LA SCHIERA D'IGOR, DUCA -- Il conto della banda d'Igor (Domenico Ciampoli) -- Detto della campagna d'Igor (Leone Pacini Savoj) -- "Il cantare delle gesta d'Igor" (Renato Poggioli) -- "L'epopea d'Igor" (Angiolo Danti) -- "Il cantare d'Igor" (Edgardo Saronne) -- "Il canto dell'impresa d'Igor" (Eridano Bazzarelli) --
Speranza
EPICA ANTICA RUSSA
CANTARE DELLE GESTA D'IGOR', DI IGOR' FIGLIO DI
SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG.
Non sarebbe forse meglio, o fratelli,
esordire in stile antico l'epica storia dell'impresa di Igor',
di Igor'
Svjatoslavič?
Che invece questo canto cominci secondo i fatti del nostro
tempo,
e non secondo la fantasia di Bojan!
Ché il sapiente Bojan, se per
qualcuno voleva cantare un canto,
s'effondeva come pensiero per gli alberi,
correva per la terra come lupo grigio,
volava sotto le nubi come aquila
azzurra.
Rievocava, diceva, le battaglie dei tempi andati.
Lanciava allora
dieci falchi su un branco di cigni, e quello che ghermiva per primo,
intonava un
canto in onore dell'antico Jaroslav,
per l'ardito Mstislav che sgozzò Rededja
davanti alle schiere circasse, e per il bel Roman Svjatoslavič.
Ma Bojan, o
fratelli, non dieci falchi lanciava contro il branco di cigni:
ma posava le sue
dita stregate sopra le corde viventi e quelle da sole
cantavano ai principi
gloria.
Cominciamo dunque, o fratelli, questo racconto dall'antico Vladimir
all'odierno Igor', il quale temprò la mente con la volontà, infiammò il cuore
con il coraggio e, ricolmo di spirito guerriero, condusse le sue valorose
schiere in terra polovesiana, oltre la terra russa.
Alzò Igor' lo sguardo al
sole lucente e vide che da esso una tenebra promanava ad avvolgere i suoi
guerrieri.
E disse Igor' alla družina: «Fratelli e družina, è meglio morire
che essere fatti prigionieri. Montiamo perciò, o fratelli, sui nostri veloci
destrieri per ammirare l'azzurro Don!»
.S'infiammò al principe il cuore per
il desiderio di guerra e la brama di gustare [l'acqua] del grande Don gli rese
oscuro il presagio.
Disse: «Con voi, o Russi, voglio spezzare la mia lancia
sul confine del campo polovesiano; sono pronto a sacrificare la testa, pur di
gustare nell'elmo [l'acqua] del Don».
O Bojan, usignolo del tempo antico!
Fossi tu a celebrare queste imprese, saltando, o usignolo, in pensiero tra gli
alberi, volando con la mente sotto le nubi, congiungendo le due metà della
gloria dei nostri tempi, percorrendo il sentiero di Trojan, attraverso i campi e
verso le montagne!
A un tuo allievo toccherebbe invece intonare questo canto
per Igor': «Non la tempesta ha portato i falchi attraverso le ampie distese:
stormi di cornacchie fuggono verso il grande Don».
Invece così avresti dovuto
cantare, o profetico Bojan, nipote di Veles:
«I cavalli nitriscono oltre la
Sula, risuonano inni di gloria a Kiev, squillano le trombe a Novgorod, si
rizzano gli stendardi a Putivl'!»
Igor' aspetta Vsevolod, il caro fratello.
E gli disse Vsevolod, Toro Impetuoso:
«Mio solo fratello, mia sola luce
lucente, o tu, Igor'! Siamo entrambi figli di Svjatoslav!
«Sella, fratello,
i tuoi veloci destrieri, ché i miei son già pronti, sellati per te nei pressi di
Kursk. Per te, i miei esperti guerrieri kuriani, al suono delle trombe fasciati,
sotto gli elmi cullati, sulla punta della lancia allattati. A loro son note le
piste, conosciute le gole. Hanno gli archi ben tesi, aperte le faretre, le
sciabole affilate. Corrono nel campo come lupi grigi, per sé onore cercano e per
il principe gloria!»
Allora montò il principe Igor' sulla staffa d'oro e
galoppò nel campo aperto.
Il sole gli sbarrò il cammino di tenebra. La notte
gemette tempesta, risvegliando gli uccelli. Si levò l'ululato ferino delle
belve. Gridò Div dall'alto di un albero, affinché lo udisse la terra straniera:
la Vol'ga e il litorale di Crimea, e Surož, e la terra oltre la Sula, e il
Chersoneso, e te, grande idolo di Tmutorokan'!
I Polovcy fuggono per ignoti
sentieri verso il grande Don. Stridono i carri nella notte, come cigni
atterriti. Igor' conduce la schiera verso il Don.
Ma per sua sciagura
dall'alto delle querce lo guatano gli uccelli. Nei dirupi ululano i lupi alla
tempesta, le aquile stridono chiamando le belve al banchetto, ganniscono le
volpi contro gli scudi scarlatti.
Sei già oltremonte, terra di Rus'!
A
lungo s'abbuia la notte. L'alba si accende di luce. La nebbia ricopre i campi.
Si è assopito il trillo degli usignoli, il gracchiare delle cornacchie si è
destato.
Con gli scudi scarlatti i Russi ricoprono campi immensi, cercando
per sé onore e per il principe gloria.
All'alba di venerdì, travolsero le
orde pagane dei Polovcy e, spargendosi come frecce per il campo, rapirono le
belle fanciulle polovesiane, e presero oro, e sete e preziosi broccati. E con
mantelli, gualdrappe e pellicce, con ogni gemmato tessuto polovesiano si misero
a gettar ponti su paludi e fangosi pantani.
Rosso stendardo, bianco
gonfalone, vessillo scarlatto, argentea insegna per il prode figlio di
Svjatoslav!
Dorme nel campo l'ardito nido di Oleg, si è involato lontano! Ma
non era nato per subire l'offesa del falco, né quella dello sparviero, né la
tua, nero corvo, infedele polovesiano!
Corre Gzak, come lupo grigio, Končak
gli traccia il cammino verso il grande Don.
L'indomani, sul presto, un'aurora
di sangue annuncia la luce. Nere nubi avanzano dal mare, vogliono oscurare i
quattro soli, dentro vi fremono vivide saette. Dovrà scoppiare una possente
tempesta, dovrà scrosciare una pioggia di frecce dal grande Don! Qui le lance si
spezzeranno, andranno in pezzi le spade contro gli elmi polovesiani, sul fiume
Kajala, presso il grande Don!
Sei già oltremonte, terra di Rus'!
Ecco i
venti, nipoti di Stribog, soffiano le frecce dal mare contro la schiera valorosa
di Igor'. Rintrona la terra, scorrono torbidi i fiumi, la polvere copre i campi,
gridano gli stendardi:
.«Avanzano i Polovcy dal Don, dal mare e da ogni dove,
le schiere russe sono circondate. I figli di Běs riempiono di grida la steppa, i
valorosi Russi gli sbarrano il passo con gli scudi scarlatti!»
O Vsevolod,
Toro Impetuoso! Piantato in difesa, tu rovesci le frecce contro i nemici, fai
rintronare sugli elmi le spade di acciaio brunito.
Dovunque tu balzi, col
tuo splendido elmo d'oro, là cadono le teste pagane dei Polovcy, dalla tua
sciabola son frantumati gli elmi àvari. Per opera tua, Vsevolod, Toro
Impetuoso!
Che importano le ferite, fratelli, a colui che sprezzò onori e
ricchezze, l'aureo trono del padre nella rocca di Černigov, e l'amore e le
carezze della sposa diletta, la bella Glebovna?
. Sono lontani i tempi di
Trojan, lontani gli anni di Jaroslav: ci furono le imprese di Oleg, Oleg
Svjatoslavič. Ché Oleg invero con la spada temprò la discordia, di frecce seminò
la terra.
Saliva Oleg sulla staffa d'oro, nella città di Tmutorokan', e ne
udiva il suono [il figlio dell']antico, grande Jaroslav, mentre il figlio di
Vsevolod, Vladimir, a Černigov si turava le orecchie.
La brama di gloria
trasse Boris Vjačeslavič al giudizio e sul Kanin gli fu steso un verde sudario
per l'offesa arrecata ad Oleg, valente e giovane principe.
Così dal fiume
Kajala ordinò Svjatopolk che il padre suo fra destrieri ungheresi fosse portato
a Santa Sofia in Kiev.
Al tempo di Oleg Gorislavič, il figlio di Malagloria,
si seminavano e crescevano le discordie, periva la potenza dei nipoti di Daž'bog
e nelle contese dei principi si accorciava la vita alla gente.
Di rado il
contadino cantava nell'arare la terra: più spesso i corvi gracchiavano
contendendosi tra loro i cadaveri e nella loro lingua le cornacchie si
chiamavano per invitarsi al banchetto.
Questo accadeva in quelle guerre e in
quelle campagne, ma di una simile impresa mai s'era udito parlare!
Dall'alba
alla sera, dalla sera all'alba, volano frecce temprate, scrosciano sciabole
contro elmi, crepitano lance di acciaio brunito, nel campo straniero, nella
terra polovesiana.
Sotto gli zoccoli la nera terra è seminata di ossa,
irrigata di sangue. Con dolore nel campo sono periti in nome della terra di
Rus'.
.Qual strepito io sento, che cosa risuona lontano, prima dell'alba?
Igor' volge indietro le schiere, ha pietà di Vsevolod, il caro fratello!
Combatterono un giorno, combatterono il secondo, il terzo giorno al meriggio
caddero le insegne di Igor'.
Qui si separarono i fratelli, sulla riva del
rapido Kajala. Qui più non bastava il vino di sangue e misero fine al banchetto
i bravi guerrieri: diedero da bere ai compagni e caddero per la terra di
Rus'.
Si piega l'erba per il dolore, a terra per il dolore si chinano gli
alberi!
Perché ormai, o fratelli, è sorto il tempo del dolore e la steppa ha
sopraffatto le schiere! Perché la sconfitta si è levata sulle schiere del nipote
di Daž'bog; come una fanciulla è sorta sulla terra di Trojan e ha agitato ali di
cigno sul mare nemico, presso il Don; battendo le ali ha disperso i tempi
dell'abbondanza.
È venuta meno la lotta dei principi contro i pagani, ché
disse il fratello al fratello: «Questo è mio ed anche questo è mio!» Di ogni
piccola cosa i principi dicevano «è grande!», forgiando tra loro la discordia.
Intanto i pagani giungevano da ogni dove, vittoriosi in terra russa.
Oh,
lontano s'involò il falco, sterminando gli uccelli fino al mare!
Più non
risorgerà l'ardita schiera di Igor'!
Dietro di lei gridò il dolore, e il
pianto corse per la terra russa, agitando il fuoco nel funebre
corno!
Proruppero in lacrime le donne russe nel dire: «A noi ormai i cari
sposi più non è dato né in pensiero pensare, né in idea ideare, né con gli occhi
guardare, né oro e argento con la mano sfiorare».
E gemette, fratelli, Kiev
nel dolore, e Černigov nell'avversità. L'afflizione corse sulla terra di Rus',
una grande mestizia si sparse nella terra di Rus'. E mentre i principi
forgiavano tra loro le discordie, i pagani irrompevano vittoriosi nella terra
russa, esigendo un tributo ad ogni focolare.
Questi due prodi Svjatoslaviči,
Igor' e Vsevolod, ridestarono l'ostilità: quell'ostilità che il terribile gran
principe di Kiev, il loro signore Svjatoslav, aveva a suo tempo assopito con la
forza. Quale tempesta, aveva fatto tremare i pagani con le sue possenti schiere;
con spade di acciaio brunito si era inoltrato in terra polovesiana, aveva
calpestato colline e dirupi, resi torbidi torrenti e paludi, strappato come un
turbine il pagano Kobjak dall'arco del mare, dalle ferree orde polovesiane. Ed
era stato trascinato Kobjak nella città di Kiev, fin nella vasta sala di
Svjatoslav.
E ora i Tedeschi e i Veneziani, i Greci e i Moravi cantano gloria
a Svjatoslav ma compiangono il principe Igor', che ogni ricchezza ha sprofondato
nel Kajala, nel fiume polovesiano l'oro russo ha disperso.
Qui il principe
Igor' è smontato dalla sella d'oro ed è salito su quella del prigioniero. Triste
fu la gente. Sui bastioni delle città venne meno la gioia.
Intanto Svjatoslav
ebbe un sogno confuso:
«Nella rocca di Kiev, questa notte, mi rivestivano sul
far della sera di un nero sudario sopra un letto di tasso, mi mescevano vino
fosco mescolato a dolore, dalle vuote faretre dei traduttori pagani una grossa
perla lasciavano sul mio petto cadere.
«E cantano il lamento per me. Già
hanno tolto la trave centrale nel mio terem dalla cupola d'oro!
«Sin dalla
sera, per tutta la notte, hanno gracchiato i corvi demoniaci nelle paludi di
Plesensk: venivano da Kisan' e verso il fosco mare volavano».
E dissero i
bojari al principe: «Già il dolore, o principe, ha serrato la tua mente, ché i
due falchi sono volati lontano dal trono d'oro del padre, a conquistare la città
di Tmutorokan' o per bere con l'elmo l'acqua del Don. Già le ali ai due falchi
tarparono le sciabole polovesiane ed essi con catene di ferro furono
avvinti.
«Il terzo giorno vinse la tenebra, i due soli si oscurarono, si
spensero le due colonne di porpora; e con loro le due giovani lune Oleg e
Svjatoslav si avvolsero di tenebre, scomparvero nel mare e dettero gran tripudio
alla gente nemica.
«Sul fiume Kajala l'ombra ha coperto la luce e si
sparsero i Polovcy come una cucciolata di ghepardi.
«Già il disonore ha
sommerso la gloria, la schiavitù ha schiacciato la libertà, già Div è piombato
sulla terra di Rus' e le belle fanciulle dei Goti cantano sulle rive del mare:
cantano i tempi di Bus, celebrano la vendetta di Šarokan. Ma noi, o družina,
siamo privi di gioia!»
Allora il grande Svjatoslav proruppe in un aureo
discorso mescolato col pianto:
«O miei pupilli, Igor' e Vsevolod! Troppo
presto cominciaste a offendere con la spada la terra polovesiana, in cerca di
gloria: ma nel disonore vi siete battuti, nel disonore avete versato il sangue
pagano.:
«I vostri cuori arditi sono forgiati in acciaio crudele e nel
furore temprati. Perché avete fatto questo alla mia canizie d'argento?
«Più
non vedo il forte potere, le ricchezze e le schiere del fratello mio Jaroslav,
con i nobili di Černigov, i Moguti, i Tatrani, gli Šelbiri, i Topčaki, i Revughi
e gli Olberi. Costoro senza scudi, coi soli pugnali, gridando sbaragliano le
schiere, facendo risuonare la gloria degli avi.
«Ma voi diceste: combattiamo
da soli, da soli dividiamo la gloria futura e la passata supereremo! Ma non è
forse strano, o fratelli, che il vecchio ringiovanisca? Quando un falco muta le
penne, in alto caccia gli uccelli, né lascia che saccheggino il suo nido. Ma
ecco il male: i principi non mi vengono in aiuto e il tempo si è volto in
sciagura.
«Ecco che a Rimov gridano sotto le spade polovesiane, e Vladimir
piange per le ferite: dolore e angoscia al figlio di Gleb!»
. Gran principe
Vsevolod! Non dovresti accorrere da lontano solo col pensiero a difendere il
trono d'oro del padre! Tu solo puoi battere coi remi la Vol'ga e attingere con
l'elmo l'acqua del Don! Se tu fossi stato qui, o principe, le schiave si
venderebbero a un soldo e gli schiavi a un centesimo! Perché tu puoi lanciare
vive lance di fuoco, con gli arditi figli di Gleb!
O tu, impetuoso Rjurik, e
tu, Davyd! Non sono stati i vostri ardenti guerrieri a nuotare nel sangue fino
agli elmi d'oro? Non sono stati i vostri valorosi eserciti a ruggire come tori
selvaggi, straziati da sciabole temprate, in terra straniera? Salite, o signori,
sulla staffa dorata, per vendicare l'offesa di questo tempo, per la terra di
Rus', per le ferite di Igor', valoroso figlio di Svjatoslav!
Jaroslav
dall'ottuplice pensiero, principe di Galič! Alto siedi sul tuo trono dorato e
reggi i monti ungheresi con le tue schiere ferrigne, e al re magiaro sbarri la
strada, chiudendo le porte al Dunaj, scagliando macigni oltre le nubi,
amministrando la giustizia fino al Dunaj. Scorrono le tue minacce per le terre,
tu apri le porte di Kiev; dall'aureo trono paterno tu frecci i sultani oltre le
terre; folgora dunque, o signore, anche il pagano Končak! Per la terra di Rus',
per le ferite di Igor', valoroso figlio di Svjatoslav!
E tu impetuoso Roman,
e tu Mstislav! Ardimento e passione conducano la vostra mente all'impresa!
In alto levato nell'intrepida impresa, come falco che si libra sui venti, quando
nel suo furore attacca gli altri uccelli. Avete corazze di ferro sotto gli elmi
latini. Per esse tremò la terra e molti popoli: Unni e Lituani, Jatvinghi e
Deremeli, Finni e Polovcy: gettarono i loro giavellotti e chinarono il capo
sotto queste spade d'acciaio.
Ma ormai, o principe, per Igor' si è spenta la
luce del sole mentre all'albero tristi son cadute le foglie: lungo la Ros' e la
Sula i nemici si son spartiti le città, ma più non risorgerà l'ardita schiera di
Igor'!
Il Don ti invoca, o principe, e chiama i principi alla riscossa. Ma
gli Olgoviči, valorosi principi, non sono più sul piede di guerra...
Ingvar'
e Vsevolod, e tutti e tre voi, figli di Mstislav! Serafini dalle sei ali di non
ignobile nido! Non per vittorie fratricide diventaste signori dei vostri domini!
Dove sono i vostri elmi dorati e le spade polacche e gli scudi? Sbarrate le
porte alla steppa con le frecce puntute, per la terra di Rus', per le ferite di
Igor', valoroso figlio di Svjatoslav!
Più non scorre la Sula coi suoi flutti
d'argento per la città di Perejaslavl', né la Dvina paludosa per la città di
Polock, ma sotto il grido di guerra pagano! Solo Izjaslav figlio di Vasil'ko
fece risuonare le spade affilate contro gli elmi lituani superando la gloria
dell'avo Vseslav!
E cadde egli stesso sotto gli scudi scarlatti, falciato
sull'erba insanguinata dalle spade lituane. E disse, come con la sposa sul letto
nuziale: «La tua družina, o principe, coprirono gli uccelli con le ali e le
fiere ne leccarono il sangue».
Né c'era colà il fratello Brjačislav, né
l'altro fratello Vsevolod. Da solo, l'anima di perla esalò dal fiero corpo,
attraverso l'aurea collana. Divennero meste le voci, venne meno la gioia.
Piangono le trombe a Gorodec.
O figli di Jaroslav e voi tutti nipoti di
Vseslav! Tempo è di abbassare le insegne e di riporre nel fodero le logore
spade. Già vi siete allontanati dalla gloria degli avi! Voi, con le vostre
contese, cominciaste a far venire i pagani nella terra di Rus', sui possedimenti
di Vseslav. Per le lotte intestine si scatenò la violenza dalla terra
polovesiana!
Nella settima età di Trojan, gettò Vseslav le sorti per la
fanciulla che tanto desiderava. E promettendo astutamente i cavalli, volò fino
alla città di Kiev e con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev.
Subito
balzò lontano da Kiev, come belva feroce correndo a mezzanotte da Belgorod,
ammantato di azzurra bruma.
.Al mattino conficcò le asce, aprì le porte di
Novgorod e distrusse la gloria di Jaroslav. Balzò qual lupo da Dudutki fino al
fiume Nemiga. E là sulla Nemiga fanno covoni di teste, trebbiano con catene di
ferro, gettano le vite sull'aia, vagliano le anime dai corpi.
.In tristo modo
furono seminate le sponde insanguinate della Nemiga, furono seminate con le ossa
dei figli di Rus'.
. Il principe Vseslav amministrava la giustizia, e
governava i principi delle città, nella notte però galoppava come lupo, prima
del canto del gallo correva da Kiev fino a Tmutorokan' e tagliava la strada al
grande Chors.
Per lui suonavano a mattutino le campane di Santa Sofia a
Polock ed egli a Kiev ne udiva i rintocchi.
Benché avesse un cuore di
stregone in quel doppio corpo, nondimeno patì sventure.
Per lui il vate Bojan
per primo proferì queste parole: «Né all'astuto, né al sapiente, né all'esperto
stregone è dato sfuggire il giudizio di Dio».
Oh, pianga la terra di Rus'
ricordando gli anni passati e i principi di una volta!
Quell'antico e saggio
Vladimir, impossibile inchiodarlo nel suo palazzo tra i colli di Kiev. I suoi
stendardi sono oggi quelli di Rjurik e quelli di Davyd: ma disgiunti sventolano
i drappi, le une contro le altre cantano le lance!
Si ode sul Dunaj la voce
di Jaroslavna, piange al mattino qual gabbiano solitario: «Volerò come un
gabbiano lungo il Dunaj, nel Kajala bagnerò la mia manica di castoro e al
principe tergerò le sanguinose ferite sul suo corpo possente».
Sul far
dell'alba piange Jaroslavna sul bastione di Putivl' dicendo: «O vento,
venticello! Perché, signore, soffi nemico? Perché porti le frecce unne sulla tua
ala leggera contro i guerrieri del mio sposo? Non ti bastava in alto, sotto le
nubi soffiare, cullando le navi sull'azzurro mare? Perché, signore, sull'erba
della steppa hai dissipato la mia gioia?»
Sul far dell'alba piange Jaroslavna
sul bastione di Putivl' dicendo: «O Dnepr, figlio dello Slovuta! Hai
attraversato i monti di pietra passando per la terra polovesiana. Hai portato su
di te le navi di Svjatoslav fino al campo di Kobjak. Porta, signore, fino a me
il mio sposo, perché io non gli mandi le mie lacrime sul far del
mattino».
Sul far dell'alba piange Jaroslavna sul bastione di Putivl'
dicendo: «O sole lucente, tre volte lucente. Sei per tutti così caldo e bello!
Perché, signore, hai disteso il tuo raggio ardente contro i guerrieri del mio
sposo, perché nell'arido campo i loro archi hai allentato, i loro turcassi
serrato?»
S'increspa il mare di mezzanotte, avanzano turbinando le nuvole, al
principe Igor', un dio indica la strada dalla terra polovesiana alla terra
russa, dov'è il trono d'oro degli avi. I bagliori del tramonto si sono
spenti.
Igor' dorme. Igor' veglia. Igor' misura col pensiero la terra dal
grande Don al piccolo Donec.
A mezzanotte Vlur fischia chiamando i cavalli
oltre il fiume. Intima al principe di prepararsi.
Il principe Igor' non c'è
più!
..Grida, rintrona la terra, fruscia l'erba! C'è agitazione tra i carri
polovesiani.
Fugge intanto il principe Igor', ermellino tra i canneti, bianca
anatra sull'acqua, balza sul veloce destriero e da esso salta giù come lupo
grigio, corre fino alla valle del Donec, volando come un falco sotto le nubi,
strage di oche e cigni facendo per colazione, pranzo e cena.
.Se Igor' volava
come falco, trottava Vlur come lupo, scuotendo di dosso la gelida rugiada. E
sfiancarono i veloci destrieri.
Disse il Donec: «O principe Igor'! Non
piccola è la tua gloria, mentre a Končak vergogna e gioia alla terra di
Rus'!»
Igor' disse: «O Donec, non piccola è la tua gloria, per aver cullato
il principe sulle tue onde, avergli steso erba verde sulle tue sponde d'argento,
averlo avvolto di calde brume sotto un albero verde, per averlo vegliato come
un'anatra sull'acqua, come un gabbiano sull'onda, come una folaga nel
vento!
«Non così» disse, «il fiume Stugna che con scarsa corrente, dopo aver
superato gli altri ruscelli e torrenti, si apre verso la foce. Il principe
Rostislav inghiottì nel suo fondo. Presso la buia riva, piange la madre di
Rostislav, piange la madre del giovane principe Rostislav, intristiti
appassiscono i fiori, per l'angoscia si piegano gli alberi a terra.»
Non sono
state le gazze a gracchiare, ma Gzak e Končak che inseguono il principe Igor'.
. Non gracchiano i corvi, tacciono le cornacchie, non strillano le gazze.
Solo strisciano i serpi. E i picchi coi colpi del becco indicano la direzione
del fiume. Con canti gioiosi gli usignoli annunciano l'alba.
Dice Gzak a
Končak: «Se il falco vola al nido, il giovane falco frecceremo con le nostre
frecce d'oro.»
Dice Končak a Gzak: «Se il falco vola al nido, il falchetto
incateneremo con una bella fanciulla.»
E dice Gzak a Končak: «Se lo
incateneremo con una bella fanciulla, a noi poi non rimarrà né il falchetto né
la bella fanciulla, allora cominceranno ad abbattere i nostri uccelli nella
distesa polovesiana».
Così disse Bojan nel cantare le imprese dei figli di
Svjatoslav, Bojan il cantore dei tempi passati, di Jaroslav e di Oleg e della
sposa del kagan':
«È doloroso per te, o testa, senza il corpo, ed è pesante
per te, o corpo, senza la testa».
Così per la terra di Rus' senza
Igor'.
Il sole splende in cielo, il principe Igor' è in terra di
Rus'.
Cantano le fanciulle sul Dunaj, intrecciano le voci dal mare fino a
Kiev.
Igor' scende per la via di Boričev fino a Nostra Signora della Torre.
Le province sono felici, le città liete.
