Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Friday, May 17, 2024

Grice e Petrone

 Per saggiare a fondo il valore del realismo giu-  ridico, è uopo, anzitutto, indagare, se e fino a che  punto esso risolva o dia sicurtà di risolvere quei  problemi che ogni ricerca del diritto , la quale  aspiri al titolo di filosofica, si propone e che non  erano del tutto ignoti alla filosofìa del dritto tra-  dizionale. Tre sono i problemi che ricorrono tut-  tora nella filosofia o che segnano 1’ intervento del-  la scepsi filosofica bene intesa. Il primo concerne  Y origine, .la portata, i limiti del conoscere : il se-  condo concerne la natura dell’ essere che è Y og-  getto del conoscere : il terzo il valore e le leggi  dell’ operare. Il primo è il problema gnoseologico e,  nella filosofìa del dritto, può formularsi così: quali  atti e funzioni mentali si richieggono perchè si for-  mi, rigorosamente parlando, una nozione del dritto?  quale ne è il criterio, il principium cognoscendi? la  ricerca induttiva dei fenomeni del dritto presuppo-  ne o no una nozione del dritto, una serie di abiti   Petrone     — 178 —   o (li funzioni mentali, che valgano come premesse  e come leggi del processo induttivo ? II secondo è  il problema ontologico ed è espresso da queste do-  mande : in che si sustauzia il diritto ? quale è il  la natura che subest , che sottosta immutabile alle  sue evoluzioni fenomeniche? e, nell’ ipotesi che la  ricerca dell’ essere e della sostanza sia illegittima,  nella ipotesi cioè fenomenistica , quale è e donde il  nascimento del fenomeno giuridico? Il terzo è il pro-  blema etico e la maniera onde può venir risolto corri-  sponde esattamente alla maniera onde si formula e si  dibatte il problema ontologico: esso si domanda, qua-  li sono le norme della condotta giuridica doverosa;  se le disposizioni del potere positivo siano, sem-  plicemente perchè tali, dotate di valore etico-impe-  rativo; se, invece, non vi sia un criterio normativo,  superiore ad esse e giudice di esse , ottenuto al-  tronde; se ci si debba limitare alla semplice accet-  tazione delle disposizioni autoritative ossia del dritto  positivo o se, invece, non sia legittimo e corretto  domandare il titolo razionale di esse o il dritto di  quel dritto: è insomma, a dir breve, il problema  del dritto naturale.   Il realismo giuridico non può evidentemente sot-  trarsi a questi problemi che ogni uomo, conoscendo,  non che filosofando, si propone e che, per quanto  egli premediti di sviare o eludere, non si lasciano  rintuzzare in verun modo. Ed in un modo o nel-  1’ altro, di dritto o per traverso, se li propone e li  agita lo stesso realismo giuridico. Il quesito cono-  scitivo non è per esso un problema, in quanto ue  presuppone la soluzione che è, come tante volte si  è visto, volgarmente empirica. Gli altri due quesiti,    — 179    poi, quello ontologico e quello etico, sono (la esso  piegati alle esigenze del suo empirismo conoscitivo: il  primo di essi è snaturato da problema di essere  in problema di origine ed al secondo si oppone un  diniego esplicito. Il clie per altro, non toglie che  cosi quella forma speciale onde si pone e s’ inter-  petra uno dei problemi, come quella esclusione o  soluzione a priori che si ritorce all’altro non sieno  la conseguenza d' una scepsi critica, sottintesa se  non espressa, ed implicita nell’ assunto fondamentale  dell’empirismo, quand’ anche non condotta di pro-  posito deliberato da questo o quello interpetre del-  1’ assunto stesso.   Resta solo a vedere, se il problema vada posto  come vuole V empirismo o come vuole la filosofia, o,  dove l’uno e 1’ altra lo pongono ad uno stesso modo,  se vada risolto nell’ una forma o nell’ altra. E dico a  bella posta — la filosofia — senza vermi predicato che  la determini in un senso più che in un altro e che la  limiti ad una scuola più che ad un’ altra. L’ empirismo  si annunzia in antitesi non a questa o quella filosofia,  ma alla filosofia in generale, o, se si vuole, è una for-  ma di filosofia che si oppone a quella che fin qui  era tenuta per tale, alla metafisica, e non a questo  ed a quel sistema, ma al criterio comune a tutti  i sistemi, al yenus proximum di essi. Termine di  contrapposizione all’empirismo sarà, adunque, per  noi l’assunto impersonale della filosofia, senza che  le varietà individuali di essa ci occupino punto.  Il che va inteso in senso relativo e limitato a quel  possibile consenso che, traverso le lotte dottrinali,  è dato ravvisare, nella tradizione storica della filo-  sofia, a chiunque la interpetri con intelletto d’amore .     CAP. I.    Il criterio della esperienza ed il problema gnoseologico   della filosofia del dritto.   Adunque 1 ? esperienza, ossia la osservazione e la  comparazione dei dati fenomenici, è il criterio cono-  scitivo universale del realismo giuridico, di guisa che  la critica di esso si traduce iu una critica della e-  sperienza. Questa critica non data veramente da  oggi : essa è vecchia, nè comincia dal Kant, come si  peusa comunemente, ma risale a Platone, che primo  rivendicò le ragioni della scienza e della filosofìa  contro la doxa e 1’ empirismo dei sofisti. Per quanto  vecchia, essa non ha perduto, tuttavia, la freschezza  della novità, e va rievocata oggi che il positivismo,  nella forma più matura della teoria delfassociazione  e di quella dell’ evoluzione, ha risollevato i fasti  dell' empirismo.   Diremo, adunque, anche a costo di apparire no-  iosi ripetitori, che 1’ esperienza non è in grado, da  per sè sola, di scovrire il momento universale e ne-  ccessario del dritto, nè il nesso causale dei fenomeni  .giuridici, più di quello che essa noi sia di scoprire  il momento necessario ed il nesso causale di altri    ordini di fenomeni. L 7 esperienza ci dice che una  cosa è fotta così e non altrimenti, ma non che la  cosa non possa essere altrimenti che così. L 7 espe-  rienza ci dà la coesistenza e la successione dei fe-  nomeni e può darci anche la legge empirica (la cosi  detta legge di conformità che impropriamente si chia-  ma legge) di tale coesistenza e successione, ma non  ci dà nè può darci mai la legge di necessità. Essa  ci dà la ripetizione delle coesistenze e delle succes-  sioni di dati fenomeni, ma non la legge di tale ripe-  tizione: essa ci dice che una cosa si ripete cento, mille,  diecimila volte, ma non che si debba ripetere .neces-  sariamente. L’ultimo dei termini della serie progres-  siva e faticosa delle esperienze non ci dice niente di  più e di meglio di quanto ci dica o ci abbia detto il  primo, e l 7 ultima ripetizione vale le altre. L’accresci-  mento del materiale della esperienza è un processo  quantitativo, dal quale nessuna alchimia trarrà una  qualità nuova. Noi chiediamo il quia , ed il quid,  doveccliè i progressi della esperienza non ci promet-  tono che una cognizione sempre più vasta del quale.   La teoria dell 7 associazione, che data da Hume, si  avvisa di eludere il problema, con l 7 apporre a questa  legge di necessità una portata puramente psicologica.  La necessità oggettiva, essa dice, è un inganno; la ne-  cessità è puramente soggettiva ed è la coazione inte-  riore verso un dato nesso o una data serie di nessi  logici delle nostre rappresentazioni. La categoria della  necessità è una oggettivazione illusoria, una proie-  zione al di fuori dell 7 abitudine interna di un dato  nesso ideale. Ma, checché si deponga in favore di  tale tesi, non si scema l 7 equivoco che la vizia. La    183 —    coazione interiore può ben nascere dall’abitudine, ma  la necessità logica della ragione è ben’altra dalla coa-  zione psicologica del sentimento. Questa ultima, non  che necessaria, è accidentale di sua natura, perchè  il dominio psicologico è il dominio del variabile, del  contingente, del casuale (1).   Del pari V esperienza^ non può colpire il momen-  to universale delle cose.   La universalità alla quale essa può pervenire è,  tutt’alpiù, universalità sui generis , universalità relativa  e provvisoria, il che è tutt' uno che negazione della  universalità scientifica. Il maximum dello sforzo cogi-  tativo al quale possa pervenire l’esperienza, secondo  un noto principio del Kant, è il seguente « per quello  che abbiamo appreso fin qui, non si trova veruna ecce-  zione di questa o quella regola data » non già quest’al-  tro « questa è regola universale e non ha veruna ecce-  zione » (2). E ciò, perchè le conclusioni dell'esperienza  sono limitate e condizionate quanto la esperienza, la  quale è eminentemente analitica e non assicura e non  garentisce che il suo responso immediato. L’esperien-  za ci dice che date coesistenze e date successioni di  fenomeni si sono ripetute fin qui, ma non ci assicura  che si ripeteranno in avvenire. È vero bensì che noi  » oggettiviamo ed universaleggiamo ogni giorno le ri-   sultanze di quella esigua e ristretta esperienza per-  ii) Vedi la bella illustrazione che di questi pensieri della  critica kantiana fa il Volkelt. Erfahrung und Denken. Kritische  Grundlegung der Erkenntnisstheorie. (Hamburg 1886) pag. 78  e segg.   * (2) Volkelt, ibid. S. 79-80.    184    sonale che ne è consentito di fare e le atteggiamo  sub specie aeternitatis , ma, con ciò stesso, noi supe-  riamo i termini della pura esperienza, noi invochiamo  ed applichiamo per la nostra cognizione un altro cri-  terio che quello sperimentale. In ogni giudizio che  formuliamo v’ò un tacito sottinteso che precede l’e-  sperienza e la integra : ed il sottinteso è questo: che  quella ripetizione delle coesistenze o delle successio-  ni, la qual ripetizione non abbiamo osservato ancora   0 non potremo osservare in avvenire, è conforme  alle ripetizioni o alla serie di ripetizioni già osser-  vate. Il processo induttivo presuppone 1’ habitus, la  funzione mentale che si formula nel principio d ’ iden-  tità : dal quale segue che quanto si predica di una  cosa o di un rapporto già esperito va predicato, al-  tresì, di tutte le cose e di tutti i rapporti esperibili,  le quali o i quali sieuo della stessa natura sostan-  ziale della prima o del primo (I).   ^Ne l’esperienza è più atta a conoscere il perchè  delle cose, il cur , di quello che noi sia a conoscerne  la universalità. La successione dei fenomeni, sia pure  conforme a regola, non è causalità: e dall’esservi fra   1 fenomeni di una serie un rapporto di prima e di  poi non segue, per altro, che la mente dell’osserva-  tore, la quale nel supposto è tabula rasa , argomenti  dal semplice rapporto empirico di antecedente e con-  seguente la possibilità di quello ideale di causa e  di effetto. L’esperienza ripetuta delle stesse sequele  di un dato fenomeno e di un altro non può creare  ex nihilo sui quel rapporto di causalità che ai primi   (1) Vera A. Melanges philosophiques p. 282-283. '    gradi ed ai primi passi di quella esperienza era in-  concepibile. Senza dubbio, il rapporto di causalità è  nelle cose (lo scetticismo di Hume non ha chiuso il  problema) ma non è una specie impressa sulle cose,  visibile e palpabile a nudo, esperibile iusomma. La  nozione di quel rapporto è, direi quasi, un’anticipa-  zione dell’ intelletto sulla esperienza e sulla stessa  natura. Ogni nesso causale che noi formuliamo pre-  suppone 1’ habitus , la funzione mentale del nesso  causale in quanto tale. Noi diciamo « questa cosa è  effetto di quell’ altra » solo perchè sapevamo che,  risalendo la serie regressiva dei fenomeni, ciascuno  dei termini di questa serie è un effetto, ossia è un  prodotto da una causa, finché si perviene al termine  primo che non è più effetto, ma causa sui. In vero,  senza questa funzione mentale, noi avremmo uu bel  discernere delle affinità "e delle conformità logiche  tra l’operare di una cosa e la natura di fatto d’una  altra cosa che la segue: tra Luna e l’altra cosa noi  non vedremmo mai un rapporto causale, se a quel  nesso di conformità non si associasse spontaneamente,  nel nostro pensiero, quella funzione mentale, che io  chiamerei il sottinteso della causalità. Chi analiz-  zasse questa serie di sottintesi e questa prescienza  e vedesse quanto è facile e seducente, ad un me-  tafisico che sia artista ad un tempo, atteggiare quella  prescienza a forma di ricordo di una vita psichica  oltremondana, vedrebbe forse che la dottrina plato-  nica « sapere è ricordare » è più presto una defor-  mazione poetica di un sano principio filosofico, che  un principio falso di sua natura. La nostra scienza,  «e non è prescienza, ha per sottinteso un certo grado     — 18 G —    di prescienza. A Corate enunciò lo stesso principio  in altra forma, quando disse « sapere è prevedere ».  