziali. Difatti, quando noi attribuiamo questo o quel popolo 
al gruppo ario o al gruppo semitico lo facciamo soprattutto in base 
al criterio linguistico che è alla base di tali gruppi, e dove tale cri- 
terio sia reso fallace, com'è il caso dell'elemento giudaico che ha 
assunto a propria lingua la lingua nazionale dei popoli presso i quali 
vive, vi si sostituisce un criterio pure di ordine storico, quello religioso. 

Per l'appunto, nel campo linguistico la differenza costituzionale 
fra il semitico e l’ario, sia dal punto di vista fonetico per il prevalere 
in quello di suoni laringali ignoti all’ario, sia dal punto di vista mor- 
fologico per la diversità sostanziale della rispettiva flessione, si rivela 
così profonda da non consentire un sincretismo produttivo. L'elemento 
arabo, penetrato nel persiano in larga misura in seguito alla conver- 
sione della Persia zoroastriana all’islamismo, si è limitato al lessico e 
non ha intaccato la struttura fonetica e morfologica squisitamente aria 
di quella lingua; vi è rimasto così estrinseco, che, a seguito della ri- 
presa nazionale avutasi con la nuova dinastia, l'elemento arabo viene 
progressivamente sostituito con elemento propriamente iranico. Quan- 
do poi una lingua semitica è stata assunta da popoli di stirpe aria i ri- 
sultati che se ne sono avuti sono, nel loro aspetto negativo, profonda- 
mente significativi. Questo è, come è noto, il caso di Malta in cui 
il primitivo idioma romanzo venne per effetto della lunga occupa- 
zione musulmana sostituito con un dialetto arabo magrebino: l'arabo, 


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forzato in una impostazione vocale completamente estranea, ne è 
uscito così malconcio e così, come si suol dire, corrotto, da giustifi- 
care quasi le interessate fantasie della pseudo-scienza linguistica bri- 
tannica, che nel dialetto maltese voleva riconoscere, anzichè un dia- 
letto arabo storpiato da bocca romanza e sempre ricco di elementi 
italiani, nientemeno che la sopravvivenza di un antico idioma fenicio. 


Se ora ci poniamo il problema concreto della formazione del- 
l’unità etnica, ci appare chiaro che il processo non è diverso da quello 
della formazione dell'unità linguistica. Per l'una e l’altra unità è er- 
rore gravissimo partire dall'immagine dell’albero genealogico dal cui 
ceppo, quasi per virtù interiore di linfa, si siano venuti staccando 
tanti rami, integralmente fedeli alla natura e alla struttura di quello. 
Niente di più falso, poichè se ciò fosse si dovrebbe avere, tanto nel 
caso delle lingue quanto in quello delle razze, propagazione uniforme 
e non formazione di nuove unità più o meno nettamente differen- 
ziate. L'albero genealogico sarebbe giustificato solo se in esso potesse 
risultare il complesso degli apporti e delle cause che hanno determi. 
nato la figura particolare di ciascuna unità. % 

Prendiamo il caso della lingua. Non esistono lingue, specialmente 
a larga diffusione, che non siano costituite da una più o meno grande 
varietà di dialetti. L'unità neolatina, ad esempio, è divisa in tante 
lingue, italiano, francese, spagnuolo, provenzale, rumeno, per dire le 
maggiori, e queste sono alla loro volta distinte in varietà dialettali 
più o meno nettamente individuabili. Qual'è il motivo di tanta dif- 
ferenziazione, quando è noto che alla base di tante e così varie lingue 
e dialetti vi è l’unità latina, cioè una lingua di cultura, affermatasi per 
forza d’armi e prestigio di civiltà? Anzitutto, come causa di trasfor- 
mazione appare la reazione del sostrato etnico-linguistico su cui il 
latino si è venuto a sovrapporre, sicchè non di latino volgare bisogna 


