BENEDETTO CROCE GIOVANNI PASCOLI STUDIO CRITICO NUOVA EDIZIONE CON AGGIUNTE BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-L1BRAI 1920 PROPRIETÀ LETTERARIA MAGGIO MC'MXX- 55614 AVVERTENZA La buona accoglienza fatta alla ristampa in vo- lume separato del saggio sul Carducci ci muove a ristampare nella stessa forma il saggio che sul Pa- scoli il Croce pubblicò nel 1907 e raccolse poi nel 1915 nel quarto volume della Letteratura della nuova Italia. Abbiamo fatto seguire ad esso la risposta che nello stesso anno 1907 il Croce fece ai suoi critici, e due scritti pubblicati nel 1919 e nel 1920, nei quali egli ritorna sul suo vecchio giudizio per ribadirlo e particolareggiarlo. In appendice è un cenno e un saggio delle discussioni sollevate di recente sul Pa- scoli, a proposito di questi scritti del Croce. L'EDITORE. I GIOVANNI PASCOLI I. Leggo alcune delle più celebrate poesie di Giovanni Pascoli, e ne provo una strana impres- sione. Mi piacciono? mi spiacciono? SI, no: non so. Non mi smarrisco per questo, e non me la prendo né con la insufficienza mia né con quella del poeta. So bene che il giudizio dell'arte, ben- ché si fondi sulla ingenua impressione, non si esaurisce nelle cosiddette prime impressioni, e che Ruggero Bonghi fraintese quando scambiò e criticò Tuna per le altre, la logica della fan- tasia per la illogica del capriccio. E so bene che artisti assai energici disorientano, alla prima, il lettore: s'impegna come una lotta tra l'anima conquis tatrice e un'altra che non vuole — eppur vuole, — lasciarsi conquistare: lotta di amori estetici, arieggiante quasi quella dei sessi che corre attraverso tutto il mondo animale e che testé il De Gourmont ci ha descritta in un suo B. Croce, Giovanni Pascoli. 1 2 I - GIOVANNI PASCOLI libro popolare. Dunque, non mi smarrisco, mi rimetto all'opera, rileggo e rileggo ancora. Ma, per quanto rilegga, per quanto torni a quella lettura dopo lunghe pause, la strana perplessità si rinnova. Odi et amo: come mai? Nescio: sed fieri sentio et excrucior. Non è poeta grande colui che ha concepito / due cugini? I due bambini giocano tra loro, e si amano: quando si vedono, corrono, anzi volano l'uno verso l'altro, con tale impeto di gioiosità infantile abbracciandosi, che i loro ber- retti cascano e i capelli biondi mescolano i ric- cioli. Ma quei giuochi, quegli amori sono spez- zati: l'uno dei due, il maschietto, muore: appassi come rosa che in boccio appassisce nell'orto. E l'altra resta legata a lui: è «la piccola sposa del piccolo morto ». La bambina cresce: si cresce rapidamente in quegli anni: si fa giovinetta, già quasi donna. Ma l'altro no: si è fermato: colà dove l'hanno deposto, non si cresce. Sembra che, quando rivede la sua cuginetta, che si svolge e fiorisce col misterioso irrefrenabile impulso della vita e del sesso, egli le stia innanzi tra mera- vigliato, smarrito e umiliato: col capo non giunge al seno tuo nuovo, che ignora. Quella l'ama sempre: sempre le par di udir in- torno a sé « la fretta dei taciti piedi». Ma il morto non le sorride: la giovinetta fiorente non I - GIOVANNI PASCOLI 6 è più, per lui, la compagna di una volta; sente che gli è sfuggita, che non gli appartiene più: piangendo l'antica sventura, tentenna il suo capo di bimbo. Movimenti ed immagini di grande bellezza, cer- tamente. Ma, per un altro verso, già nel metro adottato, la terzina di novenari, si avverte qual- cosa non saprei se di ba llato o di ansimante, che stona con la calma sospirosa e dolorosa del piccolo idillio triste. La struttura generale è spiacevolmente simmetrica: divisa in tre parti, che paiono le tre proposizioni di un sillogismo. Il principio è un ex-abrupto, non libero di enfasi o di teatralità: S'amavano i bimbi cugini; l'immagine, che segue, è leziosa: pareva l'incontro di loro l'incontro di due lucherini. L'insistenza è soverchia, e anche di effetti tor- bidi. È stupendamente detto: Tu, piccola sposa, crescesti; man mano intrecciavi i capelli, man mano allungavi le vesti. E il crescere veduto realisticamente, ma soffuso di gentilezza: non ci vorrebbe altro. Ma no: il metro continua per suo conto: Crescevi sott'occhi che negano ancora; ed i petali snelli cadevano: il fiore già lega: 4 I - GIOVANN I PASCOLI fatica di paragoni, che ottenebra e non potenzia l'immagine già perfettamente determinata. E il metro continua ancora, come un cavallo che, nonostante gli abbiate fatto sentire il morso, vi trasporta per un altro tratto di via, che non si doveva percorrere: Ma l'altro non crebbe. Dal mite suo cuore, ora, senza perchè, fioriscono le margherite e i non ti scordare di me; dove quel « senza perchè » mi sembra davvero senza perchè; e la fiorita sulla tomba è roba vieta, resa più vieta ancora dalla romanticheria di quei « non ti scordare di me » , che cascano mollemente formando la chiusa del paragrafetto. Ahi! lo specchio tersissimo si è appannato: il ca- polavoro è rimasto a mezzo, come rosa che in boccio appassisce nell'orto. Valentino è un altro bambino. Solo un occhio di poeta può scoprire e far valere un'immagine tanto graziosa. È un contadinello tutto vestito di nuovo, ma a piedi scalzi: la madre, che lo ha visto tremar di freddo durante il gennaio, ha messo da parte a soldo a soldo un piccolo gruzzolo; e il gruzzolo è bastato per comprare il panno della veste e non già anche per la spesa delle scarpe: il grande sforzo di quella veste lo ha esaurito: I - GIOVANNI PASCOLI 5 Costa : che mamma già tutto ci spese, quel tintinnante salvadanaio: ora esso è vuoto, e cantò più d'un mese, per riempirlo, tutto il pollaio. Un solo aggettivo ben collocato è atto a sugge- rire una serie d'immagini: quasi si vede la po- vera donna, che scuote e fa «tintinnare» il rozzo salvadanaio di creta, per accertarsi del tesoretto che vi ha accumulato con tanto stento: é tu, magro contadinello, restasti a mezzo, così, con le penne, ma nudi i piedi come un uccello... La figura si raggentilisce in questo sorriso, fatto d'intenerimento: il contadinello è magro, diventa leggiero, si associa naturalmente all'immagine dell'uccello. Come un uccello, egli non prova impaccio né sente il ridicolo del suo abbiglia- mento a mezzo: come l'uccello venuto dal mare, che tra il ciliegio salta, e non sa ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare, ci sia qualch'altra felicità. Capolavoro? Neppur qui. Io ho riferito versi e strofe singole, trascegliendo nel piccolo com- ponimento. Ma, se ve l'avessi letto intero, ve ne avrei dato forse un concetto assai minore. Lascio stare il lungo ricamo che il Pascoli fa sul partico- lare dei piedini nudi. « Piedini nudi », dice tutto; ma il Pascoli, invece, non senza giuoco di parole: solo ai piedini provati dal rovo porti la pelle dei tuoi piedini... 6 I - GIOVANNI PASCOLI E non si contenta: porti le scarpe che mamma ti fece, che non mutasti mai da quel dì, che non costarono un picciolo... Insopportabile è, che faccia poi un simile ricamo anche al pollaio, che aveva cosi bene e sobria- mente evocato: e le galline cantavano: Un cocco! ecco ecco un cocco un cocco per te! Il delicato poeta si è messo a rifare il verso ai polli! E si resta con quel grido fastidioso negli orecchi, che pur non fa dimenticare del tutto il «tintinnante salvadanaio». Non meno originale, ossia poetico, è il Sogno della vergine. Anche la donna che non ha avuto figli, la vergine, è una madre, madre in potenza: esistono non solo i figli che sono nati, ma i « tigli non nati», bella immagine che il Pascoli ha, a quanto credo, creata lui, e che ritorna in molti suoi versi. La vergine dorme, e la madre che è in lei sogna in quel sonno: il sangue, che scorre per le sue membra, le si trasmuta e addolcisce come in latte: Stupisce le placide vene quel flutto soave e straniero, quel rivolo labile, lene, d'ignota sorgente, che sembra che inondi di blando mistero le pie sigillate sue membra... I - GIOVANNI PASCOLI 7 La vaga aspirazione si concreta in un piccolo essere: il sogno s'intensifica: accanto, ella sente un alito, un piccolo vagito: Un figlio! che posa sul letto suo vergine ! e cerca assetato le fonti del vergine petto ! E com'è materno quel sogno! Il bambino non sorride, trionfante di vita: il bambino ha bisogno della difesa di sua madre, che tanto più lo sogna e l'ama quanto più le par di doverlo difendere: egli «piange il suo tacito pianto >. Tacito: è un pianto veduto nel sogno. Ma come, d'altro canto, è lungo quel compo- nimento, la cui sostanza poetica sta tutta nelle poche immagini ora ricordate! È diviso in cinque parti: vi si descrive in principio la vergine dor- mente e il lume che vacilla nell'ombra della stanza: quasi che tale messa in iscena possa pre- parare in alcun modo la poesia, la quale comincia solo con l'immagine del sangue che si fa latte. Il Pascoli non se ne sta alla espressione delle «pie membra sigillate»: spiega: le gracili membra non sanno lo schianto, non sanno l'amplesso... e la spiegazione ridondante, in materia così sca- brosa, era da evitare. Neppure sta pago ad escla- mare, all'improvviso sorgere del bambino che brancola cercando avidamente il seno della madre: 0 fiore d'un intimo riso dell'anima! 8 I - GIOVANNI PASCOLI che è forse già un comento piuttosto eloquente che poetico; ma coraenta il comento e dà in ar- gutezze o agudezas: o fiore non nato da seme, e sbocciato improvviso ! Tu fiore non retto da stelo, tu luce non nata da fuoco, tu simile a stella del cielo, del cielo dell'anima... Il bambino è allontanato dal fianco materno e riposto fantasticamente in una culla. E la culla assume una grande importanza, tanto che le si rifa il verso come altra volta al pollaio: Si dondola dondola dondola senza rumore la culla nel mezzo al silenzio profondo; il che è inopportuno, ma chiaro. E al Pascoli non par chiaro, e aggiunge un paragone: cosi come tacita al vento, nel tacito lume di luna, si dondola un cirro d'argento. E vi ha, nel resto del componimento, esortazioni al bimbo perchè sorrida un istante; e vi si narra il sorgere dell'alba e lo svanire del sogno : narra- zione per lo meno altrettanto esuberante, quanto prima la descrizione della stanza e della lampada da notte. Il padre del Pascoli fu assassinato, una sera, sulla via campestre, mentre tornava alla sua casa. La mattina di quel giorno d'inenarrabile strazio e terrore, l'ultima volta che i suoi lo videro vivo, I - GIOVANNI PASCOLI \) è ricordata in ogni minimo particolare: con quel perduto dolore dell'animo che dice: — potevamo non lasciarlo andar via, quel mattino, e sarebbe ancora tra noi! — E la memoria scopre, o l'illu- sione fa immaginare, particolari quasi profetici. Il padre stava per salire sulla carrozza, circon- dato dai suoi, dalla moglie, dai figliuoli grandi e piccini, usciti sulla strada a salutarlo. Ma, nel- l'appressarsi ch'egli fece al suo cavallo: la più piccina a lui toccò la mazza. Gli prese il bastone, come per tirarlo indietro, e ruppe in pianto. Non voleva ch'egli andasse via: non voleva, così, irragionevolmente, come bimba che era; ed egli dovette ingannarla, per acchetarla: farle credere che rientrava in casa, ed uscire da un'altra porta. Quella manina di bimba è indimenticabile. Si sfiora quasi la genia- lità propria dell'artista, che coglie con un sol tratto un mondo di sentimenti. Ma si sfiora sol- tanto, e si perde daccapo. Che cosa diventa quel tocco affettuoso e spaventato di debole manina presaga? E un poco presa egli sentì, ma poco poco la canna, come in un vignuolo, come v'avesse cominciato il nodo un vilucchino od una passiflora... Diventa Io-Studio di una presidi manojnfantile. Al quale segue lo studio della mano: Sì: era presa in una mano molle, manina ancora nuova, così nuova che tutto ancora non chiudeva a modo. 10 I - GIOVANNI PASCOLI Andiamo innanzi: i bambini attorniano il padre, chiamando com'è lor uso: Egli poneva il piede sul montante; e in un gruppo le tortori tubarono, e si senti: — Papà! Papà! Papà! Quell'episodio commovente è accentuato in tal modo, e cosi materialmente, nelle sue minuzie, che ogni commozione sfuma. Tanto che io mi distraggo, e mi par d'avere udito altra volta un simile vocìo bambinesco, ma in un'arte più alle- gra; sì, per