La previsione di un fenomeno esperibile ma non  esperito è, evidentemente, prescienza intellettiva.   Un logico recentissimo della scuola critico-posi-  tivista, il Masaryk, ci porge una indiretta conferma,  che qui ò opportuno ricordare, di questi supremi  principi della critica della conoscenza.   I fenomeni particolari sono tuttora (così VA del  Saggio fri logica concreta) gli elementi costitutivi del  l’universo, come V oggetto proprio della conoscenza  umana: ma noi sono immediatamente. Il nostro intellet-  to non può cogliere ed intuire di un lampo l’unità delle  cose : il suo processo è, per di tetti vità connaturata,  eminentemente astrattivo. Epperò esso conosce le  cose non per intuito diretto, ma mediante le leggi  e le proprietà essenziali che a quelle cose ineriscono.  Queste leggi e proprietà sono il prins, non il po-  ster ius della conoscenza. Y’ha due generi di scienze:  scienze astratte e scienze concrete: le prime cono-  scono le leggi delle cose e le seconde V essere di  fatto delle cose. Or bene le scienze astratte sono  il fondamento, il presupposto delle concrete, appunto  perchè le cose non si conoscono che per le loro  leggi e proprietà essenziali. La biologia, che è scienza  astratta, perchè ha per oggetto le leggi della vita  precede ad es. la zoologia, che studia gli animali vi-  venti, ed è la confritio sine qua non della sua esistenza.  So le scienze concrete presuppongono le scienze astrat-  te, è assurdo supporre che le prime forniscano la  base delle seconde. Ciò sarebbe una inversione di  termini. Precisamente l’opposto è vero. Le cose non-      187    si intuiscono o esperimentano di un tratto solo nel  loro essere, ma si conoscono in funzione di una legge  e di una proprietà essenziale che precede e rende pos-  sibile l’esperienza. Gli è questo che ci spiega come e  perchè le scienze astratte abbiano fatto progressi di  gran lunga maggiori che le concrete. Gli è che que-  ste sono posteriori a quelle, onde la loro maturità  segue, in ragion di tempo, il progresso di quelle (1).   Questi principi del Masaryk sono fondati sul vero,  benché il modo ond’ egli si esprime sia tutt’altro  che proprio. La sua terminologia è mutuata dall’em-  pirismo per formulare una nozione so vraem pirica.  Quello che egli chiama processo astrattivo va chia-  mato processo di sintesi spontanea ed originaria,  perchè 1’ astrazione presuppone la conoscenza del  concreto onde si astrae, il che contraddirebbe al  supposto.   Prescindendo da ciò, resta, intanto, stabilito che  non solo la filosofìa, ma lo stesso positivismo cri-  tico ed illuminato insegnano d’ accordo che alla  conoscenza analitica delle cose particolari deve pre-  cedere la conoscenza della specie universale, che è  come una sintesi, una deduzione spontanea ed ori-  ginaria, un’ anticipazione mentale dell’ osservazione.  L’ esperienza affidata alle sue forze sole è così lun-  gi dal fornirci un concetto scientifico delle cose, che  anzi essa, senza 1’ ausilio di una virtù intellettiva che  è prima e sovra di lei, non potrebbe neanche venire  alla luce e legittimarsi come esperienza.   (1) Versucli eiiier coucreten Logik (Wien 1887) pgf 10,  pa g, 41-46, pgf. 89, 91 e 92.     — 188 —    Or bene, ripeto quanto lio detto più su, questa  difetti vità dell’ esperienza sussiste nell’ ordine delle  conoscenze giuridiche, come iu ogni altro ordine di  conoscenze. Anche ivi la nozione universale deve pre-  cedere 1’ esperienza particolare: la scienza sintetica  delle proprietà essenziali del diritto deve precedere la  scienza analitica dei fenomeni giuridici particolari e  non seguire da essa. Anche ivi una estensione, un im-  pinguamento del materiale di fatto può accrescere la  notizia delle cose, non la scienza , come bene afferma  1’ Hartmann. 11 materiale dei fatti é il sottosuolo,  non T oggetto della scienza (1). La osservazione em-  pirica dei fatti giuridici non ci dice nulla sul mo-  mento universale e necessario del dritto, nulla sui  nessi causali di quei fatti ed è, però, inetta ad  adempiere, non che una sintesi filosofica, ma una  semplice sintesi scientifica: di guisa che, sulla scorta  di essa, neanche la fenomenologia perverrà ad otte-  nere quel principio sintetico e quell’ universale lo-  gico del dritto che, come tante volte si è visto,  rappresenta il suo termine ideale. Per dirla più   (lì Die Bereicherung an Blossem Stoff des Wissens vermehrt  uur die Kuncle , aber nicht imraittelbar die Wissens.chaft. In-  dem aber die Wissenschaft erst da anfiingt, wo in den Bezie-  huugen des Stoffs und den allgenieinen in ihm wirkenden  Kràften oder Momenten das Gesetzmiissige, Ordnungsmiissige  oder Planmàssige, logiseh oder sachlich Nothwendige aufge-  suclit wird, zeigt sich eben, dass 'der Stoff als solcher nicht  don Gegenstand selbst der Wissenschaft bildet, sondern nur  die Unterlage derselben, dass aber der eigentliche Gegenstand  der Wissenschaft dasjenige ist, was an den Beziehungen des  Stofìes allgcmein und verniinftig ist — Gesammette Studien u.  Aufsiitzc S. 425-426.     esplicitamente, quella osservazione empirica, ammes-  so pure che la si estenda il più che sia possibile,  non ci darà, di per se sola, non che una filosofia,  neanche una scienza del dritto.   Perchè egli è fuori dubbio che la scienza abbia  per soggetto V universale ed il necessario delle cose.  Platone ed Aristotele hanno del pari messo fuori  disamina, che oggetto della scienza é la vóyjaig nepi  òoatav (1) e che P esperienza, che apprende il parti-  colare, non va confusa con la scienza che apprende  l’ universale (2). Gli stessi principi sintetici della  fenomenologia che siamo venuti divisando non pro-  vengono dall’ esperienza, ma dalla speculazione del  pensatore. La storia consegna al v. Ihering il fatto  della lotta e del fine interessato , ma, quando egli  generalizza P esperienza di quel fatto a momento  universale del dritto, eccede i termini della espe-  rienza, per soddisfare ad una vocazione speculativa  che è anteriore all’ esperienza. La ragione del Dahn  ed il giusto del Lasson sono cosi poco creature del-  P esperienza, che quella è un ricordo della opinio  necessitati della metafisica , ovvero una forni ola  logica della razionalità della Volhsbewusstsein (la qua-  le, a sua volta, è una ipotesi demo-psicologica che  trascende ogni esperienza) e questo è P applicazione  al dritto di quel logos Hegeliano, che è P ultimo  residuo di una notomia degli atti conoscitivi, la  quale ha il suo punto di partenza nell’ esagerazione  dell’ a priori. Il principio del rispetto verso la forza    (1) Rep. 534.' Vedi pure: Fed. 76 e passim.   (2) Mat. XIII; 9; Mag. Mor. I, 4.    — 190 —    / V - .T$   imperante (Achtung) e quello della pre volizione del-  la norma ( Anerlcennung ) sono non fatti di esperienza  0o - o'0£,ti va, ma impostasi intellettive di alcuni fatti acci-  dentali di esperienza psicologica.   Il realismo giuridico si avvisa di conoscere le  proprietà essenziali e le leggi del dritto col mero  processo della induzione e della comparazioue. Noi  abbiamo visto testò il Post, nell’ analisi compara-  tiva dei fotti particolari della vita dei popoli, fer-  mare il segreto del substrato universale di quei  fotti e di quella vita. Ma, V osservazione e la com-  parazione non sono possibili senza una teoria pre-  esistente, la quale ci faccia discernere quello die  va osservato da quello che non va osservato, e che,  nel materiale disordinato dei fotti, ci consenta di  sceverare quel momento che concerne e preoccupa  la nostra scienza da quegli altri momenti che non  ci concernono punto e che le altre scienze differen-  ziano dalla nostra. Senza il filo d’ Arianna della  speculazione, V osservazione e la comparazione dei  dati di fatto diventano un labirinto inestricabile e  dal quale non v 7 è più uscita. Se non sappiamo  prima, per un’ anticipazione intellettiva, che cosa è  dritto, nè possiamo discernere i fenomeni giuridici  da quelli che non sono tali, uè negli stessi fenomeni  giuridici possiamo sceverare quello che in essi è  proprietà essenziale da quello che non lo è. Anche  nelF ordine delle conoscenze giuridiche è vero che  V intuizione è cieca senza la categoria. Vi debbono  essere, nella moltitudine dei materiali storici messi  a profitto dall' indagine e e dalla comparazione, delle  'quantità conosciute ehe permettano alP osservatore    ' — 191 —   di orientarsi nei suo cammino. Il che è riflesso, nel-  F ordine del pensiero, di quello che, come vedre-  mo, ha luogo nell’ ordine delle cose. Perchè, eviden-  temente, nel suo processo evolutivo 1’ umanità de-  ve pure avere avuto delle soste, deve pure aver se-  gnato delle fermate e dei punti di riposo, nei qua-  li momenti si è venuto deponendo, consolidando,  sarei per dire cristallizzando, il presunto fluttuare  dei fenomeni. La pressura della logica e quella che  lo Schopenhauer chiamava die List der Idee domi-  na, del resto, gli stessi induttivisti della giurispru-  denza e li trae a smentire coi fatti quanto lian  professato a parole. Dopo aver respinto 1’ a priori ,  essi sono ben lungi dal farne a meno: e di presup-  posti a priori tolti in prestito alle nostre odierne  intuizioni giuridiche o alla nostra speculazione filo-  sofica le loro ricerche sono piene. Tanto egli è ar-  duo, impossibile anzi, nel rifare a rovescio il pro-  cesso della evoluzione giuridica, fare a meno di un  contrassegno ideale di quello che è dritto o di un  criterio intellettivo che ci aiuti a discernerlo dagli  altri fenomeni del cosmo!   Il metodo comparativo, adunque, che si avvisa  d’inferire dal semplice raffronto dei fatti la nozione  del momento giuridico di essi, è una vera petitio  prineipii. Un’ anticipazione ideale di quello che si  cerca bisogna averla per forza, se no quello che  si cerca non si trova. È una cosa molto elemen fa-  re codesta: chi non sa quello che vuole non trarrà  mai un ragno dal buco. Ottima la ricerca delle for-  me storiche della proprietà immobiliare nel mondo  orientale, a mo’ d’esempio, o il raffronto tra esse e    quelle dei popoli occidentali, ma, se voi non avete  prima una nozione quale die sia della proprietà im-  mobiliare, quella ricerca e quella comparazione non  la farete mai (1). La storia è pur sempre storia di  qualche cosa (2).   L’ ordinamento seriale dei fenomeni sotto il ge-  nere dritto e sotto le specie famiglia , proprietà ec.  (scelgo a bella posta V ordinamento seriale più fa-  cile ed elementare) e tutta la serie dei principi e  delle rubriche e delle classificazioni della giurispru-  denza storica e comparativa sono, per necessità di  cose, un presupposto e non un risultato della com-  parazione e della storia. Nò si opponga che il com  cetto del dritto emerge dal fondo stesso della os-  servazione e della comparazione ed è ottenibile  mettendo a raffronto un gran numero dato di og-  getti affini tra loro, astraendo dalle differenze indi-    fi) Schuppe. Die Metkoden der liecktspkilosopkie. loc. eit*  S. 227-228.   ( 2 ) Man kommt nickt von der gesckicktlickèn Betrachtung  zu dem Gewordenen, sondern gerade umgekehrt: man suckt,  von diesein ausgekend , seine Erfahrung nack ruckwarts in   der Zeit zu erweitern Der Versuck, aus der Gesckichte he-   rauszusammenfugend zu ersckaffen, kame auf ein Mlsslingen oder  eine Selbsttausckung kinaus: es giebt nur Gesckiehte von Etwas .  Wenn die sogenannte genetiscke Metkode die vollkomneren  Gestaltungen aus den unvollkomneren sick erzeugen, so solite  nie iiberseken werden, dass im Nackweise dos Keimes das  Wozu er sick entwickeln, Wessen Keiui er sein soli, sehon vor-  sckwebt; nur vom vollendeten Erzeugniss fragen wir zuriick  nack den keimartigen Anflingen.   Stammler . Die Metkoden der geschicktlicken Rechtstheorie  S. 52-53.    vicinali di ciascuno e ferrnaudo quel genere, quella  nota universale e comune, in che convengono tutti  ad un tempo. Imperocché, appunto perché abbia  luogo quel raffronto, si richiede un’ anticipazione  sintetica della natura sostanziale del dritto. Per di-  scernere in che gli oggetti sono affini, occorro che  vi sia, anzi tempo, un contenuto ideale, in rapporto  al quale 1’ affinità o la dissomiglianza è concepibile.  La osservazione e la comparazione vi darà il fatto  della convenienza, solo quando voi preconoscete di  avanzo, sarei per dire presentite, per una cotale  anticipazione irriftessa dello spirito , quello in che  si conviene e la ragion formale della convenienza.  La nota comune è una premessa del processo astrat-  tivo. Bisogna degradare il fenomeno della conoscenza  alla più volgare materialità per convincersi che gli  elementi, i quali in ipotesi sono conformi, si lascino  connettere in un rapporto di conformità per una  percezione immediata del loro essere di fatto. Per-  chè gli elementi b. c. d. lascino vedere un elemento  comune con a. e si vadano sussumendo in un rap-  porto comune A. occorre almeno che a, ossia il  termine di raffronto, abbia colpito il pensatore e  gli appaia come un momento di cosiffatta natura,  da servire di regolo agli altri, come a dire un equi-  valente ideologico preesistente del contenuto che si  ottiene poi formulato nel rapporto A. Se l’intelletto  dell’osservatore è una tabula rasa , egli non vede  nè differenze nè somiglianze nei fenomeni, nè dritto  nè torto nella storia: le differenze sono percepibili,  solo quando si sa quello da cui si differisce e. del  pari, le somiglianze, solo quando si sa quello cui   l ‘ì   Petrone    — 194 —    si somiglia: in altri termini i rapporti sono perce-  pibili solo in finizione del loro oggetto ò della loro  ragione formale. Egli, adunque, V osservatore, non  vede che una serie di fotti indifferenti che non  sono nè il diritto, nè il suo rovescio : di cui noi,  messi al punto, non potremmo nè anche assicurare  che cosa sieno: perchè ci difetta la virtù astrattiva  che sarebbe necessaria per vedere come andrebbero  le cose della nostra intelligenza nella ipotesi di un  processo anormale di questa.   Alla induzione ed alla comparazione deve, adun-  que, precedere un intuito speculativo del dritto.  ]Sel campo della giurisprudenza, come in quello  delle altre discipline, il processo conoscitivo s’inizia  da una sintesi primitiva e spontanea, si svolge e  dirama e differenzia per l’esperienza, l’analisi, la ri-  flessione e va a metter capo alla sintesi riflessa della  deduzione.   La storia del processo fenomenico ed inventivo  è un compito meramente analitico che si esercita  sopra una sintesi scientifica preesistente. Per de-  scrivere le fasi evolutive di una cosa bisogna già  possedere il concetto dell’ essere della cosa, ossia  della sua forma definita ed evoluta e della sua con-  figurazione stabile e consolidata (1).   (1)... Es ist vor Alleni unumgiinglich, class der Entwiok-  luiigahistoriker das genaueste und deutlichste Verstiindniss  von der reiteri Gestalt besitze und bekunde, von welcber er  die Entwickeluug verfolgt. Die Eutwickelungsgeschichte ist  steta und lediglieli eiue analytischo Aufgabe. Scheinbar nai-  ves Aufsuchen der Verbindungsstiicke und gliickliches Probi-  ren, ob sie passen, ist ein ganz eitles Unterfangen. Di© Ent-    — 195 —    La filosofìa speculativa del dritto aveva adunque  ragione. Di che una preziosa riprova ci forniscono  gli stessi empirici della giurisprudenza, la mente dei  quali è munita, anzi tempo, non che di un intuito  o di un presentimento del dritto, di tutto un corre-  do di conoscenze speculati ve, più o meno deformate,  tolte in prestito precisamente a quella filosofia. E  senza il suo ausilio 1’ esperienza si sarta trovata a  mal partito. Ciascun fatto o ciascuna serie di fatti  non malleva che se stessa: ed il filosofo dell’ espe-  rienza non avrebbe mai visto il lume dell’ idea.  L’induzione è sempre limitata ad un dato numero  di fatti, il qual numero, lo si moltiplichi a talento,  dista pur sempre infinitamente dalla universalità  -che si estende a tutto il possibile. Gli stessi prin-  cipi generali non vi sarebbero più : 1’ allgemeine  Reclitslelire è un generale die, viceversa, è un parti-  colare.   A causare tali perigli, resta che, in difetto di  speculazione propria, si usurpi l’ altrui. Ed ecco,  allora, che la premessa maggiore del realismo e  della fenomenologia è una premessa metafìsica. Que-  sti declamatori dell’ esperienza e dell’induzione sono  in fondo dedutti visti. La filosofia ha trovate alcune  verità con un procedimento misto d’ intuizione di  rapporti ideali e di esperienza psicologica: essi ri-  provano queste verità con l’allegazione di fatti spe-   "wickelungsgeschichte des Organismus setzt ein hohes Stadium  der Anatomie voraus, das sie alsdann erhohen kann. Aber die  Entwickelungsgeschichte kann der descriptiven Anatomie ni-  cht voraufgeben. Cohen. Kant’ s Theorie der Erfahrung Zw.  Aufi. S. 7.     rimentali, quando noi facciano con nn tessuto di  raziocini. Il loro metodo è analitico e regressivo:  onde quando essi rimproverano di deduzione la vec-  chia filosofia, questa potrebbe dir loro che essa  della deduzione, accanto ai difetti, aveva benanche  i pregi, dovechè ad essi non restano che i difet-  ti soli.    CAP. II.    Il criterio storico-evolutivo ed il problema  ontologico della filosofia del diritto.   Si è detto innanzi come la maniera, onde l’empi-  rismo concepisce il problema dell’essere del dritto,  equivale esattamente alla maniera ond’ esso conce-  pisce il problema del conoscere. Dopo aver detto  die criterio unico della scienza è l’esperienza, logica  vuole che l’empirismo dica che l’oggetto della scienza  è tale, quale bisogna che sia perchè rientri nei li-  miti della esperienza, e che, quindi, il dritto non  abbia altro essere che l’essere mutabile, contingente  e fenomenico, o, per dir breve, non altro essere che  il divenire. Come in tanti ordini di cose, così nel  dritto, il criterio scientifico si è venuto snaturando  nel criterio storico e, conseguentemente, il problema  ontologico nel problema genetico. Del dritto, come  di altri oggetti, si studia non più la sostanza ma la  genesi, non più l’essenza ma l’evoluzione, non più  il substratum ma il processo; nè solo si studia l’una  cosa e non 1’ altra, ma si afferma come inesistente  quella che non si studia, o si presume di non stu-  diarla, appunto perchè la si dà per inesistente. È  il criterio storico-evolutivo , che riassume il genio scien-     — 198 —    tifico (lei secolo e che pervade scienza e filosofia.  Se ne volete 1’ origine, dovete far capo all’ aspetto*  dogmatico del fenomenismo Kantiano e, più lungi  ancora, alla critica Lochi aria, alla teoria, cioè, della  inconoscibilità della sostanza. Tolta, invero, la ri-  cerca della sostanza, non rimane che il fenomeno-  soletto al lievi, al divenire, alla storia.   Se questo criterio lo si proseguisse nella sua  forma logica e coerente, esso non porgerebbe ai suoi  settatori un saldo sostegno. Così coni’ è, esso è vi-  ziato dalla radice, perchè poggia sopra una inver-  sione del problema filosofico e perchè confonde vol-  garmente due termini che vanno distinti, scienza e  storia. I fenomeni particolari che registra la storia  sono non solo inesausti, ma inesauribili nel loro nu-  mero: la umanità ha invocato sempre l’ausilio delle  idee per dominare l’universalità dei possibili, senza  di che non si sarebbe mai svincolata dalle strettoie  di una perpetua ignoranza. La storia ha per oggetto  il nudo individuale; quello che sta a sè e non può  predicarsi degli altri; quello che può essere cono-  sciuto solo per un atto di esperienza ex professo e  discontinua, e che, per essere singolo, si consuma  in un singolo atto mentale e consuma l’atto stesso;  quello che non ha nesso con altri e non può nè su-  bordinarsi ad essi nè subordinarli a sè, e che è in-  comunicabile: quello che dà luogo non ad un con-  cetto, ma ad una moltitudine di percezioni saltuarie,   sempre esposte alla sorpresa del nuovo, dell’impre-  visto, dell’ azzardo. (1)   (1) Schopenhauer — Die Welt u. 8 . w. — Ergiinz: z. 3° Buch  — Kap: 38.    — .199 —    L’empirismo moderno, messo allo stremo, li a stu-  diato, pertanto, di sfuggire alla logica del suo criterio.  Invece di escludere la speculazione, esso fa atto di  riconoscerla, ma piegandola alle esigenze del suo  criterio; nò nega la sostanza, ma la traduce nel circolo  del suo sistema, llesta, per esso, oggetto della scienza  l’essere, ma l’essere appunto sta, o si presume che  stia, nel divenire. Il suo intento non è, in fondo,  negativo, ma dialettico. L’ esse della filosofia morale  e giuridica è appunto il fieri della evoluzione del  costume e degl’ istituti giuridici.   Quella serie di proprietà sostanziali, quella es-  senza specifica della natura e della coscienza umana  non sono negate o rimosse, adunque; sono sempli-  cemente interpetrate in un modo diverso. Esse non  sono più un a priori — della' storia, un termine che  è fuori del processo storico e che rende possibile  lo stesso processo; ma si rappresentano come un a  posteriori primitivo, come un prodotto dell’esperienza  collettiva e della razza, un prodotto che si solleva,  a sua volta, a causa di nuove formazioni, di nuovi  fenomeni, ma è ab initio una formazione, un feno-  meno esso stesso. Messo da banda il flusso Eracli-  teo^ i settatori del criterio storico-evolutivo si cre-  dono licenziati ad ammettere delle proprietà speci-  fiche della natura etica umana, quando s’ intenda  che queste proprietà sieno non un essere, ma un  divenire o, per meglio dire, un divenuto; quando si  intenda che esse sono forse un a priori a petto alla  esperienza individuale dell’ uomo che si trova in  uno dei momenti derivati, della evoluzione, ma sono  certo un a posteriori della esperienza delle g enei a-     — 200 —    zioni preesistenti. Nella serie dei momenti evoluti-  vi, ciascuno di essi è un posterius delle esperienze  sociali trasmesse dal momento anteriore; solo clie  queste esperienze diventano generative di altre po-  steriori, a petto alle quali esse sono un termine  primitivo. L’esperienza collettiva che supera la disper-  sione e la difettività dell’esperienza individuale, l’abi-  tudine (latamente intesa) e 1’ eredità che la trasmette  e la consolida, la tradizione storica che ne raccoglie  le risultanze : ecco i supremi presidi, con l’aiuto dei  quali 1’ empirismo moderno si avvisa di superare le  difficoltà dell’antico, di trascinare l 1 essere della  scienza e della filosofia nel flusso del divenire e di  evitare, ad un tempo, le ritorsioni di quella logica  inesorabile, che lo forza a dibattersi sterilmente  nell’ assurda impresa di logizzare la storia o di sto-  rizzare la logica, di formulare e dogmatizzare il  mutevole, 1’ evanescente, 1’ individuale e di travol-  gere, ad un tempo, nella rapida scorrevolezza dei  fenomeni transeunti quello che è e che sta, 1’ e-  terno, V immutabile, 1’ assoluto.   