Le nozioni di stato e di proprietà in Panezio e l’influenza della dottrina stoica sulla giurisprudenza romana dell’epoca scipionico-cesariana -- Osvaldo Sacchi (Seconde Université de Naples) Sommario: 1. Premessa. 2. I giuristi romani e la Stoa. 3. Il Circolo degli Scipioni. 4. La Stoa e il diritto romano. 5. La nozione di res publica come effetto dell’influenza diretta della dottrina politica di Panezio. 6. L’idea di ‘proprietà fondiaria’ nella riflessione paneziana. 7. La trasformazione del ius civile in ars iuris civilis e l’emersione del dominium ex iure Quiritium nei giuristi dell’età di Cesare. 8. Lucio Elio Stilone Preconiano. 9. Lessum, bona fides e dominium quiritario: l’ars diventa scientia. 10. Osservazioni conclusive. 1. Premessa La Stoa è un fenomeno che abbraccia un arco temporale vastissimo ed è di difficile, se non impossibile definizione. Max Pohlenz ne ha parlato come di un movimento spirituale, ma se si dicesse che è una ‘dimensione del pensiero’ forse non si sbaglierebbe1 . Comincia con * Testo rielaborato con le fonti e i riferimenti bibliografici essenziali della relazione presentata a Bochum, mercoledì 21 settembre 2005, alla 59ème Session de la Société Internationale Fernand de Visscher pour l’Histoire des Droits de l’Antiquité. 1 Per un primo approccio alla filosofia stoica si v. M. POHLENZ, Stoa und Stoiker. Die Grunder, Panaitios, Poseidonios (Zürich 1950); ID., La Stoa. Storia di un movimento spirituale (Milano 2005) [= Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung (Göttingen 1959)] 1-1036; M. ISNARDI PARENTE (a cura di), Stoici Antichi (Torino 326 OSVALDO SACCHI l’età del suo fondatore, il cipriota Zenone, un fenicio dalla pelle scura e di sangue semitico, che fu attivo ad Atene nella seconda metà del IV secolo a.C., ma comprende anche Marco Aurelio arrivando fino al terzo secolo dopo Cristo inoltrato. Non dimentichiamo, in aggiunta, la rielaborazione del de officiis di Cicerone fatta da Ambrogio e, ancora, la fortuna medioevale dei precetti morali di Seneca che, nel IV secolo d.C., fu addirittura indicato con la sua felice Formula honestae vitae da Martino di Bracara come una sorta di ‘cristiano occulto’ per aver intrattenuto una leggendaria corrispondenza con San Paolo e tentato di convertire al cristianesimo un suo discepolo2 . Il pensiero stoico dominò dunque la scena culturale romana per molti decenni durante l’ellenismo e la prima età imperiale, ma subì intorno al terzo secolo d.C. una repentina e considerevole decadenza3 . Agostino, sul finire del IV secolo d.C., in epist. 118.21, infatti potrà dire: « [gli stoici] sono ridotti al silenzio, al punto che le loro teorie vengono appena menzionate nelle scuole di retorica »4 . In effetti della letteratura stoica a noi non è arrivato molto5 . A parte un Inno a Zeus scritto da Cleante e una serie di citazioni più o meno letterali tramandate da autori di altre tendenze filosofiche, a volte addirittura ostili come Plutarco o Alessandro d’Afrodisia, conosciamo qualcosa attraverso le opere di Seneca ed Epittèto, ma dei pensatori dell’era scipionica è sopravvissuto pochissimo. Ciò nonostante, credo che le nostre conoscenze sul contributo dello 1989); ID., Filosofia e scienza nel pensiero ellenistico (Napoli 1991); A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio e lo stoicismo antico (Napoli 1980); ID., Opinione e scienza. Il dibattito tra Stoici e Accademici nel III e nel II secolo a.C. (Napoli 1986); K. HUSLER, Die fragmente zur Dialektik der Stoiker (Stüttgart-Bad Cannstatt 1987- 1988); F. ALESSE, Panezio di Rodi e la tradizione stoica (Napoli 1994); R. RADICE (Introduzione, traduzione, note e apparati a cura di), H. von Arnim, Stoici antichi, Tutti i frammenti (Milano 2002) [= H. VON ARNIM, Stoicorum Veterum Fragmenta (Lipsiae 1903-1905, rist. in due voll. Stuttgart 1968)]; E. VIMERCATI (Introduzione, traduzione, note e apparati di commento a cura di), Panezio, Testimonianze e frammenti (Milano 2002). 2 M. POHLENZ, La Stoa 978. 3 Si v. per un primo approccio M. POHLENZ, sv. Panaitios, in PW. 18.3 (StuttgartWeimar 1983) 418,31-440,11. 4 L’epistula fu indirizzata al vescovo Dioscoro che chiedeva informazioni sull’opportunità di studiare Cicerone. 5 Per un sintetico sguardo d’insieme si v. anche G. REALE, Accettare i voleri della ragione, in Valori dimenticati dell’occidente (Milano 2004) 101 ss. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 327 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) stoicismo per lo sviluppo del diritto romano come scienza, e in particolare in epoca scipionico-cesariana, possano ancora migliorare. 2. I giuristi romani e la Stoa Sul rapporto tra giuristi romani e la dottrina filosofica stoica esiste già una documentazione ricchissima6 . Anzitutto, il cliché dell’uomo 6 Si v. sul punto M. POHLENZ, La Stoa 546-549. Senza alcuna pretesa di completezza segnalo P.W. KAMPHUISEN, L’influence de la philosophie sur la conception du droit naturel chez les jurisconsultes romains, in RHDFE. 11.3 (1932) 389-412; P. FREZZA, Rec. a M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung 1 (Göttingen 1948) pp. 490; 2 (Göttingen 1949) pp. 232, in SDHI. 17 (1951) pag. 318-332; P. STEIN, The Relations between Grammar and Law in the early Principate. The beginnings of analogy, in La critica del testo (Firenze 1971) 757-769; P.A. VANDER WAERDT, Philosophical Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law, in ANRW. 36 (1994) 4851-4900; M. DUCOS, Philosophie, littérature et droit à Rome sous le Principat, in ANRW. 36 (1994) 5134-5180; L. WINKEL, Le droit romain et la philosophie grecque, quelques problèmes de méthode, in Tij. 65 (1997) 373-384. Da ultimo per tutti A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Torino 2005) 155 ss. e passim. Questi, a proposito della ‘rivoluzione scientifica’ che ha riguardato il modo di operare (e di essere) della giurisprudenza romana nei decenni tra l’età dei Gracchi e quella di Cesare e, in particolare, sull’influenza della cultura proveniente dalla Grecia, a p. 163, esplicita in questo modo il suo pensiero: « In realtà, non di riduzione o di impoverimento si trattava, né di un semplice e superficiale trapianto di qualche metodica, priva di particolare significato sostanziale. Bensì di un delicato e cruciale processo di integrazione, che riuscì a proiettare il sapere giuridico romano al di là degli orizzonti che aveva acquisito, senza tuttavia fargli smarrire il senso della propria fortissima identità: in certo modo a rivoluzionarlo per dargli il compimento. Il risultato sarebbe stato, alla fine, la nascita di un nuovo modo di pensare il diritto, che ne avrebbe tramutato le procedure in quelle di una scienza senza eguali nell’antichità, non meno compatta e concettualmente densa della grande filosofia classica ». Appare evidente che nello studioso salernitano sia maturato un superamento della posizione tradizionale risalente a F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana [Firenze (tr. G. Nocera) 1968)] 75 ss. Lo dimostrano ancora di più le seguenti parole [A. SCHIAVONE, Ius 162]: « Ma perché Quinto Mucio aveva deciso di utilizzare a fondo gli apparati diairetici, fino a farne il tratto caratterizzante – almeno agli occhi di Pomponio – di tutto il suo trattato? La risposta più consueta cerca di spiegarlo con un generico richiamo al clima intellettuale dell’epoca, cui non sarebbero state indifferenti un paio di generazioni di giuristi: una parentesi dovuta all’imporsi di una specie di moda. E’ un’interpretazione a dir poco insoddisfacente, elusiva di un tema essenziale: la connessione fra l’uso della diairetica e la qualità delle conoscenze per la prima volta elaborate attraverso quei modelli. Il problema, cioè, della forma logica attraverso cui a partire da Quinto Mucio e dalle sue innovazioni, l’esperienza del diritto veniva costruita e pensata. Se non si ha lo sguardo fermo su questo intreccio, si smarrisce il filo di ogni interpretazione plausibile. E non c’è da temere solo il vecchio equivoco che portava a distinguere meccanicamente fra ‘metodo’ greco e ‘contenuti’ 328 OSVALDO SACCHI virtuoso che è una caratterizzazione tipica del pensiero stoico. Ateneo, citando Posidonio, ricorda la ferma presa di posizione di Q. Mucio Scevola l’augure, Q. Elio Tuberone e P. Rutilio Rufo (tutti allievi del filosofo stoico Panezio: Cic. Lael. 27.101), a favore della lex Fannia cibaria del 161 a.C.7 Proverbiali inoltre sono rimasti il rigore e la coerenza con cui Scevola il pontefice esercitò la sua carica di proconsole nella provincia d’Asia, coadiuvato da Rutilio Rufo suo legato proconsolare8 . A quest’ultimo, prope perfectus in Stoicis (Brut. 30.114), si ricollega anche il famoso otium cum dignitate che rimarrà come monito per gli uomini della sua classe; tanto che, come è noto, Cicerone ne farà una strenua difesa contro l’epicureismo dilagante soprattutto in Campania, quando scrisse, fra l’altro, negli ultimi due anni della sua vita il de finibus e le Tusculanae disputationes. Riferimenti precisi nel de oratore e nel Brutus ciceroniani indicano esplicitamente come stoici anche Marco Vigellio (qui cum Panetio vixit), Sesto Pompeo e due Balbi: Cic. De orat. 3.21.78 Quid est, quod aut Sex. Pompeius aut duo Balbi aut meus amicus, qui cum Panaetio vixit, M. Vigellius de virtute hominum Stoici possint dicere, qua in disputatione ego his debeam aut vestrum quisquam concedere? Il primo, Quinto Lucilio (Balbo), fu sostenitore della tesi stoica prospettata nel de natura deorum9 . Mentre il secondo, Lucio Lucilio (Balbo), espertissimo in agendo et in respondendo, fu discepolo di romani, quanto un rischio più grave e sottile: quello di misurare il lavoro dei giuristi con i criteri adoperati per valutare il dibattito filosofico ed epistemologico da Platone al tardo stoicismo, suggestionati solo dalla traccia superficiale di alcuni evidenti debiti della giurisprudenza verso la filosofia, e da qualche sporadica contiguità di lessico e di categorie. Mettendosi su una simile strada, non si può che arrivare alla conclusione di un drammatico impoverimento dell’impianto logico del pensiero classico, quando passa dai filosofi ai giuristi, e alla constatazione del carattere irrimediabilmente minore e senza vocazione teorica del lavoro della giurisprudenza. Ma sarebbe un’indicazione infondata, anche se è stata tante volte riproposta, da diventare un luogo comune storiografico. » 7 Athen. Dipnosoph. 6.274 c-e = Posid. F 59, IIA p. 260, 34-261 7 Jacoby. 8 Per tutti C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone (Torino 1997) 235 s. 9 F. MÜNZER, sv. Lucilius, in PW. 13.2 (Stuttgart-Weimar 1927) 1640, 3-1640, 33. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 329 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) Q. Mucio Scevola il pontefice e anche maestro di Servio Sulpicio Rufo10 . 3. Il Circolo degli Scipioni C’è poi il Circolo degli Scipioni 11 . Questo sodalizio culturale era frequentato, come è noto, da letterati e filosofi come Terenzio e il 10 Cic. Brutus 42.154: Cumque discendi causa duobus peritissimis operam dedisset, L. Lucilio Balbo, C. Aquilio Gallo, Galli hominis acuti et exercitati promptam et paratam in agendo et in respondendo celeritatem subtilitate diligentiaque superavit; Balbi docti et eruditi hominis in utraque re consideratam tarditatem vicit expediendis conficiendisque rebus. Sul rapporto tra lo stoicismo e i giuristi romani v. anche F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città (Napoli 1978) 88 e passim. 