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Friday, February 17, 2012

Wagner in Italia

Speranza

Wagner. La risonanza che ebbe la notizia del suo trapasso (negli organi della Stampa, si sa, non nel cuore e nella mente di coloro che potevano misurarne la portata) fu a Venezia abbastanza vasta, se pure non adeguata alla gravità del lutto.

Sedici righe nella Gazzetta di Venezia del 14 febbraio (e nella stessa pagina, e di seguito, tre necrologi di modeste personalità, ognuno dei quali assai piú lungo di quello per Wagner).

Il 15, un'ottantina di righe con la narrazione del grande trapasso e con una breve ma assai calorosa e commossa lettera indirizzata in data 14 dal delegato straordinari o del Comune, C. Astengo, alla vedova del «genio innovatore», Cosima Wagner nata Liszt.

Il 16, nelle pagine 2' e 3', notizie sulle onoranze funebri e un necrologio

«sul grande astro che è tramontato sull'orizzonte musicale».

Il 17, la notizia dell'arrivo della salma a Bayreuth.

Nell'Adriatico del 14 febbraio, mezza colonna sulla morte, con una breve nota biografica.

Il 16, una cinquantina di righe sulle onoranze funebri.

Il 17, altre notizie sul trasporto, la partenza della salma per Bayreuth, le manifestazioni di cordoglio di re Luigi di Baviera e di Franz Liszt.

Non è molto, per la città che ne aveva accolto «l'ultimo spiro».

Ma nei quotidiani delle altre città d'Italia la notizia della morte ebbe risonanza estremamente modesta.

Nei piú autorevoli e diffusi, pochi e sommari cenni biografici, brevi resoconti delle onoranze funebri, e nessuna rievocazione, sia pure rapidamente panoramica, dell'opera ciclopica di cui l'arte e l'umanità rimanevano eredi.

Non occorre altro, io credo, per dedurne che, in quel momento, la statura di Riccardo Wagner era di quelle riconosciute non molto oltre il breve cerchio dei suoi pari e degli iniziati.

Una ventina di anni dopo, intorno ai primi del '900, fu il primo apogeo.

Non proprio nelle zone popolari - perché a quegli anni risalgono le memorabili battaglie di applausi e fischi che si svolsero a Roma, a pie della Colonna Antonina, auspice Alessandro Vessella con la sua banda municipale - ma certo nel mondo accademico e nelle sfere «aggiornate» della Musica.

Quando, infatti, nell'autunno del 1904 lo entravo nel Liceo Musicale di Santa Cecilia per studiarvi Contrappunto e Fuga, Verdi era un pocolino in ribasso.

Wagner dominava la situazione, padrone assoluto del cuore dei maestrie dei discepoli.

Due anni dopo, però, avendo io abbandonato le aule romane per compiere gli studi di composizione sotto la guida di un grande artista, Ermanno Woll-Ferrari, ed essendo qui venuto a Venezia, proprio in questo Palazzo Pisani e tra queste mura, con i miei sogni e i miei rotoli di musica, subito il mio Maestro mi metteva in guardia contro i pericoli dei feticismi e delle ubriacature collettive.

E, per immunizzarmi dal
fascino del gigante nordico, come
dalle seduzioni di nuove e, per
uno spirito latino, anche
piú insidiose sirene che già si annunciavano in Francia, nella stessa Germania e in Russia, mi riconduceva alla piú pura e incorrotta fonte dell'arte nostra.

E mi iniziava al Verbo e al culto delt'Evangelista unico di tutta la Musica: Giovanni Sebastiano Bach.

Questo accadeva però nel ristretto ambito dei rapporti fra Maestro e discepolo.

Fuori, nel gran mondo dell'arte pratica e militante, la divulgazione e la fama dell'opera di Wagner era in continua ascesa, e interessava e investiva ormai anche le masse popolari.

Le esecuzioni wagneriane nei teatri e nei concerti, le edizioni degli spartiti per canto e pianoforte si succedevano ininterrottamente.

Le partiture d'orchestra erano stampate per la vendita e diflusissime.

Bayreuth era meta di migliaia di fedeli ogni anno.