Se. non che, anche in questo contenuto più ric-  co di valore ideale che assume il criterio storico-  evolutivo, esso è ben lontano dal sottrarsi a quella  logica di sistema, . che, volente o nolente, lo rimena  all’ assurdo d’ invertire i termini del problema filo-  sofico e di scambiare la scienza con la storia, la  sostanza col fenomeno, le facoltà e le attitudini  connaturate con le esperienze e gli abiti acquisiti.  Finché, in omaggio al paradosso, si riconosce l’am-  missibilità di un x>rocesso all’ infinito e, rifacendo  la serie regressiva delle esperienze, il primo termine    — 201    di quella serie si rappresenta come una esperienza  a sua volta, il vizio radicale dell'empirismo rimano  sostanzialmente lo stesso. Finché la razza è una  moltitudine d’individui, la quale moltitudine non  può fornire un elemento nuovo ehe non sia orini-  nari amente contenuto in ciascuno degl 'individui che  la compongono, finche 1’ abitudine e Y eredità sono  forze trasmissive e non creative, le quali, quindi,  presuppongono un quid che si ripeta o consolidi o  trasmetta, la contraddizione implicita nell’ assunto  empirico rimane tal quale. L’ empirismo allontana,  risospinge indietro il problema nella storia, ma non  lo risolve. Nella serie delle fasi evolutive v’ è sem-  pre un priuSy un termine primitivo, che, come esso  c’ insegna, non è un essere ma un divenire, non è  una sostanza ma un fenomeno, non è attitudine  all’ esperienza ma esperienza senza attitudine. Ed  in questo termine primitivo rinasce il problema  elie si credeva composto: il divenire è possibile sen-  za 1’ essere ? ed i fenomeni giuridici sono possibili  senza l’essere giuridico"? senza una coscienza giu-  ridica già data, senza una facoltà connaturata del  dritto, sono possibili le esperienze giuridiche? Ogni  momento individuale dell’ evoluzione giuridica, lo  si derivi pure da una serie inferiore preesistente,  non ha forse bisogno d’ un ciliquid che lo determini  e lo differenzi come tale dal momento anteriore ? e  questo aliquid non è un essere che precede e rende  possibile il divenire ? Nella continuità dei fenomeni  deve pure esservi, non foss’altro, V infinitamente pic-  colo di Leibnitz, che prima non era ed ora è, ed è  ■quindi la radice, il substratum di quello che v’ è    di nuovo nel rapporto reciproco dei termini suc-  cessivi della serie, di quello cioè che differenzia i  singoli momenti della continuità. Questo infinita -  mente piccolo non può essere prodotto dalla prima  esperienza, se questa, per logica di cose, lo presup-  pone. Come mai quelle esperienze giuridiche o quella  serie di esperienze, che saremmo impotenti a far  noi ex novo , se fossimo dello tabulae rasae , e che  noi possiamo Aire, secondo il criterio storico-evolu-  tivo, solo perchè 1’ eredità e la tradizione storica  ha deposto e trasmesso nei nostri poteri psichici  tutto un contenuto ideale che tesoreggiamo di con-  tinuo, come mai, dico, quelle esperienze sarebbero  esse state possibili, senza verini possesso anteriore  di una facoltà connaturale, a quegli uomini primi-  tivi, i quali, a quanto insegnano gli evoluzionisti,,  uscivano a mala pena dalla specie inferiore dell’ani-  malità? Perchè, senza dubbio, proseguendo a rove-  scio il corso dell’ evoluzione giuridica, vi sarà seni  pre un assolutamente prius die non è più specie ma  individuo, che non è più esperienza collettiva e sto-  rica ma nuda esperienza individuale.   Il criterio storico-evolutivo che, per aver rico-  nosciuto la legittimità dei processo all’ infinito, ha  posto, come termine primitivo delle esperienze, la  esperienza stessa e, come causa degli effetti, V ef-  fetto o la serie degli effètti stessi, deve raccogliere  i frutti del suo inconsulto procedere e deve togliere  sopra di sè la contraddizione di un termine derivato  che si postula come termine primitivo.   La filosofia tradizionale, la teoria nativistica come  per dileggio la chiama l’ Jliering, aveva adunque     — 203 —   ragione quando poneva a sostrato primitivo e cau-  sale la natura deir uomo e non il processo della  storia, la coscienza giuridica e non le esperienze  edonistiche ed utilitarie. Il fenomeno della evolu-  zione presuppone il noumeno della creazione, nella  filosofia del dritto come nella cosmologia : il dive-  nire presuppone l’essere che diviene e che sussiste  <   lo stesso attraverso e non ostante il divenire. Senza  una coscienza giuridica bella e data, V esperienze  giuridiche non sarebbero nate, perchè è la facoltà  che crea le esperienze e non le esperienze la tà-  coltà. Ed invero, senza una coscienza giuridica uni-  versale connaturata in ciascun membro della razza  o della specie, l’intimo consenso in certe verità giu-  ridiche fondamentali, attestato dalla stessa osserva-  zione serena dei fatti, non sarebbe mai venuto alla  luce. L’esperienza, la quale procede a furia di espe-  rimenti, di correzioni, di prove rudimentali, incerte,  provvisorie e che è sempre varia da soggetto a sog-  getto, da caso a caso, non può aver potuto deter-  minare, per la contraddizion che noi consente 1’ uni-  versalità e 1’ unità della ragion normativa e della  coscienza. Si riduca questa unità e questa univer-  salità alle semplici proporzioni di una funzione for-  malo e vuota di contenuto, ebbene non sarà mai  concepibile come quella unità della forma della co-  scienza inorale possa essere uscita dal fondo di  esperienze soggettive, senza un fondo comune di  attitudini preesistenti, senza un addentellato di sor-  ta. 1/ antropologia dell’ evoluzione può aver pro-  vato, si conceda per un momento, che il contenuto  della morale e della giustizia varia da popolo a po-    204 —    polo, da tempo a tempo, ma non può aver provato  che ne varii altrettanto la forma. Essa, anzi, ri-  prova indirettamente che la materia infinitamente  diversa del dritto reca in sè V impronta di una co-  stante unità di leggi e di funzioni, le quali sono, «   alla coscienza morale dell 7 umanità, quello che al  pensiero le leggi e le funzioni a priori della cono-  scenza; e che muta il contenuto dell’ atto morale,  ma immutabile ne è la ragion formale; ossia le con-  dizioni necessarie all’atto morale come tale sono im-  mutabilmente concepite e, sarei per dire, plasmate  nella forma assoluta d 7 un imperativo incondizionale,  d 7 un dovere. Si assuma il più semplice degl 7 istituti  giuridici del più semplice dei Natur-Viilker, ebbene  l 7 analisi vi scopre sempre questa proprietà ideale :  il convincimento di una legge estra- soggettiva, che  è fuori e sopra l 7 arbitrio individuale ed alla quale  è doveroso prestare obbedienza. La pretensione giu-  ridica del selvaggio contiene un elemento spirituale  che è condizione comune a tutte le pretensioni giu-  ridiche di tutti i popoli più culti. Quella preten-  sione è appresa come una legge impersonale, non  solo rispetto ai soggetti presenti sui quali si eser-  cita, ma altresì rispetto a tutti gli altri soggetti,  che sieno per trovarsi nella stessa condizione dei  primi, e, quindi, rispetto allo stesso soggetto preten-  sore, ove egli in tale condizione venga a trovarsi.  Motivo etico della pretensione o del comando, quel  motivo, cioè, per cui l 7 una o l 7 altro è appreso come  autorevole e fonte di obbligazione doverosa, è sempre  la conformità presunta di quella pretensione o di  quel comando ad una legge. Che la conformità pre-    — 205 —    sunta non sia conformità reale importa poco: resta  sempre stabilito ohe condizione necessaria dell' atta  giuridico, condizione universale e comune a tutti i  popoli della terra, è l'intuito dell'atto stesso sotto la  ragion formale del giusto. Ohe questa proprietà ideale  non si trovi così nettamente distinta e differenziata  nella coscienza morale del selvaggio, importa ancor  meno. L’analisi è creatura della riflessione scientifica,  laddove l’idea del bene e del giusto è un intuito sin-  tetico della coscienza: 1’ assenza del l'un a è ben lungi  dal provare quella dell’altra. L’analisi rende molte-  plice e successivo rispetto a noi quello che è uno e  simultaneo rispetto alla natura: confondere questi due  aspetti è convertire in ipostasi reale un fenomeno  della nostra difettività conoscitiva.   Senza dubbio, 1’ unità e la comunanza della sem-  plice-ragion formale del bene e del giusto non basta  a fondare una morale, nò una filosofìa del dritto.  Un’etica senza contenuto è una logica del bene e del  giusto, non una nomologia. Quella unità della coscien-  za si traduce in piena iudifferenza e la percezione  della ragion formale del giusto in un mero momento  psicologico. Ma, se questa unità formale della coscien-  za morale è poca cosa rispetto alle esigenze ed agli  uffici dell’ etica positiva (e però noi non ci ristiamo  a lei, ma ammettiamo un contenuto morale, quale  quello che ci detta la filosofìa teleologico-cristiana, e  sulle orme della scuola di Max Mailer vediamo, nelle  tristi condizioni morali dei Natur- Volker il prodotto  di un pervertimento derivato) è molto rispetto alla  critica della sociogenesi della evoluzione. La quale si  chiarisce così contraddire apertamente non solo alla    — 206    teleologia inorale, ma benanche alla critica, più ne-  gativa e più «pregiudicata, della ragion pratica.  Come per avventura, le incerte esperienze dei sog-  getti sub-umani abbiano potuto determinare V unità  della ragione e dell’intuito formale del giusto, vale  a dire quell’ unità che è il residuo non eliminabile  di un’analisi corrosiva della moralità umana: ecco un  enigma che il criterio storico-evolutivo non riuscirà a  decifrare mai.   Gli è che la presunzione della tabula rasa non  è meno infondata nella sociogenesi, di quello che  lo sia nella ideologia : anzi nell’ una è più insoste-  nibile che nell’altra, perchè il dritto è una idea cosi  complessa che anche delle scuole filosòfiche, le qua-  li, nella serie regressiva dei fenomeni della cono-  scenza, pongono come termine primo la esperienza,  hanno sentito il bisogno di concepirne l’idea e la voca-  zione come connaturata nell’ uomo, come un habitus  della natura. L’ atto giuridico e 1’ atto morale non  nascerebbero mai, ove nella volontà dei soggetti non  vi fosse una cotal disposizione naturale al bene e al  giusto, la qual vocazione, a sua volta, difetterebbe  ove non vi fosse un intuito originario del bene e  del giusto. Ignoti (chi noi sa?) nulla cupido. La vo-  lontà non è, da per sè, una legge, come volle il  Kant, ma nemmeno è indifferente a qualsiasi legge,  come vorrebbe il plasticismo degli evoluzionisti. Kon  è autonoma di fronte alla Legge Suprema ed al  Supremo Legislatore, ma è tale di fronte al resto,  à o’ dire che nella volontà umana v’ è una voca-  zione primitiva verso quello che è buono e che è  giusto, vocazione indipendente dalle condizioni del-     207    T esperienza e della storia. Dicendo ciò, non si ol-  trepassano i limiti della lìlosolìa per entrare nell’or-  * bita della teologia (benché un rimprovero siffatto,  ci affrettiamo a dirlo, sarebbe per noi un titolo di  onore). Principio conoscitivo del bene e del giusto  rimane, con tutto ciò, l’analisi della coscienza, co-  me principio ontologico dell- uno e dell’ altro, la na-  tura umana. Noi siamo i veri positivisti, noi, die  ci reggiamo sul saldo sostegno della physis , ma del-  la pliysis non deformata dalle preoccupazioni mate-  rialistiche. Rifacendo la serie regressiva delle cau-  . se, la filosofìa pone una causa prima che muove  la natura senza esserne mossa: intenta a discoprire  V origine prima di tutte le cose che sono nel tempo,  la logica la costringe ad uscir fuori del tempo. 1/ e-  voluzionismo può deridere questa logica, ma non  rintuzzarla. L’ esclusione di un assolutamente prius  è impossibile. E ad esso, dico al positivismo, non  rimane che o attestare, con tacito assenso, la presen-  za del soprannaturale, ovvero rimaneggiare con  ostentazione di novità e di maturità quella pove-   y   ra teoria mitologica della spontaneità creatrice degli  uomini primitivi. Quell’ assolutamente prius, quel  termine primitivo delle esperienze, se non è una  creazione del soprannaturale, deve essere una ge-  neratio aequivoca della natura primitiva : una ge-  nialità eroica, un salto mortale degli esseri sub-  umani.   