Repubblica romana
La Repubblica romana (Res publica Populi Romani) fu il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. e il 27 a.C., quando l'Urbe fu governata da un'oligarchia repubblicana.
La repubblica romana nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della supremazia della componente etrusca sulla città e al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche.
La sua fine viene invece convenzionalmente fatta coincidere, circa mezzo millennio dopo, con la fine di un lungo periodo di guerre civili che segnò de facto (benché formalmente non avvenne in riforma istituzionale) la fine della forma di governo repubblicana, a favore di quella del Principato.
Qui di seguito il passo fondamentale di Tito Livio, che descrive le ragioni che portarono alla caduta della monarchia dei Tarquini, considerando che i tempi erano ormai maturi:
« E non c'è dubbio che lo stesso Bruto, coperto di gloria per l'espulsione del tirannico Tarquinio, avrebbe agito in modo estremamente dannoso per la Res Publica, se il desiderio prematuro di libertà lo avesse portato a detronizzare qualcuno dei re precedenti. Infatti cosa ne sarebbe stato di quel gruppo di pastori e di popolazione se, fuggiti dai loro paesi per cercare la libertà o l'impunità nel recinto inviolabile di un tempio, si fossero resi liberi dalla paura di un re e si fossero lasciati condizionare dai discorsi faziosi dei tribuni e a scontrarsi verbalmente con i patres di una città che non era la loro, prima che l'amore coniugale, l'amore paterno e l'attaccamento alla terra stessa, sentimento consuetudinario, non avessero unito i loro animi? La Res publica, minata dalla discordia, non avrebbe potuto neppure raggiungere la maggiore età. Invece l'atmosfera di serenità e moderazione che accompagnò la gestione del governo, portò la crescita ad un punto tale che, una volta raggiunta la piena maturità delle sue forze, poté dare i frutti migliori della libertà. » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 1.) |
In questo periodo si inquadrano la maggior parte delle grandi conquiste romane nel Mediterraneo e in Europa, soprattutto tra il III e il II secolo a.C.; il I secolo a.C. fu invece, come detto, devastato dai conflitti intestini dovuti ai mutamenti sociali, ma fu anche il secolo di maggiore fioritura letteraria e culturale, frutto dell'incontro con la cultura ellenistica e riferimento "classico" per i secoli successivi.
Per ogni aspetto della società repubblicana (es.forma di governo, diritto, religione, economia, cultura letteraria, artistica, ecc.) si rimanda alla voce Civiltà romana.
Vale qui la pena ricordare solo che i più alti comandi, come quello dell'esercito e il potere giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature.
Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro, e la gratuità.
Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie.
Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.
Si racconta che mentre Tarquinio il Superbo stava assediando la città dei Rutuli di Ardea,[1] il figlio Sesto Tarquinio abusò della nobile ed onestissima Lucrezia (moglie di Lucio Tarquinio Collatino), che per la vergogna si suicidò.[1][2][3][4] Il marito Collatino, il padre Tricipitino e l'amico Lucio Giunio Bruto (anch'egli imparentato con i Tarquini), convinsero i Romani a ribellarsi e a rovesciare la monarchia nel 509 a.C., abbandonando il re e chiudendogli in faccia le porte della città.[1][3][5][6] La famiglia di Lucrezia guidò, quindi, la rivolta che costrinse alla fuga i Tarquini, abbandonando così Roma per rifugiarsi in Etruria. Lucio Tarquinio Collatino, marito di Lucrezia, e Lucio Giunio Bruto vinsero le elezioni come primi due Consoli, supremi magistrati della neo Repubblica romana.[7]
La leggenda narra che il sovrano esule si rivolse prima agli Etruschi di Veio e Tarquinia, poi a quelli di Chiusi, governati dal lucumone Porsenna, in entrambi i casi per chiedere un sostegno militare esterno e poter così rientrare a Roma. Entrambe le sue richieste furono accolte, ed in entrambi i casi il conflitto che ne risultò, alla fine, si risolse a favore di Roma, sostenuta da aiuti soprannaturali, come la voce che proclamò la vittoria dei Romani guidati da Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio Publicola sugli etruschi di Veio e Tarquinia, o da singoli atti di valore dei Romani, come quelli di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, che convinsero Porsenna a levare l'assedio da Roma.
Quando i Romani riuscirono a cacciare i Tarquini nel 509 a.C., furono favoriti dal fatto che la potenza etrusca era ormai in pieno declino nell'Italia meridionale.[8] Basti ricordare che pochi anni prima (nel 524 a.C.), gli Etruschi erano stati battuti presso Cuma dalle forze greche poste sotto il comando dello stratega, Aristodemo, segnando la fine del loro espansionismo e l'inizio del crollo della signoria etrusca a sud del Tevere.[8] Ciò condusse le genti latine a ribellarsi, come dimostra la successiva battaglia di Aricia, nella quale i Latini, soccorsi da Aristodemo, ottennero una decisiva vittoria per la loro indipendenza, sconfiggendo le forze etrusche poste sotto il comando del figlio di Porsenna, Arunte. E Roma ne approfittò.[8][9]
Il significato storico che sta sotto l'elaborazione leggendaria della fondazione della repubblica riguarda due aspetti fondamentali per la storia militare e sociale romana: l'emancipazione politica dagli Etruschi e, soprattutto, l'esito del contrasto tra l'istituzione monarchica ed il ceto dei Patrizi; quest'ultimi, preoccupati dalle iniziative politiche popolari sostenute dai re etruschi (come la riforma centuriata e l'imposizione fiscale "progressiva"), che sembravano condurre ad un sempre crescente peso della plebe, si assicurarono con la cacciata di Tarquinio il Superbo il controllo politico e sociale attraverso un istituto oligarchico.
Vi è da aggiungere che vi fu un'altra componente che favorì la cacciata da Roma degli Etruschi: l'alleanza con i Sabini. Questi ultimi, scendendo dai monti verso il Latium vetus, andarono ad insidiare il fianco etrusco. Questa collaborazione latino-sabina è possibile riscontrarla secondo il De Francisci,[8] non solo per quanto riferito da Livio, secondo il quale Atta Clausus con la gens Claudia ed i suoi clientes vennero ammessi nel territorio romano,[10] ma che Appio Erdonio (di chiara origine sabina) si impadronì del Campidoglio (nel 460 a.C.) oppure che molte delle cariche più elevate di questi anni vennero occupate da gentes sabine come i Valerii, i Caludii, i Postumii e gli Luicretii.[11]
Il periodo immediatamente successivo alla cacciata dei Tarquini fu segnato da una crisi militare ed economica per l'Urbe: l'espansione territoriale guidata dai re fu seguita da una controffensiva dei popoli circostanti (Equi e Volsci), che ridimensionarono i confini di Roma, mentre l'emarginazione dei ceti plebei artigiani e mercantili, che sotto la monarchia avevano guidato la crescita economica della città, portarono ad una recessione economico-agricola dominata dai grandi proprietari terrieri.
I primi Consoli assunsero il ruolo del re con l'eccezione dell'alto sacerdozio nell'adorazione di Iuppiter Optimus Maximus nel grande tempio sul colle Capitolino. Per quel compito i Romani elessero un Rex sacrorum o "Re delle cose sacre". Fino alla fine della Repubblica, l'accusa di volersi dichiarare re, rimase una delle più gravi accuse a cui poteva incorrere un personaggio potente (ancora nel 44 a.C. gli assassini di Giulio Cesare sostennero di aver agito per prevenire la restaurazione di una monarchia esplicita).
In qualche modo, la difesa del nuovo ordine della Repubblica, da quello appena rovesciato della monarchia, fu un movimento storico che a Roma assunse caratteri di psicosi collettiva, considerando che lo stesso Publio Valerio (il futuro Publicola ovvero amico del popolo), dovette difendersi dall'accusa di voler farsi re, costretto poi ad abbattere la dimora che stava costruendo in cima al Velia[12] e promulgando una legge che permetteva a tutti i cittadini romani di uccidere chiunque avesse tentato di farsi re.
Il corpo sociale era in fermento: all'ordine più tradizionalista, come quello legato alle famiglie patrizie, si contrapponeva il popolo romano (la plebe), in un movimento dialettico che sfociò anche nella violenza e che sarebbe emerso più chiaramente nel decennio successivo, con la prima secessione della plebe del 494 a.C. È di questo periodo l'introduzione nell'ordinamento romano della provocatio ad populum, che garantiva ad ogni cittadino che fosse stato condannato da un magistrato alla pena capitale, di appellarsi al popolo per trasformare la pena inflittagli, e la nomina di due questori da parte del popolo.
Dal punto di vista militare, dopo essersi garantita l'indipendenza dal potente vicino etrusco, Roma si trovò a dover ristabilire la propria autorità lungo i confini settentrionali con i Sabini, che sempre più spesso compivano scorrerie in territorio romano (nel 505 a.C. sull'Aniene[13] e 504 a.C. nei pressi di Fidene[14]), e verso i meridionali, dove la colonia di Pometia fu duramente punita per essere passata dalla parte degli Aurunci.[15]
Che i Romani si sentissero accerchiati, lo si desume dai trionfi che furono accordati per vittorie forse anche di modeste dimensioni, ma ancor più dall'istituzione della figura del dittatore, carica che per la prima volta fu attribuita nel 501 a.C. a Tito Larcio, in previsione di una futura guerra contro una lega di città latine. È in queste condizioni che si sviluppò quella che potremmo definire una prima forma di "politica estera" dello stato romano: il divide et impera, teso a dividere gli avversari, grazie ad azioni diplomatiche, per poi arrivare allo scontro campale con un nemico indebolito nella propria consistenza numerica.
Roma e i Latini (496-494 a.C.)
Un nuovo equilibrio fu stabilito con il Foedus Cassianum (la data è incerta, ma non successiva al 493 a.C.), un trattato di pace stipulato tra Romani e Latini, che rimase in vigore fino al 338 a.C., conseguenza dello scontro tra le due parti, conclusosi con la battaglia presso il lago Regillo, di fatto l'ultimo tentativo di Tarquinio il Superbo (e quindi della componente etrusca che a lui faceva riferimento) di rientrare nell'Urbe. Sebbene i Romani prevalsero sul campo[16], con il trattato Roma riconosceva alle città latine la loro autonomia ma si riservava il Supremo Comando in caso di guerra. L'alleanza aveva, perciò, uno scopo prettamente difensivo, in vista delle incombenti minacce degli Equi, dei Volsci e degli Aurunci.
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A guerra conclusa, poiché i patrizi non volevano concedere ai plebei quanto promesso, soprattutto a causa della forte opposizione a questa riforma dell'ala più oltranzista dei patrizi guidata da Gneo Marcio, conosciuto come Coriolano, questi per la prima volta nella storia romana adottarono come forma di lotta politica la secessio plebis, ovverosia abbandonarono la città, ritirandosi sul monte Sacro appena fuori le mura cittadine, rifiutandosi di rispondere alla chiamata alle armi dei Consoli.
La prima secessione dei plebei si concluse quando questi videro accolte alcune delle loro richieste, tra le quali la più importante era senza dubbio quella dell'istituzione nel 494 a.C. della figura del tribuno della plebe; peraltro il ricomporsi della frattura tra i due ordini non comportò il ristabilirsi della concordia interna.[19].
Primi scontri con Equi, Volsci ed Ernici (493-480 a.C.)
Per approfondire, vedi Roma e le guerre con Equi e Volsci. |
Nel periodo successivo, dal 487 a.C. al 480 a.C., Roma tornò ad essere impegnata in una serie di scontri contro le popolazioni vicine di Volsci, Ernici, Equi, oltre agli Etruschi della città di Veio, quasi tutti dall'esito favorevole, anche se nel 484 a.C. i Romani subirono una pesante sconfitta in battaglia da parte dei Volsci davanti alle porte di Anzio,[22], e la vittoria dei romani sui vejenti nel 480 a.C. costò loro pesantissime perdite, tra le quali quella del console Gneo Manlio Cincinnato[23].
Oltre ai tradizionali motivi di rivalità, le città limitrofe trovarono motivazioni per le loro incursioni, nell'evidente debolezza di Roma, attraversata in quegli anni da feroci lotte intestine, legate alla questione della legge agraria, voluta dal console Spurio Cassio Vecellino nel 486 a.C., che per questo fu condannato a morte l'anno successivo per accuse mossegli dai patrizi. Nonostante vari episodi di insubordinazione e renitenza alla leva, in tutto questo periodo, patrizi e plebei si ricompattarono nei momenti di maggiore pericolo, riuscendo sempre a far fronte al pericolo esterno.