11 Sul circolo scipionico si v. in generale H. BARDON, La littérature latine inconnue. I. L’époque républicaine (Paris 1952) 45 ss., 87 ss.; H. BENGTSON, Grundriss der römische Geschichte, I, (München 1967) 145; P. GRIMAL, Le siècle des Scipions2 (Paris 1975) [= Il secolo degli Scipioni. Roma e l’ellenismo al tempo delle guerre puniche (Brescia, tr. D. Plataroti, 1981)] 334 e 339-340; L. CANALI, Storia della poesia latina (Milano 1990) 13, 25, 43, nt. 7. Anche se è stata negata l’esistenza di questo sodalizio culturale [H. STRASBURGER, Der ‘Scipionenkreis’, in Hermes 94 (1966) 60-72], l’espressione grex Scipionis usata da Cicerone in Lael. 16.69 e la considerazione, nel paragrafo 101 dello stesso dialogo, di Scipione, Furio, Spurio Mummio, Tuberone, Rutilio, (Virginio e Rupilio); oltre che degli interlocutori del Lelio: Mucio Scevola, Fannio e appunto Lelio, come aequales per essere stati amici o giovani devoti di Scipione, lascia pensare che questo circolo di intellettuali sia stato effettivamente sentito come tale dai suoi protagonisti. Così, con somma erudizione F. CANCELLI (a cura di), Marco Tullio Cicerone, Lo Stato (Milano 1979) 36 s., in part. 37, scrive: « Va da sé che non bisogna credere a un sodalizio, magari con tanto di statuto, ma a un gruppo di uomini che seguivano stesse tendenze politiche, e che facevano capo, in vario modo, a Scipione o al suo amico Lelio. Cicerone assunse appunto a comune carattere dei suoi personaggi l’essere stati amici o in relazione con Scipione e Lelio, e l’essere stati seguaci più o meno fermi dell’insegnamento paneziano ». Fra l’altro, come rileva lo stesso Filippo Cancelli [ibidem 36], a questa lista di nomi manca solo quello di Manio Manilio, il famoso giurista (e generale di Scipione Africano a Cartagine), per ricostituire il gruppo di personaggi che partecipano al famoso dialogo del de re publica ambientato nel 129 a.C. negli horti suburbani di Scipione Emiliano dove Cicerone ambienterà l’enunciazione della famosa definizione di res publica in 1.25.39 su cui ritorneremo più avanti. Per l’uso di grex per indicare un ‘gruppo di amici’ o un ‘sodalizio culturale’ si v. Cic. Lael. 19.69: Saepe enim excellentiae quaedam sunt, qualis erat Scipionis in nostro, ut ita dicam grege. Anche Orazio che riferisce la parola proprio ai seguaci della Stoa di Crisippo di Soli. Horat. sat. 2.3.44 Chrysippi porticus et grex. Sul circolo degli Scipioni si v. anche F. LEO, Geschichte der römischen Literatur (Berlin 1913) 1.315- 325; R.M. BROWN, A Study of the Scipionic Circle (Iowa 1934) 61, 85-87; B.N. TATAKIS, Panétius de Rhodes. Le fondateur du moyen stoïcisme. Sa vie et son oeuvre (Paris 1931) 16; M. VAN DEN BRUWAEUM, L’influence culturelle du cercle de Scipion 330 OSVALDO SACCHI campano Lucilio12 , ma anche da storici come P. Cornelio Scipione, C. Fannio, C. Sempronio Tutidano e forse Emilio Sura. Altri possibili frequentatori di tale circolo furono Cassio Emìna e L. Calpurnio Pisone Frugi che normalmente viene ritenuto avversario dei Gracchi, ma la legge agraria del 111 a.C. lo ricorda come il console che insieme a P. Mucio applicò la lex Sempronia: Lex agr. l. 13 (= FIRA. 1.105): Quei ager locus publicus populi Romanei, quei in Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit. Quando però, nel 167 a.C., Paolo Emilio portò a Roma per i suoi due figli la biblioteca di Pella13 , diventò possibile in questa città accedere direttamente ai testi dei filosofi greci ed in particolare a quelli degli stoici14 . Fu così che il circolo scipionico, a ridosso dell’età graccana, diventò il luogo di incontro principale tra lo stoicismo e gli intellettuali romani. L’amicizia tra l’Africano minore e Polibio nacque Emilien (Schaerbeeck 1938) 6-19; K. ABEL, Die kulturelle Mission des Painaitios « Antike und Abendland » (1971) 119 ss., in part. 123-126; M. BRETONE, La fondazione del diritto civile nel manuale pomponiano, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2 (Napoli 1982) 259, nt. 8; v. anche 358 ss.; H.I. MARROU, Histoire de l’éducation dans l’antiquité. I. Le monde grec. II. Le monde romain (Paris 1981) 2.33, 185, nt. 12; F. WIEACKER, Römische Rechtgeschichte 1 (München 1988) 540, nt. 58; F. ALESSE, Panezio di Rodi e la tradizione stoica (Napoli 1994) 13 ss.; C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 217. 12 Sul rapporto tra il poeta Lucilio e il circolo scipionico cfr. Lact. div. inst. 6.5.4. G. MAURACH, Geschichte der römischen Philosophie. Eine Einführung2 (1989, 1997) 22 ss. 13 Plut. Aem. 28.11: Møna tÅ biblºa to† basil™vq filogrammato†si to¡q y™sin ®p™trefen ®jel™suai. [tr. M.L. Amerio (a cura di), Plutarco, Vite, vol. III (Torino 1998) 591 s.]: « Fece prelevare soltanto i libri della biblioteca del re per darli ai figli amanti delle lettere »; Isid. etym. 6.5.1: Romae primus librorum copiam advexit Aemilius Paulus, Perse Macedonum rege devicto; deinde Lucullus e Pontica praeda. Post hos Caesar dedit Marco Varroni negotium quam maximae bibliothecae construendae. [2] Primum autem Romae bibliothecas publicavit Pollio, Graecas simul atque Latinas, additis auctorum imaginibus in atrio, quod de manubiis magnificentissimum instruxerat. 14 Per i rapporti culturali e l’influenza della cultura greca nel circolo scipionico si v. anche O. SACCHI, La nozione di ager publicus populi Romani come espressione dell’ideologia del suo tempo, in Tij. 73 (2005) 36 ss. e passim. Adesso si v. A. SCHIAVONE, Ius 161: « Quinto Mucio, che non ignorava il greco aveva un accesso diretto a questi testi. Erano in gran parte opere incluse nell’imponente biblioteca di Perseo di Macedonia, trasportata a Roma nel 167, dopo Pidna, da Emilio Paolo – nella capitale non si erano mai visti tanti libri – e poi utilizzata dal circolo di Scipione Emiliano». LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 331 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) infatti proprio grazie ad una richiesta di libri e alla discussione che scaturì tra questi due personaggi 15 . Personalità di assoluto livello sul piano giuridico che possiamo ricordare tra i frequentatori di questo circolo lungo l’arco di almeno due generazioni furono Manio Manilio (ad Att. 4.16.2; ad Q.fr. 3.5.1; Lael. 4.14; de re p. 1.12.18; Plut. Ti. Gracc. 11.2) e Gaio Lelio, definito dallo stesso Manilio, valente giurista (de re p. 1.13.20: Tum Manilius: Pergisne eam, Laeli, artem inludere, in qua primum excellis ipse, deinde sine qua scire nemo potest, quid sit suum, quid alienum?) che fu allievo prima di Diogene di Babilonia e poi di Panezio (de fin. 2.8.24: Nec ille qui Diogenem Stoicum adulescens, post autem Panaetium audierat). Anche P. Mucio Scevola, il pontefice massimo (console nel 133 a.C.): Cic. de re p. 1.13.20: Sed ista mox; nunc audiamus Pilum, quem video maioribus iam de rebus quam me aut quam P. Mucium consuli, l’antagonista di Crasso nella causa Curiana (che morì nel 91 a.C.), prima di scegliere di seguire con il fratello di appoggiare le riforme graccane (Cic. de re p. 1.19.31; Acad. Prior. 2.5.13; Plut. Ti. Gracc. 9.1), pare che fu molto vicino a tale ambiente16 . Tra i frequentatori del circolo scipionico che aderirono alla Stoa, troviamo infine anche Furio Filo e Aulo Cascellio, che furono considerati insieme a Q. Mucio l’augure, tre dei più famosi esperti di diritto prediale dell’epoca graccana: Cic. pro Balbo 20: Q. Scaevola ille augur, cum de iure praediatorio consuleretur, homo iuris peritissimus, consultores suos nonnumquam ad Furium et Cascellium praediatores reiciebat. Attraverso Gaio sappiamo anche cosa sia il diritto prediatorio: Gai. 2.61 nam qui mercatur a populo, praediator appellatur 17 . Il discorso tuttavia non finisce qui perché in base a Cic. de orat. 1.17.75 apprendiamo che anche Q. Mucio il pontefice massimo aveva subito l’influenza di Panezio di Rodi: Quae, cum ego praetor Rhodum 15 Polyb. 31.23.4: « (…) il rapporto tra costoro iniziò da un prestito di libri e dalle conversazioni avute su di essi » [tr. R. Nicolai (a cura di), Polibio, Storie. Libri XXIIXXXIX. Frammenti (Roma 1998) 245]. 16 Quadro storico in A. GUARINO, La coerenza di P. Mucio (Napoli 1981) 9-197. Su P. Mucio particolari prosopografici in C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 1.225. 17 Particolari prosopografici con fonti e bibl. in C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 1.235 s. 332 OSVALDO SACCHI venissem et cum summo illo doctore istius disciplinae Apollonio ea, quae a Panaetio acceperam, contulissem, inrisit ille quidem, ut solebat, philosophiam atque contempsit multaque non tam graviter dixit quam facete. Il quae a Panaetio acceperam mi pare estremamente efficace18 . La corrispondenza tra il titolo di un’opera famosissima di Quinto Mucio, il Liber singularis Œron, e quella di Crisippo di Soli dimostra [insieme a D. 1.2.2.41: post hos Q. Mucius P.f. pont. max. ius civile primus constituit generatim, in libros XVIII redigendo] la vicinianza del giurista alla cultura stoica19 . 4. La Stoa e il diritto romano Alla luce di questi dati, quindi, non stupisce se Paolo Frezza abbia dichiarato già nel 1951 di credere all’esistenza di una: « …profonda influenza della Stoa sulla formazione e sull’evoluzione del pensiero giuridico romano »20 . Gli esempi della fecondità di tale rapporto, del resto, sono sotto gli occhi di tutti. Nel rilievo che Q. Mucio Scevola dava alla bona fides si nascondono infatti i prodromi di una svolta importante per la disciplina e la struttura dei rapporti obbligatori in tema di emptio venditio e di locatio conductio21 . Aldo Schiavone, credo con 18 C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 1.250 ss. 19 Cfr. anche Gai. 1.188. Diog. Laert. 7.189-199 [= SVF. App. 2.42 (Arnim 3.201) = Radice 1370]; SVF. 2.224-230 (Arnim 2.76) [= Radice 424]. Già rilevato da F. LEO, Geschichte der römischen Literatur 350. Mette in dubbio l’autenticità di quest’opera Friz Schulz [Storia della giurisprudenza romana 171] che si richiama ad H. KRÜGER, in St. Bonfante 2.336], ma oggi si propende per l’autenticità. Si v. sul punto P. STEIN, Reguale iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims (Edimburg 1966) 36 ss.; M. BRETONE, Tecniche e ideologie 78; ID., Storia del diritto romano4 (Roma-Bari 1989), 185; C.A. CANNATA, Per una storia della giurisprudenza europea 253 e nt. 184. 20 P. FREZZA, Rec. a M. Pohlenz, Die Stoa 326. Sul rapporto tra giurisprudenza romana e filosofi stoici già il Cuiacio con dovizia di indicazioni di fonti e bibl. in J. CIUAICI, Opera. Ad Parisiensem Fabrotianam editionem diligentissime exacta in tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora Pars prima. Tomus primus (Prati 1836) 1182-1184. Utile, sebbene con meno approfondimento anche J.G. HEINECCII, Historia Juris Civilis Romani ac germanici qua utriusque origo et usus in germania ex ipsis fontibus ostenditur, commoda auditoribus methodo adornata, multisque Observationibus haud Vulgaribus passim illustrata (Venetiis 1764) 159 s. 21 Cic. de off. 2.9.33-34. Si v. su questo argomento L. LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides (Milano 1961); L. FASCIONE, Cenni bibliografici sulla ‘bona fides’, in Studi sulla buona fede (Milano 1975) 51 ss.; M. TALAMANCA, La bona fides nei LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 333 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) fondatezza, ha sottolineato l’importanza e la pertinenza della già felice intuizione di Nietzsche che giudicava la bona fides del linguaggio giuridico repubblicano come una versione rielaborata in chiave ‘aristocratica e proprietaria’ (è questo il punto) della più antica fides romana22 . La legge agraria del 111 a.C. può essere vista, infatti, come una delle espressioni più immediate di questa nuova sensibilità dei giuristi romani verso una concezione di appartenenza dell’ager publicus distribuito ai privati in senso ‘proprietario’ 23 . Inoltre, si può leggere un legame tra gli insistenti appelli di Antìpatro di Tarso a favore del sentimento di solidarietà umana e il divieto individuato dai giuristi romani fondato sul diritto naturale di approfittare dell’ignoranza del compratore. Del resto, l’impegno profuso da Aquilio Gallo, il difensore dell’aequitas, nel cercare il fondamento definitorio del dolus malus è stato visto, insieme al rilievo della buona fede in Q. Mucio Scevola, esattamente come conseguenza di una volontà di dare maggiore riconoscimento, nell’ambito del diritto formale, al nuovo sentimento etico portato dalla Stoa tra gli intellettuali romani. La sequenza evolutiva, almeno nel caso dell’aequitas, passa dal secondo giurista che fu maestro del primo, e arriva fino a Servio Sulpicio Rufo che seguì l’insegnamento dello stoico Lucilio Balbo e di Aquilio Gallo a Cercina (D. 1.2.2.43: Servius (…) institutus a Balbo Lucilio, instructus autem maxime a Gallo Aquilio, qui fuit Cercinae: itaque libri complures eius extant Cercinae confecti) 24 . giuristi romani: ‘Leerformeln’ e valori dell’ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno in onore di A. Burdese IV (Padova 2003) 13 ss.; R. CARDILLI, ‘Bona fides’ tra storia e sistema (Torino 2004); E. STOLFI, ‘Bonae fidei interpretatio’. Ricerche sull’interpretazione di buona fede fra esperienza romana e tradizione romanistica (Napoli 2004) 18 ss. 22 A. SCHIAVONE, Ius 126. Per il riferimento a Nietzsche si v. Zur Genealogie der moral, Eine Streitschrift (Leipzig 1887)[= Genealogia della morale, in Opere 6/2 (Milano tr. Colli-Montinari 1968) 223 ss.]