l'appunto, in un'opera buffa napole- tana, emesso da un gruppo di bambini che at- tornia il papà che li ha condotti a una fiera. Solo che i bambini dell'opera buffa cantano bene, per- chè si tratta di opera buffa; e quelli del Pascoli, nell'angoscioso ricordo, stonano. E poi, se altro non fosse, basterebbe anche qui, a turbare tutta l'ispirazione, il metro ado- prato: un metro quasi epico, lasse di dieci en- » decasillabi con assonanze. — Lo stesso sbaglio fondamentale è nell'altro episodio della medesima tragedia domestica: La cavalla storna, svolto ^jiel metro di un'antica romanza. Eppuxe. c'è l'ab- bozzo, o il_nòcciolo, di una grande poesia! La madre, rimasta priva del marito vilmente am- mazzato da uno sconosciuto, ha sempre fisso il pensiero in quel caso d'orrore. Chi, e perchè, gliel'ha ucciso? Nessuno era presente; ma l'uc- ciso aveva con sé la sua cavalla prediletta, una cavallina storna, che riportò verso casa il corpo sanguinante del suo padrone. Quella cavallina I - GIOVANNI PASCOLI 11 è sempre là, nella scuderia: ha visto, sa, un mi- racolo potrebbe farla parlare. E la donna, con quel pensiero in capo e con quegli atti quasi da folle che accompagnano il dolore, va a notte silente nella scuderia, e si pone accanto alla ca- vallina, e le parla e piange e supplica: e vuole aiutarla a significare ciò che sa. Pronuncia un nome, il nome che ella sospetta: lo pronuncia solennemente: «alzò nel gran silenzio un dito:... disse un nome... ». Ed ecco s'ode subito, alto, un nitrito di conferma! — La poesia si trascina non senza fastidio con la solita descrizione iniziale, con l'allocuzione verbosa della madre, ripartita in quattro parti e pause. Ma l'ansia della povera dolente è resa con tratti di grande efficacia. Sotto quell'ansia, sotto quell'implorante confidenza, la cavallina si umanizza, diventa una persona di casa, cara tra i suoi cari, partecipe della comune sventura: la scarna lunga testa era daccanto al dolce viso di mia madre in pianto: quadro d'infinita commozione. E la donna incalza nella sua preghiera, presa dalla brama furiosa di sapere, di veder chiaro: stava attenta la lunga testa fiera... Essa l'abbraccia come si fa a un figliuolo nel '-momento che è stato vinto dalla parola affet- tuosa e sta per confessarsi: mia madre l'abbracciò sulla criniera. 12 I - GIOVANNI PASCOLI La madre muore anch'essa, e la voce della morta il Pascoli la risente come di chi chiami il suo nome, il suo nome nel diminutivo fami- liare e dialettale, per parlargli di cose ed affetti domestici. Non è difficile intendere che quel di- minutivo familiare e dialettale non può essere ripetuto, nell'alta commozione lirica, cosi come par di sentirlo nella realtà. Perchè ciò che deve entrare nella lirica è il valore sentimentale di quell'invocazione, il suo accento intimo e fa- miliare, che la riproduzione fonica delle sillabe contraffa e non rende. Il Pascoli ha un inizio spontaneo, commosso e vivo: ~ C'è una voce nella mia vita, che avverto nel punto che muore: voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore: voce d'una accorsa anelante, che al povero petto s'afferra per dir tante cose e poi tante, ma piena ha la bocca di terra. È questa veramente l'immagine della madre nel suo gesto d'abbandono al petto fidato del Aglio, per isfogare ciò che le preme sul cuore: della madre, così come riappare attraverso la morte e il cimitero, deturpata dalla morte, bagnata di pianto. Ma il Pascoli riattacca: tante tante cose che vuole ch'io sappia, ricordi, sì... sì... Ma di tante e tante parole non sento che un soffio... Zvani... (l). (*) « Giovannino > , in dialetto romagnolo. I - GIOVANNI PASCOLI 13 E codesta è una profanazione, che non accrescerò col mio comento: come l'accresce per suo conto l'autore, che aggiunge altre sei parti, della me- desima lunghezza della prima che ho trascritta, e tutte sei finiscono con quel nome, con quel Zvani. Il soffio della voce della morta si è vol- garizzato in un ritornello! Pure, il ritornello, così malamente scelto, non soffoca del tutto il suono di quella voce di morta: voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore... Ai suoi morti è dedicato ancora TI giorno (\,p,i morti, cosi pesantemente sceneggiato e dram- matizzato, in cui ciascuno dei morti parla a sua volta compiangendo e lodando sé stesso. Vi sono accenti commossi: il padre, ammazzato a tradi- mento, dice: 0 figli, figli! vi vedessi io mai! io vorrei dirvi, che in quel solo istante per un'intera eternità v'amai. Ma, pronunziate appena quelle parole, par che ne resti come affascinato, e le volta e rivolta in varia forma: In quel minuto avanti che morissi portai la mano al capo sanguinante, e tutti, o figli miei, vi benedissi. Io gettai un grido in quel minuto, e poi, mi pianse il cuore: come pianse e pianse e quel grido e quel pianto era per voi. Oh le parole mute ed infinite che dissi! con qual mai strappo si franse la vita viva delle vostre vite... 14 I - GIOVANNI PASCOLI affinando, dunque, quel grido perfino in un bistic- cio e, in un'allitterazione. Il ciocco è un'altra delle ispirazioni profonde del Pascoli, che pur lascia mal soddisfatti, guar- dando alla composizione e al complesso della poe- sia. La prima parte è stata biasimata pei tanti oscuri vocaboli del contado lucchese che l'autore vi ha introdotti, e che hanno resa necessaria nelle nuove edizioni l'aggiunta di un glossarietto. Ma non sarebbe poi gran male se fossimo costretti a studiare qualche centinaio di vocaboli per giuri gere all'intendimento di un'opera bella. Coraggio, pigri lettori! ben altre fatiche di preparazioni godimenti artistici sogliono richiedere. Senonchè quella taccia, come accade, ne nasconde un'altra, che è la vera, concernente rejccesaiva_preoccu- pazione dell'autore per inezie di costumi e di re- la ti vj_ej^rjssioni, inconciliabile col motivo fonda- mentale, della, poesia, che si svolge nella seconda parte, in cui l'anima si eleva nella contempla- zione del cielo stellato. E anche questa seconda parte, che ha tratti assai felici, offende per le immagini incongrue o troppo dilatate, e per le ripetizioni stucchevoli. Così gli astri, che girano pel cielo, suggeriscono al Pascoli un sottile pa- ragone con le zanzare e coi moscerini, che girano intorno a una lanterna accesa, penzolante dalla mano di un bambino che ha perduto una mone- tina in una landa immensa e la va cercando e singhiozza nel buio. Al supremo momento lirico si giunge, quando alla mente del contemplatore si affaccia il pensiero della morte avvenire delle le, 1 I - GIOVANNI PASCOLI 15 cose tutte, la fine dell'uni verso; e nel suo cuore sorge una deserta angoscia pel morire non già dell'individuo, ma della vita stessa: per l'indi- viduo che muore senza che altri faccia splendere accanto a lui, riaccesa, la fiaccola della vita: Anima nostra! fanciulletto mesto! nostro buono malato fanciulletto, che non t'addormi s'altri non è desto ! ' felice, se vicina al bianco letto s'indugia la tua madre che conduce la tua manina dalla fronte al petto : contenta almeno, se per te traluce l'uscio da canto, e tu senti il respiro uguale della madre tua che cuce... Il sentimento di questa inquietezza e di questo quietarsi puerile è compiutamente espresso. Che si possa continuare ancora, indefinitamente, nel- l'enumerazione o nella gradazione ascendente e discendente di tutti i segni di vita che valgono a rasserenare un fanciullo nella sua paura della solitudine e a farlo addormentare tranquillo, nes- suno dubita: ma la lirica non è enumerazione. Il Pascoli non sembra di questo parere, e pro- segue: il respiro o il sospiro : anche il sospiro : o almeno che tu oda uno in faccende per casa, o almeno per le strade a giro ; o veda almeno un lume che s'accende da lungi e senta un suono di campane, che lento ascende e che dal cielo pende... Si fermerà a quest'ultimo verso, del quale evi- dentemente, cantandolo, si è compiaciuto? Ta- 16 I - GIOVANNI PASCOLI cera contento di quest'ultima dolcezza che lo sazia? Non ancora: ha ripreso il \&* fettazione, sono caso assai frequente; e rari sono invece coloro la cui opera complessiva si pre- senta con carattere di perfezione e di sceltezza,-*/** perchè hanno lavorato solo nei momenti di piena I - GIOVANNI PASCOLI 17 interna armonia, o hanno esercitato tale vigi- lanza sopra sé stessi da tener celate o da sop- primere le cose loro imperfette. I più affidano la cernita al tempo galantuomo e alla critica. E la critica suggerisce a questo propositojiue procedimenti, che più volte i lettori mi hanno visto adoperare in queste pagine. Il primo è di tentare una divisione nel tempo, e il secondo di tentarla (per cosi esprimermi) nello spazio. Vi sono, infatti, artisti che da una torbida e diva- gante produzione giovanile giungono, nella ma- turità, al possesso di sé medesimi; o che a una produzione geniale fanno seguire l'imitazione di sé medesimi, e, volendo, validius inflare sese, come la rana di Fedro, rupto iacent corpore; e, in tali casi, si possono distinguere, con limiti cronologici, le loro varie personalità. Ma ve ne ha altri i quali, durante tutta la lor vita, alter- nano le varie personalità, e, per esempio, nel periodo stesso che cantano commosse poesie d'amore, ne compongono altre falsamente eroi- che e politiche. Essi posseggono due strumenti, l'uno sinfono e l'altro asinfono, per dirlo nobil- mente in greco, o l'uno accordato e l'altro scor- dato, per dirlo umilmente in volgare, e suonano ora sull'uno ora sull'altro; e, forse, di quello scordato, su cui si travagliano e sudano, si van- tano assai più che non di quello accordato e docile alle loro dita. Per costoro la divisione si deve condurre secondo i motivi d'arte, gli spon- tanei e gli artificiosi, che muovono la loro pro- duzione. B. Croce, Giovanni Pascoli. 2 18 I - GIOVANNI PASCOLI Al Pascoli si è cercato di applicare ora l'uno ora l'altro procedimento; e, per cominciare dal primo, si è detto, e si è scritto anche, che chi voglia avere innanzi a sé il Pascoli vero, il Pa- scoli poeta, deve lasciare in disparte la sua pro- duzione degli ultimi anni, e risalire a quella più vecchia, ai Poemetti, alle Myricae, quali com- parvero in pubblico nel modesto volumino del 1892. E poiché, si sa, le opinioni variano, si è anche manifestato il parere inverso, che il Pa- scoli vero non bisogni cercarlo nelle poesie gio- vanili, ma nelle ispirazioni della piena maturità, culminanti nei Poemi conviviali e negli Inni. Ed io mi provo a seguire l'una e l'altra in- dicazione; e, dapprima, risalgo ai Poemetti e alle Myricae. Rileggo la Senignja, che è tra i più pregiati e pregevoli dei poemetti: prima parte di un «poema georgico », come è stato chiamato. Accostarsi a quei versi e respirare l'aria della campagna, aspirarne gli effluvi, vedere il caso- lare, i campi, le opere domestiche e rurali dei contadini, udirne i discorsi infiorati di proverbi e di sentenze, sentire dappertutto il profumo agreste delle cose e delle anime; è un'impres- sione immediata. Il poemetto s'inizia con un ri- sveglio mattinale in una casa di contadini: una delle fanciulle apre l'imposta, i rumori della vita ricominciano e vi sono orecchi che li raccolgono: la cappellaccia manda dal cielo il suo garrito, la gallina raspa sul ciglio di un fosso, il cane di guardia s'alza, scuote la brina scodinzolando, con uno sbadiglio: si odono per la campagna i pennati I - GIOVANNI PASCOLI 19 che squillano sul raarrello. La fanciulla si accosta al davanzale, monda le piante, coglie una spiga d'amorino; e poi, a quel davanzale stesso, co- mincia a ravviarsi i capelli, come contadina, alla grande aria, in faccia al sole: or luce or ombra si sentia sul viso; che il sol montando per il cielo a scale, appariva e spariva all'improvviso. Così è descritta l'intera giornata. Il fruscio stri- dulo delle granate passa e ripassa per la casa, che ha ormai tutte le imposte spalancate: si ri- governa la cucina, dove le stoviglie paiono ris- sare tra loro nel silenzio del mattino. Più tardi, si apparecchia il desinare per gli uomini che lavorano nei campi: sul tagiier pulito lo staccio balzellò rumoreggiando. Il bianco fiore ella ammucchiò : col