Abbiamo intonato un cantico ai
vecchi principi, ora ai giovani si deve cantare: «Gloria a Igor' Svjatoslavič, a
Vsevolod Toro Impetuoso, a Vladimir Igorevič!»
Salute ai principi e alla
družina, che si battano per i Cristiani contro le schiere pagane.
Gloria ai
principi e alla družina!
Amen.
Poema epico del medioevo slavo-orientale, il «Canto della schiera d'Igor», secondo uno dei possibili modi di sciogliere l'ambiguità del titolo, ha
per argomento la tragica sconfitta di un esercito russo avvenuta nel 1185 ad
opera dei Polovesiani o Cumani, un popolo di origine
turanica, stanziato a nord del Mar Nero.
Scritto forse poco dopo la disfatta, il canto si staglia quasi
come un unicum nella letteratura russa, in una prosa ritmica,
straordinariamente ricca di allitterazioni, metafore, ambiguità testuali.
Un'altissima poesia, coincisa, evocativa, fatta di immagini tumultuose,
s'intreccia con dolenti riflessioni sulla situazione politica della Rus'
kievana, dominata dalle lotte intestine tra i principi, sulla conquista del
potere e sui cinici meccanismi dell'arte del governo e della diplomazia.
Spiccano indimenticabili sprazzi di umanità: per quanto
ingigantiti dall'esagerazione epica, le emozioni dei personaggi fremono e
vibrano su tutte le corde della natura umana.
La sete di gloria, l'eroismo, la
nostalgia, la disperazione, il cordoglio, emergono prepotenti sullo sfondo di un
ambiente naturale che sembra accordarsi, come in un romanzo d'appendice, alle
emozioni dei personaggi. I colori si accendono ora di luce, ora si fanno foschi
e gravidi di presagi.
Il testo risente moltissimo – anche se forse soltanto per
aderenza a un tipo di poesia epica – dell'antico spirito pagano: le forze della
natura sono vive e titaniche; il principe Igor' può dialogare possentemente con
il fiume Donec e la mesta Jaroslavna può effondere il suo lamento al sole e al
vento.
La poesia trasfigura eroi e cantori in lupi e in falchi, e quelle che
sembrano similitudini poetiche sono forse l'eco di antiche concezioni venate di
sciamanesimo.
Non mancano neppure preziosi riferimenti alle antiche divinità
russe a rendere lo Slovo di valore
inestimabile per lo studioso di mitologia slava.
La storia dello Slovo o pŭlku Igorevě
inizia nel 1791, quando un c erto vescovo Joil', ultimo archimandrita del
monastero, allora chiuso, della città di Jaroslavl', ad est di Mosca, vendette
una serie di antichi volumi al procuratore supremo del Sinodo Ecclesiastico, il
cavaliere conte Alessandro Ivanovič Musin-Puškin antiquario di
notevole erudizione e appassionato collezionista di testi antichi.
Slovo o pŭlku Igorevě
Frontespizio della prima edizione russa
(1800)
Uno di questi volumi, un codice in folio del XVI s ecolo, registrato
con la segnatura N° 323, consisteva in una raccolta manoscritta comprendente un
certo numero di testi diversi.
A quanto afferma lo stesso conte Musin-Puškin, esso
riportava, tra le altre, cose, il Chronograf
(una cronaca che raccoglieva le origini delle stirpi reali di molti paesi,
tratti dalle Sacre Scritture, da autori classici, e da cronisti russi, serbi e
bulgari), il V remennik o «Libro del tempo»
(una cronaca sui principi russi), il Devgenievo dejanie
(una traduzione russa del poema cavalleresco bizantino Digenḗs Akrítas) e, naturalmente, "Il canto della schiera d'Igor, duca".
Sicuramente il vescovo Joil' neppure sospettava che il codice contenesse lo
Slovo.
E non si sa esattamente nemmeno quando il conte
Musin-Puškin riconobbe la rarità o l'eccezionale pregio dell'opera.
Non sappiamo
neppure se fu il conte a scoprirla, come egli stesso dichiarò poi, o se fu
invece qualche suo collaboratore.
La prime indiscrezioni apparvero sulla rivista
Zritel', lo «Spettatore», di San Pietro Burgo.
Ed è probabilmente del 1795
o 1796 la copia che Musin-Puškin inviò in dono alla carica Ekaterina II
Alekseevna.
L'imperatrice EKATERINA II morì di lì a poco (1796).
La sua copia del poema andò
smarrita, per essere poi ritrovata nel 1864 dallo storico della letteratura Pëtr
Pekarskij.
Un'altra copia dello Slovo dovette
pervenire al poeta Michail Matveevič Cheraskov (1733-1807), amico del conte
Musin-Puškin, in quanto troviamo reminescenze igoriane in un poema da questi
composto, il Vladimir, pubblicato nel 1797
(Bazzarelli 1991).
La notizia ufficiale del ritrovamento dello Slovo fu data solo nell'ottobre del 1797, sulle
pagine della rivista di Amburgo Le spectateur du Nord.
Commentando la
notizia, lo scrittore Nikolaj Michajlovič Karamzin paragona
l'epopea igoriana ai poemi di Ossian, «scoperti» nel 1761 da James
Macpherson.
Il lavoro sistematico di preparazione del testo dello Slovo per la stampa, nonché di traduzione e
commento, venne affidato da Musin-Puškin a due filologi, esperti c onoscitori del
mondo antico-russo: Nikolaj Nikolaevič Bantyš-Kamenskij, e l'allievo di questi,
Aleksej Fedorovič Malinovskij.
Nel 1800 usciva così a Mosca, per i tipi della
Tipografia del Senato, la prima edizione dello Slovo o
pŭlku Igorevě.
Ed è questa l'unica versione del testo che ci sia
rimasta, oltre alla copia per Ekaterina II, che poco si discosta da essa.
Nel
1812, infatti, il prezioso manoscritto conservato nella biblioteca del conte
Musin-Puškin andò bruciato o distrutto nel corso del famoso incendio di Mosca,
scoppiato – come ben sanno i lettori di Tolstoj – durante l'occupazione
napoleonica.
Subito dopo la scomparsa del manoscritto originale, alcuni
critici espressero dubbi sull'autenticità dello Slovo o
pŭlku Igorevě, giudicandolo un falso, proprio nello stile dei celebri
canti ossianici di Macpherson, in realtà apocrifi.
Nacquero così due correnti, o
piuttosto due partiti critici:
da una parte gli scettici, dall'altra i
sostenitori dell'autenticità del manoscritto.
Tra i detrattori ebbero notevole
influenza il giornalista russo-polacco Józef Sękowski,
insigne linguista e orientalista, e anche un professore di storia russa, certo
Michail Trofimovič Kačenovskij (1775-1842), il quale riteneva che più o meno
tutte le opere della letteratura antico-russa fossero dei falsi.
Quali autori
materiali della falsificazione, furono indicati lo stesso Musin-Puškin, oppure
scrittori come Aleksandr Sulakadzev o Anton Ivanovič Bardin (quest'ultimo
specializzato nella produzione di falsi manoscritti da vendere agli antiquari,
tra cui a onor del vero bisogna annoverare anche alcuni apocrifi dello stesso
Slovo).
Nella querelle non erano
estranei degli elementi di orgoglio nazionale, cosicché ritenere lo Slovo un falso suscitava l'idea di scarso
patriottismo.
La discussione si sarebbe protratta nel tempo e avrebbe avuto un
lungo strascico nel periodo sovietico. (Bazzarelli
1991)
Nel 1852, il filologo Vukol Michajlovič Undolskij (1816-1864)
pubblicò un poema epico, da lui stesso rinvenuto in un manoscritto del XVII
secolo: la Zadonščina o «Battaglia oltre il
Don», in cui si narrava la vittoria del principe Dmitrij Donskoj sui Tartari del
qān Mamaj, avvenuta nel campo di Kulikovo nell'anno 1380.
La scoperta di
Undolskij sembrò dirimere definitivamente la disputa.
Dal momento che alcuni
passi della Zadonščina mostravano una chiara
influenza delloSlovo, si ritenne che l'autore
di questo poema – un certo Sofonij di Rjazan' – si fosse ispirato allo Slovo per costruire le sue immagini poetiche.
Attestata solo in tardi manoscritti, la Zadonščina era considerata quasi «uno Slovo rovesciato e rimodernato».
Sette anni più tardi, tuttavia, venne rinvenuta una versione
della Zadonščina in un documento risalente al
XV secolo, più antico dello scomparso manoscritto dello Slovo di Musin-Puškin.
La nuova scoperta portò a un
rovesciamento nei termini del problema, e alcuni studiosi cominciarono a pensare
che, al contrario, fosse lo Slovo ad essere
stato scritto a imitazione della Zadonščina.
(Picchio 1968 | Picchio 2002)
Tra i maggiori fautori di questa teoria, lo slavista francese
André Mazon (1881-1967), in una serie di saggi pubblicati tra il 1938 e il 1944,
cercò di dimostrare che lo Slovo fosse un
falso letterario della fine del XVIII secolo, costruito a partire dalla Zadonščinae dal Se pověsti
vremjanĭnychŭ lětŭ, la «Cronaca degli anni passati».
Tale idea ebbe i
suoi estimatori, tra cui lo storico russo Aleksandr Aleksandrovič Zimin
(1920-1980).
Di avviso contrario, tuttavia, la maggior parte degli studiosi, t ra
cui Evgenij Aleksandrovič Ljackij (1868-1942), Roman Jakobson
e Dmitrij Sergeevič Lichačëv (1906-1999), i quali hanno sottolineato
tali e tante evidenze linguistiche, filologiche e storiche che oggi non si può
più dubitare che il testo dello Slovo o pŭlku Igorevě
sia proprio della fine del XII secolo. (Saronne
1988)
In effetti, a parte il fatto che lo Slovo contiene riferimenti a una realtà storica,
culturale e linguistica che non poteva essere nota alla fine del XVIII secolo,
sembra assai improbabile ritenere che, i spirandosi ad un poema poco più che
mediocre, la Zadonščina, dove si canta una
gloriosa vittoria contro i Tartari, uno sconosciuto contraffattore avesse deciso
di raccontare piuttosto la storia di una sconfitta, peraltro contro nemici di
gran lunga meno temibili, fingendo strazio e amarezza di fronte a una Rus'
dilaniata dalle lotte intestine dei principi, e senza peraltro rinunciare a
scoccare frecciate ironiche.
L'ignoto autore avrebbe anche ovuto avere
l'intuizione di inserire dei riferimenti al paganesimo slavo, sicuramente ancora
vivo nel XII secolo, ma quasi del tutto assente nelle cronache e nelle opere
coeve, come nella stessa Zadonščina.
Infine,
avrebbe dovuto fare una ricostruzione straordinariamente accurata del
linguaggio, così da farlo parere arcaico al punto giusto.
Nonostante ciò, negli ultimi anni, altri studiosi si sono fatti
avanti a rivendicare, seppure con argomenti meno convincenti, il carattere
spurio dello Slovo.
Lo slavista americano
Edward Keenan ha recentemente sostenuto che lo Slovo sia un falso realizzato dal filologo e
nazionalista ceco Josef Dobrovský (1753-1829), assemblando e manipolando del
materiale autentico, in modo non diverso dalle altre opere apocrife «scoperte»
in Boemia tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento, poi rivelatesi
dei falsi, quali i manoscritti di Dvůr Králové e di Zelená Hora (Keenan 2003).
Viceversa, il linguista russo Andrej Zaliznjak
(1935-) ha mostrato che, solo alla fine del XX secolo, con la scoperta di altri
manoscritti antico-russi, si sono potute effettivamente attestare delle parole
presenti solo nello Slovo e in nessun altro
documento.
L'autore dello Slovo avrebbe dunque
dovuto re-inventare delle parole dimenticate, che solo due secoli dopo si
sarebbero rivelate pre-esistenti.
Inoltre, nessuno studioso del XVIII secolo
avrebbe potuto inoltre ricostruire, con tanta accuratezza, la grammatica
antico-russa dello Slovo, la sua particolare
sintassi e, in sintesi, l a profonda meccanica del linguaggio presente nel poema
(Zaliznjak 2004).
D'altra parte, già il semiologo
Jurij Michajlovič Lotman aveva mostrato come nello Slovo fossero assenti certi elementi linguistici
popolari nella letteratura arcaicizzante dell'epoca, tipo ad esempio il famoso «terra russa», diffusosi solo nel XIX secolo.
Se l'opera
fosse stata scritta alla fine del Settecento, espressioni come queste sarebbero
certamente entrati a farne parte. (Lotman 1962)
Queste e altre considerazioni portano a considerare lo Slovo un autentico poema del XII secolo, ed è questa
l'opinione comunemente accettata dalla maggior parte degli studiosi.
Un mero riassunto dello Slovo o pŭlku Igorevěrischia di non rendere la complessità e le stratificazioni del testo.
Che
lo Slovo sia un poema epico è dichiarato nel
titolo:
l'ambigua espressione antico-russa slovo o pŭlku
potrebbe essere
anche intesa come un calco semantico del francese chanson de geste.
La
trama è incentrato sull'episodio della spedizione di Igor' Svjatoslavič,
principe della città di Novgorod-Severskij, contro i Polovcy.
Tuttavia la
vicenda della disastrosa spedizione di Igor' sembra essere un pretesto: l
a trama
è sovente interrotta sia per riportare il punto di vista di personaggi esterni
alla vicenda principale (quali il discorso del gran principe Svjatoslav
Vsevolodovič, o il lamento di Evfrosina Jaroslavna), sia per permettere al poeta
di compiere un gran numero di digressioni storico-politiche.
Il nostalgico
ricordo dei tempi passati, in cui i principi russi erano uniti tra loro, si
alterna ad amare invettive nei confronti dei principi dell'epoca presente, il
cui egoismo e la cui sete di potere stanno frantumando la Rus'.
Il poeta
interrompe a tratti il racconto con invocazioni all'unità dei principi, o
celebrazioni dell'uno o l'altro signore.
Il vate Bojan (1910)
Dipinto di Viktor M.Vasnecov Particolare.
L'esordio è già una dichiarazione d'intenti.
Il poeta pone la domanda
retorica se declamare il suo poema epico al modo di un antico cantore chiamato
Bojan – al cui stile immaginifico erano evidentemente abituati nelle corti della
Rus' – o utilizzare parole più umili e dimesse. Sceglierà questa seconda via: in
fondo ciò che sta per narrare non è il racconto di una vittoria, ma di una
sconfitta.
Il racconto inizia con la descrizione dell'eclisse di sole del 1° maggio
1185.
Un'ombra cala dal cielo per avvolgere l'esercito russo, schierato dinanzi
al fiume Donec.
È un presagio funesto, che Igor', accecato dal suo desiderio di
gloria, decide però di ignorare.
Quest'immagine è un po' come il nucleo emotivo del poema.
In realtà, la partenza
da Novgorod-Severskij, avvenuta il 23 aprile, viene ricordata in un rapido
flash-back.
Nel frattempo, Igor' si è riunito con il fratello Vsevolod,
il quale ha con sé una schiera di guerrieri fedelissimi.
Fanno parte della
spedizione anche Svjatoslav Ol'govič, nipote del principe, e Vladimir Igorevič (TENORE),
suo figlio.
A essi, il poeta si riferirà
sovente come i «quattro soli». Chiuso il flash-back, ritorniamo all'eclisse.
Igor' dà il segnale per
la partenza, ma le tenebre gli s barrano la strada [17]. Gli elementi della natura sembrano ribellarsi
all'avanzata dei russi oltre il confine. Si alza il vento, ululano i lupi,
stridono le aquile [17-23]. Dopo una notte
precipitosa, all'alba i russi piombano sul campo polovesiano e lo depredano
[24-26]. La reazione non si fa attendere.
Il giorno
successivo, nuvole nere annunciano la tempesta e raffiche di vento, simili a
dardi, piovono sulla schiera di Igor'.
Gli eserciti polovesiani assaltano i
russi e inizia una tremenda battaglia [27-32]. Ne è
protagonista soprattutto Vsevolod, che il poeta dipinge come un eroe epico, una
sorta di bogatyr' travolto dall'ardore e dal furore dello scontro [33-35]. Vi è qui il primo inciso storico-politico dello Slovo.
Si parla del nonno di Igor', Oleg
Svjatoslavič, il quale partecipò alle lotte intestine tra principi, assoldando
come mercenari gli s tessi Polovcy.
È soprattutto alle sue discutibili imprese,
che il poeta fa risalire le cause dell'attuale situazione della Rus',
insanguinata e indebolita dalle discordie tra i principi, e per tale ragione lo
chiama, con un gioco di parole, Oleg Gorislavič, «figlio di
Malagloria». [36-42].
Dal passato al presente: la
battaglia tra le schiere di Igor' e i Polovcy si fa sempre più cruenta e dura
tre giorni interi, poi le insegne russe vengono abbattute. Igor' e Vsevolod si
separano, il principe viene preso prigioniero [43-47].
Il dolore e l'angoscia opprimono allora la terra
russa, le donne piangono gli uomini caduti, e i Polovcy, imbaldanziti dalla
vittoria, tornano a compiere scorrerie nella Rus' [48-54].
A questo punto, il punto di vista si sposta presso il gran principe
Svjatoslav Vsevolodovič, a cui il poeta dedica alcune parole di elogio per
avere, in passato, vinto i Polovcy [55-57].
Svjatoslav si è svegliato da un sogno angosciante, nel quale giaceva morto nel
suo palazzo di Kiev [58-65],e intraprende un «aureo discorso» [zlato slovo] in cui lamenta lo
sconsiderato orgoglio del principe Igor' e di suo fratello Vsevolod che, a causa
del loro desiderio di gloria, hanno vanificato tutti i suoi sforzi per
pacificare i Polovcy, riempiendo di dolore e lacrime la terra di Rus' [66-71]. Inizia qui una lunga digressione storica che occupa un intero quarto del
poema.
È un lungo lamento, ora attraversato da un poderoso soffio epico, ora
denso di retorica, sulla rovina della Rus', devastata dalle guerre intestine.
Insieme, vengono ricordate le imprese dei sovrani del passato e si esortano i
principi attuali a dimenticare le proprie discordie in nome del principe Igor'
[72-83]. Si ricorda, tra l'altro, Vseslav
Brjačislavovič, il principe-stregone di Polock, in grado di trasformarsi in
lupo, assetato più degli altri di potere e causa di sanguinose lotte intestine
[84-91].
Dal compianto generale per la Rus' [92-93], la scena passa, con geniale accostamento, al
lamento di Efrosina, figlia di Jaroslav di Galič e sposa di Igor', qui chiamata
semplicemente con il patronimico di Jaroslavna.
Ritta sul bastione di
Putivl', ella piange angosciata la sorte del marito prigioniero dei Polovcy.
La
donna immagina di volare come un cuculo verso il fiume Kajaly, per pulire le
ferite del principe, e si rivolge al vento, al fiume Dnepr, al sole,
rimproverandoli per non aver fatto nulla per salvare il suo sposo, ma chiedendo
loro aiuto e complicità. La scena è una delle vette liriche dello Slovo e, probabilmente, di tutta la letteratura
epica in generale. [94-97].
Nella notte, intanto, Igor' riesce a fuggire dal campo polovesiano, con la
complicità di un certo Vlur.
Igor' fugge come ermellino, poi come falco;
Vlur
corre in guisa di lupo [98-104].
Nel corso della
fuga, il principe si ferma a dialogare con il fiume Donec
[105-107].
Intanto, due guerrieri polovesiani, Gza e Končak, inseguono il
principe ma, non riuscendo a catturarlo, concludono che, a questo punto, non
resta loro che trattare la pace dando in sposa una bella fanciulla polovesiana a
Vladimir, figlio del principe. [108-112].
Dopo un ultimo accenno al cantore Bojan [113-115],
il poeta descrive il ritorno festoso di Igor' nella Rus'.
Il principe si reca a
Kiev, a rendere grazie a Dio nella chiesa della Santa Vergine della Torre [116-118].
Il poema si chiude con un'ultima celebrazione
che raccoglie insieme Igor', Vsevolod e Vladimir [119-122].
Dopo la battaglia del principe Igor' contro i Polovcy
(1880)
Dipinto di Viktor M.Vasnecov
Non conosciamo il nome dell'autore dello Slovo o pŭlku
Igorevě, ma si ritiene dovesse essere un uomo appartenente alla
cerchia del principe Igor', forse proprio un družinnik, un membro della
sua «schiera».
Di certo era contemporaneo agli avvenimenti descritti, e lo si
evince non solo per la profonda partecipazione ai fatti narrati, ma anche perché
alcune caratteristiche formali del testo – a partire dall'invocazione iniziale
«o fratelli» – fanno pensare a una composizione destinata ad essere declamata
dinanzi a un uditorio dotato di un preciso gusto dell'épos.
La
narrazione, fortemente ellittica, fatta di metafore, allusioni, e rapide
immagini che condensano in sé fatti assai articolati e complessi, fa pensare che
l'uditorio a cui si rivolge il poeta fosse già a conoscenza dei fatti narrati e,
anzi, fosse probabilmente composto dai protagonisti stessi della vicenda.
Gli studiosi hanno addirittura ipotizzato che lo Slovo
fosse stato composto in occasione delle nozze di Vladimir Igorevič,
figlio del protagonista, con la figlia del capo polovesiano Končak, matrimonio
politico destinato a sancire ancora una volta la pace tra i due popoli.
---------------- TENORE-MEZZOSOPRANO
A questo
matrimonio si fa riferimento, con una certa dose di ironia, nei vv. [110-112], nel dialogo tra Končak a Gzak, in cui si parla
appunto del «falchetto» (Vladimir) destinato a essere incatenato con una «bella
fanciulla» (la figlia di Končak) (Poggioli 1954 | Saronne
1988).
Troverebbero così spiegazione i molti incisi che sembrano
rivolgersi direttamente ai presenti.
Al principe Igor' innanzitutto, la cui
incauta spedizione è addirittura dipinta come una vittoria morale per la Rus'; a
suo fratello Vsevolod, dipinto come un eroe epico; e naturalmente allo stesso
Vladimir.
I tre personaggi vengono celebrati insieme nell'explicit, in
quello che sembra un vero e proprio augurio per il futuro:
Gloria a Igor' Svjatoslavič, a
Vsevolod Toro Impetuoso, a Vladimir Igorevič!
Salute ai principi e alla
družina, che si battano per i Cristiani contro le schiere
pagane.
Il poeta sembra poeta di corte, legato al piccolo principato di
Novgorod-Severskij.
Il fatto di appartenere a una realtà provinciale – lontana
dall'influenza della cultura letteraria ed ecclesiastica «centrale» – spiega
forse alcune delle eccentricità della sua opera, come ad esempio il riecheggiare
di motivi pagani o l'influenza dell'epica turanica.
Ma nonostante il poeta
celebri le glorie locali, e in particolar modo il principe Igor' e il suo
entourage, mostra una visione politica ampia e cosciente, lamentando a
più riprese gli scontri tra i principi russi, che indeboliscono il paese e lo
espongono alle invasioni dei nemici. L'autore è chiaramente un sostenitore del
potere centralizzato e uno dei destinatari dello Slovo – che lo ascolterà dalla voce degli
skomorochy – è certamente Svjatoslav III Vsevolodovič, gran principe di
Kiev, anch'esso opportunamente celebrato nell'opera [55-57], al cui sogno e al cui «aureo discorso» è dedicato
un importantissimo episodio del poema [58-71].
Ma il poema è rivolto anche ai principi della Rus', a cui il poeta si appella
in un lungo passo [72-83], esortandoli a chiudere i
loro scontri fratricidi e a unirsi contro i comuni nemici:
O figli di Jaroslav e voi
tutti nipoti di Vseslav! Tempo è di abbassare le insegne e di riporre nel fodero
le logore spade. Già vi siete allontanati dalla gloria degli avi! Voi, con le
vostre contese, cominciaste a far v enire i pagani nella terra di Rus', sui
possedimenti di Vseslav. Per le lotte intestine si scatenò la violenza dalla
terra polovesiana!
L'autore possiede una notevole forza poetica, sa disporre gli episodi in modo
suggestivo, usa la fantasia magica e l'immaginazione storica alternandole
sapientemente e infine riesce ad esporre il suo pensiero (la nostalgia per il
tempo passato e per la perduta unità dei principi) in modo assai accorato e
convincente. Ma nonostante abbia un'evidente ideologia di stampo feudale, sembra
a tratti condividere aspirazioni popolari.
Più volte esprime una sincera
compassione per la gente semplice, celebra il coraggio e l'audacia dei
guerrieri, si rattrista per le vedove che piangono i mariti caduti in battaglia,
racconta le sventure subite dal popolo dopo la sconfitta di Igor'.
Basta
leggersi il ritratto di Jaroslavna: la moglie di Igor', coi suoi sentimenti di
fedeltà, devozione, disponibilità al sacrificio, rappresenta i tratti migliori
delle donne russe. Ma se i fatti reali forniscono al nostro poeta sia il c anovaccio che gli eroi
dell'opera, il principale personaggio del poema resta la «terra russa», che è
terra non solo in senso materiale, ma come dimora di un popolo, col suo destino.
È terra soprattutto «viva», come testimoniano le descrizioni pittoriche della
natura, resa partecipe degli avvenimenti narrati: animali, alberi, fiori,
erba... sono come animati da sentimenti umani, dalla capacità di distinguere, di
parteggiare per il bene e di odiare il male, di avvisare gli uomini delle
sciagure incombenti e di partecipare con loro al dolore e alla
gioia.
Della storia precedente dello Slovo o
pŭlku Igorevě, di come un testo del XII secolo sia stato trasmesso a
un copista del XV-XVI secolo, non sappiamo nulla, né ovviamente sappiamo se vi
furono dei codici intermedi. Oltretutto il manoscritto Musin-Puškin è andato
perduto nel 1812. Impossibilitati ad utilizzare i moderni metodi paleografici, i
moderni studiosi sono costretti a fare ipotesi a partire dal testo a stampa del
1800 e dalla copia redatta per l'imperatrice Ekaterina II.