A questo periodo, risalgono la consacrazione del tempio dedicato ai Dioscuri (484 a.C.) e l'episodio della condanna a morte della vestale Oppia, sepolta viva per esser venuta meno al voto di castità[24].
Nuovi conflitti con l'etrusca Veio
Per approfondire, vedi Roma e le guerre con Veio. |
Sia durante lo scontro contro gli Etruschi, che nel periodo immediatamente successivo, non mancarono occasioni di scontro con le popolazioni vicine dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, che quando non si risolsero con un nulla di fatto, furono tutti favorevoli ai romani, tranne in una occasione, nel 471 a.C., quando i Volsci sconfissero duramente i romani, anche grazie alle divisioni esistenti tra Patrizi e Plebei.
Divisioni, le cui motivazioni in parte erano state ereditate dai periodi precedenti (come la legge agraria), ed in parte erano frutto di nuove rivendicazioni da parte dei plebei, come quelle legate alla Lex Publilia Voleronis, per la quale i Tribuni dovevano essere eletti nei comizi tributi, cui solo i plebei avevano diritto a partecipare.
Dopo aver respinto l'offensiva delle popolazioni vicine, i Romani si videro ostacolata l'espansione a nord dalla ricca e fiorente città etrusca di Veio, che le contendeva il dominio sul Tevere. Iniziata nel 477 a.C. (battaglia del Cremera), la guerra si conclude nel 396 a.C. con la distruzione della città etrusca ad opera di Furio Camillo, dopo un assedio di dieci anni. A questo punto, l'espansione romana nel Centro Italia era, però, ancora ostacolata dalla migrazione di Celti e Sanniti.
Tra i bellicosi popoli vicini e le tensioni interne
Il periodo che corre tra il 470 a.C. e il 451 a.C., è caratterizzato dalle campagne contro le popolazioni vicine, colpevoli di sconfinare e razziare i territori romani o quelli degli alleati, e le crescenti tensioni interne, tra Plebe e Senato, che ruotavano intorno alla Lex Terentilia, con cui i tribuni provarono a limitare i poteri dei consoli, e quindi quello dei Patrizi, ma che non arrivò mai ad essere votata.Durante il ventennio i più strenui oppositori esterni furono i Volsci e gli Equi, più abili come razziatori e guastatori (almeno così vengono descritti da Tito Livio), che come combattenti, e per questo regolarmente sconfitti negli scontri campali dai romani, anche quando questi si trovano in inferiorità numerica. La città di Anzio viene presa nel 469 a.C., e nel 462 a.C. i Volsci subiscono ingenti perdite ad opera dei romani.
« Lì poco mancò che il nome dei Volsci venisse cancellato dalla faccia della terra. In alcuni annali ho trovato che tra fuga e battaglia ci furono 13.470 morti, che 1750 vennero catturati vivi e che le insegne conquistate ammontarono a 27. Anche se tali cifre risentono di una certa tendenza all'esagerazione,ciononostante si trattò indubbiamente di un grande massacro. » |
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, III. 8) |
Nel 466 a.C. viene consacrato il tempio di Giove Fidus sul Quirinale, voluto da Tarquinio il Superbo, mentre il censimento del 465 a.C. conta 104.714 cittadini, esclusi orfani e vedove[27], numero che dovette essere sicuramente ridimensionato dalla pestilenza che colpì Roma nel 463 a.C. Il decimo censimento Ab Urbe condita del 459 a.C. comunque conta 117.319.
Intanto in città le tensioni tra Patrizi e Plebei, impegnati nella controversia per l'approvazione della Lex Terentilia, che tra le altre cose provoca l'esilio di Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, raggiungono l'apice nel 460 a.C., quando i dissidi interni, rendono possibile che Appio Erdonio, e i suoi seguaci, prendano il Campidoglio, riconquistato a fatica dalle truppe consolari di Publio Valerio Publicola, ucciso nei combattimenti per riprendere la rocca.
Tra le due fazioni cresce la consapevolezza che la situazione di stallo tra i due ordini sia pericolosa per la stabilità di Roma, per cui, dopo aver inviato una commissione, formata da Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Sulpicio Camerino, ad Atene, per trascrivere le leggi di Solone, e quindi poterle studiare e riformare le istituzioni romane, dopo molte insistenze da parte dei tribuni della plebe, patrizi e plebei concordarono per la costituzione del primo decemvirato
« Si decise di nominare dei decemviri non soggetti al diritto d'appello e di non avere quell'anno nessun altro magistrato al di fuori di loro. Se i plebei avessero dovuto o meno prendere parte alla cosa fu argomento a lungo dibattuto. Alla fine ebbero la meglio i patrizi, a patto però che non venissero abrogate la legge Icilia riguardante l'Aventino e le altre leggi sacrate. » |
(Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, Libro III, 2, 32) |
Il decemvirato, istituito come comitato di saggi per il rinnovamento della Repubblica, compito che portò a termine con l'emanazione delle Leggi delle XII tavole, si sviluppò come tentativo di istituire un governo autoritario, che escludesse i plebei da qualsiasi magistratura e decisione nel governo della città. A questo tentativo i plebei risposero con la minaccia della secessione (in questi eventi si inserisce la vicenda di Verginia) e alla fine ottennero il ripristino di tutte le magistrature ordinarie, nonché l'esilio per i decemviri e la messa in stato di accusa di Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicino, i più odiati tra i decemviri.
Ristabilite le prerogative della plebe, e dei suoi campioni i tribuni della plebe, la città vive con relativa tranquillità la dialettica tra le due classi sociali, tanto che il breve tentativo dei tribuni consolari, rimasti in carica per soli tre mesi nel 444 a.C., non porta porta gravi conseguenze per la stabilità interna della città.
Nel 443 a.C. viene istituita la carica del censore, preposto ai censimenti, per liberare i consoli di un'attività che non riuscivano a portare a termine, se non saltuariamente.
Il periodo tra il 440 a.C. e il 406 a.C. internamente fu caratterizzato dalle tensioni tra plebei e patrizi, reso dall'alternanza di consoli e tribuni consolari alla guida della città (anche se di fatto furono sempre eletti patrizi alle supreme magistrature), ed esternamente dal rinvigorirsi delle spinte anti-romane nelle popolazioni vicine, che furono affrontate dall'urbe con la nomina di un dittatore (ben cinque nel periodo), a significare di come fossero considerate serie queste minacce dai romani. Comunque nel 420 a.C. i plebei ottennero di poter accedere alla carica di questore, anche se si deve aspettare il 409 a.C., perché tre plebei fossero eletti alla carica[28], fino a quel momento ad appannaggio dei patrizi.
A nord Roma dovette fronteggiare la pressione di Veio, sconfitta due volte davanti alle mura della città alleata di Fidene, nel 437 a.C. e nel 426 a.C. (terza dittatura di Mamerco Emilio Mamercino), risolvendo la crisi con la distruzione di Fidene e una tregua ventennale con gli etruschi, mentre a sud continua a farsi sentire la pressione dei mai domati Volsci, capaci di impegnare a fondo i romani nel 423 a.C., malamente condotti dal console Gaio Sempronio Atratino, che per questo fu condannato a pagare una multa di 15.000 assi[29].
La supremazia dei romani sui Volsci non fu comunque mai in dubbio, come dimostrano le vittorie romane ad Anzio nel 408 a.C. e ad Anxur[30] nel 406 a.C., conquistata e saccheggiata dai romani. In questo stesso anno, scaduta la tregua, fu nuovamente dichiarata guerra (la terza) alla città etrusca di Veio[31].
La conquista di Veio
Per approfondire, vedi Caduta di Veio. |
Il conflitto ebbe una svolta quando nel 403 a.C. i romani iniziarono a costruire fortini per controllare il territorio veiente, e terrapieni e macchine d'assedio (vinea, torri e testuggini) per stringere l'assedio alla città. La messa in opera di queste opere, comportò la necessità di mantenere i soldati in armi, anche durante l'autunno e l'inverno, quando tradizionalmente i cittadini-soldati tornavano in città per attendere alle proprie cose, per evitare che le stesse, lasciate incustodite, fossero disfatte o distrutte dai nemici.
Nonostante la decisa opposizione dei Tribuni della plebe, si giunse alla straordinaria decisione di mantenere l'esercito in armi ad assediare Veio finché questa non sarebbe caduta; ai soldati in armi la città avrebbe garantito il soldo grazie ad una nuova imposizione straordinaria.[33]
Veio dal canto suo trovò l'appoggio dei Capenati e dei Falisci, nel 402 a.C.[34] e nel 399 a.C.[35], appoggio che inizialmente non riuscì ad allentare la pressione dell'assedio romano.
Nel 396 a.C. però i Capenati e i Falisci riuscirono a sorprendere i romani in un'imboscata, dove insieme a molti soldati, trovò la morte anche Gneo Genucio Augurino, uno dei 6 tribuni consolari eletti per quell'anno; come per altre situazioni di crisi Roma reagì nominando un dittatore, che questa volta fu trovato nella persona di Marco Furio Camillo[36].
Furio Camillo, dopo essersi coperto le spalle sbaragliando Capenati e Falisci, intensificò l'assedio di Veio, iniziando anche la costruzione di una galleria sotterranea, che arrivava fin sotto la cittadella di Veio. Completata l'opera, il dittatore attaccò in forze e in più punti le mura della città, per dissimulare la presenza di soldati nella galleria sotterranea[37].
« La galleria, piena com'era in quel momento di truppe scelte, all'improvviso riversò il suo carico di armati all'interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. » |
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 2, 21.) |
Durante i 10 anni di assedio, a Roma non mancarono i consueti attacchi dei Volsci, che tentavano di riconquistare Anxur e degli Equi, che però furono facilmente contrastati dalle più organizzate legioni romane.
L'invasione celtica
Per approfondire, vedi Sacco di Roma (IV secolo a.C.) e guerre romano-celtiche. |
Contemporaneamente, verso la fine del V secolo a.C., numerose popolazioni celtiche cominciarono a migrare dall'Europa Settentrionale (a est del Reno ed a nord del Danubio) per insediarsi nei territori dell'attuale Francia, Spagna e Gran Bretagna. Attorno al 400 a.C., infatti, alcune di queste popolazioni raggiunsero l'Italia Settentrionale. E così a minare il clima di fiducia e a mettere in allarme Roma furono proprio i Celti,[39][40] della tribù dei Senoni,[40] i quali attaccarono la città etrusca di Clusium,[41] non molto distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello. Così, quasi senza volerlo,[39] i Romani si ritrovarono ad essere il principale obiettivo di questo popolo calato dal Nord.[42]
I Romani li fronteggiarono in una battaglia campale presso il fiume Allia[39][40] variamente collocata tra il 390 e il 386 a.C. I Galli, guidati dal condottiero Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati[39] e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco,[43][44] prima che gli occupanti fossero scacciati[40][43][45] o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.[39][42][46][47]
Roma resiste
L'episodio del Sacco di Roma, ebbe l'effetto di indebolire Roma, e rivitalizzare la speranza dei popoli confinanti, di riuscire ad intaccare la potenza romana.Nel decennio successivo all'invasione dei Senoni Roma dovette combattere per ribadire la propria superiorità sulle popolazioni confinanti, non solo quelle tradizionalmente nemiche, come Volsci, Equi ed Etruschi, ma anche su quelle ritenute alleate, come i Tuscolani, che evitarono la punizione di Roma solo aprendo completamente la città alle truppe condotte da Furio Camillo, e ottenendo il perdono dal Senato di Roma. Anche i Prenestini, nel 380 a.C., provarono ad uscire dall'orbita romana, ma furono duramente sconfitti dai romani. L'effetto principale della sconfitta subita dai Galli, fu quello di affidare la conduzione delle guerre a dei dittatori, o al tribuno consolare più esperto, come sempre accadde quando tra questi era eletto Furio Camillo.
Le guerre con le popolazioni confinanti non impedirono però che a Roma si sviluppasse una forte dialettica interna, tra Plebei e Patrizi; in questo periodo si ripresentò con forza la questione dei romani tratti in schiavitù per debiti, visto che a soffrirne maggiormente erano i piccoli proprietari terrieri plebei che, a causa delle vicende belliche, cui pure partecipavano, finivano in schiavitù perché non riuscivano ad onorare i debiti contratti.
Il conflitto tra patrizi e plebei portò ad una situazione di stallo tra il 375 a.C. e il 371 a.C., quando a Roma non furono eletti i tribuni consolari, a causa dei veti posti dai tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, come reazione alle politiche ostruzionistiche dei patrizi, contrari alle loro proposte di legge, volte ad equilibrare i rapporti di forza tra i due ordini[48].
