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Friday, May 17, 2024

Grice e Petrone

 Per saggiare a fondo il valore del realismo giu- 

ridico, è uopo, anzitutto, indagare, se e fino a che 
punto esso risolva o dia sicurtà di risolvere quei 
problemi che ogni ricerca del diritto , la quale 
aspiri al titolo di filosofica, si propone e che non 
erano del tutto ignoti alla filosofìa del dritto tra- 
dizionale. Tre sono i problemi che ricorrono tut- 
tora nella filosofia o che segnano 1’ intervento del- 
la scepsi filosofica bene intesa. Il primo concerne 
Y origine, .la portata, i limiti del conoscere : il se- 
condo concerne la natura dell’ essere che è Y og- 
getto del conoscere : il terzo il valore e le leggi 
dell’ operare. Il primo è il problema gnoseologico e, 
nella filosofìa del dritto, può formularsi così: quali 
atti e funzioni mentali si richieggono perchè si for- 
mi, rigorosamente parlando, una nozione del dritto? 
quale ne è il criterio, il principium cognoscendi? la 
ricerca induttiva dei fenomeni del dritto presuppo- 
ne o no una nozione del dritto, una serie di abiti 

Petrone 



— 178 — 

o (li funzioni mentali, che valgano come premesse 
e come leggi del processo induttivo ? II secondo è 
il problema ontologico ed è espresso da queste do- 
mande : in che si sustauzia il diritto ? quale è il 
la natura che subest , che sottosta immutabile alle 
sue evoluzioni fenomeniche? e, nell’ ipotesi che la 
ricerca dell’ essere e della sostanza sia illegittima, 
nella ipotesi cioè fenomenistica , quale è e donde il 
nascimento del fenomeno giuridico? Il terzo è il pro- 
blema etico e la maniera onde può venir risolto corri- 
sponde esattamente alla maniera onde si formula e si 
dibatte il problema ontologico: esso si domanda, qua- 
li sono le norme della condotta giuridica doverosa; 
se le disposizioni del potere positivo siano, sem- 
plicemente perchè tali, dotate di valore etico-impe- 
rativo; se, invece, non vi sia un criterio normativo, 
superiore ad esse e giudice di esse , ottenuto al- 
tronde; se ci si debba limitare alla semplice accet- 
tazione delle disposizioni autoritative ossia del dritto 
positivo o se, invece, non sia legittimo e corretto 
domandare il titolo razionale di esse o il dritto di 
quel dritto: è insomma, a dir breve, il problema 
del dritto naturale. 

Il realismo giuridico non può evidentemente sot- 
trarsi a questi problemi che ogni uomo, conoscendo, 
non che filosofando, si propone e che, per quanto 
egli premediti di sviare o eludere, non si lasciano 
rintuzzare in verun modo. Ed in un modo o nel- 
1’ altro, di dritto o per traverso, se li propone e li 
agita lo stesso realismo giuridico. Il quesito cono- 
scitivo non è per esso un problema, in quanto ue 
presuppone la soluzione che è, come tante volte si 
è visto, volgarmente empirica. Gli altri due quesiti, 


— 179 


poi, quello ontologico e quello etico, sono (la esso 
piegati alle esigenze del suo empirismo conoscitivo: il 
primo di essi è snaturato da problema di essere 
in problema di origine ed al secondo si oppone un 
diniego esplicito. Il clie per altro, non toglie che 
cosi quella forma speciale onde si pone e s’ inter- 
petra uno dei problemi, come quella esclusione o 
soluzione a priori che si ritorce all’altro non sieno 
la conseguenza d' una scepsi critica, sottintesa se 
non espressa, ed implicita nell’ assunto fondamentale 
dell’empirismo, quand’ anche non condotta di pro- 
posito deliberato da questo o quello interpetre del- 
1’ assunto stesso. 

Resta solo a vedere, se il problema vada posto 
come vuole V empirismo o come vuole la filosofia, o, 
dove l’uno e 1’ altra lo pongono ad uno stesso modo, 
se vada risolto nell’ una forma o nell’ altra. E dico a 
bella posta — la filosofia — senza vermi predicato che 
la determini in un senso più che in un altro e che la 
limiti ad una scuola più che ad un’ altra. L’ empirismo 
si annunzia in antitesi non a questa o quella filosofia, 
ma alla filosofia in generale, o, se si vuole, è una for- 
ma di filosofia che si oppone a quella che fin qui 
era tenuta per tale, alla metafisica, e non a questo 
ed a quel sistema, ma al criterio comune a tutti 
i sistemi, al yenus proximum di essi. Termine di 
contrapposizione all’empirismo sarà, adunque, per 
noi l’assunto impersonale della filosofia, senza che 
le varietà individuali di essa ci occupino punto. 
Il che va inteso in senso relativo e limitato a quel 
possibile consenso che, traverso le lotte dottrinali, 
è dato ravvisare, nella tradizione storica della filo- 
sofia, a chiunque la interpetri con intelletto d’amore . 



CAP. I. 


Il criterio della esperienza ed il problema gnoseologico 

della filosofia del dritto. 

Adunque 1 ? esperienza, ossia la osservazione e la 
comparazione dei dati fenomenici, è il criterio cono- 
scitivo universale del realismo giuridico, di guisa che 
la critica di esso si traduce iu una critica della e- 
sperienza. Questa critica non data veramente da 
oggi : essa è vecchia, nè comincia dal Kant, come si 
peusa comunemente, ma risale a Platone, che primo 
rivendicò le ragioni della scienza e della filosofìa 
contro la doxa e 1’ empirismo dei sofisti. Per quanto 
vecchia, essa non ha perduto, tuttavia, la freschezza 
della novità, e va rievocata oggi che il positivismo, 
nella forma più matura della teoria delfassociazione 
e di quella dell’ evoluzione, ha risollevato i fasti 
dell' empirismo. 

Diremo, adunque, anche a costo di apparire no- 
iosi ripetitori, che 1’ esperienza non è in grado, da 
per sè sola, di scovrire il momento universale e ne- 
ccessario del dritto, nè il nesso causale dei fenomeni 
.giuridici, più di quello che essa noi sia di scoprire 
il momento necessario ed il nesso causale di altri 


ordini di fenomeni. L 7 esperienza ci dice che una 
cosa è fotta così e non altrimenti, ma non che la 
cosa non possa essere altrimenti che così. L 7 espe- 
rienza ci dà la coesistenza e la successione dei fe- 
nomeni e può darci anche la legge empirica (la cosi 
detta legge di conformità che impropriamente si chia- 
ma legge) di tale coesistenza e successione, ma non 
ci dà nè può darci mai la legge di necessità. Essa 
ci dà la ripetizione delle coesistenze e delle succes- 
sioni di dati fenomeni, ma non la legge di tale ripe- 
tizione: essa ci dice che una cosa si ripete cento, mille, 
diecimila volte, ma non che si debba ripetere .neces- 
sariamente. L’ultimo dei termini della serie progres- 
siva e faticosa delle esperienze non ci dice niente di 
più e di meglio di quanto ci dica o ci abbia detto il 
primo, e l 7 ultima ripetizione vale le altre. L’accresci- 
mento del materiale della esperienza è un processo 
quantitativo, dal quale nessuna alchimia trarrà una 
qualità nuova. Noi chiediamo il quia , ed il quid, 
doveccliè i progressi della esperienza non ci promet- 
tono che una cognizione sempre più vasta del quale. 

La teoria dell 7 associazione, che data da Hume, si 
avvisa di eludere il problema, con l 7 apporre a questa 
legge di necessità una portata puramente psicologica. 
La necessità oggettiva, essa dice, è un inganno; la ne- 
cessità è puramente soggettiva ed è la coazione inte- 
riore verso un dato nesso o una data serie di nessi 
logici delle nostre rappresentazioni. La categoria della 
necessità è una oggettivazione illusoria, una proie- 
zione al di fuori dell 7 abitudine interna di un dato 
nesso ideale. Ma, checché si deponga in favore di 
tale tesi, non si scema l 7 equivoco che la vizia. La 


183 — 


coazione interiore può ben nascere dall’abitudine, ma 
la necessità logica della ragione è ben’altra dalla coa- 
zione psicologica del sentimento. Questa ultima, non 
che necessaria, è accidentale di sua natura, perchè 
il dominio psicologico è il dominio del variabile, del 
contingente, del casuale (1). 

Del pari V esperienza^ non può colpire il momen- 
to universale delle cose. 

La universalità alla quale essa può pervenire è, 
tutt’alpiù, universalità sui generis , universalità relativa 
e provvisoria, il che è tutt' uno che negazione della 
universalità scientifica. Il maximum dello sforzo cogi- 
tativo al quale possa pervenire l’esperienza, secondo 
un noto principio del Kant, è il seguente « per quello 
che abbiamo appreso fin qui, non si trova veruna ecce- 
zione di questa o quella regola data » non già quest’al- 
tro « questa è regola universale e non ha veruna ecce- 
zione » (2). E ciò, perchè le conclusioni dell'esperienza 
sono limitate e condizionate quanto la esperienza, la 
quale è eminentemente analitica e non assicura e non 
garentisce che il suo responso immediato. L’esperien- 
za ci dice che date coesistenze e date successioni di 
fenomeni si sono ripetute fin qui, ma non ci assicura 
che si ripeteranno in avvenire. È vero bensì che noi 
» oggettiviamo ed universaleggiamo ogni giorno le ri- 

sultanze di quella esigua e ristretta esperienza per- 
ii) Vedi la bella illustrazione che di questi pensieri della 
critica kantiana fa il Volkelt. Erfahrung und Denken. Kritische 
Grundlegung der Erkenntnisstheorie. (Hamburg 1886) pag. 78 
e segg. 

* (2) Volkelt, ibid. S. 79-80. 


184 


sonale che ne è consentito di fare e le atteggiamo 
sub specie aeternitatis , ma, con ciò stesso, noi supe- 
riamo i termini della pura esperienza, noi invochiamo 
ed applichiamo per la nostra cognizione un altro cri- 
terio che quello sperimentale. In ogni giudizio che 
formuliamo v’ò un tacito sottinteso che precede l’e- 
sperienza e la integra : ed il sottinteso è questo: che 
quella ripetizione delle coesistenze o delle successio- 
ni, la qual ripetizione non abbiamo osservato ancora 

0 non potremo osservare in avvenire, è conforme 
alle ripetizioni o alla serie di ripetizioni già osser- 
vate. Il processo induttivo presuppone 1’ habitus, la 
funzione mentale che si formula nel principio d ’ iden- 
tità : dal quale segue che quanto si predica di una 
cosa o di un rapporto già esperito va predicato, al- 
tresì, di tutte le cose e di tutti i rapporti esperibili, 
le quali o i quali sieuo della stessa natura sostan- 
ziale della prima o del primo (I). 

^Ne l’esperienza è più atta a conoscere il perchè 
delle cose, il cur , di quello che noi sia a conoscerne 
la universalità. La successione dei fenomeni, sia pure 
conforme a regola, non è causalità: e dall’esservi fra 

1 fenomeni di una serie un rapporto di prima e di 
poi non segue, per altro, che la mente dell’osserva- 
tore, la quale nel supposto è tabula rasa , argomenti 
dal semplice rapporto empirico di antecedente e con- 
seguente la possibilità di quello ideale di causa e 
di effetto. L’esperienza ripetuta delle stesse sequele 
di un dato fenomeno e di un altro non può creare 
ex nihilo sui quel rapporto di causalità che ai primi 

(1) Vera A. Melanges philosophiques p. 282-283. ' 


gradi ed ai primi passi di quella esperienza era in- 
concepibile. Senza dubbio, il rapporto di causalità è 
nelle cose (lo scetticismo di Hume non ha chiuso il 
problema) ma non è una specie impressa sulle cose, 
visibile e palpabile a nudo, esperibile iusomma. La 
nozione di quel rapporto è, direi quasi, un’anticipa- 
zione dell’ intelletto sulla esperienza e sulla stessa 
natura. Ogni nesso causale che noi formuliamo pre- 
suppone 1’ habitus , la funzione mentale del nesso 
causale in quanto tale. Noi diciamo « questa cosa è 
effetto di quell’ altra » solo perchè sapevamo che, 
risalendo la serie regressiva dei fenomeni, ciascuno 
dei termini di questa serie è un effetto, ossia è un 
prodotto da una causa, finché si perviene al termine 
primo che non è più effetto, ma causa sui. In vero, 
senza questa funzione mentale, noi avremmo uu bel 
discernere delle affinità "e delle conformità logiche 
tra l’operare di una cosa e la natura di fatto d’una 
altra cosa che la segue: tra Luna e l’altra cosa noi 
non vedremmo mai un rapporto causale, se a quel 
nesso di conformità non si associasse spontaneamente, 
nel nostro pensiero, quella funzione mentale, che io 
chiamerei il sottinteso della causalità. Chi analiz- 
zasse questa serie di sottintesi e questa prescienza 
e vedesse quanto è facile e seducente, ad un me- 
tafisico che sia artista ad un tempo, atteggiare quella 
prescienza a forma di ricordo di una vita psichica 
oltremondana, vedrebbe forse che la dottrina plato- 
nica « sapere è ricordare » è più presto una defor- 
mazione poetica di un sano principio filosofico, che 
un principio falso di sua natura. La nostra scienza, 
«e non è prescienza, ha per sottinteso un certo grado 



— 18 G — 


di prescienza. A Corate enunciò lo stesso principio 
in altra forma, quando disse « sapere è prevedere ». 
La previsione di un fenomeno esperibile ma non 
esperito è, evidentemente, prescienza intellettiva. 