Questo rende
piuttosto arduo definire la storia del testo, con tutti i possibili
rimaneggiamenti che può aver subìto nelle sue varie fasi di trasmissione, anche
se al riguardo non mancano lavori di ricostruzione molto accurati, tra cui
quello fondamentale di Roman Jakobson (Jakobson 1948 |
Jakobson 1966).
Il poema non è di semplice interpretazione. I luoghi oscuri del
testo sono legioni, anche se la difficoltà a interpretarli contribuisce non poco
ad accrescerne il fascino. Al riguardo, c'è una smisurata letteratura critica.
Al di là della questione dell'autenticità, che oggi sembra definitivamente
chiusa, il lavoro di interpretazione non si è mai interrotto, man mano che nuovi
dettagli sulla cultura, la letteratura e la storia della Rus' kievana vengono
alla luce. Le ricerche storico-politiche (Lichačev
1950), la ricostruzione prosodica (Kolesov
1976), il puntuale confronto con il materiale iconografico (Rybakov 1984), le analisi semiotiche (Lotman 1962 | Lotman 1967) e linguistiche (Zaliznjak 2004), hanno aggiunto, nel corso degli anni,
tanti piccoli tasselli che ci hanno permesso di comprendere meglio il contesto
in cui è nato il poema e di gettare un po' di luce sui loci obscuri dello
stesso.
Non sono mancate, nel corso degli anni, anche interpretazioni
eterodosse. Com'è il caso dello scrittore e poeta kazako
Olžas Omarovič
Sulejmenov [Olžas Omarulı Sülejmenov] (1936-) il quale, nel suo libro Az i
Ja, ha sostenuto che molti dei loci obscuri dello Slovo possano essere risolti analizzando il poema
secondo un punto di vista turcofono. Ché il vocabolario dello Slovo comprendesse una componente orientale, era
stato già mostrato dal linguista tedesco Heinrich Karl Menges, più di venti anni
prima (Menges 1951). Ma Sulejmenov è andato oltre,
affermando – con un pizzico di sciovinismo – che lo Slovo stesso fosse stato composto in ambienti
turco-russi, o fosse addirittura l'adattamento russo di qualche poema turanico
(Sulejmenov 1975).
Inutile dire che l'ipotesi di
Sulejmenov è stata duramente osteggiata da parte del potere accademico, che ha
sempre sostenuto con forza la «purezza russa» del poema, e tra gli oppositori si
sono schierati tanto gli slavisti, tra cui lo stesso Lichačëv, quanto i
turanisti, come Nikolaj Aleksandrovič Baskakov (Lichačëv
1985 | Baskakov 1978). Ma anche se la maggior parte delle ricostruzioni
effettuate da Sulejmenov non sono effettivamente sostenibili, altre sembrano
piuttosto interessanti. (Bazzarelli 1991).
La partenza d'Igor' (1942)
Dipinto di Nikolaj Roerich
Uno degli aspetti più particolari e interessanti dello Slovo o pŭlku Igorevě, è rappresentato dal forte
strato pagano che sottintendeil poema.
La qual cosa rende lo Slovo un testo unico nel panorama della letteratura
slava.
Tutti i testi antico-russi pervenuti, infatti, non solo sono stati
compilati in ambienti cristiani, ma presentano spesso un forte sentimento
anti-pagano.
Nell'altro poema epico russo, la Zadonščina, l'ideologia dominante è perfettamente
cristiana e non vi è alcun elemento pagano. La presenza di elementi pre-cristiani, d'altra parte, è una delle ragioni più
decisive per appoggiare la tesi dell'autenticità dello Slovo.
Come suggerito da Roman Jakobson, è
ragionevole ipotizzare che sia stato l'autore della Zadonščina a prendere spunto dallo Slovo, depurandolo dagli elementi pagani; l'ipotesi
opposta, che un ignoto autore abbia preso invece spunto dalla Zadonščina per creare lo Slovo, introducendo a bella posta elementi pagani
assenti nella fonte originale, sembra assai meno probabile. (Jakobson 1966 | Saronne 1988).
Vasilij Perov, "Il pianto di Jaroslavna" (1882)
L'ideologia pagana dello Slovo affiora
sotto molti aspetti, dando l'idea di una stratificazione piuttosto complessa di
idee e concezioni.
Al livello più evidente, abbiamo varie citazioni di divinità
antico-russe, quali Daz'bog, Stribog, Veles, Trojan. Esse sono già note da altri testi,
come il Se pověsti vremjanĭnychŭ lětŭ o gli
slova i poučenija, ma
nello Slovo vengono evocate in un contesto
poetico e non denigratorio.
È possibile che il poeta si sia allineato agli
stilemi della poesia epica slava, certamente ben nota nel XII secolo, ma poiché
lo Slovo è l'unico e sempio a noi pervenuto di
questo genere di letteratura, le citazioni dei nomina divina, formulati
nei corretti contesti, sono di importanza capitale per la nostra comprensione e
definizione del pantheon antico-russo. A un diverso livello, non si può ignorare il profondo animismo che pervade
l'intera opera.
Gli elementi della natura sono vivi, quasi coscienti, e
accompagnano l'eroe e i suoi compagni nelle fasi della spedizione, accordandosi
emotivamente agli accadimenti, fortunati o funesti che siano. La schiera d'Igor' esce dal territorio della Rus' tra i versi sinistri degli animali
selvatici e le strida degli uccelli; le armate polovesiane arrivano annunciate
dalle nuvole nere, dai fulmini, dalla tempesta.
Ogni singola cosa, a partire
dall'eclisse che apre il poema, assume valore di presagio. Igor' si sofferma a
dialogare con il fiume Donec, così come Jaroslavna rivolge il suo lamento al
sole, al vento, al fiume Dnepr, e sembra quasi che sia la sua invocazione a
permettere il ritorno dell'eroe dalla prigionia.
La stessa fuga di Igor' è
annunciata dal sommuoversi degli elementi, e ci si potrebbe ancora chiedere se,
a indicargli la strada, sia Dio o un dio [84].
Ma nello Slovo si avvertono anche degli
echi sciamanici. Essi s'incentrano soprattutto attorno alla figura di Bojan il
«sapiente», il cantore dei tempi andati, il cui modo di poetare sembra rimandare
al motivo delle «anime animali» che lo sciamano nord-euroasiatico liberava per
compiere i suoi viaggi estatici, volando nei cieli superiori o scendendo nei
mondi ipoctoni. Il motivo risuona possente nell'incipit del poema, dove
leggiamo:
.
Ché il sapiente Bojan, se per qualcuno voleva cantare un
canto, s'effondeva come pensiero sugli alberi, correva per la terra come lupo
grigio, volava sotto le nubi come aquila azzurra.
Quella strana espressione, «s'effondeva come pensiero sugli alberi» [to
rastěkašetsja myslіju po drevu], notava Bruno Meriggi, «assai efficacemente
allude al processo dell'ispirazione: salendo con la propria immaginazione sui
diversi livelli dell'albero, il vate-poeta ascende i cieli della sua fantasia».
In effetti, gli studiosi hanno a più riprese sottolineato come sembri trasparire
qui il concetto di Axis Mundi diffuso tra i popoli siberiani, dov'è il
tronco dell'albero cosmico a penetrare le tre regioni cosmiche – cielo, terra e
inferi – permettendo allo sciamano di salire o scendere attraverso tutti i
livelli dell'essere. (Meriggi 1974).
Bojan era infatti un «sapiente» [věščïj] in senso pagano.
Era un vate,
in grado di attingere all'ispirazione delle cose misteriose e profonde.
Possedeva in massimo grado l'arte del canto: sapeva imporre alle vive corde del
gusli le proprie «dita stregate» [věščě pĭrsti], facendole
risuonare da sole. Immagini che rimandano alle tecniche di autoesaltazione,
sempre di matrice sciamanica, mediante le quali il poeta provocava e accresceva
la propria ispirazione. (Meriggi 1974 | Saronne
1988)
Ma i passi dove personaggi vengono identificati (o si auto-identificano) con
degli animali sono rintracciabili praticamente dovunque, nello Slovo. Jaroslavna afferma che volerà «come un
cuculo» verso il luogo dove il suo sposo è tenuto prigioniero. Nella fuga, Igor'
viene via via paragonato a un ermellino, a un'anatra, a un lupo, q uindi a un
falco; se si tratta di semplice metafore poetiche, sono fin troppo insistite.
Sembra piuttosto che l'autore dello Slovo
attinga, anche se forse senza comprenderne appieno il significato, a tradizioni
poetiche assai più antiche, le cui radici affondano forse, più che a quello
slavo, al mondo ugrofinnico e altaico. (Saronne
1988) Bisogna infine notare l'intento ideologico del poema, estraneo a qualsiasi
polemica religiosa. Al contrario, ad esempio, della Chanson de Roland, dove il confronto tra Franchi e
Mori è uno scontro ontologico tra coloro che testimoniano la religione di Cristo
e coloro che vi si oppongono, nello Slovo o pŭlku
Igorevě non troviamo nulla di tutto questo. I «pagani»
[pogany] sono tali in quanto non-russi, cioè estranei al sistema
culturale, politico e, sì, anche religioso che era la Rus' di Kiev. Il
contrasto tra Russi e Polovcy non era, d'altra parte, un dissidio insanabile,
tant'è vero che la storia russa è piena di principi che si alleano con i
qān polovesiani contro i loro stessi parenti, per fini di potere e
prevaricazione politica. Alla fine dello Slovo, Vladimir Igorevič, il figlio del
protagonista, sposa la figlia del capo polovesiano Končak, originando
un'alleanza tra i due popoli.
Il motivo religioso, nella lotta tra Russi e
Polovcy, è dunque assolutamente insignificante.
***********************************************
La prima traduzione italiana, Il cónto della banda d'Igor, in prosa
immaginosa e solenne, è stata eseguita dal grande linguista, accademico e
bibliotecario Domenico Ciàmpoli (1852-1929), buon traduttore dei grandi autori
russi, in una memorabile antologia, pubblicata a suo tempo da Carabba, che
comprende anche un certo numero di byliny e dumy (Ciàmpoli 1895).
In seguito, Leone Pacini Savoj ne dà una traduzione parziale nel Detto
della campagna di Igor'(Savoj 1946).
Da molti considerata la migliore nella nostra lingua, la traduzione del
fiorentino Renato Poggioli (1907-1963), il Cantare delle gesta di Igor',
edita da Einaudi (Poggioli 1954).
Negli anni '70
anche l'orvietano Bruno Meriggi (1927-1970) presenta una traduzione, seppure non
completa, in appendice a una sua antologia di byliny(Meriggi 1974).
La traduzione di Angiolo Danti (1940-1980),
L'epopea del principe Igor', rimasta inevasa dopo la prematura scomparsa
del suo autore, è stata pubblicata molti anni dopo dalla sua allieva, Alda
Giambelluca Kossova, in appendice allo splendido libro All'alba della cultura
russa(Kossova 1996).
Letterale e attentissima, invece, quella fornita dallo slavista Edgardo T.
Saronne, Il cantare di Igor', in un volume riccamente annotato nella
prestigiosa collana «Biblioteca Medievale» delle Pratiche (Saronne 1988).
Lo stesso Saronne tratta in un articolo
delle asperità e dei problemi incontrati nel corso della traduzione del testo
(Saronne 1984-1985).
Bella e affascinante, seppure
con qualche interpretazione di troppo, la traduzione prosastica di Eridano
Bazzarelli, Il canto dell'impresa di Igor', edita in un volume riccamente
annotato nella BUR (Bazzarelli
1991).
Riportiamo, a titolo di curiosità, l'incipit del poema nelle varie
traduzioni italiane:
Non vi
piacerebbe, fratelli, di cominciare nella vecchia maniera la penosa storia della
spedizione di Igor, d'Igor figlio di Sviatoslav? Cominci dunque il canto secondo
la storia de' tempi e non alla guisa di Boian. Boian, il cantore, voleva fare un
canto? I pensieri gli si smarrivano pe' boschi come il lupo grigio fra le
pianure, come l'aquila cinerea per l’aria...
Non s'addirebbe a noi forse, o fratelli,
d'intonare con antichi accenti l'arduo racconto delle gesta di Igor, di Igor
figlio di Svjatoslàv?
Non sarebbe per noi bello, fratelli,
cominciare con antichi discorsi il difficile racconto delle imprese della
schiera di Igor', di Igor' Svjatoslavič
Cominci dunque questo canto secondo le storie
del tempo presente, non secondo la fantasia di Bojàn.
Inizi questo canto secondo le cose accadute in
questo tempo, e non secondo la fantasia di Bojan.
Che il vate Bojàn, quando voleva comporre un
canto a qualcuno, balzava in pensiero sugli alberi, o sul suolo a guisa di lupo
grigio, o sotto le nuvole a guida d'aquila azzurra.
Bojan il sapiente, infatti, quando per qualcuno voleva comporre un canto, si
stendeva come pensiero sull'albero, come grigio lupo sulla terra, come aquila
grigio-azzurrognola sotto le nubi.
Trad. Domenico
Ciàmpoli
Trad. Renato
Poggioli
Trad. Bruno
Meriggi
Non
sarebbe meglio per noi, o fratelli, iniziare con antichi detti i
travagliosi canti sulla campagna di Igor', di Igor'
Svjatoslavič? S'incominci questo canto secondo gli avvenimenti di questo
tempo, e non secondo la fantasia di Bojan! Il vate Bojan, infatti, se
per qualcuno voleva comporre un canto, col pensiero s'effondeva su per un
albero, grigio lupo in terra, cerula aquila sotto le nubi.
Sarebbe forse meglio, fratelli,
intonare secondo lo stile antico dei racconti di guerra la storia dell'impresa
di Igor', di Igor' figlio di Svjatoslav? Canteremo invece questo canto secondo i
fatti del nostro tempo, non secondo la fantasia di Bojan. Perché Bojan il vate,
se voleva per qualcuno cantare un cantico, si arrampicava come uno scoiattolo
sull'albero della fantasia, correva per la terra come lupo grigio, voleva come
un'aquila azzurra sotto le nubi...
Non converrebbe a noi fratelli incominciar
con le parole antiche dei racconti d'arme sull'impresa di Igor' di
Igor' Svjatoslavič?
Si cominci questo canto secondo i fatti di
questo tempo e non con l'invenzione di Bojan
Bojan veggente infatti se per qualcuno
componeva un canto allor fatto pensiero trasbordava il bosco lupo
grigio in terra aquila cinerea sotto le nubi
Trad. Angiolo
Danti
Trad. Eridano
Bazzarelli
Trad. Edgardo T.
Saronne
Bojan
Monumento in Zamkova Hora
(Ucraina)
********************************
La parola
slovo «parola, detto, discorso» si trova solo nel titolo.
Nel Medioevo
russo questo termine indicava vari generi: la predica teologica, il racconto
storico, il canto epico. Nel testo l'autore usa piuttosto i termini
povestĭ «racconto» e pesnĭ «canto» (Bazzarelli
1991). ―
La parola pŭlkŭ o plŭkŭ (il gruppo ŭl/lŭ
rende, in antico russo, la consonante liquida [ḷ]) presenta in antico russo un
ampio campo semantico, indicando di fatto l'intera sequenza di sfumature
dell'impresa bellica:
(1) l'esercito, la schiera, il manipolo di guerrieri; (2)
la campagna di guerra, la battaglia; (3) il luogo dello scontro, il campo di
battaglia.
Da qui, una certa ambiguità nelle traduzioni del titolo del poema:
«Cònto della banda d'Igor» (Ciàmpoli 1895), «Detto
della campagna d'Igor'» (Pacini Savoj 1946), «Cantare
delle gesta di Igor'» (Poggioli 1954), «Canto della
schiera di Igor'» (Meriggi 1974), «Narrazione sulla
campagna di Igor'» (Danti 1979); «Detto sull'impresa
di Igor'» (Saronne 1988); «Canto dell'impresa di
Igor'» (Bazzarelli 1991).
In russo moderno,
trudnyj vuol dire specificatamente «difficile, duro», tuttavia
l'espressione trudnychŭ pověstïj viene di solito intesa come «racconti di
guerra». È una sfumatura di significato che traspare soprattutto dai contesti in
cui l'espressione compare nella letteratura medievale. Dmitrij Sergevič Lichačëv
suggerice che trudnychŭ pověstïj sia l'enunciazione del genere letterario
in cui l'autore dello Slovo classifica il suo
lavoro, quello delle «storie difficili», un po' come le chansons de geste dell'epopea francese. Da qui la nostra scelta di tradurre con «epica storia».
Su
questa linea, Boris Rybakov ritiene che l'espressione «storie difficili»
raccolga in sé tutte l e sfumature dell'epica: battaglie, vittorie, sconfitte,
con particolare riferimenti al periodo delle lotte tra i principi per la
supremazia sulla Rus'. Tra le traduzioni italiane, «penosa storia» (Ciàmpoli 1895), «arduo racconto» (Poggioli 1954), «difficile racconto» (Meriggi 1974), «travagliosi canti»
(Danti 1979), «racconti d'arme» (Saronne
1988), «racconti di guerra» (Bazzarelli 1991).
― Bratie è letteralmente «o fratria» (Saronne
1988). Si tratta forse dei componenti della corte o del seguito del
principe Igor', e quindi i suoi compagni di mensa, di guerra, di caccia, al
quale il racconto è rivolto?
Il nome del cantore
Bojan ricorre sei volte nello Slovo o pŭlku
Igorevě, e non è testimoniato in nessun'altra fonte, a parte la Zadonščina, che però è imitativa rispetto allo Slovo. Dovrebbe essere vissuto tra l'XI e il XII
secolo, giudicando dal v. [91] dove sono riportati
alcuni suoi versi relativi a Vseslav Brjačislavovič, principe di Polock, morto
nel 1101. Sembra sia stato un grande poeta epico; poiché cantava inni di gloria
per gli antichi principi, l'autore dello Slovo
non se la sente di imitarlo, in quanto dovrà intonare il doloroso e
sobrio poema di una sconfitta. Il termine antico-russo bylina, che
dall'Ottocento acquistò il significato di «canto epico», qui significa al
contrario «fatto reale». In tal senso l'autore si presenta come un «poeta del
tempo presente», mentre Bojan era un «usignolo del tempo andato». ― L'aggettivo
věščïj vuol dire «sapiente» ma, in senso traslato, «vate, veggente,
indovino», ed è così che rendono generalmente le traduzioni del verso.
Il passo presenta un problema di lettura legato alla parola mysliju
«come pensiero» (cfr. russo mysl' «pensiero, idea»), che alcuni
autori hanno proposto di emendare in mysiju «come uno scoiattolo» (cfr.
russo myš' «topo»), anche per coerenza con i successivi paragoni del
poeta con un lupo o un'aquila. La maggior parte degli studiosi è tuttavia
scettica riguardo l'ipotesi di una corruttela del testo, soprattutto tenendo
conto che l'immagine è ripetuta al v. [10]:
«saltando, o usignolo, in pensiero sugli alberi» [skača, slavïju po myslenu
drevu] (Meriggi 1974).
I nostri traduttori
sostengono perlopiù la lettura testuale. Domenico Ciàmpoli: «i pensieri gli si
smarrivano pe' boschi» (Ciàmpoli 1895); Renato
Poggioli: «balzava in pensiero sugli alberi» (Poggioli
1954); Bruno Meriggi: «Si stendeva come pensiero sull'albero» (Meriggi 1974); Angiolo Danti: «col pensiero s'effondeva su
per un albero» (Danti 1979); Edgardo Saronne: «allor
fatto pensiero trasbordava il bosco» (Saronne 1988).
Il solo Eridano Bazzarelli suggerisce salomonicamente entrambe le letture: «si
arrampicava come uno scoiattolo sull'albero della fantasia», analizzando la
scena del vate Bojan che, in forma animale, sale
sulla cima degli alberi, alla luce del motivo delle ascensioni sciamaniche lungo
l'arbor mundi(Bazzarelli 1991). 3 Edgardo Saronne osserva
che il testo parla di un «branco» [stado] e non di uno «stormo»
[staja] di cigni, forse perchè questi uccelli erano immaginati, in senso
dispregiativo, in una goffa fuga al suolo. Secondo Saronne, cigni e oche
sarebbero stati infatti c onsiderati impuri dagli antichi Slavi, forse perché
a nimali totemici [oŋgon] dei popoli nomadi delle steppe (Saronne 1988).
Semplificando il concetto, tuttavia,
ricordiamo che i cigni erano tra le frequenti prede di caccia dei principi
russi. ― Jaroslav I Vladimirovič Mudryj, il «saggio», gran principe di
Kiev (♔ 1015-1054), fu l'antenato di tutti i principi
russi, gli Jaroslavli, eccetto quelli del ramo di Polock, i quali
discendevano invece da suo fratello Izjaslav Vladimirovič († 1001).
Jaroslav il
«saggio» è figura estremamente positiva: i l sovrano che coincide con la massima
potenza della Rus', teorico della concordia tra i principi. ① ― Di Mstislav
Vladimirovič Chrabryj, il «coraggioso» († 1036), fratello di Jaroslav, si
narrava che avesse l ottato a mani nude con Rededja, principe dei Kasogi
(Circassi), per poi vincerlo e sgozzarlo (Se pověsti vremjanĭnychŭ
lětŭ [1022]). Poiché combatté a lungo contro il legittimo
potere rappresentato da Jaroslav, peraltro assoldando schiere mercenarie di
Kasogi e Chazari, sembra essere un antesignano di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič
(† 1115), archetipo dei principi ribelli.
Viene tuttavia storicamente
riabilitato per aver infine stretto la pace con il fratello nella fortezza di
Gorodec. ② ― Al suo contrario, Roman Svjatoslavič Krasnij, il «bello» (†
1079), principe di Tmutorokan', si lasciò coinvolgere dal fratello Oleg a
stringere un'alleanza con i Polovcy, al fine di combattere gli
Jaroslavli. Al primo mutamento di vento, però, verrà ucciso dai suoi
stessi alleati.
Illustrazione di Konstantin Alekseevič Vasil'ev
(1942-1976)
Chi è questo
Vladimir?
Secondo Bazzarelli, si tratta di Vladimir I Svjatoslavič
Svjatoj, il «santo» (♔ 980-1015), il gran
principe che introdusse ufficialmente il Cristianesimo in Russia (Bazzarelli 1991). Edgardo Saronne ritiene si tratti invece
del gran principe Vladimir Vsevolodovič Monomach (♔
1113-1125), assai più vicino alla figura di sovrano ideale
vagheggiata dall'autore dello Slovo, in quanto
fu un pacificatore interno e un deciso, anche se non feroce, difensore del paese
contro i Polovcy (Saronne 1988). Si creerebbe così,
nel quadro politico dello Slovo,
un'opposizione tra l'«antico» Vladimir II Monomach e l'«odierno» principe Igor',
il quale, pur con tutto il suo coraggio e la sua ferrea volontà, non è in grado
di eguagliare la statura del predecessore. I due personaggi, qui accostati,
simboleggiano in un certo senso il degrado morale e politico della Rus'. Ma si
può anche pensare al motivo mitologico degli eroi dell'antichità, visti come
uomini di levatura superiore. ― I Cumani [Kumani] o Polovesiani
[Polovcy], erano un popolo di ceppo turanico che vivevano da nomadi nelle
steppe meridionali della Rus'.
L'ombra che in questo
verso si promana dal sole si riferisce all'eclisse di sole che ebbe luogo il 1°
maggio del 1185. Il fenomeno era considerato presagio di sciagura ma, com'è
detto più sotto [8], per troppa brama di gloria,
Igor' non si rese conto che la spedizione partiva sotto auspici sfavorevoli.
Secondo il Se pověsti vremjanĭnychŭ lětŭ [6694/1185],
l'evento dell'eclisse avrebbe avuto luogo, in realtà, all'arrivo delle truppe al
fiume Donec, quindi dopo la partenza di Igor' da Putivl', descritta al v.
[13]. Lo spostamento della scena è stato interpretato
da alcuni come un errore dei curatori della prima edizione, i quali avrebbero
trovato fuori posto i fogli del manoscritto, tanto che Evgenij Ljackij e Leone
Pacini Savoj hanno proposto una ricostruzione del testo spostando i vv. [6-9] tra i vv. [17] e [18] (Ljackij 1934 | Pacini Savoj 1946). È tuttavia
perfettamente possibile che la scena dell'eclisse sia stata anticipata
dall'autore stesso, per avvolgere di una luce inquietante gli eventi che
seguiranno. «L'eclisse è il simbolo dell'ignoto cui Igor' andava incontro, ma
anche dell'isolamento politico della sua impresa condotta in segreto» (Saronne 1988). ― Con voi s'intende qui l'esercito
schierato in armi, formato dai soldati reclutati nelle città o tra i contadini
delle campagne. (Rybakov 1951) 7 ― Družina: la
compagnia di guerrieri scelti che stava intorno al principe (da drug
«compagno»; cfr. norreno drótt), affine al comitatus latino. Si
tratta quindi di una schiera d'élite, opposta ai soldati semplici o
voi (Rybakov 1951). ― «Guardare l'acqua
dell'azzurro Don» e, più sotto, «bere con l'elmo l'acqua del Don» [9]; la metafora, nelle sue varie forme, indica il
desiderio di Igor' di arrivare alle terre polovesiane, attraversate dal Don, e
conquistarle. Il Don era una grande via di comunicazione fluviale e, poiché
aveva uno sbocco nel Mar Nero, permetteva scambi commerciali molto importanti
con Bisanzio e l'Oriente.