. Su questi temi rinvio anche a O. SACCHI, I maiores di Cicerone e la teoria della fides nelle scuole giuridiche dell’età repubblicana a Roma, in Atti in onore di G. Franciosi (Napoli 2006). 23 Rinvio sul punto a O. SACCHI, Regime della terra e imposizione fondiaria nell’età dei Gracchi. Testo e commento storico-giuridico della legge agraria del 111 a.C. (Napoli 2006), 196 e 203 ss. 24 Si v. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica 219 ss.; A. SCHIAVONE, Ius 216. 334 OSVALDO SACCHI Si potrebbe anche parlare, poi, del concetto di utilitas (D. 1.3.13; 1.4.2; 1.3.25) e del suo rapporto con la nozione di iustitia (Cic. de inv. 2.53.160) 25 . C’è poi la nozione di matrimonio di C. Musonio Rufo, maestro stoico dell’età neroniana (autore a detta di Prisciano di oltre 700 libri), a cui sembra essersi ispirato direttamente Modestino (D. 23.2.1) con il suo celeberrimo consortium omnis vitae26 . Ancora, possiamo citare il rapporto tra ius naturale, ius civile e ius gentium27 , il famoso honeste vivere, alterum non laedere di Ulpiano [D. 1.1.10.1 (Ulp. 1 regularum): Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere] e il paradigma concettuale per la teoria della legge come ente razionale obbligatorio per tutti gli uomini, che i compilatori di Giustiniano scelsero da un’opera di Crisippo di Soli 25 Ampio ragguaglio bibliografico sul tema in M. NAVARRA, Ricerche sulla utilitas nel pensiero dei guristi romani (Torino 2002) 3 ss. Le parole ius, iustitia e aequitas nel mondo concettuale di Servio acquistano rilievo come espressione del ricongiungimento di legalità, legittimazione, etica e formalismo. La deduzione, ricavata da un notissimo passo delle Filippiche di Cicerone è di A. SCHIAVONE, Ius 262. Il passo è Phil. 9.5.10: Nec vero silebitur admirabilis quaedam et incredibilis ac paene divina eius in legibus interpretandis, aequitate explicanda scientia. Omnes ex omni aetate, qui in hac civitate intellegentiam iuris habuerunt, si unum in locum conferantur, cum Ser. Sulpicio non sint comparandi. Nec enim ille magis iuris consultus quam iustitiae fuit. [11] Ita ea quae proficiscebantur a legibus et ab iure civili, semper ad facilitatem aequitatemque referebat neque instituere litium actiones malebat quam controversia tollere. 26 D. 23.2.1 (Modest. 1 regularum): Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio. 27 Sul rapporto tra ius naturale, ius civile e ius gentium mi limito a segnalare C.A. MASCHI, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani (Milano 1937) 284 ss. e passim; G. LOMBARDI, Sul concetto di ‘ius gentium’ (Roma 1947); A. BURDESE, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica, in RISG. 90 (1954) 407 ss.; G. NOCERA, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana (Milano 1962); Ph. DIDIER, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des II e et III e siècles, in SDHI. 47 (1981) 224; G.G. ARCHI, Lex e natura nelle istituzioni di Gaio, in Scritti di diritto romano 1. Metodologia giurisprudenza. Studi di diritto privato 1 (Milano 1981) 139 ss.; M. BRETONE, Storia 323 ss.; L.C. WINKEL, Einige Bemerkungen über ius naturale und ius gentium, in MJ. Schermaier-Z.Végh (ed.), Festschrift für W. Waldestein zum 65 Geburtstag (Stuttgart 1993) 443 ss.; M. KASER, Ius gentium (Köln-Weimar-Wien 1993) 54 ss.; P.A. VANDER WAERDT, Philosophical Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law 4789 ss.; M. DUCOS, Philosophie, littérature et droit 5160 ss.; S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones (Napoli 1996) 75 ss. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 335 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) che diresse la Stoa di Atene dal 232/231 al 204/203 a.C. [D. 1.3.2 (Marc. 1 inst.)]28 . 5. La nozione di res publica come effetto dell’influenza diretta del pensiero politico di Panezio Questo elenco di dati non è certo esaustivo e può essere ancora integrato. Possiamo tuttavia affrontare due argomenti che ritengo molto significativi per dare una dimensione ancora più esatta dell’impor-tanza del rapporto tra Stoa ed evoluzione del diritto romano. Anzitutto, la nozione di ‘Stato’. Panezio, per la prima volta rispetto a questo problema, mise in primo piano il momento giuridico. Lo ‘Stato’ è considerato dalla Stoa ‘un insieme di uomini che vivono sullo stesso territorio e sono governati da una legge’29 . Questo enunciato è la traduzione più o meno letterale della celeberrima definizione di Scipione Africano minore in Cic. de re p. 1.25.3930 . Siamo in un momento di massima influenza culturale del circolo scipionico e si cerca di dare un assetto costituzionale alla res publica31 . 28 perÁ nømoy: Ø nømoq påntvn ®stÁ basileÂq ueºvn te kaÁ Ωnurvpºnvn pragmåtvn? de¡ d‚ aªtØn proståthn te eµnai t©n kal©n kaÁ t©n a˝sxr©n kaÁ “rxonta kaÁ Ôgemøna, kaÁ katÅ to†to kanøna te eµnai dikaºvn kaÁ Ωdºkvn kaÁ t©n f¥sei politik©n zúvn, prostaktikØn m‚n ˘n poiht™on, ΩpagoreytikØn d‚ ˘n oª poiht™on. [D. 1.3.2 (Marcian. 1 inst.)] « Bisogna che la legge sia sovrana di tutte le cose, divine o umane. Deve sovrastare tutte le realtà buone e cattive e su di esse esercitare potere ed egemonia; deve fissare i canoni del giusto e dell’ingiusto e, per i viventi che stanno per natura in società, comanda quel che va fatto, e vieta quel che non va fatto ». Su Crisippo di Soli v. M. POHLENZ, La Stoa 39-43. Su Crisippo di Soli si v. H. VON ARNIM, sv. Chrysippos, in PW. 3.2 (1899, rist. München 1991) coll. 2502,14-2509,50. 29 Dio Chrysost. or. 36.20 [= SVF. (H.von Arnim) 3.329: (R. Radice, Stoici Antichi, Milano 2002, 1130)]: pl∂toq Ωntr√pon ®n taªtˆ katoiko¥ntvn ÊpØ nømon dioiko¥menon. 30 Segnalo sul punto G. MANCUSO, Forma di stato e forma di governo nell’esperienza costituzionale greco-romana (Catania 1995) 73; P. DESIDERI, Memoria storica e senso dello Stato in Cicerone, in M. Pani (a cura di), Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane 6 (Bari 2001) 235; G. VALDITARA, Attualità nel pensiero politico di Cicerone, in F. Salerno (a cura di), Cicerone e la politica (Napoli 2004) 85-117; O. SACCHI, La nozione di ager publicus populi Romani 19-42. 31 Cic. de re p. 1.25.39: ‘Est igitur’, inquit Africanus, ‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus’. Cfr. F. CANCELLI, Marco Tullio Cicerone, Lo Stato 33 ss. Sul significato di res publica si v. H. DREXLER, Res publica, 336 OSVALDO SACCHI Il riferimento di Cicerone alla definizione dell’Emiliano è importante perché in essa rileva una nozione ‘costituzionale’ di populus che è costruita su un’idea di legge che a sua volta è basata sul concetto di patto32 . Come in Papiniano D. 1.3.1 (Papin. lib. 1 def.): Lex est commune praeceptum, virorum prudentium consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio, in cui si rileva un concetto di sovranità ‘orizzontale’ piuttosto che ‘verticale’. La differenza del pensiero di Panezio è tuttavia evidente anche rispetto ad Aristotele33 . Lo Stagirita, si limitava infatti a dichiarare che lo ‘Stato’ poteva essere la società perfetta, atta a promuovere la vita buona o migliore (1252 b27) 34 . Il ‘vivere felice’ cui allude lo stesso in Maia 9 (1957) 247-281; ID., 10 (1958) 3-37; ID., in ANRW. 1.2 (1972) 800-804. Cosiderano res publica nel senso di ‘patrimonio comune’ R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche (Torino 1968) 111 ss.; H.P. KOHNS, Res publica-res populi, in Gymnasium 77 (1970) 401 ss. e passim; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2 1 (Napoli 1972) 494 ss. Considera res publica nel senso di ‘organizzazione del popolo’ J. GAUDEMET, Le peuple et le gouvernement de la République romaine, in Labeo 11 (1965) 147 ss.; ID., Gouvernés et gouvernants, in Recueil J. Bodin 23.2 (Bruxelles 1968) 189-251. Per R. KLEIN, Wege der Forschung 46 (Darmstadt 1966) 332-347, a p. 335: « Der Staat ist das Volk ». Su tutto P.L. SCHMIDT, Cicero ‘De re publica’: Die Forschung der letzen fünf Dezennien, in ANRW. 1.4b (1973) 316-319. Si v. ora anche M. KOSTOVA, Res publica на цицерон. Res publica est res populi (Sofia 2000) 33 ss. 32 Sul concetto di consensus si v. fra altri P. DE FRANCISCI, Arcana imperii 3.1 (Milano 1948) 99, nt.3: « Forse il fatto che Cicerone (Rep. 3.33.45; 3.31.43) insiste sul consensus iuris, sul vinculum iuris, ha fatto pensare che lo scrittore esponesse concetti e dottrine romane, mentre tale idea del vincolo giuridico (nømoq) era già nelle definizioni stoiche». Il governo secondo Cicerone si identifica nel consilium che è l’equivalente del platonico logistikøn e dello stoico Ôgemonikøn. Si v. per questo F. CANCELLI, Marco Tullio Cicerone, Lo Stato 76. 33 Non si tratta di una convenzione artificiale come volevano gli scettici e gli epicurei [F. CANCELLI, ibidem 59], né della realizzazione di un bisogno materiale come in Platone [Rep. 2.369b; Leg. 3.676a-680c; 9.875a-d]. E’ lo spontaneo sentimento che spinge l’uomo a riunirsi in società. La congregatio ciceroniana (fin. 3.65; 4.4) corrispondente al f¥sei politik©n zúvn di Aristotele (pol. 1.2.1253a 2-3; 3.6.1278b 19) che però fu recepito dagli stoici, secondo i quali, nell’uomo vi sarebbero i semina della virtù e della ‘sociabilità’ stessa: Cic. de re p. 1.41; fin. 5.18; Tusc. 3.2. 34 Ô d| ®k pleiønvn kvm©n koinvnºa t™leioq pøliq, ˚dh pÅshq ‘xoysa p™raq t∂q aªtarkeºaq ˜q ‘poq e˝pe¡n, ginom™nh m‚n to† z∂n ’neken, o«sa d‚ to† e« z∂n. DiØ p˙sa pøliq f¥sei ®stºn, e¬per kaÁ a pr©tai koinvnºai? t™loq gÅr a‹th ®keºnvn, Ô d‚ f¥siq t™loq ®stºn? oÚon gÅr ’kastøn ®sti t∂q gen™sevq telesueºshq, ta¥thn fam‚n t¸n f¥sin eµnai „kåstoy, Æster Ωnur√poy Òppoy o˝kºaq. [Arist. pol. 1252b 27]: « La LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 337 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) Cicerone in de off. 1.85 citando però il solo Platone. Per Panezio, invece, lo ‘Stato’ doveva essere una società basata sull’eguaglianza di diritti e mirare all’utilità comune fondata sul valore vincolante della legge. Se questo è vero, dobbiamo allora riconoscere che il filosofo di Rodi portò alla riflessione romana un dato assolutamente originale e del tutto incomparabile con altre esperienze antiche del passato e anche successive. Lo dimostra anche il confronto con un altro frammento, altrettanto famoso, del de re publica di Cicerone in cui, l’Africano minore, parafrasando Catone Censore, fa la differenza tra l’origine delle città greche e l’origine della res publica romana. Qui, forse, si coglie ancora di più il dato di novità apportato da Panezio. Catone parla del peso positivo di una tradizione (Cic. de re p. 2.1.2: nostra autem res publica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus), mentre Panezio, attraverso Cicerone, come abbiamo visto, parla solo del valore della legge come dato fondante (iuris consensu et utilitatis communione sociatus). Se questo è vero, sarebbe allora quantomeno da rivedere la nota affermazione per cui lo ‘Stato’/‘res publica’, e i principi che lo regolavano, avrebbero avuto origine dall’idea di Catone fondata sui mores maiorum e che questa posizione ideologica avrebbe segnato il pensiero politico romano anche negli ultimi decenni della Repubblica35 . comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine » [tr. C.A. Viano (a cura di), Aristotele, Politica (Milano 2002) 77]. 