dito aperse il mucchio, e vi gettava il sale e tiepid'acqua dal paiolo avito. Poi ch'ebbe intriso, rimenò l'uguale pasta e poi la parti: staccò dal muro il matterello, strinse il grembiale; e le spianate assottigliò col duro legno, rotondo, a una a una; e presto sì le portava al focolare oscuro. Via via la madre le ponea nel testo, sopra gli accesi tutoli; e su quello le rigirava con un lento gesto : né cessava il rullìo del matterello. Tutti i gesti, tutti gli oggetti, tutte le colloca- zioni spaziali, sono individuati con nitidezza non 20 I - GIOVANNI PASCOLI facilmente superabile. — E si assiste così anche alla cottura degli erbaggi all'olio: Ora la madre ne la teglia un muto rivolo d'olio infuse, e di vivace aglio uno spicchio vi tritò minuto. Pose la teglia su l'ardente brace, col facile olio, e solo intenta ad esso un poco d'ora l'esplorò sagace. L'olio cantò con murmure sommesso; un acre odore vaporò per tutto. Fumavano le calde erbe da presso, nel tondo, ch'ella inebriò del flutto stridulo, aulente; e poi nel canovaccio nitido e grosso avviluppava il tutto. E Rosa in tanto sospendea lo staccio, poneva i pani sopra un bianco lino, stringea le cocche, e v'infilava il braccio. Tornò Viola e furono in cammino. La scena ci sta innanzi agli occhi come in un quadro: è larverà vita campestre. Sì: ma e l'in- tonazione, cioè il significato estetico, cioè l'anima, di queste descrizioni e dell'intero poemetto? Il Pascoli non compone egloghe più o meno alle- goriche, come nel medioevo e nel Rinascimento; non vuol rinfrescare le sensazioni erotiche im- mergendole nella vita della campagna; non si accosta ai contadini per curiosarne le goffaggini, come nelle nostre vecchie poesie rusticane, dalla Nencia del magnifico Lorenzo giù giù fino ai Cecchi da Varlungo degli epigoni e tardi imita- tori del Seicento. Se non m'inganno, il suo pre- cedente ideale è piuttosto in quel rifacimento dell'intonazione omerica, che già gli studiosi di I - GIOVANNI PASCOLI 21 Omero nella Germania della fine del secolo de- cimottavo tentarono, e che consigliò a Volfango Goethe lo Hermann und Dorothee. L'intonazione omerica si sente non solo in certi collocamenti di epiteti (il primo verso dice: «Allorché Rosa dalle bianche braccia»: leucolena, dunque, come Hera), e in certe ripetizioni e minuterie, ma in tutto l'andamento. Il metro non è l'esametro, ma la terzina, col serrarsi deciso dell'ultimo verso di coda, alla fine delle brevi riprese: / t. A monte a mare ella guardò : guardato ch'ebbe, ella disse (udiva sui marrelli a quando a quando battere il pennato) : aria a scalelli, acqua a pozzatelli. Domani voglio il mio marrello in mano: che chi con l'acqua semina, raccoglie poi col paniere; e cuoce fare in vano più che non fare. Incalciniamo, o moglie. L'intonazione omerica, trasportata alla vita umile e alle umili cose, ha del gioco letterario; come si può notare finanche nella meravigliosa ope- ricciuola del Goethe. Ma presso il Pascoli vi si mescola altresì qualcosa ora di fine e squisito: (l'aratro andava, ne l'ombrìa, pian piano: qualche stella vedea l'opera lenta... una campana si sentiva sonare dal paese: non più che un'ombra pallida e lontana); e ora di affettato, come nel racconto che il cac- ciatore fa della fiaba della cinciallegra, soldato 22 I - GIOVANNI PASCOLI di guardia degli uccelli; o nella preghiera del- l'Angelus: Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave, da la sorrisa paroletta alata: (disse la voce tremolando grave) tu che ne l'aia bianca e soleggiata eri e non eri, seme che vi avesse sperso il villano da la corba alzata; ma poi l'uomo ti vide e ti soppresse, t'uccise l'uomo, o piccoletto grano; tu facesti la spiga e poi la messe e poi la vita... o in quest'altro suono di campane: Era nel cielo un pallido tinnito: Dondola dondola dondola/ A nanna a nanna a nanna! — Il giorno era finito. Ed il fuoco accendeva ogni capanna, e i bimbi sazi ricevea la cuna, col sussurrare de la ninna nanna. E le campane, A nanna a nanna! l'una; l'altra Dondola dondola! tra il volo de' pipistrelli per la costa bruna. A nanna il bimbo, e dondoli il paiuolo ! Il poemetto parrebbe legato da un filo sottile, una storia d'amore: Rosa ed Enrico il cacciatore s'innamorano. Un amore che prova pudore a mostrarsi: appena accennato nel pensiero di Rosa, che non può pigliar sonno e, quando s'ad- dormenta, sogna: Pensava: i licci de la tela, il grano de la sementa, il cacciatore; e Rosa lo ricercava; dove mai? lontano. In una reggia. E risognò... Che cosa? I - GIOVANNI PASCOLI 23 Similmente, nella seconda parte intitolata l'Ac- cestire, è significato l'amore del giovinotto: E la sua strada seguitò pian piano, e ripensava dentro sé: che cosa? ch'era gennaio... ch'accestiva il grano, ch'era già tardi... ch'eri bella, o Rosa! È un episodio nel quadro; ma, come si è notato, non è l'afflato animatore del tutto. Cosi anche questo poemetto ci lascia perplessi: è nitidissimo alla prima specie, e tuttavia non lo compren- diamo bene. Ora ha dell'esercitazione letteraria, ora della lirica tormentata: il tono ora ci sembra quasi scherzoso, esagerato di proposito nelle mi- nuzie come a prova di bravura, ora grave e so- lenne. È di un poeta? è di un virtuoso? Dove finisce il poeta? dove comincia il virtuoso? Se dalla Sementa risalgo ancora più su, alle prime Myricae, trovo, tra l'altro, un intero ciclo di piccoli componimenti di dieci versi ciascuno: L'ultima passeggiata, che si può dire la prima idea del poemetto ora esaminato. La figura di fanciulla, che vi è accennata, « la reginella dalle bianche braccia » , è una sorella di Rosa, anzi è Rosa medesima. Sono quadretti minuscoli: l'ara- tura, la massaia con le sue galline, la via fer- rata e il telegrafo che percorrono le campagne recando l'impressione della rumorosa vita lon- tana, le comari che ciarlano in capannello, l'oste- ria campestre sull'ora del mezzodì, il partir delle rondini, l'apparecchio e cottura del pane di cru- schello, la ragazza che aiuta la madre nelle fac- 24 I - GIOVANNI PASCOLI cende domestiche e fa da piccola madre ai mi- nori fratelli e tiene le chiavi del cassone della biancheria odorata di lavanda, e vede accumu- larsi colà dentro il corredo che fa presentire prossime le nozze. E sono quadretti perfettamente intonati: non v'ha niente di ciò che stride o appare incerto nei poemetti. Arano: Nel campo dove roggio sul filare qualche pampano brilla, e dalle fratte sembra la nebbia mattinai fumare, arano : a lente grida, uno le lente vacche spinge, altri semina: un ribatte le porche con sua marra paziente: che il passero saputo in cor già gode e il tutto spia dai rami irti del moro ; e il pettirosso: nelle siepi s'ode il suo sottil tintinno come d'oro. Le comari in capannello: Cigola il lungo e tremulo cancello e la via sbarra: ritte allo steccato cianciano le comari in capannello : parlan d'uno, eh' è un altro scrivo /scrivo, del vin, che costa un occhio, e ce n'è stato; del governo; di questo mal cattivo; del piccino; del grande ch'è sui venti; del maiale, che mangia e non ingrassa — Nero avanti a quegli occhi indifferenti il traino con fragore di tuon passa. Di poesie come queste sono ricche le prime My- ricae, e ce n'e anche nella serie di quelle altre che ne continuano la maniera, aggiunte nelle posteriori edizioni. Un'impressione di campagna, mentre soffia il vento freddo e agita un piccolo I - GIOVANNI PASCOLI 25 bucato di bimbo, messo ad asciugare presso un tugurio: Come tetra la sizza, che combatte gli alberi brulli e fa schioccar le rame secche, e sottile fischia tra le fratte! Sur una fratta (o forse è un biancor d'ale?) un corredino ride in quel marame: fascie, bavagli, un piccolo guanciale. Ad ogni soffio del rovaio che romba, le fascie si disvincolano lente, e da un tugurio triste come tomba giunge una dolce nenia paziente. Una fanciulla cuce il suo abito di sposa; a un tratto leva la testa e ride: Erano in fiore i lilla e l'ulivelle; ella cuciva l'abito di sposa ; né l'aria ancora apria bocci di stelle, né s'era chiusa foglia di mimosa: quand'ella rise: rise, o rondinelle nere, improvvisa: ma con chi? di cosa? rise così con gli angioli: con quelle nuvole d'oro, nuvole di rosa. In queste poesiole, nemmeno le onomatopee di voci d'uccelli e di altri suoni e rumori offen- dono j3iù. Perchè, a mio parere, hanno avuto torto i critici quando per quelle onomatopee hanno aperto contro il Pascoli uno speciale pro- cesso: le cosiddette onomatopee sono legittime o illegittime secondo i casi; e quando il Pascoli le adopera fuori luogo (ed^èu-JL-dir vero, il caso pijij[requen.te), l'error suo è una delle tante forme di quella tendenza all'insistere eccessivo, alla minuteria, alla riproduzione materiale, ossia di 26 I - GIOVANNI PASCOLI quell'affettazione e disposizione asinfonica che è in lui. Ma quando, nelle prime Myricae, scrive per la prima volta l'ormai famigerato scilp dei passeri e viti videvitt delle rondini, io non trovo luogo a scandalo, perchè in quel caso il Pascoli mantiene un'intonazione bassa e pacata; nota l'impressione immediata della cosa, e aggiunge un'osservazione quasi riflessiva: Scilp: i passeri neri sullo spalto corrono molleggiando. Il terren sollo rade la rondine e vanisce in alto: vitt, videvitt. Per gli uni il casolare, l'aia, il pagliaio con l'aereo stollo; ma per l'altra il suo cielo ed il suo mare. Questa, se gli olmi ingiallano la frasca, cerca i palmizi di Gerusalemme: quelli allor che la foglia ultima casca, restano ad aspettar le prime gemme. E non può scandalizzare il rosignolo, che ripete l'aristofaneo nò xió, topoid XiX(£; o bisogna aver dimenticato che la poesiola del Pascoli, da cui è tolto il particolare tante volte citato come esempio di stravaganza, è un apologo scherzoso : il rosignolo è allegoria del poeta, le ranocchie del grosso pubblico. Comincia, infatti, cosi: Dava moglie la Rana al suo figliuolo. Or con la pace vostra, o raganelle, il suon lo chiese ad un cantor del brolo... In tale apologo, in siffatta intonazione, la cercata reminiscenza aristofanesca sta perfettamente a posto e conferisce grazia. Il risultato medesimo si ha ove si confrontino I - GIOVANNI PASCOLI 27 altri poemetti, quelli di contenuto filosofico e morale, con le Myricae di simile contenuto. Il Libro vuol far sentire l'ansiosa e vana ricerca del vero, che l'uomo persegue: un libro (l'im- magine deve essere stata attinta a un noto luogo del Wilhelm Meister, circa i drammi dello Sha- kespeare), un libro, aperto sul leggio nell'altana, e le cui pagine sono rimescolate dal vento, sug- gerisce la presenza di un uomo invisibile che frughi e frughi e non trovi la parola che cerca. " Ma l'impressione solenne, che si vorrebbeotte- • nere^è impedita dalla realtà determinata di quel libro, sul leggìo dfquercia, roso dal tarlo, di quel rumore di fogli voltati a venti a trenta a cento, con mano impaziente, « avanti indietro, indietro avanti »; e dalla freddezza allegorica onde il vo- lume così determinato si trasfigura, in fine, nel «libro del mistero », sfogliato «sotto le stelle». Nei Due fanciulli, malamente si lega alla sce- netta dei due fanciulli, che litigano e si graffiano e che la madre manda a letto, ed essi nel buio si cercano e si rappaciano e dormono abbrac- ciati, l'ultima parte, che dà l'interpetrazione allegorica della scenetta ed esorta gli uomini alla concordia: il quadretto idillico impiccolisce l'ammonizione solenne, questa appesantisce il quadretto. Ma i versi gnomici delle Myricae sono, nella loro tenuità, incensurabili. Li ravviva, an- che nella loro tristezza, un lieve sorriso. Il cane: Noi, mentre il mondo va per la sua strada, noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l'affanno, sì, che pur vada, e si, che lento vada. 28 I - GIOVANNI PASCOLI Tal, quando passa il grave carro avanti del casolare, che il rozzon normanno stampa il suplo con zoccoli sonanti, sbuca il can dalla fratta, come il vento; 10 precorre, l' insegue; uggiola, abbaia. 