Kopie è la
lancia pesante, contrapposta a sulicja che è il giavellotto (Saronne 1988). «Spezzare la lancia» è espressione per
«dare battaglia». La ritroviamo nella poesia scaldica scandinava, come
testimonia esplicitamente Snorri Sturluson: «È una metafora chiamare la
battaglia “spezzarsi di lance”» [Þat er kenning at kalla fleinbrak
orrostu] (Edda di Snorri > Háttatal). ― Un frequente tópos letterario russo
simboleggiava la vittoria su un paese con il berne l'acqua dei fiumi (Lichačëv 1950). Analogamente, «spezzare la lancia»
significava «scendere a battaglia». Po myslenu
drevu è uno dei loci obscuri dello Slovo. Se drěvu «albero»
può avere il significato collettivo di «bosco», myslĭnŭ è genitivo di
mysl' «pensiero, idea, immaginazione» (cfr. v. [2]); dunque «alberi pensati, immaginati». Saronne propone
una resa letterale «bosco dell'immaginario», che giudica tuttavia piuttosto
goffa. (Saronne 1988) ― «Intrecciando le due ali
della gloria dei nostri tempi», cioè l'odierna gloria di Igor' con quella dei
principi del passato (Bazzarelli 1991). ― Su Trojan sono stati versati fiumi di
inchiostro. La maggior parte degli studiosi ritiene fosse un antico dio o eroe
slavo, forse ispirato alla figura dell'imperatore romano Traiano. Ma non sono
mancate al riguardo interpretazioni differenti. Nella sua traduzione, Poggioli,
traduce con riferimenti alla città omerica di Troia: «trascorrendo la traccia
troiana dal piano ai monti», giustificando la traduzione con una pretesa
confusione tra i Turchi (cioè i popoli turanici delle steppe) e i Teucri
dell'epica omerica (Poggioli 1954). Sulla stessa
linea si muove anche Bruno Meriggi, che traduce «correndo il sentiero troiano»
e, in nota, specifica che si tratta di una strada diretta a un'area tra il Don e
il Dnepr (Meriggi 1974). Se, come intendono altri
autori, si tratta invece del «sentiero di Traiano», bisognerebbe intendere la
strada romana dal Danubio al confine della Dacia (Meriggi
1974). Generalmente però esegeti e traduttori considerano Trojan nome proprio: Angiolo Danti traduce
«percorrendo il sentiero di Trojan» (Danti 1979); Edgardo Saronne «correndo sulla traccia di Trojan» (Saronne
1988), ed Eridano Bazzarelli «correndo per il sentiero di Trojan» (Bazzarelli
1991). ③
11 ― Pěti bylo
pěsnĭ Igorevi, togo vnuku: l'interpretazione di questo verso è stata, fin da
subito, abbastanza tormentata. Il problema principale è stabilire a chi si
riferisca l'inciso, in caso dativo, togo vnuku (letteralmente, «al nipote
di quello»). Chi è il nipote? E chi è il nonno? Agli esordi degli studi igoriani
si riteneva che tale inciso andasse a connettersi con il nome, anch'esso in
dativo, Igorevi («a Igor'»). Nella prima edizione a stampa del poema
(Musin-Puškin 1800), la frase in questione conteneva
tra parentesi il nome del nonno del principe, Oleg Svjatoslavič:
Пѣти было пѣснь Игореви, того (Олга) внуку... Pěti bylo
pěsnĭ Igorevi, togo (Olga) vnuku...«Dovresti intonare questo canto a
Igor', al nipote di quello (di Oleg)».
Ci si chiede innanzitutto se quel nome tra parentesi appartenesse al
manoscritto cinquecentesco di Musin-Puškin, andato perduto, o fosse un'aggiunta
effettuata dai curatori dell'edizione a stampa. Gli studiosi sono oggi propensi
a ritenere valida la seconda ipotesi (Lichačëv ~ Dmitriev
1983), per quanto Edgardo Saronne propenda per la prima (Saronne 1988). Comunque stiano le cose, i nostri primi
traduttori hanno seguito l'interpretazione dell'ignoto scoliaste. Domenico
Ciàmpoli: «per celebrare Igor, suo nepote» (Ciàmpoli
1895); Bruno Meriggi: «dovrebbe intonare un canto per Igor', un nipote di
questi» (Meriggi 1974); Angiolo Danti: «si canti una
canzone ad Igor', il di lui nipote» (Danti 1979).
Ma
quel nome posto tra parentesi, «a Oleg», sembra essere a sua volta il risultato
di un fraintendimento. I due dativi Igorevi e togo vnuku, infatti,
sono probabilmente da considerare indipendenti l'uno dall'altro. Sergej Lichačëv
e Lev Dmitriev ritengono che il togo vnuku si riferisca a Bojan, «nipote
di Veles», secondo la formula presente al
verso successivo [12], e quindi il senso verrebbe ad
essere: «a te toccherebbe intonare questo canto per Igor', Bojan, nipote di Veles» (Lichačëv ~
Dmitriev 1983). Ma già Renato Poggioli aveva sciolto la traduzione con
maggior eleganza: «a un tuo rampollo toccherebbe di cantare il cantico d'Igor'»
(Poggioli 1954). Edgardo Saronne gli si accoda con
garbata attenzione e, notando che in antico russo vŭnukŭ vuole dire tanto
«nipote» quanto «discendente», traduce: «a un tuo discendente toccherebbe
cantare per Igor'» (Saronne 1988). È invece piuttosto
cervellotica l'interpretazione di Eridano Bazzarelli, il quale traduce: «Così, o
nipote di Veles, intoneresti questo canto
per Igor', nipote di Trojan»; finendo con
il duplicare la parola «nipote» e con l'aggiungere due nomi non
originariamente presenti al testo (Bazzarelli 1991).
Il senso di vŭnukŭ, però, a nostro avviso potrebbe anche essere quello di
«allievo». ― Qui il poeta prova a iniziare una composizione nello stile di
Bojan; è possibile che si tratti di una citazione o una rielaborazione da un
poema allora noto del grande cantore. ― È qui tradotto con «cornacchie» l'antico
russo galicě, al singolare galicja (cfr. russo moderno
galka). Si tratta della taccola (Corvus
monedula), piccolo corvide reso popolare dalle osservazioni di Konrad
Lorentz. Come nei cigni al v. [3], viene qui
utilizzata, nei loro confronti, la parola stado «branco» e non
staja «stormo».
Sul dio Veles si veda il capitolo relativo alle
divinità antico-russe. ④
In un solo verso
viene inquadrato l'intero panorama geografico-politico che sottintende allo
Slovo o pŭlku Igorevě. La Sula è un affluente
di sinistra del Dnepr, e segnava il confine del territorio controllato dai Russi
con quello in mano ai Polovcy. Kiev è la capitale dove risiede il gran principe
Svjatoslav III Vsevolodovič, il quale assisterà agli eventi della campagna
igoriana, ormai uscita dal suo controllo. Novgorod è qui in realtà
Novgorod-Severskij, la città di cui è signore lo stesso principe Igor'. Egli
l'ha lasciata il 23 aprile, per giungere a Putivl' entro la fine del mese. Qui
avviene appunto la riunione di tre dei quattro principi che partecipano alla
spedizione contro i Polovcy: lo stesso Igor', suo nipote Svjatoslav Ol'govič,
suo figlio Vladimir Igorevič. Nella frase «si rizzano gli stendardi a Putivl'» è
infatti compresa l'immagine dei soldati schierati e pronti a marciare verso i
Polovcy: gli stendardi sono quelli inalberati dai reggimenti di cui si compone
l'esercito russo, i quali servivano per facilitare la localizzazione delle
truppe sul campo di battaglia. L'autore dello Slovo
mostra – qui come altrove – di saper dominare una materia vasta e
complessa con minime pennellate di poesia.
Vsevolod Svjatoslavič
(† 1196), fratello di Igor', era principe di Kursk e di Trubčevsk. Secondo il
Se pověsti
vremjanĭnichŭ lětŭ [6694/1185], le
schiere di Vseslav e Igor' si riunirono dopo la partenza di queste ultime
da Putivl', nei pressi del fiume Donec ⑤. La laconicità dello Slovo, e il suo modo ellittico di associare gli
episodi, non permette di comprendere dove collochi esattamente l'incontro tra i
due fratelli.
L'epiteto di
Vsevolod, «Toro Impetuoso» [buj turŭ] si riferisce all'uro, il toro
selvatico che visse in Russia fino all'inizio del XVII secolo, quando si
estinse. L'espressione sembra sia una sorta di kenning per «eroe». La
formula è stata messa in relazione – ma è difficile dire se si tratti di un
gioco di parole o di un'etimologia popolare – con il termine russo
bogatyr' «cavaliere, eroe»; così infatti la traduzione in russo moderno
nella prima edizione del poema (Musin-Puškin 1800).
Sembra che questa parola sia di origine altaica (da un antico turco
*baġatur; cfr. turco batur «grande signore», ungherese
bátor «audace», etc.), poi assimilata nell'antico russo bogatyrĭ(Vasmer 1950-1958 | Sulejmenov 1975). ― «Luce lucente»
[světŭ světlyj]: si noti la ripetizione, con valore di rafforzativo. Le
sfumature di colore e luce hanno grande importanza nel linguaggio poetico dello
Slovo (Gulidova 2011).― Secondo Sergej Plautin, Igor' e Vsevolod sarebbero stati entrambi
figli di Ekaterina, terza moglie di Svjatoslav Ol'govič (Plautin 1958 | Saronne 1988). ― Evgenij Ljackij e
Leone Pacini Savoj hanno proposto di spostare qui, seguendo l'ordine degli
eventi del Se pověsti
vremjanĭnichŭ lětŭ, la scena dell'eclisse narrata nei vv. [6-9](Ljackij 1934 | Pacini Savoj
1946); tale ricostruzione non sembra però necessaria. ― L'essere d'oro
caratterizza ciò che è relativo ai principi. Così «staffa d'oro», «trono d'oro»,
«elmo d'oro», etc. ― Chi o che cosa è
questo Div che guata dall'albero in forma di uccello?
Esso compare qui e poi successivamente al v. [65]. Il
nome ricorda i daēvā iranici. La parola che, seguendo la lezione di
Bazzarelli, viene qui tradotta con «guatare», cioè guardare in senso maligno,
nell'originale è il verbo pasti, propriamente un guardare nel senso di
«pascolare, custodire» (Bazzarelli 1991). ― Nulla
sappiamo su questo idolo di Tmutorokan'. Il testo utilizza il termine
blŭvanŭ «lottatore». Questa parola, di origine iranica, passò in seguito
in territorio turco: è infatti testimoniata nelle iscrizioni turaniche
dell'Orchon, in Siberia, nella forma balbal, col significato di «pietra
scolpita». Si riferisce forse alle cosiddette babi di pietra, rozze
statuette con sembianze femminili erette (forse) dai nomadi turchi nell'Ucraina
meridionale.
― «Sei già
oltremonte, terra di Rus'!» [O Ruskaja zemlě! Uže za šelomjanemŭ esi!].
Il testo antico-russo è ambiguo. Il significato fondamentale di zemlja è
«terra» e, così traducendo, ci si mette dal punto di vista dei guerrieri che
hanno lasciato la loro patria. Ma zemlja si può tradurre anche come
«schiera» («sei già oltre i monti, schiera russa!»), e così ci si mette dal
punto di vista dell'autore del poema che vede i guerrieri allontanarsi dalla
patria per inoltrarsi in territorio nemico. Per quanto Bazzarelli consideri
esteticamente più valida la seconda interpretazione, sceglie la prima
traducendo: «O terra di Rus', sei ormai troppo lontana!» (Bazzarelli 1991).
― Gli scudi
russi del XII secolo erano ovoidali, di legno dipinto in rosso scuro. Questo
colore [čerlenyj], tradizionalmente legato al mondo umano e alla forza
della vita, nel simbolismo cromatico dello Slovo rappresenta i Russi: i nemici sono sempre
rappresentati con colori tendenti al nero e all'azzurro scuro (Gulidova 2011).
― L'epiteto
«pagano» [pogani], più volte ripetuta nello Slovo, non sembra avere un significato ideologico,
se non nell'indicare i nomadi della steppa in quanto nemici esterni al mondo
russo. Tuttavia si ricordi che, secondo molti autori, il poema stesso è, nel suo
spirito, profondamente pagano (Kosorukov 1986 | Bazzarelli
1991). ― Mantelli, gualdrappe, pellicce, tessuti: il testo originale
riporta qui dei termini di origine turanica, inerenti alla cultura dei popoli
delle steppe.
― Il testo usa
quattro diverse parole per indicare i diversi tipi di insegne. I termini sono di
varia origine: scandinava (stjagŭ «stendardo»), mongola
(chorjugovĭ «gonfalone»), turanica (čolka «insegna», propriamente
«coda di cavallo») e di nuovo, forse, scandinava (stružïe, cfr. norreno
strangi «fusto d'albero»). Si tratta di insegne o bandiere polovesiane.
― Per «ardito
nido di Oleg» ci si riferisce ad Igor' e Vsevolod, nipoti del principe Oleg
Svjatoslavič/Gorislavič.
― Gzak e Končak
erano i capi polovesiani che avevano organizzato l'accerchiamento delle schiere
russe. Come si vedrà anche oltre, Gzak è più duro e inflessibile, Končak più
diplomatico: in seguito sua figlia sposerà Vladimir figlio di Igor'.
― I «quattro
soli» sono i quattro principi russi che partecipano all'impresa, cioè Igor'
Svjatoslavič, il fratello Vsevolod Svjatoslavič, il figlio Vladimir Igorevič, e
il nipote Svjatoslav Ol'govič, che all'epoca aveva solo diciannove anni. ― Non
esiste un fiume Kajala nell'attuale toponomastica russa e non si sa bene a quale
corso d'acqua si riferisca il testo. Le identificazioni proposte indicano vari
affluenti del Don, a seconda che la schiera di Igor' abbia proceduto lungo l'una
o l'altra sponda del fiume. Poggioli ad esempio costruisce la sua traduzione
identificandolo con un fiumicello Kajaly vicino al Mar d'Azov (Poggioli 1954). Secondo un'altra ipotesi, invece, il
Kajala sarebbe da intendere non in senso geografico, ma metaforico, quale «fiume
del pianto», dal verbo kajati «piangere, soffrire» (Barsov 1899).
― Sul dio Stribog si veda il capitolo relativo alle
divinità antico-russe. ⑥
― «Figli di
Běs» sono i Polovcy. In antico russo Běsŭ è il diavolo, ma forse questo
termine è derivato da quello di qualche antica divinità turanica.
Seguendo la
lezione di Bazzarelli, traduciamo con «brunito» il problematico aggettivo antico
russo charalužnyj, che ricorre varie volte nello Slovo o pŭlku Igorevě senza che ne sia data
un'interpretazione convincente (Bazzarelli 1991). La
maggior parte degli autori ritiene che questo aggettivo possa essere connesso
con la parola turanica qara «nero», anche se nella simbologia epica il
colore nero non è applicabile alla sfera russo-cristiana. La parola compare
unicamente nello Slovo e una volta nella Zadonščina, dove però è stata copiata dallo Slovo.
Gli Àvari di
cui si parla, erano un popolo di origine mongolica ma di lingua caucasica,
frequenti alleati dei Polovcy. I loro antenati erano giunti in Russia attorno al
V-VI secolo ma, dopo essere stati distrutti dai popoli turanici, si rifugiarono
nel Caucaso, dove vennero assorbiti dalle popolazioni locali. I loro discendenti
sono gli attuali Àvari del Daghestan, di lingua adyghé-dido.
Brano non
molto chiaro, che ha spesso costretto gli studiosi a operare correzioni e
aggiustamenti per cercare di porvi rimedio. Queste frasi, nelle varie
interpretazioni, si riferiscono a Vsevolod, che tutto dimentica nell'ardore
della battaglia. Parte della perplessità degli interpreti deriva dal fatto che
non conosciamo molti dettagli della biografia del personaggio. ― Glebovna,
«figlia di Gleb», è il patronimico della sposa di Vsevolod, la quale era figlia
di Gleb Jur'evič († 1171), il quale era stato gran principe di Kiev, e sorella
di Vladimir Glebovič di Perejaslavl', citato al v.
[71]. Per qualche ragione, il poeta chiama le due spose, rispettivamente,
di Igor' e Vsevolod, attraverso i loro patronimici: Jaroslavna e Glebovna.
Mentre la prima si chiamava Evfrosina, nulla sappiamo dire della seconda.
Si delinea
l'idea politica dello Slovo o pŭlku Igorevě:
le contese dei principi indeboliscono l'unità della Rus', permettendo il trionfo
dei nomadi della steppa. E l'iniziatore delle discordie fu proprio Oleg
Svjatoslavič/Gorislavič († 1115), principe di Tmutorokan' e poi di Černigov,
nonno di Igor', il quale partecipò alle lotte scatenatesi per il gran
principato, sterminando cugini e parenti, e per di più assoldando come mercenari
i Polovcy. ⑦
― I fatti qui
descritti si erano svolti nel 1078. Salito «sulla staffa d'oro», Oleg partiva da
Tmutorokan' in testa alla sua schiera per attaccare la città di Černigov, di cui
era allora principe Vsevolod Jaroslavič. Questi, riparato a Kiev presso suo
fratello, il gran principe Izjaslav I Jaroslavič, «sentiva il suono» delle
schiere che avevano occupato la sua città ed a ben ragione era preoccupato e si
disperava. Figlio di Vsevolod era Vladimir Monomach, che molti anni dopo sarebbe
diventato gran principe, ma che, all'epoca dei fatti, risiedeva col padre a
Černigov. L'autore dello Slovo lo rappresenta,
ingiustamente, nell'atto di tapparsi le orecchie, rifiutandosi di prendere
posizione nella contesa. L'espressione uši zakladaše è un gioco di parole
che può essere tradotto sia «chiudere le orecchie» sia «chiudere le porte». Il
senso è comunque quello: secondo l'autore dello Slovo, Vladimir fingeva di non accorgersi di ciò che
stava accadendo. Nella realtà storica tuttavia, il giovane Vladimir prese parte
alla contesa e combatté a fianco del padre.
― Oleg
Svjatoslavič si era alleato con il giovane Boris Vjačeslavič. Conquistata
Černigov, i due ne furono presto cacciati dalle schiere congiunte di Vsevolod e
Izjaslav Jaroslaviči, con i quali erano i rispettivi figli Vladimir Monomach e
Jaropolk Izjaslavič. Ci fu un gran massacro sul campo della Nežatiaja Niva (3
ottobre 1078), presso il fiumicello Kanin, in cui morirono molti nobili
principi, tra cui lo stesso Boris (Se pověsti
vremjanĭnychŭ lětŭ [6586/1078]), a cui, dice lo Slovo, fu steso un sudario d'erba sulla riva del
fiume Kajala, confondendosi forse col fiume Kanin. Oleg dovette capitolare e, in
quello stesso 1078, Vladimir Monomach divenne signore di Černigov, mentre il
padre Vsevolod passava al ruolo di gran principe di Kiev in luogo del fratello
Izjaslav, caduto nel corso della battaglia. ⑧
― Come detto
sopra, nella battaglia di Nežatiaja Niva (3 ottobre 1078) cadde il gran principe
Izjaslav Jaroslavič. Secondo lo Slovo o pŭlku
Igorevě, il figlio Svjatopolk Izjaslavič ne fece poi trasportare il
corpo a Kiev, sospendendolo tra due cavalli ungheresi (i quali erano apprezzati
per il loro carattere docile e venivano impiegati per trasportare i feriti).
L'autore dello Slovo confonde però Svjatopolk
con il fratello Jaropolk Izjaslavič. Secondo quanto riportato nella cronaca
nestoriana, infatti, in quel frangente Svjatopolk si trovava a Novgorod e fu
Jaropolk, che aveva partecipato alla battaglia a fianco del padre, a trasportare
il corpo di Izjaslav in Kiev (Se pověsti vremjanĭnychŭ
lětŭ [6586/1078]). Il testo dello Slovo presenta qui molte difficoltà di ordine
filologico che, senza entrare in dettagli, hanno costretto gli studiosi ad
alcune correzioni del testo: ma il senso originale sembra avere valore
causativo. La difficoltà può venire superata ipotizzando che Svjatopolk (in
realtà Jaropolk) non abbia personalmente trasportato il corpo del padre ma lo
abbia fatto trasportare, cioè abbia dato l'ordine di traslare la salma.
― Questo
epiteto di Oleg Svjatoslavič, Gorislavič, «figlio di Malagloria», non è
da tutti gli studiosi inteso in questo modo. Se è da gòre «amarezza» va
bene Malagloria, ma se fosse da gorè «alto, elevato» bisognerebbe
tradurre «figlio di Eccelsa Gloria». L'epiteto si trova anche in altri
documenti, come alcune gramota e la Prima cronaca
di Novgorod, senza che tuttavia sia possibile sciogliere il dilemma.
La maggior parte dei traduttori preferisce, dal contesto, la prima opzione.
(Bazzarelli 1991) ― La parola žiznĭ, che vuol
dire letteralmente «vita», andrebbe qui interpretata nel senso di «ricchezza» o
di «potenza» (Danti 1979 | Bazzarelli 1991). ― Daž'bog è un'antica divinità slava dai
tratti non ben definiti, forse un dio del sole e della luce, oppure un dio
elargitore di ricchezza. «Nipoti di Daž'bog» sono i Russi: si veda il capitolo
relativo agli dèi dell'antica Russia. ⑨
― Questo passo
presenta qualche difficoltà e lo si può interpretare alla luce del racconto
dell'episodio nel Codice Laurenziano, dov'è scritto che ad un certo punto il
principe Igor' tornò indietro e vide Vsevolod circondato dai nemici. Preso da
pietà (egli stesso era ferito) pregò per il fratello (Se pověsti vremjanĭnychŭ
lětŭ[6694/1185]). Secondo alcuni studiosi è possibile
che, nel testo originario dello Slovo o pŭlku
Igorevě, vi fosse qui un brano di più ampio
respiro (Bazzarelli 1991). Ci sembra ragionevole, tuttavia, che il poema
procedesse, più che attraverso un racconto puntuale, per rapidi e suggestivi
richiami ad eventi che il pubblico già conosceva.
― Come spesso
nell'epica, la battaglia è paragonata a un festino, anche se non sono mancati
tentativi di lettura più profonda.
― L'immagine
dell'erba e degli alberi che si piegano per il dolore, compare nella poesia
popolare russa a simboleggiare il sopraggiungere di una sventura (Peretc 1926 | Bazzarelli 1991).
― Questo brano
nel suo significato è del tutto chiaro: a non essere chiare sono le immagini
esteriori della metafora (Stelleckij 1965). Perché la
«sconfitta» [obida] sorge nell'aspetto di una fanciulla, e perché costei
ha ali di cigno, con cui disperde i tempi dell'abbondanza? Gli studiosi non
hanno raggiunto alcuna conclusione: si è ricordato che il cigno era un animale
totemico dei Polovcy, che veniva considerato simbolo di sciagura e che, tra i
suoi significati simbolici, era legato al regno dei morti. La fanciulla-cigno
sarebbe il simbolo delle disgrazie del popolo russo; in alcune storie
tradizionali russe, la strega è in grado di trasformarsi in cigno (come nella
bylina di Michajlo Potyk); analogamente le
Valkyrjur del mito scandinavo portavano
camicie di cigno. (Bazzarelli 1991) ― Obida
non è parola facile da interpretare nel contesto dello Slovo o pŭlku Igorevě. Nella sua traduzione,
Poggioli rende questa parola con «violenza» (Poggioli
1954), ma «offesa» traducono sia Danti che Bazzarelli. Come appunta
quest'ultimo, la parola obida, che in seguito è finita col significare
«contesa», originariamente significava «offesa»; ovvero quel tipo di offesa,
causata dalle discordie tra i principi che, secondo il codice feudale, andava
vendicata (Bazzarelli 1991). Nella nostra traduzione
abbiamo preferito distorcerne il significato per adattarla al contesto della
battaglia che Igor' ha appena perduto contro i Polovcy e renderla così con
«sconfitta». ― «Battendo le ali ha disperso i tempi dell'abbondanza». Il
manoscritto originale riportava un verbo ubudi «svegliare, destare», ma
poiché in tal modo la frase veniva ad avere un senso contrario al contesto, si
suole emendare con upudi «cacciare, disperdere».
(Potebnja 1914)
― Vi è forse un
riferimento al pianto rituale che accompagnava i riti funebri ed è stato
ricordato che le prefiche accompagnassero i morti al sepolcro lamentandosi e
agitando fiaccole. Forse ci si può vedere anche un riferimento ai roghi funebri
dei tempi precristiani. (Bazzarelli 1991)
La parola che
abbiamo tradotto con «tributo» è nel testo originale běla «scoiattolo»,
in quanto nei tempi antichi, tra gli Slavi orientali, le tassazioni consistevano
appunto in pelli di animali.
Non si faccia
confusione: Igor' e Vsevolod erano i figli di Svjatoslav Ol'govič, ex principe
di Černigov (♔ 1154-1164). Invece, lo Svjatoslav di
cui poche righe più sotto si canta l'elogio, colui che aveva a suo tempo
sconfitto i Polovcy e aveva preso prigioniero il loro signore Kobjak, era invece
Svjatoslav III Vsevolodovič, all'epoca gran principe di Kiev (♔
1174, 1177-1180, 1182-1194). ― Abbiamo tradotto «il loro signore
Svjatoslav» per evitare confusione, anche se il testo ha otecŭ «padre».
Naturalmente è inteso in senso traslato, quale signore feudale, e in traduzione
abbiamo preferito sciogliere la metafora.
Che all'epoca
Tedeschi, Veneziani, Greci e Moravi si interessassero alle beghe interne della
Rus' kievana appare un po' improbabile...
Traduciamo qui, con Bazzarelli, l'espressione a
vŭ sědlo koščïevo con «è salito sulla sella del prigioniero». La parola
koščej è stata variamente interpretata: il significato più semplice
sembra sia appunto «prigioniero», ma anche «schiavo, servo». Il termine deriva
dal turco košči «prigioniero», a sua volta da koš «recinto»
(termine passato nel russo con identico significato). Nel russo koščej
vuol dire anche «uomo magro, scheletro» (da kost' «osso») e, per
estensione, «avaro» (Bazzarelli 1991). Si può anche
ricordare il personaggio di Koščej, lo «scheletro
senza morte» delle fiabe russe.
