Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale del favoloso – Leopardi fascista -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Recanati). Filosofo
italiano. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative;
admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks,
pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need
for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without
conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet,
one would first think!” -- Grice: “One
could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite
expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a
philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by
non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t
one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement,
‘leopardismo.’ Il
conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales
Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo. È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento
italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché
una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua
riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e
materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità
lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama
letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto
oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura,
inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità
greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio,
Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti
romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un
esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni
materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla
lettura di filosofi come il barone d'Holbach, Pietro Verri e Condillac, a cui
egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di
una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto
sistema filosofico e poetico. Morì noco prima di compiere 39 anni, di edema
polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di
Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana a partire dal Novecento,
specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e
cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei
contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle
opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una
linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito
poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche
e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un
precursore dell'Esistenzialismo. Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nello
Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle
più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono
all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco.
I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del
conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli
studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una
donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle
convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo
di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui
sentiva il bisogno. In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte
dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente
indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia
domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i
sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane
Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro,
giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che
erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di
fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale Ricevette
la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori
ecclesiastici, il gesuita don Giuseppe Torres fino al 1808 e l'abate don Sebastiano
Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla
scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del
latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione
scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo
leopardiano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello
sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi
delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare,
sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al
padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati
ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in
occasione della riunione della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto
dai precettori non impedì, comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un
suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto
fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella
degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Giuseppe Antonio Vogel,
esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come
membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato
La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di
me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi, è da considerarsi la sua prima
composizione poetica. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti
chiamati "puerili". La produzione dei "puerili"
Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette "puerili" dimostra
come il giovane Leopardi sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci
anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel
Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per
le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della
filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse
le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia,
morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica,
teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima
delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che
discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può
far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo
sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato
gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e
disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le
sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il
latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da
questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in
modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese,
l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni
ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione
dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del
giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia
dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi
discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre
tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in
Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la
compilazione della Storia dell'astronomia Leopardi si avvalse di numerose
fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly,
ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires
del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la
scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di Leopardi
presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere,
Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, Leopardi
fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella
biblioteca di casa Leopardi), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri
Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre
Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura
italiana di Girolamo Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie
raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif
e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra
l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia
Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica.
Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il
Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si
limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi
fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti
Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria
cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia
Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano»,
gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del
libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la
Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione
letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte
cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad
abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto,
ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni
filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di
autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a
maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del
giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de
Staël. In questo modo Leopardi inizia a liberarsi dall'educazione paterna
accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura
recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari.
Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze,
L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non
pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai
redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità
delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio
dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per la sua
fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni
seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì
almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed
immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca
di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito
gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia
"gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori,
gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori
(asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe
(debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista,
disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di
morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i:
«L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto,
con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.» Egli stesso si
ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Giordani, per
la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze,
in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco
malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio
assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di
cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor,
condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei
poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo
(diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Pietro Citati) è che Leopardi
soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca,
più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età
evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla
spondilite anchilosante giovanile (secondo ErikSganzerla), una sindrome
reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti
vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi
infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il
tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno
predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei
genitori. Tutti i fratelli Leopardi furono deboli di salute, con l'eccezione di
Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera
asimmetria del viso. Pietro Citati afferma che avesse anche dei disturbi
urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto
fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo
rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente
l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati
in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera
erroneache numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine
psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive
che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come
lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.
«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di
viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel
mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta,
mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, Leopardi
non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da Leopardi), influenzarono comunque il suo pessimismo
filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il
significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato
dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento
conoscitivo". Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente
giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo
portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel
passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale
che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E
per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in
tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che
ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti.
Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto
confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì
l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli
avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale
in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della
"teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi
nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale
concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in
modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del
pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Pietro
Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e,
avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio
così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In
una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il
suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi
ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di
filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di
confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi
si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in
Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e
dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla
quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa
le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il
nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la
prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di
scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo
presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare
al dibattito culturale tra classicisti e romantici. Leopardi difende la cultura
classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona
che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i
figli, illustrazione di Giuseppe Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia
a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note
filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il
sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della
gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro,
nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di
Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale
provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del
primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei
"Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di
Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti
polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e
se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due
saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in
risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un
italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni
di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano
più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane
fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che
professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai
risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece,
perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto
le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel
tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo
materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico
predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni
speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità
nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del
passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella
lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (Giacomo Leopardi,
L'infinito, v.15). Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e
l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il
Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne
a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono
che il Leopardi elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla
vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle
cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che
verranno in seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La
sera del dì di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime
erano La sera del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno,
Lo spavento notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o
"piccoli idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza
perduta e la presa di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne
dai genitori il permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile
dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A Leopardi Roma apparve
squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era
figurata studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto
numero di prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della
donna, come scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta
della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata
infelicità (verso il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette
morali, sarà debitore a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più
famosi dei suoi componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente
culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi
stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di
Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Barthold Niebuhr;
quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione
pontificia, ma Leopardi rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il
mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, Leopardi
si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte
delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il
poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con
l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre
edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo
perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo
polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà
degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia,
probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in
alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite
bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce
(sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa Leopardi. Decise,
così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano),
tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello
Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il
conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi
intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse il 28 marzo 1826 nell'Accademia dei
Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un
anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del
fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi
si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la
casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in
un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri
al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di Leopardi sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche
fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per
molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine
il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la
fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a
Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per
rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico
particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e
Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece
conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare
Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private
rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi
risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che
nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Nel
novembre del 1827 si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa
amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a
cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite,
la sua salute migliorò e Leopardi tornò alla poesia, che taceva dal 1823 (con
l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del
Coro di lo studio di Federico Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e
delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe
metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata,
secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del
fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Teresa
Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti
"pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui
il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o leopardiana, il cui primo
sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a
conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a
contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il
poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli
occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate
del '28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente.
Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra
di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la
materia poco consona alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la
possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito
declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la
sua salute malferma. Leopardi allora progettò di mantenersi con un lavoro
qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli permisero nemmeno questo e fu
quindi costretto a ritornare a Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di
notte orribile. Si dedica nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue
liriche più importanti, tra cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata
ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da Leopardi
chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il
passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici "grandi
idilli" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme
ad A Silvia anche come "canti pisano-recanatesi". In questo periodo l'insofferenza per la sua
città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta,
proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo
ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese,
secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti
del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A
Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.» (A se
stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta
scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli
"amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu
eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la
sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo
spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del
timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti",
partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda
amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del
Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità
liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna
(sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa
in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci
restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un
modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; Leopardi accetta ma,
reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre
a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e
ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie
del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri,
conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di
Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante,
Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la
drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il
Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica
degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella
dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia, seppur piena di rancore e
sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un
amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e
intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di
lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una persona
"disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei
primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della Targioni,
presentata come una "donna fatale", si nota anche una tensione
erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce ripetutamente il fascino
esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna con
l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi, dalle affermazioni
di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui e la Targioni
Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e misogini, in cui
Leopardi si dice felice di essersi perlomeno liberato della dipendenza
affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo morale di cui si
vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei primi tempi si
scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del periodo, che trovano
l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con Amore e morte: «E
pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e
le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo
infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell'uomo.
Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la
vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena
ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si
dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad
ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.» (Lettera
da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida
/ in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»
(Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo,
avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di
Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per
circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla
padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi
famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche
della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla
grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne
allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente
come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare
a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle
"Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere
epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più
fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una
fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri
vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi
Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera
non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava
quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare
infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti
di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci
faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse.
«Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag
zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei
näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen
Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi è piccolo
e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce
una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo
più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo
fare dispongon l'animo in suo favore. Busto del poeta presente a Villa
Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte
delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti
dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni
"dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia
filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un
nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante
gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse
probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese
i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto.
A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita.
Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo
Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in gioventù, e
di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni
Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre
che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi. Le
ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver
terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere,
se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli
pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli
scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di
questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati),
talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si
spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo.
Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con
conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare
e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle
più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative,
tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico
Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o
idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi
respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche
possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui
soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse
accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato
Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato
gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in
poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il
colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece
interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la
versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una
fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa
dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla
presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di
San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso
Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro
Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori
d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente
coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece
Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il
ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo,
non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia
per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin
dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti
furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue
versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo
sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero
delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366
Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come
attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca
di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e
"sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che
Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota,
con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco
compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi. La lapide
originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare
che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato
d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di
Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898
avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da
altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe
inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le
ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati
nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con
altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della
Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune
di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del
recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino
dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con
doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui
delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di
Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del
passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta
dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che
ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco
Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere
Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto
il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne
traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a
Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale
Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso
leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e
identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna
Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero
davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello
degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la figlia Olimpia,
discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi
Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla
famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del Pero-Leopardi, vedova del conte
Pierfrancesco "Franco" Leopardi e madre di Vanni). La posizione
ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata dal 1898 in poi) e della
Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino al conte Vanni Leopardi) è invece che i resti
nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che
il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile,
occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro
della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto
disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore
fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla
disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole,
l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò l'angoscia
in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni
morti in visioni di splendore.» (Papini, Felicità di Giacomo Leopardi) Il
pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo,
dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge
a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità
speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece
considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto
ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra
sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo
Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai
discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali
dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo.
L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre
20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del
poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si
affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa
Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi
nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un
panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta
dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale
della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e
manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai
aperto a tutti. Palazzo Antici-Mattei:
casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee
semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel
cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un
fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San
Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e
nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch.
La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia
Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i
Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e abbattuti
due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di
Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed
affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei
Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della
Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici
Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso
in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in
mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"),
convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa
dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano
("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso
(oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente
magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si
vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze,
"sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi
del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di
Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi),
Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a
Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il
Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così
ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui
battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa
(lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città
oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso),
con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria
Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con
Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle
Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo".
Opere di Giacomo Leopardi. Copertina della prima edizione dello Zibaldone
di pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento
lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento
destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo).
L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che
malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di
prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per
seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione
del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L.
prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del
saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa
polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.
Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per
iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca
italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti
entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà
dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle
istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle
nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di
un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina
alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella
latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in
merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia
leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone
Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali
Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve
trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che
contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la
mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera
Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato
individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso
(come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei
benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate,
quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito
Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di
sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a
descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella,
sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che
Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera
contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta
espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del
poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la
tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti,
considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte
da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il
monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del
dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei
testi più rappresentativi della poetica leopardiana. Le ultime opere
Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della
Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con
protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre
Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera
pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione
comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli
esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di
facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono
numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio
colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento
purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici,
di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un
caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò
accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della
lingua italiana. Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo
Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di
morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie,
Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre
liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi,
Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario
collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto
dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte
locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le
principali: studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali
realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una
scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in
osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede
greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione
scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane")
ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione
prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel
breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione
Marche. Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella
Canzone per Piero di Guccini e in Stai
bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto
notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto
di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone
"Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del
1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i
poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi.
Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato
da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato
da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"Leopardi,
il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la
storia"; "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da
Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in rete su
Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata
della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini
e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e l`importanza di
Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo Leopardi nel commento
del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge:
L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco
il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi
Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria
abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito;
"Marche, le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione
Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in
italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo
Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi
all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un Leopardi inedito"
raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di
"Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3.
"L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita",
intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e
spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman:
L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la
tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra
(o Il fiore del deserto) Alla luna, La
sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito,
Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto
Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la
prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima
parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La
Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese
per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria
offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso
un video, per la regia di Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali
televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore
statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver
interpretato ad Ascoli Piceno il film di Pietro Germi "Alfredo,
Alfredo", assieme ad una giovane Stefania Sandrelli. Questa la
descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione
turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura
italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente
legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge
la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando
fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere
questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare
la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e
riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che
accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé:
l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito
nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma
difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la
poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e
raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman
tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal
suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da
suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di
Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a
scrivere: «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche
Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante
«performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non
peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal
pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di
sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte
geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los
Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo
livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di
un’esposizione poetica?» (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione
promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da
Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e
presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot
con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo
perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non
definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi
21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.
Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna
promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi
leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera",
nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante
dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un
racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito
amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la
gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna
promozionale del Dustin Hoffman fu
sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del
successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario
Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie
di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del
territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di
Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che,
rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del
Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione
(Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi
Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920;
poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia
(Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi,
Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia,
le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano:
Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna:
Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati,
Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel
primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di
Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi
su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente
il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli
stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
Leopardi, su emsf.rai). Forse la
malattia di Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla,
Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione
diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia
a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non
felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro
decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei
problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e
ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la
diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che
Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria
cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno
scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e
possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città,
gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano,
Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da
lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore,
raccolto e ordinato da Prospero Viani,
I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in
Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con
sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato
dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di
Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre,
RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua
utilizzata nelle lettere allo Jacopssen
Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche.
Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e
l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di
Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri
Paulian su data.bnf.fr. Un episodio
della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero
della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso
nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una
coperta di lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo
Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club
Fermo, «Di contenti, d'angosce e di
desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana
/ Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per
cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il
fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde,
assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, /
Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In
sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia. Giuseppe
Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia,
"diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata
probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di Leopardi
anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri
recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann
alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni
napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre.
cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo
Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché
basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della
frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi
affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come
tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.
Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia,
Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G.
Leopardi453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad
Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla
Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia,
Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori
della letteratura italiana, 3, tomo 1,
Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato
dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a
sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi,
Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra
volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò
solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di
far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il
contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una
befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma
come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi
non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà
che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le
quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono
così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione
dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato
solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito
("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi
Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere
della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph
Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13
anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia
di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su
casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il
giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi
stesso. Introduzione alla Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani.
Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo
Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di
G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito
venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni
dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani,
La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in
Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: Giacomo
Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...",
su sulromanzo. "Tu vivi / bella non
solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica,
Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto
alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio
nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del
poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze
di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo
Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu,
pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's
who in gay and lesbian history, 1, ad
vocem Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.
repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario,
BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti,
Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi
in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle
abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari
irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser
longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni
di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina),
su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta
della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte
del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro
(cfr. Sfrondando gli allori della poesia)
Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta
anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di
morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.
Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato,
congestione, coma diabetico o indigestione
Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su
spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che
uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere.
in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di
A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui,
su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di
Pietro Giordani, VI, pubblicati da
Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta
lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi,
edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore,
da Antonio Ranieri, Firenze, Successori
Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento
(JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da
Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del
passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier
Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA,
MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta
Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi,
Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione
a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi,
Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale ufficiale delle
persone presenti. E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione
dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita L., sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato
comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati.
Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia,
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anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare:
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(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
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Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi,
tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (),
Istituto dell'Enciclopedia italiana.
Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di
Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro
culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara
Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia"
con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/ 25794 /default.aspx
in. Rai Storia, "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi Leopardiani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/
pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di
Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di
Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di
Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E
"Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco
D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia
sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può
salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su
youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il
29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Carmelo Bene interpreta Passero solitario:
youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok
Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com
/watch?v=ZqzVXF3Fx4Y C. Bene interpreta
Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk
Carmelo Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI Carmelo Bene interpreta Il sabato del
villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4
Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su
Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato il 15 settembre in. leggi il testo di Inno ad Arimane
init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15
settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà
interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta
A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo Foà
interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà
interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com
/watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima
della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo
interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di
Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano,
nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/
Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il
Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila
visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle
Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di spot "Le Marche non ti
abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la
regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione
Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di
Leopardi, su qelsi, su Giacomo Leopardi.
Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario
Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere,
Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi
«Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e
Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano:
Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati
Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri,
Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano:
Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con introduzione e indice
analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario,
pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La
Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume
III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori
«Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica
dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola
normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti
annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli,
Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli:
Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I
Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del
piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo
Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici
leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli
Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco
Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano:
Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna:
Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo,
Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino:
Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I
Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con
C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze:
Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette
Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna:
Cappelli, 1929 introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli
«Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose,
Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le
prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut», poi da sole nella collana «GTE», Giacomo
Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo Leopardi, Pensieri,
Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete,
Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e
G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore
Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo Leopardi Leopardi
(famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie on line,
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. accademicidellacrusca.org, Accademia della
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Leopardi, su Liber Liber. Opere di L.,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di Giacomo
Leopardi, su LibriVox. L., su Goodreads.
italiana di L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica,
Fantascienza.com. Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International
Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Centro nazionale di studi leopardiani Recanati,
su centro studileopardiani. Classici Italiani
e opere complete interbooks.eu Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L.
dai manoscritti autografi della Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline.
Il Pessimismo in Leopardi e Schopenhauer [collegamento interrotto], su
gheminga. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata
"Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Giacomo Leopardi, testi con
concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Leopardi: Dialogo di un
Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare la vita o arte della felicità?,
su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle Lettere su classicistranieri.com.
Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo Leopardi, la satira a servizio della
fede, su totustuus.biz. Nietzsche e Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net.
Leopardi ottimista: un mito del Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini,
"Sereno in L.", su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine
ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo di questi scritti
usci nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana d’Ancona,.
Il secondo nella Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti e tre
furono riprodotti nei Frammenti di Estetica e Letteratura, Lanciano,
Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico di
Giacomo Leopardi *. E una dissertazione di laurea, e reca infatti
l’impronta comune a tutti i lavori giovanili. L’inesperienza apparisce
nello stesso titolo del libro, un po’ troppo prosaico, e incongruo col
contenuto del libro, che non vuol essere propriamente un’esposizione
fatta dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma appunto questo
sistema, portato innanzi al lettore con le stesse parole del Leopardi;
non volendo l’autore da parte sua aggiungervi se non prefazione, note ed
epilogo. Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore che
non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e
nell’organismo delle sue parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi
questo pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di
vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo pensiero,
chiarendolo con le attinenze storiche a cui è legato, e con le
dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne,
ove occorra, la inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una
vita nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI,
Esposizione del sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le
Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se non
agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinaria¬ mente crede di potere
schivare, se non limiti il proprio ufficio a quello di semplice editore;
e tutti ne escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno
li ha intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto
mettere insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando come
fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove la connessione non
appariva evidente nelle parole del testo, ha supplito di suo i legamenti
opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi:
proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie
di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio
pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il
rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro,
facendo parlare per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello
Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo
resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione
degli stessi materiali leopardiani, la statua del filosofo sul
piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri
inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di
ritro- varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta
dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già
altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi
poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
venuti ultimamente in luce, ci scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa
era anche la tesi dello Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone,
da cui il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due
fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima
delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda,
della stessa natura; donde prima una concezione storica del pessi-
niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul
valore sistematico di questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel
secondo volume dei suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali,
veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni
dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi
aveva fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli
pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo
Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si
formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben
(juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella
del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78.
Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del
poeta, e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i
sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui
stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo,
per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello
spirito, non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica
del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal
pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa
strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,
allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata
altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito
bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter
addurre pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra
ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di
pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via
già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri
di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti,
non bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente
acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale
alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi
temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza
filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto
nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella
coerenza di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente che non può essere
altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è
costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria.
Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal Leopardi,
nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella
natura di tali confessioni. E non era neppure nella natura
dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta,
ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante
volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del
Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di
sopra di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che
possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista
chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché
in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi
poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare
così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni,
dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non
è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e
non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più
notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta
può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia;
laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina,
non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno diritto, come poeta, di
affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con
considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬ pardi è
infatti una situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso
dolore che domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia
nuova, che solo trascurando le differenze essenziali, che in una
poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può
rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta,
checché si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una
filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato,
deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza
in se medesimo (e quindi in un diario intimo) una filosofia provvisoriamente
sufficiente ad appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi
grandi in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in
quanto profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi
stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per
lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di
costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica,
satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in
realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia
tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo
grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del
suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver
niente del¬ l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una
liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività;
è una contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il
filosofo, come persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi
dolori, e di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di
Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con
quelli del Leopardi non presenta nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza,
nella Rivista d’ Italia, asuna traccia, non offre nessuno indizio di
sentimenti personali. K veramente una visione del mondo sub specie
aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del filosofo
scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo
dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia.
Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in
tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di concetti,
in sé. Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio
netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬
diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi
ottimistici, così logicamente frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra
parte così poeticamente coerente e vivo, che lo scambio non è possibile.
Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del
suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto delicato;
perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a
cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima,
astratta materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella
filosofia è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace
di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬ dere la
poesia, e valutata in quanto poesia, per quella vita poetica che riuscì a
vivere nello spirito del Poeta. La pubblicaizione dello Zibaldone
ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è
trovata innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella
tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso, e che, per
quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in
pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia di
espressione più per¬ fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne
in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma
merita di essere particolarmente studiato). E dimenticando che pel L.
tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero
acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno
s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! — No, questi
sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e
trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E produce
davvero una strana impressione il proce¬ dimento seguito dal dott. Gatti,
che riferisce nel testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a
sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,
in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto
servire all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo documento!
Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia. In un pensiero
Leopardi s era domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e
stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa
macchina e mole dei mondi? A che serve, dunque, questo infinito e
misterioso spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né
resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo
per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla
felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica
utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.
E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra me
pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria infinita,
e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa Solitudine
immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba, E dell' innumerabile famiglia; Poi di
tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa.
Girando senza posa. Per tornar sempre là donde son
mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Qui
veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un fine nel
mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe
neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi
tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il
sereno profondo infinito (elementi di grande commozione, com’ è noto, per
Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla propria persona
non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante;
ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma l’uomo Leopardi,
intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo spettacolo dell’
infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si sente dentro
smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce
dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse s’avess’
io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio pensiero, Forse
in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma come elemento o
momento della lirica grande. La pubblicazione dello Zibaldone,
badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che
nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi, e che non si
permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio deUe sue
intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che scriva
e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il fine a
cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non
beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie. Anzi, questi
antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di
mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua perso¬
nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene appartenga, o possa
appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse storico, il legittimo
e nobile desiderio d’intendere le opere del genio, mediante la conoscenza
più larga che sia possibile della sua anima, bastano a giu¬
stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb
epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi segreti
delle persone, le quali a un certo punto si finisce col credere che
appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa giustificazione
non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle
sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti
spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non
si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore che di sussidio
a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la conclusione definitiva
del poeta e del filosofo. Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà
un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere al
fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti, ci apparisca nello
Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬ spondere con un altro discorso
astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio possa
essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività,
che la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma penso a
Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi costantemente
mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo spirito umano, di
individualizzare e stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima
singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed
astratto che la storia della filosofia ci presenti: penso a quella
fusione e unità quasi sempre perfetta d’un sistema miracolosamente vario
e armonico di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che
non si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina
Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare e concreta, che
è questa. Tutto il mio discorso generale io r ho fatto appunto a
proposito del Leopardi, dopo Alla quale per questo rispetto non credo si
possa paragonare, ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove
l’unità dell’opera, come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser
raggiunta. aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro,
che non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari a
concetti del Leopardi da uno studio così attento e minuzioso dei Pensieri
si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e
dal Giani, vi sono opportunamente istituiti tra pensieri del
Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli
altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la tesi che il
Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi si fosse organizzato un
sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il contrario, per lo stesso
esame accurato che ci dà dei Pensieri leopardiani con l’intento di
cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa meditazione
sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate riflessioni, che gli
suggerirono quei jiroblemi che furono il tormento e la musa perpetua del
suo spirito: ma non più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre
nel disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬ simo e
pur soave delle prose. 11 materialismo della sua metafisica, il
sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua
epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei
pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬
vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose
Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della
ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi
somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e
accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni
pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai.
Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e stu¬
dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬ siero di
Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica ò tratta
da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio Evo non
studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come
tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo fondamentale.
Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso dell’animo,
che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a
confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato.
Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore
del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non sono scettici,
benché in realtà abbiano una dottrina negativa del conoscere; non
vedono nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica:
ma unificano le due attività, e immedesimano la verità con l’utile, in
modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero; laddove quel
che gioverebbe credere, secondo Leopardi, sarebbe né più né meno che un’
illu¬ sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza
profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che
si professa dottrina essenzialmente dommatica e positiva. Gli studi
del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini
tra gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e
competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con altro criterio e
altro intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al principio del suo
libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente
dal Cantella, di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri
dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva essere altro che
infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza
disegno prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando
prima il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo
cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli argomenti
principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente
d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi
speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia
(anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta, la cui forma definitiva
va piuttosto cercata nei prodotti più maturi, dove parve all’autore
d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle
Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio del Levi, e
conferma pienamente il mio giudizio sul va¬ lore e sull’ interesse dello
Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce
netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore
ad andare in compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a
mio avviso, la visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del
pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi,
quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone
ogni interesse speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale
sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,
dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole
e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera il mio
giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.; e
dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬ bito dopo di
dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire una
ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma razionalmente
giustificabile del pensiero leopardiano. In primo luogo, non è
esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse speculativo
allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi
sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi non
abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, che
il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli poteva e
doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia
del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli
scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del L.,
fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di verità, in
cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso
volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa
nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva licei componere
magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi lavori, e
che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il
succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle
note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano venute
correggendo e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si possa
adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto
di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni
dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche
profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito,
che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti
(specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto
che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza, quando il
Leopardi medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh
si, sarebbe un indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti
d’un pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori
del grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e
a vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue
reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che
scrissi io nella Rass. bibl. tett. U.,
mi rincresce di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo
spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che
dello Zibaldone non ci si può servire se non come di documento della
formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo per altro
cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e
pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita e nella
Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né pur a
quelle dello Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici le
parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ».
Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬ mostra
che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal critico se
non come errori della costruzione del sistema, ossia come divergenze
dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle verità
fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse
per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo di
discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato dunque non dal
sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che affermasse
immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza dimostrazione di
sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero. E
vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è privilegio dei
filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i filosofi
storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti quelli
che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare,
ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra
muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’
è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non
possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un
concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia:
le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la
concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla
filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare
caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte
le funzioni concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo
anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e
il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito
che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle funzioni
astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa
essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e
dei filosofi, secondo che negli uni prevale il momento poetico e
negli altri il momento filosofico; onde la distinzione e però la
categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni volta, funzioni di
giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi va considerato come
poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi storico,
quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci vedo bensì dentro
una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa, compressa, fusa e
assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha della sua personalità
materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che egli non rappresenta
una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo occhio è tutto intento
alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro,
vago e frammentario concetto del mondo, la verità è per lui, e
dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma nella vita di
esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso che, per
quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un
concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente
alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci
sono principii astratti ed estrastorici che pos¬ sano segnare a priori i
limiti della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma
ciò non toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e
che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta,
il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed
assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in
fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica
che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo
nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di
più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare
e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ».
Ond’egli si propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie
egli giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬
giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene,
tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia
del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una
sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le differenze
tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo
venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica determinata. E
se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, posto,
com’ è necessario, che le suddette forme della I grandezza, o, più
modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la suprema esigenza
etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa sia la radice di
tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,
e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette bene,
s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la sua posizione, in cui
l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento dell’uomo di fronte
all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o
l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non può
non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta,
non è la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una
metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del
regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile,
Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico e
del valore del contenuto filosofico della poesia, egli non si propone
nemmeno, in nessun punto del suo libro, il problema dei rapporti tra arte
e filosofia, e non mira quasi mai al giudizio estetico dell’arte
leopardiana; ma si restringe a tracciare la linea di svolgimento del
pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua
forma finale in una specie di individualismo romantico corrispondente
alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì che la distinzione tra arte e
filosofia accenna a svanire nel pensiero dell’autore appunto pel concetto
meramente estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a
cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la differenza
permanga e obblighi il Levi a far violenza, qua e là, al pensiero del
Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia
individualistica. Il risultato degli studi del Levi, in breve, è
questo. Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere due periodi;
uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo, l’altro di affermazione
e ricostruzione dell’uomo stesso; il quale allora si contrappone aUa
natura pessimistici^- ! mente e agnosticamente concepita in cui termina
il primo periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j
sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11
primo periodo terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe
rappresentato, sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo
comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio 1824, quando il Leopardi pose
mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta-
# mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1
Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l sentiva
estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS alla storia dell’
incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver esposto
definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri
intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo
Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette
volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui
il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬ trova qual era
nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore per
la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La
riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si
stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito
leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge.
Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal
sensismo, che negava lo spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti
i valori dello spirito si dileguano facilmente dagli occhi del
giovane pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la
loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in lui il dolore
di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di
coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità
disconosciuta: espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi;
e giustamente gli fa segnare questo momento come principio d’un nuovo
periodo dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere
interpretata alla stregua del difettoso concetto che egli ha delle
attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi tutta la
sua interpretazione del secondo periodo. 11 Leopardi, il 27
novembre 1823, scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente
distinguere la forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio
risiede neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto
è più forte e viva in lui quella parte che si chiama Storia,
anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo
non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬ cresce il suo amor proprio. Nel
totale e sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono
in ragione inversa della forza propriamente corporale.... La vita è
il sentimento dell’esistenza. — La materia (cioè quella parte delle cose
e dell’uomo che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il
materiale non può esser vivo e non ha che far colla vita, ma
solamente coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è
capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il
Leopardi chiama sen¬ timento vitale, o vita», avverte esattamente il
T.evi, « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : « Di
qui innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello
spirito (al che egli ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella
parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e ' quella parte delle
cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo
movevano il suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato
e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici.
Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con suffi¬ ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è
di natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio
del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la sua
interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario c’ è la
coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il concetto) di questa
coscienza; il Leopardi sente la pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU
e sugli esseri inferiori, e la propria grandezza come Leopardi
sugli uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone
mente che egli è grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua
infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo nella coscienza che si eleva al di
sopra del dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun
patto asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬
rituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti il
possederla praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che
significa se non che non la pos¬ siede come nozione, bensì con quella
immediatezza onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi,
coscienza di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo
pessimismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità reale del suo
spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe risoluto nella poesia
diventata essa stessa contenuto od oggetto dello spirito consapevole
della propria vittoria sulla natura, come opposizione e limite dello
spirito, e quindi sorgente dell’ infelicità. Il pessimismo è
assolutamente inconciliabile col con¬ cetto del valore dello spirito; e
questa è la vera e pro¬ fonda ripugnanza che prova il L., — pur
quando intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità
l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli s’esprime,
dell'esistenza ad affermare quella realtà che non ha posto nella visione
pessimistica del mondo in cui si chiude e fissa l’anima sua; e però
ricorre a quelle circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi
chia¬ miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente
documentazione del fatto, che il Leopardi non si solleva al concetto
dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si fosse rivelato
comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione all’accattato e al
falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici
», con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe potuto
egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che 11 sentimento
dell’esistenza, non essendo materia..., non è materia, e che la presunta
concretezza della materia come tale non è altro che un’astrazione, dal
momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel senti¬
mento che ne ha il vivente ? Orbene questa contraddizione
intrinseca tra il senti¬ mento, non elevato a concetto, dell’umana
grandezza, e il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della
nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fa¬ talità
assoluta del dolore, questa è la grande situazione poetica del Leopardi
rappresentata così splendidamente dal De Sanctis nel saggio sullo
Schopenhauer » : « L. produce l’effetto contrario a quello che si
propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede
alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi
lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non
cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al
suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile
un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo
amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto
dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita
». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto e la sua
anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non perviene
mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono senza
scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come filosofia)
in manifesta contraddizione logica, come avviene nella Ginestra:
con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma leopardiana si
regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono la personalità
del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene
perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo, ‘ Saggi
critici, à nel canto A Silvia, nel Canto notturno e,
in modo tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si
dimentica nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica :
laddove, appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che
qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬ l'altra parte
affatto ahena, tende necessariamente a spezzare l’unità del fantasma, che
è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando
anche lui per interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara
coscienza; e però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬
diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui d’interpretare
l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè la poesia del
Leopardi. Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla
storia della concezione storica del pessimismo, quale si disegna
già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza e della
filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso 10 stesso
Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei primi canti; Nelle
nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Bruto minore.
Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al
secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il
Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza dopo la dimora
che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del Diario:
«Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano
intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto gli esseri
più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto
sono più capaci della conoscenza, e del sentimento della propria
piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui '
Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere
umano, Dialogo della Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di
un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note sincrone
dello Zibaldone. In questo secondo periodo dall’uomo il Leopardi ritrae
la causa del dolore universale nella natura; alla concezione storica del
pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬
rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬ bile
prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo s’accampa questo con
la coscienza del proprio valore: dell’uomo, secondo intende il Levi, in
quanto individuo, e pur creatore del suo valore nel virile disdegno
d’ogni illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬
l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore. Onde il Leopardi
acquista una serenità, una sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e
stridere dell’anima sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo
jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione
del Levi, il suo modo d’intendere questa forma suprema dello spirito
leopardiano. Ma contro questa interpretazione vedo due
princijiali difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre
con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere
interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’
interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo,
che in questo secondo periodo starebbe di contro alla natura.
Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la designazione
dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e magnanime »,
che vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine », comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto il
L.: ma non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è
coscienza del dovere dell’ individuo. che può nello spirito
vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa
contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui
serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque ini- micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del
pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto
negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. In altri
tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi;
e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio
più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti
si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà
farsi una caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta,
per esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo
pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e
suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta
tormentata affinché risponda docilmente ai preconcetti filosofici
costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con
gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su
tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non
ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi
canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni; Sopire in me gli affanni L’ingenita virtù.
Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L'infausta verità . . . Pur sento in me
rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E de’ suoi proprii
moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della
poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento
dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché
tale. j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità della
vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché meravigliarsi
? E se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi al subito
rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia è
svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se
stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,
disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine
della sua grandezza » ; e cita i versi ; Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui
la solitudine della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai
moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a
nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco
sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il
Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo
conte¬ nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me
sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura,
onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’
interrompere la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti
in versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la
straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di
questa nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva :
e questa è l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato,
e la potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla
natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene
opprimere ». — Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa
grande per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la
poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che interrompono
davvero la poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più grande non
interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza della poesia non
possa essere altro die il carattere eccellente di una poesia, tanto
più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e tutta poetica. Vero è
che soltanto la retorica può persua¬ dere ad esaltare la Ginestra per il
suo contenuto morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica
contro la filosofia del secolo XIX e contro il Mamiani) è quella in
cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un
errore staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la
grandezza sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila
della descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di
tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le altre
particolari sono irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del
fior gentile, immagine del Leo¬ pardi, che, mentre tutto intorno una mina
involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un
profumo. Che il deserto consola: l'espressione più delicata
della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con intenzione,
che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o
se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che non sia
l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina estetica, che dice
altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra di non aver forse
compreso che s’intende in questa dottrina per espressione : perché
l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso
dalla espressione, se di questa intensità tragica intende parlare
in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬ sione va cercata
nell’atteggiamento individuale che lo spirito assume di fronte a una
certa materia, e questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi quella
personalità, che si colloca di fronte alla natura.... senza lasciarsene
opprimere ? — Qui sa¬ rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né
supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non
supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi
immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro
oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone
alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza della
sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che affermazione
romantica dell’umana personalità. In conchiusione, anche al nuovo
schema filosofico la poesia leopardiana si sottrae e repugna, per
richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico.
^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune
osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente lettera
: Egregio Professore, Mi par difficile discutere delle
interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o altro documento
del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione il concetto
generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché le mie
osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole opinioni e
determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì
bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con
cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono
leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune
delle mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r
intento generale e il significato complessivo del mio articolo. Per
esempio, perché, pur consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone con
vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda la coscienza,
10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della
coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui
Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana. Con ciò
io non dovevo attribuire al L. soltanto 11 possesso immediato della
coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma
solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari un
concetto, che però non era un vero concetto, della coscienza. Il Leoparch
insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa; sicché per lui pensatore
questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che «
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di
natura spirituale e della sua dignità ». Il senso della spiritualità e
della dignità spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo
appunto io dicevo essere non il contenuto (la filosofia, il concetto)
della poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,
l’espressione della personalità del poeta, superiore alla sua
filosofia). Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda
infelice perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma
questo non ha che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse
avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in
un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità.
La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza
vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del
dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione sub
specie aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il
soggetto. Nel Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far
dipendere l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’
infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove
è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste
l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare
la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è
quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile
del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza,
e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita
dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto
interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che
ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato
da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della
personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni
sostanzialità spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia.
Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo
periodo citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole
precedenti erano state pur da me riferite immediatamente prima fino
a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma
queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui
confluisce il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il
Dia¬ logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non
soltanto, come Ella dice, della propria per¬ sona empirica; perché la
morte, pel Leopardi, non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma
tutto l’essere dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la felice
osservazione di Sanctis {Studio sul Leopardi). Leopardi ha la forza di
sottoporrei il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e
generalizzarlo, e fab¬ bricarvi su uno stato conforme del genere umano.
Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini
e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il
.suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e
immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se
ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima,
attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli
occhi, illumina la faccia. Quanto alla differenza di disposizione
spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino
e Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si
attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non
occorre negarla per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella
coscienza jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.
^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella
robusta fede nella grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché
bastevole a se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si
dice che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di
lasciarla ». E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è
nelle ragioni della tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le
quali ragioni sono bensì la critica del pessimismo materialistico
del Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a
conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e
sono veramente l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello
spirito, di cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della
disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei
compagni; 0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore
alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima di
addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬ mestici; è di non
curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri;
non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire,
dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto
che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il
più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo». Se prendessimo atto di questa critica del
suicidio — che. risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo
come effusione di stati immediati deU’animo, ma non come filosofìa
— che filosofia diverrebbe questa del Poeta che ha ragionato sempresul
presupposto che la vita dell’uomo sia racchiusa nella sua sensibilità, e
che tutto il mondo all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera
del piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza
questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso
affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere
umano (cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione
intima di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del
commovente dialogo ? Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento
posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba
intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬ dizio. Ma la
ragione che mi oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro,
nella poesia una risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete
or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il
piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da te, mio cor,
quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da
te mi vien; ed è vero che nella quartina precedente l’accento
maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione
del problema, in cui consiste la poesia : l’inaspettato, il miracoloso
risorgimento del vec¬ chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta
la poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha
certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘ In un
periodo ora non più ristampato dello scritto precedente.
agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la correzione,
il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione
della propria grandezza, gi a quella del grido della disperazione, comune
a quasi tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il
motivo da Lei richia- luato, della personahtà del Poeta che non si lascia
opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto
questo motivo sia attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti
(«che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso
stato e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le
stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto
nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati,
e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni altrui, manda al
cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che
consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo
innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati
amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente
cantata dal Leopardi. Certamente, tutte queste cose meriterebbero
di essere chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬
diani; e io voglio sperare che questa discussione possa invogliar Lei,
che ha studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e
con tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce
di nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof.
Bertacchi > si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti
di Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità gli elementi
dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni della vita»:
«quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro;
quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal
senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar,
^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '
cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti
gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1 leopardiana.
1; Elementi che non mancano certamente nella detta 'i poesia;
e costituiscono la singolare caratteristica del suo j pessimismo, come
già osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer
(dopo che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio prima *
Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); , e conferiscono
infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato pessimista un’alta
virtù educativa e consolatrice. | E molti studi diligentissimi furono
fatti in questo senso i da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano
t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca
del Bertacchi mi pare avviata m una J direzione, che potrà condurre a
falsificare interamente il , carattere dello spirito leopardiano,
attribuendogli un ot- l timismo edonistico od estetico, che solo un
lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft vita-. Sag^o
leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna, /a nichelli, igi?-
stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della sua
sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è la fede e
l’esaltazione della virtù, della grandezza e della lenza dello spirito,
di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama, a cui non trova
posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma
che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender
la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due
elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece crede di poter quasi
cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬
lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in
rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una
sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la
sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale
ravvivata dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita;
ossia una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe
attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il
sereno di natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa
», e poi « l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o
impre¬ gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o
contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti
e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso
sensibile le conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e
il Poeta studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore »
apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi
d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e ingrandisce e
abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui sarebbe maestro il
Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato dalla intuizione
estetica della natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in
parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a
guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita estetica al
mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così del Leopardi come, più
o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun bisogno di dimostrare
questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è
rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un interesse e un
significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo un artista
rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa
d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della bella natura
una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che
questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra
squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne accorgesse,
fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa s’effondesse
sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e giustificabile soltanto
col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin dalla prima pagina
del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.
Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno
scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa,
quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un
autore, acco- r stata alle anime nostre, si svolgono sensi
ulteriori che l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le
somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare.... Il creatore è
creato a sua volta, è rinnovato via via di significazioni e di uffici ».
Sicché il Leopardi maestro di vita è il L. dei sensi ulteriori e non il L.
storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato, s’intende, in
questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto di creare, non
è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e storico è legato
alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra gli
scritti leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti
soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma- I gine del maestro
di vita che desidera raffigurare. Così comincerà con lo scartare le
prose ; perché « nella voluta terribile aridità » di queste, « il
pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo
agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;
«egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella
sua logica amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del
Leopardi, e non c’ è la na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini
belle: il che non è poi vero, se si considerano almeno la Storia
del genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese, La
Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette
morali sono filosofia e non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il
Poeta «trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la
maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale,
dalle pur rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi
caratteri il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola
al Pepoli, la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero
dominante. Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di
bella donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di
sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il
Leopardi parla bensì diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se
stesso, Aspasia), ma can¬ tando se stesso non esce dall’ambito umano e
sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal
caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto
essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia
provato esso stesso ». — Da escludersi infine i canti civili {AW Italia,
Monumento di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un
vinci¬ tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si
resta, sebbene con ampiezza maggiore
nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il
Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto
della natura: «vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa
natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi,
creatore del creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi
ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in
cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati
nei loro aspetti più belli ; soleg¬ giati sono i suoi giorni; le sue
notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica
in un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,
riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata
dal sole che entro vi trema sorgendo». E questa presenza della natura «
non è senza effetto per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà
bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune,
o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile
dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi
argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir
vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi,
non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno
che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé,
quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi,
dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti
profonde vi si raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà
avver- t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un
senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come il Dante della novella
sacchettiana), ma non ha più niente che vedere colla poesia del L. E dove
pare si accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una
vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il
Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la
tempesta « il poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa
pienezza nel cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che
trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore,
perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea
stessa del filosofo, che nel Sabato non si esibisce già nella sentenza
finale (« Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di
gioia; Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta
la rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia
d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità
della fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la
rimpiange l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬
guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere
questa pietosa malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già
dalla malinconica donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar
del sole, cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare
d’un dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano
al filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e
1 altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, la¬
sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a queUa di farsi
vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione fluttuante, nella quale
diresti che il poeta sia perplesso sul proprio stato » >. Ora, il
breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente
il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del proprio
dolore; il grato «rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che
l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua soltanto agli occhi di chi
non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del
poeta, e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c
solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto, che non trova
in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le
sciagure e gh affanni, alla reina FeUcità servi, o natura »).
Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in cui
propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi
cari sensi ulteriori. Dei quali a volte sente come il bisogno di
scusarsi, dicendo per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito
col poe¬ ta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,
riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di rimpianto,
quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle
cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le
stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota
e j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come
sorte da noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»».
Umano, troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà
poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità,
non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia.... i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa
d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture
leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel
1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato il 13 feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia.
A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è
da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si
assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una
cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere
perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire
a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e
di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie
forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere.
Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del
carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei
giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui
poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di
questa vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?
Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non
turba tanto l’animo mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un
pericolo nella istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia
anche una elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene
che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e
lungi dallo spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella
virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl
individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già
altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco,
diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario che troppo
è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi
delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e
potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra.
Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se si vuol far
davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio,
temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla
testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna
romperla col passato. Dico col jiassato dell’accademia e della
«letteratura», dei sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e
trattenimenti per dame e colti signori in cerca di onesti passatempi, più
o meno noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬
mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato con oratoria
adatta a mover gli affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né
dicitore mai, né ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto
di parlare o di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con
tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice o si apiilaudisce,
conseguenze che siano norme di con¬ dotta e quasi cambiali che prima o
poi scadranno e si dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un
discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona fede, e anche in
mala fede, compiono un’azione e si pre¬ parano a compierne altre; e non
vuol essere una predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’
ideale è che nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio,
nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno Si
ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto
alla conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si
sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori
il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬ damente per tutto
il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e
burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la
spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano;
accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia
dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬
stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla
storia, e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle
provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a
danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬
cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un
profondo contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano;
poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda, erudizione per
l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella
letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la
persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo
non era cittadino della sua patria, né padre della sua famiglia, né
credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di astratte
forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà degl’
interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni
zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze di
arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori. Cultura estranea
alla vita; che era poi vita senza cultura, cioè senza riflessione e senza
idealità ; la vita degli uomini proni alla frivolità e agl’ interessi
particolari, chiusi ad ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la
cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L..
Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana nei secoli della
decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^ risorta tra le nazioni quando s’ è
vergognata di quella cultura e di quella letteratura, e con Parini ed
Allieri ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e
che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà,
carattere, umanità ? Chi non sa che j)ur dopo la miracolosa risurrezione
di quest’attesa fra le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa
sarebbe stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;
Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire e a fondere
insieme quel che avevan sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la
letteratura e la vita, la scienza e gl’ interessi concreti e attuali
deH’uomo, facendola finita jier sempre con l’accademismo e con la
rettorica e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è
il dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio
tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio r interesse comune,
a stringere la propria sorte a quella della patria, a sentirla perciò
questa patria come intima a sé e tale da meritare che per lei si viva e
che per lei si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di
fuori si doveva pur rifare di dentro? Questa almeno l’aspirazione
del Risorgimento. Ma venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica,
tale aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati tempi
di pace e di raccoglimento succeduti al periodo agitato della rivoluzione
e della formazione del Regno, certi vecchi spiriti dell’anima italiana
tornarono a galla; nel rifiorire della cultura (che certamente molto
s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui r Italia
parve godersi le prospere condizioni acquistate con l’unità) risorse con
gioia l’antico gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura
intellettualistica ed elegante; e da Firenze, centro di questa
rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita italiana e
]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato jn tutte le principali
città, e i conferenzieri più brillanti f celebrati viaggiavano da una
tribuna all’altra recando j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed
aneddoti, le loro pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si
diceva, del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato.
Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che l’ora é lunga a
passare pochi hanno il coraggio. L. non può esser materia di
conferenze. Vi si ribella la pudica delicatezza della sua anima
sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte dove
il suo canto possa spandersi in una religiosa elevazione di tutto il cuore
verso l’eterno e l’infinito; dove il pastore po.ssa interrogare la luna,
e l’uomo stare a fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più
gelosi segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità
del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe
egli, schivo com’era e orgoglioso della sua solitaria grandezza,
mostrarsi al pubblico e far suonare la sua voce esile e tremante di
commozione in mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a
mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità
letteraria. No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che
anche L. venga alle mani dei pedanti, dei letterati, dei conferenzieri; e
che ei diventi materia e pretesto di vane esercitazioni onde gli animi si
alienino dai problemi che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta
sulla sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo
corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando il programma,
che qui sia sempre vivo e presente L. poeta,
che è il L. degli uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei
curiosi, dei pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito
ap. passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples.
sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per la furia con
cui nella età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di
sapere. Per molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista
indebohta non gli ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un
filologo consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia
degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente
guardasse dall’alto, per la coscienza che ebbe del suo più squisito gusto
e della sua più perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e
recenti. Ma la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella
letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e sentire più
addentro nel proprio animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma
di poetare. Egli (e la prova più manifesta è in quel suo diario dello
Zibaldone) visse sempre raccolto e concentrato in se stesso:
osservando la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e
sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le forme onde l’uomo
rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero la luce di tutte le cose, da
cui si vede attorniato. Il suo pensiero è una continua, commossa
meditazione su se stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora assurge
a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi trepidanti.
Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura diversissima, è
dell’età stessa del Manzoni : figlio di quella nuova Italia che guarda la
vita religiosamente, e ne sente il valore e la serietà; profondamente
differente da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i
poeti italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia
c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio da
intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita a una
divina realtà, governata da leggi che domano e annientano ogni arbitraria
velleità dei singoli; a una realtà, in cui il singolo uomo viene a
trovarsi nascendo da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire
e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione, ogni
suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sen¬ timento, durante
tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella morte. Anche Leopardi,
razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è uno spirito
profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace
di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di prendere
alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un sorriso di
austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento dell’uomo
che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo subbiettivo
del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla considerazione
ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza
di vincere il dolore. Per questa sua costituzionale religiosità Leopardi
non fu soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso
titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna intendersi. Se domandate ai
filosofi, diciam così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a
distinguersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che Leopardi
filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee speculative che si formò
per la lettura dei filosofi recenti più affini al suo modo di sentire,
non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono
fecon¬ date da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò,
Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo, ordinarlo e
potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia
ei perciò non può trovar posto; quantunque di lui non si possa non
parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica della prima
metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi non fu un
filosofo. Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della
filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei filosofi è una
cosa seria, va rispettata, e può interessare tutti gli uomini, e non
essere una malinconica fantasti¬ cheria di gente che viva fuori del
mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano
nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che, senza
inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove sono esposti, e
leggono questi libri, li studiano, ne fanno prò, li gustano, han bisogno
di farsene nutrimento e forza dello spirito, in cerca di risposta a
domande che sorgono spontanee dal fondo della loro anima,
insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere
e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei
problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a costoro,
jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua assillati.
Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è privilegio né
monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo
spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto, c’ è chi si
distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai
per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità da non portare in
tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi
si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva
il germe della sua vita e del suo mondo. In questo senso più
largo e fondamentale il Leopardi fu squisitamente filosofo: e stette
sempre anche lui con gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della
vita, quale ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta
in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi
passioni svariate che gli tumultuano incessantemente pel cuore. Giacché
ogni uomo che sente, non può vivere così spensierato e abbandonato all’
istinto da non av¬ vertire che la sua vita non scorre tranquilla
com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli
da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora appagati e
ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata sempre dal
dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna
vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e
disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire
totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente
stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue labbra assetate; il
nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per
sempre e an¬ nientando intorno a noi tante delle nostre persone
care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro ci
pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e che questa
vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo bisogno di cui
viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad
una tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci
priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille osta¬ coli. ci
combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci concede tregua finché
non ci abbatta per sempre ? Nascere è entrare in una lotta, che di giorno
in giorno richiede sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre
più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più aspra. Svegliarsi
ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti, rispondere all’appello
delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e ci spinge a
nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la
no¬ stra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men
difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire; salire sempre;
da un gradino all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma,
appena l’uomo che ha un cuore, sente quest affanno e scorge, anche da
lungi, la tragedia e la catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere
se a questa lotta ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia
forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi
confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per
conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la
vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua
attività; e se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima
del giuoco inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel
turbine, o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato
movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo
di volontà non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei
sentimenti che lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una
causa necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in
cui si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa
neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso,
tutt’uno con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza
irresistibile del destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di
fronte a ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la
nostra volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo
naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato
dell’ ideale, instaurare una legge che sia la norma del bene e di un
mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile
questo mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è
una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso
mondo inferiore e quella natura spie¬ tata tutta chiusa nel suo
meccanismo, la cui afferma¬ zione implica che si ritenga vera? E se a
questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera
dello spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^
contrario, se ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà,
come si farà ad ammettere che sia libera la natura umana, circondata e
condizio¬ nata da una natura che è l’opposto della hbertà ?
Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule stringenti,
e scruta a fondo; ma che confusamente, e non perciò meno tormentosamente,
affiorano in ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’
infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere.
Giacché 1 uomo non dà un passo senza credere di poterlo dare; senza
pensare che c’è una mèta innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la
via buona per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi, e
gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo,
come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per
gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno
invece sentì mai cosi acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi
pensò mai con tanta insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità.
Poiché il Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa,
un poeta in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni
filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i
si abbarbicarono, e furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1
immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La
sua concezione della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche
idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma
della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di
poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e
del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e
si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e
far sua, e viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da
sé, e mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo
vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta
più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella
contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da
sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente
così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente
nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel
suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e disindividuato.
Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti, astrattamente
obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi
umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il poeta in^’ece
non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o qual’altra passione gli
detta dentro le parole in cui egli si esjirime. In questa
immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto
della miracolosa potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella
virtù incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non
pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che solo sentono. Perciò la
poesia, quantunque richieda anch’essa cultura e finezza spirituale,
risultato di studio e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e
delle moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non per
virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto,
immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù
diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della
filosofia. Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi sentimento
e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente maggiore di
qualunque più sistematica filosofia; e se si chiudesse nel gretto circolo
di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente
accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui una cattedra a
commento ed esaltazione di essa. I filosofi, per raggiungere la loro
verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano
per solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado della
moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono
dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro
arte che « tutto fa, nulla si scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia
del suo canto è la sua filosofia. E qual è dunque il contenuto di
questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici,
che spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano, ci apre la
via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale e sentimentale del
nostro Poeta. 11 quale su quei problemi martellò il suo pensiero; e di
quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il
suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della filosofia:
che è pensiero umano derivante dal bisogno di assicurare all’uomo la fede
che gli è indispensabile per vivere: la fede nella propria libertà; ossia
nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo
giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un suo mondo,
conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e non dibattersi
vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi. Bisogno,
rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente, è una
filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse
da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’
istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al suicidio. Ora
Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare di proposito una
professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua adesione alla
filosofia sensualistica e materialistica; e il Frammento apocrifo
di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è una
dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si ripercuote
in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché da per
tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel
Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non si cura
dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme, infinita,
la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende
di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie
tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli
si finge e pretende di far valere in concorrenza della dura, quadrata
realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni
umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale delle leggi di
natura: dove non c’è bene né male, ma tutto è necessario, tutto accade
perché, data la causa che lo determina, non può non accadere; e la stessa
necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva da un principio
autonomo, che si faccia centro di una vita superiore e indipendente,
avente in sé la propria misura, ma è effetto del generale meccanismo, che
si abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh
appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è
questa, in conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a
riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche
: uno proprio degh spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle
conclusioni, vi si rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un
dovere, il cui adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle
senza reazione di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che
se non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la
manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con
tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa
personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di
quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da
restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e
cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce
appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a
fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto
vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura
disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si
spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde
dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e
vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in
cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella
propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al
primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di
libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi
dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di
attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per ammettere
questa, bisogna ammettere prima quella ; senza la quale mancherebbe lo
stesso pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi dice pensiero,
dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro
pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride
alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone, a
cui il nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E come spiegar
l’ali, onde noi vorremmo in- nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se
esse urtano sul muro di bronzo di questa materiale natura, che ci
attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?
Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto
]ùù complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale
contenuto della poesia leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e
persona, che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11
quale non si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché
la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la
negazione del materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni
poeta crede nel suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la
])rova più luminosa della sua capacità creatrice e della sua
libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali
dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo religioso,
lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che prcesiste alla
sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o alla sua
speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo
deve arren¬ dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e,
prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua
assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui
vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita
ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga
a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e del
divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬ pidante tenerezza
per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che
un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla
corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che essa cagiona
ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli arridono
tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli
uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non
ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella
mezza filosofia, che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e
confortano la vita agli uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della
fanciullezza e della gioventù quando non ancora si sono appressate
le labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del
mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha riassaporato per
anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta
alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie :
di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che
quella filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate
di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito
umano. Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea
onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬ sciamo, risponde
il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate il dialoghetto di un venditore
d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo
tante cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è
una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa che non si conosce
; non la vita passata, ma la vita futura ». La quale però un giorno sarà
passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta
sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo
che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la
virtù che vince il male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per
l’uomo; lì è l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma
quello non è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,
e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi
a noi, ed effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra
che la virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e gl’
ideali più cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo
conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte le
illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al
reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per
risolversi animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato
senza futuro) e a governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la
sua natura di es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e
vagheggiatore di una vita superiore a quella puramente naturale. E
Leo¬ pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo, con
tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso il
futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge
fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di
morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a
comun danno impera e V infinita vanità del tutto. Per lui
Nobil natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce Gli occhi
mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà
certo ; e alla morte può dire : Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. I.a man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non
benedir.... Solo aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi
addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio
dell’ invitta potenza dell’anima umana pur nell’estrema miseria. Vivi,
dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e
infelice. Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è
solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si
jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella
superiore realtà che è propria dello spirito. Leopardi sa che la
grandezza del suo dolore si commisura alla grandezza del suo pensiero che
lo sente e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che un’anima
volgare e torpida non saprebbe provare tutto il dolore del Poeta, che il
volgo infatti non intende e irride. Leopardi sa che la coscienza
dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha
suoi di¬ letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un
amaro gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca
della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬ duca infatti
all’estremo della infelicità, che non è la di¬ sperazione, ma la noia
>, la morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento della
nullità, questo terri¬ bile privilegio degli uomini, a cui la natura non
ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse
cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti
gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi
si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e
immedia¬ tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi
de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima
non cade, non è vinta. Giacché, secondo Leopardi, « la noia è in qualche
modo il più sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere
soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della
noia. La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali
possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha
misto del bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.).
Zibald., — Giuntile, Manzoni e Leopardi. alcuna cosa
terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza
inestimabile dello spazio, il nu¬ mero e la mole maravigliosa dei mondi,
e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto, e pero noia,
pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della
natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬ sun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su
tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di
quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬
gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi
la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili
aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi, poca scienza
pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che
la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è
pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le illusioni; e se non
sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci
consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura
che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi
oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la
speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore
torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato il calice
amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto
travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio
piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre
nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso
dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida
ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua
morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il
filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno:
e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi molte volte
ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò Sanctis paragonando
Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario tra n
filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette
in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa
amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende
vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del Leopardi
non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà
leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per
metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani
e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel Leopardi, come s’ è veduto, ciò che dà verità più che
rassomiglianza di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e
Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una
bellissima fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore:
E sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni
saggio core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della
critica, come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi,
Ottimismo leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli, Il Poeta sente che Quando
noveUamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto.
Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si
sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è
il primo effetto. Il Poeta vuol rendersi ragione di questa
coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non
ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi
limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che fiacca ogni
umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la sua vera vita
è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia a se
medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale, centro
di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte opti
gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice,
affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura
incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e
forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi,
en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.
Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia
del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste
letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette
morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso,
sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non
sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria
precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a
Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate
la prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del
Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di
Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le Operette furono
pub¬ blicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come «
primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle
che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori
composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane
della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed.
Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al
13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo
in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o
ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle
Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti
atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di
Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e
l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono
caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già
osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che
sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati
senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un Ecco le singole date, già
in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra,
e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva
tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere
umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte;
Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio;
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo
Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini,
ovvero della gloria; Dialogo di Ruysck e
delle sue Mummie; Detti me¬ morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e
di Gutierrez); Elogio degli
Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo,
che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di
un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari
degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa
del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬ flessioni sopra
diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un
capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti
memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti
sono per¬ tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in
qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima
l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur
composti i Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe
messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ? Comunque,
in altra serie di appunti, relativi, come par probabile, a dialoghi
tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto,
s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade)
Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e
mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo
della Natura e di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e
mondo, che l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza
con¬ durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve
risalire. E secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni
primitivi di altre [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto
relativo, riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle
Carte leo¬ pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X,
fase. 12. io8 quattro operette, due del '24 e due del '27.
Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,
qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea
del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella
del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e
Filénore quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il
documento certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,
scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma
anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi,
non è posteriore alle Operette. E c’ è altro. Stando alla
cronologia dataci dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo
mese d’estate del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli
Detti, riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella
lette¬ ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in questo
scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo Zibaldone gh appunti
più singolari e umoristici; certo intendendo a una vaga e libera
somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di
pubblicare qualche parte del materiale accumulato giorno per giorno».
Sicché s’è creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al
Leopardi « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre
organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio d’esempi, tra i
tanti che si potrebbero riferire. Nel cap. Ili dell’ Ottonieri si legge
: > Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice
di questo Salto il Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava
il titolo di Dia¬ logo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui
Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale. Dice che la negligenza e
l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o
malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo
passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia;
non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬
sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬ manità e
simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬ giore di cattive
opere; e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli
uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno
veramente altro che incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii
settembre 1820 il Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi
Pensieri, scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai
filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so
bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon
colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza
infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in
quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa
molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza
che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e giornaliera,
come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬ nare il suo servitore
alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come
nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci
curiamo di considerarlo e lo fac¬ ciamo cosi alla buona; considerandolo
bene, noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e
produce lo stessis¬ simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante
che ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di
produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella
letteratura, no Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a
leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi
siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene
di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri
pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta
profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per
considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente:
eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro
queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di
appunto, era già nello Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri
una grande e straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi,
veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per
considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste
qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il numero di
simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui
non si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà
dunque da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma
defini¬ tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬
brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima ?
Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è
stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b Caratteristico
questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga
all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e * V. tra gli altri
B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902- 04, II, 42; e Losacco,
in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si
aduna nelle città grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto
basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa
fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e
l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi
è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima.
Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo
Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e
mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una
menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o
fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per
questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava
venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata
che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e
all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente
più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae
origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal
Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se
ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno
maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà
infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero
dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of
erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la
superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri
non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si
badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma in astratto,
quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il quale abbia un
antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur
così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche
questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in concreto da
ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione
con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di
quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò
componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che
abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si
pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬
tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui
somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che
è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici
che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le singole
operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in
una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in
verso e in prosa, dello stesso L. (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta
inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi
del secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬ lità
dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il L. abbia avuto, il
De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti
e confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’
inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò
della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera
nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista
trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di
cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro,
anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può essere l’anima e
l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per
così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di
cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola.
In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di
almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a
suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono
dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e
di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e
il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso,
il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle quali, nelle edizioni
parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore
non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬ rialismo
che vi è professato, c che le Censure non avreb¬ bero lasciato
passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬
rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano)
che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che
queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice,
furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E
quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le singole
operette potessero venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel novembre del
’25 sperò poterle pubblicare Epistolario, Firenze, Le Monnier, *
Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico vo¬
leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬ segno, fece assegnamento
sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale consegnò il manoscritto
affinché gli trovasse un editore: con tanto desiderio di vedere stampata
la sua opera, che scrive impaziente a Papadopoli : « I miei
Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il manoscritto
a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e
lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus- seux
il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel
manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni
dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato,
eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio
fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro
nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti. Sento che
queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne godo
assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte
per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un giornale » ».
Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un saggio. Del quale
il 5 lugho il Leopardi scri¬ veva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi
stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e
però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta dal
Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo » 3 ; affermando
così che tra i dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo
posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera al¬
l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto [Lett. del 9
nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. » Nell' Epist. del L.
3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ?
E pene¬ trato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬
duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già. in Milano di
questo mio mano¬ scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in
Firenze per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia.
Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le altre operette
sono del genere del Saggio, se non che ve ne ha parecchie di un tono più
piacevole. Del resto, in quel manoscritto consiste, si può dire, il
frutto della mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei occhi
» '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel mese lo Stella
rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha ben ragione d’amar cotanto
quel suo manoscritto ». 11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso
dalla Censura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare
altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato: intanto gli facesse
sapere la mole del manoscritto. E il Leopardi subito a riscrivergli, il
26 : « Confesso che mi sento molto lusingato e superbo del voto
favorevole che ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 manoscritto
è di 311 pagine, precisamente della forma del ms. d’Isocrate che le ho
spedito, scrittura egualmente fitta di mio carattere. Sarei ben contento
se ella volesse e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una
ri¬ sposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i. Lo
Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di
ristampare nel suo Nuovo Ri¬ coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia
; « de’ quali », scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un
opuscolo a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da 0
. c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non pel pregio
certamente » «. Perciò il 7 il L. affret- tavasi a mandargli la nota dei
molti errori incorsi nella stampa fiorentina, insistendo nel desiderio
che lo Stella assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si
disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una
cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti che
non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo
manoscritto, e però la sup¬ plico a non avventurarlo formalmente alla
Censura senza una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o
che sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto
partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella j)oté informare l’autore d’averlo ricevuto. poi
gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo leggendo le
Operette sue morali, le quali quanto mi allettano.... altrettanto temo
che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio
potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi stamparle a
parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte in piccola forma » 4.
Ancora uno smembramento delle care Operette ? La proposta ferì al vivo
l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se
a far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo che
stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente la prego ad
aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto possibile. O
potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre inedite al
dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubbli¬
cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava, conscio
dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come venti
capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei certamente mirò
nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole parti, quando
le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come tenesse a
rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre dialoghi
ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte.
Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto
prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era quattordicesimo,
sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio era destinato al
ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella edizione milanese
del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva
essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto di Ucenziare
il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma, nel passaggio dall’ordine
cronologico a quello ideale che il Leopardi ebbe da ultimo ragione di
preferire, non sol¬ tanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura e
di un Islandese, scritti successivamente, con un solo giorno di riposo
tra l’uno e l’altro, parve opportuno frammettere il Dialogo di Torquato
Tasso e del suo Genio familiare, a cui il Leopardi pose mano appena
finito quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza una
ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è ovvio Mtresì che la
ragione non potrà consistere se non negli scambievoh rapporti da cui
questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi
che i vari scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬
porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua
spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa
di idee già non sufficientemente svolte, e il risorgere di un’
ispirazione che era parsa esaurita, traeva l’autore a tornéire su se
stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico non corrispondesse più
allo svolgimento e alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto
appena levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che
salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico; e se l’autore
scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli
ante¬ cedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere esaurito
il suo tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera
rappresentazione finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a
giudicare e difendere il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che
si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col
Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando
fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette in tutto,
che s’ è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da questo
risorgimento, seguito al Ti¬ mandro, del motivo ispiratore delle
operette. III. Ma tutto ciò, si può dire, non prova
nulla per l’or¬ ganismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità
non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero
che quando tale unità fosse messa bene in luce con lo studio interno del
hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato
ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno
vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle Operette
leopardiane, ritenute general¬ mente una semplice raccolta, aumentabile
(con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come
tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie
scelte di prose leopardiane) non si è mai indagata, perché si sono
ignorati o trascurati tutti questi indizi di un disegno, che lo stesso
autore ritenne essenziale. Intanto, lo spostamento osservato
del Timandro epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a
scor¬ gere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli
scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre
il Timandro, destinato ad epi¬ logo, la Storia del genere umano, che,
])er il suo distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che
abbia la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in
iscorcio, di tutto il destino del genere umano a parte a parte ritratto
poscia nelle varie prose, si può a ragione considerare come un prologo;
le diciotto operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono
naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i
quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è
veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria, si spiega il
secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,
(]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di
un Islandese. Precede, e inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto
dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in
cui all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬
tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni
moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo.
Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo
insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si
osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e
connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette.
Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di
ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti
a ciascun gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo
dal primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi
qualche Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi
secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la Terra
da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca sulla
mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva
portata, gli « bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali;
e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto
al battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla »; e
quanto al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo, dice
Atlante, « che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore
sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse
morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e
pensava come e in che luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che
gli dovessi porre ». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì
di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo
il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano
accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il
grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e
l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano ?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si
ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la
Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla
Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi
possono spiegare i « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non
stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol
morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui il Poeta
domandava agli eroi già dimenticati e ri¬ scoperti dai filologi, « se in
tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per
volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in
disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben
essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho
messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,
così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto
che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della
morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto
il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬ chine, e H secol
morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei SUlografi ne fa
la satira nel suo bizzarro bando di concorso per l’invenzione di tre
macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta
costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu
una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna:
quella donna, che fu r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata
come la « sua donna » da esso il Leopardi : Forse tu
l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome. Or leve
intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara Ch’a
noi t’asconde, agli avvenir prepara ? Viva mirarti ornai Nulla
spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv.
3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una
macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si
rimuovano dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco
diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa I
la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh
ideali che già fecero virtuoso e magna¬ nimo l’uomo antico, finito con
Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata
alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei
campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può
credere, secondo Sallustio, d’infiam¬ mare i soci alla battaglia,
parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria,
della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno
lettore d’uma¬ nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel
testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a
norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non
nel vocabolario. La libertà ? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice
il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto
». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.
Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa «che gh uomini
per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la hbertà,
la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo
alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis,
memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,
epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris portare.
Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno ! Quella \dta,
che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita [Ancona, nel Fanfulla
della domenica del 29 novembre *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle
forme nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp.
207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un
pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno spiritello,
uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto, può
dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ».
Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte
mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano,
parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri,
parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando
tutte le vie di far contro la propria natura » ; studiandole tutte
con queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-
l’antico error », di cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la
mano dell’altrice natura, come il Leopardi aveva appreso dal
Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi
regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora
durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il mondo
tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece crede fosse
fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità
umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti
spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono
stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e
di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo
sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu
certo, fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il
grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo » Inno ai
Patriarchi. Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa
misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le
greggi Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i
lupi al fonte Il pastorei; ma di suo fato ignara E degli affanni
suoi, vota d'affanno Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta
contento della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della
natura. Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è
il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di
restaurare la sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un
tempo! Faust lo sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che
vengano con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo
servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un
momento di tempo. La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette
conto di viverla: è la vita col suo valore. E il Leopardi pare la intenda
come un diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che
ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché
nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro
desiderio naturale. Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e
questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che
sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra
vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è
meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima
conclu- * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d'
intendere il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura
italiana, sione di quella premessa, che la felicità o valore della
vita consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e
quindi mai mero diletto, senza mistura di amarezza. Tale il
concetto del primo gruppo delle Operette, che pone l’animo del poeta in
faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna
d'esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita
dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto
ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il problema
e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La
natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e
l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo
avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che egli
penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno,
che pensa e vede tutti gli uo¬ mini morti e la natura viva, muta,
indifferente. Pro¬ blema affrontato nel Dialogo della Natura e di
un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,
dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e
chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, « nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza
delle I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitas¬ sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre
co.se, ben¬ ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono
come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e
mantenuto per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli,
Bologna). jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità
pro- ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo «
ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale;
per essere di tutti i viventi il niù perfetto »; e però è il più
infelice. E il meglio è per l’anima spogliarsi della propria umanità, o
almeno delle (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al
più stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia jjjai
prodotto in alcun tempo. Di guisa che quella morte dell’umanità,
che nei dia¬ loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri
nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la cui storia non può
avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice
il poeta col suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si
rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto
ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la Terra, nel dialogo
che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che
l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il
dialogo dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli
uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che
insomma non ha base in natura quello che gli uomini considerano pregio
della loro ^^ta, e che, non trovandolo fondato in natura, riconoscono
quindi mera illusione. Ma il concetto più direttamente è trattato
nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo
stesso spirito satirico pessimista con cui
Leopardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché
Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere umano, che avrebbe
dovuto essere il più perfetto genere dell’universo, « la migliore opera
degl’ immortali », gli era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio
degli antro- pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio
della vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa
senza volerne sapere più oltre, quando a Londra vede gran moltitudine
affollarsi innanzi a una porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo
disteso su! pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel
petto e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬
simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera- zione ha ucciso
prima i figliuoli e poi se stesso: (juan- tunque fosse ricchissimo, e
stimato, e non curante di amore, e favorito in corte: ma caduto in
disperazione «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il
tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta andando in cerca di
quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo
gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non essere bene
da se medesima, e non esser vero che ciascuno la desideri e l’ami
naturalmente: ma la desidera ed ama come « istrumento o subbietto » della
felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da
vicino, consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle
affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma
nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire)
l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la
vivacità, il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il
tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita
degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto
più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né
disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è
morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo
stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia
vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì
nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte;
quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo
gruppo; e che non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella
coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di
là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia
valore. La morte è dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere
il pieno; la morte al posto della vita. E questo tedio è la
malattia, il segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio:
del Tasso già dal ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai,
apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬
serando esemplo di sciagura » : O Torquato, o Torquato, a noi
l'eccelsa Tua niente allora, il pianto A te, non altro, preparava
il cielo. Oh misero Torquato ! il dolce canto Non valse a
consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì
calda. Cinta l’odio e l’immondo Livor privato e de’
tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno.
T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Tasso medesimo, che non trova nel mondo altro
più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago inunaginare, dal
quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà; questo Torquato
parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si lagna già del
dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli
pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi
interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna
di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gh sottentra, quivi ella
succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana
frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E
però. come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non
si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»; e poiché
piacere non si trova, la vita è composta parte di dolore parte di noia. E
la vita tutta uguale monotona del povero prigioniero — immagine d’ogni
uomo di fronte alla immutabile natura — si viene via via votando
cosi del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della
tristezza soffocante del tedio. L’uomo prigioniero della natura
ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la
Natura a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che la
vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la vede sempre
innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima di morire,
in effigie di donna, di forme smisurate, seduta in terra, col busto
ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di
volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con 10
sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero errante, tu sei «
carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così,
del tuo sangue e delle tue viscere », e « per niuna cagione, non lasci
mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi be¬ nedico,
io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬ l’universo è un circolo
perpetuo di produzione e distru¬ zione. — Ma, riprende 1’ Islandese,
poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi
quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova
cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’
Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’
inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: — Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. V. E qui potè parere al Leopardi, come
osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le
facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso
libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò
che la sua dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non
era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare
Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre
acerbo e ingiusto al grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia
uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo
un’anima con queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me
credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se
non in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi
uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della
infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni
per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel
volume La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova
Italia, Lanciano, Carabba, -
Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il
De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e
nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era
riem¬ piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬
maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di
diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e
fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la
forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e
fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e
appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare
Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono
stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice
del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né il Capponi,
né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo questo
pensiero vero e pro¬ fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso
sentimento vivo della noia universale e necessaria ». E suo è
ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere
di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬ lità delle
cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire 1
inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più
terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che si trovi anche
in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e
sco¬ raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere
disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e
non trattando né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli,
Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo ora bene che, spente che sieno le
passioni, non resta negli studi aura
Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬ cinio aveva
dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji riprendere la
dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette, né in altro dei
suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla
sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non
superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto l’argomentare
della sua filosofia non genera la convin¬ zione che ne dovrebbe deri\
are: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se stesso, e fa
gittare dalla mi¬ sera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo
animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor
della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima che le infinite
difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, « sono ricompensate
abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi
egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricor¬
danza che essi lasciano di sé ai loro posteri ». Ebbene, questa
gloria, che già non arride all’anima, quando natura gliel’addita, questa
gloria abbelliva pure agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in
cui gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso,
potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza fama », come dice
il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser « nato alle opere virtuose e
alla gloria ». Questa gloria, che è il premio della grandezza e la
sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi
quanto più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno
infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli riecheggia la
lode stessa che il grande tributa egli alla loute e fondamento di
piacere che una vana curiosità, la soddisfazione della quale ha pur molta
forza di dilettare: cosa che per Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore
l'ultima scintilla, io non potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza
nella coscienza felice del suo genio. La sua sostanza è veramente in
questa lode interna e soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che
si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde il genio
vede illuminata la propria opera. Leopardi, nudrito la mente dei concetti
classici e delle idee mate¬ rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà
di questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da
tutte le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in
fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in
faccia al problema del valore tuttavia superstite della grandezza
spirituale, veduto in questa forma; l’anima grande e infelice è destinata
essa alla gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che
ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il Farmi, che tante
difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente
nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire mèta
inattingibile. Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande
non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo
forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬ tura stessa lo fece nascere
alle lettere e alle dottrine. Dileguata quest’ultima consolazione,
la sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo,
quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga da
quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane allo
stanco spirito umano ? Vivere infeUce ? Dovecanterà: O
speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre,
parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar
d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son
la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un
frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa. In te, morte, si
posa Nostra ignuda natura. Lieta no, ma sicura Dall'antico
dolor. La risposta viene dai morti, che si sveghano per un
quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro
sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono immortah; senza speme, ma
non in desio, come le anime del limbo dantesco: Profonda
notte Nella confusa mente Il pensier grave oscura; Alla
speme, al desio, l’arido spirto Lena mancar si sente: Così
d’affanno e di temenza è sciolto, E l’età vote e lente Senza
tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza senti¬
mento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in
cui si può giungere in un languore di sensi senza patimento, com’ è degli
ultimi istanti della vita, quando sopravvive solo un senso « non molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del
sonno, nel tempo che si vengono addormentando ». Dolce morte hberatrice !
Ma prima che la morte ci abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come
Filippo Ot- tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate,
s’intrat¬ teneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente
ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra
qualunque materia gli era sommini¬ strata dall’occasione ». E per tal
modo filosofava sempre. non per farne trattati (ché, al pari di Socrate,
non credeva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^ in
formule che non risponderanno piti ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per
intendere senza pregiudizi e senza illusioni la vita, e adattarvisi da
saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza:
non ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo r
ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e morrà senza fama,
ma « non ignaro della natura né della fortuna sua »>. E con la sua
pacata magnanimità e la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di
Socrate anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sa¬ pere,
e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri vuol essere quasi la
filosofia delle Operette fatta vita e persona. Ma, oltre la
filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ? Sì : c’ è la rupe di
Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata sull’oceano
.stermi¬ nato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando
all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha
posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione
eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo,
e far guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte
non ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere
il Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa
coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé
l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo
Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al
guizzo d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle
campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e
lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie
cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e
rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col
canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che
non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che
ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali
il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬ creare
gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ;
donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a
maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che
il poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi, che è già
appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo,
essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia
della loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.
E un favoloso uccello, il Gallo
silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi
piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico
vi¬ brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita,
attenuando bensì il tono della lirica precedente, c smorzando
l'entusiasmo, al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima
del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose,
e la morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta
infaticabilmente, ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca
sensazione del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin-
francatore. Sensazione già nota al Poeta: La mattutina pioggia,
allor che l'ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella,
ed al balcon s’affaccia L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I
suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti,
e il primo Degli augelli sussurro, e l’aura fresca, E le
ridenti piagge benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali
dal sonno; « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e
parton- sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della
vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio,
meglio dormire, e non destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. «
Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo,
c canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo, il
primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi
in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e
lieti; ma quasi tutti se ne La Vita solitaria producono e formano di presente;
giacché gli animi in quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e
de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono
disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se
alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro- vavasi occupato dalla
disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza,
quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la
spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella
disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita dell'universo al
giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che
muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se
ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura sarà
spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio
immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina e giovanile non è
distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più
tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e
la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬ tino, e la speranza
risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo
gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si può secondo il
Leopardi, quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬
scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche la speranza della
gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu
ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio, e attratto
nell’orbita del se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano
e il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬ fiutò e
gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto,
innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e
di un'Anima e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine
del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione
metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬ gatosi su se medesimo, diede
della propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie
cosmolo¬ giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da
pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni
concetto pessimistico del Leopardi; onde si tenta suggellare, nell’
intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa,
e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano
mirabile e spaventoso ». Si noti che il Sallustio fu
conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche nell’edizione di
Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi
dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che in
questa edizione invece non potè entrare il Frammento di Stratone molto
probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti dalla materia
di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che sia tra
le Operette. 11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu
scritto verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬
tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin
d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse disordinato
il disegno simmetrico del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi
fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze due
anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad aggiungere alle
prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del Frammento, appena
l’autore crederà potere e dover tralasciare il Sallustio, e
sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il
Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L., perché
gli parve troppo scolastico e di materia non [ abbastanza
originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano conformi al suo
filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso valore artistico »,
osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva
dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità.
Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche per
rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il
Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e
per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al L vero
questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà I pentito
delle parole crudissime che usa parlando della I libertà e della patria.
