Thursday, May 24, 2012
Edipodia operistica
Spearnza
Come dice senza reticenze Calderón:
"Pues el delito mayor del hombre es haber nacido."
Venendo a parlare più particolarmente di come si debba trattare la tragedia, mi sia permessa
una sola osservazione. Il soggetto essenziale di un’opera tragica è unicamente lo spettacolo di una
grande sventura.
(Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III § 52)
«Nessuna storia greca contiene tanto dolore e
orrore come quella di "Edipo", che, dopo aver risolto
l’enigma della Sfinge ed essere stato eletto re di Tebe, scoprì
che aveva ucciso suo padre e sposato sua
madre, quindi si accecò e divenne un mendicante reietto. Le linee
essenziali dei fatti dovevano essere
note a tutti.» (C. M. Bowra).
Edipo è un immenso personaggio tragico, anzi è ‘il’ protagonista tragico del teatro antico (e forse anche
del moderno), l’eroe-vittima, il sapiente sacrificato dal destino, l’empio innocente, ignaro assassino di
suo padre, sposo di sua madre, padre-fratello dei suoi fratelli-figli, è l’immondo che si strappa gli occhi,
l’esule miserabile che, al termine di tante sue ignominie e pene, una misteriosa benevolenza divina, un
celeste perdono solleva alla luce degli dèi.
Dall’anno in cui Sofocle ha portato sulla scena del teatro di
Atene, forse nel 412-11 a.C.2, i fatti di Edipo re di Tebe e di Edipo mendicante e santificato, così
come il poeta li ha ordinati, sono diventati esemplari per la cultura occidentale e sono stati ripetuti in
tutte le forme dell’arte (teatro, poesia, pittura), innumerevoli volte.
Da allora ai giorni nostri la storia
del suo mito l’hanno fatta gli artisti prima, e poi gli storici dell’antichità, i filosofi, gli etnologi, gli indagatori della psiche.
Ogni epoca ha ricostruito il suo mito di Edipo.
Ma quale o quali significati
siamo costretti a leggere in questo mito che quasi si è imposto su tutti gli altri?
Quali temibili verità
in esso si celano del nostro stato umano, della nostra nuda esistenza?
Quali figure e condizioni primarie
della mente e della coscienza?
Nella sapienza tragica, attraverso la realtà etnica di cui essa si è nutrita,
noi vediamo l’incerta e faticosa storia della nostra idea di uomo e di individuo.
Già prima di Sofocle
«le linee essenziali dei fatti dovevano essere note a tutti», come ci ha detto Bowra.
Quei fatti riferivano
eventi eroici, ma lugubri e empi, tramandati di generazione in generazione e il loro significato era
diventato incomprensibile agli ateniesi del V secolo, in una società urbana, familiare, legale.
I due elementi iniziali e primari del mito, il perno religioso attorno al quale si aggrega tutto il racconto
di Edipo, sono certamente l’uccisione del padre e la fecondazione della madre.
Le due azioni, che come
atto effettivamente compiuto o come simbolo rituale, sono naturali e fondanti in una primitiva
comunità agraria, in una cultura tribale e matriarcale, come era l’egea-mediterranea, trasferite in una
cultura di autorità maschile, fondata sulla continuità gentilizia per matrimoni esogamici (cioè per
unione ufficiale tra membri di famiglie diverse) e quindi sull’interdizione dell’accoppiamento tra
consanguinei, apparivano insensate violazioni della legittimità sociale, empietà e pazzie, che
dovevano ricevere un senso.
Nella preistorica comunità agraria,
invece, proprio l’aggressione del figlio
colmo di vigore vitale contro il vecchio
genitore inerte (sovrano o sacerdote), la detronizzazione o
spodestamento (castrazione cerimoniale? omicidio?),
la fecondazione propiziatrice della dea-regina,
madre di tutti, siano state queste forme religiose - ripeto -
o vere azioni ricorrenti oppure solo figure di
culto, esse erano atti sociali necessari, attesi, colmi di significato, perché ne dipendevano l’identità
del gruppo sociale, la sua sicurezza di sopravvivenza, la produttività naturale degli esseri animati e
inanimati.
La radice, dunque, del mito di Edipo o meglio del suo nucleo principale affonda nel passato
pre-ellenico, nella ricca humus della civiltà mediterranea, che dalla sua oscurità ha potentemente nutrito
la cultura greca olimpica e solare.