Nella sua
formulazione, il testo afferma testualmente: «Intanto Svjatoslav ebbe un sogno
confuso nella rocca di Kiev» [A Svjatŭslavĭ mutenŭ sonŭ vidě vŭ Kïẹvě na
gorachŭ], lasciando intendere che il gran principe Svjatoslav III
Vsevolodovič si trovava a Kiev quando fece il suo lugubre sogno. Ma poiché,
stando al Se pověsti vremjanĭnychŭ lětŭ, il gran
principe si trovava invece a Karačev, sulla strada di Černigov, gli studiosi
hanno emendato l'ordine delle parole in modo che, nella nuova interpretazione, è
il sogno a svolgersi nella rocca di Kiev.
Tutta la
scena è ricca di simboli e significati funerei. Il legno di tasso ha un
simbolismo sepolcrale, così il vino fosco (letteralmente sinij «azzurro»,
opposto al vino «verde» o novello), la perla gettata sul petto del gran
principe. I Tolkoviny erano i «traduttori», cioè membri di tribù della steppa
alleate dei principi russi che esercitavano varie funzioni presso costoro, fra
cui quella di interpreti.
Vi era in
Russia e in Ucraina, fino a tempi relativamente recenti, la tradizione secondo
la quale rimuovere la trave centrale della casa aiutava il morente nelle sue
sofferenze d'agonia e permetteva all'anima di volar via. Secondo alcuni
interpreti, l'immagine di togliere la trave centrale significherebbe anche
scardinare la potenza di Kiev (Kosorukov 1986).
Si
parla qui di bosuvi vrany «corvi demoniaci». L'aggettivo è forse derivato
da Běs, nome antico-slavo del diavolo (cfr.
[32]).
I
due «falchi» sono ovviamente Igor' e Vsevolod.
Nuove metafore. I due «soli» e quindi le due
«colonne di porpora» sono Igor' e Vsevolod, le due «giovani lune» dovrebbero
essere gli altri due partecipanti alla spedizione, Vladimir Igorevič e il nipote
Svjatoslav Ol'govič, rispettivamente figlio e nipote di Igor', anche se qui il
copista per qualche ragione (o forse per errore?) cita, accanto a Svjatoslav, un
«Oleg». Renato Poggioli nella sua traduzione evita di citare i nomi (Poggioli 1954).
Molte ipotesi zoologiche per spiegare qui questa
metafora sui ghepardi, ma che gli antichi russi conoscessero questi animali
sembra attestato, oltre che da un affresco di Santa Sofia in Kiev, anche dal
fatto che il ghepardo iranico (Acinonyx jubatus) veniva utilizzato nelle
cacce tra i tartari e anche tra i principi russi.
Ricompare qui
il diabolico Div di cui abbiamo già detto sopra [19]. ― Le «belle fanciulle dei Goti» [gotskïja krasnyja
děvy] è un probabile riferimento ai Visigoti che erano insediati sulle rive
del Mar Nero e del Mar d'Azov già dal II secolo e che, all'epoca dello Slovo, erano vassalli dei Polovcy. Si tenga presente
che popolazioni parlanti lingue germaniche orientali erano attestate in Crimea
ancora nel XVIII secolo. ― Bus (in latino Boz) era il semi-mitico capo
degli Anti, antenati degli Slavi Orientali [32].
Vinto dal re goto Vinitharius nel 375, fu fatto prigioniero e poi crocifisso
insieme ai figli e settanta notabili (Jordanes: De
Getarum sive Gothorum origine [XLVIII]). Per altri studiosi, il Bus
qui citato sarebbe un capo del Polovcy dell'XI secolo, noto per le sue scorrerie
contro i russi. ― Šarokan era un capo dei Polovcy, nonno di Končak. A suo tempo
Vladimir Monomach lo aveva vinto e respinto fino al Caucaso. Per tale ragione,
qui si dice che Končak avrebbe ora vendicato la sconfitta dell'avo.
Lo zlato
slovo, l'«aureo discorso», è il monologo che il gran principe Svjatoslav
Vsevolodovič tiene rimpiangendo la sventurata impresa di Igor' e le sue
conseguenze. Non è però evidente dove il discorso finisca. Bazzarelli ritiene si
concluda là dove dice «il tempo si è volto in sciagura» [na niče sja godiny
obratiša] [70], ma altri ritengono che anche il
susseguente appello ai principi faccia parte dello zlato slovo.
«Nel disonore vi siete battuti...» dice Svjatoslav Vsevolodovič: Igor' e
Vsevolod hanno infranto i patti di pace che il gran principe aveva stipulato con
i Polovcy.
Jaroslav Vsevolodovič, fratello del gran principe Svjatoslav Vsevolodovič, era
allora principe di Černigov (♔ 1176-1198). ― Sui
Moguti, i Tatrani, gli Šelbiri, i Topčaki, i Revughi e gli Olberi esiste
un'intera letteratura. Secondo alcuni si tratta di titoli o soprannomi di
personaggi altolocati di origine turanica (Malov),
per altri di nomi di tribù o gruppi etnici turco-tatari (Korš 1909 | Menges 1951). Senza entrare nei dettagli, è
ragionevole considerare questi nomi come quelli di gruppi di alleati o mercenari
di varie etnie turaniche al servizio del gran principe di Kiev e dei principi
delle città russe (Bazzarelli 1991). ― E sarebbero
costoro che col solo pugnale (in russo zasapožnik «che si tiene nello
stivale») sarebbero in grado di sbaragliare le schiere? Il dettaglio non sembra
potersi attribuire a genti turaniche: e quali «schiere» sbaraglierebbero, di
quali «avi» la gloria farebbero risuonare? Il passo è molto oscuro.
La città di
Rimov venne saccheggiata da Končak dopo la vittoria su Igor'. Poco prima i
Polovcy avevano assalto Perejaslavl', di cui era signore Vladimir Glebovič. È
sua sorella, la Glebovna sposa di Vsevolod Svjatoslavič (fratello del nostro
Igor'), citata al v. [35]. Vladimir Glebovič fu
gravemente ferito mentre difendeva la città dai Polovcy e morì due anni dopo (†
1187). ⑩
È Vsevolod
Jur'evič († 1212), detto Bol'soe Gnezdo «grande nido», figlio di Jurij I
Vladimirovič Dolgorukij, «lungo braccio», gran principe di Kiev (♔ 1149-1151), fondatore di Mosca, a sua volta figlio di
Vladimir II Monomach. Sotto il regno di Vsevolod, la città di Vladimir-Suzdal'
(♔ 1154-1212) raggiunse il culmine della sua
grandezza, ragion per cui egli ricevette il titolo di «gran principe»
[velikij knjaz'], con dignità pari, dunque, a quella del signore di Kiev.
D'altra parte, lo stesso Vsevolod fu gran principe di Kiev per cinque settimane
(♔ 1174), prima di essere imprigionato e costretto a
rinunciare al trono da Rjurik Rostislavič († 1215), di cui si tratta nel verso
successivo [73]. Da Vsevolod Jur'evič discenderanno
Aleksandr Nevskij, Ivan Kalita e tutti i grandi principi di Mosca fino a Ivan IV
Vasil'evič Groznyj, il «terribile». ― Con «soldo» e «centesimo» rendiamo
qui due antiche monete kievane: la nogata (ventesima parte di una
grivna) e la rezana (cinquantesima parte di una grivna).
Si tratta di
Rjurik Rostislavič († 1215), figlio di Rostislav Mstislavič di Smolensk († 1168)
e nipote di Vladimir II Monomach. Nel corso della sua movimentata esistenza,
funestata dalle lotte per la conquista del potere, Rjurik fu gran principe di
Kiev per ben cinque volte (♔ 1173, 1180-1202,
1203-1205, 1206, 1207-1210); alternandosi, tra gli altri, con Svjatoslav III
Vsevolodovič (♔ 1174, 1177-1180, 1182-1194).
All'epoca dei fatti dello Slovo, i due gran
principi regnavano congiuntamente e, dopo la morte di Svjatoslav († 1194),
Rjurik divenne unico sovrano di Kiev. ― Davyd Rostislavič († 1197), fratello di
Rjurik, fu principe di Smolensk: sua moglie era una principessa polovesiana e,
per tale ragione, Davyd non partecipò alla spedizione del 1183, né collaborò con
i principi russi nella crisi polovesiana scatenata dalla sconfitta di Igor' nel
1185.
Questo
Jaroslav Vladimirovič († 1187) era signore di Galič, la Galizia orientale, una
regione addossata ai Carpazi, sita in quelle che oggi sono l'Ucraina occidentale
e la Polonia sud-orientale. L'autore dello Slovo o pŭlku
Igorevě lo definisce Osmomyslŭ, «dall'ottuplice pensiero», in
quanto aveva fama di essere saggio e accorto. I suoi antenati avevano a lungo
lottato contro gli Ungheresi, ma Jaroslav, nonostante lo Slovo affermi il contrario, rimase in pace con i
suoi vicini, anzi, sposò una figlia di István III, re d'Ungheria. Sua figlia,
Evfrosina Jaroslavna, era sposa del nostro Igor'. ― «Aprire le porte di una
città» voleva dire conquistarla: infatti, nel 1159, Jaroslav di Galič e Mstislav
di Volyn' avevano conquistato Kiev, cacciandone il gran principe Izjaslav III
Davidovič.
Forse da
identificare con i cugini Roman Mstislavič Velikij, il «grande» († 1205),
principe di Volyn' e Galič, e Mstislav Jaroslavič Nemoj, il «muto» (†
1226), principe di Peresopnica, figli rispettivamente del gran principe Mstislav
II Izjaslavič († 1170) e di suo fratello il gran principe Jaroslav II Izjaslavič
di Luck († 1180?). Anche essi discendevano da Vladimir II Monomach. Sono
tuttavia altre possibili identificazioni.
L'elenco dei
popoli contro cui Roman e Mstislav combatterono sembra riferirsi a popoli che
abitavano lungo la costa baltica. Jatvinghi e Deremeli erano tribù baltiche che
entrarono poi nella nazione lituana. Per «Unni» si intendono probabilmente i
Finni o gli Estoni. Soltanto i Polovcy sono turanici.
I «valorosi
principi» [chrabryi knjazi] Olgoviči, discendenti di Oleg
Svjatoslavič/Gorislavič, sono il principe Igor', suo fratello Vsevolod, suo
figlio Vladimir e suo nipote Svjatoslav, i «quattro soli» che hanno partecipato
alla sventurata impresa.
Passo oscuro e tormentato. Sembra che ci si riferisca ai fratelli Ingvar' (†
1202) e Vsevolod († 1185) Jaroslaviči, principi di Volyn', fratelli del Mstislav
Jaroslavič il «muto», sopra ricordato. ― «E tutti e tre voi, figli di Mstislav»:
secondo la maggior parte dei commentatori si tratterebbe di Roman il «grande»
(già nominato al v. [75]), Svjatoslav e Vsevolod di
Belz († 1185) Mstislaviči, figli del gran principe Mstislav II Izjaslavič, anche
se resta da spiegare perché Roman sia nominato due volte nell'appello ai
principi (Saronne 1988). Sono state tuttavia avanzate
altre identificazioni, seppur meno probabili (secondo Rybakov si sarebbe
trattato di Davyd, Vladimir e Msistlav Udaloj, il «temerario», figli di
Mstislav Chrabryj, il «coraggioso», principe di Smolensk († 1178) (Rybakov 1984)). ― L'epiteto «dalle sei ali»
[šestokrilci] sembra un calco dal greco hexaptéryx, epiteto
bizantino degli angeli Serafini (Jakobson 1975 | Saronne
1988). Sembra che in certi poemi slavo-meridionali tale epiteto venisse
attribuito anche a guerrieri ed eroi (Bazzarelli
1991).
Di questo
Izjaslav Vasil'kovič le cronache non dicono nulla: tutto ciò che sappiamo di lui
deriva da questo passo dello Slovo o pŭlku
Igorevě. Principe di Polock e, forse, di Gorodec, sarebbe stato
ucciso combattendo contro i Lituani. Un altro sconfitto, dunque, come Igor', ma
in difesa della sua terra e contro nemici esterni.
Il motivo del
letto di morte associato al letto nuziale è tipico della poesia popolare.
Bazzarelli ricorda un canto ucraino in cui il cosacco morente manda il suo
cavallo ad avvertire la madre della sua morte: «Tu di', cavallo, che io mi sono
sposato, / che ho preso in moglie una bella ragazza / nel campo aperto, nella
terra» (Bazzarelli 1991). L'immagine delle ali degli
uccelli e delle belve che leccano il sangue ha riscontri nella poesia e nelle
saghe scandinave (nelle kenningar la battaglia è chiamata «festino dei
lupi» o «dei corvi»).
Se nulla si
sa di Izjaslav Vasil'kovič, nulla evidentemente si può aggiungere dei suoi
fratelli, Brjačislav e Vsevolod.
Jaroslavli «figli di Jaroslav» è una correzione, accettata dai maggiori
studiosi del poema, al posto dell'originale Jaroslave. Molte sono state
le congetture e le ipotesi, ma Jaroslavli risolve molti problemi. I figli
di Jaroslav Vladmirovič il «saggio» furono infatti sempre in contesa con i loro
cugini, figli di Izjaslav Vladmirovič di Polock, qui ricordati come «nipoti di
Vseslav» (Bazzarelli 1991).
Che cosa
significa l'espressione «nella settima età di Trojan» [sedĭmomŭ věcě
Trojani]? Sono state avanzate al riguardo decine di interpretazioni: una
settima èra? O forse un settimo millennio? Se teniamo conto che i Russi
dell'epoca utilizzavano il calendario bizantino, che partiva dalla data della
creazione del mondo, 5508 a.C., gli eventi di cui parliamo si collocano appunto
nel settimo millennio (Saronne 1988). Angiolo Danti
nella sua traduzione espunta la riga, Eridano Bazzarelli traduce «nell'ultimo
tempo di Trojan» intendendo il passo –
forse non a torto – come se significasse «negli ultimi tempi del
paganesimo» (Bazzarelli 1991). Riguardo a Trojan rimandiamo al capitolo sulle divinità
slave. ⑪
― L'uomo di cui qui si parla è Vseslav Brjačislavovič († 1101), il
sanguinario principe-stregone di Polock, di cui tratta il Codice
Laurenziano della cronaca nestoriana (Se pověsti vremjan
ĭnichŭ lětŭ [Codice Laurenziano:
6552/1044]). Di lui si diceva fosse in grado di trasformarsi in animale,
e pare che la figura dell'eroe bylinico Vol'ga Vseslav'evič sia costruita
su di lui. Tormentata la sua biografia: Vseslav guerreggiò a lungo contro i
fratelli Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod, figli di Jaroslav il «saggio», finché
fu catturato a tradimento e gettato in prigione a Kiev. La «fanciulla che tanto
desiderava» [děvicju sebě ljubu] sembra sia una metafora indicante la
stessa città di Kiev, di cui Vseslav ambiva essere gran principe. Egli riuscì a
soddisfare la sua ambizione («con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev»),
quando il popolo di Kiev, dopo l'incursione dei Polovcy, lo liberò dalla
prigione e lo mise sul trono, dopo aver cacciato Izjaslav. Il regno di Vseslav
fu tuttavia molto breve (♔ 1068-1069). Cacciato,
ritornò a Polock da dove continuò a far guerra agli Jaroslaviči. ⑫
86 ― «Al mattino
conficcò le asce», seguiamo qui la lezione di Eridano Bazzarelli (Bazzarelli 1991). Il luogo infatti è assai corrotto. La
parola di più difficile interpretazione è (s)trikusy, che viene
solitamente intesa con «asce» in base ad una possibile relazione con un termine
di origine germanica (cfr. antico alto tedesco strîtachus «ascia da
combattimento») (Snegirëv 1838 | Potebnja 1878).
Altri studiosi hanno proposto una correzione di strikusy in sŭ tri
kusy(Lichačëv 1950 | Jakobson 1958), da cui la
traduzione di Angiolo Danti «con tre tentativi stracciò la fortuna» (Danti 1979), o di Edgardo Saronne «con tre morsi afferrò
la sorte» (Saronne 1988). ― Dudutki è una
località non identificata, forse vicino a Novgorod. Vari autori, tra cui Roman
Jakobson, hanno proposto emendamenti e correzioni del testo, dando alla parola
diversi significati. ― Sul fiume Nemiga venne combattuta una sanguinosissima
battaglia (1063) tra Vseslav Brjačislavovič e i tre Jaroslaviči: Izjaslav,
Svjatoslav e Vsevolod. Si tratterebbe del fiume Neman (lituano Nemunas,
tedesco Memel, bielorusso Nëman, russo Neman), che sorge
presso Minsk (Bielorussia) e, dopo aver attraversato la Lituania, sfocia nel mar
Baltico (Poggioli 1954).
L'interpretazione più comunemente accettata di questo passo è che
Vseslav si trasformasse effettivamente in un lupo durante la notte e corresse da
Kiev a Tmutorokan' (per quanto non si abbiano notizie di contatti che Vseslav
Brjačislavovič avrebbe avuto con la città di Tmutorokan'). Anche se l'immagine
non differisce da quella di molte altre metafore animali presenti nello Slovo o pŭlku Igorevě, tutto quello che sappiamo del
personaggio del principe-stregone Vseslav ci autorizza a pensare
che l'autore stia qui descrivendo effettivamente un caso di licantropia. Al
riguardo, Pisani ha così argomentato: se la strada percorsa da Vseslav va da
Kiev a Tmutorokan', dunque da nord a sud, il «grande Chors» si muoverebbe di notte da est ad
ovest. Da questo si è ipotizzato che Chors
potrebbe identificarsi con la luna (Pisani 1949).
Curiosamente, la stessa argomentazione porta Edgardo Saronne alla conclusione
opposta: «supponendo che il principe-lupo possa in una sola notte raggiungere
Tmutorokan da Kiev, dovrà correre più del solito, poiché – andando verso sud-est
– incrocerà, sia pur obliquamente, il percorso del sole». Quindi, Chors rappresenterebbe la luce del giorno
(Saronne 1988). ― Riguardo a Chors (antico russo Chŭrsŭ o
Chrŭsŭ), dio slavo della luna o del sole, rimandiamo al capitolo
relativo. ⑬
«Doppio
corpo» è forse un modo per intendere la licantropia di Vseslav Brjačislavovič il
quale poteva assumere a piacere un corpo umano o un corpo di lupo (Jakobson 1948). Alcuni filologi hanno proposto tuttavia di
correggere vŭ druzě tělě «nel doppio corpo» in vŭ drŭzě tělě «nel
corpo valoroso». Ma si tratta di una congettura inutile e fuorviante,
considerato il valore magico del personaggio, oltre che meno intensa dal punto
di vista poetico. (Bazzarelli 1991)
È il vate
Bojan a pronunciare l'epitaffio di Vseslav Brjačislavovič. La traduzione da noi
seguita è quella di Bazzarelli, dove si legge «né l'astuto, né il saggio, né
l'esperto stregone» (Bazzarelli 1991). In precedenza
Danti traduceva «né allo scaltro, né all'abile, né all'uccello agile» (Danti 1979). Ed Edgardo Saronne: «né allo scaltro, né
all'esperto, né all'uccello ciarliero» (Saronne
1988). Il nodo sta nella parola pĭticiju «uccello», che L.A.
Bulakovskij ha proposto di emendare in pitĭcyn «stregone» (Bulakovskij 1978).
Incerta l'identità di questo Vladimir.
Secondo Dmitrij Lichačëv, si tratterebbe del gran principe Vladimir I
Svjatoslavič Svjatoj, il «santo» (♔ 980-1015),
autore di numerose campagne contro i nemici della Rus' (nel corso del suo regno
combatté contro i Ljachi, i Vjatiči, gli Jatviagi, i Radimiči, i Bulgari, i
Chersonesi, i Croati e i Pečenegi), già ricordato all'inizio del poema [5] e posto qui, simmetricamente, a chiudere l'«amaro»
elenco dei principi (Lichačëv 1980). L'ipotesi è
condivisa da Eridano Bazzarelli (Bazzarelli 1991). Di
opinione contraria Edgardo Saronne, il quale ritiene che la figura di Vladimir
il «santo», con le sue eterogenee campagne militari, sia fuori contesto nello
Slovo o pŭlku Igorevě, e ipotizza che qui,
come al v. [5], si faccia riferimento a Vladimir II
Monomach (♔ 1113-1125), il quale fu coordinatore
delle prime campagne vittoriose contro i Polovcy. L'autore lo chiama staryji
Vladiměrŭ «antico Vladimir» in contrapposizione al «giovane» Vladimir
Igorevič, figlio del principe Igor', che è tra i protagonisti del poema. (Saronne 1988) ― Si tratta di Rjurik Rostislavič († 1215),
che all'epoca dei fatti era gran principe di Kiev insieme a Svjatoslav III
Vsevolodovič. Suo fratello Davyd Rostislavič († 1197) era invece principe di
Smolensk. Come ricordato detto sopra, dopo la sconfitta di Igor', i Polovcy
piombarono sulla città di Perejaslavl', di cui era signore Vladimir Glebovič
(cfr. v. [71]). Il gran principe Svjatoslav chiese a
Davyd di prepararsi alla battaglia, ma costui, che aveva sposato una principessa
polovesiana, mantenne un atteggiamento prudente ed evitò di unirsi all'impresa
(cfr. v. [73]). Quando le armate russe arrivarono a
Perejaslavl', i Polovcy avevano già alzato le tende e Vladimir Glebovič era
gravemente ferito ⑭. Questo spiega l'amaro commento del poeta: gli stendardi un
tempo inalberati dall'antico Vladimir (I o II che sia) sono gli stessi ereditati
da Rjurik e Davyd Rostislaviči, ma questi sventolano ormai disgiunti.
Illustrazione di Konstantin Alekseevič Vasil'ev
(1942-1976)
Inizia qui
uno dei brani lirici più belli e intensi di tutto il poema, il lamento della
giovane sposa del principe Igor'. Il brano riprende i ritmi di quel genere
letterario della poesia popolare russa chiamato plač «pianto», che sembra
fuso con intonazioni di preghiere pagane ancora vive ai tempi in cui il poema fu
composto. Il brano è pagano, magico: il lamento è rivolto al vento, al fiume
Dnepr, al sole. È un canto originale, potente, bellissimo, una delle vette
poetiche dello Slovo o pŭlku Igorevě, un
esempio di come il poema della disfatta della schiera di Igor' sia, al di sotto
della superficie cristiana, intriso di paganesimo. ― Evfrosina Jaroslavovna,
giovane sposa del principe Igor', era figlia di Jaroslav Vladimirovič
Osmomysl, «ottuplice pensiero», principe di Galič. L'autore dello Slovo non la chiama per nome ma col patronimico
Jaroslavna, forse per sottolineare la sua ascendenza gentilizia. ― Non è
ben chiaro a quale uccello si riferisca parola antico-russa zegziceju. La
traduzione con «cuculo» sembra giustificata sia dalla presenza nel contesto di
un verbo onomatopeico (kykati), sia dai paralleli con altri testi epici
slavi e baltici. Inoltre, la femmina del cuculo, durante la stagione degli
amori, emette un continuo, melanconico richiamo, dettaglio che avrebbe potuto
suggerire l'identificazione con il pianto di Jaroslavovna (Poggioli 1954 | Saronne 1988). Secondo Eridano Bazzarelli
(che cita vari filologi russi), zigzička sarebbe il nome, in alcuni
dialetti ucraini, del gabbiano, ed è questa la resa che egli dà nella sua
traduzione dello Slovo. Secondo lo studioso,
inoltre, il termine «cuculo» suonerebbe di malaugurio, mentre il «gabbiano»
renderebbe molto meglio il senso del dolore e della solitudine della donna (Bazzarelli 1991). ― Secondo lo storico settecentesco
Vasilij Nikitič Tatiščev (1686-1750), Jaroslavna non si trovava a Putivl' ma a
Novgorod-Seversk, da cui si sarebbe poi regata a Putivl' per accogliere Igor'
fuggiasco (Tatiščev 1768). Né la presenza di un fiume
Dunaj ci illumina, giacché questo termine è molto vago, indicando a seconda
delle occasioni il Don, il Donec, il Dnepr o addirittura il Danubio. Forse
l'autore dello Slovo ignorava dove Jaroslavna
si trovasse effettivamente, ma è certo che dipingerla sul baluardo di Putivl' è
stata una possente trovata poetica. ― «Bagnerò la mia manica di seta».
L'aggettivo bebrjanŭ è derivato da bebrŭ «castoro», ma sembra
avesse anche il significato di «seta», come è attestato negli scoli di un
esemplare ottocentesco dello Slovo, ed è così
che alcuni interpreti intendono il passo (Bazzarelli
1991).
Questo
epiteto del fiume Dnepr, chiamato «figlio di Slovuta» [Dněpre Slovutičju]
si trova in altri racconti e poemi epici antico-russi e ucraini. Lo Slovuta è un
affluente del Pripjat' che è, a sua volta, un affluente del Dnepr. Qui però
l'autore fa una contaminazione poetica tra l'idronimo Slovuta e la parola
slava «gloria». (Bazzarelli 1991). Secondo
altri, Slovuta sarebbe stato una divinità pagana (Plautin 1958).
«Mare di
mezzanotte» [more polunošči] sembra sia metafora per indicare il nord
(Kosorukov 1986), forse il cielo boreale, anche se
sono state date altre interpretazioni. Traduzioni: «a mezzanotte il mare
trabocca» (Poggioli 1954); «spumeggiò il mare a
mezzanotte» (Danti 1979); «spruzzò a mezzanotte il
mare» (Saronne 1988); «il mare di mezzanotte si è
agitato» (Bazzarelli 1991). ― La frase russa idutĭ
smĭrči mŭglami è stata interpretata e tradotta in vari modi. Non è chiaro
cosa siano questi «turbini come nuvole» che avanzano dal «mare di mezzanotte».