Un logico recentissimo della scuola critico-posi- 
tivista, il Masaryk, ci porge una indiretta conferma, 
che qui ò opportuno ricordare, di questi supremi 
principi della critica della conoscenza. 

I fenomeni particolari sono tuttora (così VA del 
Saggio fri logica concreta) gli elementi costitutivi del 
l’universo, come V oggetto proprio della conoscenza 
umana: ma noi sono immediatamente. Il nostro intellet- 
to non può cogliere ed intuire di un lampo l’unità delle 
cose : il suo processo è, per di tetti vità connaturata, 
eminentemente astrattivo. Epperò esso conosce le 
cose non per intuito diretto, ma mediante le leggi 
e le proprietà essenziali che a quelle cose ineriscono. 
Queste leggi e proprietà sono il prins, non il po- 
ster ius della conoscenza. Y’ha due generi di scienze: 
scienze astratte e scienze concrete: le prime cono- 
scono le leggi delle cose e le seconde V essere di 
fatto delle cose. Or bene le scienze astratte sono 
il fondamento, il presupposto delle concrete, appunto 
perchè le cose non si conoscono che per le loro 
leggi e proprietà essenziali. La biologia, che è scienza 
astratta, perchè ha per oggetto le leggi della vita 
precede ad es. la zoologia, che studia gli animali vi- 
venti, ed è la confritio sine qua non della sua esistenza. 
So le scienze concrete presuppongono le scienze astrat- 
te, è assurdo supporre che le prime forniscano la 
base delle seconde. Ciò sarebbe una inversione di 
termini. Precisamente l’opposto è vero. Le cose non- 




187 


si intuiscono o esperimentano di un tratto solo nel 
loro essere, ma si conoscono in funzione di una legge 
e di una proprietà essenziale che precede e rende pos- 
sibile l’esperienza. Gli è questo che ci spiega come e 
perchè le scienze astratte abbiano fatto progressi di 
gran lunga maggiori che le concrete. Gli è che que- 
ste sono posteriori a quelle, onde la loro maturità 
segue, in ragion di tempo, il progresso di quelle (1). 

Questi principi del Masaryk sono fondati sul vero, 
benché il modo ond’ egli si esprime sia tutt’altro 
che proprio. La sua terminologia è mutuata dall’em- 
pirismo per formulare una nozione so vraem pirica. 
Quello che egli chiama processo astrattivo va chia- 
mato processo di sintesi spontanea ed originaria, 
perchè 1’ astrazione presuppone la conoscenza del 
concreto onde si astrae, il che contraddirebbe al 
supposto. 

Prescindendo da ciò, resta, intanto, stabilito che 
non solo la filosofìa, ma lo stesso positivismo cri- 
tico ed illuminato insegnano d’ accordo che alla 
conoscenza analitica delle cose particolari deve pre- 
cedere la conoscenza della specie universale, che è 
come una sintesi, una deduzione spontanea ed ori- 
ginaria, un’ anticipazione mentale dell’ osservazione. 
L’ esperienza affidata alle sue forze sole è così lun- 
gi dal fornirci un concetto scientifico delle cose, che 
anzi essa, senza 1’ ausilio di una virtù intellettiva che 
è prima e sovra di lei, non potrebbe neanche venire 
alla luce e legittimarsi come esperienza. 

(1) Versucli eiiier coucreten Logik (Wien 1887) pgf 10, 
pa g, 41-46, pgf. 89, 91 e 92. 



— 188 — 


Or bene, ripeto quanto lio detto più su, questa 
difetti vità dell’ esperienza sussiste nell’ ordine delle 
conoscenze giuridiche, come iu ogni altro ordine di 
conoscenze. Anche ivi la nozione universale deve pre- 
cedere 1’ esperienza particolare: la scienza sintetica 
delle proprietà essenziali del diritto deve precedere la 
scienza analitica dei fenomeni giuridici particolari e 
non seguire da essa. Anche ivi una estensione, un im- 
pinguamento del materiale di fatto può accrescere la 
notizia delle cose, non la scienza , come bene afferma 
1’ Hartmann. 11 materiale dei fatti é il sottosuolo, 
non T oggetto della scienza (1). La osservazione em- 
pirica dei fatti giuridici non ci dice nulla sul mo- 
mento universale e necessario del dritto, nulla sui 
nessi causali di quei fatti ed è, però, inetta ad 
adempiere, non che una sintesi filosofica, ma una 
semplice sintesi scientifica: di guisa che, sulla scorta 
di essa, neanche la fenomenologia perverrà ad otte- 
nere quel principio sintetico e quell’ universale lo- 
gico del dritto che, come tante volte si è visto, 
rappresenta il suo termine ideale. Per dirla più 

(lì Die Bereicherung an Blossem Stoff des Wissens vermehrt 
uur die Kuncle , aber nicht imraittelbar die Wissens.chaft. In- 
dem aber die Wissenschaft erst da anfiingt, wo in den Bezie- 
huugen des Stoffs und den allgenieinen in ihm wirkenden 
Kràften oder Momenten das Gesetzmiissige, Ordnungsmiissige 
oder Planmàssige, logiseh oder sachlich Nothwendige aufge- 
suclit wird, zeigt sich eben, dass 'der Stoff als solcher nicht 
don Gegenstand selbst der Wissenschaft bildet, sondern nur 
die Unterlage derselben, dass aber der eigentliche Gegenstand 
der Wissenschaft dasjenige ist, was an den Beziehungen des 
Stofìes allgcmein und verniinftig ist — Gesammette Studien u. 
Aufsiitzc S. 425-426. 



esplicitamente, quella osservazione empirica, ammes- 
so pure che la si estenda il più che sia possibile, 
non ci darà, di per se sola, non che una filosofia, 
neanche una scienza del dritto. 

Perchè egli è fuori dubbio che la scienza abbia 
per soggetto V universale ed il necessario delle cose. 
Platone ed Aristotele hanno del pari messo fuori 
disamina, che oggetto della scienza é la vóyjaig nepi 
òoatav (1) e che P esperienza, che apprende il parti- 
colare, non va confusa con la scienza che apprende 
l’ universale (2). Gli stessi principi sintetici della 
fenomenologia che siamo venuti divisando non pro- 
vengono dall’ esperienza, ma dalla speculazione del 
pensatore. La storia consegna al v. Ihering il fatto 
della lotta e del fine interessato , ma, quando egli 
generalizza P esperienza di quel fatto a momento 
universale del dritto, eccede i termini della espe- 
rienza, per soddisfare ad una vocazione speculativa 
che è anteriore all’ esperienza. La ragione del Dahn 
ed il giusto del Lasson sono cosi poco creature del- 
P esperienza, che quella è un ricordo della opinio 
necessitati della metafisica , ovvero una forni ola 
logica della razionalità della Volhsbewusstsein (la qua- 
le, a sua volta, è una ipotesi demo-psicologica che 
trascende ogni esperienza) e questo è P applicazione 
al dritto di quel logos Hegeliano, che è P ultimo 
residuo di una notomia degli atti conoscitivi, la 
quale ha il suo punto di partenza nell’ esagerazione 
dell’ a priori. Il principio del rispetto verso la forza 


(1) Rep. 534.' Vedi pure: Fed. 76 e passim. 

(2) Mat. XIII; 9; Mag. Mor. I, 4. 


— 190 — 


/ V - .T$ 

imperante (Achtung) e quello della pre volizione del- 
la norma ( Anerlcennung ) sono non fatti di esperienza 
0o - o'0£,ti va, ma impostasi intellettive di alcuni fatti acci- 
dentali di esperienza psicologica. 

Il realismo giuridico si avvisa di conoscere le 
proprietà essenziali e le leggi del dritto col mero 
processo della induzione e della comparazioue. Noi 
abbiamo visto testò il Post, nell’ analisi compara- 
tiva dei fotti particolari della vita dei popoli, fer- 
mare il segreto del substrato universale di quei 
fotti e di quella vita. Ma, V osservazione e la com- 
parazione non sono possibili senza una teoria pre- 
esistente, la quale ci faccia discernere quello die 
va osservato da quello che non va osservato, e che, 
nel materiale disordinato dei fotti, ci consenta di 
sceverare quel momento che concerne e preoccupa 
la nostra scienza da quegli altri momenti che non 
ci concernono punto e che le altre scienze differen- 
ziano dalla nostra. Senza il filo d’ Arianna della 
speculazione, V osservazione e la comparazione dei 
dati di fatto diventano un labirinto inestricabile e 
dal quale non v 7 è più uscita. Se non sappiamo 
prima, per un’ anticipazione intellettiva, che cosa è 
dritto, nè possiamo discernere i fenomeni giuridici 
da quelli che non sono tali, uè negli stessi fenomeni 
giuridici possiamo sceverare quello che in essi è 
proprietà essenziale da quello che non lo è. Anche 
nelF ordine delle conoscenze giuridiche è vero che 
V intuizione è cieca senza la categoria. Vi debbono 
essere, nella moltitudine dei materiali storici messi 
a profitto dall' indagine e e dalla comparazione, delle 
'quantità conosciute ehe permettano alP osservatore 


' — 191 — 

di orientarsi nei suo cammino. Il che è riflesso, nel- 
F ordine del pensiero, di quello che, come vedre- 
mo, ha luogo nell’ ordine delle cose. Perchè, eviden- 
temente, nel suo processo evolutivo 1’ umanità de- 
ve pure avere avuto delle soste, deve pure aver se- 
gnato delle fermate e dei punti di riposo, nei qua- 
li momenti si è venuto deponendo, consolidando, 
sarei per dire cristallizzando, il presunto fluttuare 
dei fenomeni. La pressura della logica e quella che 
lo Schopenhauer chiamava die List der Idee domi- 
na, del resto, gli stessi induttivisti della giurispru- 
denza e li trae a smentire coi fatti quanto lian 
professato a parole. Dopo aver respinto 1’ a priori , 
essi sono ben lungi dal farne a meno: e di presup- 
posti a priori tolti in prestito alle nostre odierne 
intuizioni giuridiche o alla nostra speculazione filo- 
sofica le loro ricerche sono piene. Tanto egli è ar- 
duo, impossibile anzi, nel rifare a rovescio il pro- 
cesso della evoluzione giuridica, fare a meno di un 
contrassegno ideale di quello che è dritto o di un 
criterio intellettivo che ci aiuti a discernerlo dagli 
altri fenomeni del cosmo! 

Il metodo comparativo, adunque, che si avvisa 
d’inferire dal semplice raffronto dei fatti la nozione 
del momento giuridico di essi, è una vera petitio 
prineipii. Un’ anticipazione ideale di quello che si 
cerca bisogna averla per forza, se no quello che 
si cerca non si trova. È una cosa molto elemen fa- 
re codesta: chi non sa quello che vuole non trarrà 
mai un ragno dal buco. Ottima la ricerca delle for- 
me storiche della proprietà immobiliare nel mondo 
orientale, a mo’ d’esempio, o il raffronto tra esse e 


quelle dei popoli occidentali, ma, se voi non avete 
prima una nozione quale die sia della proprietà im- 
mobiliare, quella ricerca e quella comparazione non 
la farete mai (1). La storia è pur sempre storia di 
qualche cosa (2). 

L’ ordinamento seriale dei fenomeni sotto il ge- 
nere dritto e sotto le specie famiglia , proprietà ec. 
(scelgo a bella posta V ordinamento seriale più fa- 
cile ed elementare) e tutta la serie dei principi e 
delle rubriche e delle classificazioni della giurispru- 
denza storica e comparativa sono, per necessità di 
cose, un presupposto e non un risultato della com- 
parazione e della storia. Nò si opponga che il com 
cetto del dritto emerge dal fondo stesso della os- 
servazione e della comparazione ed è ottenibile 
mettendo a raffronto un gran numero dato di og- 
getti affini tra loro, astraendo dalle differenze indi- 


fi) Schuppe. Die Metkoden der liecktspkilosopkie. loc. eit* 
S. 227-228. 