35 M. BRETONE, Pensiero politico e diritto pubblico, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani 15: « L’idea che lo stato, e i principi che lo reggono, abbiano la loro origine nei mores maiorum, - l’idea di Catone, - segna il pensiero politico anche negli ultimi decenni della Repubblica ». La differenza di significato è anche nel fatto che Roma era stata fondata da Romolo che fu abile e prudens (titolare di ‘saggezza pratica’), ma non sapiens come si ritenevano i raffinati intellettuali gravitanti intorno al circolo scipionico. Cfr. Cic. de orat. 1.37; de re p. 2.7 e per tutto F. CANCELLI, Marco Tullio Cicerone, Lo Stato 60. 338 OSVALDO SACCHI 6. Idea di ‘proprietà’ fondiaria nel pensiero di Panezio Un altro profilo del pensiero stoico che potrebbe aver influenzato sensibilmente la riflessione dei giuristi della tarda repubblica, riguarda la nozione di proprietà. Anche questo punto credo che meriti una riflessione più attenta di quanto non si sia fatto finora. Il diritto romano, fino all’epoca dei Gracchi, come ben dimostra ancora tutto l’impianto della legge agraria del 111 a.C., aveva conosciuto forme di appartenenza come la possessio dell’ager publicus, la possibilità che i lotti di terreno assegnati dal Senato venissero alienati e che i figli degli alienatari potessero ereditare dai loro padri; o che questi potessero alienare a terzi i loro cespiti immobiliari. Ma non la proprietà così come è intesa negli ordinamenti moderni che la qualificano come un diritto assoluto (o soggettivo perfetto) ovvero come la intendevano i giuristi dell’età classica, nella dottrina dei quali, la differenza tra possessio e dominum fondiario appare finalmente più nitida36 . Con Panezio, invece, e per la prima volta, la consapevolezza di una sostanza ontologica della nozione di una proprietà fondiaria, e la necessità di difendere tale posizione come dovere primario da parte 36 D. 50.16.195.2 (Ulp. 46 ad ed.): pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet; 29.5.1.1 (Ulp. 50 ad ed.): Domini appellatione continetur qui habet proprietatem; 41.1.13pr (Nerat. 6 regularum): Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, ‘id est proprietas’, adqquiritur etiam ignoranti [da ricordare al riguardo che l’inciso id est proprietas è considerato una glossa da S. SCHLOSSMANN, Der besitzerwerb durch Dritte nach römischen und eutigem Rechte (Leipzig 1881) 135; F. KNIEP, Vacua possessio 1 (Jena 1888) 216; P. DE FRANCISCI, Translatio dominii (Milano 1921) 28; ID., Il trasferimento della proprietà (Padova 1924) 77; E. BETTI, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 41 (Roma 1933) 183, nt. 1]; CTh. 9.42.4: bona capite damnatorum fiscali dominio vindicare. Nel senso di dominium contrapposto a ususfructus si v. D. 7.6.3 (Iul. 7 digestorum): qui possessionem dumtaxat usus fructus, non etiam dominium adepti sint. Cfr. R. LEONHARD, sv. Dominium, in PW. 5.1 (München 1903) coll. 1302, 40-1305, 24. Si v. ora anche indicazioni in O. SACCHI, Regime della terra e imposizione fondiaria 213 ss. Molto interessante il riferimento di [LEONHARD, ibidem 1308,31] a Varro r.r. 2.10.4: In emptionibus dominum legitimum sex fere res perficiunt: si hereditatem iustam adiit; si, ut debuit, mancipio ab eo accepit, a quo iure civili potuit; aut si in iure cessit, qui potuit cedere, et id ubi oportuit [ubi]; aut si usu cepit aut si e praeda sub corona emit; tumve cum in bonis sectioneve cuius publice veniit. In tale fonte tuttavia, ai vari modi di acquisto della proprietà sullo schiavo, è riferito ancora il ‘parlante’ dominum secondo un uso consolidato nel linguaggio anche tecnico latino della media tarda repubblica. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 339 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) della res publica, vengono messe al centro di un dibattito scientifico e culturale37 . Per avere un’idea più precisa al riguardo, si deve fare riferimento ad alcuni noti passaggi del de officiis di Cicerone che l’Arpinate potrebbe aver tratto direttamente dall’opera maggiore di questo filosofo. Il più significativo è: Cic. de off. 1.7.21: Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique optigit, id quisque teneat; e quo si quis sibi appetet, violabit ius humanae societatis. Il problema da cui parte Panezio è che la proprietà privata non esiste in natura (sunt autem privata nulla natura). Un approccio quindi comune anche al diritto romano più antico se è vero che questo aveva conosciuto ab origine, a parte il problema dell’heredium, forme di proprietà/appartenenza individuali soltanto mobiliari. Sennonchè, lo ‘stato’ e la ‘proprietà’ in Panezio hanno stessa origine e nascono da uno stesso atto storico, perché il primo nascerebbe per proteggere la seconda. In questo modo, entrambi acquisterebbero così anche una rilevanza giuridica. Guardando de off. 2.21.73, che è un altro dei frammenti che Cicerone potrebbe aver preso direttamente dall’opera di Panezio38 , 37 F. CANCELLI, Marco Tullio Cicerone, Lo Stato 61: « Se non è lo Stato sorto per bisogni materiali dell’uomo, è però nei suoi fini primari favorire proprio anche le condizioni di benessere materiale; e la direzione dello Stato deve essere rivolta al fine di attuare il motivo stesso dell’associarsi degli uomini, Rep. 1,41, che è la migliore condizione di felicità di tutti i componenti il gruppo sociale, Rep. 5,1, e naturalmente la tutela stessa della proprietà privata, come si dirà in Off. 2,73 ». 38 Cic. de off. 2.21.72-73: Sed, quoniam de eo genere beneficiorum dictum est, quae ad singulos spectant, deinceps de iis, quae ad universos quaeque ad rem publicam pertinent, disputandum est. Eorum autem ipsorum partim eius modi sunt, ut ad universos cives pertineant, partim, singulos ut attingant, quae sunt etiam gratiora. Danda opera est omnino, si possit, utrisque, nec minus, ut etiam singulis consulatur, sed ita, ut ea res aut prosit aut certe ne obsit rei publicae. C. Gracchi frumentaria magna largitio exhauriebat igitur aerarium; modica M. Octavi et rei publicae tolerabilis et plebi necessaria; ergo et civibus et rei publicae salutaris. [73] In primis 340 OSVALDO SACCHI vediamo che il tema della necessità per lo Stato di apprestare tutela alla proprietà privata viene esplicitato in modo chiaro e diretto. Leggendo Cicerone apprendiamo che coloro che sono deputati all’amministra-zione dello ‘Stato’ (qui rem publicam administrabit) dovevano badare in primo luogo a che non ci fosse una diminuzione dei beni dei privati (ut suum quisque teneat neque de bonis privatorum publicae deminutio fiat). Questo perché il compito precipuo degli ‘Stati’ e delle ‘città’ (qui l’allusione è chiaramente a de re p. 2.1.2: nostra autem res publica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus) avrebbe dovuto essere quello di difendere le ‘cose di ciascuno’: Cic. de off. 2.21.73: Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt. Nam, etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant. Il rodiense su questo punto è originale anche rispetto al pensiero stoico che lo aveva preceduto perchè il problema dell’inesistenza in natura della proprietà privata, come è noto, era risolto da Crisippo con la famosa metafora del teatro, dove lo spettatore chiama suo il posto che occupa e si considera, questa, una cosa legittima. Si superava così il problema di qualificare come ‘proprio’ qualcosa che nel mondo invece si sentiva come comune a tutti 39 . autem videndum erit ei, qui rem publicam administrabit, ut suum quisque teneat neque de bonis privatorum publicae deminutio fiat. Perniciose enim Philippus, in tribunatu cum legem agrariam ferret, quam tamen antiquari facile passus est et in eo vehementer se moderatum praebuit; sed cum in agendo multa populariter, tum illud male, «non esse in civitate duo milia hominum, qui rem haberent». Capitalis oratio est. Ad aequationem bonorum pertinens, qua peste quae potest esse maior? Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt. Nam, etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant. 39 Cic. de fin. 3.20.67: Sed quem ad modum, theatrum cum commune sit, recte tamen dici potest eius esse eum locum quem quisque occuparit, sic in urbe mundove communi non adversatur ius quo minus suum quidque cuiusque sit. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 341 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) 7. La trasformazione del ius civile in ars iuris civilis e l’emersione del dominium quiritario A questo punto credo sia difficile negare un’influenza anche solo indiretta della riflessione paneziana sul processo di trasformazione della possessio dell’ager publicus in dominium quiritario in età cesariana. Il pensiero corre subito allora all’espressione dominium riferita al fondo di terra come cespite immobiliare presente in un passo di Alfeno Varo [D. 8.3.30 (Paul 4 epit. Alfeni dig.)]40 . Nella ricostruzione di Lenel esso è collocato al n. 61 e si tratta del caso più tipico di esposizione di un responsum, giustificato da una necessità pratica41 . Ebbene, in questo frammento, la doppia locuzione dominium loci, potrebbe dirsi un apax legomenon, dato che non abbiamo testimonianze di altri giuristi coevi o anteriori in cui si ritrovi 40 D. 8.3.30 (lib. 4 epitomarum Alfeni digestorum): Qui duo praedia habebat, in unius venditione aquam, quae in fundo nascebatur, et circa eam aquam late decem pedes exceperat: quaesitum est, utrum dominium loci ad eum pertineat an ut per eum locum accedere possit. respondit, si ita recepisset: ‘circa eam aquam late pedes decem’, iter dumtaxat videri venditoris esset. 41 O. LENEL, Palingenesia iuris civilis (Graz rist. 1960) 1.50. Sull’opera di Alfeno Varo cfr. L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesta (Milano 1940); C. FERRINI, Intorno ai digesti di Alfeno Varo, in BIDR. 4 (1891) 1 ss.; P. JÖRS, sv. Alfenus Varus, in PW. 2.1 (Stuttgart 1895) 1473 ss.; E. VERNAY, Servius et son Ecole 35 ss.; S. SOLAZZI, Alfeno Varo e il termine ‘dominium’ 218 ss.; W. KUNKEL, Die römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung2 (1967); F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana 365 ss.; M. BRETONE, Il responso nella scuola di Servio, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani 91 ss.; I. MOLNAR, Alfenus Varus iuris consultus, in Studia in honorem V. Pólay septuagenarii (Szged 1985) 311 ss.; M. TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani fra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a Labeone, in F. Milazzo (a cura di), Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del Convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della ‘littera Florentina’. Copanello 1-4 giugno 1988 (Napoli 1990) 35 ss.; G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, in D. Mantovani (a cura di), Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio. Atti del seminario di S. Marino, 7-9 gennaio 1993 (Torino 1996) 135 ss.; C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 273 ss.; H.J. ROTH, Alfeni Digesta. Eine spätrepublikanische Juristenschrift, « Freiburger Rechtgeschichtliche Abhandlungen. Neue Folge, 32 » (Berlin 1999) su cui cfr. V. CARRO (rec.), Su Alfeno Varo e i suoi Digesta, in Index 30 (2002) 235 ss. Si v. anche C. GIACHI, Studi su Sesto Pedio. La tradizione, l’editto (Milano 2005) 314 ss.; A. SCHIAVONE, Ius 215 e passim. 