Danti traduce nel modo più semplice: «avanzano turbini a forma di nubi» (Danti 1979); Poggioli con più fantasia s'inventa
«s'avanzano trombe marine» (Poggioli 1954); più
semplicemente Saronne traduce «s'alzano vortici» (Saronne
1988). Bazzarelli segue la poetica lezione di Kosorukov secondo cui
l'espressione adombrerebbe un'aurora boreale (Kosorukov
1986) e traduce di conseguenza «si alza l'aurora boreale», intendendo che
in tal modo un dio avrebbe indicato a Igor' la via della fuga e della salvezza
(Bazzarelli 1991). ― Difficile comprendere se bogŭ
sia qui da intendere come «un dio» oppure, come intendono Jakobson e
Plautin, «Dio» (Jakobson 1948 | Plautin 1958).
Questo Vlur
(da un antico-russo Vŭlurŭ, sebbene trascritto nello Slovo nelle lezioni Ovlurŭ e Vlurŭ, a
cui si aggiunge la lezione Lavorŭ presente nella cronaca laurenziana del
Se
pověsti), era un guerriero polovesiano, figlio di una russa (Musin-Puškin 1800). Aiutò Igor' a fuggire perché in
contrasto con altri capi polovesiani. Igor' lo ricompenserà poi dandogli feudi e
cariche. ― Il testo dice che fischiando Vlur avrebbe chiamato «il cavallo»
[komonĭ], ma tradurre «i cavalli» sembra più logico. È stata anche
proposta una correzione secondo la quale Vlur avrebbe in realtà chiamato uno
«scudiero» [komonĭnĭ] (Bulakovskij 1978). La
correzione potrebbe anche essere accettabile dal punto di vista logico, ma non
bisogna alterare il testo senza necessità.
Nella sua
fuga, il principe Igor' viene paragonato a molti animali (ermellino, anatra,
lupo, in seguito falco). Le analogie con quanto si narrava della trasformazione
in lupo di Vseslav [87] rimangono tuttavia solo
formali. Igor' non ha poteri stregoneschi: è la forza poetica, in questo caso,
ad evocare la trasfigurazione.
È qui il
fiume Donec a parlare possente al principe Igor', che gli risponde. La forza
pagana del poema anima gli elementi della natura e del paesaggio, del cielo e
della terra, rendendo possibile il loro dialogo con gli uomini.
Igor' si
riferisce ad un episodio storico. Nel 1093, nel corso della campagna intrapresa
dal gran principe Svjatopolk Izjaslavič contro i Polovcy, i Russi persero
un'importante battaglia. Ritirandosi, le schiere russe furono costrette ad
attraversare il fiume Stugna. Durante il guado, annegò Rostislav Vsevolodovič,
fratello minore di Vladimir Monomach e principe di Perejaslavl', come racconta
il Se pověsti
vremjan ĭnichŭ lětŭ[6601/1093]. ⑮
Il principe
Igor' fuggì dal campo polovesiano solo il 21 giugno 1185. Forse in concomitanza
con il ritorno di Gzak e Končak dalla specizione contro Perejaslavl'. Sembra che
i due qān, irritati per non essere riusciti a prendere la città,
strenuamente difesa da Vladimir Glebovič, avessero cattive intenzioni nei
confronti del principe russo.
Il dialogo di Gzak e Končak, nel quale
affermano il loro proposito di «incatenare il falchetto con una bella fanciulla»
si riferisce al fatto che in seguito, Vladimir Igorevič, il figlio del principe,
rimasto prigioniero presso i Polovcy, sposò (anche in base a precedenti accordi)
la figlia di Končak. Vladimir tornò in patria due anni dopo, nel 1187, con la
moglie e un bambino.
Il vate Bojan fa la sua ultima apparizione in un altro luogo oscuro del poema,
passo che ha avuto molti tentativi di interpretazione, nessuno dei quali
veramente convincente. Invece di na chody «le imprese di», alcuni
interpreti hanno voluto leggere i Chodyna «e Chodyna», inventandosi un
altro mitico cantore e vate, collega di Bojan. Ma si tratta di una lettura
fragilissima, anche considerato di di questo fantomatico «Chodyna» non si ha
alcuna notizia. Tra i nostri traduttori, Danti è il solo a interpretare il verso
in tal senso, traducendo «dissero Bojan e Chodyna» (Danti
1979). Con maggior cautela, Poggioli rende la frase con un semplice
«disse e predisse Bojan» (Poggioli 1954), e Saronne
«direbbe Bojan, cantore del tempo antico» (Saronne
1988), mentre Bazzarelli traduce «così disse Bojan il vate nel cantare le
imprese di...» (Bazzarelli 1991). ― Chi sono i «figli
di Svjatoslav» di cui qui si parla? Certamente non Igor' e Vsevolod
Svjatoslaviči, gli eroi del poema, vissuti molto tempo dopo l'epoca di Bojan.
Forse si tratta però del loro antenato Oleg Svjatoslavič/Gorislavič († 1115), il
quale è citato poco più sotto. Sembra improbabile, invece, che si tratti di
Vladimir Svjatoslavič il «santo» († 1015), che in questo caso sarebbe fuori
contesto. Jaroslav però può essere soltanto Jaroslav Vladimirovič il
«saggio» († 1054). ― La «sposa del kagan'» introduce un altro luogo
oscuro. Kagan' era un titolo dei Chazari e dei Bulgari che però veniva
attribuito anche ai principi russi. Poggioli espunge il passo dalla sua
traduzione. Secondo Eridano Bazzarelli, ci si riferirebbe forse alla principessa
Ol'ga († 969), sposa e poi vedova del gran principe Igor' Rjurikevič (♔ 914-945), che vendicò ferocemente facendo strage dei
Drevljani, per poi essere canonizzata in seguito alla sua conversione al
cristianesimo (Bazzarelli 1991). Più ragionevole la
proposta di Edgardo Saronne, il quale nota che kagan' era probabilmente
il titolo usato dai principi di Tmutorokan', prima che la città cadesse nelle
mani dei Polovcy. Il kagan' di cui qui si parla potrebbe dunque essere
Mstislav Vladimirovič († 1036), fratello di Jaroslav il «saggio» e principe di
Černigov e Tmutorokan' (lo stesso che aveva ucciso in duello il principe Rededja
dei Circassi, cfr. v. [3]), oppure Roman Svjatoslavič
(† 1079), fratello di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič (anche lui citato al v. [3]) (Saronne 1991). Sempre
Saronne ipotizza che Bojan fosse un cantore stabile alla corte di Tmutorokan',
cosa che spiegherebbe questo suo continuo cantare la gloria dei principi di
quella remota regione della Rus'.
Brano trionfale che conclude il poema. Dopo essere tornato a
Novgorod-Severskij, Igor' si era poi recato a Kiev, presso il gran principe
Svjatoslav III Vsevolodovič, dove si era tenuta un'assemblea dei principi. Il
sole che splende nel cielo e le fanciulle che cantano festose sul Dunaj, si
riferirebbero non tanto al ritorno del principe dalla prigionia, quanto alla
conclusione positiva di un accordo dei principi russi (Rybakov 1974).
Ora Igor' esce da Kiev e percorre la via di
Boričev, che metteva in comunicazione la parte alta della città con la parte
bassa (è l'attuale Andreevskij spusk «discesa di Sant'Andrea», dove si
trova tra l'altro la casa natale di Michajl Bulgakov). La chiesa di Nostra
Signora della Torre era stata costruita nel 1132, al tempo del gran principe
Mstislav I Vladimirovič Velikij, il «grande» (♔1125-1132), ed era così chiamata perché vi si venerava un'icona
bizantina, detta appunto della Madonna della Torre. Secondo alcuni interpreti,
Igor' si sarebbe recato in questa chiesa perché era forse il 15 agosto, festa
della Dormizione della Vergine (che corrisponde all'Assunzione dei cattolici).
In questa chiusa «amen» del poema i fautori di un'interpretazione
pagana del poema, tra cui il nostro Bazzarelli, leggono la presenza
un'interpolazione cristiana.
Tuttavia, non solo amen è una chiusa di
rito, c he dà carattere sacrale e profondo a ciò che era stato detto o declamato,
ma nel suo significare «così sia» si riferisce all'augurio di salute e gloria
dei principi russi e alla loro vittoria contro le schiere pagane.
Il gran principe Vladimir I Svjatoslavič, detto il «santo» [Svjatoj]
per aver ufficialmente introdotto il Cristianesimo in Russia (988), morì nel
1015, lasciando un gran numero di figli a contendersi il trono.
Gli succedette
Svjatopolk Vladimirovič, il figlio che Vladimir aveva avuto da una monaca g reca
e che la storia conoscerà con l'epiteto di «dannato» [Okajanij] a causa
dei suoi molti delitti, tra cui l'uccisione di due suoi fratellastri, Boris e
Gleb, in seguito passati agli onori degli altari.
Jaroslav il «saggio»
Monumento in Bila Cerkva
(Ucraina)
Ma Vladimir aveva avuto altri otto figli da un'altra sposa, Rogneda, figlia
del principe Rogvolod di Polock, di cui in questa sede ne citiamo almeno tre:
Jaroslav, Mstislav e Izjaslav Vladimiroviči. Si accesero subito scontro sanguinosi tra Svjatopolk e Jaroslav. Sconfitto in
battaglia, Svjatopolk morì durante la fuga, nel 1019. Ottenuta la vittoria,
Jaroslav dovette poi contendere con un altro dei suoi fratelli, Mstislav il
«coraggioso» [Chrabryj]. Signore di Tmutorokan', e in seguito di Černigov, Mstislav aveva a lungo
combattuto i Kasogi, antenati dei Circassi. Il loro capo Rededja lo aveva
sfidato a lottare a mani nude: il vincitore si sarebbe preso la terra e gli
uomini dello sconfitto. Mstislav aveva accettato la sfida e, atterrato
l'avversario, lo aveva sgozzato con la punta di un pugnale. L'eco di questo
duello – tramandato anche nelle leggende caucasiche – risuona nello Slovo o pŭlku
Igorevě [3].
Alleatosi con Kasogi e Chazari, Mstislav contese a Jaroslav il potere sulla
Rus'. Sanguinose battaglie si accesero tra i due fratelli, ma poi, incontratisi
a Gorodec, nel 1026, essi si riconciliarono e stipularono la pace, decidendo di
spartirsi la Rus' lungo il corso del Dnepr. Jaroslav ottenne la parte
occidentale, con Kiev e Novgorod; Mstislav la parte orientale, con Černigov e
Tmutorokan'. Da allora, i due furono fedeli alleati contro i nemici interni ed
esterni. Dopo la morte di Mstislav, in un incidente caccia, nel 1036, Jaroslav divenne
unico sovrano della Rus'. Si trasferì da Novgorod a Kiev, città che sotto il suo
regno divenne una delle più progredite e prospere d'Europa. Considerato dai
cronisti un modello di virtù, Jaroslav venne chiamato il «saggio»
[Mudryj]. Era infatti un uomo colto, amante dei libri, e promosse la
traduzione dei testi greci in lingua slava. Ottenne da Bisanzio che Kiev
divenisse sede di un vescovo metropolita. Sposato a una figlia del re di Svezia,
assicurò alla propria prole un'educazione assolutamente fuori dall'ordinario. I
discendenti di Jaroslav, gli jaroslavli, sarebbero stati gli antenati di
tutti i principi russi (a parte il ramo di Polock). Onde evitare, alla sua morte, il ripetersi di nuovi dissidi tra i suoi figli,
Jaroslav stabilì una legge di successione per il quale il granprincipato di Kiev
fosse da assegnare al primogenito, mentre agli altri figli, in ordine di età,
venivano assegnate le principali città russe. Il maggiore, Vladimir Jaroslavič,
principe di Novgorod, premorì al padre nel 1052. Dopo la morte di Jaroslav, nel
1054, Izjaslav Jaroslavič divenne gran principe di Kiev, mentre Svjatoslav,
Vsevolod e Vjačeslav ottennero rispettivamente Černigov, Perejaslavl' e
Smolensk.
Le assegnazioni non erano definitive: un complesso meccanismo di rotazioni
stabiliva chi, alla morte di un principe, gli sarebbe succeduto, passando di
principato in principato. In questo modo, ognuno poteva ambire a divenire, prima
o poi, gran principe. Il sistema non era tuttavia perfetto, anche perché i
principi russi avevano di regola un gran numero di figli, e i litigi erano
destinati a sfociare in guerre fratricide.
Quelli di Polock
Torniamo ora a Izjaslav Vladimirovič, figlio di Vladimir il «santo», fratello
di Jaroslav il «saggio». Sua madre Rogneda aveva ottenuto che egli divenisse
principe di Polock, ereditando la città del nonno materno, Rogvolod, ucciso
dallo stesso Vladimir. Morto a soli ventitré anni, nel 1001, Izjaslav ebbe quale
successore il figlio Brjačislav. Insofferente dell'autorità del gran principe Jaroslav, Brjačislav prese ben
presto le distanze dal potere centrale. Le tensioni erano anche esacerbate dal
fatto che, stando al testamento di Vladimir, la linea dei principi di Polock era
esclusa dalla successione per il granprincipato di Kiev. Le ostilità culminarono
in uno scontro aperto, allorché Brjačislav tentò di saccheggiare Novgorod, nel
1021. Sconfitto da Jaroslav, Brjačislav fu costretto a trattare la pace. Brjačislav si spense nel 1044. Gli succedette il figlio Vseslav, il
principe-stregone, uno dei personaggi più inquietanti della storia medievale
russa. Generato dalla madre per magia, costui era nato con la membrana amniotica
che aderiva al capo: su consiglio dei volchvi, gli stregoni, quella
membrana gli fu attaccata al collo. Crudele e sanguinario, è dipinto nelle
leggende come un lupo mannaro, in grado di trasformarsi in animale. Così nello
Slovo:
Всеславъ князь людемъ
судяше, княземъ грады рядяше, а самъ въ ночь влъкомъ рыскаше: изъ Кыєва
дорискаше до куръ Тмутороканя, великому Хръсови влъкомъ путь прерыскаше.
Il principe Vseslav amministrava la giustizia, e governava
i principi delle città, nella notte però galoppava come lupo, prima del canto
del gallo correva da Kiev fino a Tmutorokan' e tagliava la strada al grande Chrŭsŭ.
Quando Vseslav Brjačislavovič entrò in scena, dicono le cronache, il sole si
fece opaco come la luna e una stella rossa come il sangue si levava la sera dopo
il tramonto. Fatto sta che, nel 1067, Vseslav occupò Novgorod, città cara al gran principe
Jaroslav, e l'abbandonò al saccheggio. Per vendicarsi, il gran principe Izjaslav
Jaroslavič, insieme ai fratelli Svjatoslav e Vsevolod (Vjačeslav era morto dieci
anni prima), presero Minsk, massacrando gli uomini e portando via donne e
fanciulli come bottino. Dopodiché gli Jaroslaviči si scontrarono con le schiere
di Vseslav sul fiume Neman, in un freddo assassino. La battaglia divenne una
carneficina e Vseslav, avuta la peggio, si diede alla fuga. I tre Jaroslaviči lo invitarono a trattare una tregua e garantirono la sua
incolumità baciando solennemente la croce. Vseslav si lasciò convincere. Tornò
indietro ma venne catturato. Condotto in catene a Kiev, fu gettato in carcere,
insieme ai suoi due figli. Così lo Slovo ricorda questi
eventi:
Утръ же воззнис трикусы, отвори врата
Нову-граду, разшибе славу Ярославу.
Utrŭ že vozznis trikusy, otvori vrata
Novu-gradu, razšibe slavu Jaroslavu.
Al mattino [Vseslav] conficcò le asce, aprì le
porte di Novgorod e distrusse la gloria di Jaroslav.
Скочи влъкомъ до Немиги съ Дудутокъ. На Немизѣ
снопы стелютъ головами, молотятъ чепи харалужными, на тоцѣ животъ кладутъ, вѣютъ
душу отъ тѣла.
Skoči vlŭkomŭ do Nemigi sŭ Dudutokŭ. Na
Nemizě snopy steljutŭ golovami, molotjatŭ čepi charalužnymi, na tocě životŭ
kladutŭ, vějutŭ dušu otŭ těla.
Balzò qual lupo da Dudutki fino al fiume Nemiga
[Neman]. E là sulla Nemiga fanno covoni di teste, trebbiano con catene di ferro,
gettano le vite sull'aia, vagliano le anime dai corpi.
Il 1068 fu un anno terribile per la Rus'. I Polovcy – una cui avanguardia
aveva già violato i confini russi sette anni prima – arrivarono di nuovo, questa
volta in massa. Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod si accinsero a respingerli, ma
furono sbaragliati e ricacciati indietro. Izjaslav e Vsevolod tornarono
precipitosamente a Kiev, Svjatoslav si rinchiuse a Černigov. I Polovcy, senza
più nessuno a trattenerli, presero a saccheggiare i territori circostanti. A Kiev, il popolo tenne il veče al mercato e chiese al gran principe
Izjaslav cavalli e armi per sconfiggere gli invasori. Ma poiché Izjaslav
stentava a prendere un atteggiamento deciso, i kievani insorsero, assaltarono il
suo palazzo e lo deposero, saccheggiando i ricchi forzieri del gran principe.
Izjaslav e Vsevolod fuggirono dalla città. A quel punto i Kievani liberarono
Vseslav dalla prigione e lo nominarono gran principe della città. Mentre a Kiev succedevano questi fatti, a Černigov i Polovcy stringevano
d'assedio la città. Svjatoslav mise insieme una piccola družina e uscì
contro di loro. Tremila uomini contro dodicimila pagani. Era un'impresa
disperata, ma Svjatoslav non aveva nulla da perdere. Riuscì tuttavia a
sconfiggere i nemici e tornò vittorioso alla sua città. Nel frattempo, dopo essere scappato da Kiev, Izjaslav si era rifugiato nella
terra dei Ljachi, in Polonia. Tornò l'anno successivo, alla testa dell'esercito
polacco, guidato da re Bolesław II Szczodry. Vseslav, insediato a Kiev da sette
mesi, fuggì di nascosto durante la notte, passando per Belgorod.
L'intronizzazione e la fuga di Vseslav sono ricordati nello Slovo:
На седьмомъ вѣцѣ Трояни връже Всеславъ жребїй о дѣвицю
себѣ любу. Тъй клюками подпръ ся о кони и скочи къ граду Кыєву и дотчеся
стружїємъ злата стола кієвьскаго.
Na sedĭmomŭ věcě Trojani vrŭže Vseslavŭ žrebïj o
děvicju sebě ljubu. Tŭj kljukami podprŭ sja o koni i skoči kŭ gradu Kyẹvu i
dotčesja stružïẹmŭ zlata stola kіẹvĭskago.
Nella settima età di Trojan, gettò Vseslav le sorti per la
fanciulla che tanto desiderava. E promettendo astutamente i cavalli, volò fino
alla città di Kiev e con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev.
Il figlio di Izjaslav, Mstislav, precedette il padre a Kiev e fece
sommariamente giustiziare i cittadini che avevano liberato Vseslav, per un
totale di settanta persone; altri li fece accecare. Quando Izjaslav entrò in
città, i kievani gli andarono incontro umilmente e lo accolsero come loro gran
principe. Izjaslav ordinò a Mstislav di assumere il principato di Polock, in
luogo di Vseslav. Ma Mstislav morì di lì a poco e il suo posto fu preso dal
fratello Svjatopolk. Ma Vseslav scacciò Svjatopolk e tornò a insediarsi a
Polock. Nel 1073, i tre Jaroslaviči – Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod – si riunirono
per concordare un'azione comune contro Vseslav. Se il loro piano non andò a buon
fine, però, fu solo a causa dei contrasti che sorsero tra i tre fratelli.
L'ambizioso Svjatoslav accusò Izjaslav di essersi alleato in segreto con
Vseslav, e riuscì a trascinare anche Vsevolod dalla sua parte. Izjaslav dovette
fuggire ancora una volta in Polonia. In quanto a Vseslav di Polock, continuò a guerreggiare contro gli
Jaroslaviči, finché morì anche lui, nel 1101.
Il tempo di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič
Già principe di Černigov, Svjatoslav Jaroslavič si proclamò nel 1073 gran
principe di Kiev, al posto del fratello Izjaslav. Non godette però a lungo del
granprincipato: morì solo tre anni dopo, per un'ulcera. A quel punto, Izjaslav
tornò dalla Polonia e Vsevolod, il quale nutriva anch'egli le medesime ambizioni
su Kiev, mosse in armi contro di lui. I due però si riappacificarono e, nel
1077, Izjaslav assunse per la terza volta il titolo di gran principe di
Kiev. Izjaslav confermò o dispose i suoi parenti nei vari principati: i figli
Svjatopolk e Jaropolk rispettivamente a Novgorod e Vyšegorod. Al figlio di
Vsevolod, Vladimir Monomach (così chiamato perché sua madre Anastasía era figlia
di Kōnstantínos IX Monomáchos, imperatore di Bisanzio), andò la città di
Smolensk. Lo stesso Vsevolod si era ormai installato nell'importante città di
Černigov, prima appartenuta a Svjatoslav. Svjatoslav lasciava però alcuni figli, i quali, manco a dirlo, nutrivano mire
su Černigov. Soprattutto Oleg Svjatoslavič – nonno del nostro principe Igor' –
diventerà importante in questa fase della vicenda. Lo Slovo gli attribuirà la maggiore responsabilità per
le discordie che lacereranno la Rus', e lo chiamerà, con gioco di parole
inelegante, ma di indubbia efficacia, Gorislavič «figlio di Malagloria»
(rovesciando il senso del patronimico Svjatoslavič «figlio di Santa
Gloria»).
Тогда при Олзѣ Гориславличи
сѣяшется и растяшеть усобицами, погибашеть жизнь Даждьбожа внука; въ княжихъ
крамолахъ, вѣци человѣкомь скратишась.
Togda pri Olzě Gorislavliči
sějašetsja i rastjašetĭ usobicami, pogibašetĭ žiznĭ Daždĭboža vnuka; vŭ
knjažichŭ kramolachŭ, věci čelověkomĭ skratišasĭ.
Al tempo di Oleg Gorislavič,
figlio di una gloria amara, si seminavano e crescevano le discordie, periva la
potenza dei nipoti di Daž'bog e nelle
contese dei principi si accorciava la vita alla gente.
Slovo o pŭlku
Igorevě [40]
Nel 1078, alla testa delle sue schiere, Oleg Svjatoslavič si mosse alla
conquista di Černigov. Con lui era suo cugino, l'orgoglioso Boris Vjačeslavič
(figlio del defunto Vjačeslav Jaroslavič). L'anno precedente (1077), approfittando del fatto che Vsevolod era partito ad
affrontare Izjaslav, Boris aveva preso il potere a Černigov, con la probabile
complicità di Oleg. Ma quando i due zii si erano riconciliati, Boris era fuggito
dalla città, dopo soli otto giorni di principato, e aveva riparato a
Tmutorokan', città posta sullo stretto di Kerč, all'ingresso del mar d'Azov. Lo
stesso Oleg lo aveva raggiunto pochi mesi dopo. Il principe della città era uno
dei fratelli di Oleg, Roman Svjatoslavič, detto il «bello» [Krasnyj]
(Slovo [3]). Roman era stato presto coinvolto
dallo spregiudicato fratello in un'alleanza con gli stessi Polovcy contro i
propri parenti. L'alleanza era andata a buon fine, e ora i due cugini – Oleg e
Boris – ritornavano nella Rus' alla testa di un contingente di mercenari
polovesiani. Era la prima volta che dei principi conducevano volontariamente un popolo
nemico sul territorio russo. Vsevolod mosse contro di loro ma venne sconfitto e
dovette riparare a Kiev. Oleg e Boris presero il potere a Černigov. Questi eventi portarono a un avvicinamento tra Izjaslav e Vsevolod, i quali
decisero di muovere un attacco congiunto ad Oleg e Boris. Mossero, dunque, da
Kiev alla volta di Černigov. Con loro erano i rispettivi figli, Jaropolk
Izjaslavič e Vladimir Monomach. Nel vedere schierato l'esercito kievano, Oleg
propose di trattare la pace, ma Boris dichiarò orgogliosamente che avrebbe
potuto tenere testa da solo all'intera armata. Il 3 ottobre 1078 i due eserciti
si scontrarono a Nežatiaja Niva, presso il fiumicello Kanin, e la battaglia si
trasformò in un massacro. A dispetto della sicumera esibita, Boris Vjačeslavič
cadde ucciso quasi subito. Piuttosto che subire il rovescio, Oleg fuggì con la
sua družina, riparando di nuovo a Tmutorokan'. Nel corso della battaglia, però, cadde ucciso anche il gran principe
Izjaslav, colpito alle spalle da una lancia. Il suo corpo fu portato in barca a
Gorodec e poi, in slitta, fino a Kiev, dove venne sepolto con tutti gli onori.
Il figlio Jaropolk lo seguì, piangendo, alla testa della družina. Così lo
Slovo ricorda questi fatti (ma si noti la
confusione di Jaropolk con l'altro figlio del gran principe,
Svjatopolk):
Ступаєтъ въ златъ стремень въ
градѣ Тьмутороканѣ, той же звонъ слыша давный великый Ярославь, а сынъ Всеволожь
Владиміръ по вся утра уши закладаше въ Черниговѣ.
Stupaẹtŭ vŭ zlatŭ stremenĭ
vŭ gradě Tĭmutorokaně, toj že zvonŭ slyša davnyj velikyj Jaroslavĭ, а synŭ
Vsevoložĭ Vladimіrŭ po vsja utra uši zakladaše vŭ Černigově.
Saliva Oleg sulla staffa
d'oro, nella città di Tmutorokan', e ne udiva il suono [il figlio dell']antico,
grande Jaroslav, mentre il figlio di Vsevolod, Vladimir, a Černigov si turava le
orecchie.