( 2 ) Man kommt nickt von der gesckicktlickèn Betrachtung 
zu dem Gewordenen, sondern gerade umgekehrt: man suckt, 
von diesein ausgekend , seine Erfahrung nack ruckwarts in 

der Zeit zu erweitern Der Versuck, aus der Gesckichte he- 

rauszusammenfugend zu ersckaffen, kame auf ein Mlsslingen oder 
eine Selbsttausckung kinaus: es giebt nur Gesckiehte von Etwas . 
Wenn die sogenannte genetiscke Metkode die vollkomneren 
Gestaltungen aus den unvollkomneren sick erzeugen, so solite 
nie iiberseken werden, dass im Nackweise dos Keimes das 
Wozu er sick entwickeln, Wessen Keiui er sein soli, sehon vor- 
sckwebt; nur vom vollendeten Erzeugniss fragen wir zuriick 
nack den keimartigen Anflingen. 

Stammler . Die Metkoden der geschicktlicken Rechtstheorie 
S. 52-53. 


vicinali di ciascuno e ferrnaudo quel genere, quella 
nota universale e comune, in che convengono tutti 
ad un tempo. Imperocché, appunto perché abbia 
luogo quel raffronto, si richiede un’ anticipazione 
sintetica della natura sostanziale del dritto. Per di- 
scernere in che gli oggetti sono affini, occorro che 
vi sia, anzi tempo, un contenuto ideale, in rapporto 
al quale 1’ affinità o la dissomiglianza è concepibile. 
La osservazione e la comparazione vi darà il fatto 
della convenienza, solo quando voi preconoscete di 
avanzo, sarei per dire presentite, per una cotale 
anticipazione irriftessa dello spirito , quello in che 
si conviene e la ragion formale della convenienza. 
La nota comune è una premessa del processo astrat- 
tivo. Bisogna degradare il fenomeno della conoscenza 
alla più volgare materialità per convincersi che gli 
elementi, i quali in ipotesi sono conformi, si lascino 
connettere in un rapporto di conformità per una 
percezione immediata del loro essere di fatto. Per- 
chè gli elementi b. c. d. lascino vedere un elemento 
comune con a. e si vadano sussumendo in un rap- 
porto comune A. occorre almeno che a, ossia il 
termine di raffronto, abbia colpito il pensatore e 
gli appaia come un momento di cosiffatta natura, 
da servire di regolo agli altri, come a dire un equi- 
valente ideologico preesistente del contenuto che si 
ottiene poi formulato nel rapporto A. Se l’intelletto 
dell’osservatore è una tabula rasa , egli non vede 
nè differenze nè somiglianze nei fenomeni, nè dritto 
nè torto nella storia: le differenze sono percepibili, 
solo quando si sa quello da cui si differisce e. del 
pari, le somiglianze, solo quando si sa quello cui 

l ‘ì 

Petrone 


— 194 — 


si somiglia: in altri termini i rapporti sono perce- 
pibili solo in finizione del loro oggetto ò della loro 
ragione formale. Egli, adunque, V osservatore, non 
vede che una serie di fotti indifferenti che non 
sono nè il diritto, nè il suo rovescio : di cui noi, 
messi al punto, non potremmo nè anche assicurare 
che cosa sieno: perchè ci difetta la virtù astrattiva 
che sarebbe necessaria per vedere come andrebbero 
le cose della nostra intelligenza nella ipotesi di un 
processo anormale di questa. 

Alla induzione ed alla comparazione deve, adun- 
que, precedere un intuito speculativo del dritto. 
]Sel campo della giurisprudenza, come in quello 
delle altre discipline, il processo conoscitivo s’inizia 
da una sintesi primitiva e spontanea, si svolge e 
dirama e differenzia per l’esperienza, l’analisi, la ri- 
flessione e va a metter capo alla sintesi riflessa della 
deduzione. 

La storia del processo fenomenico ed inventivo 
è un compito meramente analitico che si esercita 
sopra una sintesi scientifica preesistente. Per de- 
scrivere le fasi evolutive di una cosa bisogna già 
possedere il concetto dell’ essere della cosa, ossia 
della sua forma definita ed evoluta e della sua con- 
figurazione stabile e consolidata (1). 

(1)... Es ist vor Alleni unumgiinglich, class der Entwiok- 
luiigahistoriker das genaueste und deutlichste Verstiindniss 
von der reiteri Gestalt besitze und bekunde, von welcber er 
die Entwickeluug verfolgt. Die Eutwickelungsgeschichte ist 
steta und lediglieli eiue analytischo Aufgabe. Scheinbar nai- 
ves Aufsuchen der Verbindungsstiicke und gliickliches Probi- 
ren, ob sie passen, ist ein ganz eitles Unterfangen. Di© Ent- 


— 195 — 


La filosofìa speculativa del dritto aveva adunque 
ragione. Di che una preziosa riprova ci forniscono 
gli stessi empirici della giurisprudenza, la mente dei 
quali è munita, anzi tempo, non che di un intuito 
o di un presentimento del dritto, di tutto un corre- 
do di conoscenze speculati ve, più o meno deformate, 
tolte in prestito precisamente a quella filosofia. E 
senza il suo ausilio 1’ esperienza si sarta trovata a 
mal partito. Ciascun fatto o ciascuna serie di fatti 
non malleva che se stessa: ed il filosofo dell’ espe- 
rienza non avrebbe mai visto il lume dell’ idea. 
L’induzione è sempre limitata ad un dato numero 
di fatti, il qual numero, lo si moltiplichi a talento, 
dista pur sempre infinitamente dalla universalità 
-che si estende a tutto il possibile. Gli stessi prin- 
cipi generali non vi sarebbero più : 1’ allgemeine 
Reclitslelire è un generale die, viceversa, è un parti- 
colare. 

A causare tali perigli, resta che, in difetto di 
speculazione propria, si usurpi l’ altrui. Ed ecco, 
allora, che la premessa maggiore del realismo e 
della fenomenologia è una premessa metafìsica. Que- 
sti declamatori dell’ esperienza e dell’induzione sono 
in fondo dedutti visti. La filosofia ha trovate alcune 
verità con un procedimento misto d’ intuizione di 
rapporti ideali e di esperienza psicologica: essi ri- 
provano queste verità con l’allegazione di fatti spe- 

"wickelungsgeschichte des Organismus setzt ein hohes Stadium 
der Anatomie voraus, das sie alsdann erhohen kann. Aber die 
Entwickelungsgeschichte kann der descriptiven Anatomie ni- 
cht voraufgeben. Cohen. Kant’ s Theorie der Erfahrung Zw. 
Aufi. S. 7. 



rimentali, quando noi facciano con nn tessuto di 
raziocini. Il loro metodo è analitico e regressivo: 
onde quando essi rimproverano di deduzione la vec- 
chia filosofia, questa potrebbe dir loro che essa 
della deduzione, accanto ai difetti, aveva benanche 
i pregi, dovechè ad essi non restano che i difet- 
ti soli. 


CAP. II. 


Il criterio storico-evolutivo ed il problema 
ontologico della filosofia del diritto. 

Si è detto innanzi come la maniera, onde l’empi- 
rismo concepisce il problema dell’essere del dritto, 
equivale esattamente alla maniera ond’ esso conce- 
pisce il problema del conoscere. Dopo aver detto 
die criterio unico della scienza è l’esperienza, logica 
vuole che l’empirismo dica che l’oggetto della scienza 
è tale, quale bisogna che sia perchè rientri nei li- 
miti della esperienza, e che, quindi, il dritto non 
abbia altro essere che l’essere mutabile, contingente 
e fenomenico, o, per dir breve, non altro essere che 
il divenire. Come in tanti ordini di cose, così nel 
dritto, il criterio scientifico si è venuto snaturando 
nel criterio storico e, conseguentemente, il problema 
ontologico nel problema genetico. Del dritto, come 
di altri oggetti, si studia non più la sostanza ma la 
genesi, non più l’essenza ma l’evoluzione, non più 
il substratum ma il processo; nè solo si studia l’una 
cosa e non 1’ altra, ma si afferma come inesistente 
quella che non si studia, o si presume di non stu- 
diarla, appunto perchè la si dà per inesistente. È 
il criterio storico-evolutivo , che riassume il genio scien- 



— 198 — 


tifico (lei secolo e che pervade scienza e filosofia. 
Se ne volete 1’ origine, dovete far capo all’ aspetto* 
dogmatico del fenomenismo Kantiano e, più lungi 
ancora, alla critica Lochi aria, alla teoria, cioè, della 
inconoscibilità della sostanza. Tolta, invero, la ri- 
cerca della sostanza, non rimane che il fenomeno- 
soletto al lievi, al divenire, alla storia. 

Se questo criterio lo si proseguisse nella sua 
forma logica e coerente, esso non porgerebbe ai suoi 
settatori un saldo sostegno. Così coni’ è, esso è vi- 
ziato dalla radice, perchè poggia sopra una inver- 
sione del problema filosofico e perchè confonde vol- 
garmente due termini che vanno distinti, scienza e 
storia. I fenomeni particolari che registra la storia 
sono non solo inesausti, ma inesauribili nel loro nu- 
mero: la umanità ha invocato sempre l’ausilio delle 
idee per dominare l’universalità dei possibili, senza 
di che non si sarebbe mai svincolata dalle strettoie 
di una perpetua ignoranza. La storia ha per oggetto 
il nudo individuale; quello che sta a sè e non può 
predicarsi degli altri; quello che può essere cono- 
sciuto solo per un atto di esperienza ex professo e 
discontinua, e che, per essere singolo, si consuma 
in un singolo atto mentale e consuma l’atto stesso; 
quello che non ha nesso con altri e non può nè su- 
bordinarsi ad essi nè subordinarli a sè, e che è in- 
comunicabile: quello che dà luogo non ad un con- 
cetto, ma ad una moltitudine di percezioni saltuarie, 

sempre esposte alla sorpresa del nuovo, dell’impre- 
visto, dell’ azzardo. (1) 

(1) Schopenhauer — Die Welt u. 8 . w. — Ergiinz: z. 3° Buch 
— Kap: 38. 


— .199 — 


L’empirismo moderno, messo allo stremo, li a stu- 
diato, pertanto, di sfuggire alla logica del suo criterio. 
Invece di escludere la speculazione, esso fa atto di 
riconoscerla, ma piegandola alle esigenze del suo 
criterio; nò nega la sostanza, ma la traduce nel circolo 
del suo sistema, llesta, per esso, oggetto della scienza 
l’essere, ma l’essere appunto sta, o si presume che 
stia, nel divenire. Il suo intento non è, in fondo, 
negativo, ma dialettico. L’ esse della filosofia morale 
e giuridica è appunto il fieri della evoluzione del 
costume e degl’ istituti giuridici. 

Quella serie di proprietà sostanziali, quella es- 
senza specifica della natura e della coscienza umana 
non sono negate o rimosse, adunque; sono sempli- 
cemente interpetrate in un modo diverso. Esse non 
sono più un a priori — della' storia, un termine che 
è fuori del processo storico e che rende possibile 
lo stesso processo; ma si rappresentano come un a 
posteriori primitivo, come un prodotto dell’esperienza 
collettiva e della razza, un prodotto che si solleva, 
a sua volta, a causa di nuove formazioni, di nuovi 
fenomeni, ma è ab initio una formazione, un feno- 
meno esso stesso. Messo da banda il flusso Eracli- 
teo^ i settatori del criterio storico-evolutivo si cre- 
dono licenziati ad ammettere delle proprietà speci- 
fiche della natura etica umana, quando s’ intenda 
che queste proprietà sieno non un essere, ma un 
divenire o, per meglio dire, un divenuto; quando si 
intenda che esse sono forse un a priori a petto alla 
esperienza individuale dell’ uomo che si trova in 
uno dei momenti derivati, della evoluzione, ma sono 
certo un a posteriori della esperienza delle g enei a- 



— 200 — 


zioni preesistenti. Nella serie dei momenti evoluti- 
vi, ciascuno di essi è un posterius delle esperienze 
sociali trasmesse dal momento anteriore; solo clie 
queste esperienze diventano generative di altre po- 
steriori, a petto alle quali esse sono un termine 
primitivo. L’esperienza collettiva che supera la disper- 
sione e la difettività dell’esperienza individuale, l’abi- 
tudine (latamente intesa) e 1’ eredità che la trasmette 
e la consolida, la tradizione storica che ne raccoglie 
le risultanze : ecco i supremi presidi, con l’aiuto dei 
quali 1’ empirismo moderno si avvisa di superare le 
difficoltà dell’antico, di trascinare l 1 essere della 
scienza e della filosofia nel flusso del divenire e di 
evitare, ad un tempo, le ritorsioni di quella logica 
inesorabile, che lo forza a dibattersi sterilmente 
nell’ assurda impresa di logizzare la storia o di sto- 
rizzare la logica, di formulare e dogmatizzare il 
mutevole, 1’ evanescente, 1’ individuale e di travol- 
gere, ad un tempo, nella rapida scorrevolezza dei 
fenomeni transeunti quello che è e che sta, 1’ e- 
terno, V immutabile, 1’ assoluto. 