Per. sfuggire alle ritorte della logica, il criterio  storico-evolutivo non ha altro spediente che quello  di adagiarsi in esse, di accettarle deliberatamente,  di sistemarle anzi: quello, cioè, di bandire addirit-    — 208 —    tura il problema delle origini, facendo sorgere la  risoluzione di un problema insolubile dalla dispera-  zione professata di risolverlo. Questa esclusione del  problema delle origini, come di cosa inconcepibile in  sé, è postulata dalla logica del divenire. La conti-  nuità evolutiva dei fenomeni dell’ universo esclude,  per logica di cose, ogni nozione di principio o di  fine (1). Questi due termini estremi rappresentano  il discontinuo, il vacuo, il salto per eccellenza, on-  de sono fuori della evoluzione. L’ evoluzione è pan-  teistica: è 1’ eternità trasferita da Dio al mondo: ora  non va dimenticato che 1’ eternità esclude cosi l’o-  rigine come la fine. Gli evoluzionisti odierni lian  poco compreso la portata del criterio evolutivo, per-  chè ad essi ha fatto difetto quella penetrazione,  metafisica che la fece comprendere cosi egregiamen-  te al Leibnitz: ond’ essi, pur professando la teoria  dell’evoluzione, seguono ciò non pertanto a cinci-  schiare il problema delle origini ! Ma ciò non to-  glie che la loro dottrina si dibatta tra le strette di  questo dilemma: o accettare la logica dell’ evoluzio-  ne e quindi cessare di essere positivisti e confessar-  si per animali metafisici di una specie alquanto di-  versa dagli avversari: o deviare da quella logica e    fi) b as Priucip dor Continuitlit verbot in der Reihe der  Erschein angeli alien Unsprung. Kant. Kr. d. r. Vera. (Ed. di  Ilarteustein III S. 201). E lo aveva ben compreso il v. Savigny.  < . . . . zwisclien Gesclilechter und Zeitalter nur Entwickluug  aber nicht absolutes Ende uud absoluter Anfang gedacht wer-   den kann ». Vom Beruf unsero/ Zeit u. s. w. Ili Aufl. S.  113.    — 209 —    cadere nelle contraddizioni di un primitivo che è  derivato o di un a posteriori che è primitivo.   La ritorsione del secondo corno del dilemma è sta-  ta analizzata parecchio fin Qui. Giova solo aggiungere  qualche- cosa su quella del primo. Ed anzitutto, che  i positivisti, accettando la logica del criterio evo-  lutivo, diventino di punto in hello metafisici non è  chi noi vegga. L’ esperienza è limitata alla condizione  del tempo; l’evoluzione è, invece, fuori del tempo, è,  ripeto, la eternità trasferita dal mondo di là al mon-  do di qua e, nello stesso mondo di qua, dalla so-  stanza ai fenomeni. Confessi, adunque, il positivismo  che il criterio storico-evolutivo è un criterio sovra-  em pirico; che esso non abolisce la metafìsica ma  ne fa una per suo conto; che non elimina il sopran-  naturale ma converte invece ih naturale in sopran-  naturale. Confessi altresì, che, quando promette di  darci il nascimento ed il processo fenomenico delle  cose, esso mentisce sapendo di mentire. Il criterio  dell’ esperienza e della storia, strettamente conside-  rato, ci dà i termini disparati e sconnessi e non il  vincolo di quei termini, i fatti compiuti e non la  legge del loro divenire. Il continuo sfugge alla sto-  ria: essa non ci dà che una moltitudine di vacui e  di discreti, tra i quali la mente umana riconosce un  ordine che reca la impronta della metafisica che  v’ è in lei, ossia di quella somma di concetti che  essa ha di già sulla natura degli esseri soggetti al  divenire storico. Ed ecco così che il realismo giu-  ridico, la filosofia del dritto genetica e fenomenolo-  gica vien meno del tutto al suo programma : non  solo V essere dei fenomeni giuridici, ma e il nasci-  li    Petronk    mento e il divenire di questi esseri esso ignora. Re-  siduo positivo della critica mossa alla filosofia è la  scepsi pura nel campo del dritto; una scepsi dog-  matica più cbe quella filosofia e elie non soddisfa  nò al criterio filosofico, nè alla esperienza.    GAP. III.    li positivismo giuridico ed il problema etico   della filosofia del dritto — Il dritto naturale.   »   Il dritto non è soltanto una idea ed una sostanza,  ma, altresì e soprattutto, una norma. Esso è idea  umana e, quindi, non è idea quiescente, ma forza,  nè solo anticipa l’essere, ma detta il dover essere.  È una idea imperativa per eccellenza ed, appunto  perchè tale, essa, ripeto, è forza: forza ideale e virtù  morale, s’intende, e non coercizione fisiologica o psi-  cologica.   La filosofia che attingeva lume da questi sovrani  criteri riconosceva, in correlazione al dritto positivo,  un dritto ideale: questo era per lei una legge e  quello un fatto; un fatto che desume il suo valore  dal rapporto che ha a quella legge, dall’essere esso  una forma di attuazione, d’ individuazione di quella  legge. Questo fatto poteva adequare, se non in tutto,  in buona parte quella legge, ma non l’adequava ne-  cessariamente: ed, in tutti i casi, il suo valore era  misurato dal limite di approssimazione al dettato di  quella legge. Astraendo il dritto positivo da quel  parziale contenuto ideale che vi sta dentro, da quello    212 —    die fa sì die esso sia non solo positivo ma dritto^  di quel diritto positivo non rimane, per la fìlosoiìa r  die il fatto bruto, indifferente, sfornito di significa-  zione. Così per la filosofia seguiva un doppio pro-  cesso: il dritto naturale conduceva al dritto positivo-  pel bisogno della sua effettuazione empirica ed il  dritto 'positivo rimenava al dritto naturale pel biso-  gno di un titulus jitris e di un sostrato razionale.  L’ un termine non era 1’ altro, ma aveva rapporto  air altro. Erano due correlata , non due contrari.  Perchè non erano tutt’ uno, legittima era la ragion  d’ essere dell’ uno e dell’altro ad un tempo, e, per-  chè erano tutt’ uno in qualche cosa, in qualche ri-  spetto, Fano dei dite non negava, non contraddiceva  assolutamente F altro. L’ ideale non era del tutto-  inaccessibile al reale e, perciò stesso, intrinseca-  mente difettivo ed erroneo : il reale non era del  tutto contrario all’ ideale e, quindi, assolutamente  ingiusto e condannevole. Questo rapporto che era  concepito tra i due termini faceva sì che Puno con-  ferisse all’ autorevolezza dell’altro. Il dritto positivo  attingeva la sua virtù imperativa dal dritto natu-  rale, ossia dall’esserne esso una varietà fenomenica,,  ed il dritto naturale desumeva da quello la possibi-  lità di trasferirsi, d’ individuarsi nei limiti del rela-  tivo e del condizionato, nella storia. Così la filosofìa  era tanto più vicina alla dialettica sapiente della  vita, quanto più era lontana dalla dialettica fanta-  siosa della logica; e come, nell’ ordine delle idee r  essa segnava la via di mezzo tra Pottimisino ed il  pessimismo, così, nell’ordine dei fatti, tra P umore  conservativo e P umore rivoluzionario.     — 213    Il positivismo si atteggia anche qui, anzi soprat-  tutto qui, ad avversario reciso della filosofia. Come   »   nell’ ordine teoretico esso predica l’esclusione siste-  matica dell’ a priori e V apoteosi dell’ esperienza ut  sic, così nell’ ordine pratico esso dogmatizza l’esclii-  isione della norma doverosa e 1’ apoteosi del fatto.  Ed è giusto. L’ esperienza gl’ insegna l’ essere o  l’essere stato, non il dover essere: la storia non gli  dà che fatti o, tutt’al più, che leggi empiriche di  fatti: T evoluzione gli fornisce una legge di causa-  lità naturale che è la negazione recisa della legge  morale: nessuno dei criteri, ai quali esso fa ricorso,  gli suggerisce la nozione del dovere.   Tuttavia, poiché la necessità morale è un rap-  porto che è più facile escludere tacitamente, per  esigenza di sistema, che negare di professo, e poiché  il positivismo moderno é abbastanza raffinato per lu-  singarsi di fare a meno dei rapporti ideali della me-  tafisica (benché noi sia quanto é necessario per per-  suadersi della loro verità), esso si tiene ben lungi dal  rassegnarsi al puro fatto del dritto positivo ; bensì  non resiste alla tentazione di interpetrare questo fatto  in funzione di una legge che gli conferisca a priori  valore ideale ed assoluto. È dritto quello che é impo-  sto dai poteri coattivi ed é dritto in quanto e per-  chè è imposto ; ma, quest’ autorevolezza giuridica, se  coincide col fatto stesso del comando, non coincide  tuttavia col fatto del comando attuale , ed è conse-  guenza o espressione di una virtù presupposta nel  fatto del comando abituale , del comando in quanto  - comando. Il principio — est jus quia jussum ed  è la formula del positivismo e noi f abbiamo veduta    2 U —    assentita implicitamente e per ragion di contrasto  dal v. Jheriug e dal Daliu, professata espressamen-  te dal Lasson e dal v. Kirchmann, idealeggi ata, in  omaggio allo psichismo , dal Bierling.   Quella forinola, per quanto positiva, implica un  sottinteso razionale. Ed il sottinteso è il seguente : il  fatto del comando è la sorgente appunto del dritto: o  altrimenti: l’essenza del dritto consiste nel comando.  Il positivismo lia, pertanto, anch’esso la spa massima:  1’ attitudine che esso assume di fronte al fatto non è  puramente passiva, o, se è tale, lo è o si avvisa di  esserlo coscientemente e razionalmente. Non v’è bi-  sogno di analisi minute per vedere quale e quanta  conferma indiretta, (conferma formale, s’intende) re-  chi questa massima del positivismo alla metafìsica  del dritto naturale. Il compito razionale del dritto  naturale non è propriamente escluso, ma applicato  ed atteggiato in modo diverso che prima; è una ma-  teria, nuova che si contrappone al contenuto antico  di quel dritto, non una nuova forma. La filosofìa  aveva per criterio conoscitivo del dritto naturale la    ragione indagatrice dei tini dell’ universo e della  natura morale dell’ uomo : il positivismo ha per suo  criterio l’esperienza immediata dei precetti del potere    positivo. La filosofìa aveva per principio ontologico del  dritto 1’ ordine morale della stessa natura dell’uomo    e degli stessi fini delle cose : il positivismo, invece,  il fatto stesso della coercizione potestativa, in quanto  tale : nell’ una come nell’ altro, le disposizioni posi-  tive sono un fatto che in tanto ha valore in quanto  gliel conferisce il rapporto vero o presunto di con-  formità di detto fatto ad una data legge o ad una     data massima. Varia solo il contenuto della massima  e della legge, che nella filosofìa è sintetico, dovechè  nel positivismo è analitico : perchè nell? una è at-  tinto altronde e nell’ altro è spremuto dal fatto stesso  delle disposizioni positive o, che è lo stesso, preim-  plicato, con dialettica a priori, nel fondo di esso  fatto.   E che la massima del positivismo si traduca in  un’ analisi vuota, in una petizione di principio, non  v’ è dubbio alcuno. La forza coattiva del comando è  criterio del dritto, solo perchè il dritto si è precon-  cepito come forza e forza fisiologica; solo perchè la  nozione di una potenza spirituale del dritto in quanto  dritto, ossia in quanto norma di ragione, si è anti-  cipatamente esclusa, come nozione che trascende l’e-  sperienza,* solo perchè si è posto o postulato, anzi  tempo, il principio che la forza, che noi intendiamo  morale , degl’ imperativi giuridici non si differenzia  dall’ attuazione materiale e dal successo di fatto ;  solo perchè si è stabilito antecedentemente che la  condotta dell’uomo non può essere determinata che  dai motivi empirici e psicologici della sanzione po-  sitiva ; solo perchè si è presupposto che il dritto  non è una idea, ma un fatto e che l’assenza del*  1’ attuazione del dritto è sempre ed in tutti i casi  assenza del contenuto e della virtù imperativa del  dritto stesso. Ed invero, se la coincidenza della forza,  etica con la forza fisica, del dritto col fatto, non  fosse un presupposto, onde e come il positivista si  farebbe a provarla ? Con T esperienza ? Ma l’espe-  rienza gli consegna il fatto semplice e nudo, la nuda  e semplice forza fìsica ; se e fino a che punto 1 uno    210 —    e l’altra sieno dritto o forza morale, 1’ esperienza  non lo dice e non lo può dire, perchè ignora che è  dritto e che è forza morale. ]STè lo suffraga la sto-  ria, la quale può provare concludentemente la pre-  senza o meno dell’attuazione di fatto del dritto, non la  presenza o meno deila necessità di tale attuazione. Il  positivismo deve, per necessita di cose, far capo alla  speculazione, per dimostrare il suo assunto; se non  che, è appunto la speculazione che ne denunzia l’ille-  gittimità, perchè, se il dritto positivo ed il dritto natu-  rale sono termini semplicemente correlativi, il fatto  ed il dritto, la forza bruta e la forza morale sono  termini addirittura contradditori, tra i quali non vi  è presunzione di coincidenza o di accordo che tenga.   