11 carro è dilungato lento lento, e il cane torna sternutando all'aia. Parrebbe dunque che dicano bene coloro che soltanto nel Pascoli delle prime Myricae ritro- vano un poeta armonico e compiuto. Ma si os- servi: che cosa sono quelle poesie? Sono pensieri sparsi, schizzi, bozzettini: un albo di pittore, che può essere di molto pregio, ma che rappresenta, piuttosto che l'opera d'arte, gli elementi di essa. Le Myricae sembrano spesso pochi tratti segnati a lapis da un pittore che vada in giro per la campagna : Lungo la strada vedi sulla siepe ridere a mazzi le vermiglie bacche: nei campi arati tornano al presepe tarde le vacche. Vien per la strada un povero che il lento passo tra foglie stridule trascina: nei campi intona una fanciulla al vento: — Fiore di spina!... E lo schizzo ha la sua attrattiva, ed anche la sua compiutezza: quasi una compiutezza dell'in- compiutezza. Sono anch'io dell'avviso che nelle prime Myricae soltanto il Pascoli abbia la calma dell'artista. Ma bisogna essere pienamente con- sapevoli di ciò che così si afferma, e che è, né più né meno, questo: che il meglio dell'arte del Pascoli è nella sua riduzione a frammenti, nel I - GIOVANNI PASCOLI 20 suo sciogliersi negli elementi costitutivi. Di fram- menti stupendi sono conteste anche le poesie che abbiamo ricordate e criticate come deficienti di fusione e di armonia: solo che nel contesto ar- tificioso perdono la loro naturale virtù. E già nelle prime Myricae l'arte del Pascoli, non appena tenta maggiori voli, scopre il suo solito difetto. In alcune saffiche, ma specialmente poi nei sonetti, egli è ancora sotto il freno e la disciplina del suo grande maestro Carducci, sic- ché, tolta la costrizione di quel modello, non ha scritto più sonetti. Ha continuato invece le odi- cine tra l'agreste e l'oraziano, tra la campagna e la letteratura, che formarono il ciclo Alberi e fiori, al quale alcune nuove sono state aggiunte fin nell'ultimo volume di Odi e inni. In qualche altro breve componimento, c'è un'ispirazione er.ojifa: come nel Crepuscolo, in cui egli celebra il doppio momento del giorno, l'alba e il tra- monto, quando la bella si snoda dalle sue braccia «e con man vela le ridenti ciglia», o l'accoglie nelle braccia, « e il dolce nido come suol pispi- glia ». La « reginella dalle bianche braccia » non è guardata con occhio indifferente, come la Rosa degli anni più tardi. C'è nei versi a lei dedicati, in mezzo alle reminiscenze dell'omerica Nau- sicaa, un calor di sentimento, che fa di quelle tre poesiole alcune delle migliori pagine delle Myricae. Felici i vecchi tuoi; felici ancora i tuoi fratelli ; e più, quando a te piaccia, chi sua ti porti nella sua dimora, o reginella dalle bianche braccia! 30 I - GIOVANNI PASCOLI Il poeta si raffigura non senza trepidazione le prossime nozze: Quella sera i tuoi vecchi... quella notte i tuoi vecchi un dolor pio soffocheranno contro le lenzuola. Per un momento sogna di esser lui lo sposo felice: Al camino, ove scoppia la mortella tra la stipa, o ch'io sogno o veglio teco: mangio teco radicchio e pimpinella. Al soffiar delle raffiche sonanti l'aulente fieno sul forcon m'arreco e visito i miei dolci ruminanti: poi salgo e teco — o vano sogno!... Vano sogno: lo scolaro è costretto a tornare al suo latino e al suo calepino. Ma io sento in questa lirica amorosa l'eco dell'Idillio maremmano del Carducci, e più an- cora della poesia di Severino Ferrari; la quale giustamente è stata più volte ricordata negli ultimi anni, a proposito del Pascoli (1). A ogni (l) Sul Ferrari, si veda il volume secondo della Lettera- tura della nuova Italia, pp. 280-9. Lo stato d'animo dei due poeti (le prime Myricae e la prima ampia raccolta dei Versi del Fer- rari furono pubblicate entrambe nel 1892) era, per molti ri- spetti ed anche per molte circostanze estrinseche, simile. Gli autori infatti si dimostrano scolari del Carducci nella predi- lezione per le forme della poesia trecentesca e popolare, in certe movenze di stile, in quel piglio robusto e semplice in- sieme, che fece già lodare la poesia carducciana come la più « parlata > di tutte le nostre. Erano, inoltre, quasi compaesani, con le medesime fonti materiali d'ispirazione: i paesaggi, i costumi, le consuetudini di vita, cui alludono nei loro versi, sono gli stessi nel poeta di San Pietro a Capofiume e in I - GIOVANNI PASCOLI 31 modo, il Pascoli non ha più ripreso^ codesti mo- tivi: anzi, dalle'posteriori edizioni delle Myricae la lirica « Crepuscolo » è stata_espunta. Ed egual- mente ne è stato espunto un sonetto, in cui il poeta prendeva atteggiamento e nome di ribelle di fronte a un principe; come non ha mai rac- colto i versi rivoluzionari, pei quali era noto tra i suoi condiscepoli di Bologna e dei quali conosco alcuni, che credo inediti e che cominciano: Soffriamo! nei giorni che il popolo langue è insulto il sorriso, la gioia è viltà! Sol rida chi ha posto le mani nel sangue, e il fato che accenna non teme o non sa. Prometeo sull'alto del Caucaso aspetta, aspetta un hel giorno che presto verrà; un giorno del quale sii l'alba, o Vendetta! un giorno il cui sole sii tu, Libertà!... quello di San Mauro, nel campagnuolo dell'estremo bolo- gnese e in quello della confinante estrema Romagna: en- trambi sbalzati come insegnanti nelle più lontane regioni d'Italia, e portanti nel cuore l'uno il piccolo borgo «dove non è che un argine, cinque olmi e quattro case*, e l'altro «sempre un villaggio, sempre una campagna», il paese do- minato dalla « azzurra vision di San Marino » . E furono, infine, coetanei, condiscepoli ed amici, e si scambiavano versi, e l'uno ricordò l'altro nelle proprie poesie. Per la comunione d'anime che si forma tra giovani fervidi di disegni e di speranze, alcuni atteggiamenti artistici doverono passare dall' uno al- l'altro; né è detto che il « succubo » fosse sempre il Pascoli, quando già nel Mago il Ferrari celebrava l'amico come l'ar- tista «dalla lima d'oro», dalle «fresche armonie, dai baldi voli », e simboleggiava l'arte di lui nel canto di un lieto coro di « giovani capinere e usignuoli ». Accade quindi che, alcune volte, leggendo il Ferrari, par di leggere il Pascoli della prima maniera. Cosi in certe impressioni di campagna: «C'è un zufolar sì tremulo che viene Di fondo ai fossi... »; in certe 32 I - GIOVANNI PASCOLI Ma da questo Pascoli amoroso e ribelle, da questo Pascoli « preistorico » , tornando allo « storico » , \ dicevamo, dunque, che nelle prime Myricae, e soprattutto nella serie che le seguì, già si vede ì com'egli si sforzi ad una poesia più complessa e personale ed intensa, e come dia subito in disarmonie. Il buon piovano, che passa pei campi salutando e benedicendo. tutti, è una figura che ha tocchi esagerati. Benedice anche il falco, anche il falchetto (nero in mezzo al ciel turchino), anche il corvo, anche il becchino, poverino, che lassù nel cimitero raspa raspa il giorno intero. visioni di opere agricole: «Anco per poco ondeggerete, o chiome De la canapa verde...»; in certi interni di case ru- stiche e di cucine : « Là splendeva co '1 giorno nei decenti Costumi la virtù della massaia... »; e finanche nella descri- zione della vita degli uccelli, nei pensieri dei rosignuoli o negli amori delle capinere: «Come un argenteo tinn di cam- panello... » 7 D'altra parte, nel Pascoli si risentono accenti del Ferrari: « Cantano a gara intorno a lei stornelli Le fiorenti ragazze occhipensose... »; « Siedon fanciulle ad arcolai ron- zanti...». Ma la poesia del Ferrari, se mostra una cerchia di pensieri e di sentimenti più ristretta di quella del Pascoli ed è alquanto inferiore a questa per maturità di forma, è poi fortemente dominata dal sentimento d'amore, che manca quasi affatto nel Pascoli: Se corso d'acqua o ben fiorito ramo 6 strepito di venti o di bell'ale chieda l'onor del breve madrigale, non l'ottiene però se una gioconda forma di donna a la romita scena non dia '1 senso d'amor ond'ella è piena. I - GIOVANNI PASCOLI 33 L'affettazione è già nel Morticino: Andiamoci a mimmi, lontano lontano... Din don... oh ma dimmi: ^on vedi ch'ho in mano il cercine novo, le scarpe d'avvio?... e nel Rosicchiolo (la madre morta ha accanto un pezzo di pane, serbato pel figlio), tutto rotto e ansante di esclamazioni: Per te l'ha serbato, soltanto per te, povero angiolo; ed eccolo o pianto! lo vedi? un rosicchiolo secco. Moriva sul letto di strame; tu, bimbo, dormivi, sicuro. Che pianto ! che fame ! Ma c'era un rosicchiolo duro... e in altre molte. Già vi sono le inopportune ma- terialità. I versi Scalpitio: si sente un galoppo lontano (è la...?) che viene, che corre nel piano con tremula rapidità; non sono da riprovare (come è stato fatto) per l'ardimento metrico, ma perchè la previsione della Morte che sopraggiunge è diventata in essi qualcosa di prosaico, quasi di un treno che ar- rivi; e il verso, lodato per bellissimo: «con tre- B. Croce, Giovanni Pascoli. 3 34 I - GIOVANNI PASCOLI mula rapidità», è di una precisione sconcordante col soggetto; come sconcordante è il triplice grido ultimo: «la Morte! la Morto! la Morte!», che ricorda quello del madrigale di Mascarille: « Au voleur! au voleur! au voleur! au voleur! » . Lo strafare appare già per molti segni. Alla breve poesiola: II cuore del cipresso, sono state aggiunte, nella seconda edizione, altre due parti per rincupirla e renderla enfatica; con raffinati giochetti come: «l'ombra ogni sera prima entra nell'ombra», e con interrogativi a più riprese: «E il tuo nido? il tuo nido?...». Finanche la ottava quasi in tutto bella delle prime Myricae: Lenta la neve fiocca fiocca fiocca: senti: una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. La vecchia canta: Intorno al tuo lettino c'è rose e gigli, tutto un bel giardino. Nel bel giardino il bimbo s'addormenta. La neve fiocca lenta lenta lenta; — è stata esagerata, non potendosi altro, nel titolo. S'intitolava semplicemente: Neve, e fu poi inti- tolata: Orfano; laddove è evidente che nessuna ragione artistica costringeva a privar dei geni- tori quel caro piccino, che piange, « il piccol dito in bocca » ! Allorché, dunque, nelle Myricae si prescinda da ciò che è eco o incidente passeggero o sem- plice schizzo e quadretto minuscolo, vi si trova in embrione il Pascoli con le sue virtù e coi suoi I - GIOVANNI PASCOLI 35 difetti. Le Myricae contengono i motivi da cui si svilupperanno i Canti di Castelvecchio e i poemetti georgici e morali; i quali danno poi la mano ai Poemi conviviali e agli Inni. III. È da vedere perciò se non convenga seguire l'altra indicazione, che ci è stata offerta: che cioè il Pascoli vero sia da cercare nella sua poesia ultima e degli anni maturi, neLJPascoli « maggiore » contrapposto al « minore » , in quello delle solenni composizioni in terzine e in ende- casillabi sciolti. È da vedere se di quei difetti, di cui è libero nelle prime Myricae perchè si appaga del piccolo, non sia riuscito poi a libe- rarsi anche e meglio per altra • via, lavorando in grande, componendosi un gran corpo. E poiché non diletta sfondare porte aperte, lascio da banda gl'Inni, che per comune e con- corde giudizio sono la parte più debole della sua produzione ultima, e vado difilato ai Poemi convi- viali. Nei quali, a tutta prima, sorprende un'aria di compostezza, una facilità ed egualità d'into- nazione, onde par di avere innanzi un'altra persona, o tale che si è sviluppata cosi improv- visamente e magnificamente che non lascia ri- conoscere l'antica. Che cosa è mai accaduto? Il Pascoli, oltre che poeta, è anche umanista: con- forme alla tradizione della nativa Romagna (clas- sicheggiante, più forse che altra regione d'Italia 36 I - GIOVANNI PASCOLI nel secolo decimonono), e all'indirizzo della scuola del Carducci. Non è un pensatore, e nemmeno propriamente quello che si dice un dotto, perchè la sua solida cultura letteraria non è orientata verso la ricerca scientifica o storica, ma verso il godimento del gusto e la riprodu- zione della fantasia. Perciò ha qualcosa di an- tiquato rispetto al modo moderno della filologia; e, insieme, qualcosa di raro e di sorprendente. Da scolaro, faceva meravigliare i condiscepoli che di- cevano ch'egli attendesse a mettere in prosa attica l'autobiografia del Cellini; e ancora si narrano le sue prodezze di versificazione latina e greca. Ha presentato più volte poemetti latini alla