Se. non che, anche in questo contenuto più ric- 
co di valore ideale che assume il criterio storico- 
evolutivo, esso è ben lontano dal sottrarsi a quella 
logica di sistema, . che, volente o nolente, lo rimena 
all’ assurdo d’ invertire i termini del problema filo- 
sofico e di scambiare la scienza con la storia, la 
sostanza col fenomeno, le facoltà e le attitudini 
connaturate con le esperienze e gli abiti acquisiti. 
Finché, in omaggio al paradosso, si riconosce l’am- 
missibilità di un x>rocesso all’ infinito e, rifacendo 
la serie regressiva delle esperienze, il primo termine 


— 201 


di quella serie si rappresenta come una esperienza 
a sua volta, il vizio radicale dell'empirismo rimano 
sostanzialmente lo stesso. Finché la razza è una 
moltitudine d’individui, la quale moltitudine non 
può fornire un elemento nuovo ehe non sia orini- 
nari amente contenuto in ciascuno degl 'individui che 
la compongono, finche 1’ abitudine e Y eredità sono 
forze trasmissive e non creative, le quali, quindi, 
presuppongono un quid che si ripeta o consolidi o 
trasmetta, la contraddizione implicita nell’ assunto 
empirico rimane tal quale. L’ empirismo allontana, 
risospinge indietro il problema nella storia, ma non 
lo risolve. Nella serie delle fasi evolutive v’ è sem- 
pre un priuSy un termine primitivo, che, come esso 
c’ insegna, non è un essere ma un divenire, non è 
una sostanza ma un fenomeno, non è attitudine 
all’ esperienza ma esperienza senza attitudine. Ed 
in questo termine primitivo rinasce il problema 
elie si credeva composto: il divenire è possibile sen- 
za 1’ essere ? ed i fenomeni giuridici sono possibili 
senza l’essere giuridico"? senza una coscienza giu- 
ridica già data, senza una facoltà connaturata del 
dritto, sono possibili le esperienze giuridiche? Ogni 
momento individuale dell’ evoluzione giuridica, lo 
si derivi pure da una serie inferiore preesistente, 
non ha forse bisogno d’ un ciliquid che lo determini 
e lo differenzi come tale dal momento anteriore ? e 
questo aliquid non è un essere che precede e rende 
possibile il divenire ? Nella continuità dei fenomeni 
deve pure esservi, non foss’altro, V infinitamente pic- 
colo di Leibnitz, che prima non era ed ora è, ed è 
■quindi la radice, il substratum di quello che v’ è 


di nuovo nel rapporto reciproco dei termini suc- 
cessivi della serie, di quello cioè che differenzia i 
singoli momenti della continuità. Questo infinita - 
mente piccolo non può essere prodotto dalla prima 
esperienza, se questa, per logica di cose, lo presup- 
pone. Come mai quelle esperienze giuridiche o quella 
serie di esperienze, che saremmo impotenti a far 
noi ex novo , se fossimo dello tabulae rasae , e che 
noi possiamo Aire, secondo il criterio storico-evolu- 
tivo, solo perchè 1’ eredità e la tradizione storica 
ha deposto e trasmesso nei nostri poteri psichici 
tutto un contenuto ideale che tesoreggiamo di con- 
tinuo, come mai, dico, quelle esperienze sarebbero 
esse state possibili, senza verini possesso anteriore 
di una facoltà connaturale, a quegli uomini primi- 
tivi, i quali, a quanto insegnano gli evoluzionisti,, 
uscivano a mala pena dalla specie inferiore dell’ani- 
malità? Perchè, senza dubbio, proseguendo a rove- 
scio il corso dell’ evoluzione giuridica, vi sarà seni 
pre un assolutamente prius die non è più specie ma 
individuo, che non è più esperienza collettiva e sto- 
rica ma nuda esperienza individuale. 

Il criterio storico-evolutivo che, per aver rico- 
nosciuto la legittimità dei processo all’ infinito, ha 
posto, come termine primitivo delle esperienze, la 
esperienza stessa e, come causa degli effetti, V ef- 
fetto o la serie degli effètti stessi, deve raccogliere 
i frutti del suo inconsulto procedere e deve togliere 
sopra di sè la contraddizione di un termine derivato 
che si postula come termine primitivo. 

La filosofia tradizionale, la teoria nativistica come 
per dileggio la chiama l’ Jliering, aveva adunque 



— 203 — 

ragione quando poneva a sostrato primitivo e cau- 
sale la natura deir uomo e non il processo della 
storia, la coscienza giuridica e non le esperienze 
edonistiche ed utilitarie. Il fenomeno della evolu- 
zione presuppone il noumeno della creazione, nella 
filosofia del dritto come nella cosmologia : il dive- 
nire presuppone l’essere che diviene e che sussiste 
< 

lo stesso attraverso e non ostante il divenire. Senza 
una coscienza giuridica bella e data, V esperienze 
giuridiche non sarebbero nate, perchè è la facoltà 
che crea le esperienze e non le esperienze la tà- 
coltà. Ed invero, senza una coscienza giuridica uni- 
versale connaturata in ciascun membro della razza 
o della specie, l’intimo consenso in certe verità giu- 
ridiche fondamentali, attestato dalla stessa osserva- 
zione serena dei fatti, non sarebbe mai venuto alla 
luce. L’esperienza, la quale procede a furia di espe- 
rimenti, di correzioni, di prove rudimentali, incerte, 
provvisorie e che è sempre varia da soggetto a sog- 
getto, da caso a caso, non può aver potuto deter- 
minare, per la contraddizion che noi consente 1’ uni- 
versalità e 1’ unità della ragion normativa e della 
coscienza. Si riduca questa unità e questa univer- 
salità alle semplici proporzioni di una funzione for- 
malo e vuota di contenuto, ebbene non sarà mai 
concepibile come quella unità della forma della co- 
scienza inorale possa essere uscita dal fondo di 
esperienze soggettive, senza un fondo comune di 
attitudini preesistenti, senza un addentellato di sor- 
ta. 1/ antropologia dell’ evoluzione può aver pro- 
vato, si conceda per un momento, che il contenuto 
della morale e della giustizia varia da popolo a po- 


204 — 


polo, da tempo a tempo, ma non può aver provato 
che ne varii altrettanto la forma. Essa, anzi, ri- 
prova indirettamente che la materia infinitamente 
diversa del dritto reca in sè V impronta di una co- 
stante unità di leggi e di funzioni, le quali sono, « 

alla coscienza morale dell 7 umanità, quello che al 
pensiero le leggi e le funzioni a priori della cono- 
scenza; e che muta il contenuto dell’ atto morale, 
ma immutabile ne è la ragion formale; ossia le con- 
dizioni necessarie all’atto morale come tale sono im- 
mutabilmente concepite e, sarei per dire, plasmate 
nella forma assoluta d 7 un imperativo incondizionale, 
d 7 un dovere. Si assuma il più semplice degl 7 istituti 
giuridici del più semplice dei Natur-Viilker, ebbene 
l 7 analisi vi scopre sempre questa proprietà ideale : 
il convincimento di una legge estra- soggettiva, che 
è fuori e sopra l 7 arbitrio individuale ed alla quale 
è doveroso prestare obbedienza. La pretensione giu- 
ridica del selvaggio contiene un elemento spirituale 
che è condizione comune a tutte le pretensioni giu- 
ridiche di tutti i popoli più culti. Quella preten- 
sione è appresa come una legge impersonale, non 
solo rispetto ai soggetti presenti sui quali si eser- 
cita, ma altresì rispetto a tutti gli altri soggetti, 
che sieno per trovarsi nella stessa condizione dei 
primi, e, quindi, rispetto allo stesso soggetto preten- 
sore, ove egli in tale condizione venga a trovarsi. 
Motivo etico della pretensione o del comando, quel 
motivo, cioè, per cui l 7 una o l 7 altro è appreso come 
autorevole e fonte di obbligazione doverosa, è sempre 
la conformità presunta di quella pretensione o di 
quel comando ad una legge. Che la conformità pre- 


— 205 — 


sunta non sia conformità reale importa poco: resta 
sempre stabilito ohe condizione necessaria dell' atta 
giuridico, condizione universale e comune a tutti i 
popoli della terra, è l'intuito dell'atto stesso sotto la 
ragion formale del giusto. Ohe questa proprietà ideale 
non si trovi così nettamente distinta e differenziata 
nella coscienza morale del selvaggio, importa ancor 
meno. L’analisi è creatura della riflessione scientifica, 
laddove l’idea del bene e del giusto è un intuito sin- 
tetico della coscienza: 1’ assenza del l'un a è ben lungi 
dal provare quella dell’altra. L’analisi rende molte- 
plice e successivo rispetto a noi quello che è uno e 
simultaneo rispetto alla natura: confondere questi due 
aspetti è convertire in ipostasi reale un fenomeno 
della nostra difettività conoscitiva. 

Senza dubbio, 1’ unità e la comunanza della sem- 
plice-ragion formale del bene e del giusto non basta 
a fondare una morale, nò una filosofìa del dritto. 
Un’etica senza contenuto è una logica del bene e del 
giusto, non una nomologia. Quella unità della coscien- 
za si traduce in piena iudifferenza e la percezione 
della ragion formale del giusto in un mero momento 
psicologico. Ma, se questa unità formale della coscien- 
za morale è poca cosa rispetto alle esigenze ed agli 
uffici dell’ etica positiva (e però noi non ci ristiamo 
a lei, ma ammettiamo un contenuto morale, quale 
quello che ci detta la filosofìa teleologico-cristiana, e 
sulle orme della scuola di Max Mailer vediamo, nelle 
tristi condizioni morali dei Natur- Volker il prodotto 
di un pervertimento derivato) è molto rispetto alla 
critica della sociogenesi della evoluzione. La quale si 
chiarisce così contraddire apertamente non solo alla 


— 206 


teleologia inorale, ma benanche alla critica, più ne- 
gativa e più «pregiudicata, della ragion pratica. 
Come per avventura, le incerte esperienze dei sog- 
getti sub-umani abbiano potuto determinare V unità 
della ragione e dell’intuito formale del giusto, vale 
a dire quell’ unità che è il residuo non eliminabile 
di un’analisi corrosiva della moralità umana: ecco un 
enigma che il criterio storico-evolutivo non riuscirà a 
decifrare mai. 

Gli è che la presunzione della tabula rasa non 
è meno infondata nella sociogenesi, di quello che 
lo sia nella ideologia : anzi nell’ una è più insoste- 
nibile che nell’altra, perchè il dritto è una idea cosi 
complessa che anche delle scuole filosòfiche, le qua- 
li, nella serie regressiva dei fenomeni della cono- 
scenza, pongono come termine primo la esperienza, 
hanno sentito il bisogno di concepirne l’idea e la voca- 
zione come connaturata nell’ uomo, come un habitus 
della natura. L’ atto giuridico e 1’ atto morale non 
nascerebbero mai, ove nella volontà dei soggetti non 
vi fosse una cotal disposizione naturale al bene e al 
giusto, la qual vocazione, a sua volta, difetterebbe 
ove non vi fosse un intuito originario del bene e 
del giusto. Ignoti (chi noi sa?) nulla cupido. La vo- 
lontà non è, da per sè, una legge, come volle il 
Kant, ma nemmeno è indifferente a qualsiasi legge, 
come vorrebbe il plasticismo degli evoluzionisti. Kon 
è autonoma di fronte alla Legge Suprema ed al 
Supremo Legislatore, ma è tale di fronte al resto, 
à o’ dire che nella volontà umana v’ è una voca- 
zione primitiva verso quello che è buono e che è 
giusto, vocazione indipendente dalle condizioni del- 



207 


T esperienza e della storia. Dicendo ciò, non si ol- 
trepassano i limiti della lìlosolìa per entrare nell’or- 
* bita della teologia (benché un rimprovero siffatto, 
ci affrettiamo a dirlo, sarebbe per noi un titolo di 
onore). Principio conoscitivo del bene e del giusto 
rimane, con tutto ciò, l’analisi della coscienza, co- 
me principio ontologico dell- uno e dell’ altro, la na- 
tura umana. Noi siamo i veri positivisti, noi, die 
ci reggiamo sul saldo sostegno della physis , ma del- 
la pliysis non deformata dalle preoccupazioni mate- 
rialistiche. Rifacendo la serie regressiva delle cau- 
. se, la filosofìa pone una causa prima che muove 
la natura senza esserne mossa: intenta a discoprire 
V origine prima di tutte le cose che sono nel tempo, 
la logica la costringe ad uscir fuori del tempo. 1/ e- 
voluzionismo può deridere questa logica, ma non 
rintuzzarla. L’ esclusione di un assolutamente prius 
è impossibile. E ad esso, dico al positivismo, non 
rimane che o attestare, con tacito assenso, la presen- 
za del soprannaturale, ovvero rimaneggiare con 
ostentazione di novità e di maturità quella pove- 

y 

ra teoria mitologica della spontaneità creatrice degli 
uomini primitivi. Quell’ assolutamente prius, quel 
termine primitivo delle esperienze, se non è una 
creazione del soprannaturale, deve essere una ge- 
neratio aequivoca della natura primitiva : una ge- 
nialità eroica, un salto mortale degli esseri sub- 
umani. 