Ogni anno la letteratura wagneriana si arricchiva di nuovi volumi importantissimi (ma uno dei primi, e dei piú intelligenti e sensibili e spregiudicati e lungimiranti era comparso già nel 1901, dettato da Giorgio Bernardo Shaw).

Gloria a Wagner dunque, fra il 1906 e il 1913, e da tutti riconosciuta.

Venne poi la prima guerra mondiale.

Dopo di questa, nei venti anni della falsa pace, mentre in Germania l'acceso romanticismo wagneriano e straussiano faceva un po' di posto, nei circoli interessati all'iniziativa, al frigido e disgregato romanticismo schoenberghiano.

E mentre in Francia fiorivano e si succedevano i movimenti di reazione a quell'impressionismo musicale che a sua volta, Debussy alla testa, aveva reagito contro il wagnerismo, in Italia accadeva che - se poche di queste mutevoli vicende dell'Arte in vetrina suscitavano qualche ponderabile riflesso nei piú dotati compositori militanti e nell'arte pratica - molto potevano e influivano esse, invece in quella parte della critica che, per gioventú di anni o di esperienze o di speranze o di illusioni, credette giunto il momento di una radicale cosi detta revisione dei valori.

Si che giovani critici e compositori esordienti si trovarono d'accordo sulla necessità di aprire e di alimentare lungamente un'aspra
polemica anti-wagneriana.

Non si faceva tanto questione del valore artistico delle opere wagneriane, della loro potenza musicale e poetica, in una parola della loro bellezza.

Quanto piuttosto del costume artistico ch'egli aveva instaurato, delle condizioni a cui aveva condotto il linguaggio musicale, della possibilità di comporre musica dopo di lui.

Cosí scrive uno che a quella polemica prese parte attiva e che, se non fossero gli atteggiamenti settarii ai quali spesso indulge, vanterebbe titoli eccellenti per meritare attenzione.

Ecco dunque Wagner segnato pollice verso dal critici e, quel che è peggio, dai musicisti delle nuove generazioni (quelle entrate nella vita musicale fra il 1920 e il 1930 per intenderci) i quali, allora, e anche i nati in Italia, vedevano la via di salvezza soltanto nei Ravel (Debussy era già superato, anch'esso), nei De Falla, Strawinski, Hindemith, Casella (piú tardi, questa via di salvezza l'avrebbero additata in... Schönberg).

Evidentemente, per essi, che un Puccini e un Wolf-Ferrari, due italiani di spirito e di linguaggio, corressero allora trionfalmente il mondo con le loro opere di teatro: dimostrando che anche dopo Wagner si poteva comporre musica drammatica, e testimoniando di avere - per proprio conto e ciascuno a suo modo - risolti tutti i grossi problemi proposti dalla ingombrante presenza di un Riccardo Wagner, era circostanza di nessun peso.

Era un piccolo trascurabile fatto di cronaca che bastava tacere perché non esistesse.

La seconda guerra mondiale, dunque, trovò, nei circoli della piú attivista e avanzata pratica e critica musicale, un Wagner... raso al suolo.

Ma ecco il secondo dopoguerra; questo nel quale ci troviamo invischiati come in un secondo turbolento armistizio.

Lo scrittore medesimo che ho già citato - di quindici o venti anni meno giovane e piú ricco di esperienza - si chiede oggi.

Si prolunga ancora questa polemica wagneriana, oltre l'ultima guerra?

Il fatto stesso che ponga tale domanda è già, di per sé, abbastanza eloquente.

Ma, ciò non fosse, eloquentissima - e, bisogna dire, indubbiamente onesta nel suo significato di resipiscenza - è la risposta che formula: «Gli anni di guerra, con la loro crescente barbarie e soppressione della vita artistica, hanno aumentato l'impressione di distacca dalruna all'altra fase. Dev'essere successo a piú d'uno, in questi anni, di entrare in una prigione, - o in un campo di concentramento o in un interminabile servizio militare - violentemente antiwagneriano, e di uscirne poi avido di esperienze musicali per la lunga privazione, scoprendo allora che nessuna musica quanto quella di Wagner aveva il potere di frugare piú addentro nel suo cuore, di rimescolare nella sua anima le passioni piú intime e forti, di parlargli insomma un linguaggio umano immediatamente e irresistibilmente eccitante».