Il durissimo conflitto tra plebei e patrizi, trovò un momento di sintesi, con la promulgazione, nel 367 a.C., delle Leges Liciniae Sextiae, che, tra le altre cose, permettevano l'accesso al consolato dei plebei[49].
Nel periodo successivo, e fino al 350 a.C., Roma condusse con successo una serie di campagne militari contro gli Ernici, contro la città etrusca di Tarquinia, cui in diverse occasioni si allearono i Falisci, e successivamente contro i Galli, cui si allearono, in funzione anti-romana, i tiburtini (mentre Ernici e Latini si allearono a Roma).
Durante questo periodo, nonostante la Leges Liciniae Sextiae, i patrizi tentarono, con alterne fortune, di ottenere l'elezioni di candidati patrizi per entrambe le cariche consolari, non esitando a ricorre all'elezione di un dittatore, unicamente allo scopo di controllare l'elezione consolare, e non, come normalmente accadeva, per far fronte ad un grave pericolo militare.
Dopo gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica.[50] Nel 348 a.C. rinnovò il trattato con Cartagine, già stipulato al tempo del passaggio dalla monarchia alla repubblica, attorno al 509 a.C.
Dalle guerre sannitiche alla conquista della Magna Grecia (343 - 272 a.C.)
Dal Latium vetus alle guerre sannitiche (343-290 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerre sannitiche e Guerra latina. |
Nel 326 a.C., poi, si riaprì il conflitto con i Sanniti, la seconda guerra sannitica[52]; si trattò di una guerra ultra ventennale, che vide aspri combattimenti tra sanniti e romani, che subirono anche dei rovesci, come nella famosa Forche Caudine[53]. Lo scontro coinvolse anche i popoli vicini, di volta in volta alleati con i romani o con i sanniti, e per la prima volta Roma si trovò a combattere in Apulia[54] e Lucania[55].
La guerra, la cui iniziativa rimase comunque costantemente in mano ai romani, sembrò potesse volgere a favore dei Sanniti, tra il 310 a.C. e il 309 a.C., periodo in cui riprese lo scontro tra Romani ed Etruschi, e nel quale, per la prima volta, l'esercito romano si avventurò oltre la Selva Cimina[56], in pieno territorio etrusco. I Sanniti ripresero l'iniziativa contro i romani ma furono fermanti da questi ultimi nei pressi di Longula[57], mentre gli Etruschi subivano due importanti sconfitte nella Battaglia del lago Vadimone[58] e Perugia[57]; gli Etruschi si arresero fu concessa loro una tregua trentennale. Con un unico fronte attivo, i romani vinsero la decisiva battaglia di Boviano nel 305 a.C.[59], cui seguì nel 304 a.C. il trattato di pace tra i romani, vittoriosi, ed i sanniti.
Contro i Sanniti Roma combatté, infine, una terza guerra tra il 298 e il 290 a.C., al termine della quale ogni resistenza poteva dirsi annientata. I Sanniti dovettero abbandonare le loro mire territoriali e fornire contingenti di truppe ausiliarie alle legioni romane. Il tempo di liquidare gli ultimi avversari nella regione (lotte con i Galli Senoni, 285-282 a.C.) e Roma si assicurò il predominio nell'Italia centrale.
La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341; 326-304; 298-290 a.C.) assicurò dunque all'Urbe il controllo di buona parte dell'Italia centro-meridionale; le strategie politiche e militari attuate da Roma - quali la fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane e la costruzione della via Appia - testimoniano la potenza di tale spinta espansionistica verso Sud.[60] L'interesse per il dominio territoriale non era infatti una semplice prerogativa di alcune famiglie aristocratiche, tra cui la gens Claudia, ma investiva tutta la scena politica romana, e a esso aderiva l'intero senato assieme alla plebe.[60] A sollecitare l'avanzata verso Sud erano infatti interessi di tipo economico e culturale; a frenarla contribuiva invece la presenza di una civiltà, quella della Magna Grecia, ad alto livello di organizzazione militare, politico e culture, capace di resistere all'espansione romana.[61]
La strategia romana si basava dunque sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici: a tale fine puntavano le deduzioni coloniarie in terra straniera (Luceria nel 315[62] o 314;[61] Venusia nel 291 a.C.)[61] e l'avanzamento verso Sud della via Appia.[61] A tali processi, che non erano direttamente rivolti verso i centri della Magna Grecia, aveva contribuito in particolare l'opera di Appio Claudio Cieco, che, caratterizzato da una forte sensibilità verso la società greca, fu tra i primi ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un'occasione di profondo arricchimento per l'Urbe.[63] Egli si era reso, in particolare, interprete delle esigenze della plebe urbana, interessata a intessere rapporti commerciali con i mercanti greci e oschi.[64]
Durante e subito dopo le Guerre sannitiche, Roma mantenne un atteggiamento ambiguo nei confronti dei popoli italici più meridionali, i Lucani, che ora appoggiò ora osteggiò secondo le convenienze del momento. Intorno al 303 a.C. siglò un trattato con i Lucani, incoraggiandone le aspirazioni contro Taranto, salvo accordarsi anche con la stessa città greca e sostenerne indirettamente la lotta contro gli Italici. Il doppio gioco era motivato dalla volontà di includere comunque i Lucani nella propria rete diplomatica, in quel momento tutta tesa a piegare i Sanniti, ma senza che veri interessi comuni propiziassero legami più forti.[65] Rispetto all'ordinamento che Roma stava dando alla Penisola, l'assetto dei territori occupati dai Lucani rimase in uno stato fluido, basato su semplici alleanze, fino alle Guerre puniche.[62]
Non è possibile determinare con precisione quali fossero i rapporti commerciali che univano Roma con i centri della Magna Grecia, ma risulta probabile una certa compartecipazione di interessi commerciali tra l'Urbe e le città greche della Campania, testimoniata dall'emissione, a partire dal 320 a.C., di monete romano-campane.[64] Non è tuttavia chiaro se tali intese commerciali siano state il fattore o il prodotto delle guerre sannitiche e dell'espansione romana verso Meridione, e non è dunque possibile determinare quale sia stato l'effettivo peso dei negotiatores nella politica espansionistica, almeno fino alla seconda metà del III secolo a.C.[66] A determinare la necessità di un'espansione territoriale verso Sud erano, però, anche le esigenze della plebe rurale, che richiedeva nuove terre coltivabili che l'espansione nell'Italia centrale e settentrionale non era bastata a procurare.[66]
Roma e la Magna Grecia, fino a Pirro (280-272 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerre pirriche. |
A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., la Magna Grecia cominciò lentamente a tramontare sotto i continui attacchi delle popolazioni sabelliche di Bruzi e Lucani.[67] Le città più meridionali, tra cui Taranto era la più importante grazie al commercio con le popolazioni dell'entroterra e la Grecia stessa, furono più volte costrette ad assoldare mercenari provenienti dalla "madre patria", come Archidamo III di Sparta negli anni 342-338 a.C. o Alessandro il Molosso negli anni 335-330 a.C., per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche[68] che, con la nuova federazione dei Lucani, alla fine del V secolo a.C. si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio.[69] Nel corso di queste guerre i Tarentini, nel tentativo di far valere i propri diritti sull'Apulia, stipularono un trattato con Roma, di consueto collocato nell'anno 303 a.C. ma forse risalente già al 325 a.C.,[70] secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria nel 314 a.C.[71][72] preoccuparono non poco i Tarantini che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell'Apulia settentrionale a causa dell'avanzata romana.[68]
Nuovi attacchi da parte dei Lucani costrinsero, ancora una volta, i Tarentini a chiedere aiuto ai mercenari della "madre patria": fu ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l'ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell'Italia meridionale in Taranto e Siracusa iniziò a svanire a vantaggio di Roma, che nel contempo si era alleata con i Lucani ed era risultata vittoriosa a settentrione su Sanniti, Etruschi e Celti (vedi terza guerra sannitica e guerre tra Celti e Romani).[68][73]
Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., fu Thurii a chiedere per prima l'intervento romano contro i Lucani nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C. In questa seconda circostanza fu inviato il console Gaio Fabricio Luscino per respingere i Lucani, in un primo alleati dei Romani, ma poi ribellatisi, e porre nella stessa Thurii una guarnigione romana. Non passò molto tempo prima che il principe lucano Stenio Stallio fosse sconfitto, come riportano i Fasti triumphales,[74][75] e le città di Reggio (dove fu posta una guarnigione romana di 4.000 armati[75][76]), Locri e Crotone chiedessero di essere poste sotto la protezione di Roma. Quest'ultima si veniva così a trovare proiettata verso il Meridione d'Italia.[68]
L'aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione dell'accordo che le due città avevano firmato diversi anni prima: sebbene le operazioni militari romane fossero state compiute per via di terra, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio; Taranto temeva dunque che il suo ruolo di patronato nei confronti delle altre città italiche venisse meno.[77]
Roma, tuttavia, in aperta violazione degli accordi, forse per la forte pressione esercitata dai negotiatores[75] o forse perché gli accordi stessi erano ritenuti decaduti,[78] nell'autunno del 282 a.C.[79] inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione[80] nel golfo di Taranto che provocò i tarantini;[81] le navi, guidate dall'ammiraglio Lucio Valerio Flacco[82][83] o dall'ex console Publio Cornelio Dolabella,[81] erano dirette a Thurii[77] o verso la stessa Taranto, con intenzioni amichevoli.[82][83] I Tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste[84] in onore del dio Dioniso, in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, credettero che esse stessero avanzando contro di loro e le attaccarono:[82][83] ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire;[81][85] tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.[83][85]
Dopo l'attacco alla flotta romana, i Tarantini, resisi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell'atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata[75] assieme agli esponenti dell'aristocrazia locale.[81][86] In seguito a questi eventi i Tarentini decisero di invocare l'aiuto del re d'Epiro Pirro, che, giunto in Italia nel 280 a.C. con un esercito composto anche da numerosi elefanti, riuscì a sconfiggere i Romani a Heraclea e ad Ascoli, seppure a costo di gravissime perdite; dopo un tentativo fallito di consolidare il suo potere sul Sud Italia invadendo la Sicilia (dove fu respinto dalle città siceliote alleatesi con Cartagine), l'epirota marciò dunque contro i Romani che, riorganizzatisi, erano tornati a minacciare Taranto, ma fu duramente sconfitto a Maleventum nel 275 a.C. e costretto a tornare oltre l'Adriatico. Taranto, dunque, fu nuovamente assediata nel 275 a.C. e costretta alla resa nel 272 a.C.: Roma era così potenza egemone nell'Italia peninsulare, a sud dell'Appennino Ligure e Tosco-Emiliano.
La Repubblica mediterranea (264-146 a.C.)
Per approfondire, vedi Storia della Repubblica romana (264-146 a.C.). |
Dalla prima guerra punica all'instaurazione delle province di Sicilia e Sardegna (264-237 a.C.)
Per approfondire, vedi Prima guerra punica. |
Fino a questo momento Roma e Cartagine non si erano mai scontrate, al contrario avevano più volte rinnovato dei trattati di amicizia ed alleanza tra loro, che definivano le rispettive zone di influenza. Questo stato di cose cambiò quando Roma, padrona della penisola italica, iniziò a pensare di estendere la sua influenza anche sulla Sicilia, che rappresentava il principale e più vicino "granaio" da cui Roma si poteva approvvigionare per le sue crescenti esigenze.
L'occasione di intervenire negli affari siciliani fu data ai Romani dalla richiesta di aiuto fatta dai Mamertini (mercenari campani), che si erano impadroniti di Messina, ma che poi erano stati posti sotto assedio dai Siracusani di Gerone II.[87] E se i Mamertini, in un primo momento, chiesero l'aiuto cartaginese, quando i Siracusani si ritirarono e la presenza punica si fece sempre più ingombrante, invocarono l'aiuto di Roma, la quale accettò, poiché temeva che Cartagine potesse battere Siracusa ed occupare l'intera isola. Il senato, riluttante a imbarcarsi in un'impresa tanto rischiosa, arrivò ad uno stallo e la questione venne rimessa all'assemblea popolare: qui maggiore voce in capitolo l'aveva la parte mercantile e popolare di Roma, che era anche interessata al possibile controllo delle ricchezze e delle scorte di grano in Sicilia (isola già nota per le risorse soprattutto nelle città greche), nonché alla possibilità di fondare colonie per aprire nuovi mercati e allentare la pressione sociale e demografica nella capitale. Così in assemblea fu deciso di accettare la richiesta dei mamertini. Venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina.[88] I Cartaginesi interpretarono questo intervento come una violazione dei trattati esistenti e dichiararono guerra a Roma, dando inizio alla prima guerra punica.