Ma nella stratificazione progressiva delle memorie, nel complesso
processo di transizione da una condizione culturale alla successiva le immagini arcaiche che
sopravvivono, spesso si sovrappongono, si confondono, si completano con altre ed estranee immagini,
per potersi integrare con un qualche significato nel nuovo ordine sociale.
Così, nel racconto di Edipo si
può pensare che la sua condizione di infermo, l’imperfezione dei piedi dalla quale egli addirittura
riceve il nome (Oidipous significa ‘colui dai piedi gonfi’), e la peste e la sterilità derivino dallo
spostamento di attributi dal vecchio re spodestato, la cui senile debolezza inaridisce i campi, sul
vigoroso erede, risanatore della natura.
Anche la figura del mostro crudele che sfida e uccide i passanti,
la Sfinge, pur arcaica, e l’episodio della prova per enigmi entrano tardi nel racconto, quando questo
diventa tebano.
In una grotta della Beozia, infatti, si nascondeva un demone profetico, la Phix, il cui
nome si era cambiato in Sphinx, per somiglianza fonetica col verbo sphingo, ‘strozzo, strangolo’.
Ma
più conta il fatto che tutta la vicenda sia stato attirata in Grecia nel sistema della religiosità olimpica,
anzi propriamente delfica e apollinea: sì che Apollo e il suo oracolo ne sono divenuti elementi
protagonisti, assegnando nelle elaborazioni tragiche di Eschilo (per quel poco che possiamo capire) e
soprattutto di Sofocle un valore spirituale ed esistenziale inatteso al mito rinnovato.
Il nome di Edipo
compare per la prima volta nel libro dell’Iliade, il XXIII, che narra il funerale di Patroclo e i giochi
funebri in suo onore.
Nella gara del pugilato Eurìalo, un amico del grande Diomede, sfida il forte Epèo
e soccombe, lui che un tempo, dice il poeta, presso la tomba di Edipo (vv. 679-80) aveva vinto tutti i
Tebani.
Il poeta sembra non saper nulla degli eventi tremendi della famiglia di Edipo (i funesti
Labdacidi), sebbene quel ricordo onorevole oscuramente alluda alla guerra fratricida di Tebe, cioè alla
maledizione che perseguitava Edipo e i suoi figli Eteocle e Polinice, che sotto le mura della città si
erano uccisi a vicenda.
Nell’incontro che Odìsseo ha con i morti (libro XI dell’Odissea, vv. 271-80),
l’eroe vede anche la madre-sposa di Edipo, lì chiamata Epicaste.
Il poeta del libro XI conosce già quasi
tutta la vicenda così come è nota a noi.
L’omicidio del padre, l’incesto, il suicidio della donna, «presa
dal suo tormento».
Ma non si parla dell’accecamento e dell’esilio di Edipo.
Anzi egli seguitò a regnare
sui Tebani, «per il volere sterminatore degli dèi», ma a lui la donna lasciò «dolori infiniti, quanti
possono compiere le Erinni di una madre».
Nella magnifica Olimpica II (quella che s’inizia col famoso «Inni, sovrani della cetra, quale dio, quale
eroe, quale uomo canteremo?») Pindaro per celebrare Terone di Agrigento, vincitore nella corsa di
quadrighe del 476 a.C., ne canta gli antenati, che risalivano, si voleva credere, all’antico Cadmo tebano,
e tra essi Edipo (vv. 35 ss.):
Così la Moira, che regge
di costoro il benigno destino, insieme con la divina felicità
anche una pena manda, che si muta col volger del tempo:
dal giorno in cui il figlio fatale si scontrò con Laio
e l’uccise, compiendo così l’oracolo
anticamente detto nella Pitica sede.
Ma l’Erinni occhio-lucido vide
e con mutua strage gli uccise i figli guerrieri.
Neppure dieci anni dopo, nel 467, nella sua trilogia tebana Eschilo mise in scena tutto il mito di Edipo
dalla nascita maledetta, dall’incontro con la Sfinge, all’incesto con la madre e al duello fratricida dei
figli. Dei primi due drammi della trilogia (il "Laio" ed l'"Edipo") non ci resta nulla e perciò non sappiamo
precisamente con quale criterio etico e con che assetto teatrale il poeta avesse ordinato il mythos (è
questo il termine comune che Aristotele usa per indicare il contenuto narrativo del dramma, l’intreccio,
la fabula).