Per. sfuggire alle ritorte della logica, il criterio 
storico-evolutivo non ha altro spediente che quello 
di adagiarsi in esse, di accettarle deliberatamente, 
di sistemarle anzi: quello, cioè, di bandire addirit- 


— 208 — 


tura il problema delle origini, facendo sorgere la 
risoluzione di un problema insolubile dalla dispera- 
zione professata di risolverlo. Questa esclusione del 
problema delle origini, come di cosa inconcepibile in 
sé, è postulata dalla logica del divenire. La conti- 
nuità evolutiva dei fenomeni dell’ universo esclude, 
per logica di cose, ogni nozione di principio o di 
fine (1). Questi due termini estremi rappresentano 
il discontinuo, il vacuo, il salto per eccellenza, on- 
de sono fuori della evoluzione. L’ evoluzione è pan- 
teistica: è 1’ eternità trasferita da Dio al mondo: ora 
non va dimenticato che 1’ eternità esclude cosi l’o- 
rigine come la fine. Gli evoluzionisti odierni lian 
poco compreso la portata del criterio evolutivo, per- 
chè ad essi ha fatto difetto quella penetrazione, 
metafisica che la fece comprendere cosi egregiamen- 
te al Leibnitz: ond’ essi, pur professando la teoria 
dell’evoluzione, seguono ciò non pertanto a cinci- 
schiare il problema delle origini ! Ma ciò non to- 
glie che la loro dottrina si dibatta tra le strette di 
questo dilemma: o accettare la logica dell’ evoluzio- 
ne e quindi cessare di essere positivisti e confessar- 
si per animali metafisici di una specie alquanto di- 
versa dagli avversari: o deviare da quella logica e 


fi) b as Priucip dor Continuitlit verbot in der Reihe der 
Erschein angeli alien Unsprung. Kant. Kr. d. r. Vera. (Ed. di 
Ilarteustein III S. 201). E lo aveva ben compreso il v. Savigny. 
< . . . . zwisclien Gesclilechter und Zeitalter nur Entwickluug 
aber nicht absolutes Ende uud absoluter Anfang gedacht wer- 

den kann ». Vom Beruf unsero/ Zeit u. s. w. Ili Aufl. S. 
113. 


— 209 — 


cadere nelle contraddizioni di un primitivo che è 
derivato o di un a posteriori che è primitivo. 

La ritorsione del secondo corno del dilemma è sta- 
ta analizzata parecchio fin Qui. Giova solo aggiungere 
qualche- cosa su quella del primo. Ed anzitutto, che 
i positivisti, accettando la logica del criterio evo- 
lutivo, diventino di punto in hello metafisici non è 
chi noi vegga. L’ esperienza è limitata alla condizione 
del tempo; l’evoluzione è, invece, fuori del tempo, è, 
ripeto, la eternità trasferita dal mondo di là al mon- 
do di qua e, nello stesso mondo di qua, dalla so- 
stanza ai fenomeni. Confessi, adunque, il positivismo 
che il criterio storico-evolutivo è un criterio sovra- 
em pirico; che esso non abolisce la metafìsica ma 
ne fa una per suo conto; che non elimina il sopran- 
naturale ma converte invece ih naturale in sopran- 
naturale. Confessi altresì, che, quando promette di 
darci il nascimento ed il processo fenomenico delle 
cose, esso mentisce sapendo di mentire. Il criterio 
dell’ esperienza e della storia, strettamente conside- 
rato, ci dà i termini disparati e sconnessi e non il 
vincolo di quei termini, i fatti compiuti e non la 
legge del loro divenire. Il continuo sfugge alla sto- 
ria: essa non ci dà che una moltitudine di vacui e 
di discreti, tra i quali la mente umana riconosce un 
ordine che reca la impronta della metafisica che 
v’ è in lei, ossia di quella somma di concetti che 
essa ha di già sulla natura degli esseri soggetti al 
divenire storico. Ed ecco così che il realismo giu- 
ridico, la filosofia del dritto genetica e fenomenolo- 
gica vien meno del tutto al suo programma : non 
solo V essere dei fenomeni giuridici, ma e il nasci- 
li 


Petronk 


mento e il divenire di questi esseri esso ignora. Re- 
siduo positivo della critica mossa alla filosofia è la 
scepsi pura nel campo del dritto; una scepsi dog- 
matica più cbe quella filosofia e elie non soddisfa 
nò al criterio filosofico, nè alla esperienza. 


GAP. III. 


li positivismo giuridico ed il problema etico 

della filosofia del dritto — Il dritto naturale. 

» 

Il dritto non è soltanto una idea ed una sostanza, 
ma, altresì e soprattutto, una norma. Esso è idea 
umana e, quindi, non è idea quiescente, ma forza, 
nè solo anticipa l’essere, ma detta il dover essere. 
È una idea imperativa per eccellenza ed, appunto 
perchè tale, essa, ripeto, è forza: forza ideale e virtù 
morale, s’intende, e non coercizione fisiologica o psi- 
cologica. 

La filosofia che attingeva lume da questi sovrani 
criteri riconosceva, in correlazione al dritto positivo, 
un dritto ideale: questo era per lei una legge e 
quello un fatto; un fatto che desume il suo valore 
dal rapporto che ha a quella legge, dall’essere esso 
una forma di attuazione, d’ individuazione di quella 
legge. Questo fatto poteva adequare, se non in tutto, 
in buona parte quella legge, ma non l’adequava ne- 
cessariamente: ed, in tutti i casi, il suo valore era 
misurato dal limite di approssimazione al dettato di 
quella legge. Astraendo il dritto positivo da quel 
parziale contenuto ideale che vi sta dentro, da quello 


212 — 


die fa sì die esso sia non solo positivo ma dritto^ 
di quel diritto positivo non rimane, per la fìlosoiìa r 
die il fatto bruto, indifferente, sfornito di significa- 
zione. Così per la filosofia seguiva un doppio pro- 
cesso: il dritto naturale conduceva al dritto positivo- 
pel bisogno della sua effettuazione empirica ed il 
dritto 'positivo rimenava al dritto naturale pel biso- 
gno di un titulus jitris e di un sostrato razionale. 
L’ un termine non era 1’ altro, ma aveva rapporto 
air altro. Erano due correlata , non due contrari. 
Perchè non erano tutt’ uno, legittima era la ragion 
d’ essere dell’ uno e dell’altro ad un tempo, e, per- 
chè erano tutt’ uno in qualche cosa, in qualche ri- 
spetto, Fano dei dite non negava, non contraddiceva 
assolutamente F altro. L’ ideale non era del tutto- 
inaccessibile al reale e, perciò stesso, intrinseca- 
mente difettivo ed erroneo : il reale non era del 
tutto contrario all’ ideale e, quindi, assolutamente 
ingiusto e condannevole. Questo rapporto che era 
concepito tra i due termini faceva sì che Puno con- 
ferisse all’ autorevolezza dell’altro. Il dritto positivo 
attingeva la sua virtù imperativa dal dritto natu- 
rale, ossia dall’esserne esso una varietà fenomenica,, 
ed il dritto naturale desumeva da quello la possibi- 
lità di trasferirsi, d’ individuarsi nei limiti del rela- 
tivo e del condizionato, nella storia. Così la filosofìa 
era tanto più vicina alla dialettica sapiente della 
vita, quanto più era lontana dalla dialettica fanta- 
siosa della logica; e come, nell’ ordine delle idee r 
essa segnava la via di mezzo tra Pottimisino ed il 
pessimismo, così, nell’ordine dei fatti, tra P umore 
conservativo e P umore rivoluzionario. 



— 213 


Il positivismo si atteggia anche qui, anzi soprat- 
tutto qui, ad avversario reciso della filosofia. Come 

» 

nell’ ordine teoretico esso predica l’esclusione siste- 
matica dell’ a priori e V apoteosi dell’ esperienza ut 
sic, così nell’ ordine pratico esso dogmatizza l’esclii- 
isione della norma doverosa e 1’ apoteosi del fatto. 
Ed è giusto. L’ esperienza gl’ insegna l’ essere o 
l’essere stato, non il dover essere: la storia non gli 
dà che fatti o, tutt’al più, che leggi empiriche di 
fatti: T evoluzione gli fornisce una legge di causa- 
lità naturale che è la negazione recisa della legge 
morale: nessuno dei criteri, ai quali esso fa ricorso, 
gli suggerisce la nozione del dovere. 

Tuttavia, poiché la necessità morale è un rap- 
porto che è più facile escludere tacitamente, per 
esigenza di sistema, che negare di professo, e poiché 
il positivismo moderno é abbastanza raffinato per lu- 
singarsi di fare a meno dei rapporti ideali della me- 
tafisica (benché noi sia quanto é necessario per per- 
suadersi della loro verità), esso si tiene ben lungi dal 
rassegnarsi al puro fatto del dritto positivo ; bensì 
non resiste alla tentazione di interpetrare questo fatto 
in funzione di una legge che gli conferisca a priori 
valore ideale ed assoluto. È dritto quello che é impo- 
sto dai poteri coattivi ed é dritto in quanto e per- 
chè è imposto ; ma, quest’ autorevolezza giuridica, se 
coincide col fatto stesso del comando, non coincide 
tuttavia col fatto del comando attuale , ed è conse- 
guenza o espressione di una virtù presupposta nel 
fatto del comando abituale , del comando in quanto 
- comando. Il principio — est jus quia jussum ed 
è la formula del positivismo e noi f abbiamo veduta 


2 U — 


assentita implicitamente e per ragion di contrasto 
dal v. Jheriug e dal Daliu, professata espressamen- 
te dal Lasson e dal v. Kirchmann, idealeggi ata, in 
omaggio allo psichismo , dal Bierling. 

Quella forinola, per quanto positiva, implica un 
sottinteso razionale. Ed il sottinteso è il seguente : il 
fatto del comando è la sorgente appunto del dritto: o 
altrimenti: l’essenza del dritto consiste nel comando. 
Il positivismo lia, pertanto, anch’esso la spa massima: 
1’ attitudine che esso assume di fronte al fatto non è 
puramente passiva, o, se è tale, lo è o si avvisa di 
esserlo coscientemente e razionalmente. Non v’è bi- 
sogno di analisi minute per vedere quale e quanta 
conferma indiretta, (conferma formale, s’intende) re- 
chi questa massima del positivismo alla metafìsica 
del dritto naturale. Il compito razionale del dritto 
naturale non è propriamente escluso, ma applicato 
ed atteggiato in modo diverso che prima; è una ma- 
teria, nuova che si contrappone al contenuto antico 
di quel dritto, non una nuova forma. La filosofìa 
aveva per criterio conoscitivo del dritto naturale la 


ragione indagatrice dei tini dell’ universo e della 
natura morale dell’ uomo : il positivismo ha per suo 
criterio l’esperienza immediata dei precetti del potere 


positivo. La filosofìa aveva per principio ontologico del 
dritto 1’ ordine morale della stessa natura dell’uomo 


e degli stessi fini delle cose : il positivismo, invece, 
il fatto stesso della coercizione potestativa, in quanto 
tale : nell’ una come nell’ altro, le disposizioni posi- 
tive sono un fatto che in tanto ha valore in quanto 
gliel conferisce il rapporto vero o presunto di con- 
formità di detto fatto ad una data legge o ad una 



data massima. Varia solo il contenuto della massima 
e della legge, che nella filosofìa è sintetico, dovechè 
nel positivismo è analitico : perchè nell? una è at- 
tinto altronde e nell’ altro è spremuto dal fatto stesso 
delle disposizioni positive o, che è lo stesso, preim- 
plicato, con dialettica a priori, nel fondo di esso 
fatto. 

E che la massima del positivismo si traduca in 
un’ analisi vuota, in una petizione di principio, non 
v’ è dubbio alcuno. La forza coattiva del comando è 
criterio del dritto, solo perchè il dritto si è precon- 
cepito come forza e forza fisiologica; solo perchè la 
nozione di una potenza spirituale del dritto in quanto 
dritto, ossia in quanto norma di ragione, si è anti- 
cipatamente esclusa, come nozione che trascende l’e- 
sperienza,* solo perchè si è posto o postulato, anzi 
tempo, il principio che la forza, che noi intendiamo 
morale , degl’ imperativi giuridici non si differenzia 
dall’ attuazione materiale e dal successo di fatto ; 
solo perchè si è stabilito antecedentemente che la 
condotta dell’uomo non può essere determinata che 
dai motivi empirici e psicologici della sanzione po- 
sitiva ; solo perchè si è presupposto che il dritto 
non è una idea, ma un fatto e che l’assenza del* 
1’ attuazione del dritto è sempre ed in tutti i casi 
assenza del contenuto e della virtù imperativa del 
dritto stesso. Ed invero, se la coincidenza della forza, 
etica con la forza fisica, del dritto col fatto, non 
fosse un presupposto, onde e come il positivista si 
farebbe a provarla ? Con T esperienza ? Ma l’espe- 
rienza gli consegna il fatto semplice e nudo, la nuda 
e semplice forza fìsica ; se e fino a che punto 1 uno 


210 — 


e l’altra sieno dritto o forza morale, 1’ esperienza 
non lo dice e non lo può dire, perchè ignora che è 
dritto e che è forza morale. ]STè lo suffraga la sto- 
ria, la quale può provare concludentemente la pre- 
senza o meno dell’attuazione di fatto del dritto, non la 
presenza o meno deila necessità di tale attuazione. Il 
positivismo deve, per necessita di cose, far capo alla 
speculazione, per dimostrare il suo assunto; se non 
che, è appunto la speculazione che ne denunzia l’ille- 
gittimità, perchè, se il dritto positivo ed il dritto natu- 
rale sono termini semplicemente correlativi, il fatto 
ed il dritto, la forza bruta e la forza morale sono 
termini addirittura contradditori, tra i quali non vi 
è presunzione di coincidenza o di accordo che tenga. 