Dopo una prima fase di scontri terrestri, dove i Romani risultarono vincitori, Roma decise di sfidare i Cartaginesi sul mare, che ne avevano il dominio assoluto, e, approntata un'imponente flotta (con navi dotate di "corvo"), sconfisse i nemici a Milazzo (nel 260 a.C.). Nel tentativo di infliggere una sconfitta decisiva a Cartagine, il console Marco Atilio Regolo, sconfitta la flotta nemica a Capo Ecnomo (256 a.C.), sbarcò in Africa, non molto distante dalla stessa Cartagine, ma fu però sconfitto ed ucciso (nel 246 a.C.).[89] La guerra continuò negli anni successivi, con alterne fortune tra i due contendenti, fino a quando nel 241 a.C., venne approntata da Roma una nuova flotta che, guidata da Gaio Lutazio Catulo, sconfisse nuovamente i Cartaginesi nella decisiva battaglia delle isole Egadi. Sottratto ai nemici il predominio sul mare, i Romani poterono concludere anche le operazioni terrestri, sottomettendo buona parte della Sicilia (a parte Siracusa, che rimaneva indipendente) e costringendo Cartagine alla resa.[90] La guerra era così protratta per oltre vent'anni, dal 264 a.C. al 241 a.C.
Cartagine fu, così, costretta a versare a Roma enormi somme (3.200 talenti euboici in 10 anni[91]) quale risarcimento per la fine della guerra, oltre alla restituzione totale di tutti i prigionieri di guerra senza riscatto.[92] La ricca Sicilia era persa e passata sotto il controllo di Roma (con il divieto per Cartagine di portare la guerra a Gerone II di Siracusa)[93] e, nell'impossibilità di pagare i mercenari libici e numidi che utilizzava, dovette subire una sanguinosa rivolta che richiese 3 anni di sforzi ed efferatezze per essere domata.[94] Approfittando di questa rivolta inoltre Roma occupò la Sardegna (238 a.C.) e la Corsica (237 a.C.),[95][96] costringendo Cartagine a dover pagare un ulteriore indennizzo di altri 1.200 talenti per evitare un riaccendersi della guerra che la città non poteva assolutamente permettersi.[97][98] Ciò venne visto come una ferita umiliante dai cartaginesi, che però non poterono far altro che accettare la sconfitta senza aver combattuto.
Illiri e Celti della pianura padana (230-219 a.C.)
Per approfondire, vedi Prima guerra illirica, Ager Gallicus e Seconda guerra illirica. |
Contestualmente cercava di dare sfogo alle necessità di fornire la terra ai reduci con la creazione di varie colonie, iniziando a dar vita ad una politica che fosse attenta all'attività della regina Teuta che, alla testa dei pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico (nel 230-229 a.C.).[103] Roma riuscì a sconfiggere i pirati illirici, sottoponendo poi buona parte dell'Illiria a tributo e cominciando la penetrazione in quel territorio. L'intervento romano fu risolutivo, poiché nell'arco di dieci anni la pirateria illirica fu debellata.[104] Questo nuovo scenario diede la possibilità a Roma di affacciarsi nella parte orientale del Mediterraneo, entrando in contatto diretto con le città-stato della Grecia, della Macedonia, della Lega Etolica sottoposte in varia misura agli attacchi dei pirati e in lotta fra di loro.[103]
La seconda guerra punica (219-202 a.C.)
Per approfondire, vedi Seconda guerra punica e prima guerra macedonica. |
Politicamente sconfitto Amilcare, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella repressione della rivolta dei mercenari, non ottenendo dal Senato cartaginese le navi per andare in Spagna, prese il comando dei reparti mercenari rimasti e con una marcia incredibile attraversò tutto il nordafrica fiancheggiando la costa fino allo stretto di Gibilterra. Amilcare, che era accompagnato dal figlio Annibale e dal genero Asdrubale attraversò lo stretto di Gibilterra e, seguendo la costa spagnola, la percorse verso oriente alla ricerca di nuove ricchezze per la sua città.[106]
La spedizione cartaginese prese l'aspetto di una conquista, a partire dalla città di Gades (oggi Cadice), sebbene fosse stata inizialmente condotta senza l'autorità del senato cartaginese.[107] Dal 237 a.C., anno della partenza dall'Africa al 229 a.C., anno della sua morte in combattimento,[107] Amilcare riuscì a rendere la spedizione autosufficiente dal punto di vista economico e militare, tanto da riuscire ad inviare a Cartagine grandi quantità di merci e metalli (grazie ai ricchi giacimenti di metalli della regione appena conquistata) richiesti alle tribù ispaniche come tributo.[106][108] Morto Amilcare il genero ne prese il posto per otto anni e iniziò una politica di consolidamento delle conquiste.[109] Con patti e trattati si accordò con i vari popoli locali[110] e fondò una nuova città. La chiamò Karth Hadasht, cioè Città Nuova, cioè Cartagine, oggi Cartagena.[111]
Impegnati con i Galli, i Romani preferirono accordarsi con Asdrubale e nel 226 a.C., spinti anche dall'alleata Marsiglia che vedeva avvicinarsi il pericolo, stipularono un nuovo trattato che poneva l'Ebro come limite dell'espansione di Cartagine.[107] Si riconosceva così, in modo implicito, anche il nuovo territorio soggetto al controllo cartaginese.[112] La svolta si ebbe nel 221 a.C., quando Asdrubale, fu ucciso da un mercenario gallo[107][113] e l'esercito cartaginese scelse all'unanimità Annibale,[114] che aveva solo 26 anni, come suo terzo comandante in Spagna.[115][116] Cartagine, una volta radunato il popolo, decise di ratificare la designazione dell'esercito.[117][118]
Quando nel 218 a.C. il generale punico Annibale Barca attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, ma a sud dell'Ebro, il Senato romano dopo alcune esitazioni dichiarò guerra a Cartagine. Era l'inizio della seconda guerra punica. Polibio contestava le cause della guerra che lo storico latino Fabio Pittore, avrebbe individuato nell'assedio di Sagunto e nel passaggio delle armate cartaginesi del fiume Ebro. Egli riteneva si trattasse soltanto di due avvenimenti che ne sancivano l'inizio cronologico della guerra, ma non le cause profonde della stessa.[119] La guerra fu inevitabile,[120] solo che come scrive Polibio, la guerra non si svolse in Iberia [come auspicavano i Romani] ma proprio alle porte di Roma e lungo tutta l'Italia.[121]
Numerose città si alleavano con i Cartaginesi e anche la Macedonia di Filippo V scendeva in guerra contro Roma. Infatti Filippo, reso audace dalla sconfitta romana a Canne si era alleato nel 215 a.C. con Annibale, con l'intenzione di procurare uno sbocco sul mar Adriatico al suo regno. Filippo fu contrastato dall'azione del console romano Marco Valerio Levino, che riuscì a contenerne l'azione grazie soprattutto ad un sistema di alleanze con i nemici del re macedone. La guerra, che non raggiunse mai l'intensità di quella che si stava combattendo in Italia, terminò nel 205 a.C. (quindi 3 anni prima della conclusione della seconda guerra punica) con la pace di Fenice con la quale Filippo ottenne uno sbocco sull'Adriatico.
Annibale però si attardò nel Sud Italia (ozi di Capua), mentre i Romani, seppure provati, poterono lentamente ricostituire le proprie forze: il console Publio Cornelio Scipione ottenne diverse vittorie sui Cartaginesi in Spagna, mentre in Italia i consoli Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone sconfissero e uccisero il fratello di Annibale, Asdrubale, presso il Metauro, mentre si apprestava a portare rinforzi alle forze puniche in Italia.
Roma riuscì ben presto a recuperare le città italiche che l'avevano tradita per allearsi con Annibale, il quale, stremato da un decennio di guerra e vistosi negare i rinforzi dalla madrepatria, fu costretto a fare ritorno in Africa nel 203 a.C., dopo che Scipione, conquistata la Penisola Iberica e ristabilita la situazione in Italia, era sbarcato nel territorio nemico per tentare di ottenere una vittoria definitiva. I due generali si scontrarono nel 202 a.C. a Zama, e l'esercito romano ottenne una sofferta ma decisiva vittoria, che costrinse Cartagine a capitolare e ad accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma.
La guerra, che si protrasse per circa un ventennio (dal 219 a.C. al 202 a.C.), può a buon diritto essere considerata una specie di "guerra mondiale". Fu combattuta principalmente nei territori dell'Italia meridionale ma vide pesantemente coinvolte anche la Spagna e il territorio metropolitano di Cartagine. Inoltre vennero coinvolte le diplomazie di quasi tutto il Mar Mediterraneo dalla Numidia di Siface e Massinissa fino alle dinastie che reggevano l'Egitto, la Siria, i vari staterelli dell'Anatolia, la Grecia e la Macedonia di Filippo V. Seppure alla fine vincitrice, Roma pagò comunque a caro prezzo il lungo conflitto contro Annibale. I Romani vissero per anni nell'incubo di una guerra interminabile e di un nemico alle porte che sembrava inafferrabile. Lo sforzo bellico fu pesantissimo, sul piano economico e civile: per anni intere regioni italiche furono saccheggiate e devastate dalle continue operazioni militari, con danni enormi per l'agricoltura e per i commerci, che a lungo restarono bloccati, per la pressione di Galli a nord e la presenza di Annibale a sud. Tutto ciò senza contare il pesantissimo bilancio in termini di vite umane. Nei 17 anni di guerra morirono circa 300.000 italici su una popolazione che, dopo la secessione delle regioni meridionali, era di soli 4 milioni di abitanti circa, mentre il potenziale umano mobilitato da Roma per la guerra raggiungerà in alcuni anni il 10% della popolazione, senza scendere mai sotto al 6-7%, tutte cifre che si avvicinano molto, in termini percentuali, a quelle registrate durante la prima guerra mondiale.[122]
La sottomissione della Gallia Cisalpina (219-175 a.C.)
Per approfondire, vedi Conquista romana della Gallia Cisalpina. |
« Nello stesso anno [181 a.C.] fu dedotta nel territorio dei Galli la colonia di Aquileia. 3.000 fanti ricevettero 50 iugeri ciascuno, i centurioni 100, i cavalieri 140. I triumviri che fondarono la colonia furono Publio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino[125]. » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XL, 34.2-3.) |
Espansione in Oriente: Grecia, Macedonia e Asia Minore fino alla fine di Cartagine (200-146 a.C.)
Per approfondire, vedi Seconda guerra macedonica, guerra contro Nabide, guerra contro Antioco III e lega etolica, terza guerra macedonica e quarta guerra macedonica. |
Sconfitta Cartagine, Filippo e la Macedonia erano divenuti il nemico principale della nuova potenza romana, che guardava con sospetto al re macedone che nel 203 a.C. si era alleato con il re di Seleucidi Antioco III. Il pretesto per la seconda guerra macedone fu la richiesta d'aiuto rivolta ai Romani da Attalo e i Rodiesi, alleatisi per contrastare le mire egemoniche dei Macedoni e dei Siriani; nel 200 a.C. Roma inviò un ultimatum a Filippo, che lo respinse.
Roma, che era uscita molto provata dalla guerra contro Cartagine, non era però in grado di fronteggiare da sola il nuovo fronte di guerra, per cui cercò di procurarsi degli alleati, con scarsi risultati, tra i nemici greci del re macedone. Dopo alcune battaglie, si giunse al 197 a.C. quando i Romani guidati da Tito Quinzio Flaminino si scontrarono contro i Macedoni nella battaglia di Cinocefale dove Filippo fu duramente sconfitto e costretto ad accettare le pesanti condizioni di pace imposte dai Romani. Nel 196 a.C. Flaminino proclamò la libertà della Grecia e nel 194 a.C. lasciò la Grecia insieme alle legioni, nella convinzione che la regione avesse trovato un suo equilibrio.
Ma il nuovo status quo imposto dai Romani fu messo alla prova quando la Lega Etolica, già alleata dei romani durante la seconda guerra macedonica, a causa delle pesanti condizioni di pace imposte a tutta la Grecia dai romani richiese l'aiuto di Antioco III il Grande per liberare l'Ellade dalla tirannia romana. Fu l'inizio della guerra siriaca, che si combatté tra il 191 e il 188 a.C. e che vide la vittoria romana.[127] Questa la descrizione che ne fece Floro:
« Non vi fu altra guerra più temibile per la sua fama, poiché i Romani pensavano ai Persiani ed all'Oriente, a Serse ed a Dario, ai giorni in cui si diceva che monti inaccessibili erano stati scavati e che il mare era stato coperto di vele. » |
(Floro, Epitoma di storia romana, I, 24.2.) |
La regione non era però ancora stata pacificata del tutto: nel 171 a.C. il figlio e successore di Filippo, Perseo di Macedonia, riprese ad attuare una politica espansionistica ai danni di alcune tribù balcaniche alleate di Roma, provocando lo scoppio della terza guerra macedone. E se inizialmente Roma preferì non intervenire, nel 168 a.C. il console Lucio Emilio Paolo affrontò e sconfisse la falange macedone di Perseo nella battaglia di Pidna. Dopo la sconfitta, il sovrano, tentata invano la fuga, si consegnò al nemico, mentre la Macedonia fu divisa in quattro repubbliche subalterne e tributarie a Roma.