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parlare, bensì di tanti volgari, per quante sono le zone linguistica- 
mente individuate in precedenza, di cui il latino s'impossessa. Inter- 
vengono poi i contatti che ciascun gruppo già delineato ha con popoli 
di altra lingua, germani, slavi, ecc., e gli sviluppi particolari di cia- 
scuna cultura che necessariamente si riflettono in ciascuna lingua, so- 
prattutto attraverso il convergere delle varietà dialettali verso la lin- 
gua comune, cioè verso una più piena e precisa unità. In altre parole, 
il processo per cui le lingue sì determinano non deve essere guardato 
nel suo aspetto di disintegrazione di un’unità, bensì piuttosto in quello 
integrativo che la nuova unità veramente determina. Ciò ha ancor 
maggiore valore, quando non si tratti, come è il caso del latino, di 
una lingua di cultura, quindi chiaramente unitaria, che si sovrappone 
con il peso della civiltà di cui è espressione su lingue di minore pre- 
stigio, bensì di unità linguistica naturale, in cui il processo integra- 
tivo, lento e faticoso, costituisce la modalità stessa di essere della lin- 
gua. Le unità linguistiche, come si è detto, non esistono mai interna- 
mente indifferenziate e ciò deve essere inteso come il risultato di 
quella necessità naturale per cui il comprendere, e perciò l’esprimersi, 
avviene prima fra i membri di una famiglia, poi fra i membri di 
una gente, di una tribù, di un popolo, di diversi popoli, ed è questa 
necessità sempre più vasta di esprimersi e di intendersi che costituisce 
quelle vaste unità alle quali noi diamo il nome di unità aria e di 
unità semitica. Da queste considerazioni deriva che nessuna teoria è 
tanto assurda quanto quella della monogenesi del linguaggio, non 
meno assurda, o almeno altrettanto poco giustificata, quanto quella 
che volesse scientificamente riportare tutti i caratteri delle attuali 
razze umane nella loro infinita varietà ai caratteri di una coppia 
capostipite. Come per questa altra realtà non si può postulare se non 
quella dell'essere uomini, così per la lingua originaria altra qualità 
non è possibile postulare se non quella di essere mezzo espressivo di 
uomini. 

Ora, identico processo integrativo è quello che dà origine alle 


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diverse unità razziali. Anche qui si ha uno slargarsi per accrescimento 
e mistioni: dalla singola gente si arriva alla tribù, al popolo, alla na- 
zione. E’ chiaro che l’accrescersi naturale delle generazioni amplifica 
al tempo stesso la natura del processo e fa che i caratteri dominanti 
del nucleo più vitale guadagnino sempre più vasto spazio. Vi è certo 
qualche cosa di misterioso in questo propagarsi di caratteri superiori 
per cui l'umanità ci appare in una continua ascesa, e ancor più grande 
mistero è quello che avvolge l’occulta forza da cui ogni unità razziale 
è guidata nella sua istintiva difesa da quei contatti e da quelle mi- 
stioni che ne altererebbero la genuina struttura. Poichè l’uomo è 
essere spirituale, tale modalità del suo divenire anche dal lato fisico 
ha forse la sua ragione nell’esigenza di una maggiore spiritualità che 
si rifletta anche nella struttura fisica, e in ciò è appunto il grande 
mistero dell’uomo, nell’indissolubile legame che in lui si realizza fra 
vita biologica e spirito. 


Da quanto si è detto appare chiaro che il fattore lingua concorre 
in maniera dominante, almeno sino a quando le conoscenze antropo- 
logiche non forniranno dati biologici più sicuri, a determinare la 
nozione di razza; anzi essa costituisce il mezzo principalissimo di 
coesione per cui una comunità più o meno vasta di individui sente di 
essere popolo e nazione. « Le caratteristiche spirituali e la struttura 
della lingua di un popolo -— ha scritto Guglielmo v. Humboldt — 
sono l’una con le altre in tale intreccio che posto l’un dato, l’altro si 
dovrebbe poter derivare completamente da quello ». La lingua, in- 
fatti, riflette anzitutto l'ambiente fisico e una maniera nativa, natu- 
rale di sentire il reale e di esprimerlo. Essa è fatto fisiologico e psi- 
cologico al tempo stesso e, come tale, è legata intimamente con la 
struttura psicofisica del popolo che la parla, è anzi la modalità più 
essenziale con cui tale struttura si manifesta. Il complesso dei costumi, 
delle tradizioni che si tramandano di generazione in generazione, 


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tutto ciò insomma che concorre a dare a ciascun popolo la sua pro- 
pria fisionomia, trova espressione fedele e categorica nel linguaggio. 
Poichè la nozione di razza non è in sostanza altro se non la nozione 
di un'appartenenza ad una determinata comunità genetica, la co- 
scienza della razza trova nel linguaggio uno dei suoi più forti so- 
stegni. 

Non è senza significato il fatto che l'esigenza alla purezza, 
quanto all’e4ros e quanto alla lingua, si manifesta presso i popoli 
nei momenti della loro maggiore vitalità. Un popolo che ad un de- 
terminato momento della sua storia voglia riconoscere i suoi carat- 
teri differenziali e voglia segnare una netta linea di demarcazione 
fra sè ed altre unità etniche, portatrici di caratteri spirituali ed etnici 
non congeniali ai suoi, altro non fa se non riportarsi coscientemente 
alle sorgenti più genuine della sua vita. Un aspetto di tale esigenza 
è il desiderio di tenere immune la propria lingua da influenze stra- 
niere e di eliminare le infiltrazioni che si sono verificate in momenti 
di indebolita o distratta coscienza. 

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