Dopo la constatazione, che è già significativa, ecco ora la piena confessione di cui bisogna rilevare la schiettezza e anche - se pure a posteriori - il coraggio autocritico.

Molte circostanze, continua il giovane critico-portavoce di una intera generazione (ha oggi poco piú di quarant'anni) molte circostanze devono aver concorso a questa trasformazione.

Prima di tutto, un mutato atteggiamento nostro nei riguardi della musica.

Siamo passati da un atteggiamento che vorrei chiamare militante, a un atteggiamento piú pacatamente critico... Quando eravamo giovani, ci davamo un gran da fare per conoscere dove andasse la musica, quale cammino dovesse tenere il compositore contemporaneo. quali problemi dovesse affrontare e in che senso risolverli»... (Tutti assunti un po' gravi, bisogna dire, per la critica)... «Avevamo, continua lo scrittore, determinate idee in proposito... e le sostenevamo, combattendo a spada tratta tutto ciò che ad esse non fosse conforme.

Lo "stile wagneriano", per combinazione, non corrispondeva a quell'ideale che noi ci facevamo della musica contemporanea e futura.

E perciò ritenevamo di doverlo combattere come un pericolo pubblico.

Dopo la confessione, che piú ampia non potrebbe essere, il nuovo patto di promessa e di alleanza: «Se la sbrighino un po' per conto loro, i compositori.

Non crediamo piú molto nella possibilità di aiutarli» (meno male, dicono i compositori) «e sopra tutto crediamo molto meno di vent'anni fa nell'esistenza di una sola via di uscita - una strada maestra valida per tutti - dalle difficoltà dell'arte contemporanea».

Alla buon'ora, dicono ancora i compositori non solleciti di aiuti estranei, e gelosi della propria indipendenza e libertà.

E sia lodato Wagner, possono tutti osannare.

Sia lodato Wagner che, da settant'anni in qua onusto di gloria sempre piú fulgida dinanzi all'intero mondo indifferente alle schermaglie di parole, è oggi faro e salvezza a questi argonauti della musica che, a furia di ragionare a freddo su una materia incandescente e fluida come Farte, avevano finito col perdere la bussola.

In virtú di quale forza Wagner ha vinto questa sua ennesima battaglia contro un'intera generazione di musicisti e di studiosi dell'arte, che gli si era rivoltata contro fino a considerarlo un «pericolo pubblico »?

Questa forza è simboleggiata da un vocabolo che conobbe anch'esso, nei decennii scorsi (presso certe calegorie di artisti), la bassa fortuna dei discredito, della negazione, del sorriso di sufficienza., dell'accusa di «roba stantia e superata; pregiudizio di altri tempi».

Questo vocabolo, questo nome-simbolo, questo nome-fede, questo nome-forza in virtú del quale Wagner ha imperiosamente e irresistibilmente richiamato all'ovile il gregge disperso e smarrito (e auguriamoci lo abbia richiamato per sempre) è il cuore.

Non sono io, badate, a condensare e comprendere in questa vecchia, si, ma eterna parola-forza il senso ultimo della resipiscenza dei giovani che ho detto. Sono essi medesimi a pronunciarla e a riconsacrarla, questa parola, dopo l'abiura in cui erano caduti.

Accennando specificamente alla musica, lo scrittore dice verso la fine del suo saggio.

L'avventura della vita umana, nella sua formulazione piena e normale, è l'arte di Wagner che ce la rende.

Questa carnalità, questa fraternità umana, questa facoltà di rispecchiamento e di identificazione, quale musica al mondo la possiede nella misura dell'arte wagneriana con tanta ricchezza e universalità di concezione?

Due pagine avanti, poi, aveva schiettamente affermato: «Certamente, conosciamo altre musiche che ammiriamo di più, che ci sembrano piú alte, piú pure, perfette. Ma nessuna tocca così da vicino il nostro cuore di uomini».
Eccolo il vocabolo-chiave, pronunciato da voce non sospetta.

***

Quando si dice cuore, si intende - è ovvio - sede del sentimento; che in questo caso è sentimento di smisurata, instancabile, insaziabile sete di bene e di un mondo migliore.