Nel 150 a.C. era spuntato in Macedonia un certo Andrisco, che affermando di essere figlio di Perseo e di voler ricostruire il regno macedone, aveva radunato attorno a sé un esercito. Dopo degli iniziali successi, Andrisco fu battuto dal console Quinto Cecilio Metello nel 148 a.C. e costretto a riparare in Tracia. Nel 146 a.C. la Macedonia divenne una provincia romana, che includeva anche Epiro e Tessaglia. Nel 146 a.C., infine, i Romani rasero al suolo Corinto.
Fine della potenza cartaginese (149-146 a.C.)
Per approfondire, vedi Terza guerra punica. |
Il pretesto che portò alla terza guerra punica, fu dato ai Romani da Massinissa, che da tempo stava aumentando la propria sfera di influenza a danno di Cartagine. Per due volte Cartagine chiese l'intervento dei Romani per fermare le azioni dello scomodo vicino, ma in entrambe le occasioni Roma decise semplicemente di non intervenire. Nel 150 a.C. Cartagine decise di reagire ai continui attacchi dei numidi, ben sapendo di contravvenire alle condizioni di pace imposte dai Romani. Infatti questa azione fu presa a pretesto dai Romani per dichiarare guerra a Cartagine l'anno successivo. Il senato, infatti, sobillato da Catone il Censore, decise di attaccare Cartagine, e nel 147 a.C. si risolse ad inviare in Africa il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, che, dopo un lungo assedio, nel 146 a.C. espugnò e rase al suolo la città. La guerra era durata tre anni, dal 149 a.C. al 146 a.C., fu combattuta sul suolo africano e si concluse con la definitiva sconfitta dei cartaginesi. Cartagine fu completamente rasa al suolo e su questo fu sparso il sale in modo che non vi potesse più crescere niente.
Tramonto della Repubblica romana (146-31 a.C.)
Per approfondire, vedi Storia della Repubblica romana (146-31 a.C.). |
Nuovo espansionismo mediterraneo: Spagna, Gallia Narbonense e Asia (133-121 a.C.)
Per approfondire, vedi Conquista romana della Spagna, Asia (provincia romana) e Conquista della Gallia Narbonense. |
Circostanze assai strane portarono, invece, nel 133 a.C. all'annessione del regno di Pergamo, che fu poi nel 129 a.C. ridotto a provincia (i Romani la chiamarono provincia d'Asia. Il re Attalo III aveva lasciato in eredità il proprio regno a Roma, ma occorsero tre anni prima che i Romani potessero dominare direttamente quel territorio, dato che sotto la guida di un certo Aristonico era scoppiata una violenta insurrezione popolare, domata a fatica. Roma poteva ormai considerarsi la potenza egemone nel Mediterraneo.
Qualche anno più tardi, nel 121 a.C., vennero poste le basi anche per la futura espansione nella Gallia Transalpina, con la riduzione a provincia della Gallia Narbonense (l'attualeProvenza).
Con la sconfitta dei nemici contro cui combatteva da anni su entrambi i fronti, Roma era diventata padrona del Mediterraneo. Le nuove conquiste, tuttavia, portarono anche notevoli cambiamenti nella società romana: i contatti con la cultura ellenistica, temuta e osteggiata dallo stesso Catone, modificarono profondamente gli usi che fino ad allora si rifacevano al mos maiorum, trasformando radicalmente la società dell'Urbe.
Le riforme dei Gracchi (133 a.C. – 121 a.C.)
Il periodo che va dalle agitazioni graccane alla dominazione di Publio Cornelio Silla, segnò l'inizio della crisi che, quasi un secolo dopo, portò la repubblica aristocratica al tracollo definitivo. Lo storico Ronald Syme ha chiamato il periodo di passaggio dalla Repubblica al principato augusteo "rivoluzione romana"[128].L'espansione così grande e repentina nel bacino del Mediterraneo aveva, infatti, costretto la Repubblica ad affrontare problemi enormi e di vario genere: le istituzioni romane erano fino ad allora concepite per amministrare un piccolo stato; adesso le province[129] si stendevano dall'Iberia, all'Africa, alla Grecia, all'Asia Minore.
A partire dalla riforma agraria proposta dal tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco nel 133 a.C., le convulsioni politiche divennero sempre più gravi, producendo una serie di dittature, guerre civili e temporanee tregue armate nel corso del secolo successivo. Gli intenti di Tiberio erano sostanzialmente conservatori. Preoccupato dalla penuria di uomini che aveva notato in varie parti d'Italia e dalla povertà di molti e convinto che in queste condizioni sarebbe stato impossibile mantenere l'ordinamento sociale che era l'ossatura dell'esercito, egli si proponeva, mediante nuove distribuzioni di terre, stabilite da un collegio che le assegnava secondo un principio quantitativo, concedendo quelle in eccesso ai cittadini meno abbienti, di dar nuovo vigore al ceto dei piccoli proprietari agricoli, che si trovava in grave difficoltà a causa da una parte del "prelievo" dovuto alle continue guerre, dall'altra della pressione dei grandi proprietari, che estendevano i loro domini attraverso l'evizione dei coloni debitori o l'acquisto dei loro fondi[130]. Le continue guerre in patria e all'estero, infatti, avevano da una parte costretto i piccoli proprietari terrieri ad abbandonare per lunghi anni i propri poderi per prestare servizio nelle legioni, dall'altro avevano finito per rifornire Roma (grazie ai saccheggi e alle conquiste) di una quantità enorme di merci a buon mercato[131] e di schiavi, i quali venivano usualmente impiegati nelle aziende agricole dei patrizi romani, con ripercussioni tremende nel tessuto sociale romano, dato che la piccola proprietà terriera non era in grado di competere con i latifondi schiavistici (che producevano praticamente a costo zero). Tutte quelle famiglie che, a causa dei debiti, erano state costrette a lasciare le campagne, si rifugiarono a Roma, dove diedero vita al cosiddetto sottoproletariato urbano: una massa di persone che non avevano un lavoro, una casa e di che sfamarsi, con inevitabili e pericolose tensioni sociali.
L'aristocrazia senatoria, arroccandosi in una migliore difesa dei propri interessi particolari, ostacolò inizialmente Tiberio, corrompendo un altro tribuno della plebe, Ottavio, che tuttavia venne dichiarato decaduto dalla carica dallo stesso Tiberio, che lo accusò di aver agito contro gli interessi della plebe. Per superare l'opposizione del collega tribuno, attuata mediante il veto alle sue proposte di riforma, Tiberio, contrariamente agli usi tradizionali, si presentò nel 132 a.C. alle elezioni per essere rieletto al tribunato e poter completare le sue riforme. A questo punto, temendo un'ulteriore deriva in senso popolare del governo della Repubblica, durante le convulse fasi antecedenti le elezioni dei tribuni della plebe, una banda di senatori, guidati da Scipione Nasica, attaccò Tiberio al Campidoglio causandone la morte, assieme a trecento suoi seguaci.
Otto anni dopo, Caio Sempronio Gracco, eletto tribuno della plebe dell'anno 123 a.C., riprese l'azione politica del fratello, spingendola su posizioni sempre più popolari ed anti-nobiliari, cercando di procurarsi il favore, oltre che dei proletari, anche dei "soci" italici (emarginati politicamente dalle conquiste) e della classe equestre. Come il fratello, sempre contro le consuetudini, anche Gaio si presentò l'anno successivo per concorrere all'elezione al tribunato, carica alla quale fu eletto, rendendosi promotore di una forte battaglia politica di opposizione alla classe senatoriale. Nel 121 a.C. non riuscì però a farsi eleggere per la terza volta al tribunato, e ad impedire così la politica di restaurazione dei privilegi senatoriali operata dalla nuova classe politica. Per opporsi a questo nuovo corso, Gaio non esitò ad operare come "agitatore politico" esternamente alle istituzioni pubbliche, cosa questa che alla fine gli valse la messa in accusa come nemico della repubblica. Abbandonato dai molti dei suoi sostenitori, si fece uccidere da un suo servo sul Gianicolo.
Giugurta, i Germani e Gaio Mario (112 a.C. – 100 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerre contro Giugurta e Guerre cimbriche. |
Mario, dopo essersi distinto per le sue capacità militari in Spagna, rientrò a Roma con l'intento di costruirsi una propria carriera politica, il cosiddetto cursus honorum, che lo portasse al consolato. Riuscì ad ottenere le cariche di questore, tribuno della plebe e pretore.
Dopo aver condotto con successo una campagna militare nella Spagna Ulteriore, tornò a Roma, dove sposò Giulia, sorella di Gaio Giulio Cesare, padre di Gaio Giulio Cesare, il dittatore. Nel 109 a.C. partì per l'Africa come legato di Quinto Cecilio Metello, a cui il Senato aveva affidato la guerra contro Giugurta, non giudicando soddisfacente l'andamento di questa.
Nel 108 Mario tornò a Roma per concorrere al consolato, al quale fu eletto nel 107 a.C. anche grazie alle accuse di incapacità militare che rivolse ai patrizi, Metello in primis. Come console riuscì a farsi affidare la conduzione della guerra contro Giugurta, che sconfisse nel 105 a.C. Roma occupò così la Numidia.
Mentre Mario portava vittoriosamente a termine la guerra in Africa, Roma stava subendo pesanti sconfitte da parte delle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Nel 107 a.C. l'esercito di Lucio Cassio Longino fu sconfitto, e lo stesso generale ucciso in battaglia, nella Gallia Narbonense. Ma fu la tremenda sconfitta del 105 a.C. ad Aurasio, dove perirono circa 120 000 romani tra soldati ed ausiliari, che gettò i romani nel panico.
In questo clima di paura Mario, visto come unico generale in grado di organizzare l'esercito contro i germani, venne eletto console per ben cinque volte consecutive, dal 104 al 100 a.C., fino a che la minaccia dell'invasione germanica non fu sventata con le vittorie ad Aquae Sextiae e a Vercelli. Contro Teutoni e Cimbri Mario utilizzò il nuovo, formidabile esercito nato dalla sua riforma avviata nel 107 a.C. A differenza di quello precedente, formato da cittadini-contadini ansiosi di tornare ai propri campi una volta finite le campagne belliche, questo era un esercito stanziale e permanente di volontari arruolati con ferma quasi ventennale, ovvero un esercito di professionisti attratti non solo dal salario, ma anche dal miraggio del bottino e dalla promessa di una terra alla fine del servizio. I proletari ed i nullatenenti vi si arruolarono in massa. Non era tanto un esercito di cittadini motivati dal senso del dovere, ma piuttosto di militari legati dallo spirito di corpo e dalla fedeltà al capo[132].
In tutto questo periodo, sia contro Giugurta che contro i Germani, Mario ebbe come legato un giovane nobile, di cui apprezzava le capacità militari: Lucio Cornelio Silla.
Guerra sociale (91 a.C.-88 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerra sociale. |
Ma quando nel 91 a.C. il tribuno Marco Livio Druso, che stava preparando una proposta di legge per concedere la cittadinanza agli alleati fu ucciso, ai più apparve chiaro che Roma non avrebbe concesso spontaneamente la cittadinanza. Fu l'inizio della guerra che dal 91 a.C. all'88 a.C. vide combattersi gli eserciti romani e quelli italici.
Gli ultimi a cedere le armi ai Romani, capeggiati tra gli altri da Silla e Gneo Pompeo Strabone, padre del futuro Pompeo Magno, furono i Sanniti. Alla fine della guerra, però, gli italici della penisola, nonostante la sconfitta, riuscirono a ottenere l'agognata cittadinanza romana.
Dittatura di Silla (88 a.C.-78 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerra civile tra Mario e Silla. |
Questa tensione, fino a che Gaio Mario rimase in vita, si risolse sempre nella lotta per l'ottenimento del consolato per i candidati della propria parte politica. Morto Mario, e trovandosi Quinto Sertorio in Spagna, forse l'unico tra i mariani che potesse contrastare militarmente Silla, Publio Cornelio, al ritorno dalla vittoriosa guerra in oriente, ritenne di poter forzare la mano e con l'esercito in armi si marciò contro Roma nell'82 a.C. Qui, a Porta Collina, fu sconfitto da Silla che ottenne quindi la vittoria decisiva nella guerra civile contro i mariani.