gara internazionale di Amsterdam, e più volte ha ri- portato il primo premio. Ha compilato antologie di poesia latina, e postovi introduzioni critiche, nelle quali si trovano brani e pagine descrittive, — gli aedi, Achille morente, l'agone tra Omero ed Esiodo, Solone vecchio che vuol imparare un canto di Saffo e morire, ecc. — che ricompaiono nei Poemi conviviali (*). Ora, in questi poemi (*) Un esempio. « L'aedo viaggia per l' Hellade divina e per le isole. Si aggira spesso lungo il molto rumoroso mare per trovare una nave bene arredata, che lo tragitti: egli paga i nocchieri con dolci versi, se è accolto... Ma, se è re- spinto, maledice... Così a tutti si rivolge l'aedo, che a tutti canta, uomini e dei: entra come nella casa dei re, così nella capanna del capraio ; chiede con la maestà del sacerdote sì ai pescatori che tornano, sì ai vasai che accendono la for- nace ; e canta. Qualche volta dorme sotto un pino della cam- pagna: qualche volta, sorpreso dalla neve, vede risplendere in una casa'ospitale la bella fiammata, che orna la casa come I - GIOVANNI PASCOLI 37 egli sposa la sua ispirazione poetica alle forme della poesia greca, nella cui riproduzione ha acquistato pratica meravigliosa. Come nei poe- metti presentati alle gare olandesi parla latino, e in latino dà i primi abbozzi o le varianti del Ciocco, dei Due fanciulli e di altre sue compo- sizioni italiane, così nei Poemi conviviali parla greco: greco con parole italiane, ma con tutte le inflessioni, i giri, i sottintesi di chi si è a lungo nutrito di poesia greca. Il libro è un trionfo' della virtù assimilatrice, un capolavoro di aultura umanistica. Questo linguaggio greco, adottato dal Pascoli, conferisce alla sua nuova o/pera un aspetto meno agitato e dissonante. Ma, quando si afferma, com'è stato affermato, che nel passare dalla lettura dell' Odissea a quella dei Poemi conviviali non si avverte diversità di sorta, bisogna rispondere di star bene attenti a non lasciarsi ingannare dalle apparenze. Sotto l'acqua limpida e cheta si muove la corrente ' 'jf /) turbinosa e torbida. Pascoli è Pascoli e non'l^y»*/ Omero: è, anzi, la sua, quanto di più dissimile )J^ i figli l'uomo, le torri le città, i cavalli la pianura, le navi il mare». (Epos, p. xxi). Si ascolti ora II cieco di Ohio: Io cieco vo lungo l'alterna voce del grigio mare; sotto un pino io dorino dai pomi avari; se non se talora m'annunziò, per luoghi soli, stalle di mandriani, un subito latrato; o, mentre erravo tra la neve e il vento, la vampa da un aperto uscio improvvisa nella sua casa mi svelò la donna, che fila nel chiaror del focolare. 38 I - GIOVANNI PASCOLI si possa pensare dalla poesia omerica: questa così ingenuamente umana, quella cosi sapiente nella sua umanità, cosi sorpresa e stupita della sua ingenuità che sta a guardarla e a riguardarla in viso, e ad ammirarla; e non le par vera! Si può scegliere a piacere qualsiasi dei suoi poemi, giacché il loro valore press 'a poco si equi- vale. Anticlo è nato da due versi e mezzo del- l'Odissea.'. Anticlo, nel cavallo di legno, sta per rispondere alla voce di Elena che contraffa quella della moglie di lui, quando Ulisse gli caccia la mano nella gola (1), Il Pascoli comincia con l'ese- guire variazioni intorno a questo motivo. Le due prime parti del poemetto sono quasi ripetizioni l'una dell'altra: un granellino di poesia è diluito in molta acqua: E con un urlo rispondeva Anticlo, dentro il cavallo, a quell'aerea voce, se a lui la bocca non empia col pugno Odisseo, pronto... La voce dilegua chiamando ancora .per nome, finché non s'ode più nulla: finché all'orecchio degli eroi non giunse che il loro corto anelito nel buio; così come, all'ora del tramonto, mentre essi se ne stavano chiusi nel gran cavallo, udirono lon- tanare i cori delle vergini; e poi si fece sera, e (4) ''AvxikX,05 5è aé y' 0X05 à[igCi|>ac8ai èjiéeaaiv fj8EXv, àXV 'Oòvaaevq è:tl nàaxaxa xeQoi Jite^ev VO)X8|léa)5 KQaT8QTÌ, come è stata argutamente chiamata. E l'idillio di un animo piagato; è una pace di conquista, non di natura. La casetta e la famigliuola, che sono le imma- gini consuete dell'idillio, hanno accanto a sé, nella visione del Pascoli, un'altra casa e un'altra famiglia in cui egli vive non meno che in quelle in cui trascorre la vita materiale: il cimitero, e i fantasmi dei suoi morti. Questi morti sono sem- pre con lui: tornano sempre a quelle pareti do- B. Croce, Giovanni Pascoli. 4 50 I - GIOVANNI PASCOLI raestiche da cui furono crudelmente strappati: toccano e riconoscono le loro masserizie, i loro abiti, le tele che tesserono e cucirono, i figliuoli che generarono e lasciarono bambini, i fratelli coi quali divisero le prime gioie brevi e i primi pungenti dolori. Immagini di morti, che si tirano dietro, nell'animo del poeta, altre immagini affini: mendichi, vecchi, ciechi, bambini deboli e pian- genti. È un idillio, irrigato di pianto: il tesoretto domestico, sul quale egli vive, è formato dal ricordo dei mali e delle angosce sofferte. L'ere- mita (del poemetto cosi intitolato), nello scendere lungo il fiume della morte, grida: Signore, fa ch'io mi ricordi! Dio, fa che sogni! Nulla è più soave, Dio, che la fine del dolor; ma molto duole obliarlo; che gettare è grave il fior che solo odora quando è còlto. Da questa contemplazione, fatta fine e abito di vita, sorge una forma di serenità: l'animo, non più interiormente dilaniato, può volgersi al mondo esterno, e guardare ed osservare e comentare, in un modo per altro sempre intonato alle sofferte vicende: calmo, sì, ma non gaio: sereno, ma non agile e leggiero. E sorgono insieme le gioie modeste: l'attitu- dine a godere delle cose piccole, del riposo gior- naliero, della mensa, della passeggiata, dello studio; a scoprire in esse un sapore, una virtù ascosa, che altri, più fortunati o più sfortunati, non vi scoprirebbero: come nel fior d'acanto, che I - GIOVANNI PASCOLI 51 le api regali disdegnano, le api legnaiole trovano il miele e la contadinella sugge il nettare ignoto. A te né le gemme né gli ori forniscono dolce ospite, è vero; ma fo che ti bastino i fiori che cògli nel verde sentiero, nel muro, sulle umide crepe dell'ispida siepe. Non reco al tuo desco lo spicchio fumante di pingue vitella; ma fo che ti piaccia il radicchio, non senza la sua selvastrella, con l'ovo che a te mattutina cantò la gallina. Questa disposizione d'animo è stata dal Pa- scoli, negli ultimi tempi, innalzata a una teoria etico-sociologica, che egli non si stanca di pre- dicare in tutte le occasioni: tanto che, per questo rispetto, stiamo per avere, anche noi italiani, il nostro Tolstoi (purtroppo, solo il Tolstoi che filo- sofeggia!). La natura è una madre dolcissima che sa quel che fa, che ama i figli suoi, e dal male ricava per essi il bene. La vita è bella, o sarebbe, se gli uomini non la guastassero. Ma gli uomini avvelenano ogni cosa con la discordia, con l'odio, con la guerra, e con la cupidigia insaziabile, che è il movente riposto e ultimo. Bisogna dunque dichiarar guerra alla guerra; non ammettere di- visioni fatali, esser di nessun partito, addetti so- lamente alla causa dell'umanità: non ridere delle parole carità e filantropia, ma accettarle meglio che quelle di socialismo, individualismo e simili; 52 I - GIOVANNI PASCOLI il vero socialismo è il continuo incremento della pietà nel cuore dell'uomo. Tutte le cose buone sono identiche, o s'identificano: il patriottismo non sta contro il socialismo, e viceversa: il so- cialismo dev'essere patriottico, e il patriottismo socialistico. Tutto è affar di cuore, di dolcezza, di pietà. Anche la scienza e la fede non debbono rissare: la scienza deve tener della fede e la fede della scienza. Codesta non già transvalutazione, ma adeguazione o depressione di valori, è sug- gellata dalla virtù del contentarsi: contentarsi del poco, perchè, se il molto piace, il poco solo è ciò che appaga. « Uomini, contentatevi del poco (assai, vuol dire si abbastanza e sì molto: filosofia della lingua!), e amatevi tra voi nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità». — Una filosofia, che è già bella e criticata, quando si è mostrato che nasce da uno stato d'animo in- dividuale; e del resto, il Pascoli stesso, pratica- mente, come uomo, la contradice quando, appena qualcuno tocca ciò che gli è caro (la sua arte, o i, suoi convincimenti critici), corre alle difese e alle offese; non esita a chiamare «stolti» o « sciocchi » i suoi accusatori (si veda la prefa- zione ai Poemi conviviali)) e, insomma, conserit proelia, viene alle mani: di che non lo biasimerò io certamente, perchè mi par naturale che ognuno protegga, come può, le cose che ama. Nasce da uno stato d'animo e ci conferma questo stato d'animo, che è quello che abbiamo definito come una varietà del sentimento idillico. Ora, il sentimento idillico è costante in tutta I - GIOVANNI PASCOLI 53 l'opera letteraria del Pascoli: involuto, e qua e là lievemente sorridente, nelle primissime Myri- cae, chiaramente spiegato nelle poesie posteriori. Non fanno eccezione i Poemi conviviali, il cui contenuto sono la natura, la morte, la bontà, la pietà, l'umiltà, la poesia; e la poesia e la morte più d'ogni altra cosa: pensieri tristi e delicati, che risuonano sulle labbra dei personaggi del mito, della leggenda e della storia ellenica. Per bocca dell'antico Esiodo parla sempre il Pascoli: E sol com'ora anco è felice l'uomo infelice: s'egli dorine o guarda: N quando guarda e non vede altro che stelle, quando ascolta e non ode altro che un canto; il Pascoli stesso è effigiato in Psiche, che solitaria nella sua casa intende l'orecchio al canto di Pan: Eppur talvolta ei soffia dolce così nelle palustri canne, che tu l'ascolti, o Psiche, con un pianto sì, ma ch'è dolce, perchè fu già pianto e perse il triste nel passar degli occhi la prima volta; o nell'aedo Femio, che parla ad Ulisse e dice della poesia, quel che già era stato detto nelle varie allegorie ed apologhi delle Myricae: Un nicchio vile, un lungo tortile nicchio, aspro di fuori, azzurro di dentro, e puro, non, Eroe, più grande del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare, con le burrasche e le ritrose calme, 54 I - GIOVANNI PASCOLI coi venti acuti e il ciangottio dell'acque. Una conchiglia breve, perchè l'oda il breve orecchio, ma che tutto l'oda; tale è l'aedo. Pure a te non piacque. La medesimezza dell'ispirazione nei Poemi con- viviali, e nelle Myricae e Poemetti, è stata con- cordemente riconosciuta; e in questo senso si è bene affermato che il Pascoli ellenico è un elle- no-cristiano. Diversa opinione è stata manifestata per gli Inni', e si è detto che il Pascoli vuol tentar in essi la corda eroica, e fallisce. E gli si è dato sulla voce, consigliandolo (per parlare col suo poeta) a meditare silvestrem musam tenui avena, ad attenersi al deductum Carmen, al calamos inftare leves, se non voglia stridenti miserum stipula disperdere carmenì Ma gl'inni, nel loro complesso, contengono nient'altro che la predi- cazione del solito vangelo pascoliano: si ricordino quelli sull'anarchico assassino dell'imperatrice Elisabetta, sul negro di Saint-Pierre, sulla ucci- sione di re Umberto, sul Duca degli Abruzzi e la spedizione al Polo, sulle stragi civili del maggio 1898. E si deve concludere che non vi ha luogo a distinguere, nell'opera del Pascoli, filoni diversi di pensieri, correnti diverse di sentimento, e ad assegnare la parte geniale della poesia di lui all'una delle correnti, e l'artificiosa all'altra. Si deve concludere che anche il secondo dei due procedimenti critici, che abbiamo ricordati, si chiarisce inapplicabile al caso suo. GIOVANNI PASCOLI 55 V. E così l'arte del Pascoli par che serbi sempre l'aspetto di un problema. La genialità e l'artificio, la spontaneità e l'affettazione, la sincerità e la smorfia, appaiono uniti negli stessi componimenti, nelle stesse strofe, talvolta in un singolo verso. Il male attacca la lirica nelle sue radici e nelle sue fibre più intime, nel metro; talché in mol- tissime poesie del Pascoli la mossa metrica è come staccata dall'ispirazione: quasi si direbbe che, appena sorto il germe di vita, un microbio vi si sia precipitato