Si intende il senso di profonda umanità che è alla base di tutta l'opera wagneriana. Si dice spirito di socialità che trova le sue testimonianze così nelle avventure biografiche e politiche dell'esule anelante alla libertà, come nella poetica dell'artista. Si dice, ancora, nostalgia e impazienza dell'avvento, una buona volta, della troppo vanamente promessa legge di bontà e di fraternità che dovrebbe governare e confortare l'uman genere, ma che non lo governa, né conforta affatto, come ogni giorno vediamo.

Quando si dice cuore si intende infine, e sopra tutto, religione e culto dell'amore in tutte le sue accezioni e in tutte le direzioni.

Amore e venerazione della Natura, che è quanto dire del Creato e del Creatore; immedesimazione e interpretazione delle forze e dei fenomeni che da essa e in essa si manifestano. Pensate al quieto fluire delle vene d'acqua, il movimento nella immobilità apparente (come nel VI Concerto brandeburghese, delle viole) nel sesquipedale accordo di mib. maggiore che apre l'Oro del Reno; pensate al Mormorio della foresta; pensate all'Incantesimo del fuoco; pensate alla zampogna del pastore: che è paesaggio, che è interpretazione pateticamente amorosa di un'ora crepuscolare.
Amore del bene e del giusto, del coraggio e della bellezza.

Vedete come Wagner esalta e scolpisce la maschia avvenenza di Sigfrido e come circonda di luce e di canto questo Eroe che non sa cosa sia la paura;
e come, per contrapposto, umilia e irride la figura del deforme Mime, il nano per cui tutto è paura, che nel mondo non vede che una tregenda di minacce e di orrori, e che, per dirla con Shaw, «ha paura di tutto ciò che gli può far bene: specialmente la luce e l'aria pura».

Amore e difesa dell'uman genere,
sempre in conflitto con i suoi dèi e con i suoi governi; e "L'Anello del Nibelungo" (come prima il Prometeo di Shelley) è bene la interpretazione drammatica dell'eterna lotta a cui l'uomo è condannato.

Fra le forze vitali del mondo, e quelle della negazione e della sterilità.

Amore e anèlito di redenzione.

Che in "Tannhäuser" è raggiunta attraverso il sacrificio di Elisabetta.

In "Tristano" attraverso la morte e l'annientamento.

Nel "Crepuscolo degli dei", attraverso l'Ordale dell'Universo intero.

Ma che in "Parsifal" avrà ben altro gesto e significato, e che nell'"Anello del Nibelungo" propugna il ripudio e la ribellione dell'umanità alla servitù dell'oro.

Come dire, un piú alto livello morale, ed un piú eletto grado di civiltà.

La nausea del mondo come lo vedeva, Wagner l'aveva manifestata, insieme col desiderio d'amore, al tempo di Tannhäuser.

La mia vera natura, scriveva, che si ribellava nauseata davanti al mondo moderno e si volgeva tutta ad un mondo piú nobile, abbracciava in una stretta appassionata le forme più estreme del mio essere che sboccavano in una sola direzione: un altissimo desiderio d'amore.

Amore propriamente detto, l'amore sensuale, e
la conseguente soggezione all'oggetto di tale sentimento, e all'eterno femminino, mèta suprema dello spirito vitale di conquista e di possesso dell'uomo

La piú alta soddisfazione, scrive Wagner a Roeckel, la più alta espressione dell'individuo è l'assorbimento completo, che è possibile solo nell'amore.

Ora, l'essere completo è uomo e donna: non può quindi esistere se non quando uomo e donna si uniscano in un essere solo; ed è solo con l'amore che uomo e donna raggiungono la plenitudine completa.

Ma di solito, quando parliamo di un essere umano, siamo cosi asini che involontariamente pensiamo solo all'uomo.

Invece è solo nell'unione di un uomo e di una donna, nell'amore (sensuale e sopra-sensuale) che si ha un essere umano.

E siccome l'essere umano non può assurgere alla concezione di una cosa piú alta della sua propria essenza, l'atto supremo della sua vita è questa realizzazione della sua umanità per mezzo dell'amore.

Qualche anno prima, nel 1852, aveva scritto a Uhlig.