È ben vero che anche altrove egli f lamenta la mancanza d’amor
patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il Sallustio, in questo
cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette:
logico nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei
sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta abbraccia in sé e
contiene, e tempera quindi e solleva a un suo particolar significato,
siffatti pensieri. I quali non sono qui un sistema filosofico astratto,
ma l’alimento segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una
poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità risuona
all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un amico del
poeta, il Montani i, appena I operette morali di L., ’
Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche
incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in
teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso
dal vero, trovar men bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi
meraviglioso ? — Quando VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio
dell’operette del L. ancora inedite.... io non ne fui che leggermente
colpito; mi mancava il motivo della musica. Intesone il motivo, al
pubblicarsi delle operette insieme unite, mi parve d'aver acquistato
nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a
Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava potè leggere tutta la
collana delle Operette. Questo rrio tivo fondamentale facilmente si
riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua
naturale cor nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del
genere umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto
estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte le altre, ad
eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re qua e là s’insinua a
frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a quello spirito, che si
può definire con le parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo
in una lettera al Giordani (del
tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo
termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬ nere degli studi
che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono
mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa
di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più
fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio
di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e
delle cose, e di inorridire freddamente, speculando questo arcano
infelice e terribile della vita dell’universo ». Lo stesso animo, non
altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬
tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i
fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di
del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del
suo amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L.
sono musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più
d’una osservazione notabile. SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G.
Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mounier, (si ricordi il Cantico del Gallo
silvestre)] Della prima stagione i dolci inganni Mancar già
sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso immagini, che tanto
Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e
piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto
sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario riso. Né
degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e
piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando
mi fia Ogni bel tate o di natura o d’arte. Fatta inanime e
muta; ogni alto senso. Ogni tenero affetto, ignoto o strano;
Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’
io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò.
L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortaU E
dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo Verrò: che
conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi diletti il vero.
Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare, scoprire,
frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto
irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel caldo ancora dell’opera,
poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno
dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente
che il suo petto sarà forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito
e freddo; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma
non è ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire
e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un
desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile,
poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto
senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené e
proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Elean- dro; dove a
Timandro che, secondo la filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del
progresso di cui egli è capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista,
che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della
Ginestra protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia
sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare,
ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva
Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda,
né forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi
vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di
natura, e il meno che mi è pos¬ sibile ». Dove ognun vede che realmente
certo invinciliile pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza
delle sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò sono
solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di
patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei
costumi, credo mi possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella
alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e
irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto
irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io
ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di
quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di
noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, [Ed ecco perché,
scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare, come aveva
pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era davvero
quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore
poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni, e
perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle immaginazioni
belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta; le illusioni
naturali dell’animo ; e in line gli errori antichi, diversi assai dagh
errori bar¬ bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia
». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste
illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del
Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese,
— come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza;
ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta.
11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella
natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola
un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a
quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire
fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra
della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non
semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così
nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle
Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria,
rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente
una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei
mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’
intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i
quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più
IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun
altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia
appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità,
propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo
a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto
travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano
essere, quanto a se, indegni della sciagura universale». Tacciono tutti
gli altri Dei¬ ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste,
«questo massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i
mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della Verità ». Di
rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è
generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la
sua lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la
sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità del
vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. « Quando viene in sulla
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih delle persone più generose
e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì
pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e
di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova
nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.
Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro
a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue;
benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa:
ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi;
perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve
intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo
nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo
ai migliori tempi. Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur
freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda
(iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità (quella mezza
verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né altri
egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si posa, dintorno a
quello si ag¬ girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve,
già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce
per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere
vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e
nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura
dei geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica
non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale
mette in cuore il bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a
Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e
ringa¬ gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo
Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi
esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo
voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia.
Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e
rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e
le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti
c incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì
lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode
i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe:
tanto è da natura magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è
satira, né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa
del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di
Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore
tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel
gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad
ora in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo
e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi
divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose
nobili e alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto
verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana,
questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla
Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers
entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour
le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore
plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et
l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la
grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il
Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il
concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬
biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la
pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è
minima parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in
questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente
sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e
perde quasi se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si
trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora
con que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova
della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua
mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées,
(Brunschvicg). è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose
tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬ tener
col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Questa
coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il
Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui
queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro
insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a
questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che tutte le investe e
compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è negazione fredda,
senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato
da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo parmi
il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. VII.
Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede
il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime
Operette già formanti un orga¬ nismo, r ispirazione non era punto mutata.
Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso
autore, la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando un’
idea che contro i Timandri medievali attardati aveano già nel Cinque e
Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi
sistemi] donde la conclu¬ sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro
dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di
tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬ nevole
uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da premesse, che
son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro,
Plotino. Ma Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più
profonda più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^
1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^ atto fiero e
inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo. Perché contro natura
e contro umanità il suicidio ancorché conclusione di logica inesorabile?
Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh ragione. E
dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e deU’universo; la
quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici,
tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati
noi coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬
rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine
misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra
infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E
quantunque sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la
jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla né siamo
noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte
dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai
non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo;
veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di
continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai
dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha
prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e
la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non
è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nulhtà delle
cose, della vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio
del mondo e di se medesimo, che possa durare assai: benché queste
disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il
gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di
qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di
dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo
senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che
non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole e di Atlante
fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel
Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬
pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla
natura e da questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è
sempre amore per il Leopardi. Giacché non la sola natura ci riattacca
alla vita, sì anche un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:
« E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi avere alcuna
considerazione degh amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei
frateUi, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,
bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro dolore
alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno
essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del
caso ? ». E dice la parola, che si va cercando attraverso tutte le
Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma-
Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo «senso
dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come principio di
redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni Negri, nelle sue
Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99), passim, e
specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto mancante ai funerali
della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero,
colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno
degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta per così dire,
dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in
questa azione del privarsi della vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità;
perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se
vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma
la vera vita è non sembianza, sì verità di beatitudine se è amore, in cui
l’uomo non distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se
stesso. E questa è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L.,
che non è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma
questo amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del
nostro cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto
dice al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non
ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali
della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e
andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;
per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». Questo amore,
che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce
l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E
quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in
quell’ultimo momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci
rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così molte volte ci
ricorderanno, e ci ameranno ancora ». Vili. Amore è la
prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una
ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel
primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore
d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che
ri¬ comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il pas¬
seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione a quell’
impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella
vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che
non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che
si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di
questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque.
La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta
quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la
vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬
pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle
Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo
silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è
evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché
fu¬ turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce
ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi
a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita
resta sempre con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una
mi¬ seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro
cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una
beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova della
sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo;
non però luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma
vita del cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà
parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno.
A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille
invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo
guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra
che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva.
Leopardi scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più
l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino
alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1
Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla, Dolce a
veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo
Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via
mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte
sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si
sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un
deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede
ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei
terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al
tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai.
• Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o
dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di
cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi
abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le
penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora
Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. La
morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già
Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel
vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio
caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a
me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo;
e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario
». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più
vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra
cosa.... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora,
il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho
invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro.
Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli
né potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della
morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già
allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a
quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare
senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del
dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la
natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il
suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore,
e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte
di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge
desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che
dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'. Amore
figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero
della domenica, poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A proposito
del Leopardi toma sempre in campo la questione delia differenza e del
rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per
certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma
più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo
pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle
poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in
cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la
verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso
una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si
sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna
delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma di
scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva
commozione, in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette
come nei Canti. La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non
po- tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più e di
meno: affermando che l’elemento filosofico predomina nelle Operette, e
l’elemento hrico nei Canti. E si crede così di salvare la tesi generale,
che bisogna rinunziare alla filosofia per esser poeti, e viceversa:
giacché la loro natura è così diversa e ripugnante, che l’una non
può esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io
non voglio ora affrontare la questione, che potrà sembrare tanto
teoricamente difficile e dehcata li. — Gkntilk, Òfamoni e
Leopardi. quanto praticamente
inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la questione di principio è
priva d’ogni interesse, perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è
indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o
ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce
se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade
l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più
alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in un
sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia che non vuol
dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta
vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento,
incapace come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di
superarsi. E, cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde
nella divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore
a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di
formulare. Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più
attenti della sua poesia — questa ha pel poeta un conte¬ nuto
pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto ottimistico. La vita
infelice, necessariamente e fatal¬ mente infelice, è ciò che il poeta
aveva innanzi agli occhi, vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché
quella \nta che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli
occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni poeta canta non
la vita quale egli la vede, ma il cuore con cui egli la guarda; e poiché
il cuore di Giacomo Leo¬ pardi era, come egli disse una volta, nato ad
amare, ed aveva « amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò mai
cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo I Vedi ora
il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos- Hai., e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze,
Vai- lecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di
do¬ lore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,
redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il
primo vede la vita quale apparisce nella natura considerata dal punto di
vista materialistico, brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello
spirito, chiusa in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana
biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme alla
sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede nello spirito, nel
valore de’ suoi ideali, e nell’energia dell’amore che sola è capace di
reahzzare un tale valore. 11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo,
per cui il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬
l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è quella che
risponde alle esigenze dell’animo. E la verità è questa: che il Leopardi,
pessimista di filosofia, e ijuasi alla superficie, fu invece ottimista di
cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col
progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista.
Basta confrontare la canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime
bellezza della sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione
si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera effusione di un’anima
angosciosamente agitata da un bisogno di amore universale e da un’
incoercibile fede nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la
filosofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua
iniziale visione pessimistica; e continua a dire che la sua è sempre la
filosofia del Bruto Minore^-, ma l’anima, che non perviene al concetto
filosofico di quella ' storia del genere umano. -
Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema realtà,
raggiungo bensì la forma poetica della sua espressione in modo
pieno e perfetto. Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo
scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre nell’
invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri
che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,
disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma delle sue
idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della materia, per
evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità
coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e
si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima per
vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande:
ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone e suscita
un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che in
Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima,
che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬ nità.
C’ è insomma il poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo
di avere definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬
testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso il Leopardi, e
con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti
legami onde le singole operette sono congiunte tra loro per
graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal
primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un
tutto unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si
conchiude tra un preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e
non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬
nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti
capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo
tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il
sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi
in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale
sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e
questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in
due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a
svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto
confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione
che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto
mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo
abolito allora perché infatti non armonico né col gruppo, né con
tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non può avere se non
una importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse voluta e
curata dall’autore. Il quale egualmente non volle mai rispettare l’ordine
cronologico nelle edizioni da lui curate dei Canti, e diede loro un
ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed
inter¬ preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso
che tutte e venti le operette furono scritte successiva¬ mente, l’una
dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e hanno tutte un prologo
generale e un unico epilogo, dimostra evidentemente che i loro singoli
gruppi non si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi
formasse un tutto a sé. La distribuzione del nucleo principale
delle Operette in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un capitolo
introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a
renderci attenti per leggere le varie parti del libro cercandovi tre
motivi fondamentali che nel pensiero deU’autore si fondo no in un
solo ritmj complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in
questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che fino a ieri si
leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro capitolo, come se ciascuno
stesse da sé. E non occorre dire che ci vuole discrezione, e non bisogna
pretendere un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione
di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬ vuto introdurre
una prima e una seconda volta nel corso della sua unica opera.
Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor Faggi ',
quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello che resta collocato alla
fine del primo gruppo e da ser¬ vire quindi come passaggio al secondo, mi
domanda: « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è una
affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde
si conchiude che, assoluta- mente parlando, il non vivere è sempre meglio
del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il primo
gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno e Farfarello e il secondo
aperto da quello della Natura e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il
pensiero dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno
quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al prin¬ cipio del nuovo
ciclo; e tra i due dialoghi successivi non un salto, anzi un passaggio
naturale e come insensibile ove non si osservi che quella che nel primo
ciclo è una constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel
se¬ condo ciclo il problema. Il Faggi, tratto forse in
inganno da alcune parole [Una nuova edizione delle fn Operette movali n di
G. L., nel Mar¬ zocco -- da me usate incidentalmente, mi fa dire che la
diffe¬ renza tra primo e secondo periodo in questa trilogia delle
Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel primo « r infelicità
del genere umano si considera parti¬ colarmente nell’età moderna come
effetto più che altro della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà
», e nel secondo invece, « questa infelicità si considera come
legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del mondo in genere»;
sicché «la Natura, che nella prima ipotesi apparisce fonte in se ancora
inesausta di vita e di fehcità, apparisce invece nella seconda vero
principio di ogni male e di ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota
differenza osservata dallo Zumbini tra la prima fase « storica » del
pessimismo leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non
corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indi¬ cata, tra il concetto
del primo e quello del secondo gruppo delle Operette. Nel primo, io
dissi, l’animo del poeta vien posto in faccia alla morte e al nulla : «
ossia al vuoto della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché
degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,
coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni
giorno più con la civiltà, con l’irre¬ quieto ingegno, che assottiglia la
vita, e la consuma ». Qui il pessimismo storico è già superato, e
Malam- bruno può dire che « assolutamente parlando » il non vivere
è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la vita umana, fin da
principio e per sua natura, è senso, coscienza, e si è strappata a quell’
ingenuità istintiva e affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può
pa¬ rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul-
htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una colpa dei
degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬ mento progressivo di
coscienza e di pensiero. Ma in realtà, fin dalle origini, insieme col
sapere, che fa uomo l’uomo. c’ è già il dolore, ed il destino
dell’uomo è fissato. Ma- lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla
fine del primo ciclo. Il secondo ciclo ricava la conseguenza
pratica della verità scoperta nel primo. E si apre infatti col
Dialogo della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione del
dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso e perfezione consiste
nell’acquisto di sempre maggior copia di sentimento che gli fa sentire
sempre più acuto il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è
meglio spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e
farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia
mai prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità, rinunziare a ciò che fa il
pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente,
che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi
alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita
aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il
secondo gli fa sentire il de¬ stino a cui gli conviene di rassegnarsi,
rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che
sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è
una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che
consegue dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere
quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però la conclusione
del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo canto di Saffo, ma con la
Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto
nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo: che
quella vita che certamente non ha valore, perché è dolore e perciò
negazione della vita che noi vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e
incoercibile dalla sua stessa negazione. La \àta è
abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le
lusinghe della gloria, la stessa contemplazione della morte liberatrice,
porto sicuro da tutte le tempeste, come la cantano i morti di
Ruysch, attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere
con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi
in cui la vita si perde e si riconquista col gusto di una cosa nuova, e
in generale attraverso l’attività, il movimento, la passione e la
speranza che non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore
che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia, quello che la natura
ci nega anche nella piena coscienza della propria infelicità fatale e
immedicabile, vive e sente la gioia d’una vita che trionfa del destino
fatto all’uomo dalla natura. Una soluzione dunque del
problema della vita nei tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una
filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si do¬
vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei primi due cich è,
senza dubbio, quella per cui l’anima dello scrittore si avvia e
spontaneamente e vigorosamente procede nel terzo; ma questo non è una
dottrina, bensì 10 slancio naturale dello spirito che risorge con
tutte le sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,
in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Leopardi
sente bensì e vive la verità superiore, ma non riesce a darle forma
riflessa e speculativa. Egli spe¬ rimenta in sé ed attesta coi moti del
suo animo la po¬ tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’immagina
scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza tirannica e feroce
di questo brutto potere, e vive, e gusta la gioia di questa sua vita in
cui consiste la realtà dello spirito. E in questo balsamo, che il suo
animo sparge così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate
inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in quest’ idealità
che sopravvive a ogni negazione, qui la personalità, qui è la poesia del
Leopardi. Così, ripeto nelle Operette, come nei Canti. Si
rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si conchiuse da prima tutta
la serie delle Operette-, o il di. scorso di Plotino, con cui il libro
tornò ad essere suggei. lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è
possibile, che il centro e l’accento principale dello spirito
leojiar- diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,
agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed
eroico, instaura un ordine morale inespugnabile a ogni riflessione
scettica, e superstite infatti (coni’ è detto nella Storia del genere
umano) a quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal
sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L., come quello di
Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi vi si stringe vieppiù, e la
trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta, per quel che dice appunto
Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna considerazione degli
amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei
genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali
siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo, bisogna lasciare per
sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione;
né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la perdita di persona
cara e consueta, e per l’atrocità del caso ? ». Questo non è un argomento
filosofico, ma un cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente
come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed espande
nell’amore. Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬ sor
Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle Operette ? Ecco:
che la Storia del genere umano faccia consistere tutto il pregio, la
bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia così chiaro
dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo che
ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che amore sia
l’ultima parola del libro. Non gli pare che sia nella prima forma di
questo, quando finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né che sia
nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo
di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro, egli dice, « non è
amore : tant’ è vero che questo dialogo dovea dapprincipio intitolarsi
Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere
il Leo¬ pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe potuto
vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬ l’autografo) cotesto
titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo
fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto
fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto
di Mist'nore è puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in
Eleandro: in chi cioè non si oppone propriamente all’amatore degli
uomini, ma si oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita
d’esser detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma
della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬ dronirsi della
feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo vantato e millantato dagl’
illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo secolo: l’uomo
dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima
della natura e però degno di compassione. La compassione non
è amore; certo. Ma ne è la ra¬ dice. E perciò Giove, mosso da pietà,
nella Storia del genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché
solo l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice; e
se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che gli si sprigiona dal
più profondo del cuore: «Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto
affetto quanto può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non mi
vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie stesso, per necessità di
natura, e il meno possibile»- l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla
coerenza del si' sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone
al dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce subito
continuando. Con tutto ciò sono solito e pronto a eleggere di patire
piuttosto io, che esser cagione di pa¬ timenti ad altri ». E questa è
compassione, che è pnrg una sorta di amore. Che se Tristano non sa
più pensare se non alla morte questa morte (come credo di aver chiarito
abbastanza col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore
fio¬ rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione della
vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la bellissima fanciulla
che Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente;
la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco
desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso affetto. E r
ironia, così nel Timandro come nel Tristano, non è rivolta contro la vita
confortata dall’amore, bensì contro quel volgare ottimismo che parla il
fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che
per leggere Leopardi non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma
al modo piuttosto in cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui
propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore
della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come poesia
che come argomentazione. E perciò non posso accettare quel che il Faggi
dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli
uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al
secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza dubbio....