Portando poi la questione in altro campo, è bene 
por mente che, per tacciare di sterilità la idea ed 
il dritto e per predicare come sola forza viva delle 
cose il potere coattivo e materiale (ed il convinci- 
mento radicato di quella sterilità è il motivo psico- 
logico che persuade al positivismo il culto del potere 


coattivo) occorre aver dimenticato, o non aver co- 
nosciuto e compreso giammai, quanto la forza spi- 
rituale di talune idee universali, di alcune esigenze 


morali, di 


alcuni canoni giuridici sia 


stata superiore, 


nel corso della storia, alla forza materiale dei poteri 


dominanti e quanti trionfi sulla tenacità di resistenza 


dei tatti abbia ri portato tuttora la forza ideale del dritto. 
Le quali conferme di fatto la filosofia le accetta e le 


oppone 
sorte di 


agli avversari, senza, per altro, vincolare alla 
esse la sua, perchè (è bene ripeterlo) la forza 


ideale, la virtù imperativa del dritto è, per essa, in- 
dipendente dal successo di fatto o dall* osservanza 




217 


<ìgì soggetti. Il (lovorG g dovere, clie lo si adoni pia 
« no; e la violazione è un mero fatto che opera si 
elie 1’ idea non divenga un fatto, ma non sì che 
l’ idea cessi di essere idea. Doveehè il positivismo 
da questa confusione tra idea e fatto prende le mosse 
e questa confusione solleva a sistema. Suo assunto è 
il seguente: 1’ idea non è idea perchè non è un fatto : o 
altrimenti: l’ idea non esiste in quanto idea, perchè 
non esiste in quanto fatto. Il qual paradosso non può 
essere legittimato che da un sottinteso non meno 
paradossale: l’idea non esiste come idea, se non in 
quanto non è più idea. 

Se, adunque, il secreto tentativo di conferire a 
priori alla nuda forza materiale valore e contenuto 
ideale cade nell’ insuccesso, vien meno altresì quel- 
1’ apparenza di legittimità, onde il positivismo si fa- 
ceva bello. La logica delle cose rimuove quella pre- 
tesa dialettica del dritto con la forza, denudando 
quest’ ultima di quell’ involucro spirituale nel quale 
si veniva dissimulando. Ed allora ai positivisti si 
pone un dilemma dal quale non vi è via di uscita: 
o riconoscere la legittimità della nozione del dovere 
e, quindi, rientrare nei termini della filosofìa del 
dritto naturale, o professare apertamente 1’ immora- 
lismo della forza (1). Perchè tra 1’ una cosa e 1’ altra 

(1) Ist clas Recht nur Recht, uutorschieden von Willkiihr 
mici Gewa.lt, wenn and soweit es eine dea Willen vcrjìjlichtcnde 
Kraft in sich triigt, so Htellt sichjeder; der von Recht spricht 
nnd Weiss was er sagt, auf dem ethischcn Stand]) nuli, aut doni 
Boden des Scimollenden. Alle naturalistischen nnd miterialisti- 
ficlien Doctrinen kdiìnen daher nur durch Iuconsequenz, dureli 
Urklarheit und Confusion oder durch sophistische Rrsclileichun-, 
gen vor der Identifìcirung von Recht und Gewalt siedi scliiit- 
ze n — Vìvici — Naturrecht S. 219. 


— 218 — 


non v’è via di mezzo che tenga; il contrapposto tra 
la physis ed il nomos, tra la necessità fìsica e la 
necessità morale, è irriducibile: chi non voglia as- 
sentire alla logica della seconda non può, ov 7 egli 
abbia mediocremente a cuore la coerenza filosòfica, 
rinunziare alla logica della prima. E, quando si con- 
fessi apertamente che il titolo che fonda la legittimi- 
tà esclusiva del diritto storico e positivo è laforza 
materiale dei poteri governanti, allora noi non avre- 
mo più alcunché da opporre e ci terremo paghi di 
darci per vinti. Il problema, allora, non è più da 
dibattere, nè da risolvere, perchè difetta quel consenti- 
mento in un prius della ricerca, che pure è necessario 
per sostenere una polemica qualsiasi. Il positivismo 
potrà, a buon dritto, millantare il privilegio che go- 
dono tutte le forme di scepsi assoluta, tutti i sistemi 
negativi, tutte le demolizioni dottrinali della verità 
e della natura: il privilegio di esser fuori della cri- 
tica, perchè si è fuori della coscienza umana. 


Se non che, di questa logica di sistema non tutti 
sono accorti; ne sono, anzi, ignari pressoché tutti. 
Ed è forse questa ignoranza il motivo della loro te- 
nacità. Essi usurpano, senza volerlo deliberatamente, 
le esigenze ed anche un po’ le soluzioni del dritto 
naturale, lieti che una materia presa d 7 altronde ri- 


sparmi ad essi la fatica ed il dolore di saggiare a 
londo la insostenibilità del loro assunto originario. 
Del resto questa apoteosi del dritto di fatto e del- 


la forza non è il sèguito di 


un proposito meditato 


e rigorosamente positivo, ma di una esigenza tutta/ 
negativa che domina i nostri positivisti. La esclusi- 
vità che essi appongono al dritto positivo, è la 


— 219 


conseguenza della esclusione clic essi Inni fatto dian- 
zi di alcune forme storiche del dritto naturale; for- 
me storiche che essi hanno scambiato sul serio con 
la sostanza stessa del dritto naturale, in orna ir- 
gio a quel vecchio espediente solistico di fare 
un fascio della scienza e degli scienziati, della 
idea e delle applicazioni, dell’uso e dell’ abuso, del- 
la realtà oggettiva e della percezione soggettiva. E 
di sistemi o di concepimenti individuali o collettivi 
di dritto naturale ve ne ha parecchi e di diversa 
natura; onde la impresa d’ insinuare i propri criteri 
positivisti tra una critica e 1’ altra di questo o quel 
sistema sbagliato di dritto naturale sembra larga 
prò metti tri ce di successi. Se non che, alla prima 
analisi cui si sottoponga (e parlo di un’ analisi ele- 
mentarissima e superficiale) quel termine polisenso 
che è il diritto naturale , i successi del positivismo, 
come di ogni cosa che poggia sovra un equivoco, 
si dissipano d’ un tratto. 

V’ ha anzitutto una forma di dritto naturale, la 


quale, benché prenda le mosse dallo schematismo 
universale della natura umana e dalla premessa del- 
lo stato di natura, ha tuttavia carattere e tendenze 
originariamente empiriche e si presenta non già 
come una dottrina creativa di dritti o di esigen- 
ze morali in contrapposto al dritto positivo, ma 
piuttosto come una semplice astrazione ed ela- 
borazione concettuale del dritto storico vigente: e 
questa scuola procede dal secolo decimosettimo alla 
seconda metà del decimottavo (1). V’ ha, indi, una 


(1) Ciò è messo discretamente in luce dal Bergòohm 
risprudenz u Recktspkilosopkie 1 . S. 160-168. 


Ju- 


altra forma di dritto naturalo, quella ohe, per abu- 
sata terminologia si chiama diritto naturale (. Natur - 
rechi) per antonomasia, ed è il diritto naturale del- 
V AuJhUirung e della ragione, di cui è conosciuta la 
storia assai più, forse, che il carattere e V indole 
vera, che è razionalista nel metodo, subi etti vi sta nei 
criteri, antistorico nelle esigenze, umanitario nel con- 
tenuto; che e la scuola in cui il diritto nou è pi 11 
astrazione o generalizzazione dell 7 esperienza storica, 
ma un lofjo della ragione creativa, e nel quale lo 
stato di natura è (almeno in quanto ha di meglio) 
meno una premessa di fatto storico, che una ipote- 
si razionale postulata a legittimare una data serie 
di obbligazioni giuridiche o la possibilità stessa di 
una obbligazione giuridica: che ha nel suo attivo e 
nel suo passivo, ad un tempo, la dottrina (atteg- 
giata in modo particolare) dei dritti delV uomo e la 
grande rivoluzione. V 7 ha, poi, il dritto naturale 
della filosofia perenne; che non è forma ma sostan- 
za delle forme; che è anteriore, per ordine di tem- 
po, così al Natur recht empirico come al Naturrecht 
razionalistico e che non è nè l’uno nè 1’ altro, ben- 
ché V uno e 1’ altro nella lor parte migliore si ap- 
prossimino ad esso ; che emerge dalle profondità 
della coscienza umana iu qualsiasi luogo ed in 
qualsiasi tempo e che la cultura greca speculò non 
meno che la cultura moderna; che non è patrimo- 
nio di questa o quella filosofìa personale, ma della 
tradizione storica ed impersonale della filosofia ; 
che non è contrario sistematicamente al criterio sto- 
rico, ma non lo è nemmeno al criterio speculativo; 
che rifiuta la ragione, come virtù creativa delle cose, 


221 — 


ma la tieu salda come potenza conoscitiva dei rap- 
porti ideali e delle norme - imperative; che supera 
il subietti vismo assoluto dell’ AujMarung , ma non 
ne trae argomento a rinnegare le esigenze oggetti- 
ve della coscienza umana come tale ; che è illumi- 
nato da una concezione teleologica dell’universo e- 
della vita, ma non profana per questo il suo fina- 
lismo nelle aberrazioni del panteismo ottimista e 
del pietismo storico; che si rappresenta i dritti del- 
V uomo circoscritti dalla funzione correspettiva del 
dovere, ma non sconosce la sostanza ed il valore im- 
perativo dei dritti attinenti all’uomo come tale, anzi 
questi diritti rivendica tuttora e consacra. 

Ora è questo dritto naturale che, in nome della 
filosofia, si oppone oggi al positivismo, perchè è esso 
che segna il sostrato permanente delle forme stori- 
che particolari; e questo dritto naturale è così lungi 
dall’ essere posto a mal partito dalla critica che i 
positivisti oppongono a questa o a quella forma 
onde questo o quel filosofo, ovvero questa o quella 
scuola di filosofi lo ha concepito: che anzi taluna 
di quelle critiche se la potrebbe appropriare esso 
stesso, senza infirmare per questo il suo contenuto 
sostanziale. E dico a bella posta: taluna: perchè pa- 


recchie, la maggior parte, di quelle critiche, sono 
del tutto infondate. Quelle, in specie, che si dirigo- 
no al dritto naturale razionalisti co, ossia al dritto 
naturale , sono sì arbitrarie e, ad un tempo, sì pre- 
tensiose che si rende urgente il bisogno di rintuz- 
zarle in nome della sana e serena filosofìa. Di già 
quel dritto naturale non ha avuto ancora, nella lotta 
delle dottrine, quella piena giustizia, della quale i 




torti innegabili, ina pur sempre largamente compen- 
sati non gli scemano la legittima aspettazione. Da- 
gli avversari, che lo fraintendono o lo giudicano 
con criteri unilaterali, agli amici (cito tra questi lo 
Spencer del The nxan versus thè stette e della Jnstice ) 
che ne appropriano quello che esso ha di men buo- 
no, è tutta una gara ad abbuiarlo, a rimpicciolirlo, 
a deformarlo: alla quale non poca parte confermai 
suoi tempi, lo Stalli, per aver voluto, in omaggio 
alla sua dialettica possente, predicare della sostanza 
del dritto naturale le note e le categorie applicabili 
al solo panlogismo Hegeliano, che si traduce, a sua 
volta, in un sistema intrinsecamente realista e po- 
sitivista (1). 