Per consolidare la sua vittoria Silla si fece eleggere dittatore a vita e iniziò una vasta e sistematica persecuzione nei confronti dei rappresentanti della parte avversa (le liste di proscrizione sillane) da cui il giovane Giulio Cesare, nipote di Gaio Mario, riuscì a stento a sottrarsi.
Fino a che morì, nel 78 a.C., l'unica seria opposizione che continuò ad essere condotta contro Silla, fu quella condotta da Sertorio dalla Spagna.
Guerre mitridatiche (88 a.C.-63 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerre mitridatiche. |
La prima guerra mitridatica iniziò verso la fine dell'89 a.C. Le ostilità si erano aperte con due vittorie del sovrano del Ponto sulle forze alleate dei Romani, prima del re di Bitinia, Nicomede IV e poi dello stesso inviato romano Manio Aquilio, a capo di una delegazione in Asia Minore. L'anno successivo Mitridate decise di continuare nel suo progetto di occupazione dell'intera penisola anatolica, ripartendo dalla Frigia. La sua avanzata proseguì, passando dalla Frigia alla Misia, e toccando quelle parti di Asia che erano state recentemente acquisite dai Romani. Poi mandò i suoi ufficiali per le province adiacenti, sottomettendo la Licia, la Panfilia, ed il resto della Ionia.[135]
Non molto tempo dopo Mitridate riuscì a catturare il massimo esponente romano in Asia, il consolare Manio Aquilio e lo uccise barbaramente.[136][137] Sembra che a questo punto, la maggior parte delle città dell'Asia si arresero al conquistatore pontico, accogliendolo come un liberatore dalle popolazioni locali, stanche del malgoverno romano, identificato da molti nella ristretta cerchia dei pubblicani. Rodi, invece, rimase fedele a Roma.
Non appena queste notizie giunsero a Roma, il Senato dichiarò contro il re del Ponto, seppure nell'Urbe vi fossero gravi dissensi tra le due principali fazioni interne alla Res publica (degli Optimates e dei Populares) ed una guerra sociale non fosse stata del tutto condotta a termine. Si procedette, quindi, a decretare a quale dei due consoli, sarebbe spettato il governo dell'provincia d'Asia, e questa toccò in sorte a a Lucio Cornelio Silla.[138]
Mitridate, frattanto, preso possesso della maggior parte dell'Asia Minore, dispose che tutti coloro, liberi o meno, che parlavano una lingua italica, fossero barbaramente trucidati, non solo quindi i pochi soldati romani rimasti a presidio delle guarnigioni locali. 80.000 tra cittadini romani e non, furono massacrati nelle due ex-province romane d'Asia e Cilicia (episodio noto come Vespri asiatici).[138][139][140] La situazione precipitò ulteriormente, quando a seguito delle ribellioni nella provincia asiatica, insorse anche l'Acaia contro Roma.[141] Il re del Ponto appariva ai loro occhi come un liberatore della grecità, quasi fosse un nuovo Alessandro Magno.
Con l'arrivo di Lucio Cornelio Silla in Grecia nell'87 a.C. le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a favore dei Romani. Espugnata prima Atene[146][147] ed il Pireo,[148] il comandante romano ottenne due successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea,[149] dove secondo Tito Livio caddero ben 100.000 armati del regno del Ponto,[150][151][152] ed infine ad Orcomeno.[149][153][154][155]
Contemporaneamente, agli inizi dell'85 a.C., il prefetto della cavalleria, Flavio Fimbria, a capo di un secondo esercito romano,[156][157] si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte vincitore,[158] riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo,[159] e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re.[160] Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano opposti.[161]
Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono per un trattato di pace[162], che costringeva Mitridate a ritirasi da tutti i domini antecedenti la guerra,[162] ma ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato "amico del popolo romano". Un espediente per Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana.
Nel 74 a.C. divenne provincia romana la Bitinia (Bythinia), quando Nicomede IV lasciò anch'egli in eredità allo stato romano, il proprio regno. Pochi anni più tardi (nel 63 a.C.), al termine della terza guerra mitridatica, la sconfitta del regno del Ponto portò alla creazione di una nuova nuova provincia (Bythinia et Pontus che univa i territori dei due regni ora sotto il dominio romano), grazie alle campagne militari condotte nell'area, da Lucio Licinio Lucullo (dal 74 al 67 a.C.).
E mentre Lucullo era ancora impegnato con Mitridate e Tigrane II, Gneo Pompeo Magno riusciva nel 67 a.C. a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, strappando loro l'isola di Creta, le coste della Licia, della Panfilia e della Cilicia, dimostrando straordinaria disciplina ed abilità organizzativa. La Cilicia vera e propria (Trachea e Pedias), che era stata covo di pirati per oltre quarant'anni, fu così definitivamente sottomessa. In seguito a questi eventi la città di Tarso divenne la capitale dell'intera provincia romana. Furono poi fondate ben 39 nuove città. La rapidità della campagna indicò che Pompeo aveva avuto talento, come generale, anche in mare, con forti capacità logistiche.[163]
Fu allora incaricato Pompeo di condurre una nuova guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente (nel 66 a.C.),[164][165] grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, ed appoggiata politicamente da Cesare e Cicerone.[166] Questo comando gli affidava essenzialmente, la conquista e la riorganizzazione dell'intero Mediterraneo orientale, avendo il potere di proclamare quali fossero i popoli clienti e quali quelli nemici, con un potere illimitato mai prima d'ora conferito a nessuno, ed attribuendogli a tutte le forze militari al di là dei confini dell'Italia romana.[164][167]
Seguirono altri anni di guerra nell'area (dal 66 al 63 a.C.), al termine dei quali Pompeo, tornato quindi nella nuova nuova provincia di Siria, dopo aver sottomesso anche i Giudei, si apprestò a riorganizzare l'intero Oriente romano, gestendo al meglio le alleanze che vi gravitavano attorno (si veda Regno cliente).[168]
Nella nuova riorganizzazione, fu trovato un accordo tra la Repubblica ed il regno dei Parti, secondo il quale, il fiume Eufrate avrebbe costituito, d'ora in poi, il confine tra i due stati;[169] lasciò a Tigrane II l'Armenia; a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane la Cappadocia ed alcuni territori limitrofi; ad Antioco di Commagene aggiunse Seleucia e parti della Mesopotamia che aveva conquistato; a Deiotaro, tetrarca della Galazia, aggiunse i territori dell'Armenia minore, confinanti con la Cappadocia; fece di Attalo il principe di Paflagonia e di Aristarco quello della Colchide; nominò Archelao sacerdote della dea venerata a Comana; ed infine fece di Castore di Phanagoria, un fedele alleato e amico del popolo romano.[170]
Il proconsole romano decise, inoltre, di fondare alcune nuove città (sembra otto, secondo Cassio Dione Cocceiano[171]), come Nicopoli in Armenia minore, chiamata così in ricordo della vittoria ottenuta su Mitridate; poi Eupatoria, costruita dal re pontico ed intitolata a sé stesso, ma poi distrutta perché aveva ospitato i Romani, che Pompeo ricostruì e rinominò Magnopolis. In Cappadocia ricostruì Mazaca, che era stata completamente distrutta dalla guerra. Restaurò poi molte altre città in molte regioni, che erano state distrutte o danneggiate, nel Ponto, in Palestina, Siria Coele ed in Cilicia, dove aveva combattuto la maggior parte dei pirati, e dove la città, in precedenza chiamata Soli, fu ribattezzata Pompeiopolis.[172][173]
Per questi successi il Senato gli decretò il meritato trionfo il 29 settembre del 61 a.C.[174][175][176] e fu acclamato da tutta l'assemblea con il nome di Magnus.[177][178]
Pompeo non solo era riuscito a distruggere Mitridate (nel 63 a.C.), ma anche a battere Tigrane il grande, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Pompeo impose una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali, tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera di Roma in oriente. Le ultime campagne militari avevano così ridotto il Ponto, la Cilicia campestre, la Siria (Fenicia, Coele e Palestina) a nuove province romane, mentre Gerusalemme era stata conquistata.[179] La provincia d'Asia era stata a sue volta ampliata, sembra aggiungendo Frigia, parte della Misia adiacente alla Frigia, in aggiunta Lidia, Caria e Ionia. Il Ponto fu quindi aggregato alla Bitinia, venendo così a formare un'unica provincia di Ponto e Bitinia.[180] A ciò si aggiungeva un nuovo sistema di "clientele" che comprendevano dall'Armenia di Tigrane II, al Bosforo di Farnace, alla Cappadocia, Commagene, Galazia, Paflagonia, fino alla Colchide.[179]
Rivolta di Spartaco (73 a.C.-71 a.C.)
Per approfondire, vedi Terza guerra servile e Schiavitù nell'antica Roma. |
« Mancavano soldati addestrati non meno che generali sperimentati. Quinto Metello e Gneo Pompeo erano impegnati in Spagna, Marco Lucullo nella Tracia, Lucio Lucullo nell'Asia minore, e non vi erano disponibili che milizie inesperte e tutt'al più ufficiali mediocri. » |
(Theodor Mommsen, Storia di Roma antica, libro V, pp. 657-658.) |
L'agricoltura su vasta scala nella penisola italiana dipendeva, inoltre, dallo sfruttamento degli schiavi nelle grandi proprietà terriere (latifundia). Le brutali condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti fu spesso causa di feroci e pericolose rivolte, che già nei decenni precedenti alla rivolta di Spartaco avevano causato diversi problemi ai Romani, soprattutto in Sicilia (guerre servili).
Spartaco era uno schiavo della Tracia, e venne addestrato come gladiatore. Nel 73 a.C., assieme ad alcuni compagni, si ribellò a Capua e fuggì verso il Vesuvio. Il numero di ribelli crebbe rapidamente fino a 70.000, composti principalmente di schiavi traci, galli e germanici. Inizialmente, Spartaco e il suo secondo in comando Crixus riuscirono a sconfiggere diverse legioni inviate contro di loro. Una volta che venne stabilito un comando unificato sotto Marco Licinio Crasso, che aveva sei legioni, la ribellione venne schiacciata nel 71 a.C. Circa diecimila schiavi fuggirono dal campo di battaglia. Gli schiavi in fuga vennero intercettati da Pompeo, aiutato dai pirati che, inizialmente, avevano promesso loro di trasportarli verso la Sicilia salvo poi tradirli, presumibilmente in base ad un accordo con Roma, che stava ritornando dalla Spagna, e 6.000 vennero crocifissi lungo la Via Appia, da Capua a Roma.[187]
Pompeo e Crasso seppero cogliere appieno i frutti politici della loro vittoria sui ribelli; entrambi tornarono a Roma con le loro legioni, rifiutandosi di scioglierle e accampandosi appena fuori dalle mura della città.[188] I due generali si candidarono al consolato per l'anno 70 a.C., anche se Pompeo non era eleggibile a causa della sua giovane età e del fatto che non aveva ancora servito come pretore o questore, come richiedeva, invece, il cursus honorum.[189] Cionondimeno, entrambi furono eletti,[189][190] anche a causa della minaccia implicita rappresentata dalle legioni in armi accampate fuori dalla città.[189]
Gli effetti della terza guerra servile sull'atteggiamento dei Romani verso la schiavitù e sulle relative istituzioni sono più difficili da determinare. Certamente la rivolta aveva scosso il popolo romano, che «a causa della grande paura sembrò iniziare a trattare i propri schiavi meno duramente di prima».[191] I ricchi possessori di latifundia iniziarono a ridurre il numero di schiavi impiegati nell'agricoltura, scegliendo di impiegare come mezzadri alcuni degli ex-piccoli proprietari terrieri spossessati.[192] Più tardi, terminate la conquista della Gallia ad opera di Gaio Giulio Cesare nel 52 a.C. e le altre grandi conquiste territoriali operate dai Romani fino al periodo del regno di Traiano (98-117), si interruppero le guerre di conquista contro nemici esterni, e con esse cessò l'arrivo in massa di schiavi catturati come prigionieri. Si incrementò, al contrario, l'impiego di lavoratori liberi in campo agricolo.
Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare. Più tardi, durante il regno dell'imperatore Claudio (41-54), fu promulgata una costituzione che considerava omicidio e puniva l'assassinio di uno schiavo anziano o ammalato, e che dava la libertà agli schiavi abbandonati dai loro padroni.[193] Durante il regno di Antonino Pio (138-161), i diritti degli schiavi furono ulteriormente allargati, e i padroni furono ritenuti direttamente responsabili dell'uccisione dei loro schiavi, mentre gli schiavi che dimostravano di essere stati maltrattati potevano forzare legalmente la propria vendita; fu contemporaneamente istituita un'autorità teoricamente indipendente cui gli schiavi si potevano appellare.[194] Sebbene questi cambiamenti legali abbiano avuto luogo molto tempo dopo la rivolta di Spartaco per poterne essere considerati le dirette conseguenze, sono nondimeno la traduzione in legge dei cambiamenti dell'atteggiamento dei Romani nei confronti degli schiavi evolutosi per decenni.
La congiura di Catilina (63 a.C.)
Nel 63 a.C., dopo essergli stato più volte vietato di diventare console, Lucio Sergio Catilina decise di ordire una congiura per rovesciare la Repubblica. Ma il console in carica, Marco Tullio Cicerone riuscì a sventare la congiura e a ripristinare (anche se per poco tempo) l'ordine a Roma.[195] Catilina contava soprattutto sulla plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi.[196] Venuto a conoscenza del pericolo che lo stato correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio,[197] Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli.[198][199] Sfuggito poi ad un attentato da parte dei congiurati,[200] Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria.[201][202] Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[203][204]Grazie alla collaborazione con una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati in modo del tutto fittizio, e i documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, ed avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula:
(LA) « Vixerunt » | (IT) « Vissero » |
(Marco Tullio Cicerone) |
Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello stato (si ricordi il famigerato verso di Cicerone sul suo consolato: "Cedant arma togae", trad: che le armi lascino il posto alla toga del magistrato), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.
Dal primo triumvirato al passaggio del Rubicone (59 a.C.-49 a.C.)
Per approfondire, vedi Primo triumvirato, Conquista della Gallia e Guerra civile tra Cesare e Pompeo. |
Nel 59 a.C., l'anno del suo consolato, Cesare portò al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica e il suo prestigio, e si adoperò per portare avanti le riforme concordate con gli altri triumviri.[207] Nonostante la forte opposizione del collega Marco Calpurnio Bibulo, che tentò in ogni modo di ostacolare le sue iniziative, Cesare ottenne comunque la ridistribuzione degli appezzamenti di ager publicus per i veterani di Pompeo, ma anche per alcuni dei cittadini meno abbienti.[208] Bibulo, una volta accortosi del fallimento della sua sterile politica volta esclusivamente alla conservazione dei privilegi da parte della nobilitas senatoriale, si ritirò dalla vita politica: in questo modo pensava di frenare l'attività del collega, che invece poté attuare in tutta tranquillità il suo rivoluzionario programma.[207] Cesare infatti programmò la fondazione di nuove colonie in Italia, come Capua, e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis),[209] facendo approvare allo stesso tempo delle leggi che favorissero l'ordo equestris: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. Fece infine promulgare una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus).[210] In questo modo Cesare si assicurava l'appoggio di tutta la popolazione romana, ponendo le basi per il suo futuro successo.[207]
Il fatto che a Cesare fosse stata attribuita inizialmente la provincia dell'Illirico nel suo imperium, con la dislocazione all'inizio del 58 a.C. di ben tre legioni ad Aquileia, potrebbe significare che egli intendeva recarvisi in cerca di gloria e ricchezze, con cui accrescere il suo potere, la sua influenza militare e politica con campagne oltre le Alpi Carniche fin sul Danubio, sfruttando la crescente minaccia delle tribù della Dacia che si erano riunite sotto il loro re Burebista. Mentre si trovava ancora a Roma, Cesare venne, però, a sapere che gli Elvezi, stanziati tra il lago di Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi retiche, si accingevano ad attraversare il territorio della Gallia Narbonense. C'era dunque il pericolo che essi, al loro passaggio sul territorio romano, compissero razzie e incitassero alla rivolta il popolo che ivi risiedeva, gli Allobrogi; i territori che si sarebbero svuotati, potevano poi divenire meta delle migrazioni di altri popoli germanici, che si sarebbero trovati a vivere al confine con lo stato romano, dando origine a un pericolo da non sottovalutare.[215] Il 28 marzo Cesare, avuta notizia che gli Elvezi, bruciate le loro città, erano giunti sulle rive del Rodano, fu costretto a precipitarsi in Gallia, dove giunse il 2 aprile, dopo pochissimi giorni di viaggio.[216] Era l'inizio della conquista della Gallia (58-50 a.C.).
Morto però Crasso nel 53 a.C. a Carre, le ambizioni personali di Cesare e Pompeo si scontrarono, il senato preferì schierarsi con quest'ultimo, che si mostrava più vicino agli optimates, e garantiva un più forte atteggiamento di rispetto verso i privilegi senatoriali (per quanto non sfuggisse ai più attenti, come Cicerone, che qualunque dei due contendenti avesse prevalso il potere del senato sarebbe stato irrimediabilmente compromesso).
Dal primo triumvirato alla morte di Cesare (49 a.C.-44 a.C.)
Per approfondire, vedi Guerra civile tra Cesare e Pompeo. |
Dopo alterne vicende, i due contendenti si affrontarono a Farsalo, dove Cesare sconfisse irreparabilmente il rivale. Pompeo cercò quindi rifugio in Egitto, ma lì fu ucciso (48 a.C.). Anche Cesare si recò perciò in Egitto, e lì rimase coinvolto nella contesa dinastica scoppiata tra Cleopatra VII ed il fratello Tolomeo XIII: risolta la situazione, riprese la guerra, e sconfisse il re del Ponto Farnace II a Zela (47 a.C.). Partì dunque per l'Africa, dove i pompeiani si erano riorganizzati sotto il comando di Catone il giovane, e li sconfisse a Tapso (46 a.C.). I superstiti dell'esercito nemico, guidato dai figli di Pompeo, Gneo e Sesto, trovarono rifugio in Spagna, dove Cesare li raggiunse e li sconfisse, questa volta definitivamente, a Munda (45 a.C.).
Cesare, avuta la meglio sulla fazione avversa, assunse il titolo di dictator, assommando a sé molti poteri e prerogative, quasi un preludio della figura dell'imperatore, che però egli non assumerà mai, ucciso alle idi di marzo nel 44 a.C.
Fine della Repubblica (44 a.C.-31 a.C.)
Per approfondire, vedi Secondo triumvirato e guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio. |
Quando nel mese di ottobre, l'appoggio del Senato ad Ottaviano si fece più pressante, con Cicerone che tuonava con le sue Filippiche contro Antonio, questi decise di riprendere il controllo della situazione richiamando in Italia le legioni stanziate in Macedonia. Di fronte a quella minaccia, Ottaviano richiamò allora i veterani di Cesare a lui fedeli. Fallito, per l'opposizione del Senato, il tentativo di far dichiarare Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne l'autorità, il console decise allora di accelerare i tempi dell'occupazione della Cisalpina, in modo da garantirsi una posizione di forza per l'anno successivo. Ricevuto il rifiuto da parte di Decimo Bruto alla cessione della Cisalpina, Antonio marciò su Modena, dove strinse d'assedio il propretore. Il 1º gennaio del 43 a.C., giorno dell'insediamento dei nuovi consoli Pansa e Irzio, il Senato decretò l'abrogazione della legge che assegnava ad Antonio la Gallia Cisalpina, incaricando i consoli di marciare contro Antonio assieme ad Ottaviano. Il 21 aprile Antonio venne sconfitto nella battaglia di Modena, nella quale, però, rimasero uccisi i consoli, lasciando così Ottaviano unico vincitore.
Dalla sua nuova posizione di forza, divenuto legalmente a capo dello Stato romano, Ottaviano prese contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione di ricomporre i dissidi interni alla fazione cesariana. Con gli auspici di Lepido, ottenne dunque che fosse organizzato un incontro a tre con Antonio nei pressi di Bononia. Da quel colloquio privato nacque un accordo a tre, tra lui, Antonio e Lepido della durata di cinque anni. Si trattava del secondo triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con la Lex Titia, in cui veniva creata la speciale magistratura dei Triumviri rei publicae constituendae consulari potestate, ovvero "triumviri per la costituzione dello stato con potere consolare".
Il patto prevedeva la divisione dei territori romani: ad Ottaviano toccarono Siria, Sardegna e Africa proconsolaris. Furono contestualmente redatte delle liste di proscrizione contro gli oppositori di Cesare, che portarono alla confisca dei beni e all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone che pagò le Filippiche rivolte contro Antonio. Si preparò nel contempo la guerra contro Bruto e Cassio e i cesaricidi.
Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido al governo della capitale, si scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino e li sconfissero in due scontri a Filippi, nella Macedonia orientale. I due anticesariani trovarono la morte suicidandosi.[217][218]
Ottaviano, Antonio e Lepido trovandosi padroni, ora, dei territori orientali procedettero ad una nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris, ad Antonio, la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, ad Ottaviano spettarono l'Italia, la Sicilia, l'Iberia, e la Sardegna e Corsica.
Successivamente nacquero nuovi contrasti: Lucio Antonio, fratello di Antonio, nel 41 a.C. si ribellò ad Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite terre in Italia (oltre ai 170.000 veterani di Ottaviano), ma fu sconfitto a Perugia nel 40 a.C. Non si può provare che Antonio fosse a conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo, entrambi decisero di non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna come governatore).[219]
Con il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne ad una nuova divisione delle province: ad Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia; ad Ottaviano l'Occidente compreso l'Illirico; a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia; a Sesto Pompeo fu confermata la Sicilia per metterlo a tacere, affinché non arrecasse problemi in Occidente.[219] Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulva era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo il trattato di Brindisi, Ottaviano ruppe inoltre l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia, e sposò Livia Drusilla, madre di Tiberio e in attesa di un secondo figlio. Sesto Pompeo era diventato un alleato scomodo e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così ad una prima serie di scontri non particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta sia da Sesto sia da un violento fortunale.[219]
Nel 38 a.C. Ottaviano si risolse ad incontrarsi a Brindisi con Antonio e Lepido per rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., però, grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo. Sesto, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio, fu infatti sconfitto definitivamente presso Mileto. La Sicilia cadde e Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove poco dopo fu assassinato dai sicari di Antonio.[219]
A quel punto, però, Ottaviano dovette far fronte alle ambizioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui e, rompendo il patto di alleanza, mosse per impossessarsene. Sconfitto però rapidamente, dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu infine confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus. A quel punto, dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio, a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimase nelle sole mani di Ottaviano, in Occidente, e Antonio, in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia.
Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato e, cosa ben più grave, Antonio ripudiò la sorella di Ottaviano con un affronto per quest'ultimo intollerabile. Il conflitto era ora inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare. Il Senato di Roma dichiarò guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C. Antonio e Cleopatra furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C. e si suicidarono entrambi, l'anno successivo in Egitto.[220]
La battaglia di Azio sancì la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero romano. Augusto, infatti, pur mantenendo formalmente alcune istituzioni repubblicane, di fatto trasformò il nuovo stato romano in una monarchia, pur nell'apparenza del principato.
Note
- ^ a b c Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 8.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.29.
- ^ a b Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.49.
- ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.11.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.30.
- ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 9.1.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.50.
- ^ a b c d Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano, p.60.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 14.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 21.7.
- ^ Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano, p.61.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II.7.
- ^ Plutarco, 21.
- ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 16, 6.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 17
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 19-20
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 23
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 28-30
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33-40
- ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade
- ^ Dionigi, Antichità romane, Libro VIII, 87, 1
- ^ Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 45-47.
- ^ Tito Livio, Libro II, 42, 10-12.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43-44.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48.
- ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro III, 1, 3.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 54.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, IV, IV, 44.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 58.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 59.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 4, 61
- ^ Tito Livio,Ab Urbe Condita, V,7
- ^ Tito Livio,Ab Urbe Condita, V,8
- ^ Tito Livio,Ab Urbe Condita, V,13
- ^ Tito Livio,Ab Urbe Condita, V,2,19
- ^ Tito Livio,Ab Urbe Condita, V,2,21.
- ^ a b Paola Ruggeri, Roma. Dalle origini della Repubblica al Principato, (par. La conquista di Veio).
- ^ a b c d e Livio, V, 33-38.
- ^ a b c d Floro, I, 13.
- ^ Paola Ruggeri, Roma. Dalle origini della Repubblica al Principato, (par. Il sacco Gallico).
- ^ a b Pennell, Ancient Rome, Ch. IX, par. 2.
- ^ a b Livio, V, 48.
- ^ Lane Fox, The Classical World, p. 283.