342 OSVALDO SACCHI un’espressione analoga42 . La supposizione è rafforzata dal fatto che il legislatore del 111 a.C. non usa mai, in 105 paragrafi di legge, l’espressione dominium; inoltre, dal fatto che tale termine è assente nel lessico di Cicerone e, infine, che nel vocabolario festino troviamo la parola dominus legata a dubenus (L. 59, 2)/heres (L. 88, 28) (dunque inquadrata semanticamente nel lessico giuridico in una concezione potestativa), ma non ancora ad una definizione giuridica di proprietà43 . Sempre che non abbia ragione Solazzi nel considerare 42 La vicenda dell’emersione della figura del dominium nel lessico della lingua latina e nell’ordinamento giuridico romano si può ricostruire attraverso una serie di indizi di carattere storico, giuridico, etimologico che segnano il passaggio, nella mentalità giuridica romana, della nozione giuridica arcaica di appartenenza espressa con la sequenza herus/heres/heredium/hereditas, alla nozione di dominio assoluto espressa mediante la sequenza dubinus/duminus-dominus/dominium/dominium ex iure Quiritium. Quest’ultima indice dell’affermazione, nella mentalità giuridica romana, dell’idea di proprietà in un territorio dello ‘Stato’(=res publica). Per inquadrare tutto questo nella sua più esatta cornice storica bisogna valutare i termini del rapporto tra la nozione di dominium ex iure Quiritium (che si rileva dalle fonti romane tecniche e non) e le forme di appartenenza arcaiche (fino ad una certa epoca potestas e, a livello processuale, il meum esse) di beni mobili (mancipi e nec mancipi, le ceterae res di età tardo repubblicana) e di beni immobili (heredium, ager privatus, res mancipi, fundi). Sulla terminologia usata per indicare in età più antica le manifestazioni del potere del pater familias si v. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana 1 (Roma 1969) 277 ss. e 407 ss.; F. GALLO, Osservazioni sulla signoria del ‘pater familias’ in epoca arcaica, in St. De Francisci 2 (1956) 193 ss.; ID., ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana, in Labeo 16 (1970) 17 ss., in part. sulla nozione di proprietà romana 32 ss.; sul rapporto tra erus e dominus 36 ss.; A. CORBINO, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in Scritti Falzea (1987) 43 ss.; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano (Palermo 1987) 302 e nt. 29; M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano (Milano 1990) 391; M.J.G. GARCIA GARRIDO, Derecho privado romano. Casos. Acciones. Institutiones13 (Madrid 2004) 211 ss. 43 Il processo di affermazione del termine dominium nel lessico dei giuristi della tarda repubblica presenta in verità un percorso con andamento anomalo. Nelle opere di Cicerone sembrerebbe essere assente [cfr. E. COSTA, Cicerone giureconsulto (Roma 1984) passim; G. FRANCIOSI, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas (Napoli 1965) 183, nt. 19]. Però Festo spiega la voce heres (L. 88) dicendo che heres apud antiquos pro domino ponebantur [si v. G.G. ARCHI, Il concetto di proprietà nei diritti del mondo antico, in RIDA. 6 (1959) 234]. Il dato è anche ripreso dagli eruditi giustinianei Inst. 2.19.7: pro herede enim gerere est pro domino gerere: veteres enim heredes pro dominis appellabant. Sennonchè Varrone, affermando in r.r. 1.10.2: Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt, stabilisce una derivazione di heredium da heres. Siamo allora già in grado di stabilire una prima connessione semantica: heres sta a heredium come dominus sta a dominium. In termini schematici abbiamo LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 343 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) spuria la presenza della parola dominium in questo famoso passo di Alfeno Varo44 , nel qual caso il termine di emersione di tale figura giuridica si abbasserebbe ancora di più45 . così le prime due contrapposizioni di parole in senso soggettivo/oggettivo delle prime due sequenze: heres/heredium e dominus/dominium. In base al nesso stabilito da Festo (L. 88) possiamo anche riconoscere un legame tra la posizione dell’heres e quella del dominus. Il che accrediterebbe l’etimologia (peraltro sin qui negata dalla dottrina: cfr. FRANCIOSI, Usucapio pro herede 183, nt. 149) di heres come un derivato da erus/herus. Lo conferma anche D. 9.2.11.6 (Ulp. 18 ad ed.): Legis autem Aquiliae actio ero competit, hoc est domino; Serv. ad Aen. 7.490 nam (h)erum non nisi dominum dicimus; Cass. ex ps. 2.8(40): hereditates ab ero dicta est, id est domino. Su cui L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà 1, 435. La connessione è importante perché è un’ulteriore indizio nella direzione di riconoscere l’origine potestativa della posizione del dominus. Quanto all’etimologia di erus, questa parola è noto che significa ‘signore’(era = ‘signora’). Sembra difficile pensare al gallico Ēsus che è una divinità; ovvero all’ittita eŝha (signora) che richiama l’accadico aššatu (sposa) o l’ebraico iššā (donna). Erus sembra derivato direttamente dall’accadico eš(e)ru (legittimo): ‘colui che porta lo scettro’ che ha corrispondenti in aramaico hārā e in ebraico hōr (il ‘nobile’, il ‘libero’). Cfr. sul punto G. SEMERANO, Le origini della cultura indoeuropea. Vol. 1. Rivelazioni della linguistica storica (in due tomi) (Firenze 1984, rist. 2002) 2.393. Altrettanto complesso è il problema della ricostruzione etimologica di dominus che parimenti significa ‘signore’. Si v. su questo É. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. 1. Economia, parentela, società. 2. Potere, diritto, religione (Torino tr. rist. 2001) 1.231 s. Sul punto è interessante la glossa festina per cui alla voce dubenus (L. 59,2) si legge: Dubenus apud antiquos dicebatur, qui nunc dominus. Questa fonte consente di stabilire l’etimologia di dominus in modo abbastanza affidante con un base di accadico dābinu, dappinu, dapnu (nel significato di ‘potente’, ‘dominatore’). Più propriamente nel senso di dominatore ‘per titoli di valore specialmente bellico’ che, insieme all’accadico dannum nel segno di ‘potente detto di re’ o ‘di divinità’, costituisce la base semantica forse più risalente di tale vocabolo: G. SEMERANO, Le origini della cultura europea 2.387. Il riferimento al significato di dominatore ‘per titoli di valore specialmente bellico’ è interessante perché è un dato coerente con l’uso di erus/dominus in Plauto e Terenzio nel significato di ‘padrone di schiavi’ dato che in età antica la forma di procacciamento più diffusa di schiavi era la conquista bellica. Secondo L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà 1, 442 ss. (a cui si rinvia per i passi di Plauto e Terenzio dove compare il termine dominus) la sostituzione di erus con dominus sarebbe avvenuta nel de agri cultura di Catone, dunque nel corso del II secolo a.C. 44 Cfr. L. SOLIDORO MARUOTTI, ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ nella storia giuridica europea, in Drevnee pravo-Ius Antiquum 2(14) (Mosca 2004) 7-50 che ribadisce a p. 17 ancora la mancanza nel II secolo a.C. di vocaboli atti a esprimere compiutamente un’idea astratta della signoria giuridica su una cosa, cioè un’idea astratta di proprietà. La parola dominium, che rappresenta per l’autrice la conquista dell’astratto, sarebbe comparsa solo nel I secolo a.C. ad opera di Alfeno Varo (D. 8.3.30) o del suo maestro Servio Sulpicio Rufo, senza escludere però la 344 OSVALDO SACCHI Ed allora, se crediamo che Cicerone abbia utilizzato in Cic. de off. 1.7.21 del materiale paneziano, e non vedo come si possano superare le testimonianze di Gellio (13.28.1-4) 46 e Plinio (praef. 22) 47 , possibilità che l’autore dell’espressione dominium loci riferita ad una questione di servitù prediali sia stato il giurista Paolo. Già così però G. FRANCIOSI, Usucapio pro herede 183 ss. e nt. 149; ID., Studi sulle servitù prediali (Napoli 1968) 19 ss. e nt. 63; 22 e nt. 71 riprendendo R. MONIER, La date d’apparition du dominium et de la distinction juridique des res en corporales et incorporales, in St. Solazzi (1948) 357 ss.; G. PUGLIESE, Res corporales, res incorporales e il problema del diritto soggettivo, in RISG 5 (1951) 252; M. LAURIA, Usus, in St. Arangio Ruiz 4 (1953) 493; M. BRETONE, La nozione romana di usufrutto 1 (1962) 23. Così L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà 1,71 ss.; 96 ss.; 493. In senso critico nei confronti del Franciosi v. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana 2 (Milano 1976) 278, nt. 18 e passim. Poi, però, ancora G. FRANCIOSI, Gentiles familiam habento. Una riflessione sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in G. Franciosi (a cura di), Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli 1995) 48; A. MANZO, La lex Licinia de modo agrorum. Lotte e leggi agrarie tra il V e il IV secolo a.C. (Napoli 2001) 153, 85; O. SACCHI, I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus fino alla debellatio del 211 A.C., in Ager Campanus Atti del Convegno internazionale « La storia dell’ ager Campanus, i problemi della limitatio e sua lettura attuale », S. Leucio 8-9 giugno 2001 (Napoli 2002) 31; ID., L’ager Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di storia giuridica del territorio dalla ΜΕΣΟΓΕΙΑ arcaica alla centuriatio romana (Napoli 2004) p. 234, nt. 20; M.J. GARCIA GARRIDO, Derecho privado romano 211, nt. 24. 45 Cfr. sul punto S. SOLAZZI, Alfeno Varo e il termine ‘dominium’, in SDHI. 18 (1952) 218-219. Non è questa la sede per affrontare un tema complesso come quello dell’affermazione della figura giuridica del dominium ex iure Quiritium (proprietà privata immobiliare) nella giurisprudenza e nel diritto romano dell’età arcaica e repubblicana, tuttavia, sulla storia della proprietà arcaica a Roma si v. almeno A. WATSON, The Law of Property in the Later Roman Republic (Oxford 1968); L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà 1,64 ss.; 70 ss.; 96 ss.; 452; G. DIOSDI, Ownership in Ancient and preclassical Roman Law (Budapest 1970) 131 ss.; G. GROSSO, Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano (Torino 1970) 134 ss.; F. GALLO, “Potestas” e “dominium” nella esperienza giuridica romana, in Labeo 16 (1970) 17 ss.; M. KASER, Das Römische Privatrecht I.2 119 ss.; Ye.M. STAERMAN, La proprietà fondiaria in Roma, in VDI. 127 (1974) 34 ss. 46 Gell. 13.28.1-4(= Vimercati 111 frgm. A73): Legebatur Panaeti philosophi liber de officiis secundus ex tribus illis inclitis libris quos M. Tullius magno cum studio maximoque opere aemulatus est. Non esclude un’influenza diretta di Panezio neanche Francesco De Martino che ritiene possibile che questo filosofo possa essere stato fonte comune di Cicerone e Appiano. Si v. sul punto F. DE MARTINO, Motivi economici nelle lotte dei ‘populares’, in F. D’Ippolito (a cura di), Nuovi studi di economia e diritto romano (Napoli 1988) 92: « E’ probabile che i passi ciceroniani [Cic. de off. 1.21-25.72-85] derivino da Panezio, che è citato poco più sopra, il quale viveva sicuramente ancora al tempo delle agitazioni graccane e scriveva dunque sotto LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 345 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) dobbiamo quindi riconoscere che attraverso Cicerone è possibile stabilire un legame molto stretto anche tra la nozione di proprietà privata (come dominium immobiliare), la cultura stoica, e il diritto romano dell’epoca scipionico/cesariana. La cosa non sorprende se si pensa alla cd. ‘svolta ellenistica’ di giuristi come Ofilio, Trebazio e Aquilio Gallo, o allo stoicismo di Catone Uticense48 . 8. Lucio Elio Stilone Preconiano Il discorso sul rapporto tra Stoa e giurisprudenza romana nell’ultimo secolo della repubblica però non si esaurisce qui perché si possono aggiungere nuovi argomenti di discussione anche in ordine alla vexata quaestio della trasformazione del ius civile romano da esercizio di abilità pronetica in ars iuris civilis 49 . l’impressione provocata da esse. Data la somiglianza degli argomenti di Appiano e di Cicerone non è troppo ardito pensare che entrambe le fonti possano derivare da Panezio o comunque da scrittori dell’epoca, il che spiega bene la correttezza degli argomenti ». Sul punto si v. anche infra paragrafo 9. 47 Plin. praef. 22 = Vimercati 113 frgm. A79: (Tullius) de Republica Platonis se comitem profitetur, in Consolatione filiae ‘Crantorem’ inquit ‘sequor’, item Panetius de Officiis. 