Portando poi la questione in altro campo, è bene  por mente che, per tacciare di sterilità la idea ed  il dritto e per predicare come sola forza viva delle  cose il potere coattivo e materiale (ed il convinci-  mento radicato di quella sterilità è il motivo psico-  logico che persuade al positivismo il culto del potere    coattivo) occorre aver dimenticato, o non aver co-  nosciuto e compreso giammai, quanto la forza spi-  rituale di talune idee universali, di alcune esigenze    morali, di    alcuni canoni giuridici sia    stata superiore,    nel corso della storia, alla forza materiale dei poteri    dominanti e quanti trionfi sulla tenacità di resistenza    dei tatti abbia ri portato tuttora la forza ideale del dritto.  Le quali conferme di fatto la filosofia le accetta e le    oppone  sorte di    agli avversari, senza, per altro, vincolare alla  esse la sua, perchè (è bene ripeterlo) la forza    ideale, la virtù imperativa del dritto è, per essa, in-  dipendente dal successo di fatto o dall* osservanza      217    <ìgì soggetti. Il (lovorG g dovere, clie lo si adoni pia  « no; e la violazione è un mero fatto che opera si  elie 1’ idea non divenga un fatto, ma non sì che  l’ idea cessi di essere idea. Doveehè il positivismo  da questa confusione tra idea e fatto prende le mosse  e questa confusione solleva a sistema. Suo assunto è  il seguente: 1’ idea non è idea perchè non è un fatto : o  altrimenti: l’ idea non esiste in quanto idea, perchè  non esiste in quanto fatto. Il qual paradosso non può  essere legittimato che da un sottinteso non meno  paradossale: l’idea non esiste come idea, se non in  quanto non è più idea.   Se, adunque, il secreto tentativo di conferire a  priori alla nuda forza materiale valore e contenuto  ideale cade nell’ insuccesso, vien meno altresì quel-  1’ apparenza di legittimità, onde il positivismo si fa-  ceva bello. La logica delle cose rimuove quella pre-  tesa dialettica del dritto con la forza, denudando  quest’ ultima di quell’ involucro spirituale nel quale  si veniva dissimulando. Ed allora ai positivisti si  pone un dilemma dal quale non vi è via di uscita:  o riconoscere la legittimità della nozione del dovere  e, quindi, rientrare nei termini della filosofìa del  dritto naturale, o professare apertamente 1’ immora-  lismo della forza (1). Perchè tra 1’ una cosa e 1’ altra   (1) Ist clas Recht nur Recht, uutorschieden von Willkiihr  mici Gewa.lt, wenn and soweit es eine dea Willen vcrjìjlichtcnde  Kraft in sich triigt, so Htellt sichjeder; der von Recht spricht  nnd Weiss was er sagt, auf dem ethischcn Stand]) nuli, aut doni  Boden des Scimollenden. Alle naturalistischen nnd miterialisti-  ficlien Doctrinen kdiìnen daher nur durch Iuconsequenz, dureli  Urklarheit und Confusion oder durch sophistische Rrsclileichun-,  gen vor der Identifìcirung von Recht und Gewalt siedi scliiit-  ze n — Vìvici — Naturrecht S. 219.    — 218 —    non v’è via di mezzo che tenga; il contrapposto tra  la physis ed il nomos, tra la necessità fìsica e la  necessità morale, è irriducibile: chi non voglia as-  sentire alla logica della seconda non può, ov 7 egli  abbia mediocremente a cuore la coerenza filosòfica,  rinunziare alla logica della prima. E, quando si con-  fessi apertamente che il titolo che fonda la legittimi-  tà esclusiva del diritto storico e positivo è laforza  materiale dei poteri governanti, allora noi non avre-  mo più alcunché da opporre e ci terremo paghi di  darci per vinti. Il problema, allora, non è più da  dibattere, nè da risolvere, perchè difetta quel consenti-  mento in un prius della ricerca, che pure è necessario  per sostenere una polemica qualsiasi. Il positivismo  potrà, a buon dritto, millantare il privilegio che go-  dono tutte le forme di scepsi assoluta, tutti i sistemi  negativi, tutte le demolizioni dottrinali della verità  e della natura: il privilegio di esser fuori della cri-  tica, perchè si è fuori della coscienza umana.    Se non che, di questa logica di sistema non tutti  sono accorti; ne sono, anzi, ignari pressoché tutti.  Ed è forse questa ignoranza il motivo della loro te-  nacità. Essi usurpano, senza volerlo deliberatamente,  le esigenze ed anche un po’ le soluzioni del dritto  naturale, lieti che una materia presa d 7 altronde ri-    sparmi ad essi la fatica ed il dolore di saggiare a  londo la insostenibilità del loro assunto originario.  Del resto questa apoteosi del dritto di fatto e del-    la forza non è il sèguito di    un proposito meditato    e rigorosamente positivo, ma di una esigenza tutta/  negativa che domina i nostri positivisti. La esclusi-  vità che essi appongono al dritto positivo, è la    — 219    conseguenza della esclusione clic essi Inni fatto dian-  zi di alcune forme storiche del dritto naturale; for-  me storiche che essi hanno scambiato sul serio con  la sostanza stessa del dritto naturale, in orna ir-  gio a quel vecchio espediente solistico di fare  un fascio della scienza e degli scienziati, della  idea e delle applicazioni, dell’uso e dell’ abuso, del-  la realtà oggettiva e della percezione soggettiva. E  di sistemi o di concepimenti individuali o collettivi  di dritto naturale ve ne ha parecchi e di diversa  natura; onde la impresa d’ insinuare i propri criteri  positivisti tra una critica e 1’ altra di questo o quel  sistema sbagliato di dritto naturale sembra larga  prò metti tri ce di successi. Se non che, alla prima  analisi cui si sottoponga (e parlo di un’ analisi ele-  mentarissima e superficiale) quel termine polisenso  che è il diritto naturale , i successi del positivismo,  come di ogni cosa che poggia sovra un equivoco,  si dissipano d’ un tratto.   V’ ha anzitutto una forma di dritto naturale, la    quale, benché prenda le mosse dallo schematismo  universale della natura umana e dalla premessa del-  lo stato di natura, ha tuttavia carattere e tendenze  originariamente empiriche e si presenta non già  come una dottrina creativa di dritti o di esigen-  ze morali in contrapposto al dritto positivo, ma  piuttosto come una semplice astrazione ed ela-  borazione concettuale del dritto storico vigente: e  questa scuola procede dal secolo decimosettimo alla  seconda metà del decimottavo (1). V’ ha, indi, una    (1) Ciò è messo discretamente in luce dal Bergòohm  risprudenz u Recktspkilosopkie 1 . S. 160-168.    Ju-    altra forma di dritto naturalo, quella ohe, per abu-  sata terminologia si chiama diritto naturale (. Natur -  rechi) per antonomasia, ed è il diritto naturale del-  V AuJhUirung e della ragione, di cui è conosciuta la  storia assai più, forse, che il carattere e V indole  vera, che è razionalista nel metodo, subi etti vi sta nei  criteri, antistorico nelle esigenze, umanitario nel con-  tenuto; che e la scuola in cui il diritto nou è pi 11  astrazione o generalizzazione dell 7 esperienza storica,  ma un lofjo della ragione creativa, e nel quale lo  stato di natura è (almeno in quanto ha di meglio)  meno una premessa di fatto storico, che una ipote-  si razionale postulata a legittimare una data serie  di obbligazioni giuridiche o la possibilità stessa di  una obbligazione giuridica: che ha nel suo attivo e  nel suo passivo, ad un tempo, la dottrina (atteg-  giata in modo particolare) dei dritti delV uomo e la  grande rivoluzione. V 7 ha, poi, il dritto naturale  della filosofia perenne; che non è forma ma sostan-  za delle forme; che è anteriore, per ordine di tem-  po, così al Natur recht empirico come al Naturrecht  razionalistico e che non è nè l’uno nè 1’ altro, ben-  ché V uno e 1’ altro nella lor parte migliore si ap-  prossimino ad esso ; che emerge dalle profondità  della coscienza umana iu qualsiasi luogo ed in  qualsiasi tempo e che la cultura greca speculò non  meno che la cultura moderna; che non è patrimo-  nio di questa o quella filosofìa personale, ma della  tradizione storica ed impersonale della filosofia ;  che non è contrario sistematicamente al criterio sto-  rico, ma non lo è nemmeno al criterio speculativo;  che rifiuta la ragione, come virtù creativa delle cose,    221 —    ma la tieu salda come potenza conoscitiva dei rap-  porti ideali e delle norme - imperative; che supera  il subietti vismo assoluto dell’ AujMarung , ma non  ne trae argomento a rinnegare le esigenze oggetti-  ve della coscienza umana come tale ; che è illumi-  nato da una concezione teleologica dell’universo e-  della vita, ma non profana per questo il suo fina-  lismo nelle aberrazioni del panteismo ottimista e  del pietismo storico; che si rappresenta i dritti del-  V uomo circoscritti dalla funzione correspettiva del  dovere, ma non sconosce la sostanza ed il valore im-  perativo dei dritti attinenti all’uomo come tale, anzi  questi diritti rivendica tuttora e consacra.   Ora è questo dritto naturale che, in nome della  filosofia, si oppone oggi al positivismo, perchè è esso  che segna il sostrato permanente delle forme stori-  che particolari; e questo dritto naturale è così lungi  dall’ essere posto a mal partito dalla critica che i  positivisti oppongono a questa o a quella forma  onde questo o quel filosofo, ovvero questa o quella  scuola di filosofi lo ha concepito: che anzi taluna  di quelle critiche se la potrebbe appropriare esso  stesso, senza infirmare per questo il suo contenuto  sostanziale. E dico a bella posta: taluna: perchè pa-    recchie, la maggior parte, di quelle critiche, sono  del tutto infondate. Quelle, in specie, che si dirigo-  no al dritto naturale razionalisti co, ossia al dritto  naturale , sono sì arbitrarie e, ad un tempo, sì pre-  tensiose che si rende urgente il bisogno di rintuz-  zarle in nome della sana e serena filosofìa. Di già  quel dritto naturale non ha avuto ancora, nella lotta  delle dottrine, quella piena giustizia, della quale i      torti innegabili, ina pur sempre largamente compen-  sati non gli scemano la legittima aspettazione. Da-  gli avversari, che lo fraintendono o lo giudicano  con criteri unilaterali, agli amici (cito tra questi lo  Spencer del The nxan versus thè stette e della Jnstice )  che ne appropriano quello che esso ha di men buo-  no, è tutta una gara ad abbuiarlo, a rimpicciolirlo,  a deformarlo: alla quale non poca parte confermai  suoi tempi, lo Stalli, per aver voluto, in omaggio  alla sua dialettica possente, predicare della sostanza  del dritto naturale le note e le categorie applicabili  al solo panlogismo Hegeliano, che si traduce, a sua  volta, in un sistema intrinsecamente realista e po-  sitivista (1).   