Ma Eschilo in uno stasimo stupendo dell’ultimo dramma, "I sette contro Tebe", ripercorre tutta
la vicenda (vv. 743 ss.):
Antico io racconto
un delitto subito scontato, ma esso pesa fino
alla terza generazione, da quando Laio,
contro Apollo, che tre volte
aveva detto a Pito, con l’oracolo
dell’ombelico del mondo,
che solo morendo
senza figli salverebbe la città,
dominato dalla follia
generò a se stesso il destino mortale,
l’assassino del padre, Edipo, che della madre seminando
il santo solco, lì dove era nato,
una radice grondante sangue
produsse: demenza che l’animo
corrompe unì i due sposi.
[...]
Alla fine si compiono le gravi
vicende di antiche maledizioni.
[...]
Quale degli uomini più onorarono
gli dei e i protettori della città,
e la mobile folla dei mortali,
quale amarono più di Edipo
che aveva strappato da questa terra
il mostro rapitore di uomini?
Ma quando egli comprese
sventurato le orribili
nozze, dai dolori straziato
con cuore furente
doppio male compì
e con la mano che il padre aveva ucciso,
si tolse gli occhi più cari dei figli,
e in odio all’antico affetto
sui figli lanciò,
ahimé, amarissime imprecazioni,
che essi con mano armata
di ferro un giorno
l’eredità otterrebbero.
Dunque, la materia aveva avuto ormai la sua disposizione definitiva secondo i delitti e i loro effetti ed
era già quella a noi nota dai racconti, dalle testimonianze e soprattutto dal dramma di Sofocle.
Ma Eschilo certo rappresentò distesamente tutti i fatti, dalla ribellione di Laio, come dicevo, alla morte di Eteocle e Polinice. E
gli era un poeta prima di tutto profondamente religioso, sì che con la sua
saldissima fede nella saggezza divina e nella giustizia trascendente poteva serenamente ritrovare negli
atroci delitti dei suoi personaggi, nelle loro sventure, perfino nel duro concetto della trasmissione delle
colpe dai padri ai figli, l’adempimento del volere divino (di Zeus, di Apollo, anche di una divinità
superiore).
Una dopo l’altra, le colpe e le conseguenze rimandavano a una verità superiore.
Delle favole [cioè: dei mythoi, dei puri contenuti dei drammi, degli intrecci] alcune sono semplici, altre
complesse; […] dico complessa quell’azione che giunge alla soluzione o col riconoscimento
[anagnórisis] o con la peripezia [peripéteia, in italiano anche: catastrofe] o con ambedue insieme.
Ma
peripezia e riconoscimento bisogna che scaturiscano direttamente dall’intima struttura della favola, in
modo cioè che siano la conseguenza o verisimile o necessaria dei fatti precedenti. […]
Peripezia è il
mutamento improvviso da una condizione di cose nella condizione contraria.
E anche questo
mutamento è sottoposto, secondo la nostra teoria, alle leggi della verosimiglianza o della necessità.
Così, per esempio, nell’"Edipo", venuto
il messo con la persuasione di
annunziare cosa gradita
a Edipo e di sgombrargli l’animo dal terrore in
cui era per i suoi rapporti con la madre, ecco che,
rivelandogli il segreto della sua nascita, produsse
l’effetto contrario. […]
La più bella forma di
riconoscimento si ha quando intervengono contemporaneamente
casi di peripezia, come nell’esempio
sopra citato dell’"Edipo".
Così Aristotele, in una pagina famosissima ("La poetica", 1452a, trad. M.
Valgimigli).
Dunque, per Aristotele i due mezzi dell’azione tragica, il riconoscimento e la catastrofe, si
identificano e si fondono nell’"Edipo re" di Sofocle e solo in esso.
Al contrario di quel che aveva fatto
Eschilo, Sofocle pone tutti gli eventi tragici come antecedenti, fuori del dramma, il quale si addensa
tutto nel processo della conoscenza.
Quando il dramma incomincia sulla scena, tutto è già accaduto.
Come gli grida Tiresia il vate cieco, subito all’inizio, Edipo, l’eroe orgogliosamente sapiente, lo
scioglitore degli enigmi, non conosce se stesso, è un cieco che vede.
Ma poi meglio sarebbe stato che
egli non avesse mai cercato se stesso, non avesse mai visto il suo destino: inorridita dalla verità,
Giocasta, la madre-sposa, esclama alla fine:
«Ascoltami, ti supplico, non andare avanti! Vittima del
destino, possa tu non saper mai chi sei! Ahimé, sventurato, solo questo nome ti do, nessun altro, mai
più».