48 Cic. de fin. 3.2.7: Nam in Tuscolano cum essem vellemque e bibliotheca pueri Luculli quibusdam libris uti, veni in eius villam ut eos ipse ut solebam depromerem. Quo cum venissem, M. Catonem quem ibi esse nescieram vidi in bibliotheca sedentem, multis circonfusum Stoicorum libris. Erat enim ut scis in eo aviditas legendi, nec satiari poterat. Parlo di svolta ellenistica seguendo F. D’IPPOLITO, L’organizzazione degli ‘intellettuali’ nel regime cesariano, in Quaderni di storia 8 (1978) 245-272. 49 Si v. sul punto con indicazioni bibl. V. SCARANO USSANI, Tra scientia e ars. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla scienza nei giudizi di Cicerone e Pomponio, in Ostraka 2.2 (1993) 211 ss. [= in D. Mantovani (a cura di), Atti del seminario giuridico di S. Marino, 7-9 gennaio 1993. Per la storia del pensiero giuridico romano dall’età dei pontefici alla scuola di Servio (Torino 1996) 228 ss.; ID., L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giurisprudenza romana (Torino 1997); B. ALBANESE, L’ars iuris civilis nel pensiero di Cicerone, in AUPA. Studi con Bernardo Albanese I 47 (Palermo 2002) 23-45. Aldo Schiavone è tornato su questo tema che era già stato al centro di un dibattito molto approfondito in storiografia. Nel suo più recente lavoro [Ius 167 ss.] lo studioso parte dalla ricorrenza terminologica in de oratore e in Brutus della parola ars riconducendovi, tuttavia, uno scarto di significato. Nel de oratore [in 1.41.186- 42.191. Per rif. bibl. e discussione critica cfr. A. SCHIAVONE, Ius 164 e (433) nt. 35] ars significherebbe ancora ‘sistema’. In Brutus [41.152-42.153. Cfr. per bibl. e disc. A. SCHIAVONE, Ius 167 s. e (434) nt. 41] la parola sarebbe stata usata nel significato di ‘conoscenza tecnico-specialistica di una determinata disciplina, senza alcuna 346 OSVALDO SACCHI All’interno di un dibattito certamente più ampio, in questa sede mi riferirisco al ruolo svolto dalla figura di Elio Stilone Preconiano, un’intellettuale che visse proprio negli anni a cavallo tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. Fu proprio grazie a questo personaggio che a Roma si cominciò a studiare la struttura del latino. Proprio Stilone, che fu maestro di Varrone reatino, oltre che dello stesso Cicerone, sull’esempio degli alessandrini, fondò una scuola di filologia a Roma e per primo applicò l’etimologia al materiale linguistico latino mettendo in primo piano il ruolo del neologismo50 . Ebbene, nel processo di trasformazione del ius civile in una tèchne, insieme all’acquisizione della metodologia diairetica appresa dalle scuole filosofiche greche di varia estrazione culturale, un ruolo di primissimo piano potrebbe essere stato svolto proprio dalla metodologia filologica che trovò in Stilone e nella scuola stoica, il suo accentuazione degli aspetti sistematici’. Alla lettera (p.168): « Ars traduceva sempre qualcosa che stava, in greco, tra la techne e l’epistème: nel De oratore, sottolineandone le implicazioni sistemiche; nel Brutus, il lato più genericamente gnoseologico ». A mio sommesso avviso il grande salto di qualità dei giuristi romani formatisi alla scuola degli eruditi/gramma-tici/filosofi/linguisti di derivazione stoica (che però non vuol dire rifiuto o ignoranza della tradizione filosofica precedente; uno per tutti: Cic. Tusc. 1.32.79 Credamus igitur Panaetio a Platone suo dissentienti?) è stato di passare, da una condizione di eccellenza nell’esercizio di un sapere pratico (phronètico), vicino alla forma ‘doxastica’, dove ciò che contava era la capacità di adeguare la conoscenza della norma al fatto concreto (in questo senso, saggezza), ad una ricerca di ciò che è scientificamente esatto, che appunto è campo di elezione dell’epistème. 50 Su Elio Stilone Preconiano cfr. H. FUNAIOLI (ed.), Grammaticae Romanae Fragmenta [1907, Stuttgart (rist.) 1969] 51-76. Non come soltanto grammatico cfr. O. SACCHI, Il mito del pius agricola e riflessi del conflitto agrario dell’epoca catoniana nella terminologia dei giuristi medio/tardo repubblicani, in RIDA. 49 (2002) 277, nt. 75. Per la posizione della dottrina prevalente su tale personaggio cfr. F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1992) 149, nt. 41. Sul valore che gli stoici assegnavano all’esatto significato delle parole si v. M. ISNARDI PARENTE, Filosofia e scienza nel pensiero ellenistico 31 e passim. Sulle teorie linguistiche stoiche cfr. C. ATHERTON, The Stoics on Ambiguity (Cambridge 1992) 92 ss.; W. AX, Der Einfluss der peripatos auf die Sprachtheorie der Stoa, in K. Döring-Th. Ebert (a cura di), Dialektiker und Stoiker. Zur Logik der stoa und ihrer Vorlaufer (Stuttgart 1993) 11 ss.; M. FORSCHNER, Die Stoische Ethic. Über den Zussammenhang von Natur-Sprach und Moral philosophie im altsoischen System (Darmstadt 1995) 67 ss. Sul rapporto tra le teorie linguistiche di Favorino di Arles e le teorie linguistiche degli stoici si v. S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino 231 ss. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 347 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) punto di massima realizzazione51 . E’ questo un argomento che non credo sia stato ancora sufficientemente approfondito in dottrina. A supporto di tale ipotesi si può richiamare un frammento famosissimo del de oratore, in cui Cicerone, attraverso Crasso, parlando degli Aeliana studia, rievoca con nostalgia le lezioni e i corsi tenuti da questo maestro. A leggere con attenzione le sue parole, sembra che in questo caso Cicerone stia facendo un discorso apologetico su ciò che si potrebbe considerare anche una testimonianza del primo approccio allo studio del diritto romano articolato in chiave storica. Un modello, fra l’altro, che pare sensibilmente diverso nella sostanza dallo schema isagogico offerto dal celeberrimo trattatello pomponianio: Cic. de or. 1.43.193: Accedit vero, quo facilius percipi cognoscique ius civile possit, quod minime plerique arbitrantur, mira quaedam in cognoscendo suavitas et delectatio. Nam, sive quem haec Aeliana studia delectant, plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum genera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant. Insieme a questo, vanno considerate altre situazioni che sono tipiche del periodo che stiamo trattando. Mi riferisco alle dispute tra i giuristi repubblicani sul significato della penus legata52 , agli adeguamenti terminologici del testo decemvirale e anche al complesso 51 Aldo Schiavone [Ius 162], in una messa a punto molto interessante, pare voler superare il giudizio negativo e minimizzante di Fritz Schulz sul rapporo tra filosofia greca e giuristi romani. Sul punto, già con riferimento al contributo stoico, si v. la posizione di Paolo Frezza per cui rinvio a retro, nt.6. Da tener presente anche M. BRETONE, Uno sguardo retrospettivo. Postulati e aporie nella History di Schulz, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani 335-353 [= in Festschrift für Franz Wieaker zum 70. Geburstag (Göttingen 1978)] che affronta (p. 340 ss.) il problema (come è noto) discutendo il cosiddetto ‘secondo postulato’ di Schulz, ossia l’isolamento della scienza giuridica. Significativa la seguente affermazione (p. 341): « E’ nota la sensibilità grammaticale (ancora tutta da indagare) di parecchi fra i giureconsulti. Come gli antiquari e i filologi, essi praticarono la ricerca delle etimologie. Ma non è la ricerca delle etimologie, con tutto ciò che sottintende, carica di significato filosofico? ». Sul metodo diairetico si v. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea 219-223. 52 Per la penus legata cfr. A. ORMANNI, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con clausola penale in età repubblicana e classica, in Studi E. Betti 4 (Milano 1962) 652 ss. (indicazioni bibl. a p. 206); F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur 139 (con altre indicazioni bibl.) 348 OSVALDO SACCHI problema della incorporazione tra lex e interpretatio53 . Bisogna anche aggiungere che Elio Stilone fece molto probabilmente un commento alle XII tavole54 . Ed allora, senza la svolta determinata dagli studi di filologia importati dalla Grecia e sviluppatisi intorno alla figura di Cratete di Mallo, che fu appunto maestro di Panezio e Stilone, sarebbe semplicemente impensabile che i giuristi romani si fossero potuti occupare di questioni del genere55 . 9. Lessus, bona fides e dominium quiritario: ars diventa scientia. Qualche esempio pratico forse può aiutare a chiarire meglio il discorso che sto facendo. Il primo, che per la verità è forse poco più di una suggestione, riguarda la storia della parola lessus che è causa di 53 Sul tema dell’incorporazione tra lex e interpretatio cfr. M. BRETONE, I fondamenti 27 ss.; G. FRANCIOSI, Due ipotesi di interpretazione « formatrice »: dalle dodici tavole a Gai. 2.42 e il caso dell’usucapio pro herede, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo (Napoli 1997) 247-257; O. SACCHI, L’antica eredità e la tutela. Argomenti a favore del principio d’identità, in SDHI. 68 (2002) 609 ss.; ID., Il privilegio dell’esenzione dalla tutela per vestali (Gai. 1.145). Elementi per una datazione tra innovazioni legislative ed elaborazione giurisprudenziale, in RIDA. 50 (2003) 333 ss. 54 I seguenti frammenti di carattere lemmatico mi paiono sufficienti per giustificare l’ipotesi avanzata nel testo: GRF. (Funaioli 59) 6 [Cic. top. 10]: is est assiduus, ut ait Aelius, appellatus ab aere dando; GRF. (Funaioli 61) 13 [Cic. de leg. 2.23.59]: L. Aelius lessum [suspicatur] quasi lugubrem eiulationem, ut vox ipsa significat; GRF. (Funaioli 66) 36 [Fest. 290b ,24]: sonticum morbum in XII [2.2. S.] significare ait Aelius Stilo certum cum iusta causa; GRF. (Funaioli 67) 41 [Fest. 352a ,5]: 〈transque dato nota〉vit Aelius in XII signi〈ficare traditoque〉; GRF. (Funaioli 71) 54 [Paul.-Fest. 77,1]: endoplorato implorato, quod est cum quaestione inclamare; GRF. (Funaioli 71) 55 [Paul.-Fest. 84,9; Cic. de leg. 2.61]: forum – cum is forum antiqui appellabant, quod nunc vestibulum sepulchri dici solet; GRF. (Funaioli 71) 57 [Prisc. 382,1]: Aelius: inpubes libripens esse non potest neque antestari, prodiamartyreϑ∂nai; GRF (Funaioli 74) 68 [Plin. 21.7]: inde illa XII tabularum lex [10.7]: ‘qui coronam parit ipse pecuniave eius, virtutis suae ergo duitor ei’. Quam servi equive meruissent, pecunia partam lege dici nemo dubitavit. Quis ergo honos? ut ipsi mortuo parentibusque eius, dum intus positus esset forisve ferretur, sine fraude esset inposita; GRF. (Funaioli 76) 78 [Fest. 371b , 5.]: viginti quinque poenae in XII [8.4] significat viginti quinque asses. Sul punto v. anche O. SACCHI, Il mito del pius agricola 277, nt. 75. 55 Sullo stoicismo di L. Elio Stilone cfr. Cic. Brutus 56.20: Sed idem Aelius Stoicus esse voluit. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 349 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) un interessato dibattito sin dall’epoca più antica56 . Sappiamo da Cicerone che un versetto delle XII tavole (neve lessum funeris ergo habento) stabiliva che la donna romana avrebbe dovuto conservare la sua dignità di fronte al dolore per un familiare scomparso: Cic. de leg. 2.23.59: Hoc veteres interpretes Sex.Aelius, L.Acilius non satis se intellegere dixerunt, sed auspicari vestimenti aliquod genus funebris, L.Aelius lessum quasi lugubrem eiulationem, ut vox ipsa significat; quod eo magis iudico verum esse, quia lex Solonis id ipsum vetat. Il retore, come è noto, tornerà sul punto nelle Tusculanae Cic. Tusc. 2.23.55: Ingemescere non numquam viro concessum est, idque raro, eiulatus ne mulieri quidem; et hic nimirum est ‘lessus’, quem duodecim tabulae in funeribus adhiberi vetuerunt. Come si vede due espertissimi esegeti antichi, Sesto Elio e Lucio Acilio57 , misurandosi sul significato di tale vocabolo confessarono di non comprenderne il significato (non satis se intellegere dixerunt) e avrebbero tradotto lessus nel significato di ‘abiti da lutto’ (auspicari vestimenti aliquod genus funebris). Cicerone, invece, dichiarando apertamente di seguire Elio Stilone, dimostra di aver optato per il significato di ‘lugubre pianto’ (lessum quasi lugubrem eiulationem). Lessus, in sostanza, avrebbe il significato di ‘nenia funebre’. 