Бориса же Вячеславлича слава
на судъ приведе и на Канину зелену паполому постла за обиду Олгову, храбра и
млада князя.
Borisa že Vjačeslavliča
slava na sudŭ privede i na Kaninu zelenu papolomu postla za obidu Olgovu,
chrabra i mlada knjazja.
La brama di gloria trasse
Boris Vjačeslavič al giudizio e sul Kanin gli fu steso un verde sudario per
l'offesa arrecata ad Oleg, valente e giovane principe.
Съ тояже Каялы Святоплъкь
повелѣ яти отца своєго междю угорьскими иноходьцы ко Святѣй Софїи къ Кієву.
Sŭ tojaže Kajaly
Svjatoplŭkĭ povelě jati otca svoẹgo meždju ugorĭskimi inochodĭcy ko Svjatěj
Sofïi kŭ Kіẹvu.
Così dal fiume Kajala ordinò
Svjatopolk che il padre suo fra destrieri ungheresi fosse portato a Santa Sofia
in Kiev.
Slovo o pŭlku
Igorevě [38-39]
Morto Izjaslav, suo fratello Vsevolod assunse il granprincipato di
Kiev, assegnò il figlio Vladimir Monomach a Černigov e diede a Jaropolk le città
di Vladimir e Turov.
Negli anni successivi, i due Svjatoslaviči, Oleg e Roman, continuarono a far
guerra a Vsevolod, nel tentativo di prendere il controllo del principato di
Černigov. I due non si facevano scrupolo di utilizzare mercenari polovesiani per
raggiungere i loro scopi, e questi ultimi erano ben felici di potersi
intromettere nelle beghe interne della Rus' per ricavare a loro volta potere e
bottino. Per tale ragione, Vsevolod si affrettò a stipulare la pace con i
Polovcy, privando i suoi avversari della loro principale risorsa bellica. Roman
fu ucciso dai Polovcy. Oleg, catturato dai Chazari, fu spedito in esilio in
Grecia. Nel 1093, alla morte del gran principe Vsevolod, rischiò di accendersi una
nuova contesa tra suo figlio, Vladimir Monomach, e Svjatopolk, figlio di
Izjaslav. Vladimir, saggiamente, lasciò il trono al cugino e si ritirò a
Černigov. Poco dopo, però, ecco i Polovcy lanciare un nuovo, poderoso attacco
alla Rus'. Svjatopolk chiese l'aiuto di Vladimir. Ma la contesa tra i due, che
era stata evitata nella fase di successione, rischiò di riaccendersi alla
vigilia della battaglia, in quanto Vladimir era propenso di trattare la pace con
i nemici, mentre Svjatopolk intendeva combatterli. Si decise per la guerra, e le
schiere russe, guadato il fiume Stugna, si gettarono sui Polovcy. Ma il nemico
contrattaccò con tanta forza che i Russi furono costretti a ritirarsi. Nel
guadare di nuovo il fiume, annegò Rostislav Vsevolodovič, fratello minore di
Vladimir Monomach e principe di Perejaslavl', come ricorda lo Slovo.
Не тако ти [...] рѣка Стугна;
худу струю имѣя, пожръши чужи ручьи и стругы, рострена к устью, уношу князю
Ростиславу затвори. Днѣпрь темнѣ березѣ плачется мати Ростиславя по уноши Князи
Ростиславѣ. Уныша цвѣты жалобою и древо с тугою къ земли прѣклонилось.
Ne tako ti [...] rěka
Stugna; chudu struju iměja, požrŭši čuži ručĭi i strugy, rostrena k ustĭju,
unošu knjazju Rostislavu zatvori. Dněprĭ temně berezě plačetsja mati Rostislavja
po unoši Knjazi Rostislavě. Unyša cvěty žaloboju i drevo s tugoju kŭ zemli
prěklonilosĭ.
Non così [...] il fiume Stugna
che con scarsa corrente, dopo aver superato gli altri ruscelli e torrenti, si
apre verso la foce. Il principe Rostislav inghiottì nel suo fondo. Presso la
buia riva, piange la madre di Rostislav, piange la madre del giovane principe
Rostislav, intristiti appassiscono i fiori, per l'angoscia si piegano gli alberi
a terra.
Slovo o pŭlku
Igorevě [107]
Imbaldanziti dalla vittoria, i Polovcy saccheggiarono il paese, dando fuoco
alle città e prendendo schiavi uomini e donne. Fu un periodo terribile per la
Rus', e dovunque si vedevano solo disperazione, fame, gelo e miseria. Nel 1094, Svjatopolk accondiscese a trattare con i Polovcy. Fu stipulata
nuovamente la pace e Svjatopolk sposò la figlia del capo nemico, Tugorkān. Ma
intanto ecco ricomparire Oleg Svjatoslavič. Ritornato dalla Grecia e ripreso il
controllo di Tmutorokan', Oleg si mise per ancora una volta alla testa dei suoi
mercenari polovesiani e – quasi un chiodo fisso – tornò ad assediare Černigov.
Piuttosto che combattere, Vladimir Monomach consegnò la città ad Oleg e si
ritirò a Perejaslavl'. Gli anni successivi furono confusi e convulsi. Approfittando dei dissidi tra
i principi russi, i Polovcy tornarono più volte a violare i confini della Rus',
compiendo scorrerie sempre più devastanti. Svjatopolk e Vladimir chiesero a
Oleg, ormai stabilmente insediato a Černigov, di unirsi a loro per combattere il
comune nemico, ma quest'ultimo finse di accondiscendere per poi schierarsi
ancora una volta dalla parte dei nemici. I due principi si trovarono così
combattere su due fronti: da un lato contro i Polovcy, che continuavano a
devastare il territorio russo, dall'altra contro l'infido Oleg Svjatoslavič, il
quale faceva continuamente il doppio gioco ai loro danni. Nel corso degli scontri, Oleg riuscì a conquistare Rostov, Beloozero e
Suzdal', e poi anche Murom, prendendo in pratica il controllo di tutta la Rus'
orientale. Nel corso di questi scontri, cadde Izjaslav Vladimirovič, figlio di
Vladimir Monomach. Inutilmente l'altro figlio del principe, Mstislav, signore di
Novgorod, invitò Oleg a trattare la pace. Per tutta risposta, Oleg mise a ferro
e a fuoco la città di Suzdal'. Ormai esasperati, Vladimir e Mstislav si mossero
con gran dispiego di forze e attaccarono Oleg a Rjazan', costringendolo alla
fuga. Nel 1097, Oleg fu messo con le spalle al muro e costretto ad accordarsi
con i suoi cugini e nipoti. Nel 1107, dopo una serie di sanguinose battaglie,
Šarukan, capo dei Polovcy, venne finalmente messo in fuga da una coalizione a
cui partecipavano il gran principe Svjatopolk Izjaslavič, Vladimir Monomach e lo
stesso Oleg Svjatoslavič. Svjatopolk morì nel 1113 e Vladimir II Monomach divenne gran principe di
Kiev. Fu uno dei maggiori sovrani della storia russa e, sotto il suo oculato
governo, la minaccia rappresentata dai Polovcy venne finalmente contenuta. In
quanto a Oleg Svjatoslavič, il «figlio di Malagloria», si spense due anni dopo,
nel 1115.
L'epoca del principe Igor'
Alla morte di Vladimir II Monomach, nel 1125, gli succede sul trono il figlio
Mstislav Vladimirovič, detto il «grande» [Velikij]. È l'ultimo gran
principe di Kiev di una certa levatura, e rimarrà sul trono fino al 1132. Ma, da
questo punto in poi, riassumere gli avvicendamenti al granprincipato di Kiev
diviene impresa improba, tanti sono i principi che giocano a rubarsi il trono a
vicenda per tutto il XII secolo, peraltro con la continua e incessante ostilità
degli ol'goviči.
Igor' Svjatoslavič
Monumento in Novgorod-Severskij [Novhorod-Sivers'kyj]
(Ucraina)
I discendenti di Oleg Svjatoslavič, nemmeno a dirlo, continuavano a
rappresentare una bella spina nel fianco per gli jaroslavli. Oleg aveva
infatti lasciato un certo numero di figli, tra cui vanno citati almeno tre:
Vsevolod, Igor' e Svjatoslav Ol'goviči. Il maggiore, Vsevolod Ol'govič, aveva tentato a suo tempo una riconciliazione
con l'altro ramo della famiglia, sposando la figlia di Mstislav Vladimirovič. Da
questa aveva avuto due figli, Svjatoslav e Jaroslav, i quali avranno a loro
volta un ruolo importante nello Slovo.
Vsevolod divenne gran principe nel 1139. Alla sua morte, nel 1146, ebbe la
malaugurata idea di disegnare quale successore il fratello Igor', nonostante le
resistenze degli altri principi e del popolo kievano. Igor' Ol'govič aveva
infatti ereditato le peggiori qualità del suo genitore: era infido, disonesto e
violento, e dopo neppure due settimane di regno venne deposto da Izjaslav,
figlio di Mstislav Vladimirovič. Gettato in prigione, Igor' si ammalò e chiese
di farsi monaco. Ma l'anno successivo (1147), nonostante il saio, venne linciato
dalla folla, per timore che volesse usurpare il trono.
Il fratello minore di Vsevolod e Igor', Svjatoslav Ol'govič, riuscì invece a
fuggire. Costui condusse una vita di continue battaglie e fu fiero alleato dei
Polovcy contro i suoi stessi parenti. Aveva sposato una principessa polovesiana,
da cui aveva avuto un figlio, Oleg. In seguito, contratto un nuovo matrimonio,
con una donna russa, aveva avuto altri due figli, Igor' e Vsevolod
Svjatoslaviči. Nel 1173, dopo vari eventi e un'impressionante sequela di gran principi, salì
al trono Rjurik II Rostislavič. Era figlio di Rostislav Mstislavič, figlio di
Mstislav Vladimirovič.
Rjurik era un uomo intelligente, amante della letteratura e dell'arte,
orgoglioso e generoso al tempo stesso. Ardimentoso in battaglia, disinvolto nel
trattare le proprie alleanze, era anche un abile stratega e in più poteva
contare su una družina militarmente esperta. Appena salito al trono, si
trovò subito a fronteggiare la minaccia rappresentata dal principe del piccolo
feudo di Putivl', Igor' Svjatoslavič, il quale aveva ottenuto ancora una volta
il sostegno dei Polovcy. Questo Igor' era il figlio di Svjatoslav Ol'govič.
Rjurik mosse contro i lui e lo sconfisse presso il fiume Voroskla. Igor' riuscì
tuttavia a fuggire, aiutato dal qān Končak (il quale in seguito diventerà
suo nemico, come leggiamo nello Slovo).
Il granprincipato di Rjurik si rivelò, da subito, piuttosto traballante. Per
quanto la sconfitta di Igor' fosse stata salutata come una vittoria della Rus',
la presenza degli ol'goviči non gli dava sicurezza. Rjurik decise allora
per una soluzione di compromesso, e cedette il controllo di Kiev all'allora
principe di Černigov, Svjatoslav Vsevolodovič (il figlio di Vsevolod Ol'govič),
mantenendo per sé il governo delle altre città del principato. In cambio, gli
ol'goviči si impegnarono a rompere la secolare alleanza con i Polovcy.
Questi fatti determinarono un mutamento di politica da parte dei discendenti di
Oleg. Lo stesso principe Igor', per lealtà al ramo di Černigov, finì per
schierarsi con il nuovo gran principe, Svjatoslav III Vsevolodovič, il quale era
suo cugino. Nonostante i buoni propositi, sarebbe incauto affermare che la decisione di
Rjurik portasse stabilità nell'irrequieta politica interna della Rus'. Il
granprincipato di Rjurik fu quanto mai convulso: egli spese la sua esistenza in
pressoché ininterrotte spedizioni belliche, contro nemici interni ed esterni.
Per ben sette volte arrivò a conquistare l'aureo trono di Kiev, trono che, in
due occasioni, cedette con sprezzo ai rivali sconfitti. Rjurik ebbe tuttavia con
Svjatoslav un rapporto assai collaborativo, tanto che i due finirono addirittura
per co-regnare per alcuni anni (1182-1194). Tra alti e bassi, il regno di Rjurik
e Svjatoslav caratterizzò l'ultimo quarto del XII secolo, soprattutto per quanto
riguarda i rapporti tra Russi e Polovcy. Gli ormai secolari nemici occupavano, all'epoca, tutto il litorale nord del
Mar Nero, fino all'ansa del Don. Alcuni territori un tempo appartenuti alla Rus'
– come la città di Tmutorokan' – erano nelle loro mani. La cronica debolezza
politica della Rus', li favoriva nelle continue incursioni e schermaglie di
confine. Ma ottenuta la fedeltà degli ol'goviči, Rjurik e Svjatoslav
provvidero a creare una coalizione, per quanto fragile, tra i vari principi, in
modo da schiacciare definitivamente le velleità dei Polovcy. Diverse spedizioni
furono organizzate negli anni successivi, perlopiù con esiti positivi,
soprattutto le campagne del 1183 e 1184. Non solo i Polovcy vennero sbaragliati,
ma il qān Kobjak venne catturato e condotto prigioniero a Kiev dove,
sembra, venne giustiziato. Il principe Igor' Svjatoslavič non poté prendere parte a nessuna delle due
campagne, per ragioni climatiche. Nel 1180, infatti, era divenuto signore di
Novgorod-Severskij, una cittadina di ubicazione piuttosto nordica. In quelle
regioni, il ghiaccio serrava la terra fino a primavera inoltrata e il disgelo
rendeva poi intransitabili le campagne, ostacolando la discesa a sud della
cavalleria. Per ben due volte, Igor' aveva visto sfumare l'occasione di
partecipare a spedizioni tanto importanti. Tantopiù che, dopo il suo passato di
amicizia con i Polovcy, il principe ambiva mostrare la sua fedeltà a Kiev e,
soprattutto, a suo cugino, il gran principe Svjatoslav. Fu questa la principale ragione per cui, nella primavera del 1185, egli partì
per la sua famosa, sfortunata campagna. Non si esclude che a tanto azzardo lo
avesse condotto il desiderio di riconquistare alla Rus' lo sbocco sul Mar Nero e
agli svjatoslavli di riprendersi la città di Tmutorokan', di cui un tempo
era stato principe nonno Oleg.
I fatti del 1185
Le due redazioni del Se pověsti vremjanĭnichŭ lětŭ concordano con lo
Slovo nei punti fondamentali della vicenda
igoriana. Igor' Svjatoslavič lasciò la città di Novgorod-Severskij il 23 aprile 1185,
alla testa delle sue schiere. Insieme a lui, la sposa Evfrosina Jaroslavna,
figlia del principe di Galič, Jaroslav Vladimirovič detto Osmomysl,
dall'«ottuplice pensiero». (Costui discendeva da Vladimir, figlio di Jaroslav il
«saggio». Questi, come si ricorderà, era morto prima di suo padre, ragion per
cui i suoi discendenti erano stati esclusi dalla possibilità di accedere al
granprincipato di Kiev e si erano dovuti accontentare di feudi minori). Pochi giorni dopo, l'armata di Igor' giunse alla città di Putivl', di cui era
allora signore il principe Vladimir Igorevič (figlio dello stesso Igor').
Lasciata Evfrosina a Putivl', Igor' e Vladimir si misero in marcia verso sud,
alla testa del loro esercito. La sera del 1° maggio, martedì, giunte le schiere presso il fiume Donec, si
verificò l'eclisse narrata nello Slovo. Il
sole si oscurò, divenne verdognolo, e le stelle comparvero in cielo in pieno
giorno. Gli uomini, inquieti, cominciarono a mormorare tra loro, ma Igor' li
riprese fieramente: «Nessuno conosce i misteri divini, e Dio è l'autore del
segno come del mondo intero. E ciò che Dio ci darà, sia per il bene che per il
male, lo vedremo!» (Se pověsti vremjanĭnichŭ
lětŭ[6694/1185]). E detto ciò, guadò fieramente il Donec. Giovedì 3 maggio, dopo due giorni di attesa, giunse il fratello di Igor',
Vsevolod Svjatoslavič, principe di Trubčevsk, alla testa di una formidabile
armata raccolta presso Kursk. Organizzato l'esercito, il principe Igor' tenne il
suo discorso. Dopodiché l'armata si rimise in marcia. I quattro partecipanti
alla spedizione (i «quattro soli» dello Slovo)
erano dunque:
Igor' Svjatoslavič, principe di Novgorod-Severskij;
Vsevolod Svjatoslavič, suo fratello, principe di Trubčevsk e di Kursk;
Vladimir Igorevič, suo figlio, principe di Putivl';
Svjatoslav Ol'govič (figlio di Oleg Svjatoslavič), suo nipote, principe di
Ryl'sk.
Evfrosina Jaroslavna
Monumento in Novgorod-Severskij [Novhorod-Sivers'kyj]
(Ucraina)
Venerdì 4 maggio, all'ora di pranzo, i Russi arrivarono in vista dei Polovcy,
i quali si erano attendati presso la riva di un fiume. Schierate le compagnie,
Igor' diede l'ordine di attacco. Presi di sorpresa, i Polovcy si diedero alla
fuga, ma i Russi li inseguirono, li sgominarono e fecero molti prigionieri. Poi
i soldati di Igor' piombarono sull'accampamento polovesiano e lo saccheggiarono,
catturando donne e bambini.
Quella sera, i Russi festeggiarono la facile
vittoria, tra sogni di gloria. «E ora inseguiremo i Polovcy oltre il Don e li
sconfiggeremo del tutto. E se anche lì avremo vittoria, li inseguiremo fino al
litorale, dove neppure i nostri avi sono andati, e ci prenderemo la nostra
gloria e il nostro onore fino in fondo!» (Se pověsti vremjanĭnichŭ
lětŭ [6694/1185]).
Ma all'alba del mattino successivo, sabato 5 maggio, comparvero da lontano le
schiere polovesiane, ed erano talmente fitte e numerose che i Russi ne furono
sgomenti. I principi compresero che, affidandosi ai loro cavalli, avrebbero
potuto giungere al Donec e salvarsi, ma così facendo avrebbero sacrificato la
fanteria. Rimasero dunque sul posto, ad affrontare il nemico. I Russi si
batterono fino a sera, e il principe Igor' fu ferito a un braccio.
Il combattimento durò tutta la notte e proseguiva ancora all'alba di
domenica. Vsevolod si batteva con impeto e coraggio, e Igor', in sella al suo
cavallo, cercava di tenere compatte le schiere che iniziavano a disgregarsi. Gli
uomini presero a fuggire verso il lago, sfiniti dalla sete, ma i Polovcy li
chiusero presso la riva e li massacrarono. Molti caddero, i družinniki
vennero uccisi, i quattro principi fatti prigionieri. Igor' fu catturato da un uomo di nome Čilbuk della tribù dei Targol, ma al
campo polovesiano fu lo stesso qān Končak – il suo ex alleato – a
occuparsi di lui, poiché era ferito. Dopo quella vittoria, i Polovcy s'inorgoglirono e tornarono a saccheggiare la
Rus'. Dopo aver messo a ferro e a fuoco i villaggi lungo la Sula, piombarono su
Perejaslavl'. Il principe della città era Vladimir Glebovič. Costui era figlio
del gran principe Gleb Jur'evič (a sua volta figlio di Jurij I Vladimirovič
Dolgorukij, figlio di Vladimir II Monomach); sua sorella, che lo Slovo chiama con il semplice patronimico di
Glebovna, aveva sposato Vsevolod Svjatoslavič (fratello del nostro
Igor'). Vladimir scese in combattimento, alla testa di un'esigua družina,
cercando di respingere i nemici. Era un uomo abile e assai coraggioso;
ciononostante, venne riportato in città dai suoi uomini, ferito da tre lance.
Sofferente, inviò messaggeri ai gran principi, Rjurik e Svjatoslav, informandoli
del pericolo e implorandoli di correre in suo soccorso. Il gran principe Svjatoslav Vsevolodovič si trovava a Černigov, quando gli
giunse la notizia della disfatta di Igor'. Ne fu terribilmente contrariato. La
sconsiderata iniziativa di Igor' rischiava di mandare all'aria tutti gli sforzi
da lui compiuti per contrastare i Polovcy. Oltretutto, di fronte alle terribili
notizie che giungevano dalla Sula e da Perejaslavl', il panico cominciava a
dilagare tra il popolo russo. Svjatoslav mandò subito un'ambasciata al fratello
di Rjurik, Davyd Rostislavič, principe di Smolensk, avvertendolo della necessità
di armarsi contro i Polovcy. Questo Davyd conservava tuttavia un equilibrio
piuttosto delicato con i Polovcy (la sua stessa moglie era polovesiana) e, già
in passato, aveva mantenuto un atteggiamento ambivalente, evitando di combattere
contro il popolo di suo suocero. Svjatoslav perse del tempo prezioso attendendo
rinforzi che non arrivarono mai. I principi russi riuscirono a riunirsi con
grave ritardo e, quando giunsero a Perejaslavl', i Polovcy avevano già alzato le
tende e Vladimir Glebovič era ormai in fin di vita. Sarebbe morto due anni
dopo.
La situazione degenerava rapidamente. Pochi giorni dopo, i Polovcy piombarono
su Rimov. Gli abitanti si barricarono nella città e, dai bastioni, osservavano
sgomenti i nemici che assediavano la città. Allora un lato del muro di cinta,
carico di gente, crollò. Una parte dei nemici rimase schiacciata; gli altri
approfittarono però del varco e penetrarono nella città, mettendola a ferro e a
fuoco. Gli abitanti di Rimov furono massacrati o presi prigionieri. Solo alcuni,
guadando gli acquitrini, riuscirono a salvarsi. Intanto, Igor' Svjatoslavič si trovava prigioniero presso l'accampamento di
Končak, oppresso dal rimorso per tutte le catastrofi di cui era o si sentiva
responsabile, in colpa per tutto il sangue cristiano versato a causa del suo
orgoglio. I Polovcy lo trattavano con tutti i riguardi. Venti guardiani lo
seguivano, lo servivano e lo tenevano d'occhio in par misura. Igor' poteva
andare dove voleva, persino a caccia col falcone, e tutti i suoi ordini erano
subito eseguiti senza discutere. Gli era stato persino permesso di tenere un
pope con tutto l'occorrente per celebrare la messa.
Nonostante ciò, Igor' non smetteva di pensare alla fuga. Cosa non facile,
visto che l'accampamento era completamente circondato dalle schiere nemiche. Lo
tratteneva inoltre il pensiero dei suoi družinniki, anch'essi
prigionieri, e non se la sentiva di fuggire da solo, abbandonandoli in mano ai
Polovcy. Ma quando, dopo i fatti di Perejaslavl', cominciò a girare voce che i
Polovcy avevano intenzione di ucciderlo, Igor' tornò ad accarezzare il suo
progetto. Non sarebbe mai riuscito a organizzare una fuga in massa, ma poteva
liberare sé stesso. Poteva peraltro contare sull'aiuto di un giovane, figlio di
un polovesiano e di una russa, che gli era affezionato, certo Lavor (è il Vlur
dello Slovo). Così una sera, al tramonto, ora
in cui i polovesiani erano ebbri di kumys, Igor' mandò Lavor ad
attenderlo con un cavallo presso il Donec. Poi, dopo aver pronunciato un'ultima
preghiera, prese con sé croce e icona, e sgattaiolò da sotto la tenda. I suoi
guardiani ridevano e giocavano, convinti che dormisse. Invece Igor' arrivò
all'esterno dal campo e, giunto al fiume, lo guadò e montò a cavallo. Dopodiché
lui e Lavor si allontanarono. Igor' impiegò undici giorni per arrivare alla città di Donec. Dopo essersi
riposato e rifocillato, raggiunse Novgorod-Severskij. Solo in seguito si spostò
a Černigov e, da qui, raggiunse Kiev, dove fu ricevuto, con gran sollievo, dai
gran principi Svjatoslav e Rjurik. Qui si conclude lo Slovo. Successivamente,
come anche anticipato nel poema, tra Russi e Polovcy interverrà un accordo
suggellato da un matrimonio politico tra Vladimir Igorevič e la figlia del capo
polovesiano Končak.
Dopo la morte di Svjatoslav III Vsevolodovič, nel 1194, il gran principe
Rjurik continuò a regnare da solo, e le cose non dovettero andargli molto bene
se, nel 1203, assaltò e saccheggiò la stessa Kiev, alla testa di un esercito che
comprendeva Russi e Polovcy. Il principe Igor' era morto poco tempo prima
(1201/1202). Ma la grande stagione della Rus' kievana si avviava al tramonto. Non molti
anni dopo, nel 1223, Russi e Polovcy vennero sconfitti dai Mongoli presso il
fiume Kalka, a nord del mar d'Azov. Era solo l'inizio della fine. Quindici anni
più tardi, i generali di Čïŋġïz Qān avrebbero marciato su Kiev e imposto una
dura dominazione che sarebbe durata due secoli.
Elenchiamo qui la maggior parte dei nomi dei principi russi citati nel poema,
nelle note e negli approfondimenti storici, secondo le linee maschili (le
genealogie vengono seguite fino a Vladimir I il «santo», Jaroslav I Vladimirovič
il «saggio», Vladimir II Vsevolodovič Monomach e Oleg Svjatoslavič/Gorislavič).
Per ciascun nome, vengono fornite le principali parentele e la successione dei
vari principati. Seguono piccole annotazioni sulla sua presenza e il ruolo nello
Slovo o pŭlku Igorevě, con i rimandi testuali.
Le voci sono elencate alfabeticamente: nome, patronimico, soprannome. Eventuali
numeri romani (non considerati ai fini dell'ordine alfabetico) indicano l'ordine
di successione al granprincipato di Kiev.