sopra a contaminarlo. L'im- pressione del lettore è quella che io ho notata in principio: l'attrattiva e la repulsione, il rapimento e il disgusto si avvicendano. Abbiamo insieme un poeta ingenuo e uno bambinesco; un lirico del dolore e un « assassinato di dolore » , come avrebbe detto Pietro Aretino; un commoso can- tore della pace e un predicatore alquanto untuoso; un uomo santo e un sant'uomo, uno spirito re- ligioso e un prete. Stiamo a momenti per gridargli entusiasmati: Quae Ubi, quae tali reddam prò Carmine donaci, e donargli la nostr'anima (unico dono degno che possa farsi ai poeti); ma, nel- l'istante seguente, lo slancio del donatore resta sospeso. E il critico è messo in imbarazzo: press'a poco nella situazione di Gargantua, quando gli nacque il figlio e gli mori la moglie, che non sapeva se dovesse ridere o piangere: *Et ledóbufe qui troubloil san en tende meni esloit assavoir 53 I - GIOVANNI l'AS mon s'il devoit pleurer poùr le deuil de sa femme, ou rire pour la joie de son filz. D'un coste et d'aulire, il avoit argumens sophistiques qui le suffoquoient, car il les faisoit tres ìnen in modo et figura, mais il ne les pouvoit souldre. Et, par ce moyen, demeuroit empestrè cornine la souris empeigée, ou un milan pris au lacet». Ma il critico non vuole escogitare « argumens sophistiques»: vuol vederci chiaro, e non gli riesce. Non è una consolazione osservare che questa incertezza si ritrova nell'opinione generale con- cernente il Pascoli. Coloro che più ponderata- mente hanno scritto della sua opera, mostrano sempre, in modo espresso o tra le linee, una tal quale insoddisfazione: e ora concludono che il Pascoli non giunge alla creazione spontanea e ^geniale; ora riconoscono quel che c'è d'imper- fetto nelle sue più belle creazioni; ora lo consi- derano piuttosto come precursore che come ar- tista compiuto in sé stesso; ora lamentano che nel Pascoli ci sia l'imitazione di sé medesimo, il pascolismo. Più volte ho potuto osservare che alcuni dei maggiori estimatori e lodatori di lui non sanno celare la loro dubbiezza e cercano come di essere rassicurati sulla legittimità della loro ammirazione; o alcuni dei più risoluti avver- sari non si sentono, nella manifestazione del loro dispregio, in completa buona coscienza. Tanta è questa incertezza, che si ode lamen- tare non essere stato finora il Pascoli giudicato degnamente perchè la critica italiana è inferiore I - GIOVANNI PASCOLI 57 al compito suo; ed altri scusano la critica con- siderando l'arte del Pascoli come un'arte dell'av- venire, che solo in una nuova fase spirituale potrà essere compresa a pieno. Sarà dunque così? Fallimento della critica? o rinvio all'avvenire? Ma, prima di ricorrere a codeste ipotesi da disperati (da disperati, perchè non verificabili), bisogna esaminare un'ipotesi più semplice. La quale è, che ciò che si presenta come problema sia una soluzione; che ciò che sembra una do- manda, sia già una risposta ; che questa mia cen- sura critica, che finora sembra tutto un prologo, sia già una conclusione. Il Pascoli è, per l'appunto, quale lo siamo venuti osservando: uno strano miscuglio di spon- taneità e d'artifizio: un grande-piccolo poeta, o, se piace meglio, un piccolo-grande poeta (cosi come, in una delle sue poesie, la terra a lui appa- risce un « piccoletto-grande presepe » !). In lui, anche dopo le prime Myricae, sono sorti motivi poetici felicissimi, anzi più ricchi forse e più pro- fondi dei suoi primi; ma codesti motivi non ven- gono padroneggiati e ridotti a unità artistica, e non acquistano quell'intonazione armonica, che è la manifestazione dell'unità. Era uno squisito poeta nelle prime Myricae, restio a scrivere e a stampare, tanto che si denominava da sé « Be- lacqua», e, sfiducioso, non cercava la fama. Ma! la fama l'ha raggiunto, e lo ha eccitato a una produzione abbondante e artificiale. Spirito poe- tico qual egli è, non riesce mai a diventare del tutto un retore; ma non riesce neppure alla poe- K 58 I - GIOVANNI PASCOLI sia compiuta, e s'indugia in una semi-poesia. Perciò anche egli, ora, non vede nessun termine alla sua produzione: smarrito il senso della sin- tesi artistica, di ogni commozione fa una lirica, prima che sia diventata veramente tale: la sua produzione si è resa facile e meccanica. « Quanto più di numero vorrei che fossero! (scrive nella prefazione di Odi e inni, che pure son troppi e troppi). Io sento di non avervi ancor detto nulla di ciò che avevo per i vostri cuori. E temo di andarmene, volgendomi disperatamente addietro per dirvi ciò che non dissi, e che è sempre e ancora il tutto. Bisogna affrettarsi, ora. Gli anni non vengono, ora: vanno ». Perciò, non s'acqueta in nessuna delle sue creazioni. Ogni materia di- venta per lui inesauribile. Il tragico fato del _padre gli è fonte perpetuajd^__pjoesia^,appunto perchè nessuna perfetta poesia ne è nata. Egli sente nell'aria il rimprovero per quel suo inces- sante verseggiare i casi della propria famiglia; e si difende: «Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti o ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che siano morti » . E non si tratta di questo: i lettori non l'accusano di parlar troppo di suo padre, ma di non parlarne abbastanza poeticamente; ed egli forse insiste nel tema, non perchè spinto da dovere domestico, ma perchè avverte, sia pure confusamente, che non è giunto ancora a concretare il suo sentimento nelle im- I - GIOVANNI PASCOLI 59 magini. Quella tragedia familiare gli sta dinanzi come un grosso blocco di marmo, che non sa come lavorare: ne fa con lo scalpello saltare qualche scheggia, ma non v'incide una volta per sempre la statua o il gruppo. Per la stessa ra- gione, infine, la sua opera poetica ha l'aria di una poesia dell'avvenire: i motivi, che vi sono abbozzati e non perfettamente elaborati, paiono aspettare e provocare l'artista, che li ripiglierà. VI. Come dal suo stato d'animo idillico il Pascoli ha tratto una filosofia che è la conferma di quel suo stato, cosi dalla sua arte imperfetta ha tratto un'estetica e una critica, che è il riflesso teorico di essa, e insieme una conferma dell'analisi che si è tentata in queste pagine. Il poeta jegli dice ed io compendio), il poeta vero è un fanciullo: è l'anima che ama il poco, le piccole cose, la campagna piccola, il campicello, l'orto con una fonte e con un po' di selvetta, il cavallino, la carrozzina, l'aiolina. E l'ama con la dolcezza della pietà: perchè il poeta non solo è il fanciullo, ma è anche il poverello dell'umanità, spesso cieco e vecchio. Per conseguenza, in quanto poeta, è sempre ispiratore di buoni e civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano: è sempre socialista, perchè è umano: esclude l'impoetico, e alla fine si trova che l'impoetico è quello appunto che la morale riconosce cattivo e l'estetica dichiara 60 I - GIOVANNI PASCOLI brutto: l'esclude non di proposito, non ragionando, ma cosi istintivamente, perchè ne ha paura o schifo. Ciò che esce fuori di questo amore pel piccolo) non è poesia. Le armi, le aste bronzee, i carri di guerra, i lunghi viaggi, le traversie, sì, perchè sono cose che il fanciullo ricerca con avida curiosità, e le vagheggia palpitando di gioia. Ma tale non è l'amore, l'eros; tale non è tutta la moltitudine irosa delle altre passioni. Ciò il Pascoli chiama non più elemento poetico, ma drammatico; non più poesia pura, ma applicata; non più di sentimento, ma di fan- tasia. Con l'introduzione dell'elemento erotico, l'essenza poetica diminuisce: le figure omeriche sono più poetiche di quelle della tragedia ellenica: Rolando della Chanson è più poetico dell'Orlando innamorato e furioso dei romanzieri italiani. La Comedia dantesca, come tutti i grandi poemi, i grandi drammi, i grandi romanzi, è poesia ap- plicata: è un gran mare, nel quale di tanto in tanto si pesca una perla, un prodotto di poesia pura; com'è, per esempio, nel Purgatorio la descrizione dell' «ora che volge il desio ai na- viganti ■» . Questa estetica è la base della sua critica letteraria. Di Omero mette in mostra l'intona- zione fanciullesca: « descriveva i particolari l'uri dopo l'altro, e non ne tralasciava uno, nemmeno, per esempio, che le schiappe da bruciare erano senza foglie. Che tutto a lui pareva nuovo e bello, ciò che vi aveva visto, e nuovo e bello credeva avesse a parere agli uditori. La parola c bello * I - GIOVANNI PASCOLI 61 e ' grande ' ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconosceva la cosa. Diceva che le navi erano nere, che avevano dipinta la prora, che galleggiavano perchè ben bilanciate, che avevano belli attrezzi, bei banchi; che il mare era di tanti colori, che si moveva sempre, che era salato, che era spumeggiante...». L'Eneide di Virgilio diventa pel Pascoli quasi un duplicato della Georgica: l'Eneide canta, si, guerra e bat- taglie; ma « tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettìo mattutino di rondini o pas- seri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma». Nelle sue introduzioni aXY Epos e alla Lyra, il Pascoli evoca la Grecia primitiva coi suoi aedi e mendicanti, ricchi di meravigliose storie, fanciulli parlanti ad altri fanciulli, o ri- sveglianti nell'uomo adulto il fanciullo: evoca il Lazio primitivo, con la sua vita agreste piuttosto che guerresca. È da notare un'altra dottrina letteraria del Pascoli, che si lega alla precedente. Egli afferma che per la poesia vera e propria agli italiani manca, o sembra mancare, la lingua; e che bi- sogna riproporsi il problema posto e studiato dal Manzoni: il problema della lingua. La lingua, che si adopera, è troppo generica e grigia. « Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de' fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S'ha sempre a dire uccelli, si di quelli che fanno tottavì e si di quelli che fanno crocrol Basta 62 I - GIOVANNI PASCOLI dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo co- perto di margherite e un altro gremito di cro- chi?». Ed insegna ai fanciulli il segreto per di- ventar valenti in poesia: «Chiedete sempre il nome di ciò che vedete e udite; chiedetelo agli altri, e solo quando gli altri non lo sappiano, chiedetelo a voi stessi, e, se non c'è, ponetelo voi il nome alla cosa » . Anche questa dottrina è base ai suoi giudizi critici. Esamina il Sabato del vil- laggio del Leopardi, e trova indeterminato e vago il verso «un mazzolin di rose e di viole»; & avrebbe desiderato maggiore precisione per es- sere in grado così di stabilire a quale mese del- l'anno si riferiva il poeta con la sua descrizione: corregge altrove il Leopardi, che accenna al canto degli usignoli, notando che nella valle di Recanati si odono invece le cingallegre; l'Elogio degli uccelli gli suggerisce l'esclamazione : « mai un nome di uccelli: tutti uccelli, tutti can- terini! ». Ora è evidente, per quanto riguarda la dot- trina estetica, che il Pascoli ha equivocato, scambiando e confondendo in uno l'ideale fan- ciullezza, che è propria della poesia la quale si libera dagl'interessi contingenti e s'affisa ra- pita nelle cose, — la fanciullezza che è imma- gine della contemplazione pura, — con la rea- listica fanciullezza, che si aggira in un piccolo mondo perchè non conosce e non è in grado di dominarne uno più vasto. E l'equivoco lo ha menato diritto a negare carattere d'arte pura I - GIOVANNI PASCOLI 63 a quasi tutta l'arte; a distinguer l'arte dalla fantasia confinandola al sentimento, e a muti- lare il sentimento stesso confinandolo a quel solo sentimento che non sia erotico o passionale, al sentimento idillico. La sua dottrina sulla lingua ha stretta affi- nità con quella di Edmondo de Amicis e degli altri linguai; vale a dire, si riduce in fóndo al- l'eretismo delle piccole cose, agli alberi che im- pediscono la vista della selva. Dice il Leopardi nella Vita solitaria: Talor m'assido in solitaria parte sovra un rialto, al margine d'un lago di taciturne piante incoronato. E un De Amicis o un Pascoli a domandare ; — Piante? ma quali piante? di quale specie e sot- tospecie e famiglia e varietà? Qui c'è l'indeter- minato e l'impreciso! — quasi che Leopardi dovesse essere, in quel momento, non già