56 Si v. con rif. bibl. essenziali F. SINI, A quibus iura praescribebantur 147 ss. Ritorna sul tema F.M. D’IPPOLITO, Problemi storico-esegetici delle XII tavole (Napoli 2003) che a p. 100 rileva l’uso di genus in accezione diairetica e riconduce (da parte di Sesto Elio) il termine lessus nel circoscritto ambito degli abiti funerari e quindi di un oggetto. A p. 146 lo studioso napoletano [citando F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana (1971) 106-107, nt. 16] ipotizza che Stilone possa aver ragionato prendendo come riferimento l’opera ‘canonizzata’ da Sesto Elio. 57 L. Acilio fu detto sapiens nella stessa epoca di Catone Censore [Cic. de leg. 2.23.59; Lael. 2.6; Pomp. in D. 1.2.2.37-38 accettando l’emendazione di P. Atilius in L. Acilius]. Così E. COSTA, Storia delle fonti del diritto romano (Torino 1909) 46; M. BRETONE, Cicerone e i giuristi, in Techniche e ideologie dei giuristi romani 2 75, nt.35. Rimarchevole per me che un altro Acilio (senatore) fece nel 155 a.C. da interprete innanzi al senato in occasione della famosa perorazione di Carneade, Diogene e Critolao ricordata anche da Cic. Acad. 2.137; Tusc. 4.5; Plut. Cato 22; Gell. 6.14.8: Et in senatum quidem introducti interprete usi sunt C. Acilio senatore. 350 OSVALDO SACCHI La soluzione di Elio Stilone, come è noto, prevalse. E la ragione è forse meno complicata di quanto si sia ritenuto finora. La spiegasione di Stilone fu probabilmente solo quella scientificamente più corretta ed è possibile che di questo Cicerone fosse pienamente consapevole. Non quindi una scelta fatta dall’Arpinate in base ad un confronto che avrebbe fatto lo stesso Stilone con le norme soloniche; né una soluzione al problema interpretativo sulla considerazione che Cicerone sarebbe stato convinto che la norma attribuita alla decima tavola avesse delle ascendenze soloniche58 . Il ragionamento che Federico Maria d’Ippolito fa al riguardo è sicuramente corretto. Se la soluzione interpretativa proposta da Stilone (e accolta da Cicerone nel 51/50 quando attese alla compilazione del de legibus e nel 45/44 quando scrisse le Tusculanae disputationes) avesse prevalso per la sua corrispondenza all’omologa prescrizione solonica, Sesto Elio e Lucio Acilio non avrebbero avuto problemi interpretativi e, aggiungerei, non avrebbero sbagliato in modo così vistoso. La soluzione evidentemente va cercata in altra direzione (che, per altro, non è certo quella ‘onomatopeica’)59 . La parola lessus (o le lezioni lausum e losum indicate dal Lipsio commentando il famoso passo del Truculentus plautino in cui Theti con il suo lamento ‘lessum fecit filio’)60 infatti potrebbe derivare da una lingua di ceppo semitico, dato che in ebraico lahas significa ‘strazio’ 61 . Ebbene, uno dei maggiori esponenti dello stoicismo (alla cui scuola si formarono proprio Panezio e Stilone) fu Crisippo di Soli, che aveva delle origini semitiche, e scrisse, come Stilone, un trattato sulle proposizioni giudicative. Evidentemente, senza l’influenza della cultura stoica, il problema del significato etimologico di lessus sarebbe rimasto per i Romani insoluto. La via 58 Così Fr. BOESCH, De XII Tabularum lege a graecis petita (1893) 21-22 citato da F. D’IPPOLITO, Forme giuridiche di Roma arcaica3 (Napoli 1998) 244. 59 F. D’IPPOLITO, Forme giuridiche di Roma arcaica 244-245. 60 Plaut. Truc. 4.2.20: Theti quoque etiam lamentando pausam fecit filio. Questa versione è quella accolta da W.M. LINDSAY, T. Macci Plauti Comoediae II (Oxonii 1905, rist. 1966) che segue l’integrazione del Valla, ma Schoell restituisce lausam e il codice Palatino lausum. Nell’edizione di N.E. ANGELIO (traduzione e note di), Le Commedie di M. Accio (sic!) Plauto (Venezia 1847) 1803 leggo: Thetis quoque etiam lamentando lessum fecit filio, così tradotto: « A questo modo Tetide, piagnucolando, cantò ancor la nenia ad Achille suo figlio ». 61 Si v. sul punto G. SEMERANO, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco (Milano 2001, 2004) 254. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 351 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) giusta è suggerita invece attraverso l’analisi dei corretti significati che fu, come abbiamo visto, uno dei temi dominanti di influenza della cultura medio-stoica. Una realtà che, dobbiamo presumere, non risparmiò neanche il campo dell’interpretazione giuridico/antiquaria. Il secondo esempio riguarda la teoria della fides bona nei giuristi della scuola muciana dell’età tardo repubblicana. Il Bretone spiega molto bene come la fides bona (ovvero la pistis) sia rientrata nel campo semantico della fiducia perchè frutto di un pensiero giuridico evoluto. Esemplari sul punto le parole di Mario Bretone: « Come la pistis, anche la fides bona rientra nel campo semantico della ‘fiducia’. Tutti i contratti del diritto commerciale, e non solo la compravendita, hanno nella ‘buona fede’ la norma che fonda il vincolo e misura la responsabilità. Non è un valore giuridico del tutto nuovo, ma acquista ora una grande portata. Nella buona fede, un pensiero giuridico evoluto potrà individuare l’elemento comune di istituti diversi, anche nella stessa tradizione civilistica »62 . Si potrebbe ipotizzare che la teoria della fides ciceroniana, come valore assolutamente originale per le conoscenze giuridiche dell’epoca medio/tardo repubblicana, non sia frutto solo dell’ingegno di pochi, ma anche conseguenza dell’incontro tra la filosofia stoica e le conoscenze dei giuristi romani. La questione va storicizzata. Pensiamo al contributo offerto per l’evoluzione del ius civile dalla scuola dei Mucii 63 . Ebbene, la nota teoria della fides ciceroniana sul valore del giuramento richiama proprio l’altrettanto nota teoria muciana sull’importanza della fides per la struttura dei rapporti obbligatori della emptio venditio e della locatio conductio. Ai tempi di Plauto era in voga ironizzare sulla graeca fides. I giuristi di quella che all’epoca di Scipione Africano minore si credeva fosse una nascente ‘res publica’ (ma finse di crederlo anche Ottaviano Augusto) tentarono però di costruire nuovi schemi giuridici confortati proprio da nuovi schemi teorici provenienti dalla Grecia. Anche questo un segno della maturazione dei tempi. Dobbiamo rifarci, allora, ancora al famosissimo frammento del de officiis ciceroniano in cui il retore fa un discorso sul concetto di fides come ‘obbligo di onestà sostanziale’ che è un concetto che si fonda 62 M.BRETONE, Storia del diritto romano 135. 63 Sulla scuola dei Muci cfr. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica 250 ss. 352 OSVALDO SACCHI proprio sulla nozione di fides/pistis 64 . Cicerone in questo caso rileva con enfasi e consapevolezza: « un significato profondo in tutti quei giudizi arbitrali in cui è aggiunta la clausola ‘secondo buona fede’, ex fide bona »65 . Resta quindi solo l’eco della fides arcaica intesa nel senso descritto prima, in un’ottica pertanto marcatamente ideologica, circostanza che Gellio, in un altro passo famoso, coglie peraltro molto bene66 . Possiamo pensare a questo punto all’influenza del pensiero stoico data la forte incidenza dell’ethos nel modo di impostare il problema da parte di Cicerone, cosa di cui peraltro ci dà anche una chiara testimonianza Gellio (20.1.39-41). La cosa non deve sorprendere se si pensa che la riflessione ciceroniana è tratta dal de officiis che, a sua volta, sarebbe stato ispirato ampiamente (almeno i primi due libri in modo quasi letterale) al PerÁ toy kau¸kontoq (« Sul dovere morale ») di Panezio67 . Se non bastassero i chiarissimi riferimenti di Plinio e Gellio, citati prima68 , è lo stesso Cicerone che elimina ogni 64 Rinvio per questo a O. SACCHI, I maiores di Cicerone e la teoria della fides nelle scuole giuridiche dell’età repubblicana a Roma, in Atti in onore di G. Franciosi (Napoli 2006). 65 Cic. de off. 3.17.70: Sed, qui sint boni et quid sit bene agi magna quaestio est. Q. quidem Scaevola, pontifex maximus, summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in quibus adderetur ‘ex fide bona’. Il virgolettato è di M. BRETONE, Storia del diritto romano 135. Il significato della nozione di buona fede pertanto nelle parole di Cicerone si slarga fino a diventare operante: « nelle tutele, nelle società, nei patti fiduciari, nei mandati, nel comprare e nel vendere, nel locare: tutti rapporti nei quali si manifesta la vita comune di tutti gli uomini » (fideique bonae nomen existimabat manare latissime, idque versari in tutelis, societatibus, fiduciis, mandatis, rebus emptis, venditis, conductis, locatis, quibus vitae societas contineretur). Si v. su questo ancora M. BRETONE, ibidem. 66 F. WIEACKER, Zum Ursprung der bonae fidei iudicia 40-41. Fra l’altro in questo passo rileva anche un uso suggestivo del termine maiores: Gell. 20.1.39-41: Omnibus quidem virtutum generibus exercendis colendisque populus Romanus e parva origine ad tantae amplitudinis instar emicuit, sed omnium maxime atque praecipue fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice. (…) Hanc autem fidem maiores nostri non modo in officiorum vicibus, sed in negotiorum quoque contractibus sanxerunt maximeque in pecuniae mutuaticae usu atque commercio. 67 Sul punto si v. P. FEDELI, Il De officiis di Cicerone. Problemi e atteggiamenti della critica moderna, in ANRW. 1.4 (Berlin-New York 1973) 357 ss., in part. 361. 68 Retro, ntt. 42 e 43. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 353 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) dubbio al riguardo69 : de off. 1.6: sequimur igitur hoc quidem tempore et hac in quaestione potissimum Stoicos; de off. 3.20 erit autem haec formula Stoicorum rationi disciplinaeque maxime consentanea70 . Come non citare, infine, Lattanzio che afferma 69 Nella sua casa di Pozzuoli, il 5 novembre del 44, Cicerone rivolgendosi ad Attico, dichiara esplicitamente che i primi due libri del de officiis sono deliberatamente ispirati al libro paneziano (ta perÁ toy kau¸kontoq quatenus Panaetius, absolvi duobus) e che lo stesso titolo corrisponde alla translitterazione del titolo dell’opera paneziana (Quod de inscriptione quaeris, non dubito quin perÁ toy kau¸kontoq ‘officium’ nisi quid tu aliud.; sed inscriptio plenior ‘De officiis’). Quanto al terzo libro del de officiis, mi pare che non si posa seriamente dubitare che sia stato ispirato dall’opera di Posidonio, maggiore allievo di Panezio, ancorchè mediata dall’epitome di un altro filosofo stoico che corrisponde al nome di Atenodoro di Tarso. A tutto questo va aggiunto che il noto frammento ciceroniano del de officiis potrebbe essere attribuito al pensiero di Panezio come mostra di credere Emmanuele Vimercati: de off. 1.7.23 [= Vimercati C6 198]: Fundamentum autem est iustitiae fides, ‘is est dictorum conventorumque constantia et veritas. Cic. ad Att. 16.11.4: [4] Haec ad posteriorem. perÁ toy kau¸kontoq quatenus Panaetius, absolvi duobus. Illius tres sunt; sed cum initio divisisset ita, tria genera exquirendi offici esse, unum, cum deliberemus honestum an turpe sit, alterum utile an inutile, tertium, cum haec inter se pugnare videantur, quo modo iudicandum sit, qualis causa Reguli, redire honestum, manere utile, de duobus primis preclare disserit, de tertio pollicetur se deinceps scripturum sed nihil scripsit. Eum locum Posidonius persecutus 〈est〉. Ego autem et eius librum arcessivi et ad Athenodorum Calvum scripsi ut ad me ta kefålaia mitteret; quae expecto. (…). Quod de inscriptione quaeris, non dubito quin kau∂kon ‘officium’ sit nisi quid tu aliud; sed inscriptio plenior ‘De officiis’. 