una ricostruzione; e, per questo lato. vale il Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, « non
dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro
mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano
infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo Genio
familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande Genovese nel
suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di fuggire la
noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto
non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo a
Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per
lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa
pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬ versazione col suo
Genio, che, si può ritenere, il consigUo da questo datogli di ricercarlo,
ov’ei lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e
due, tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non con
altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo
se ne può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina
in sullo svegliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota
fondamentale dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo
spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che, come
io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto col titolo di Salto
di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬ logo va quindi cercato nel passo
che segue alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU
antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-
dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella
marina, e scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla
passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero
questo effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno
per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo avuta cara la vita,
che prima avevano in odio; o pm-g avuta più cara e più pregiata che
innanzi. Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli
che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore
assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a
ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬
pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto
giudico che la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e
pregio come da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la
vita è l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai,
ma la gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme
sfug¬ gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene,
appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è
questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per
vincerlo. Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta
il piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero
prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua sorte, e lasciando,
com’egli dice, anche da parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia,
di cui egli può parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il
destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo della
natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo: « A me pare che la
noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli spazi
interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna
di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,
quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana
frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però,
come nel mondo mate¬ riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto
alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la
mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per
tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come
disgiunto dal corpo, si trova con¬ tenere qualche passione; come quello a
cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno
di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e
il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo
Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella
convinzione della sua immedicabile tri¬ stezza: «Senti. La tua
conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia
tristezza, ma questa per la più parte del tempo è come una notte
oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno
dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti
possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di
abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in
qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un
consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della
Giovanna, che ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del
Tasso l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,
per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile all’angoscia
desolata che vi è sparsa dentro, non può significare altro che un
realistico strappo che 1 autore vuol dare alla stessa poetica illusione
consolatrice del- r infelice prigioniero. E porgendo
l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io credetti di poter dire
1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno
petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto di gioia.
No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli un’opera non
d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché questa sia
ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non
intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no
litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto estrinseco del
ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto di gioia ».
Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è
poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo
suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli
uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia
voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi
ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci
ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre
scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione
mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una
mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza
essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere
creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. E del resto a
quella conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro
intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬ ginazione beta o serena
in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli
uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella
tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze
delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della
storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui
espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a
questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella
Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli
uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della
natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla
voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’
intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E
in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse
popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e
diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli
uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e
contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di
un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che
vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la
vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo
soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. . — GENTILE,
Manzoni e Leopardi. no e vengono di continuo senza necessità veruna ;
usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen
tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul
vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un
luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬
sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare
dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e
freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel
desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco
di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi
la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr
dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo
pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore
assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero leopardiano,
postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata
perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno
restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non
sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non
sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di convincere!
A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬ dere
quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che
rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere
convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il
poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non
sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui
sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a
barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui,
come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso
del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non
cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa
azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,
o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬ simo che si trovi
al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del Palazzo
Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello
stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di
commemorare un poeta è quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo
animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli
elementi della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella
di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali
questa vita si svolse, le idee stesse che egh accolse e che professò, le
correnti spirituali ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono
semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le
quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬ tografia, rimangono
appunto generalità, riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una
determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca
da vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.
E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di cui
l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di questo
mondo, col suo modo di reagire a questo mondo che era il suo, raccolto
nel suo pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello
stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso luogo e quasi
cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi
con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere
magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬
mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse idee, ed essere
come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad
entrare nel suo intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa
dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr
nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente
l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita,
spia e riesce a scoprire atti e nelle parole delle persone che frequenta.
Quest dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in verità
tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa è, ma quale è
sentita e perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io:
il soggetto, che è la base d’ogni individualità umana. Qualcosa
d’inaf¬ ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta se
non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni del carattere,
nel complesso degh atti e delle parole, che formano la trama della vita
dell’ individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla
sua circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela
nella vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del
poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se non jierché riesce
a stampare una più profonda impronta di questa segreta potenza nelle
espressioni del suo essere. E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati
della moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita
l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa il suo universo; e
quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù sua
onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa
scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune
esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto
ciò che può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si cela nella
sua anima. Nel caso di L., quanto difficile cercarla e tro- v'arla
questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò s e girato e si gira
tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un
secolo e più conquide tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che
sponta¬ neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma
studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni,
alla luce di mille sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata,
tormentata dalla preten¬ siosa volontà indagatrice della critica,
impegnata per lo più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli
sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione
anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla intelligenza
riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una
definizione. Negli ultimi tempi vi si son provati critici di
grande levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non
disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente
alla comprensione della poesia leopar¬ diana; ma solo in quanto ne
scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la
verità, che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho
creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui effetto è questo:
che il critico non sente la necessità di risalire sino alla sorgente da
cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere
l’unità della sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei
motivi in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e le
prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco a dirlo, non c’ è
poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è una filosofia per modo di dire.
Lambiccatura di cervello che si sforza di dimostrare sistematicamente uno
stato d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato
d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero e profondo
sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo, sofistico. Né filosofia,
né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono
strofe o versi in cui il poeta trova se stesso e parla serio e
commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano
e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci col calore e la
passione della vita che ogni uomo vive e sente. Ma ci sono negli stessi
canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche
non meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-
torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e non si
dimentica nello schietto moto della sua anima Manca qua e là negli stessi
canti più felici il caldo di queir ispirazione, che s’apprende
immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo
che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure fisiche e le
tristi condizioni personali gli han lasciato aperto sulla grande scena
della vita, e vien meno il poeta che accoglie beato nel suo petto la voce
naturale del mondo e il vasto respiro delle cose. — £ fortuna se
alla prova di questa critica si salva qualche frammento della
poesia del Leopardi. Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare
questi critici a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie
della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬ tenente i soli
pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia. Temo che al fatto questa
antologia riescirebbe estrema- mente difficile, se non impossibile:
poiché non solo il significato di ciascun verso risulta dal contesto a
cui appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso del
componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un accento, in cui è la
sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel ritmo
dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se
si crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella parola
che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la fondiamo in un nuovo
nesso, in un ritmo da noi creato, in cui non è più la parola di quel
poeta, ma l’espressione del nostro animo. L. non è soltanto il poeta
degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della
na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore del
mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a
notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso alle fanciulle
innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad
ora ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza
dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri;
ed è Colombo e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio familiare;
ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto «
mezzo tra bello e terribile »; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra
coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie del
suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso
dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né inteso, si
dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel
sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero e della vanità
dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde gh
uomini vincono ogni travagho c gustano una beatitudine divina,
ancorché confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento
nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e
i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le
armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera
infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza
pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la disperazione
di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla perversa fortuna e
lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei
superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli
si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode di cedere
inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno fato, e in cui anche il
virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra il velo indegno, di
emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che
si leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo che
conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si compiace
d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle mortali e delle eterne
cose] e trae gli ozi in questo specu¬ lare. E in fine l’uomo che si
rifugia con questo altissimo sentimento della invitta potenza del
pensiero umano nella rocca inespugnabile della noia: di questo che
egli dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani »,
poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per
dir così, dalla terra intera; consi¬ derare l’ampiezza inestimabile dello
spazio, n numero e la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto
è ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero
dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il
desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e
sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire
mancamento e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬
dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >. E perciò
anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione, può giungere a fermare
in se stesso ogni desiderio e ogni moto, a disprezzare perfino se stesso,
come la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V
infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e
amare in una donna mortale la Dea della sua mente, pur vedendo ormai
nella propria vita una notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare
al suo fato Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella
coscienza di se medesimo: su l’erba Qui
neglùttoso immobile giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e
sorrido. Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi
della poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’
idillico che è la prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì
elementi di una poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del
Leopardi. Nella quale quella prima forma è solo uno degli elementi
del dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia
leopardiana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base del
Leopardi poeta. Ne risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario,
nello Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi
conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi r intese e lo sentì,
rileggete l’ Infinito, quei quindici versi che gittano la fantasia del
Poeta al di là della siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e
profondissima quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono
in sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le piante e
il suono delle lotte e delle fatiche umane: Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’ è dolce in questo
mare. L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo
si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che dice alla sua greggia:
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e
contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello
stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un
fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che,
sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’
Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che
sottopose Vuman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e
attribuisce all’ irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi
dolori. La noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero.
Finché la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬
cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti moti, e che
sia Questo viver terreno. Il patir nostro, il sospirar
che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del
sembiante, E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata,
amante compagnia; egh può esser queto e contento come la sua
greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene
fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né
contentezza né pace. Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non
c’ è grandezza. Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima.
Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo
ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai
« nuovi credenti » che non credono al dolore: A voi non tocca DeU’umana
miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a
noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter
concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e
poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se
talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni
cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa. Noia non
puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben nate. Ma se il
pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e
pensiero. E anche questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la
stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e
nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita;
che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si
dimostreranno al cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa
risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen
sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che
si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e,
scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore
umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che
l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli
simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del
benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero
naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.
Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva che è propria
di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia sconvolta o
turbata dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo, così tutti gli
spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del
genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata dalla
fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al mattino sul
primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo
periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il
gallo silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in
sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-
ma quasi tutti se ne producono e formano di presente perocché gli animi
in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata,
inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli
altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto
dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi, accetta
novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se gli
convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e
d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo
contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce
l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza
dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più acuto quello, tanto più
grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente la fede nella
vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o
giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del
Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco e della
opposizione, che è il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si
può dire, dalla stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione
non avrebbe mai il suo significato lirico se non corrispondesse a
un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella
agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo
cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato affetto di
Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto
negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo
raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in
su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi
fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi miei. Del resto questo
molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano
desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo.
Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi
ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando
il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il
tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar
giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o
d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira
dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di
questa natura di cui ella si vede prole negletta: , Bello il tuo
manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. A me non
ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor;
me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure
saluta: e dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido
rivo il puro seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe
Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge.
13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi. Bruto minore, fermo già di
morire, percote l’aura sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se
ne odono di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,
E l’inquieta notte e la funesta All’ausonio valor campagna
esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i
poggi, dalle somme vette Roma antica mina; Tu si placida sei
? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti
vedesti, e i memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato
raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del .servo italo
nome. Sotto barbaro piede Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l’augello.
Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina ignora e le
mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del
villanello industre. Al mattutino canto Quel desterà le
valli, e per le balze Quella r inferma plebe Agiterà
delle minori belve. D’altra parte, fin da quando il Poeta
ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente giovanile
della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre più
risentito e dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo petto,
grave, salda, immota Come colonna adamantma, quella noia
immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E nello
stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e grandi
idilli che altro, in¬ fine, si canta se non il dolore ? Dolce
e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo
agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O
donna mia. Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce
la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue
chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel,
che si benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E
l’antica natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se
non di pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi
e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo
sfondo del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la
speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime.
L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna
sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e
sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io
speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna.
Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua
nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione
che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il
core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma
non lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa
malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna,
rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta
tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e
gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia
fredda del suo cuore de¬ solato. E altrettanto si i)uò
osservare di tutte queste sue poesie, che il Leopardi stesso definì
idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso e
vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo
periodo della Vita solitaria che comincia; La mattutina
pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La
gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che
nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta, alla
capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i
lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico; per rivolgersi subito contro le
cittadine infauste mura, e per concludere; In cielo.
In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il
ferro. Principio idillico, conclusione tragica. Tragica
quanto è idillico il principio. I due termini si corrispondono e si
congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione
e l’amore per la natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per
la forza ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er
la patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende
amabile e santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue
delusioni. Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa
gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in
cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente;
chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad
esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale
degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non
potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa
vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto
il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto, non
amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte
del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è
gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui
incanto è caduto, risorge nella sua me¬ moria e nel suo cuore superba
visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e
presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,
che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo
ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e
signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme di
fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro tratto
dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è potuto
parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so che
sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa che
nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici del
frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale
e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia, che
abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei
due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello
spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel
momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li
solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\
ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la
vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e
fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del
valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e
adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia
leopardiana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e
soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana
esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte
le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo
stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di
nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla
nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la
fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e
dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta
d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose
acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che
questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità
dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di
quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde
il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità
sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui,
si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa.
E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più
aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.
Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità superiore in
cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al
canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e
nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora
egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è
contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora
egli, piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende
l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬
taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a
conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino
ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non
cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se
medesimo pospone al¬ l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa
uomini, è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O
non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe
al suicidio attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una
superiore, che ci libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita
e gli uomini che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non
è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier
dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età
mortale La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere
canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.
In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto segno dello
spirito del Poeta. Qui la sua poesia. Conunemorazione centenaria letta
alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata,
oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i»
lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla
morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ;
storia mossa e agitata da fedi e interessi in massima parte estranei
all’animo del Leopardi, anzi osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra
filosofia, altro uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così
impor¬ tanti, anche secondo il modo di vedere del L., da riuscire
un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi storici.
Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente,
imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia
giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche ambe le
braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra
le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del
Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia
ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia,
della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno,
di penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a
mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più
seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano
a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo contro gli
oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e
forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e di
patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande guerra
della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più d’ogni
altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda
dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬ fonda
rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova Roma.
Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui parlava
Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb
cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r ha portata
sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La bibliografia
leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano formate intorno
ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la
dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬
scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i casi della
sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano con le loro
alte cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a Pascoli, per
non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi
dei grossi tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside- sori
di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello
svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi che lo
studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto
che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬ vino da non so
qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate teorie e
appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di
costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi
materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o
da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei
rudimenti di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito,
ci sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso
le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della
espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’
ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia
che lo fa immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi
a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato
nel¬ l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per
raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva
della letteratura leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a
capo di questo secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia
stato prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno
dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della
più intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando
un nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e
mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e
acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva paragonarlo
allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il pessimismo
amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del poeta
itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬ derare;
non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la
gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non
puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che
non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non abbi ad
arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non
crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in
seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così
basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora
e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al
Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e
combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato il
Leopardi medesimo, in quel libro in cui più freddamente si provò ad
abbattere le umane illusioni, che agli occhi dell’uomo il quale si affidi
allo istinto dell’anima senza indagare il mistero dell’universo, fanno la
vita bella e degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali.