- ^ Appiano, Storia romana, estratto bizantino dal IV libro (traduzione inglese su Livius.org).
- ^ La tradizione storiografica romana racconta della frase Vae victis pronunciata da Brenno in quell'occasione, e del retto comportamento di Furio Camillo, che impedì che Roma fosse riscattata mediante il pagamento di un oneroso tributo.
- ^ La memoria di quest'evento rimase sempre particolarmente viva, e, in occasione del grande incendio di Roma nel 64 d.C., furono in molti a ricordare quello dei Galli di Brenno (Tacito, Annali, XV, 41, 2).
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4,35.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4,42.
- ^ Musti, op. cit., p. 527.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 31-32.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, da VIII 23 a IX 45.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 1-7.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 14.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 20.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 38.
- ^ a b Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 40.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 39.
- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 44.
- ^ a b Musti, op. cit., p. 533.
- ^ a b c d Musti, op. cit., p. 534.
- ^ a b Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, p. 311.
- ^ Clemente, op. cit., p. 43.
- ^ a b Musti, op. cit., p. 535.
- ^ Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, pp. 299-300.
- ^ a b Musti, op. cit., p. 536.
- ^ H.H.Scullard, Storia del mondo romano, vol. I, p.175.
- ^ a b c d H.H.Scullard, Storia del mondo romano, vol.I, p.176.
- ^ Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, p. 147.
- ^ Mario Attilio Levi, L'Italia nell'Evo antico, p.191.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 26.
- ^ Diodoro Siculo, XIX, 72.
- ^ Polibio, Storie, I, 6, 6.
- ^ Fasti triumphales celebrano per il 282/281 a.C.: Gaio Fabricio Luscino, console, trionfò su Sanniti, Lucani e Bruzi, alle none di Marzo (5 marzo).
- ^ a b c d Piganiol, Le conquiste dei Romani, p.181.
- ^ Polibio, Storie, I, 7, 7.
- ^ a b Musti, op. cit., p. 537.
- ^ Grimal, op. cit., pp. 33-34.
- ^ Musti, op. cit., p. 538.
- ^ Appiano, Storia romana, III, 16.
- ^ a b c d Appiano, Storia romana, III, 15.
- ^ a b c Cassio Dione, Storia romana, IV, 39, 4.
- ^ a b c d Giovanni Zonara, Epitome, 8, 2.
- ^ Floro, Epitome, I, 13, 4.
- ^ a b Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem, IV, 2.
- ^ Clementi, op. cit., p. 35.
- ^ Polibio, Storie, I, 10.7-10.9.
- ^ Polibio, Storie, I, 11.3.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, Periochae 18; Quinto Orazio Flacco, Odi, III, 5.
- ^ Polibio, Storie, I, 62, 7.
- ^ Polibio, Storie, I, 63,1-3.
- ^ Polibio, Storie, I, 62,9.
- ^ Polibio, Storie, I, 62,8.
- ^ a b Polibio, Storie, I, 65-88.
- ^ Polibio, Storie, I, 79,1-7.
- ^ Polibio, Storie, I, 79,8-11.
- ^ Polibio, Storie, III, 10,1-4.
- ^ Polibio, Storie, I, 79,12.
- ^ Polibio, Storie, II, 21-35.
- ^ Polibio, Storie, II, 25-28.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 25.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXII, 11.
- ^ a b Polibio, Storie, II, 2-12.
- ^ Polibio, Storie, III, 16-19.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 2, 1.
- ^ a b Polibio, Storie, II, 1,1-8.
- ^ a b c d Appiano, Guerra annibalica, VII, 1, 2.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 2, 1-2.
- ^ Polibio, Storie, II, 1,9.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 2, 3-5.
- ^ Polibio, Storie, II, 13,1-2.
- ^ Polibio, Storie, II, 13,1-7.
- ^ Polibio, Storie, II, 36,1-2.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 3, 1.
- ^ Appiano, Guerra annibalica, VII, 1, 3.
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- ^ Polibio, Storie, III, 13,3-4.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 4, 1.
- ^ Polibio, Storie, III, 6,1-3.
- ^ Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, III, 7.
- ^ Polibio, Storie, III, 16, 6.
- ^ Lanfranco Sanna, La seconda guerra punica, dal sito www.arsmilitaris.org.
- ^ Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, I, 13.2.
- ^ Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 126-127.
- ^ CIL V, 873.
- ^ Polibio, Storie, II, 35.4.
- ^ Aurelio Vittore, De viris illustribus Urbis Romae, 42-55; Tito Livio, Ab urbe condita libri, XXXV-XXXVIII; Polibio, Storie, XXI, 18-45; Appiano, Guerra siriaca, 1-44.
- ^ Secondo Giorgio Ruffolo è una definizione "impropria", visto che «le rivoluzioni si fanno per rovesciare le monarchie, non per instaurarle» (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 72).
- ^ Paragonabili alle colonie degli stati moderni, da non confondere con le colonie romane propriamente dette, le quali erano stanziamenti di cittadini romani a pieno titolo, cives optimo iure in territori extracittadini soggetti all'amministrazione e organizzazione diretta dello stato romano.
- ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 18.
- ^ La fusione degli antichi strati del patriziato con i nuovi ceti di ricchi plebei affermatisi grazie allo sfruttamento dei traffici commerciali fece nascere una nuova nobiltà, la cosiddetta nobilitas: una élite dominante aperta, a differenza di quella antica e isolazionista dei patrizi, perché accessibile attraverso le carriere politiche elettive (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 17).
- ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 49
- ^ a b André Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano 1989, p. 297.
- ^ Giovanni Brizzi, Storia di Roma. 1.Dalle origini ad Azio, Bologna 1997, p. 318.
- ^ Appiano, Guerre mitridatiche, 20.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 77.9.
- ^ Appiano, Guerre mitridatiche, 21.
- ^ a b Appiano, Guerre mitridatiche, 22.
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- ^ André Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano 1989, p. 393.
- ^ Plutarco, Vita di Silla, 22.3.
- ^ Plutarco, Vita di Silla, 23.5.
- ^ Plutarco, Vita di Silla, 24.1.
- ^ Plutarco, Vita di Silla, 25.1.
- ^ Plutarco, Vita di Silla, 16.
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- ^ a b Floro, Compendio di Tito Livio, I, 40.11.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 82.1.
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- ^ Plutarco, Vita di Silla, 21.
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- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXX-XXXV, 104.1-6.
- ^ Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 24.1.
- ^ Appiano, Guerre mitridatiche, 52.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 83.1.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 83.3.
- ^ a b Appiano, Guerre mitridatiche, 57-58.
- ^ Plutarco, Vita di Pompeo, 24-29; Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 94-96.
- ^ a b Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 97.
- ^ Plutarco, Vita di Lucullo, 35.7.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 42.3-43.4.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 100.1.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVII, 20.1.
- ^ Plutarco, Vita di Pompeo, 33.6.
- ^ Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 114.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVII, 20.2.
- ^ Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 115.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 37.6.
- ^ Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 116-117.
- ^ Testo originale latino dei fasti triumphales: AE 1930, 60.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVII, 21.1.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 103.12.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVII, 21.3.
- ^ a b Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 118.
- ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 102.1.
- ^ Emilio Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973, pp. 383 (cap. 8) e segg.; pp. 407 e segg. (cap. 9)
- ^ Sul rapporto tra il predominio politico della fazione aristocratico e le condizioni degli schiavi si veda Theodor Mommsen, Storia di Roma, Firenze 1973, pp. 88-94
- ^ Mommsen, pp. 581 segg.
- ^ Mommsen, pp. 622 e segg.
- ^ Antonelli, pp. 96-97; Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, vol. 2 Dalle riforme dei Gracchi alla morte di Nerone, Milano 1992, pp. 120-121; Mommsen, pp. 656-659; G. Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, p. 348.
- ^ André Piganiol, Le conquiste dei Romani, cap. 21 La rivolta contro Roma. Tentativo di restaurazione del regime aristocratico. (91-71 a.C.), Milano 1989, pp. 385 e segg.; Antonelli, pp. 89-93; G. Brizzi, op. cit., p. 349.
- ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 133; Plutarco, Pompeo, 21.2, Crasso, 11.7; Appiano di Alessandria, Guerra civile, I, 120.
- ^ Appiano di Alessandria, Guerra civile, I, 116.
- ^ a b c Appiano di Alessandria, Guerra civile, I, 121.
- ^ Plutarco, Crasso, xii.2.
- ^ Davis, Readings in Ancient History, p. 90.
- ^ Smitha, Frank E. (2006). From a Republic to Emperor Augustus: Spartacus and Declining Slavery. Visitato il 2006-09-23.
- ^ Svetonio, Vita di Claudio, xxv.2.
- ^ Gaio, Institutionum commentarius, i.52, per i cambiamenti del diritto di un padrone di trattare a proprio piacimento gli schiavi; Seneca, De Beneficiis, iii.22, per l'istituzione del diritto di uno schiavo ad essere trattato bene e per la creazione dell'"ombudsman degli schiavi".
- ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5
- ^ Plutarco, Cicerone, 10,3-4
- ^ Plutarco, Cicerone, 16,2
- ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2
- ^ Plutarco, Cicerone, 15,5
- ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 28,1-3
- ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 31,6
- ^ Plutarco, Cicerone, 16,4-5
- ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 32,1
- ^ Plutarco, Cicerone, 16,6
- ^ Cicerone, Lettere ad Attico, II,3,3;
Velleio Patercolo, Storia Romana, II,44,1-3;
Plutarco, Cesare, 14,1-2;
Svetonio, Cesare, 19,2;
Appiano, Le guerre civili, II,8;
Cassio Dione, Storia Romana, XXXVII,55-57 - ^ a b Luciano Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, cap. IX, Il "mostro a tre teste"
- ^ a b c Luciano Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, cap. XI Il primo consolato (59 a.C.)
- ^ Francesco De Martino, Storia della costituzione romana, vol. III
- ^ Digesto, XLVIII,11
- ^ Svetonio, Cesare, 20,1
- ^ Proposta dal tribuno della plebe Publio Vatinio, che poi sarà luogotenente di Cesare in Gallia
- ^ Corrispondeva ai territori della pianura padana, compresi tra il fiume Oglio e le Alpi piemontesi
- ^ Provincia costituita nel 121 a.C. che comprendeva tutta la fascia costiera e la valle del Rodano, nelle attuali Provenza e Linguadoca
- ^ Lawrence Keppie (in The making of the roman army, from Republic to Empire, Oklahoma 1998, pp. 80-81) suppone che la legio X fosse posizionata nella capitale della Gallia Narbonense: Narbona.
- ^ Cesare, De bello Gallico, I,6
- ^ Cesare, De bello Gallico, I,6,4
- ^ Mario Attilio Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1994, p. 143 e s.
- ^ Velleio, Historiae romanae ad M. Vinicium libri duo, 11, 70
- ^ a b c d Colin M. Wells, L'impero romano. Bologna, Il Mulino, 1995.
- ^ Francois Chamoux, 'Marco Antonio, Milano 1988, p. 254 e s.
Bibliografia
- Fonti primarie
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- Augusto, Res Gestae Divi Augusti. (Testo in latino disponibile qui).
- Aurelio Vittore, De viris illustribus Urbis Romae, Qui il testo latino originale
- Cassio Dione Cocceiano, Historia Romana. (Versione in inglese disponibile qui).
- Cesare, Bellum Alexandrinum. (Versione in inglese disponibile qui).
- Cesare, Commentarii de bello Gallico (testo latino).
- Cesare, Commentarii de bello civili (testo latino).
- Cicerone, De imperio Cn. Pompei ad quirites (testo latino).
- Cicerone, Epistulae (testo latino).
- Diodoro Siculo, Bibliotheca historica IX-XIII. (Versione in inglese disponibile qui).
- Dionigi di Alicarnasso, (Versione in inglese disponibile qui.
- Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino).
- Fasti triumphales. (Testo in latino: AE 1930, 60. Versione in inglese disponibile qui).
- Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC (testo latino), Liber I. (Versione in inglese disponibile qui).
- Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino).
- Livio, Periochae (testo latino).
- Plutarco, Vite parallele (testo greco) (Βίοι Παράλληλοι).
- Polibio, Storie (Ἰστορίαι).
- (Versioni in inglese disponibili qui e qui).
- Strabone, Geografia (testo greco) (Γεωγραφικά). (Versione in inglese disponibile qui).
- Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo (testo latino). (Versione in inglese disponibile qui.
- Vitruvio, De architectura (testo latino).
- Zosimo, Historia Nova, I. (Versione in inglese disponibile qui).
- Fonti storiografiche moderne
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- A.A. V.V., Atlante storico, Milano, Geo Mondadori, 2000. ISBN 88-04-48721-6.
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