Boris Vjačeslavič (1053-1078). Figlio di Vjačeslav Jaroslavič (figlio
di Jaroslav il «saggio»). Principe di Tmutorokan' (♔ 1077-1078). — Alleato del
cuigno Oleg Svjatoslavič, morì nella battaglia di Nežatiaja Niva. Il poema lo rappresenta steso un sudario d'erba sulla
riva del fiume Kajala. → Slovo [38]. Brjačislav Izjaslavič (±997-1044). Figlio di Izjaslav Vladimorovič
(figlio di Vladimir I il «santo»); padre di Vseslav Brjačeslavovič. Principe di
Polock (♔ 1001-1044).
Davyd Rostislavič († 1197). Figlio di Rostislav I Mstislavič (figlio
di Mstislav I Vladimirovič, figlio di Vladimir Monomach); fratello di Rjurik
Rostislavič. Tra l'altro, principe di Smolensk (♔ 1054-1055). — Il poema lamenta
il suo mancato intervento a favore del principe Igor' e quindi in aiuto di
Vladimir Glebovič di Perejaslavl': i gloriosi stendardi che Rjurik e Davyd
Rostislaviči hanno ereditato dall'antico principe Vladimir, per sua colpa,
sventolano disgiunti. →Slovo [73 | 93]. Davyd Svjatoslavič († 1123). Figlio di Svjatoslav II Jaroslavič
(figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Gleb, Roman e Oleg
Svjatoslaviči. Tra l'altro, principe di Černigov (♔ 1097-1123).
Gleb Jur'evic († 1171). Figlio di Jurij I Vladimirovič
Dolgorukij (figlio di Vladimir Monomach); padre di Vladimir Glebovič di
Perejaslavl'; suocero di Vsevolod Svjatoslavič. Principe di Kursk (♔ 1147), di
Kanev (♔ 1149), di Perejaslavl' (♔ 1155-1169) e gran principe di Kiev (♔ 1169 |
♔ 1170-1171). — Sua figlia, che il poema chiama con il semplice patronimico
Glebovna, è sposa di Vsevolod Svjatoslavič (fratello di Igor').
Gleb Svjatoslavič († 1078). Figlio di Svjatoslav II Jaroslavič
(figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Roman, Davyd e Oleg
Svjatoslaviči. Principe di Tmutorokan' (♔ 1066-1068).
IGOR Svjatoslavič (1151-1201/1202). Figlio di Svjatoslav Ol'govič
(figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič). Fratello di Oleg e Vsevolod
Svjatoslaviči. {adre di Vladimir Igorevič Zio di Svjatoslav Ol'govič. Dapprima
principe del piccolo feudo di Putivl' (♔ 1164-1180), quindi di
Novgorod-Severskij (♔ 1180-1198), Igor' succedette infine al padre sul trono di
Černigov (♔ 1198-1202). — È il protagonista del poema. → Slovo [1 | 5-7 | 11 | 14 | 16 | 18 | 20 | 31 | 45 |51 |
55-57 | 67 | 73-74 | 76-77 | 98-99 | 101 | 103-106 | 108 | 115-116 |
118-119].
Ingvar' I Jaroslavič (±1152-1220). Figlio di Jaroslav II Izjaslavič
(figlio di Izjaslav II Mstislavič, figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di
Vladimir II Monomach); fratello di Mstislav il «muto» e Vsevolod Jaroslaviči.
Principe di Dorogobuž, di Luck, gran principe di Kiev (♔ 1202), principe di
Volyn' (♔1207) e di nuovo gran principe di Kiev (♔1214). — È uno
dei principi oggetto dell'appello lanciato dall'autore del poema. → Slovo [79].
Izjaslav I Jaroslavič (1024-1078). Figlio di Jaroslav I Vladimirovič
il «saggio»; fratello di Svjatoslav II e Vsevolod I Jaroslaviči. Principe di
Turov (♔1042-1078), gran principe di Kiev (♔1054-1073 | ♔
1076-1078). — Morì nella battaglia condotta contro Oleg Svjatoslavič/Gorislavič,
a Nežatiaja Niva (3 ottobre 1078). → Slovo [37 |
39]. Izjaslav II Mstislavič (1097-1154). Figlio di Mstislav Vladimirovič
il «grande» (figlio di Vladimir II Monomach); padre di Mstislav e Jaroslav
Izjaslaviči. Principe di Perejaslavl' (♔1132), di Turov (♔1132-1134), di Rostov (♔1134), di Volyn' (♔1134-1142), di
nuovo di Perejaslavl' (♔1143-1145), e gran principe di Kiev (♔1146-1149 | ♔1151-1154).
Izjaslav Vladimirovič (978-1001). Figlio di Vladimir I Svjatoslavič
il «santo»; fratello di Jaroslav I Vladimirovič il «saggio», di Svjatopolk I
Vladimirovič il «dannato» e di Mstislav Vladimirovič il «coraggioso»; padre di
Brjačislav Izjaslavič (a sua volta padre di Vseslav Brjačislavič). Principe di
Polock (♔989-1001) e antenato dei principi di quella città.
Jaropolk Izjaslavič († 1087). Figlio di Izjaslav I Jaroslavič (figlio
di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Mstislav e Svjatopolk Izjaslaviči.
Principe di Turov e di Volyn' (♔1078-1087).
Jaroslav II Izjaslavič († 1080?). Figlio di Izjaslav II Mstislavič
(figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di
Mstislav Izjaslavič; padre di Mstislav il «muto», Ingvar' e Vsevolod
Jaroslaviči. Principe di Turov (♔1146), Novgorod (♔ 1148-1154),
Luck (♔ 1157-1180) e gran principe di Kiev (♔ 1174–1175 | ♔1180).
Jaroslav I Vladimirovič Mudryj, il «saggio» (978-1054). Figlio
di Vladimir I Svjatoslavič il «santo»; fratello di Svjatopolk I Vladimirovič il
«dannato», di Mstislav Vladimirovič il «coraggioso» e di Izjaslav Vladimirovič
di Polock; padre di Vladimir, Izjaslav, Svjatoslav, Vsevolod e Vjačeslav
Jaroslaviči. Principe di Rostov (♔ 978-1010), principe di Novgorod (♔
1010-1019) e gran principe di Kiev (♔ 1019-1054). — Jaroslav fu
l'antenato di tutti i principi russi, gli Jaroslavli, eccetto quelli del
ramo di Polock, i quali discendevano invece da Izjaslav. → Slovo [3 | 36-37 | 83 | 86 | 113].
Jaroslav Vladimirovič Osmomysl, «ottuplice pensiero»
(1135-1187). Discendente di Jaroslav I Vladimirovič il «saggio» (era infatti
figlio di Vladimir Volodarevič, figlio di Volodar Rostislavič, figlio di
Rostislav Vladimirovič, figlio di Vladimir Jaroslavič di Novgorod; quest'ultimo
era il maggiore dei figli di Jaroslav I il «saggio»); padre di Evfrosina
Jaroslavna (sposa del principe Igor'). Principe di Galič. — Esaltato dal poema
come difendore della Rus' nei confronti degli Ungheresi, viene invocato per
accorrere in aiuto del principe Igor', suo genero. → Slovo [74]. Jaroslav Vsevolodovič (1139-1198). Figlio di Vsevolod II Ol'govič
(figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič); fratello di Svjatoslav III
Vsevolodovič. Principe di Ropesk (♔ ±1146-1166), di Starodub (♔
1166-1176) e di Černigov (♔ 1176-1198). — Teneva quest'ultimo titolo
all'epoca della spedizione del principe Igor'. → Slovo [69]. Jurij I Vladimirovič Dolgorukij, dal «lungo braccio»
(1099-1157). Figlio di Vladimir II Monomach; fratello di Mstislav Vladimirovič;
padre, tra gli altri, di Gleb Jur'evič. Principe di Rostov e Suzdal' (♔
1108-1157) e gran principe di Kiev (♔ 1149-1151 | ♔ 1155-1157). — È
il tradizionale fondatore della città di Mosca.
Mstislav Izjaslavič († 1068). Figlio di Izjaslav I Jaroslavič (figlio
di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Jaropolk e Svjatopolk Izjaslaviči.
Mstislav II Izjaslavič († 1172). Figlio di Izjaslav II Mstislavič
(figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di
Jaroslav II Izjaslavič, padre di Roman Mstislavič il «grande». Principe di
Perejaslavl' e di Volyn', poi gran principe di Kiev (♔ 1167-1169 | ♔
1170).
Mstislav Jaroslavič Nemoj il «muto» († 1226). Figlio di
Jaroslav II Izjaslavič (figlio di Izjaslav II Mstislavič, figlio di Mstislav I
Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di Ingvar' e Vsevolod
Jaroslaviči. Principe di Peresopnica (♔ 1180-±1220) e, insieme, di Galič
(♔ 1212-1213), poi di Luck (♔ ±1220-1226). — Lo si identifica con
uno dei principi oggetto dell'appello lanciato dall'autore del poema. → Slovo [75].
Mstislav Vladimirovič Chrabryj, il «coraggioso» (±978-1036).
Figlio di Vladimir I Svjatoslavič il «santo»; fratello di Jaroslav I
Vladimirovič il «saggio», di Svjatopolk I Vladimirovič il «dannato» e di
Izjaslav Vladimirovič di Polock. Principe di Tmutorokan' (♔ 990-1024) e
di Černigov (♔ 1024-1036). → Slovo [3]. Mstislav I Vladimirovič Velikij, il «grande» (±1076-1132).
Figlio di Vladimir II Monomach; fratello di Jurij I Dolgorukij. Principe
di Novgorod (♔ 1081-1093), di Rostov (♔ 1095-1117) e, insieme al
padre, di Belgorod (♔ 1117-1125); gran principe di Kiev (♔
1125-1132).
Oleg Svjatoslavič (?-?). Figlio di Svjatoslav Ol'govič (figlio di
Oleg Svjatoslavič/Gorislavič); fratello di Igor' e Vsevolod Svjatoslaviči, eroi
del poema; padre di Svjatoslav Ol'govič.
Oleg Svjatoslavič Gorislavič, il «figlio di Malagloria»
(1053?-1115). Figlio di Svjatoslav II Jaroslavič (figlio di Jaroslav I il
«saggio»); fratello di Gleb, Roman e Davyd Svjatoslaviči; padre di Izjaslav,
Igor' e Svjatoslav Ol'goviči; nonno di Igor' e Vsevolod Svjatoslaviči, eroi del
poema. Principe di Volyn' (♔ 1073-1076), di Černigov (♔ 1078), di
Tmutorokan' (♔ ±1083), di nuovo di Černigov (♔ 1094 | 1097) e
infine di Novgorod-Severskij (♔ 1097-1115). — Partecipò alle lotte
scatenatesi per il gran principato, per di più assoldando i Polovcy contro i
propri parenti. Il poema attribuisce a lui la responsabilità di buona parte
delle discordie che affliggono la Rus'. → Slovo [27 |
36-38 | 40 | 113]. Rjurik II Rostislavič († 1215). Figlio di Rostislav I Mstislavič
(figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di
Davyd Rostislavič. Dapprima principe di Novgorod (♔ 1170-1171), poi gran
principe di Kiev (♔ 1173), quindi principe di Belgorod Kievsky (♔
1173-1194), per altre quattro volte gran principe di Kiev (♔ 1180-1202 |
♔ 1203-1205 | ♔ 1206 | ♔ 1207-1210), co-regnando anche con Svjatoslav III
Vsevolodovič (♔ 1182-1194); infine principe di Černigov (♔
1210-1214). → Slovo [73 | 93]. RomanMstislavičVelikij, il «grande»
(1160-1205). Figlio di Mstislav II Izjaslavič (figlio di Izjaslav II Mstislavič,
figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di
Svjatoslav e Vsevolod Mstislaviči. Principe di Novgorod (♔ 1168-1170), di
Volyn' (♔ 1170-1189), e quindi di Galič e Volyn' (♔ 1189-1205). —
Lo si identifica con uno dei principi oggetto dell'appello lanciato dall'autore
del poema. → Slovo [75 | 79?].
Roman Svjatoslavič Krasnij, il «bello» (±1053-1079). Figlio di
Svjatoslav II Jaroslavič (figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Gleb,
Davyd e Oleg Svjatoslaviči. Principe di Tmutorokan' (♔ 1069-1079). →
Slovo [3]. Rostislav I Mstislavič (1110-1167). Figlio di Mstislav I Vladimirovič
(figlio di Vladimir II Monomach); padre di Rjurik e Davyd Rostislaviči. Principe
di Smolensk (♔ 1125-1160), di Novgorod (♔ 1154), gran principe di
Kiev (♔ 1154 | ♔ 1159-1167).
Rostislav Vsevolodovič (1070-1093). Figlio di Vsevolod I Jaroslavič
(figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Vladimir II Monomach. Principe
di Perejaslavl'l (♔ 1078-1093). — Il poema ricorda il suo annegamento nel
fiume Stugna. → Slovo [107]. Svjatopolk II Izjaslavič (1050-1113). Figlio di Izjaslav I Jaroslavič
(figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Mstislav e Jaropolk Izjaslaviči.
Principe di Novgorod (♔ 1078-1088), di Turov (♔ 1088-1093) e,
infine, gran principe di Kiev (♔ 1093-1113). — Lo Slovo, confondendolo con il fratello Jaropolk, lo
rappresenta nell'atto pietoso di trasportare il corpo del padre, caduto nella
battaglia di Nežatiaja Niva (1078), tra due cavalli ungheresi. → Slovo [39]. Svjatopolk I Vladimirovič Okajanij, il «dannato» (±980-1019).
Figlio di Vladimir I Svjatoslavič il «santo»; fratello di Jaroslav I
Vladimirovič il «saggio», di Mstislav Vladimirovič il «coraggioso» e di Izjaslav
Vladimirovič di Polock. Principe di Turov (♔ 988-1019) e poi gran
principe di Kiev (♔ 1015-1019). — Lottò per il potere contro i suoi
fratelli; uccise Boris e Gleb; sconfitto dal fratello Jaroslav, morì durante la
fuga.
Svjatoslav II Jaroslavič (1027-1076). Figlio di Jaroslav I il
«saggio»; fratello di Izjaslav, Vsevolod e Vjačeslav Jaroslaviči; padre di Gleb,
Roman, Davyd e Oleg Svjatoslaviči. Principe di Černigov (♔ 1054-1073),
poi gran principe di Kiev (♔ 1073-1076). — Fu il capostipite della linea
principesca di Černigov, città sulla quale regnarono i suoi due figli Oleg e
Davyd Svjatoslaviči, i quali in seguito sfidarono l'autorità kievana.
Svjatoslav Mstislavič (1155-1195). Figlio del gran principe Mstislav
II Izjaslavič (figlio di Izjaslav II Mstislavič, figlio di Mstislav I
Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di Roman e Vsevolod
Mstislaviči. Principe di Belz (♔ 1170-1195), di Volyn' (♔ 1188). —
Lo si identifica con uno dei principi oggetto dell'appello lanciato dall'autore
del poema. → Slovo [79?].
Svjatoslav Ol'govič († 1164). Figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič;
fratello di Vsevolod, Igor' e Gleb Ol'goviči; padre di Oleg, Igor' e Vsevolod
Svjatoslaviči. Principe di Novgorod(♔ 1136-1138),di Kursk(♔ 1138-1139), ancora di Novgorod (♔
1139-1141),di StarodubeBelgorod(♔ 1141-1146), diNovgorod-Severskij (♔ 1146-1157),di Černigov (♔ 1157-1164). → Slovo
[55]. Svjatoslav Ol'govič (?-?). Figlio di Oleg Svjatoslavič (figlio di
Svjatoslav Ol'govič, figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič); nipote di Igor' e
Vsevolod Svjatoslaviči. Principe di Ryl'sk. È uno dei «quattro soli»
partecipanti alla spedizione del principe Igor'. → Slovo [63]. Svjatoslav III Vsevolodovič († 1194). Figlio di Vsevolod II Ol'govič
(figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič); fratello di Jaroslav Vsevolodovič;
cugino di Igor' e Vsevolod Svjatoslaviči, gli eroi del poema. Principe di Turov
(♔ 1142 | ♔ 1154), di Vladimir e Volyn' (♔ 1141-1146), di Pinsk
(♔ 1154), di Novgorod-Severskij (♔ 1157-1164), di Černigov (♔
1164-1177) e infine gran principe di Kiev (♔ 1174 | ♔ 1177-1180 | ♔
1182-1194), alternandosi con Rjurik Rostislavič e co-regnando insieme a questi
per un breve periodo (♔ 1182-1194). — È il gran principe in carica al
tempo della spedizione del principe Igor'. Lo Slovolo ritrae a Kiev, irritato per la sconsiderata spedizione del principe,
che ha rotto la pace da lui stabilita con i Polovcy. Ne riporta il racconto del
sogno [58-65] e quindi l'«aureo discorso» [66-71]. → Slovo [55 | 58 |
66]. Vjačeslav Jaroslavič (1036-1057). Figlio di Jaroslav I Vladimirovič
il «saggio»; fratello di Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod Jaroslaviči; padre di
Boris Vjačeslavič. Principe di Smolensk (♔ 1054-1057).
Vladimir Glebovič († 1187). Figlio di Gleb Jur'evič (figlio di Jurij
I Dolgorukij, figlio di Vladimir II Monomach). Principe di Perejaslavl'
(♔ 1169-1187). — Sua sorella, che il poema chiama con il patronimico
Glebovna è sposa di Vsevolod Svjatoslavič (fratello di Igor').
L'indifferenza dei principi lo abbandona di fronte al nemico, a difendere da
solo la città di Perejaslavl'. → Slovo [71]. Vladimir Igorevič. Figlio di Igor' Svjatoslavič (figlio di Svjatoslav
Ol'govič, figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič). È uno dei quattro
partecipanti alla spedizione del principe Igor'. → Slovo [63? | 119]. VladimirJaroslavič (1020-1052). Figlio di Jaroslav I
Vladimirovič il «saggio»; fratello di Vseslav, Izjaslav, Svjatoslav e Vjačeslav
Jaroslaviči; antenato di Jaroslav Vladimirovič Osmomysl. Principe di
Novgorod (♔ 1036-1052). — Premorì al padre e non partecipò alla
successione per il granprincipato di Kiev.
Vladimir I Svjatoslavič Svjatoj, il «santo» (958-1015). Figlio
di Svjatoslav I Igorevič (figlio di Igor' I Rjurikovič, figlio di Rjurik di
Novgorod († 879)). Gran principe di Kiev (♔ 980-1015). Dopo aver
sacrificato agli idoli, si convertì, introdusse ufficialmente il Cristianesimo
in Russia e ordinò il battesimo del popolo russo (988). Dalle sue molte mogli e
concubine ebbe un certo numero di figli, i quali alla sua morte scatenarono una
serrata lotta per il potere. Ricordiamo: Svjatopolk (980-1019), divenuto gran
principe alla morte del padre (♔ 1015-1019), il quale fece uccidere i
fratelli Boris e Gleb; Jaroslav, che prese a sua volta il potere (♔
1019-1054), antenato di tutti i principi russi; e Izjaslav, progenitore del
ramo dei principi di Polock. → Slovo [5? |
93?]. Vladimir II Vsevolodovič Monomach (1053-1125). Figlio di Vsevolod I
Jaroslavič (figlio di Jaroslav I il «saggio»); fratello di Rostislav
Vsevolodovič; padre, tra gli altri, di Jurij I Dolgorukij e Mstislav I
Vladimiroviči il «grande». Principe di Smolensk (♔ 1073-1078), di
Černigov (♔ 1078-1094), di Perejaslavl' (♔ 1094-1113) e infine
gran principe di Kiev (♔ 1113-1125). — È uno dei maggiori e più
importanti sovrani della Rus' kievana. Ingiustamente, lo Slovolo rappresenta nell'atto di prendere parte
alla contesa svoltasi nel 1078 tra il padre Vsevolod, allora principe di
Černigov, e Oleg Svjatoslavič, nonno del principe Igor', che aveva conquistato
la città. → Slovo [5? | 37 | 93?]. Vseslav Brjačeslavovič (±1039-1101). Figlio di Brjačislav Izjaslavič
(figlio di Izjaslav Vladimorovič, figlio di Vladimir I il «santo»). Principe di
Polock (♔ 1044-1101). — È il principe-stregone a cui il poema dedica un
lungo excursus, descrivendone la sete di sangue e la capacità di tramutarsi in
animale. → Slovo [80 | 83-84 | 88]. Vsevolod I Jaroslavič (1030-1093). Figlio di Jaroslav I Vladimirovič
il «saggio»; fratello di Izjaslav, Svjatoslav e Vjačeslav Jaroslaviči; padre di
Vladimir II Monomach e Rostislav Vsevolodoviči. Principe di Perejaslavl' (♔
1054-1073), quindi di Černigov (♔ 1073-1076 | ♔ 1077-1078) e infine
gran principe di Kiev (♔ 1078-1093). — Nel 1077, quand'era signore di
Černigov, vide la sua città assediata e conquistata da Oleg Svjatoslavič, nonno
del principe Igor'. → Slovo [37]. Vsevolod Jaroslavič († 1202). Figlio di Jaroslav II Izjaslavič
(figlio di Izjaslav II Mstislavič, figlio di Mstislav I Vladimirovič, figlio di
Vladimir II Monomach); fratello di Mstislav il «muto» e Ingvar' Jaroslaviči.
Principe di Dorogobuž. — È uno dei principi oggetto dell'appello lanciato
dall'autore del poema. → Slovo [79].
Vsevolod III Jur'evič Bol'šoe Gnezdo, il «grande nido»
(1154-1212). Figlio di Jurij I Vladimirovič Dolgorukij (figlio di
Vladimir II Monomach). Gran principe di Kiev per un solo anno (♔ 1173),
divenne in seguito signore di Vladimir-Suzdal' (♔ 1177-1212). → Slovo [72]. VsevolodMstislavič (1155-1195). Figlio del gran principe
Mstislav II Izjaslavič (figlio di Izjaslav II Mstislavič, figlio di Mstislav I
Vladimirovič, figlio di Vladimir II Monomach); fratello di Roman e Svjatoslav
Mstislaviči. Principe di Belz (♔ 1170-1195) e di Volyn' (♔ 1188).
— Lo si identifica con uno dei principi oggetto dell'appello lanciato
dall'autore del poema. → Slovo [79?].
Vsevolod II Ol'govič († 1146). Figlio di Oleg
Svjatoslavič/Gorislavič; fratello di Svjatoslav, Igor' e Gleb Ol'goviči; padre di Svjatoslav III e Jaroslav Vsevolodoviči. Principe di Černigov (♔
1127-1139) e gran principe di Kiev (♔ 1139-1146).
Vsevolod Svjatoslavič, buj turŭ «toro impetuoso» († 1196).
Figlio di Svjatoslav Ol'govič (figlio di Oleg Svjatoslavič/Gorislavič); fratello
di Igor' e Oleg Svjatoslaviči. Principe di Kursk e Trubčevsk (♔
1164-1196). — È uno dei «quattro soli», protagonisti dello Slovo, descritto con i tratti di un eroe mitico. →
Slovo [14-15 | 33-34 | 45 | 55 | 67 | 119].
Tra le successive rielaborazioni artistiche del poema
antico-russo, spicca l'opera lirica Knjaz'
Igor, il «Principe Igor», di Aleksandr Porfir'evič Borodin
(1833-1887).
Laureato in medicina, ricercatore chimico presso l'Accademia
Militare di Medicina di San Pietroburgo, Borodin era anche un brillante
compositore.
Fondò, insieme a Modest Musorgskij, Milij Balakirev, Cezar' Cui e
Nikolaj Rimskij-Korsakov, il cosiddetto «Gruppo dei Cinque», volto a diffondere
una musica d'impronta russa, libera da remore convenzionali e da influssi
occidentali.
Le sue molte attività, costringevano Borodin a comporre musica
nei ritagli di tempo, correndo dal laboratorio di chimica al pianoforte, ragion
per cui la sua produzione non è molto vasta.
Sovente non riusciva a completare i
suoi lavori musicali per le date stabilite e doveva ricorrere all'aiuto dei suoi
amici compositori.
Un'opera basata sullo Slovo o pŭlku
Igorevě, e dunque di forte impronta nazionale, era un soggetto ideale
per Borodin, studioso appassionato sia di musica popolare russa, sia di quella
di origine orientale.
Il completamento dello Knjaz'
Igor'fu tuttavia lungo e laborioso.
La composizione impegnò Borodin
per ben diciassette anni e rimase interrotta dalla morte improvvisa del
compositore.
Si incaricò di completare l'opera l'amico Rimskij-Korsakov, con
l'aiuto del suo allievo Aleksandr Glazunov, il quale poté ricostruire l'intera
ouverture, che Borodin aveva suonato al pianoforte in sua presenza ma non
aveva mai fissato sulla carta.
Lo Knjaz' Igor'venne
rappresentato a San Pietroburgo, al Teatro Marinskij, il 23 ottobre 1890 e a Milano il 26 dicembre 1915.
♪
Aleksandr Borodin. Danza delle fanciulle
polovesiane
♫
Aleksandr Borodin. Danze
polovesiane
Seppure i critici le rimproverino una mancanza di equilibrio
tra tradizione popolare russa e musica colta occidentale, e profondamente
segnata dall'influsso di Musorgskij lo Knjaz'
Igor' rimane un'opera insieme fastosa e potente, a tratti barbarica,
pervasa da quello che, all'epoca di Borodin, era avvertito come il più antico e
profondo spirito nazionale russo. Universalmente p opolari le danze polovesiane,
nel primo dei quattro atti, in seguito rappresentate singolarmente, e con
successo, dai Ballets Russes di Sergej Djagilev.
Danze Polovesiane
Le Danze Polovesiane dallo Knjaz' Igor' di Borodin, nella coreografia elaborata
da Michajl Fokin (1880-1942) per i Ballets Russes di Sergej Djagilev, nel
1909. I costumi polovesiani furono elaborati da Nikolaj Roerich.
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