Ella non può più chiamarlo sposo, non potrà mai chiamarlo figlio.
E si uccide.
Edipo comprende
e si strappa gli occhi con le spille tolte dal cadavere della madre-sposa.
Il suo sguardo non profanerà
la luce né offenderà, giù nell’Ade, coloro che gli hanno dato la vita.
Iniziatasi con la profanazione del
sangue, la storia di Edipo finisce nel sangue.
Come ha mirabilmente visto Aristotele, la conoscenza di
ciò che già era all’inizio (due delitti contro il sangue, uno sul corpo del padre, l’altro su quello della
madre), lo svelamento della verità, segna l’infelicità finale, conoscenza e disperazione assoluta
coincidono.
Così come Sofocle l’ha concepito, il mito di Edipo ha avuto la sua forma ultima per la
nostra civiltà.
Ed è vano chiedersi se l’Edipo re sia un dramma fatalista.
Non è, e non è un «dramma
del destino», come troppo spesso si è ripetuto (ed è confusa idea romantica), né, tanto meno, è lo
spettacolo della persecuzione divina di un ignaro colpevole (moderna, e ancor più confusa, definizione
esistenzialistica).
Sofocle fu un poeta profondamente pessimista, ma fu anche un poeta religioso.
Come
ha detto Schiller, l’Edipo re è «un’analisi tragica», la perfetta rappresentazione della necessità di
conoscere la propria sventura. «Ahimé, generazioni dei mortali, un nulla io conto la vostra esistenza!
Chi mai, chi ha tanto di felicità più che illudersene e illudendosi vederla sparire?», canta il coro nel
quarto stasimo della tragedia. Di un pianto così desolato il grande e rassegnato poeta parve trovare un
riscatto alla fine della vita, nell’Edipo a Colono, l’ideale conclusione delle tragiche vicende di Edipo,
antico eroe, ancora altero, tenero, furibondo, ma finalmente pacificato col suo destino («Una sola
parola, amore, cancella tutte le pene» egli dirà alle figlie adorate, Antigone e Ismene, salutandole per
andare a morire). Eppure anche nella sublime serenità dell’ultimo dramma parla la sapienza del dolore:
Chiunque desidera più della sua parte di esistenza e sdegna la giusta misura, per me sarà chiaro che è
stolto nell’anima. Poiché tante cose i lunghi giorni ci recano vicine ai dolori, né vedrai mai dov’è la
gioia, se troppo oltre si procede, di là dalle proprie forze. Ma quando dall’Ade la tristissima Moira
compare, senza inni, senza suoni, senza danze, a tutto provvede finalmente la morte che ogni cosa
pareggia.
Non nascere supera ogni pensiero: ma quando al mondo si sia, al più presto tornare lì da dove
si è giunti, è la sorte da scegliere. Non nascere, mé phˆynai! Sofocle così ci ha consegnato per sempre
lo scioglimento del primo enigma, la risposta alla Sfinge, che un essere primigenio, il sapientissimo
Sileno, aveva beffardamente gridato al re Mida Affertur de Sileno fabella quaedam…
Quando il re ebbe tra le mani Sileno, gli chiese quale fosse per gli uomini la cosa migliore e preferibile.
Il démone taceva, rigido e immoto, finché, costretto dal re, proruppe con una stridula risata in tali
parole: Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e dell’ansia, perché mi costringi a dirti quello che non
potrà esserti di nessun giovamento udire? La cosa per te migliore ti è del tutto impossibile ottenerla:
non esser nato, non essere, non esser nulla. La seconda cosa migliore per te - morire subito
(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 3).
Note:
1. C. M. Bowra, Sophoclean Tragedy, Oxford 1960, p. 162.
2. La data della rappresentazione dell’Edipo re è controversa. Per molto tempo è stata
opinione concorde dei filologi che il dramma fosse stato concepito e rappresentato nei
primi anni della guerra del Peloponneso, intorno al 425, per motivi storici (la descrizione
della peste a Tebe sarebbe un riflesso della peste di Atene che aveva infuriato
due, tre anni prima) e per coincidenze letterarie (queste tutte incerte, per esempio la
possibile dipendenza della scena dell’accecamento di Polimestore nell’Ecuba di
Euripide, del 424, dall’autopunizione di Edipo). C’è stato chi ha addirittura deciso che
l’Edipo re sia il più antico dramma di Sofocle! Pare certo, invece, che l’Edipo re preceda
immediatamente le Fenicie di Euripide (410 o ’09), nel cui prologo Giocasta
porta in scena le fibbie dell’accecamento. Ma soprattutto evidenti ragioni storiche e
belliche confermano la data del 412-11 (si veda, per questo motivo e per molti altri, le
ultime dieci pagine dello splendido saggio di Carlo Diano, Edipo figlio della Tyche, in
Saggezza e poetiche degli antichi, Vicenza 1968, pp. 119-165). Sicura è la data
dell’Edipo a Colono, scritto nell’ultimo anno di vita di Sofocle e rappresentato postumo
nel 401 dal nipote Sofocle il giovane. Il poeta era morto più che novantenne nel
406, qualche mese dopo Euripide: né Tiziano né altri grandi vegliardi hanno mai concluso
in così tarda età un capolavoro del genere. Correva, anzi, un commovente aneddoto,
significativo ma quasi certamente fantasioso, su un processo per demenza senile
e interdizione che il figlio di Sofocle, Iofonte, avrebbe sollecitato ai danni del padre.
Allora Sofocle avrebbe letto qualche pagina dell’Edipo a Colono ai giudici, che pieni
di meraviglia lo assolsero. Sofocle morì ammirato e venerato dai suoi cittadini e il
poeta comico Frinico lo onorò con bellissimi versi nella sua commedia Le Muse:
«Sofocle beato, che dopo lunghissima vita / morì uomo felice e sapiente, / avendo
scritto molte tragedie e belle, / e fece una bella morte né ebbe mai mali».
3. Per il finale dell’Edipo a Colono, e perciò per la conclusione della mirabile vicenda,
non si dovrebbe propriamente parlare di ‘santificazione’, né di apoteosi. Anche se in
Sofocle la divinità dà segno di particolare favore a Edipo purificato, egli a Colono
trova la sua tomba e muore davanti a Téseo. Poi il luogo dove riposava, nel bosco delle
Eumenidi, fu un santuario di protezione dell’Attica (verità religiosa per gli Ateniesi,
poetica leggenda per noi). Ma il finale dell’Edipo a Colono di Sofocle (la sua tragedia
più bella?) è così luminoso e sublime che il miracolo della poesia ci induce a intendere
miracolosa e divina anche la fine del vecchio eroe.
4. Nelle società esogamiche l’accoppiamento tra parenti vicini, dello stesso sangue, è
detto ‘incesto’, cioè ‘atto impuro, infame, sconsacrato’. I rapporti tra epoche culturali
diverse è qui tracciato molto sommariamente e quindi senza gli indispensabili particolari
etnici e antropologici. Per chi voglia approfondire il tema, soprattutto in relazione
alle epoche della civiltà greca e al mito di Edipo, do qualche indicazione di testi,
per altro ben noti, da cui ho tratto molto: C. Robert, Oidipus. Geschichte eines poetischen
Stoffs im griechischen Altertum, Berlin 1915; F. Dirlmayer, Der Mythos von
König Oidipus, Mainz 1948; B. M. W. Knox, Oedipus at Thebes, New Haven 1957.
5. Diversamente da come ho qui brevemente tentato, procede il metodo etno-antropologico
detto strutturale, leggendo esso e interpretando i racconti mitici per categorie astoriche
e per immagini psico-mentali assolute. Né è da dimenticare il fatto, di importanza
enorme per la cultura moderna, che Freud vide nel racconto edipico la rappresentazione
esemplare di un dato immanente della psiche umana, l’origine di un impulso
universale dei maschi in ogni comunità (pronto a diventare nevrosi, il ‘complesso
edipico’, se non è socializzato). Pur criticata e autorevolmente contraddetta, della teoria
del complesso edipico ancora si parla.
6. Nella fantasia psichica collettiva la sanità delle gambe e l’integrità sessuale tendono a
identificarsi (camminare e seminare sono disposizioni al futuro) e la sterilità della
‘terra desolata’ è vista come conseguenza della ‘inattività’ del sovrano (così è anche
nella leggenda del Gral).
7. Forse Eurìalo era nella schiera di Diomede all’assedio di Tebe e aveva assistito, dunque,
alla morte in battaglia di Edipo («Edipo caduto in battaglia» è detto, più o meno,
nel verso). Aveva, dunque, partecipato anche lì ai giochi funebri. (F. Serpa).
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