È di moda, ad es., tacciarlo di astrazione con-  cettuale, abusando del doppio senso della parola  astrazione , e non si pensa che esso rappresenta pre-  cisamente il contrapposto di ogni astrazione con-  cettuale della realtà empirica, differenziandosi, ap-  punto per questo , da quel dritto naturale che  immediatamente lo precede. L’ astrazione non è  punto un procedimento trascendentale e sovraem-  pirico, come si crede comunemente: essa è, anzi,  una delle tappe del processo induttivo. L’astrazione  è, propriamente, un processo di semplificazione  logica dei dati empirici, non un criterio conoscitivo  che trascenda i dati stessi. Assumere la parola   (1) Parrebbe averlo egli stesso confessato, là dove (Geschi-  chte der Recbtsphilosopliie S. 161, 162) illustra lo aspetto em-  pirico del haturrecht dichiarando apertamente che solo con  1 Hegel può dirsi « der ununterbrochene Faden logischer  Forderung durchgefuhrt. »     — 223 —    « astrazione » nel senso di una « intuizione » sovra-  eni pirica è assurdo: bisogna aver dimenticato così  l’etimologia del vocabolo (ab -strabere) come fi ana-  lisi del processo conoscitivo.   L astrazione è la via traverso la quale si per-  viene all’ universale logico: il quale universale logico  è 1’ unico sforzo cogitativo che si possa consentire  l’induttivismo e 1’ empirismo Se, adunque, astrazio-  ne non significa che questo, non è arduo vedere  quanto arbitraria sia la censura mossa al diritto  naturale. La ragione del Naturrecht è così poco ra-  gione astratta da una serie di concreti preconosciuti,  che anzi essa è una creazione, una conoscenza ex  novo ed intuitiva. Il diritto naturale è, nel fondo,  ont elogisti co: ond’ esso ha per suo criterio l’intuito  creativo della ragione, anziché l’esperienza del reale,  fi analisi, la riflessione, 1’ astrazione.   Il genus proximum dell’ uomo, ossia del soggetto  dei dritti connaturati, è, ivi, meno un residuo dei-  fi astrazione dalle differenze specifiche, ossia dalle  varietà contiagibili e storiche, che una speculazione  a priori e so vraem pirica delfi università reale della  natura umana. E dico che è tale nella sua esigenza  e nel suo interesse filosofico, senza punto giudicare  se quella esigenza o quell’ interesse siano stati sem-  pre e coerentemente soddisfatti. Ed è appunto dal-  1’ essere fi intuizione, fi Anschauung, il suo processo  ed il suo criterio, che segue la sua virtualità, sarei  per dire la sua impulsività etica. L’ astrazione è  puramente logica; è negazione esplicita della vita,  della forza, delfi attività, delfi ethos. Carattere del  dritto naturale è, invece, la sua potenza attiva, la     — 224 —    sua forza suggestiva di riforme e creativa di rivol-  gimenti: suo prodotto immediato è quella obsessione  spirituale che investi V u mani ta, tiascinandola in  quel salto dal pensiero all’azione, dalFideale al reale,  dalla natura alla storia, vero salto nel buio, che fu  la rivoluzione. V’ lia bensì l’astrazione concettuale  anche nel dritto naturale: ma questa astrazione, an-  ziché essere il prodotto d’ una esigenza sovra-empi-  rica come si crede dai piu, è più presto la conse-  guenza naturale di quella iuiìltrazioue empirica che  vi si venne formando, allorché i suoi cultori, non  contenti di aver annunziato una serie di principi e  di averli speculati a priori , il che, metodicamente  parlando, era perfettamente giusto, vollero fare un  passo più oltre e costruire, per via di un'analisi  concettuale di quei principi, la serie degli atteggia-  menti concreti della vita giuridica. Per una simile  costruzione logica miglior presidio non si offeriva ad  essi che 1’ astrazione, ossia la semplificazione logica  dei concreti ottenuti dall’ esperienza. L’intuizione  non poteva servire alla bisogna, perche è proprio-  deli 7 intuizione cogliere i rapporti ideali e 1’ univer-  sale delle cose o, più brevemente, le idee, non i  concreti od i fenomeni. Essi, adunque, travagliati  da una esigenza empirica, fecero capo all’astrazione; e  dal mondo reale e dalle condizioni sociali ed economi-  co-politiche del tempo loro astrassero tutto un conte-  nuto storico e particolare, il qual contenuto essi  hanno predicato dell’ umanità intiera, jiervertendo,.  così, in universale logico, l’universale reale e, nella  indifferenza dialettica, 1’ unità della natura umana.  E qui che la critica dello Stali! e degli altri acerbi    rampognatoli coglie, senza dubbio, nel segno, ina non  già perchè il dritto naturale sia caduto nelle spe-  culazioni a priori della ragione, bensì perchè esso  è caduto nel circuito dell 7 analisi e dell 7 empirismo,  o, se l’astrazione si voglia assumere, per un momen-  to, nel senso che le conferiscono i nostri avversari,  non perchè essi abbiano astratto troppo, ma perchè  anzi hanno astratto troppo poco. La natura traccia  le linee fondamentali : i dettagli dell’ esecuzione li  lascia alla stòria ed alla volontà positiva. Il vero  dritto naturale ci dà una serie di criteri o di prin-  cipi del dritto, i quali sono, bensì, un dritto, ma  un dritto ideale e potenziale. Essi, quei criteri o  quei principi, sono un prerequisito del dritto feno-  menico, ma non sono ancora, propriamente parlando,  un dritto fenomenico bello e dato; il qual dritto è  la risultante complessa di condizioni empiriche, nel-  le quali quei principi e quei criteri s 7 individuano  ma non si consumano (1).   (1) Questo principio è eflicacemente illustrato, uon senza  per altro un po’ di formalismo, da A. Feuerbach « . . . . Das  Reclitsgesetz, obgleìch durch sich selbst aUc/emcinf/ultig. kanu  dennoch als blosses Vernini ftgesetz nicht allgemeingeltend wer-  den. Soli es wirklioh herrsclien. . , . so muss dieses Reehtsge-  setz aus dem Reicke dei* Vernunft in das Reich der Erfahrung,  aus der intelligiblen Welfc in die Welt der Sinne hiniibergetra-  geu. . . . werdeu. In dem Gesetze des Reehts erkenne idi nodi  nicht dio Reclite selbst, in ihm habe ich nur das Princip und  das Criterium ihrer Erkenntniss; dio Frage ; worin besteht das  rechtliche uberhaupt; nicht aber die Frage: was Rechtens sei  uuter diesel* oder jener Bedingung, in diesem odor jenem Vor-  hiiltnisse. ...» Ueber Philosophie und Empirie in ihrem Ver-  liiiltnisse zur positivon Rechtsvnssensckaft=Landshut 1801: p:  16 e segg.   Petrone     L’ esigenza empirica che deforma il dritto natu-  rale sta appunto in questo, nel serbarsi infedele al  suo assunto, nel sottoporre quello che dovrebbe es-  sere una speculazione del dritto naturale a quella  serie di condizioni alle quali è sottoposta la cono-  scenza del dritto fenomenico, nel trasferire alla no-  zione di quello le note che sono pertinenti alla no-  zione di questo; di guisa che essi muovano come  da un sottinteso: il presunto dritto naturale va trat-  tato alla stregua del dritto fenomenico.   Ad essi è mancata quella potenza o, forse meglio,  quella tenacità di tensione intellettiva che era neces-  saria per comprendere che il dritto naturale deve anzi  tutto rimanere dritto naturale, e che il giudizio sulla  esistenza di esso non deve essere sottoposto al re-  golo o al criterio moderatore dei giudizi sull’ esi-  stenza del dritto positivo. Anche qui, adunque, essi  sono in colpa non già per aver voluto far troppo di  dritto naturale, ma per averne fatto troppo poco; e  chi ha meno dritto di rampognarli di ciò è il positi-  vista. Ai principi del dritto naturale si potrebbe,  a buon dritto, torcere quel rimprovero che fece Ari-  stotele alle idee di Platone : essi, quei principi, sono  ipostasi intellettive delle realità fenomeniche indivi-  duali. Di qui 1’ aspetto malsano del dritto naturale :  la realtà della storia contorta in un falso schematis-  mo logico: quello che sarebbe dovuto essere storico  relativo provvisorio, rifuso in una forma logica uni-  versale e rappresentato come eterno, assoluto, im-  mutabile: la storia, insomma, negata come storia e  riaffermata come speculazione logica. Così, quel su-  biettivismo, che era la realtà di fatto del tempo     — 227    dell’ AujUiirung > si predica come natura dell’ uomo  in tutti i tempi : alla proprietà ed al contratto si  conferisce quel contenuto rigidamente individualistico  che corrispondeva alle mire secrete del sistema eco-  nomico che si veniva affermando in quell’ ambiente  storico, del sistema capitalista (1) ; la nozione dei  dritti connaturati alterata e deformata dalla miscela  inconsulta di elementi positivi e di pretensioni e di  attribuzioni acquisite.   Gli si appone a colpa, altresì, la nozione dello  stato di natura. Ma, se lo assumere uno stato primi-  tivo della umanità governato da una legge spontanea  di natura e non da una legge o da un sistema di  leggi umane positive, se, dico, assumere questo stato  di natura a rigore di fatto storico può essere ed è  un abuso della mitologia, assumerlo, invece, come  una ipotesi lìlosohca, è, fuori dubbio, un processo  rigorosamente scientifico e fors’ anco metodicamente  necessario. Ogni pensatore che voglia differenziare  mediocremente il contenuto della vita sociale, che  voglia sceverare quello che è permanente da quello  che è transitorio, il substratum dai fenomeni, che  voglia discernere nettamente quello che in una data  associazione di persone va attribuito alla natura ori-  ginaria di ciascuno dei membri da quello che vi si è  venuto soprapponendo per la reciprocità d’ influsso  dei membri tra* loro e per tutto il tessuto dell’ azione  sociale, ogni pensatore, dico, che voglia fare tutto  questo, deve porre lo stato di natura e contrapporgli   (1) Cfr. il nostro libro « La terra nell’ odierna economia  capitalistica (Roma 1893) p. 64-69.    lo stato sociale sopra v vegnente, deve distinguere lim-  pidamente l’uomo della natura dall’uomo della storia.  È superfluo qui ricordare lo Spencer, il quale a  questa astrazione dell’ uomo della natura dall’ uomo  della storia (che per lui, naturalista reciso, si con-  verte in un’ astrazione dell’ unità biologica dall’ unità  sociale) ha reso omaggio non solo nelle opere ultime  nelle quali egli restaura di professo il dritto naturale,   ' ma anche nelle opere anteriori, le quali segnano il  climax del suo pensiero filosòfico : il convincimento,  anzi, della legittimità di una contrapposizione del-  l’unità biologica alla unità storica, o, che per noi è  lo stesso, della legittimità di una ipotesi dello stato  di natura, è, forse, l’anello di congiunzione del suo  novissimo dritto naturale con la sua sociologia ed in  genere con tutta la sua filosofia sintetica, 1’ adden-  tellato dell’ uno nell’ altra. Ricordo, poi, un illustre  positi vista, come il Kirchmann, il quale ha esplicita-  mente riconosciuto la necessità che le scienze morali,  prive come sono del sussidio dell’esperimento, invo-  chino 1’ ausilio di ipotesi scientifiche per sopperire a  quel difetto, e, tra queste ipotesi, rivendica, di pro-  posito deliberato, quella dello stato di natura (1). Non   (1) Es.... ist die Wissenschaft der Sittlichen genothigt, nicht  bloss aut die sifctlichen Zustande der rohen und attesten Volker  mit besouderer Sorgfalt einzngehen, sondern sie muss noch  hinter die àltesten gesehiclitliclien Zustande zuriiekgehen und  durcli Hypothesen die einfachsten Zustande zu ermitteln suchen.  Diese Hypothesen kdnuen in ein phautastisches und fur die  Wissenschaft nutzloses Spiel ausarten : - allein mit Vorsicht  geiibt, ersetzen sie das Hulfsmittel der Experimente in der  Naturwissenschatt und sind nicht zu entbehren. Daher erklart es  8ich, das8 8chon Aristoteles und spdter die Begriinder des Natur-     1’ uso di questa ipotesi va, adunque, rimproverato al  dritto naturale, ma l’ abuso : ossia non la ipotesi  come ipotesi, ma la maniera particolare onde la si  atteggia.   