un'anima assorta nel problema del dolore e del fine del- l'universo, ma un dilettante di botanica; come prima, nel caso degli uccelli, non un filosofo pes- simista, ma un cacciatore, esperto a riconoscere lo voci e le forme degli uccelli, a cui mirerà con lo schioppo! La critica del Pascoli, infine, è unilaterale ed esagerata. Dove egli s'incontra con poeti e con situazioni poetiche che rispondono al suo proprio ideale e alla sua angusta teoria, li sente e interpreta bene, e vi fa intorno osservazioni assai fini. Ma, trovandosi più spesso innanzi a 64 I - GIOVANNI PASCOLI un'arte diversa, è costretto o a tacere o a ri- durla sofisticando alla sua personale visione. Rare sono le eccezioni, dovute allo spontaneo irrom- pere di un più compiuto senso dell'arte. Ma è veramente l'Eneide quella che egli ci presenta nel giudizio riferito di sopra? E, per esempio, il passionale episodio di Didone, cosi importante e significante, come si concilia con la veduta georgica dell'essenza del poema? E, veramente, lo stile di Omero quello che il Pascoli ci ha de- scritto, o non è di un Omero reso da lui alquanto puerile? Anche i saggi di traduzione che il Pa- scoli ci ha dati dei poemi omerici destano i me- desimi dubbi. Non istituirò sottili confronti con l'originale, convinto come sono che la poesia, rigorosamente parlando, non si traduce; o, come è stato detto di recente e assai bene da un critico d'arte tedesco, che chi traduce con la pretesa di sostituire l'originale, fa come uno che volesse dare a un innamorato un'altra donna in cambio di quella che egli ama: una donna equivalente o, su per giù, simile; ma l'innamorato è inna- morato proprio di quella e non degli equiva- lenti. Né contesterò l'utilità grande che avrà per la cultura italiana il possedere un Omero messo in italiano da un profondo grecista e da un espertissimo letterato, quale il Pascoli: anzi affretto coi miei voti il compimento del- l'opera. Ma, considerando quelle traduzioni per sé, come opere d'arte che stiano da sé, a me pare che tra l'Omero alquanto rimbambinito del Pascoli, e quello un po' enfatico e accade- I - GIOVANNI PASCOLI 65 mico, ma pur grandioso, di Vincenzo Monti, chi legga per mere ragioni di godimento artistico preferirà sempre il secondo: Elena dunque venire vedevano verso la torre, e l'uno all'altro parlava parole dall'ale d'uccelli : — Torto non è che Troiani ed Achei dalle belle gambiere da sì gran tempo per tale una donna sopportino il male... Il Monti ha soppresso le ali di uccello e le belle gambiere, sentendo che il loro valore si falsifica nella letterale versione italiana; ha aggiunto qualche suo tocco: ne è uscito un quadro o una statua alla David o alla Canova, ma, a ogni modo, una pagina d'arte: Come vider venire alla lor volta la bellissima donna, i vecchion gravi alla torre seduti, con sommessa voce tra lor venian dicendo : — In vero biasmar né i Teucri né gli Achei si denno se per costei si diuturne e gravi sopportano fatiche... Il fanciullesco non c'è più; ma c'era veramente in Omero? L'omerico neanche c'è più; ma si poteva rendere? e l'ha reso poi il Pascoli? — Parla Achille ad Ettore caduto: Ettore, tu lo credevi spogliando il mio Patroclo morto, d'esser salvo, e di me ch'ero lungi, pensier non ti davi bimbo! ma in parte da lui c'era un molto più forte com- pagno presso le navi cavate, c'ero io dietro ad esso rimasto, che i tuoi ginocchi snodai! I cani e gli uccelli da preda strascicheranno ora te; lui seppelliranno gli Achei! B. Croce, Giovanni Pascoli. 6 66 I - GIOVANNI PASCOLI Anche qui mi pare che sia più facile gustare il Monti, che traduce nello stile neoclassico, non senza qualche svolazzo accademico: Ettore, il giorno che spogliasti il morto Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo terror ti prese del lontano Achille. Stolto! restava sulle navi al mio trafitto amico un vindice, di molto più gagliardo di lui: io vi restava, io, che qui ti distesi. Or cani e corvi te strazieranno turpemente, e quegli avrà pomposa dagli Achei la tomba. Comunque, la critica del Pascoli, quando non può interpretare in modo rispondente al suo ideale di vita le opere poetiche, divaga, come può vedersi nei citati discorsi introduttivi alle raccolte dell'Epos e della Lyra, i quali sono i suoi migliori lavori critici: serie di note sugli aedi dell'Eliade, sulla condizione dei poeti nella primitiva società romana, sulle leggende di Roma confrontate con quelle dell'epos ellenico, su Enea e Odisseo, su questioni biografiche e cronologi- che, sulle varie redazioni del testo dell' Eneide, e simili, che non stringono dappresso il problema critico. Nella sua inesatta idea dell'arte è anche l'ori- gine di quella singolare opera critica, che sono i parecchi volumi da lui dedicati dall'esegesi dantesca. Il Pascoli non sembra ancora investito dello spirito della critica moderna, per la quale il pensiero poetico e la grandezza di Dante non sono riposti nelle allegorie e nei concetti morali. I - GIOVANNI PASCOLI 67 La sua Minerva oscura (prendo questo libro come esempio) discute ancora con gravità e come di problemi di alta importanza, se il sistema delle pene e dei premi sia il medesimo nell'Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso; se delle tre fiere la lonza rappresenti l'incontinenza, il leone la violenza, la lupa la frode; se il messo del cielo sia Enea; perchè il conte Ugolino stia nell'An- tenora e non nella Caina, e via dicendo: questioni di nessuno o di assai scarso significato non solo per l'intelligenza artistica di Dante, ma anche per la conoscenza della vita medievale e delle intenzioni e dei sentimenti appartenenti alla bio- grafìa di Dante : inezie, che, di giunta, sono per lo più questioni insolubili, per mancanza di dati di fatto sufficienti; onde rendono possibile quel raziocinare all'infinito, che piace ai perditempo, e quell'acume a buon mercato, che piace ai vanitosi. Ed ecco il Pascoli, per le scoperte del genere accennato, « raggiante di solitario orgoglio » . «Aver visto nel pensiero di Dante!... (dice nella prefazione alla Minerva oscura). Io, la vera sen- tenza, io l'ho veduta! Si: io era giunto al polo del mondo dantesco, di quel mondo che tutti i sapienti indagano come opera di un altro Dio! Io aveva scoperto, in certo modo, le leggi di gra- vità di quest'altra Natura; e quest'altra natura, la ragione dell'universo dantesco, stava per sve- larsi tutta!». Sembra anche qui Edmondo de Amicis, quando, dopo aver veduta e toccata a Granata la cassetta delle gioie d'Isabella di Ca- 68 I - GIOVANNI PASCOLI stiglia, si guardava le mani, esclamando come incredulo o trasognato: «Io l'ho toccata, con queste mani!». Ma il Pascoli si ricorda, subito dopo, del doveroso sentimento di modestia: scac- cia via con piglio risoluto l'orgoglio, benché, nello scacciarlo, gli accada (disavventura in cui incap- pano di solito i modesti) di accentuarlo più for- temente: «Cancelliamo quelle superbe parole! Mi perdoni chiunque ne sia rimasto scandalizzato! Oh, se la gloria è ombra di vanità... Via dal cuore cosi perverso fermento!». Il che non im- pedisce che, qualche anno dopo, egli non sappia tenersi dal contare la sua scoperta e la sua gloria ai fanciulli delle scuole d'Italia: « E io vi dico, o fanciulli, che il tempio (la Divina Commedia) è ancora in piedi, e che è bello dentro e fuori, e più bello nel suo complesso che nei suoi par- ticolari che sono pur bellissimi, e che nel tempio e si gode molto, per la grande bellezza, e s'im- para molto per la ingegnosa verità; e che vi si può entrare, perchè la chiave si è trovata. E se vi soggiungessi che l'ho trovata io, mi direste superbo? Quanti trovano, figliuoli miei, una chiave, in questo mondo, e non sono detti superbi se dicon d'averla trovata e la riportano! E poi, sapete dove l'ho trovata? Nella serratura. Era nella toppa, la chiave del gran tempio! Era lì, e bastava appressarsi un poco per vederla e gi- rarla ed entrare! Ma nessuno s'era, a quanto pare, appressato assai » (Fior da flore, prefaz.). E, an- cora qualche tempo dopo, con rapida mutazione di stile, rivolgendosi ai critici, e alludendo ai suoi I - GIOVANNI PASCOLI 69 volumi danteschi, scritti e da scrivere: «Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati ; ma vivranno. Io morrò: quelli no. Così credo, cosi so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il genio di nostra gente, Dante, la additerà ai suoi figli ». In questi giubili, in questi vanti, in queste stizze, in questa virtù che si nasconde ma se cupit ante videri, abbiamo innanzi, veramente, non il fanciullo divino e poetico, ma il fanciullo realistico e prosaico. E neppure nelle poesie del Pascoli c'è solo il divino infante. Anche colà, come nella sua dottrina estetica e critica, i due esseri, così all'apparenza simili, così nel profondo diversi, sono abbracciati e stretti in un amplesso indissolubile. Questo amplesso del poeta ut puer e del puer ut poeta è forse il simbolo più ade- guato dell'arte di Giovanni Pascoli. 1906. II INTORNO ALLA CRITICA DELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA E ALLA POESIA DI G. PASCOLI. Il mio giudizio sul Pascoli ha suscitato — e me le aspettavo — vivaci opposizioni e contro- versie. E a proposito di esso si è ripreso a di- scutere di quel che sia o debba essere la critica letteraria, e dei vantaggi e degli inconvenienti di questo e di quel metodo, e del metodo in ge- nere. Ecco dunque buona occasione per meglio chiarire le idee non ancora del tutto chiare (seb- bene molto meno confuse di quanto fossero alcuni anni addietro) sull'ufficio della critica, e anche per aggiungere qualche cosa circa la poesia del Pascoli. Quale sia il metodo di critica, che si professa in queste pagine, può compendiarsi in poche parole, quasi in un catechismo. È una critica fondata sul concetto dell'arte come pura fantasia o pura espressione, e che per conseguenza non esclude dalla cerchia dell'arte nessun contenuto 72 II - INTORNO ALLA CRITICA o stato d'animo, sempre che sia concretato in un'espressione perfetta. Fuori di tale concetto, quella critica non ha alcun altro presupposto teorico, e rifiuta come arbitrarie le cosiddette regole dei generi e ogni sorta di leggi letterarie e artistiche. Per giudicare d'arte non conosce altra via che quella d'interrogare direttamente l'opera stessa e risentirne la viva impressione; e a questo fine, e solo a questo fine, crede am- messibili, anzi indispensabili, le ricerche che si chiamano storiche o filologiche, le quali hanno valore ermeneutico e servono a trasportarci, come si dice, nelle condizioni di spirito dell'au- tore nell'atto che formò la sua sintesi artistica. Ottenuta la viva impressione, ossia il congiun- gimento con lo spirito dell'artista, il lavoro ulteriore non può esplicarsi se non nel deter- minare ciò che nell'oggetto che si esamina è schietto prodotto di arte, e ciò che vi si contiene di non veramente artistico, come sarebbero, per esempio, le violenze che l'autore fa alla sua visione per intenti sovrapposti, le oscurità e i vuoti che lascia sussistere per ignavia, le gon- fiature e fiorettature che introduce per far colpo, i segni dei pregiudizi di scuola, e tutta insomma la varia sequela delle deficienze e viziature ar- tistiche. Il risultato di questo lavoro è l'esposi- zione o ragguaglio critico, che dica semplice- mente (e, nel dir ciò, ha insieme giudicato) wie es eigentlich gewesen, « come sono andate propriamente le cose », secondo la definizione, geniale nella sua semplicità, che Leopoldo Ranke II - INTORNO ALLA CRITICA 73 dava della storia. Perciò critica d'arte e storia d'arte, a mio vedere, s'identificano: ogni tenta- tivo di critica d'arte è tentativo di scrivere una pagina di storia dell'arte (intendendo la parola « storia » nel suo . senso alto e compiuto, cioè nel suo senso vero). La critica distingue e caratterizza le forme prese dallo spirito artistico nel corso della realtà, che è svolgimento e storia. Mi ha recato dunque meraviglia leggere su pei giornali che questo metodo vuol « misurare la fantasia e l'estro di un poeta col metro di preconcetti pedanteschi » , o che esso applica all'arte « i criteri logici