70 Sono da considerare in questo quadro anche: Cic. de off. 2.9.33 [= Vimercati B5 154 = Alesse 106]: Fides autem ut habeatur duabus rebus effici potest, si existimabimur adepti coniunctam cum iustitia prudentiam. Nam et iis fidem habemus quos plus intellegere quam nos arbitramur quosque et futura prospicere credimus et, cum res agatur in discrimenque ventum sit, expedire rem et consilium ex tempore capere posse; hanc enim utilem homines existimant veramque prudentiam; e de off. 2.9.33-34 [= Vimercati B6 154 = Alesse 107]: Iustis autem [et fidis] hominibus, id est bonis viris, ita fides habetur ut nulla sit in iis fraudis iniuriaeque suspicio. Itaque his salutem nostram, his fortunas, his liberos rectissime committi arbitramur. Harum igitur duarum ad fidem faciendam iustitia plus pollet, quippe cum ea sine prudentia satis habeat auctoritatis, prudentia sine iustitia nihil valeat ad faciendam fidem. Quo enim qui versutior et callidior, hoc invisior et suspectior detracta opinione probitatis. Quam ob rem intellegentiae iustitia coniuncta quantum volet habebit ad faciendam fidem virium. Iustitia sine prudentia multum poterit, sine iustitia nihil valebit prudentia. Specialmente nel primo di questi due frammenti, dove si dà rilievo alla posizione di coloro che mostrano si sapere e di avere competenza in quello che fanno, è immediato il riferimento a Senofonte (mem. 3.6.17-18) che dimostra quanto Panezio (e quindi Cicerone) si fosse ispirato, fra l’altro, nella sua concezione del dovere, anche a modelli socratici. Cfr. G. GARBARINO, Il concetto etico-politico di gloria nel 354 OSVALDO SACCHI div.inst. 6.5.4: Ab his definitionibus (n.d.r., virtutis), quas poeta (n.d.r., Lucilius) breviter comprehendit, Marcus Tullius traxit officia vivendi Panaetium Stoicum secutus eaque tribus voluminibus inclusit. Quanto al rapporto tra pensiero filosofico della media stoa e la scuola dei Muci, le fonti dimostrano che questo è stato molto stretto e non se ne può dubitare71 . Basti ricordare, l’illius tui di Licinio Crasso riferito a Panezio nei confronti di Mucio Scevola del celebre frammento del de oratore di Cicerone: Cic. de orat. 1.11.45 [= Vimercati A48 80 = Alesse 9]: Audivi [= Crassus] enim summos homines, cum quaestor ex Macedonia venissem Athenas florente Academia, ut temporibus illis ferebatur, cum eam Charmadas et Clitomachus et Aeschines optinebant. Erat etiam Metrodorus, qui cum illis una etiam ipsum illum Carneadem diligentius audierat, hominem omnium in dicendo, ut ferebant, acerrimum et copiosissimum; vigebatque auditor Panaeti illius tui [= Scaevola] Mnesarchus et peripatetici Critolai Diodorus 72 . de officiis di Cicerone, in Tra Grecia e Roma. Temi antichi e metodologie moderne (Roma 1980) 202 ss.; A. ERSKINE, The Ellenistic Stoa. Political Thought and Action (London 1990) 156; F. ALESSE (a cura di), Panezio di Rodi, Testimonianze (Napoli 1997) 245. 71 Insieme a questi, M. POHLENZ, La Stoa 542, ricorda: l’altro genero di Lelio (insieme a Mucio Scevola), Gaio Fannio; il nipote di Scipione Emiliano, Quinto Elio Tuberone; Publio Rutilio Rufo (Cic. Brutus 30.116 Habemus igitur in Stoicis oratoribus Rutilium); Marco Vigellio e il nipote di Scevola, Quinto Mucio Scevola il pontefice massimo, l’antagonista di Crasso nella causa curiana; inoltre, Spurio Mummio (Cic. Brutus 25.94: Spurius autem nihilo ille quidem ornatior, sed tamen astrictior; fuit enim doctus ex disciplina Stoicorum) e Manio Manilio. 72 L’elaborazione dell’editto provinciale, fatta da Q. Mucio con l’aiuto di Rufo (che poi Cicerone riprenderà nel suo impianto di base) è rimasto proverbiale (e non a caso inviso ai publicani) come esempio di intransigenza stoica. Sull’esistenza di un rapporto strettissimo tra Stoa e pensiero giuridico romano dell’età cesariana non si può quindi dubitare. La questione della fides, e del suo rilievo morale, come espressione di un nuovo sentimento etico, potrebbe quindi essere visto come uno dei tanti riflessi che l’influenza del pensiero stoico produsse nelle persone di cultura a Roma a partire dal secondo secolo a.C. Cfr. sul punto specifico R. CARDILLI, ‘Bona fides’ tra storia e sistema 3-63 con riflessioni anche sul pensiero labeoniano. Ora anche A. SCHIAVONE, Ius 240 ss. L’impegno profuso da Aquilio Gallo, il difensore dell’aequitas, nel cercare il fondamento definitorio del dolus malus è stato visto, insieme alla considerazione della buona fede in Quinto Mucio Scevola, esattamente come conseguenza di una volontà di dare maggiore rilievo, nell’ambito del diritto formale, al nuovo sentimento etico portato dalla Stoa tra gli intellettuali culturalmente LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 355 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) 10. Conclusioni L’ultimo esempio ci consente di tornare alla nozione di proprietà fondiaria di cui parlavamo prima e di avviarci anche rapidamente alla conclusione. Proprio attraverso Varrone, seguiamo infatti una traccia sottile che attesterebbe un collegamento diretto tra la metodologia filologico antiquaria di Elio Stilone e i giuristi dell’età ciceroniana. Tale traccia porta fino a Servio Sulpicio Rufo e alla sua scuola che Cicerone, come sappiamo, considerava all’avanguardia73 . In un noto frammento di Gellio sulle favis(s)ae Capitolinae è attestato uno scambio di corrispondenza proprio tra tale giurista e Varrone e si riconosce in Servio curiosità grammaticale e un gusto antiquario di marcato stile ‘varroniano’: Gell. 2.10.1: Servius Sulpicius iuris civilis auctor, vir bene litteratus, scriptis ad M. Varronem rogavitque, ut rescriberet, quid significaret verbum, quod in censoris libris scriptum esset. Id erat verbum ‘favisae Capitolinae’ 74 . Allo stesso modo, Alfeno Varo, Servi Sulpicii discipulus rerumque antiquarum non incuriosus, risulta coinvolto in una questione filologico-esegetica sul rapporto etimologico tra i termini purum e putum (Gell. 7.5.1) 75 . Se queste testimonianze sono attendibili, si potrebbe dire allora che la generazione dei giuristi dell’età cesariana seppe trasformare in realtà concreta ciò che all’epoca del circolo del terzo Scipione si potè più sensibili della società romana. In questo senso mi pare molto indicativa la seguente testimonianza di Varrone sulle conseguenze delle deliberazioni del pretore in giorni nefas: Varro l.L. 6.4.30: Praetor qui tum fa[c]tus est, si imprudens fecit, piaculari hostia facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius a[b]i[g]ebat eum expiari ut impium non posse. Si v. per questo retro, paragrafo 4. 73 Cic. Brutus 41.152. 74 Sulla scuola di Servio Sulpicio Rufo v. M. BRETONE, Il responso e la scuola di Servio, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani 91 ss. Cfr. A. SCHIAVONE, Ius 214 ss., in part. 229. 75 Gell. 7.5.1: Alfenus iureconsultus, Servii Sulpicii discipulus rerumque antiquarum non incuriosus, in libro digestorum tricesimo et quarto, coniectaneorum autem secundo: « in foedere » inquit « quod inter populum Romanum et Carthaginienses factum est, scriptum invenitur, ut Carthaginienses quotannis populo Romano darent certum pondus argenti puri puti, quaesitumque est, quid esset ‘purum putum’. Respondi » inquit « ego ‘putum’ esse valde purum, sicuti novum ‘novicium’ dicimus et proprium ‘propicium’ augere atque intendere volentes novi et proprii significationem ». 356 OSVALDO SACCHI solo teorizzare. Forse non si riuscì a determinare l’ideale della res publica che rimase un modello meramente teorico76 , però si portò a termine il processo di trasformazione della possessio dell’ager publicus in dominium quiritario che fu uno dei problemi che afflisse di più gli intellettuali del circolo scipionico, se è vero quanto Manio Manilio riferisce di Gaio Lelio sul suo interesse ad applicare al diritto romano la distinzione tra ciò che era ‘proprio’ e ciò che era ‘di altri’ 77 . Sono veramente alla conclusione e vorrei citare uno dei più grandi maestri della filologia moderna, August Boeckh. Questi ha scritto, in termini solo apparentemente paradossali, che i popoli o gli individui ‘colti’, avendo evidentemente la consapevolezza di un passato da custodire e da tramandare, sentirono inevitabilmente, come segno di maturità, l’esigenza di filologhéin (filologe¡n). Popoli incolti e privi di senso della tradizione, poterono al più, filosoféin (filosofe¡n) 78 . Riflettendo su quanto detto finora, questa affermazione forse ci conduce direttamente al cuore del problema. I giuristi romani degli ultimi due secoli della repubblica, sia pure con diverse sfumature di approccio, seppero infatti sentire l’esigenza di filologhéin. Lo dimostra la cura con cui il testo delle XII tavole fu conservato (fino all’epoca di Sesto Elio) e ancora discusso e interpretato in epoca scipionico-cesariana. Opere di taglio giuridicofilologico, come quelle di Lucio Acilio, Elio Stilone, Aquilio Gallo e 76 Mi riferisco a Q. Elio Tuberone, l’allievo di Ofilio, che riconobbe a Cesare e Pompeo la volontà di salvare insieme la res publica come fine della loro contentio dignitatis (Suet. Iul. 83.1). Augusto aveva adibito il principio della concordia cesariano-pompeiana come postulato necessario per la costruzione della sua idea di res publica appoggiata dagli intellettuali dell’epoca cesariana. In questo quadro si chiariscono le famose parole riferite da Macrobio ad Augusto in cui si definisce Catone Uticense buon cittadino perché non voleva che si modificasse l’ordine costituito (Macr. sat. 2.4.18 de pervicacia Catonis ait: quisquis praesentem statum civitatis commutari non volet et civis et vir bonus est). Ampio ragguaglio sui vari tipi di costituzione teorizzati negli ambienti colti romani dell’epoca scipionica in F. CANCELLI, Marco Tullio Cicerone, Lo Stato 77 ss. 77 Cic. de re p. 1.13.19: Tum Manilius: Pergisne eam, Laeli, artem inludere, in qua primum excellis ipse, deinde sine qua scire nemo potest, quid sit suum, quid alienum? Su Lelio come stoico v. anche Cic. Lael. 2.6-7. 78 A. BOECKH, Enzyklopädie und Methodenlehre der philologischen Wissenschaften (Leipzig 1886) [= tr. it. di R. MASULLO, La filologia come scienza storica, a cura di A. Garzya (Napoli 1987) p. 50]. LE NOZIONI DI STATO E DI PROPRIETA IN PANEZIO 357 Revue Internationale des droits de l’Antiquité LII (2005) Verrio Flacco e le incursioni non sporadiche di Servio e di Alfeno Varo in questo campo, ne sono una chiara dimostrazione. I filosofi stoici smisero di considerare (come Platone) la filosofia come il « tutto » di fronte alle « parti » e fecero entrare tale disciplina in rapporto con la scienza parziale79 . L’attività della giurisprudenza romana, da usus consolidato nella prassi (cavere, agere e respondere) ed espressione di un sapere (si potrebbe dire, alla greca phronètico), seppe invece trasformarsi in ars. E questo, probabilmente, non soltanto grazie all’uso della diairetica, cioè delle metodologie importate dal mondo culturale ellenico, ma anche per effetto dell’applicazione della filologia allo studio del diritto80 . Mi diverte allora pensare, e concludo, che i giuristi romani potrebbero essersi comportati da ‘colti’, a differenza dei filosofi greci, che sembrerebbero essere rimasti confinati per sempre nel loro meraviglioso, ma forse ‘incolto’, isolamento. Parafrasando Nietzsche: « Quae philosophia fuit, facta philologia est ». Inutile dire che in questo caso il filologo/filosofo tedesco si sta richiamando ad un passaggio delle Epistulae di Seneca che fu uno degli esponenti migliori dello stoicismo romano del periodo post paneziano81 . 79 M. ISNARDI PARENTE, Techne. Momenti del pensiero greco da Platone a Epicuro (Firenze 1966) 353 s. 80 Sul significato del concetto di ars si v. retro nt. 42. 81 Sen. ep. 108.23. V. anche M. POHLENZ, La Stoa 608. Sulla figura di Nietzsche filologo rinvio alle belle pagine di M. GIGANTE, Classico e mediazione. Contributi alla storia della filologia antica (Roma 1989) 21-53[=in Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, n.s. 59 (1984) 37-78].
Friday, February 2, 2024
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