Dove esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita, non
disperazione, non senso della nuUità delle cose, della vanità delle cure,
della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo;
che possa durare assai; benché queste disposizioni dell’animo siano
ragionevo¬ lissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma
contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo¬
sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un subito, per
cagioni menomissime e appena possibih a notare; rilassi il gusto alla
vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane
ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche
cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al
senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo
dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché sente
di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con
tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a
eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬ mento agli
altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’ miei scritti
io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo dell’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di
(juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di
noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà
di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io contrario, lodo ed
esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri
nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e
privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e infine gli
errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con animo di
credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Così
continuava a pensare, da miscredente, sette anni dopo, nella canzone Alla
primavera, o delle favole antiche. Non si può credere al Poeta,
quando, raccogliendo il succo dell’amarissima esperienza amorosa
fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33
quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari inganni
Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia La
vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Ornai disprezza Te, la natura, il
br\itto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E r
infinita vanità del tutto. Momento satanico, ma un solo momento:
voce sì dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non può
ascoltare se non commista in armonia profonda a voci più alte che
sgorgano da polle maggiori; e che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo
petto come espressione più schietta della sua propria natura. Alla quale
egli non può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima di
quella poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬ tore nell’animo
un tal sentimento nobile, che per mez¬ z’ora gl’ impedisca di ammettere
un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre
spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di
questa forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a se
medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia di questo universal
meccanismo che regge il mondo concepito, come L. aveva appreso a
concepirlo, in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in
cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù, né per
l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza umana
dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e la fiducia nella sua
forza di contrastare alla natura, di dominarla e farne strumento di una
vita spirituale sem¬ pre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo
spirito del Poeta l’im¬ magine enorme e tremenda di quella Natura
disumana, che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo
audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta nel Dialogo
della Natura e di un Islandese: dove all’uomo che aveva fuggito quasi
tutto il tempo della sua vita per cento parti la Natura e la fuggiva da
ultimo nel- r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un
luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco che gli interviene
qualche cosa di simile che a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona
Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide da
lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni
prima neh’ isola di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era
una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato
il dorso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo
tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo
fissamente ». La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra
più che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui 1 ’
Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono l’uomo in questa
vita a cui non egli ha chiesto di nascere, risponde breve che « la vita
di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione,
collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬
tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre
che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ».
Intanto sopraggiun¬ gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’
inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese;
come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per
quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un
fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese parlava, lo stese a
terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il
quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬
mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non
so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo
della prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa
immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra una dichiarazione
esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero enorme
delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per
riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo socratico, che con
occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne
ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra e
al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine
dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto
improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dal¬ l’alto e sorride, e
sente la propria umanità superiore nell’ intelligenza vittoriosa e nello
stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che
dispregia n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del
destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse men duro un
male senza riparo o non sentisse dolore chi è privo di speranza.
No, Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il
prode guerreggia. Di cedere inesperto. È Saffo la
misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare il crudo fallo
del cieco dispensator de casi. A quel modo di emenda a cui
s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non
devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero
si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride;
Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui
neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e
sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si
allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece
battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa
eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita
delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su
dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei
casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri
infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville
e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma
involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra,
che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo,
che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo
nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro
al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar
s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con
franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal
che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini,
ma contro la natura che sola è rea: che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica;
e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé
confederati estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor,
porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e
nelle angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del
Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano
innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella speculazione
dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti, poiché
conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha suoi diletti
il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la filosofia del
Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello svolgimento della
sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della sua vita
avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno
nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno
alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana.
oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che
risorgesse la speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce;
non che si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.
Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ;
Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe
immagini So ben ch’ella discorda; 50 che natura è
sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual
egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri moti maraviglia
il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor
natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha
ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta,
gentile e pura. La sorte, la natura. Il mondo e la
beltà. Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se
tu vivi, o misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la
vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al
cuore del 2 i 6 Poeta Silvia, la giovinetta Silvia
splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa;
toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il
petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli
studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna:
Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti,
E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai
non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la
sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito
nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna,
della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura;
l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e
sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per
poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e
mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E
viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier
mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di
questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di
grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in
quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto
tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente e
infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro
eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli
perciò, com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i
grandi idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore
errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più potente
espansione e della lirica più piena e felice del Poeta, è la chiave di
vòlta di tutta la poesia leopardiana. Quando si legge la lettera al
Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra
della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e
sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si
svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando
misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo
»; non si può non essere com¬ mossi da questo prorompere di così alta
vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel centro
vivo più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende
l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e
dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in
solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di
taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si
volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba
o foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non
cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla
ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e
il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian
le membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete
antica Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si
scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così
accorato e pur così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo
funereo sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata
poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di
giogo in giogo. Più felice sarei.... Poiché il pastore
vede che la sua greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra
tutto, tedio non -prova, a differenza di lui, che non ha pace anche
sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la
mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni
animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel
seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con
l’irre¬ quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile
intrigo, in una fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del
Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la
pace e la gioia. Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni
che gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della
casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per
lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma
cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va
cantando, alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia
per la valle, mentre Primavera d’intorno Brilla
nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il
core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che
passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua
vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa
brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto
intelletto, come Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel
suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬
zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se
questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto
far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi
canti, e riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il
significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente del suo
irresistibile incanto! L. lo sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre
1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me provata nel tempo del
comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita, e nel quale
mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate
senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io
medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non
aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza deU’umano intelletto.... che il poter
l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare
della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così, a far la più
alta prova del suo potere dentro il genio dell’uomo. Il quale, pertanto,
in se stesso, infine, trova se stesso, scoperta che abbia la fonte della
sua vita: quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate
larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere e di morire, di
fallaci promesse e di v'ane speranze, al regno immortale della vita dello
spirito. E quando scopre questa sorgente, egh è veramente lui, il genio;
e sente l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza e
nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad amare la vita
nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti parole suggeritegli dallo
spettacolo del mondo esteriore in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile
gusto dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento del
proprio valore, quale si svela al contatto di quella natura eterna, in
cui è il suo principio e con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le
radici del suo proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo
mare. Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua
poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira
dentro; che gh uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il
lucido specchio che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza,
attraverso i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado
ogni disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o
ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità.
Piccolo libro, in cui un gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce
(poiché unirsi devono per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria
innegabile della vita e della non meno innegabile azione dello spirito
che affranca da ogni miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di
vivere. Piccolo hbro, sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come
tutti i libri in cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e
perciò faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto :
anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì non a brani e
frammenti, ma intero, affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua
bellezza e spieghi insieme la sua dolce virtù consolatrice e
animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze e pubblicata nel
volume di letture Giacomo Leopardi a cura di Blasi (Firenze. Sansoni).
Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni).
A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande poeta, o, che è lo
stesso, delle relazioni del pensiero di questo poeta con la filosofia, un
pover uomo, per discreto che voglia essere, si espone al rischio di
toccare un tasto falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime
parole. Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬
nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che ha tutta l’aria
d’una pretesa pedantesca, illegittima e affatto arbitraria : questa
ricerca di mettere quel che pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un
grande poeta, e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia
quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone degh astratti
schemi in cui ogni filosofia va a finire. Non già che i poeti non abbiano
anch’essi la loro filosofia, un loro concetto della vita, una loro fede.
Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la
vivezza e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita
spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma la propria fede
e la oppone ad ogni più meditata dottrina che si esibisca da coloro che
passano per gh autorizzati interpreti della filosofia; nessuno più di lui
è convinto d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le
altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si svolgono dentro
al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia
della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene
a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del
giar¬ dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e
le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le
ragioni di ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che
scopre le contrad¬ dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito
delle sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e
insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a
trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza della sua
personalità se a misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più
irriverente e ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi
uomini per guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano
scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto
in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per
il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale
rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le
scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù
numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche
l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ;
schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i
quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più
elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta
confidenza! Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda
dall’alto tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi,
per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso
come del suo tesoro. Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza
o signorile degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti
occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi,
così grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia,
sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti
gli uomini che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue
inces¬ santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.
Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano,
come questa che è nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e della
filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo
fosse ancora qual era da principio; consiste a correggere i danni ch’essa
medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe
sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la
som¬ mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla
filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo principio»:
«La sommità della sapienza consiste nel conoscere la propria
inutihtà, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non
fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il suo primo e proprio
scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco
a quello stato in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più
nitida forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi
delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di
Eleandro: «L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e
perfetta, si è, che non bi¬ sogna filosofare ». Nei
Paralipomeni degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita,
più amaramente dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual
di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte.
Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando
empie le carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno
o men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si
limitasse a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si
diverte a ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia,
dimenticando o ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii
guadagno intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si
ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in
questo modo: Quella filosofia dico che impera Nel secol
nostro senza guerra alcuna, E che con guerra più o men
leggera Ebbe negli altri non minor fortuna, Fuor nel prossimo
a questo, ove, se intera La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al
basso. La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è
quella teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬
listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo. La filosofia
imperante al suo tempo: non ogni filosofia. Anzi la filosofia imperante,
tutta ottimistica, presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana
per¬ ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬ bera
mente, proveniente, come pur quivi si dice, da quella
Forma di ragionar diritta e sana Ch’a priori in iscola ancor
s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi par vana. La
qual per certo alcun principio pone E tutto l'altro poi a quel piega e
compone; cotesta filosofia non è satireggiata qui
propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole,
da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e
debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par vera. Neanche
si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in
tutte le sue forme e in generale, quando osserva che anch’essi,
questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro
filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la sua
filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente professa
di averne due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua duphce
filosofia si rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi
filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che
s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una filosofia infarcita di
luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano
le scarpe e non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a
braccetto una critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non
meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però
della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione
di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta
ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui
lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del
quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile.
Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il
suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può
vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che
innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e
reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e per ciò
non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno,
è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi.
Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse
partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono
pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai
abbracciare al suo petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più;
perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa,
natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che
fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli
ha la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore
che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito
da Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser
quella, che non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il
senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna
beffarda della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo
stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima
della sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che
alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla
moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e piccolezza
della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli ha concesso
che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la filosofia; ma
deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo frutto di
spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo fondamento
della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh dal procurare
il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono la sostanza
di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte
degli uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere
ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non
possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba
estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare, come s’ è
detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente
è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non fa di bisogno di
essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima
conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che sia,
non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini
dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più facilmente qualunque
altro abito che quello di filosofare ». Non si può mettere in
opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la conclusione
perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra,
falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella
che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi resta confitta
incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme con essa e al
disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e degna
dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità
? Se per verità s’intende solamente quel che si conosce per mezzo
deU’esperienza e di quello schietto ragionare che s’appoggia sempre ai
fatti osservati, questa della filosofia superiore non è verità, ma
esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda natura, che la
filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà mai a spegnere. Ma se
verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la verità assoluta, perché
messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi
fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non contraddire
alle verità via via accertate e sempre più strettamente connesse e
saldate insieme in irrepugnabile sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire
errori in sem¬ bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre
verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale a quella sommità
sia pervenuto; e quindi veda rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa
della sua vita primitiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza
ignara e fidente. L’uomo L. non può non filosofare; non può non passare
attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda
e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo
ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può
tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e
le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi
abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi
distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o forme, la prima di un
pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto
ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai
Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi
uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire
l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto
della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei
canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente
determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette
morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni
e nelle altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo,
che fu certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella
vasta onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per
avvol¬ gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi
per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi
ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene
apertamente attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali
cominciano col mito delle origini della umanità governate
dall’amore e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei
scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo,
o per consolarmene col riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e
s’è consolato e ora può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli
errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia. E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e
di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della
vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della
disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore.
Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E
contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello
Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi
credenti e insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia
leopardiana; voglio dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel
vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il
complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi
Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L.
di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te
s’awede. Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta
filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del
mondo, che giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto
quello che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno
attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo
al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi
dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori per
cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al
falso, o un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice
di bellezza che si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di
tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel
vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui
libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,
altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione ingenua e
fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si rappresenta
a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante
da infinite parti e particelle che si condizionano a vicenda in guisa
che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre; in un
meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una
necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si
])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che
sboccia nel cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza
ci possono far giudicare buono o cattivo; anche il giudizio con cui ci
s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche la volontà che non
sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o
nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle tempeste della
natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,
perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni razionalità
(perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un mistero.
Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice
con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un
mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno
posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel
mistero di questa tenebra profonda e per definizione invincibile, abbia
pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli
asserisce ! Come se fosse possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal
naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque essenzialmente
contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti,
tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬ dizione, tra
la ragione che si nega e la ragione che per negarsi rivendica di fatto il
proprio potere e valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con
un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo
è naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce
ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non
aver coscienza di tale contraddizione. E questa coscienza è in lui
acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla
natura nel senso angoscioso del proprio niente, non piega, invece,
non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate
fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo
spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel
cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite
della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è
grandezza umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e
infinita potenza. Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua
poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto
concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò
ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un
mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla
sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e
contradditoria alla incoer¬ cibile natura dell’uomo cotesta filosofia
negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma
prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il fato
indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento
irrompendo nel Tar¬ taro: e la tiranna Tua destra,
allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si
pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e
maligno alle nere ombre sorride. Ora è la misera Saffo, grave
ospite di natura, estranea alla infinita beltà di questa, consapevole del
prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie
virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può
vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto
da natura, primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare
così «il crudo fallo del cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta
stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia
l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi. Erta la fronte,
armato, E renitente al fato. La man che flagellando si
colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non
benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni
vana speranza onde consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto
stolto Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in
sé spento anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima
dispera¬ zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,
della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a
questa Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico
sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il
naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la
realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e
spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto
infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo
volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella
sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la
giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e
deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il
mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un
canto che s’udia per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco;
de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso
all’ immoto specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa
obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte Giaccian le
membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa
risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel
canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda
lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima
di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo
puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e
mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un
forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore
allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
con¬ tenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o «
senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola
ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver
spiegato tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette
in condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi
a dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana.
L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e
senza del quale {pertanto il pro¬ blema stesso non sorgerebbe mai.
L’uomo, che quella mezza filosofia della ragione piccola rinserra e
schiaccia nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù del
nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo valore infinito
appena la grande ragione gh faccia sentire la sua grandezza nella sua
stessa infehcità: « Niuna cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone «
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che
il poter l’uomo co¬ noscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del
cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita,
intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non
soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può, come la
ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino alito
spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma lapidaria che
fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun maggior segno
d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e filosofica tutta
la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio tra i
filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non c’ è soltanto la
filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre filosofia. La vera però,
che afferra la verità con mano robusta, non quella falsa che sola par
vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo
intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta,
come s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è poi
altro propriamente che la sua personalità, il suo modo di vedere e di
sentire la vita, quell’ingenita virtù che prorompe nel Risorgimento,
quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo
i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della
natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia, il bosco, il monte; Parla al
mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli
affanni poterono sopire; Non l’annullàr: non vinsela Il fato
e la sventura; Non con la vista impura l’infausta
verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la
stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la determina e
attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle formule, nei
concreti pensieri, come sistematica- mente si possono comporre ad unità
nelle esposizioni che l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a
fatica e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci quei
camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a
scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di
scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come
opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e
orientamenti Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa
parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno
che il Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e
catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e
disporla a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a
trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari
e sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate non
possono essere pel critico altro che accenni, spie dell’anima del filosofo.
La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo
atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che,
conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega tanto le sue parole,
spesso espressioni di cose pensate e non sentite, ma le azioni in cui
l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o
no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato di
idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile
individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel che dice ma per
il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel
colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la sua
anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia d’ogni uomo. Sicché,
infine, a parlare degnamente della filosofia del Leopardi, non bisogna
ridursi alla parte del cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi,
dove la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il suo canto,
dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo
Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
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