Quanto poi all 7 altra nozione del contratto socia-  le , che è quella che più si rimprovera al dritto  naturale (e, tenuto conto delle conseguenze logiche  di essa, a buon dritto) va notato che nei più gran-  di cultori di quel dritto (cito ad es. il Kant) il con-  tratto sociale non è già un fatto storico, ma una  ipotesi razionale evocata a legittimare l’ordine giu-  ridico dei rapporti umani, anziché a scuoterlo e  corroderlo. La teoria del contratto sociale è la ri-  sultante di due fattori : del sottinteso o presupposto  contrattuale, secondo il quale unica fonte legittima  di obbligazione autorevole è il consenso dello stes-  so obbligato; e della esigenza, che animava i cul-  tori del dritto naturale, a legittimare il vincolo o  la serie dei vincoli sociali, anche quelli che non  lasciavano trapelare o supporre la presenza di un  consenso preesistente. Il contratto sociale è quel di  là dell’esperienza attuale, quell’ assolutamente prius  della storia, che sopperisce al difetto del consenso  attuale , con l’allegare una specie di consenso abi-  tuale , una Anerkenmmg , direbbe il Bierling, una mas-    rechts nùt TJrzmtanden des Memchen beginnen , welche uber die  Geschichte hinausreicheii. Der oft dagegen erhobene Tadel trifffc  nicht das Verfahren an sich, sondern nur den damit getrie-  benen Missbrauch. Es karrn desshalb auch hier dieses Mittel  nicht uiibeimtzt bleiben: aber die Vorsieht gebietet, es auf das  Nothwendige und Gewissere zu beschriinken. — Grimdbegrifte  S. 119.    — 230 —   sima dell’assenso. Il contratto sociale esprime quindi  la dialettica che il pensiero dei cultori del dritto  naturale ebbe tentato tra la premessa logica del  contrattualismo e le esigenze della conservazione  sociale, tra la invincolabilità assoluta della libertà  naturale, postulata come principio, ed il complesso-  dei vincoli sociali, riconosciuti come fatto. Il che  si deve al fatto , riconosciuto dallo stesso Stalli,,  che essi, se per la logica, sarei per dire per la  consequenziarità, del loro principio erano, o meglio  avrebbero dovuto essere, rivoluzionari , nel fondo  del loro pensiero e della tendenza loro erano, iu-  vece, conservatori: senza dubbio degl’ ingenui con-  servatori! (1). Ohe se si voglia porre a carico loro  appunto il non aver compreso che il vero stato na-  turale dell’ uomo è lo stato sociale, che non v’ ha  bisogno di una ipotesi razionale quale che sia per  legittimare vincoli sociali i quali si legittimano da  sè, che si pensi, almeno, che il torto innegabile    (1) Da» Naturrecht .... ist nachgiebig, wo es die Wirklich-  keit gegen sich hat, es liisst sich jeden Zustand gefallen und  sucht ihu dnrcli IJnterlegung einer stillschweigenden Einwilli-  guug zu rechtfertigen, uni sein theoretisches Interesse zu be-  friedigcn : die Revolution, dagegen, will die Macht der Wir-  klichkeit brechen, sie vernichtet jede Einrichtung , die uicht  aus ihreu reineu Vernunftbegriifen folgt. Ienes erdichtet fiir  jede Verfassung, die Mensehen liiitten sie gewollt, darait es si©  als frei denken kdnne, diese duldet keine Verfassung, die sie  niclit gewollt, dainit sie wirklich frei seyen. — Gesch. d. R.  phil. S. 290. Quest’ antitesi del dritto naturale alla rivoluzione  è licondotta dallo Stalli ad una causa diversa che da noi. Ma  ciò non conta: importa che quell’ antitesi sia stata riconosciu-  to da quel profondo intelletto.     — 231 —    del dritto naturale va dovuto, in buona parte, alla  difficoltà di discernere i vincoli sociali, che sono  davvero conformi alle leggi della natura umana,  da quegli altri vincoli clic non sono tali. L 7 errore  loro, sarei per dire, è, in parte , un errore delle  cose. Niente più naturale all’ uomo dello stato so-  ciale e pure niente, ad un tempo, più violento di  esso (antitesi questa che deve essere stata colta  dal Manzoni, non ricordo più in qual punto delle  sue opere): perchè lo stato sociale, accanto ad una  serie di obbligazioni perfettamente legittime, perchè  perfettamente naturali, reca pure con sè (è il suo  lato debole come di ogui cosa di questo mondo) un  cumulo di coercizioni arbitrarie, giacobine , irrazio-  nali che la natura convellono, incatenano, deforma-  no. Che meraviglia, dopo ciò, che il dritto naturale  abbia colto questo secondo aspetto delle cose sol-  tanto e niun conto abbia tenuto del primo, di gui-  sa che si sia reputato in dovere di legittimare  quello che non sembrava legittimo a prima giunta  e di costruire con la volontà quello che non forni-  va la natura °ì Nei fenomeni di questo nostro mondo,  che non adempie in sè la perfezione e l 7 ideale, ma  della perfezione del di là è soltanto un baleno, v’è  tante e così aspre antitesi! ed è così facile invertire  un solo dei termini dell 7 antitesi nella realtà tutta  intiera !   Il dritto naturale può avere molti torti, ma que-  sti sono compensati ad usura dal molto di buono  che vi è dentro: da quella nozione di un dritto in-  dipendente dalla sanzione positiva e superiore ad  essa, che si attiene all’uomo in quanto uomo, che è    — 232    patrimonio ind6Ì6bil6 della sna natura, quello ap-  punto die costituisce il suo essere di uomo, la sua  umanità. E V umanità-, ecco 1’ aspetto sano del di-  ritto naturale; che in esso è, fórse un universale  logico e formale, una formula del razionalismo del-  V Aujklàrung, ma (die si deve ad esso se sia potuto  divenire nella mente dei contemporanei e dei poste-  ri un universale reale. Prima che esso ravvivasse il  culto della personalità individuale, si vedeva questo  o quelV uomo, in questo o quel ceto, in questa o  quella condizione economica e sociale: grazie ad esso  si vide Tuo ino. Esagerò il suo assunto e cadde nello  individualismo: ma 1’ umanità gli deve saper grado  di questo individualismo, se da esso ha potuto spri-  gionarsi, con un processo di auto-correzione, la sana  individualità, ossia la dignità umana. In questo il  dritto naturale razionalistico si confonde col dritto  naturale assoluto della filosofia tradizionale; ed è la  espressione di quel dritto che ogni uomo possiede  come la parte più sacra di se stesso, che 1’ uomo  sente pria di conoscere ed aspira nell’atto stesso di  conoscerlo, che non si sa se sia più un sentimento  od un intuito, una idea od una volizione. Il dritto  naturale rientra, allora, nei termini della dottrina  cristiana, perchè il dritto dell’uomo è l’espressione  della preziosità inestimabile dell’ umana persona re-  denta da Cristo; e, come tale, è inoppugnabile,-e ri-  marrà tale senza fallo, finche non declini la coscien-  za morale dell’ umanità.   ^è io saprei per qual modo il positivismo, il  quale si è travagliato e si travaglia nella critica del  dritto naturale, possa col labile sostegno dei suoi     233    angusti criteri oppugnarlo davvero. Un sistema die  predica V esperienza, come criterio scientifico esclu-  sivo, non lia altro argomento da opporci clic Questo:  il vostro preteso dritto naturale 1’ esperienza non  ce lo attesta; nessuno ci lia fatto toccar con mano  la sua esistenza nel passato, o nel presente; si può  metter pegno che nessuno ce ne farà toccar con  mano V esistenza nel futuro: il vostro dritto natu-  rale, adunque, non esiste. — Orbene questo argomento  è cosi innocuo che esso non tocca nemmeno il drit-  to naturale, nè i suoi cultori. I quali potranno ben  rispondervi: sapevamcelo ! ma il nostro dritto natu-  rale è quello che è, appunto perchè noìi è feno-  menico, ossia oggetto di esperienza. Koi siamo  si poco scossi dal vostro raziocinio che lo abbiamo  prevenuto: il dritto naturale è, per noi, una idea e  non necessariamente un fatto, un dover essere e  non un essere, una necessità morale e non una cosa  empiricamente esistente.   Ohe il dritto naturale sia esistito o meno nelle  condizioni dell’ esperienza e della storia, che sia  stato attuato o individuato da 'questo o quel dritto  positivo, a noi importa, a rigor di termini, poco;  perchè il nostro quesito non è se esso esista o sia  esistito davvero, ma se debba esistere: onde 1 inesi-  stenza di fatto di esso non è argomento contrario  alla nostra teoria, come non le sarebbe argomento  favorevole la sua esistenza. Quando, in nome del  criterio sperimentale, si esclude la nozione del diit-  to naturale, si cade in una petizione di principio.  Si dà per provato quello che si doveva appunto  provare: che unico criterio conoscitivo della esistenza    234 —    0    n    delle cose sia l’esperienza, o, meglio ancora, che non  vi sia altra forma di esistenza che la esistenza empirica.  Ed in questa petizione di principio si risolve tutta la  critica esercitata dal positivismo sul dritto naturale.  Gli studi di filosofìa del dritto del Wallaschek e più  di tutto il libro recentissimo del Bergbolim, nel  quale è condotto un esame molto accurato del drit*-  to naturale (1), sono piene di argomentazioni sup-  pergiù del contenuto e del valore della seguente,  tormolata dal primo di quegli scrittori: Ausser dem  bestehenden Rechi gìebt es Icein anderes Recht , demi  es ist ein Widerspnich , anzunelimen , dass, ausser  dem bestehenden Recht, nodi ein Rcclit bestelit , das  nicht bestelit (2). É chiaro che un simile modo di  ragionare è il portato logico della ideologia positi-  vista, come è chiaro che ivi si confondono malac-  cortamente duo cose, che vanno divise o distinte, o,  almeno, sulla diversità o pluralità delle quali vol-  geva appuntò il quesito. L’ esistenza empirica delle  cose va distinta dalla esistenza metafìsica delle cose  stesse. Ora è appunto a questa esistenza metafisica che  fanno accenno i rivendicatori del dritto naturale.  Ai quali inopportunamente si fa rimprovero di as-  surdo paradossale, con una proposizione sofìstica di-  quel genere, dove il verbo essere vien preso in un  membro in un senso e nell’altro in un altro.  Line andere ivichtige Frage bleibt ja immer , ob  das Recht, das bestelit , aneli bestehen solite , aber  der Bcgrijj des Rechtes, das sein soli, darf nicht ver-    (1) Op. cit.   (2) Op. cifc. S. 96.    wechselt werden mit dem , das thatsàchlich vorhanden  ist, und nur dieses letztere ist Recht , das erstere soli  es sein (1). Ma, di grazia, quando mai il dritto na-  turale ha preteso di affermare la sua esistenza em-  pirica di fatto , ossia la sua esistenza di diritto  positivo? Esso ha sempre preteso di essere quello  che è, e quando ha detto: io sono: intendeva dire,  non già: io esisto davvero: ma: io debbo esistere.  L’ essere del dritto naturale è precisamente il dover  essere: il dritto naturale' è una norma ed è come  norma, cioè a dire come dover essere. Che non sia  punto un fatto, il primo ad esserne persuaso è esso  stesso. Appunto perchè non esiste necessariamente  nelle leggi positive, esso rivendica il suo dritto di  esistere. Ed in questo dritto ad esistere, non già  nell’ esistere davvero è riposto il suo essere. È ve-  ramente deplorabile che questi principi così elemen-  tari debbano essere ribaditi quando pareva che nes-  suno potesse dubitarne!   L’ empirismo è così scarso di prove contro il  dritto naturale, ch’esso non può neanche fermare  assolutamente che quel dritto non sia possibile  nelle stesse condizioni future dell’ esperienza. Vale  a dire, esso non solo non ha autorità di asserire che  il dritto naturale non sia . ovvero non debba esistere ,  ma non ne ha nemmeno per assicurare che esso non  possa esistere. Perchè il possibile ed il futuro ecce-  de il potere dell’ esperienza, la quale è limitata al  passato ed al presente; il poter essere o il sarà sono  quasi così lungi dal poter essere affermati e negati  dal positivismo che aspiri ad essere logico, quanto    — 236 —   lo è il dover essere (1). Esclusa, così, la possibili-  tà di uno di quei richiami al futuro che sono tra i  ripieghi prediletti dell’ empirismo, toltogli il modo  di dettar legge alla storia, ad esso non resta che  contenere le sue negazioni nella sfera del presente.  Allora la scepsi che esso esercita sul dritto natu-  rale va formolata nella tesi seguente: il dritto na-  turale non esiste come dritto naturale, perchè non  esiste come dritto positivo : una tesi sbalordi toia  che presuppone, in chi la . sostiene, il difetto asso-  luto della più elementare analisi ideologica e che  segna, mi si lasci dire la parola, la vera bancarotta  del positivismo giuridico.    (1) Stammler. S. 37.  

No comments:

Post a Comment