È di moda, ad es., tacciarlo di astrazione con- 
cettuale, abusando del doppio senso della parola 
astrazione , e non si pensa che esso rappresenta pre- 
cisamente il contrapposto di ogni astrazione con- 
cettuale della realtà empirica, differenziandosi, ap- 
punto per questo , da quel dritto naturale che 
immediatamente lo precede. L’ astrazione non è 
punto un procedimento trascendentale e sovraem- 
pirico, come si crede comunemente: essa è, anzi, 
una delle tappe del processo induttivo. L’astrazione 
è, propriamente, un processo di semplificazione 
logica dei dati empirici, non un criterio conoscitivo 
che trascenda i dati stessi. Assumere la parola 

(1) Parrebbe averlo egli stesso confessato, là dove (Geschi- 
chte der Recbtsphilosopliie S. 161, 162) illustra lo aspetto em- 
pirico del haturrecht dichiarando apertamente che solo con 
1 Hegel può dirsi « der ununterbrochene Faden logischer 
Forderung durchgefuhrt. » 



— 223 — 


« astrazione » nel senso di una « intuizione » sovra- 
eni pirica è assurdo: bisogna aver dimenticato così 
l’etimologia del vocabolo (ab -strabere) come fi ana- 
lisi del processo conoscitivo. 

L astrazione è la via traverso la quale si per- 
viene all’ universale logico: il quale universale logico 
è 1’ unico sforzo cogitativo che si possa consentire 
l’induttivismo e 1’ empirismo Se, adunque, astrazio- 
ne non significa che questo, non è arduo vedere 
quanto arbitraria sia la censura mossa al diritto 
naturale. La ragione del Naturrecht è così poco ra- 
gione astratta da una serie di concreti preconosciuti, 
che anzi essa è una creazione, una conoscenza ex 
novo ed intuitiva. Il diritto naturale è, nel fondo, 
ont elogisti co: ond’ esso ha per suo criterio l’intuito 
creativo della ragione, anziché l’esperienza del reale, 
fi analisi, la riflessione, 1’ astrazione. 

Il genus proximum dell’ uomo, ossia del soggetto 
dei dritti connaturati, è, ivi, meno un residuo dei- 
fi astrazione dalle differenze specifiche, ossia dalle 
varietà contiagibili e storiche, che una speculazione 
a priori e so vraem pirica delfi università reale della 
natura umana. E dico che è tale nella sua esigenza 
e nel suo interesse filosofico, senza punto giudicare 
se quella esigenza o quell’ interesse siano stati sem- 
pre e coerentemente soddisfatti. Ed è appunto dal- 
1’ essere fi intuizione, fi Anschauung, il suo processo 
ed il suo criterio, che segue la sua virtualità, sarei 
per dire la sua impulsività etica. L’ astrazione è 
puramente logica; è negazione esplicita della vita, 
della forza, delfi attività, delfi ethos. Carattere del 
dritto naturale è, invece, la sua potenza attiva, la 



— 224 — 


sua forza suggestiva di riforme e creativa di rivol- 
gimenti: suo prodotto immediato è quella obsessione 
spirituale che investi V u mani ta, tiascinandola in 
quel salto dal pensiero all’azione, dalFideale al reale, 
dalla natura alla storia, vero salto nel buio, che fu 
la rivoluzione. V’ lia bensì l’astrazione concettuale 
anche nel dritto naturale: ma questa astrazione, an- 
ziché essere il prodotto d’ una esigenza sovra-empi- 
rica come si crede dai piu, è più presto la conse- 
guenza naturale di quella iuiìltrazioue empirica che 
vi si venne formando, allorché i suoi cultori, non 
contenti di aver annunziato una serie di principi e 
di averli speculati a priori , il che, metodicamente 
parlando, era perfettamente giusto, vollero fare un 
passo più oltre e costruire, per via di un'analisi 
concettuale di quei principi, la serie degli atteggia- 
menti concreti della vita giuridica. Per una simile 
costruzione logica miglior presidio non si offeriva ad 
essi che 1’ astrazione, ossia la semplificazione logica 
dei concreti ottenuti dall’ esperienza. L’intuizione 
non poteva servire alla bisogna, perche è proprio- 
deli 7 intuizione cogliere i rapporti ideali e 1’ univer- 
sale delle cose o, più brevemente, le idee, non i 
concreti od i fenomeni. Essi, adunque, travagliati 
da una esigenza empirica, fecero capo all’astrazione; e 
dal mondo reale e dalle condizioni sociali ed economi- 
co-politiche del tempo loro astrassero tutto un conte- 
nuto storico e particolare, il qual contenuto essi 
hanno predicato dell’ umanità intiera, jiervertendo,. 
così, in universale logico, l’universale reale e, nella 
indifferenza dialettica, 1’ unità della natura umana. 
E qui che la critica dello Stali! e degli altri acerbi 


rampognatoli coglie, senza dubbio, nel segno, ina non 
già perchè il dritto naturale sia caduto nelle spe- 
culazioni a priori della ragione, bensì perchè esso 
è caduto nel circuito dell 7 analisi e dell 7 empirismo, 
o, se l’astrazione si voglia assumere, per un momen- 
to, nel senso che le conferiscono i nostri avversari, 
non perchè essi abbiano astratto troppo, ma perchè 
anzi hanno astratto troppo poco. La natura traccia 
le linee fondamentali : i dettagli dell’ esecuzione li 
lascia alla stòria ed alla volontà positiva. Il vero 
dritto naturale ci dà una serie di criteri o di prin- 
cipi del dritto, i quali sono, bensì, un dritto, ma 
un dritto ideale e potenziale. Essi, quei criteri o 
quei principi, sono un prerequisito del dritto feno- 
menico, ma non sono ancora, propriamente parlando, 
un dritto fenomenico bello e dato; il qual dritto è 
la risultante complessa di condizioni empiriche, nel- 
le quali quei principi e quei criteri s 7 individuano 
ma non si consumano (1). 

(1) Questo principio è eflicacemente illustrato, uon senza 
per altro un po’ di formalismo, da A. Feuerbach « . . . . Das 
Reclitsgesetz, obgleìch durch sich selbst aUc/emcinf/ultig. kanu 
dennoch als blosses Vernini ftgesetz nicht allgemeingeltend wer- 
den. Soli es wirklioh herrsclien. . , . so muss dieses Reehtsge- 
setz aus dem Reicke dei* Vernunft in das Reich der Erfahrung, 
aus der intelligiblen Welfc in die Welt der Sinne hiniibergetra- 
geu. . . . werdeu. In dem Gesetze des Reehts erkenne idi nodi 
nicht dio Reclite selbst, in ihm habe ich nur das Princip und 
das Criterium ihrer Erkenntniss; dio Frage ; worin besteht das 
rechtliche uberhaupt; nicht aber die Frage: was Rechtens sei 
uuter diesel* oder jener Bedingung, in diesem odor jenem Vor- 
hiiltnisse. ...» Ueber Philosophie und Empirie in ihrem Ver- 
liiiltnisse zur positivon Rechtsvnssensckaft=Landshut 1801: p: 
16 e segg. 

Petrone 



L’ esigenza empirica che deforma il dritto natu- 
rale sta appunto in questo, nel serbarsi infedele al 
suo assunto, nel sottoporre quello che dovrebbe es- 
sere una speculazione del dritto naturale a quella 
serie di condizioni alle quali è sottoposta la cono- 
scenza del dritto fenomenico, nel trasferire alla no- 
zione di quello le note che sono pertinenti alla no- 
zione di questo; di guisa che essi muovano come 
da un sottinteso: il presunto dritto naturale va trat- 
tato alla stregua del dritto fenomenico. 

Ad essi è mancata quella potenza o, forse meglio, 
quella tenacità di tensione intellettiva che era neces- 
saria per comprendere che il dritto naturale deve anzi 
tutto rimanere dritto naturale, e che il giudizio sulla 
esistenza di esso non deve essere sottoposto al re- 
golo o al criterio moderatore dei giudizi sull’ esi- 
stenza del dritto positivo. Anche qui, adunque, essi 
sono in colpa non già per aver voluto far troppo di 
dritto naturale, ma per averne fatto troppo poco; e 
chi ha meno dritto di rampognarli di ciò è il positi- 
vista. Ai principi del dritto naturale si potrebbe, 
a buon dritto, torcere quel rimprovero che fece Ari- 
stotele alle idee di Platone : essi, quei principi, sono 
ipostasi intellettive delle realità fenomeniche indivi- 
duali. Di qui 1’ aspetto malsano del dritto naturale : 
la realtà della storia contorta in un falso schematis- 
mo logico: quello che sarebbe dovuto essere storico 
relativo provvisorio, rifuso in una forma logica uni- 
versale e rappresentato come eterno, assoluto, im- 
mutabile: la storia, insomma, negata come storia e 
riaffermata come speculazione logica. Così, quel su- 
biettivismo, che era la realtà di fatto del tempo 



— 227 


dell’ AujUiirung > si predica come natura dell’ uomo 
in tutti i tempi : alla proprietà ed al contratto si 
conferisce quel contenuto rigidamente individualistico 
che corrispondeva alle mire secrete del sistema eco- 
nomico che si veniva affermando in quell’ ambiente 
storico, del sistema capitalista (1) ; la nozione dei 
dritti connaturati alterata e deformata dalla miscela 
inconsulta di elementi positivi e di pretensioni e di 
attribuzioni acquisite. 

Gli si appone a colpa, altresì, la nozione dello 
stato di natura. Ma, se lo assumere uno stato primi- 
tivo della umanità governato da una legge spontanea 
di natura e non da una legge o da un sistema di 
leggi umane positive, se, dico, assumere questo stato 
di natura a rigore di fatto storico può essere ed è 
un abuso della mitologia, assumerlo, invece, come 
una ipotesi lìlosohca, è, fuori dubbio, un processo 
rigorosamente scientifico e fors’ anco metodicamente 
necessario. Ogni pensatore che voglia differenziare 
mediocremente il contenuto della vita sociale, che 
voglia sceverare quello che è permanente da quello 
che è transitorio, il substratum dai fenomeni, che 
voglia discernere nettamente quello che in una data 
associazione di persone va attribuito alla natura ori- 
ginaria di ciascuno dei membri da quello che vi si è 
venuto soprapponendo per la reciprocità d’ influsso 
dei membri tra* loro e per tutto il tessuto dell’ azione 
sociale, ogni pensatore, dico, che voglia fare tutto 
questo, deve porre lo stato di natura e contrapporgli 

(1) Cfr. il nostro libro « La terra nell’ odierna economia 
capitalistica (Roma 1893) p. 64-69. 


lo stato sociale sopra v vegnente, deve distinguere lim- 
pidamente l’uomo della natura dall’uomo della storia. 
È superfluo qui ricordare lo Spencer, il quale a 
questa astrazione dell’ uomo della natura dall’ uomo 
della storia (che per lui, naturalista reciso, si con- 
verte in un’ astrazione dell’ unità biologica dall’ unità 
sociale) ha reso omaggio non solo nelle opere ultime 
nelle quali egli restaura di professo il dritto naturale, 

' ma anche nelle opere anteriori, le quali segnano il 
climax del suo pensiero filosòfico : il convincimento, 
anzi, della legittimità di una contrapposizione del- 
l’unità biologica alla unità storica, o, che per noi è 
lo stesso, della legittimità di una ipotesi dello stato 
di natura, è, forse, l’anello di congiunzione del suo 
novissimo dritto naturale con la sua sociologia ed in 
genere con tutta la sua filosofia sintetica, 1’ adden- 
tellato dell’ uno nell’ altra. Ricordo, poi, un illustre 
positi vista, come il Kirchmann, il quale ha esplicita- 
mente riconosciuto la necessità che le scienze morali, 
prive come sono del sussidio dell’esperimento, invo- 
chino 1’ ausilio di ipotesi scientifiche per sopperire a 
quel difetto, e, tra queste ipotesi, rivendica, di pro- 
posito deliberato, quella dello stato di natura (1). Non 

(1) Es.... ist die Wissenschaft der Sittlichen genothigt, nicht 
bloss aut die sifctlichen Zustande der rohen und attesten Volker 
mit besouderer Sorgfalt einzngehen, sondern sie muss noch 
hinter die àltesten gesehiclitliclien Zustande zuriiekgehen und 
durcli Hypothesen die einfachsten Zustande zu ermitteln suchen. 
Diese Hypothesen kdnuen in ein phautastisches und fur die 
Wissenschaft nutzloses Spiel ausarten : - allein mit Vorsicht 
geiibt, ersetzen sie das Hulfsmittel der Experimente in der 
Naturwissenschatt und sind nicht zu entbehren. Daher erklart es 
8ich, das8 8chon Aristoteles und spdter die Begriinder des Natur- 



1’ uso di questa ipotesi va, adunque, rimproverato al 
dritto naturale, ma l’ abuso : ossia non la ipotesi 
come ipotesi, ma la maniera particolare onde la si 
atteggia. 