È sempre l'eterno femminino che mi riempie di dolci inganni e di caldi brividi del piacere di vivere; è sempre un umido, splendido occhio di donna che mi penetra di viva speranza.

Amore, religione, culto infine dell'uomo uno e trino, come Wagner lo concepiva; amore e culto che conducono alla suprema esaltazione della Musica, linguaggio supremo del sentimento.

Ma qui, debbo ricordare ed esporvi una delle tante bellissime cose che Guido Manacorda disse l'11 gennaio scorso a Palazzo Vecchio di Firenze, quale oratore ufficiale nella solenne tornata dell'Accademia Nazionale Luigi Cherubini.

Fu in occasione della inaugurazione della Mostra celebrativa, oggi portata qui per iniziativa e per cura del presidente illustre conte Marcello e dell'alacre Renato Fasano, direttore di questo Conservatorio Benedetto Marcello.

Wagner vede l'uomo platonicamente, come operante in tre direzioni.

Questo ternario, che ha già un'età veneranda, già anteriore anche a Platone, nella tradizione neoplatonica, agostiniana, cristiana, Wagner lo ha accolto, lo ha capito, e, secondo il suo punto di vista, fermato.

Cosa siamo noi per Wagner?

Siamo una trinità riunita in una unità.

Di questa trinità il primo elemento è l'uomo corporeo, dei sensi.

L'individuo che del complesso dei sensi vive e si esprime, sopra tutto - e questo è importante per la concezione drammatica e per la riforma wagneriana - attraverso la mimica.

Ma Wagner intende per mimica non soltanto il gesto, non soltanto la danza.

Ma intende tutto quello che si riferisce e si rivolge ai sensi; quindi anche la pittura, la scultura, l'architettura, la stessa decorazione.

Tutto questo per Wagner si rivolge ai nostri sensi di uomini corporei, e non si esprime se non attraverso qualcosa di sensibile.

Al di sopra di quest'uomo dei sensi - e in fondo anche qui noi ci troviamo in un'atmosfera indubbiamente platonica - c'è l'uomo razionale che si esprime col nostro linguaggio, che poi la Poesia.

Ecco quindi che in un campo piú elevato abbiamo questa seconda grande esperienza umana.

Il terzo grado è quello dell'uomo del sentimento, del cuore (eccola ancora qui, pronunciata da tutt'altra voce, la parola invisa e proibita ai fuorviati di ieri.

Eccolo, il primo motore di Wagner «pericolo pubblico».

Il cuore, il grado supremo.

La lingua del sentimento di qesst'uomo, la lingua del cuore dunque, è la Musica.

La Musica, secondo Wagner, è la madre del linguaggio; è il grembo materno dal quale escono insieme la poesia e la mimica.

Contiene in sé i germi, come la madre nel suo seno, della mimica e della poesia.

Percepibile anch'essa attraverso i sensi, è essa dunque, possiamo concludere noi, che riduce ad unità, nel grado supremo, le tre direzioni, i tre elementi dell'Uomo platonicamente considerato.

Questo elogio della Musica, che Wagner stesso poneva al vertice della trina sua concezione dell'Uomo, è di così superbo e vasto significato, da richiedere non altre parole ancora; ma silenzio e meditazione.

«Qui vorrei morire», è fama dicesse Wagner nell'82 qui a Venezia, visitando quella che sarebbe stata l'ultima sua dimora, non lontana da qui. E il suo voto fu esaudito, oggi sono settant'anni.

Ripensiamo. Meditiamo.

E, sul vasto ritmo, nel cosmico respiro della «marea che lambe i marmi», ascoltino e odano le anime, secondo la speranza del Poeta.


[1] È il discorso tenuto a Venezia il 13 febbraio 1953, settantesimo anniversario della morte, nella sala dei concerti di Palazzo Pisani, per l'inaugurazione della Mostra Riccardo Wagner nel mondo, organizzata sotto gli auspici dell'Accademia Nazionale Luigi Cherubini di Firenze, per iniziativa e cura del Conservatorio di musica Benedetto Marcello.

[2] Le citazioni sono tolte da un articolo del dott. Massimo Mila, pubblicato nel fascicolo di ottobre 1952 della rivista mensile La Scala di Milano.

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