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Thursday, September 6, 2012

La storia della filosofia romana: TITO LUCREZIO CARO (n. Pompei, Campania)

Speranza

 


Tito Lucrezio Caro

Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus; Campania, 98 a.C. o secondo altri 96 a.C. – Roma, 55 a.C. o secondo altri 53 a.C.[1]) è stato un filosofo romano.

 

 

 

Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto.

Egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II, contenuta nella sezione Ad familiares, dove il celebre oratore accenna all'edizione postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando.

Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.C.

Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44

("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò all'età di quarantaquattro anni").

Tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato (IV d.C.), maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55 a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità.


Testa di Lucrezio

Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano credere che potesse essere di nascita aristocratica.

Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico (per altro stoico) che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'amico epicureo, che vede nella pace e il benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente.

Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani.

Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

 

Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come provocazione) ripresa da un'affermazione di San Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum natura sarebbe un Cicerone giovane, mentre Lucrezio non sarebbe mai esistito.














Tale tesi ha il difetto di non tenere nel dovuto conto gli aspetti stilistici, non ciceroniani, dell'opera.


Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera, l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di
"Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi scritti giovanili.





Tale tesi si basa principalmente sul fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a parlare di Lucrezio.

Inoltre: fu Cicerone a pubblicare il De rerum Natura per primo, con una nota introduttiva che
disprezzava l'opera, proponendola come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.C. in una lettera al fratello Quinto cicerone scrisse:"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis"(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta arte.(Ep. ad Quintum fr. II 9)). Il prestigio del nome di Cicerone come autore, sostenuto da San Girolamo, avrebbe così salvato l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone 
 C'è anche da aggiungere che San Girolamo, in veste di ecclesiastico, cercò di denigrare Lucrezio che, essendo un atomista, non credeva nell'immortalità dell'anima.

Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significava sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.
Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicurismo era invece presente anche attraverso Diogene di Enoanda e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo.

La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.
In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.
Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.

A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto letterario che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera poetica, considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che fondamentalmente sono due: la prima è una ragione etico-filosofica, in quanto il poeta, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico. Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento della situazione.

Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana [2]: non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come dirà Virgilio ad un Enea che parla alla Sibilla Cumana; non c'è un intelletto seminale in ognuno di noi che è parte integrante del Divino e che farà ritornare tutto attraverso i tempi; ma un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal 1°libro del De rerum natura [3]:
« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! »
( De rerum natura, vv. 101-106)
Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma.

Il dedicatario dell'opera è il Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: cresciutosi divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato Probi Causa, ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove ce lo cita anche Cicerone (nelle Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui Cicerone fallirà.

In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua),lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo munificenza ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici.

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Il frontespizio del De rerum natura, principale opera di Lucrezio.

Si tratta di un poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri suddiviso in sei libri (raccolti in diadi) che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare ai fenomeni cosmici (V-VI). L'intera opera è dedicata a Gaio Memnio.

Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo).

Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.

Molti critici hanno affermato che il De Rerum Natura sia un'opera incompiuta. Se infatti lo scopo di Lucrezio era quello di trasmettere un'etica, egli non ne illustrò mai esplicitamente le caratteristiche. Questa critica mette in luce, però, una delle più grandi abilità di Lucrezio: trasmettere, attraverso l'analisi del cosmo, un'etica implicita che non consisteva certo nel confezionare valori predefiniti, ma nel fornire, invece, gli strumenti culturali per decidere liberamente in cosa credere.

Sul piano teorico l'opera di Lucrezio si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la parenklisis al § 43 [4], ma poi al § 61 parlava piuttosto di una deviazione per urto[5].
Il celebre passaggio del II libro del De rerum dice:

« Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso? »
( Lucrezio, La natura delle cose, a c. Biagio Conte, Rizzoli 2000, p.175 )
Lucrezio precisa poi ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo:
« Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra. »
(Ibi, pp.175-176)
Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli atomi nel loro processo creativo [6], scrivendo:
« Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. »
(De rerum, vv.329-336 )

Secondo Lucrezio, che riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro, la religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità. Il poema ha tre argomenti principali: la lacerante antinomia fra ratio e religio. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il termine "superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dei e della loro potenza. Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa.
Lucrezio afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.
Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la "parenklisis" (che egli ribattezza clinamen, la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici''. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a uno stato di depressione di cui era affetto.)
Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi.[7] Tale concezione materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare Diderot e La Mettrie.


Il De rerum natura tradotto da Mario Rapisardi

Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura.
Per Lucrezio, però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente.

]

Lucrezio introduce nel III libro del De rerum una chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando non poche confusioni, circa il concetto di animus in rapporto a quello di anima [8]. Egli scrive:
« Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. »
(De rerum natura, III, vv. 130-146)
Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché.

Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l’ultimo respiro".

L’"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens.

Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell’unità mentale. L’indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell’emozione e del sentimento.

Parrebbe allora che l’animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale.

Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Giacomo Leopardi, che dell'opera di Lucrezio era un profondo conoscitore,

Opere [modifica]

  • Lucrezio, La natura delle cose, a cura G.B.Conte-L.Canali-I.Dionigi, Milano, Rizzoli 2000

Note [modifica]

  1. ^ Paolo Di Sacco, Mauro Serio, "Odi et amo - Storia e testi della letteratura latina" vol. 1 "L'età arcaica e la repubblica", Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Sezione 2, Modulo 7, pag 264
  2. ^ Lucrezio, La natura delle cose, a c. Biagio Conte, Rizzoli 200, pp.62-85
  3. ^ Lucrezio, De rerum natura, a c. Gian Biagio Conte, Rizzoli, 2000, p.81
  4. ^ Epicuro, Opere, a cura di E.Bignone, Laterza 1984, p.45
  5. ^ Ibi, p.53
  6. ^ De rerum, cit. infra supra, p.271
  7. ^ De rerum natura, V, vv. 784-859.
  8. ^ Lucrezio, La natura delle cose, cit.infra supra, pp.255-257.

Bibliografia [modifica]

  • V. E Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929
  • A.Bartalucci, Lucrezio e la retorica, Catania 1972.
  • E. Bignone, Storia della letteratura latina, vol.II, Firenze 1945.
  • E. Bignone, Nuove ricerche sul proemio del poema di Lucrezio, Riv. Filosof. Class, 47, 1919, pp. 423–433.
  • H. Blumenberg, Naufragio. Paradigma di una metafora dell'esistenza, Bologna 1985.
  • J. Bollack, Lucrez I, in Philologus 104, 1960.
  • M. Bollack, La raison de Lucrece, Paris 1978.
  • G. Bonelli, I motivi profondi della poesia lucreziana, Bruxelles 1984.
  • P. Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Brescia 1970
  • R.D. Brown, Lucretius on Love and Sex, Leiden - New York 1987.
  • L. Canali, Lucrezio poeta della ragione, Roma 1948
  • H. Jones, La tradizione epicurea – ECIG – Genova 1999
  • C. Salemme Strutture semiotiche dl De rerum natura, Napoli 1980
  • O. Tescari, Lucretiana, Torino 1935
  • Paolo Di Sacco, Mauro Serio, Odi et amo - Storia e testi della letteratura latina vol. 1 "L'età arcaica e la repubblica", Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori
  • A. Comte-Sponville, "Le miel et l'absinthe" Hermann Editeurs, 2008

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