Quanto poi all 7 altra nozione del contratto socia- 
le , che è quella che più si rimprovera al dritto 
naturale (e, tenuto conto delle conseguenze logiche 
di essa, a buon dritto) va notato che nei più gran- 
di cultori di quel dritto (cito ad es. il Kant) il con- 
tratto sociale non è già un fatto storico, ma una 
ipotesi razionale evocata a legittimare l’ordine giu- 
ridico dei rapporti umani, anziché a scuoterlo e 
corroderlo. La teoria del contratto sociale è la ri- 
sultante di due fattori : del sottinteso o presupposto 
contrattuale, secondo il quale unica fonte legittima 
di obbligazione autorevole è il consenso dello stes- 
so obbligato; e della esigenza, che animava i cul- 
tori del dritto naturale, a legittimare il vincolo o 
la serie dei vincoli sociali, anche quelli che non 
lasciavano trapelare o supporre la presenza di un 
consenso preesistente. Il contratto sociale è quel di 
là dell’esperienza attuale, quell’ assolutamente prius 
della storia, che sopperisce al difetto del consenso 
attuale , con l’allegare una specie di consenso abi- 
tuale , una Anerkenmmg , direbbe il Bierling, una mas- 


rechts nùt TJrzmtanden des Memchen beginnen , welche uber die 
Geschichte hinausreicheii. Der oft dagegen erhobene Tadel trifffc 
nicht das Verfahren an sich, sondern nur den damit getrie- 
benen Missbrauch. Es karrn desshalb auch hier dieses Mittel 
nicht uiibeimtzt bleiben: aber die Vorsieht gebietet, es auf das 
Nothwendige und Gewissere zu beschriinken. — Grimdbegrifte 
S. 119. 


— 230 — 

sima dell’assenso. Il contratto sociale esprime quindi 
la dialettica che il pensiero dei cultori del dritto 
naturale ebbe tentato tra la premessa logica del 
contrattualismo e le esigenze della conservazione 
sociale, tra la invincolabilità assoluta della libertà 
naturale, postulata come principio, ed il complesso- 
dei vincoli sociali, riconosciuti come fatto. Il che 
si deve al fatto , riconosciuto dallo stesso Stalli,, 
che essi, se per la logica, sarei per dire per la 
consequenziarità, del loro principio erano, o meglio 
avrebbero dovuto essere, rivoluzionari , nel fondo 
del loro pensiero e della tendenza loro erano, iu- 
vece, conservatori: senza dubbio degl’ ingenui con- 
servatori! (1). Ohe se si voglia porre a carico loro 
appunto il non aver compreso che il vero stato na- 
turale dell’ uomo è lo stato sociale, che non v’ ha 
bisogno di una ipotesi razionale quale che sia per 
legittimare vincoli sociali i quali si legittimano da 
sè, che si pensi, almeno, che il torto innegabile 


(1) Da» Naturrecht .... ist nachgiebig, wo es die Wirklich- 
keit gegen sich hat, es liisst sich jeden Zustand gefallen und 
sucht ihu dnrcli IJnterlegung einer stillschweigenden Einwilli- 
guug zu rechtfertigen, uni sein theoretisches Interesse zu be- 
friedigcn : die Revolution, dagegen, will die Macht der Wir- 
klichkeit brechen, sie vernichtet jede Einrichtung , die uicht 
aus ihreu reineu Vernunftbegriifen folgt. Ienes erdichtet fiir 
jede Verfassung, die Mensehen liiitten sie gewollt, darait es si© 
als frei denken kdnne, diese duldet keine Verfassung, die sie 
niclit gewollt, dainit sie wirklich frei seyen. — Gesch. d. R. 
phil. S. 290. Quest’ antitesi del dritto naturale alla rivoluzione 
è licondotta dallo Stalli ad una causa diversa che da noi. Ma 
ciò non conta: importa che quell’ antitesi sia stata riconosciu- 
to da quel profondo intelletto. 



— 231 — 


del dritto naturale va dovuto, in buona parte, alla 
difficoltà di discernere i vincoli sociali, che sono 
davvero conformi alle leggi della natura umana, 
da quegli altri vincoli clic non sono tali. L 7 errore 
loro, sarei per dire, è, in parte , un errore delle 
cose. Niente più naturale all’ uomo dello stato so- 
ciale e pure niente, ad un tempo, più violento di 
esso (antitesi questa che deve essere stata colta 
dal Manzoni, non ricordo più in qual punto delle 
sue opere): perchè lo stato sociale, accanto ad una 
serie di obbligazioni perfettamente legittime, perchè 
perfettamente naturali, reca pure con sè (è il suo 
lato debole come di ogui cosa di questo mondo) un 
cumulo di coercizioni arbitrarie, giacobine , irrazio- 
nali che la natura convellono, incatenano, deforma- 
no. Che meraviglia, dopo ciò, che il dritto naturale 
abbia colto questo secondo aspetto delle cose sol- 
tanto e niun conto abbia tenuto del primo, di gui- 
sa che si sia reputato in dovere di legittimare 
quello che non sembrava legittimo a prima giunta 
e di costruire con la volontà quello che non forni- 
va la natura °ì Nei fenomeni di questo nostro mondo, 
che non adempie in sè la perfezione e l 7 ideale, ma 
della perfezione del di là è soltanto un baleno, v’è 
tante e così aspre antitesi! ed è così facile invertire 
un solo dei termini dell 7 antitesi nella realtà tutta 
intiera ! 

Il dritto naturale può avere molti torti, ma que- 
sti sono compensati ad usura dal molto di buono 
che vi è dentro: da quella nozione di un dritto in- 
dipendente dalla sanzione positiva e superiore ad 
essa, che si attiene all’uomo in quanto uomo, che è 


— 232 


patrimonio ind6Ì6bil6 della sna natura, quello ap- 
punto die costituisce il suo essere di uomo, la sua 
umanità. E V umanità-, ecco 1’ aspetto sano del di- 
ritto naturale; che in esso è, fórse un universale 
logico e formale, una formula del razionalismo del- 
V Aujklàrung, ma (die si deve ad esso se sia potuto 
divenire nella mente dei contemporanei e dei poste- 
ri un universale reale. Prima che esso ravvivasse il 
culto della personalità individuale, si vedeva questo 
o quelV uomo, in questo o quel ceto, in questa o 
quella condizione economica e sociale: grazie ad esso 
si vide Tuo ino. Esagerò il suo assunto e cadde nello 
individualismo: ma 1’ umanità gli deve saper grado 
di questo individualismo, se da esso ha potuto spri- 
gionarsi, con un processo di auto-correzione, la sana 
individualità, ossia la dignità umana. In questo il 
dritto naturale razionalistico si confonde col dritto 
naturale assoluto della filosofia tradizionale; ed è la 
espressione di quel dritto che ogni uomo possiede 
come la parte più sacra di se stesso, che 1’ uomo 
sente pria di conoscere ed aspira nell’atto stesso di 
conoscerlo, che non si sa se sia più un sentimento 
od un intuito, una idea od una volizione. Il dritto 
naturale rientra, allora, nei termini della dottrina 
cristiana, perchè il dritto dell’uomo è l’espressione 
della preziosità inestimabile dell’ umana persona re- 
denta da Cristo; e, come tale, è inoppugnabile,-e ri- 
marrà tale senza fallo, finche non declini la coscien- 
za morale dell’ umanità. 

^è io saprei per qual modo il positivismo, il 
quale si è travagliato e si travaglia nella critica del 
dritto naturale, possa col labile sostegno dei suoi 



233 


angusti criteri oppugnarlo davvero. Un sistema die 
predica V esperienza, come criterio scientifico esclu- 
sivo, non lia altro argomento da opporci clic Questo: 
il vostro preteso dritto naturale 1’ esperienza non 
ce lo attesta; nessuno ci lia fatto toccar con mano 
la sua esistenza nel passato, o nel presente; si può 
metter pegno che nessuno ce ne farà toccar con 
mano V esistenza nel futuro: il vostro dritto natu- 
rale, adunque, non esiste. — Orbene questo argomento 
è cosi innocuo che esso non tocca nemmeno il drit- 
to naturale, nè i suoi cultori. I quali potranno ben 
rispondervi: sapevamcelo ! ma il nostro dritto natu- 
rale è quello che è, appunto perchè noìi è feno- 
menico, ossia oggetto di esperienza. Koi siamo 
si poco scossi dal vostro raziocinio che lo abbiamo 
prevenuto: il dritto naturale è, per noi, una idea e 
non necessariamente un fatto, un dover essere e 
non un essere, una necessità morale e non una cosa 
empiricamente esistente. 

Ohe il dritto naturale sia esistito o meno nelle 
condizioni dell’ esperienza e della storia, che sia 
stato attuato o individuato da 'questo o quel dritto 
positivo, a noi importa, a rigor di termini, poco; 
perchè il nostro quesito non è se esso esista o sia 
esistito davvero, ma se debba esistere: onde 1 inesi- 
stenza di fatto di esso non è argomento contrario 
alla nostra teoria, come non le sarebbe argomento 
favorevole la sua esistenza. Quando, in nome del 
criterio sperimentale, si esclude la nozione del diit- 
to naturale, si cade in una petizione di principio. 
Si dà per provato quello che si doveva appunto 
provare: che unico criterio conoscitivo della esistenza 


234 — 


0 


n 


delle cose sia l’esperienza, o, meglio ancora, che non 
vi sia altra forma di esistenza che la esistenza empirica. 
Ed in questa petizione di principio si risolve tutta la 
critica esercitata dal positivismo sul dritto naturale. 
Gli studi di filosofìa del dritto del Wallaschek e più 
di tutto il libro recentissimo del Bergbolim, nel 
quale è condotto un esame molto accurato del drit*- 
to naturale (1), sono piene di argomentazioni sup- 
pergiù del contenuto e del valore della seguente, 
tormolata dal primo di quegli scrittori: Ausser dem 
bestehenden Rechi gìebt es Icein anderes Recht , demi 
es ist ein Widerspnich , anzunelimen , dass, ausser 
dem bestehenden Recht, nodi ein Rcclit bestelit , das 
nicht bestelit (2). É chiaro che un simile modo di 
ragionare è il portato logico della ideologia positi- 
vista, come è chiaro che ivi si confondono malac- 
cortamente duo cose, che vanno divise o distinte, o, 
almeno, sulla diversità o pluralità delle quali vol- 
geva appuntò il quesito. L’ esistenza empirica delle 
cose va distinta dalla esistenza metafìsica delle cose 
stesse. Ora è appunto a questa esistenza metafisica che 
fanno accenno i rivendicatori del dritto naturale. 
Ai quali inopportunamente si fa rimprovero di as- 
surdo paradossale, con una proposizione sofìstica di- 
quel genere, dove il verbo essere vien preso in un 
membro in un senso e nell’altro in un altro. 
Line andere ivichtige Frage bleibt ja immer , ob 
das Recht, das bestelit , aneli bestehen solite , aber 
der Bcgrijj des Rechtes, das sein soli, darf nicht ver- 


(1) Op. cit. 

(2) Op. cifc. S. 96. 


wechselt werden mit dem , das thatsàchlich vorhanden 
ist, und nur dieses letztere ist Recht , das erstere soli 
es sein (1). Ma, di grazia, quando mai il dritto na- 
turale ha preteso di affermare la sua esistenza em- 
pirica di fatto , ossia la sua esistenza di diritto 
positivo? Esso ha sempre preteso di essere quello 
che è, e quando ha detto: io sono: intendeva dire, 
non già: io esisto davvero: ma: io debbo esistere. 
L’ essere del dritto naturale è precisamente il dover 
essere: il dritto naturale' è una norma ed è come 
norma, cioè a dire come dover essere. Che non sia 
punto un fatto, il primo ad esserne persuaso è esso 
stesso. Appunto perchè non esiste necessariamente 
nelle leggi positive, esso rivendica il suo dritto di 
esistere. Ed in questo dritto ad esistere, non già 
nell’ esistere davvero è riposto il suo essere. È ve- 
ramente deplorabile che questi principi così elemen- 
tari debbano essere ribaditi quando pareva che nes- 
suno potesse dubitarne! 

L’ empirismo è così scarso di prove contro il 
dritto naturale, ch’esso non può neanche fermare 
assolutamente che quel dritto non sia possibile 
nelle stesse condizioni future dell’ esperienza. Vale 
a dire, esso non solo non ha autorità di asserire che 
il dritto naturale non sia . ovvero non debba esistere , 
ma non ne ha nemmeno per assicurare che esso non 
possa esistere. Perchè il possibile ed il futuro ecce- 
de il potere dell’ esperienza, la quale è limitata al 
passato ed al presente; il poter essere o il sarà sono 
quasi così lungi dal poter essere affermati e negati 
dal positivismo che aspiri ad essere logico, quanto 


— 236 — 

lo è il dover essere (1). Esclusa, così, la possibili- 
tà di uno di quei richiami al futuro che sono tra i 
ripieghi prediletti dell’ empirismo, toltogli il modo 
di dettar legge alla storia, ad esso non resta che 
contenere le sue negazioni nella sfera del presente. 
Allora la scepsi che esso esercita sul dritto natu- 
rale va formolata nella tesi seguente: il dritto na- 
turale non esiste come dritto naturale, perchè non 
esiste come dritto positivo : una tesi sbalordi toia 
che presuppone, in chi la . sostiene, il difetto asso- 
luto della più elementare analisi ideologica e che 
segna, mi si lasci dire la parola, la vera bancarotta 
del positivismo giuridico. 


(1) Stammler. S. 37. 

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