che sono propri della critica della scienza » , o che si fonda sui « ca- ratteri estrinseci » dell'opera d'arte; — quando vero è proprio l'opposto, cioè che esso è sorto per discacciare preconcetti pedanteschi e abitu- dini di confusione tra arte e scienza, e per ricondurre lo sguardo dall'estrinseco all'intrin- seco. E non so che cosa si voglia dire con l'ac- cusare quel metodo come «sistematico», giacché, per quel ch'io so, la mente umana è sistema, vale a dire ordine; e si potrà censurare come imperfetto un particolare sistema, ma non perciò sopprimere mai l'esigenza sistematica, la quale conviene a ogni modo appagare. Non potrei nep- pure ammettere che il metodo da me professato sia bensi buono, ma che « accanto ad esso ve ne siano altri egualmente buoni per giudicare dell'arte », perchè non intendo come una fun- zione dello spirito umano possa avere altro metodo che non sia quell'unico, che le è proprio; 74 II - INTORNO ALLA CRITICA e resto stupito quando poi leggo, che « di un metodo in critica non si dovrebbe neppur par- lare», perchè rispetto troppo il mestiere che qui faccio per considerarlo come cosa capricciosa e priva di metodo, cioè di giustificazione e di valore. Ma confesso che la meraviglia maggiore è nata in me dal timore manifestato dal Gar- gano ('): che questo metodo, risolvendosi in un «formolario », metterà « d'ora innanzi alla por- tata di tutti l'esame di ogni produzione letteraria, di coloro specialmente che, sforniti della dote essenziale del critico, cioè del gusto, crederanno in buona fede di poter giudicare applicando se- veramente i principi della logica ». Lasciando stare l'ovvia risposta già da altri anticipata al Gargano (che di qualsiasi metodo si può abusare dagli incapaci), io osservo che la vecchia critica, fondata sulle regole e i modelli, quella, sì, era facilissima e « alla portata di tutti » ; perchè non ci voleva molto a sentenziare: « la tale opera non risponde alle regole della tragedia, e perciò merita condanna»; ovvero: « il tale personaggio si conduce in questa situazione precisamente come il pius Aeneas, e perciò merita lode di decoroso eroe da epopea». Ma la critica mo- derna, richiedendo insieme idee filosofiche sul- l'arte, cultura storica, sensibilità estetica, acume di analisi e forza di sintesi, è difficile. Tanto diffìcile che io non l'ho vista mai attuata se non (i) Nel Marzocco di Firenze, del 31 marzo 1907. II - INTORNO ALLA CRITICA 75 a tratti e lampi; e non conosco se non un sol critico (l'ho detto già molte volte), che l'abbia degnamente esercitata sopra un'intera lettera- tura: il De Sanctis. Per quel che concerne me che, in mancanza di altri volenterosi, mi sono provato ad adoprarla per la contemporanea let- teratura italiana, io sono di continuo travagliato dal dubbio (igienico dubbio) della mia inade- guatezza all'alto ufficio. Faccio del mio meglio, m'invigilo, procuro di correggermi; ma non ho mai la sensazione di correre un campo libero di ostacoli, o di scivolare come in islitta sul ghiaccio. Se altri prova questo godimento, beato lui! Ma come mai l'enunciato metodo critico, che è il più liberale che sia stato mai concepito, il più rispettoso verso tutte le infinite individua- zioni artistiche, il solo che non prenda il passo sull'arte, viene ad assumere agli occhi di molti aspetto minaccioso di forza e di prepotenza, tanto da spingerli alle proteste e alle accuse malamente formolate con le parole di « siste- matismo », « logicismo », « preconcettismo pedan- tesco», e simili? Chi non ignora che le mede- sime accuse sono state date ai metodi dei più vigorosi filosofi, e le lodi contrarie largite in copia ai filosofi molli e contradittorl e inconcludenti, chi rammenta di quanto odio siano stati prose- guiti Spinoza o Hegel, e di quante simpatie Mill o Spencer, non dura grande fatica a spiegarsi il caso. La ragione delle accuse, non potendo essere fondata nella qualità di quel metodo, deve cercarsi nelle disposizioni degli animi e degl'in- 76 II - INTORNO ALLA CRITICA telletti degli accusatori: in quelle tendenze che io soglio riassumere con la parola «pigrizia». È l'umana pigrizia che fa preferire un metodo più comodo, o almeno rivendica il diritto di un metodo più comodo e benigno accanto all'altro troppo severo; la pigrizia, che rifiuta il peso e scansa la responsabilità del concludere, e tenta di eludere il problema, girandolando intorno all'arte, cogliendone solo qualche lato, divagando leggiadramente o sviandosi in questioni estranee. L'orrore di molti cosiddetti « eruditi » per la cosiddetta «critica estetica» è l'istintiva paura per un esercizio troppo aspro e periglioso. Met- tere insieme la cronaca dei pettegolezzi di Re- canati è, si sa, molto più facile che non analiz- zare il Canto del pastore errante. La pigrizia per altro è, nella critica della letteratura contemporanea, rafforzata da motivi particolari. Quella critica, a dir vero, conside- rata intrinsecamente, non ha problema diverso da ogni altra forma di critica, che concerna le letterature più da noi remote nel tempo; e an- ch'essa, come si è detto, consiste nel tentativo di scrivere una pagina di storia letteraria. E se vi s'incontrano condizioni sfavorevoli, che non si trovano nella letteratura più remota, presenta altresì alcune condizioni favorevoli, che mancano nell'altro caso: se nella letteratura contempo- ranea è assai malagevole cogliere il carattere e il valore di certi processi che sono ancora in fieri o si sono appena conclusi, laddove per l'antica si hanno innanzi serie di svolgimenti II - INTORNO ALLA CRITICA 77 compiuti e nitidamente assegnabili, d'altro canto per la letteratura contemporanea si ha una age- volezza d'interpretazione e comprensione, che nella più antica si ottiene di solito con grandi stenti e solo in parte. Vantaggi e svantaggi, in- somma, su per giù si compensano, e gli uni e gli altri sono poi affatto contingenti. — Ma la cosa non sta allo stesso modo circa le condizioni soggettive, o meglio i sentimenti e le passioni individuali; le quali, a dir vero, nella lettera- tura contemporanea, operano assai di frequente una vera pressione psicologica per impedire la posizione esatta e la soluzione giusta del problema critico. Vi hanno, per esempio, tra gli autori di versi e prose letterarie, personaggi o ragguardevoli per situazione sociale o rispettabili per altre forme della loro attività o attraenti e cari per la loro bontà e amabilità, la cui opera artistica non risponde in modo degno alle altre loro forze e virtù. Il che più o meno tutti avvertono, ma tutti o quasi tutti, come per tacito accordo, si propongono di non dire. A questo intento si ricorre a una sorta di critica diplomazia, la quale o si perde in vani suoni o gira il problema o somiglia al linguaggio di Alete, pieno di strani modi, « che sono accuse e paion lodi ». Si lasci balenare il più lieve accenno di critica seria innanzi a codesto tessuto di frasi abili e sfug- genti, e ne nascerà uno scompiglio, come io stesso ho potuto sperimentare in più occasioni pei miei giudizi. Per esempio, ho mostrato che nei volumi 78 II - INTORNO ALLA ORITIOJ di un egregio uomo, scrittore di versi, vi ha cultura, elevatezza di pensieri e d'intendimenti, pratica dello scrivere, ma difetta quasi del tutto la sostanza poetica, l'intimo ritmo e il canto. Ed ecco una schiera di amici a scandalizzarsi e a darmi sulla voce. « Quello scrittore è una nobile personalità». D'accordo; ma non è poeta. « Quello scrittore sta solo in parte, intatto dal- l'applauso volgare » . Ciò vorrà dire che è uomo dignitoso, ma non che sia poeta. « Quello scrit- tore ha un aspetto tra di monaco e di guerriero, e avrebbe potuto, se fosse vissuto nel secolo de- cimosesto, comandare una galea in battaglia contro i turchi ». Sarà, quantunque sia difficile provarlo; ma non è poeta. « Quella sua poesia attinge il più alto segno della poesia degli acca- demici e professori » . Il che vorrà dire che gli accademici e i professori, in quanto tali, debbono astenersi dalla poesia; ma non già che quegli sia poeta. « Se verrà tempo che non si guarderà più a un libro di poesia da un punto di vista estetico secondo la moda corrente, il suo libro sarà studiato come un interessantissimo docu- mento psicologico». E ciò conferma, per l'ap punto, che non è poesia, ma semplice documento biografico. — Sono giudizi codesti che, per quanto strani, potrei tutti documentare, coi nomi degli autori e con le altre relative citazioni; ma prego i lettori di dispensarmene per non allontanarci troppo dalla questione che sola ora c'interessa. Sembra, in verità, che il problema che i più cercano di risolvere, sia di trovare il modo di II - INTORNO ALLA CRITICA 79 non fare critica, pur dandosi l'aria di farne. . Innanzi a siffatto proposito, tenace quantunque spesso inconsapevole, di nascondere la verità come a un malato si nasconde la gravità della sua malattia, il critico ingenuo, che ripeta il vecchio e arrogante « Hic Rodhus, hic salta», il critico che cerchi determinare chiaramente se una data opera è o non è poesia, il critico che, insomma, voglia adempiere il dover suo, desta fastidio e impazienza come personaggio importuno, e, non sapendosi come combattere i suoi giudizi, si rifiuta addirittura il suo « me- todo»: quel metodo che procede o si accinge a procedere in guisa tanto indiscreta. Guai a chi si prova ad accendere una luce sfolgorante dove si desidera l'ombra o la penombra. Ma il contrasto del metodo da me professato con quello che è consueto nelle trattazioni della letteratura contemporanea, e la parvenza di ri- gidità e violenza che il primo assume, possono avere origine anche da altre cagioni. La più parte degli scritti sulla letteratura contemporanea sono meramente occasionali; concernono questa o quel- l'opera di uno scrittore, non il complesso della sua attività; e provengono da persone, che di solito propugnano o avversano l' indirizzo di quello scrittore o di quella scuola. Non dico che per ciò siano privi di buona fede e di qualsiasi verità; e anzi concedo che offrano sovente osser- vazioni delicate o sottili e giudizi giusti. Ma sono di necessità unilaterali, come unilaterale sarei io stesso se, per esempio, amico ed estimatore 80 II - INTORNO ALLA CRITICA del Pascoli, seguendo il mio desiderio o l'altrui in- vito, scrivessi l'annunzio di un nuovo volume di questo poeta : unilaterale e non bugiardo o falso, perchè mi basterebbe spigolare nel volume mo- tivi e strofe e versi di molta bellezza (dei quali nel Pascoli è sempre abbondanza), per conciliare in qualche modo i miei sentimenti personali con la verità: tacendo sul resto, ossia schivando il vero ed intero problema critico. Messa a para- gone di quegli scritti occasionali e polemici, la parola di chi, come me, è costretto, per la qua- lità stessa del suo assunto, a esaminare tutta l'opera di uno scrittore (la peggiore e la migliore, il periodo di genialità e quello di artifizio o de- cadenza), e a determinarne tutti gli aspetti per darne giudizio compiuto, sembra ora troppo se- vera, ora troppo indulgente. I lettori equanimi e bene informati se ne sentiranno soddisfatti ; ma gli autori di quelle recensioni e annunzi (e chi non è autore di qualche recensione o annunzio?), no. Per ciascuno di essi, a volta a volta, il critico è stato ingiusto: una metà di essi invoca il panegirista, l'altra metà il carne- fice. Così, pei dannunziani, io che ho definito il D'Annunzio un «dilettante di sensazioni», sono, a stento, il « migliore tra i critici volgari del D'Annunzio», incapace di penetrare nel pro- fondo idealismo della sua arte; ma dagli anti- dannunziani, avendo io, com'era mio dovere, riconosciuto le bellissime cose che il D'Annunzio ha prodotto nella sua ristretta cerchia d'ispira- zione, mi odo invece proclamare un « bollente II - INTORNO ALLA CRITICA SI dannunziano», il più «gran dannunziano sotto la cappa del sole ». Ho parlato con sincera sim- patia dei versi di Severino Ferrari; ma ciò non basta a chi è stato amico del Ferrari e della sua poesia si è fatto una predilezione o un sacro ricordo; ed ecco che di quelle mie pagine lau- dative, ma non ditirambiche, non si sa dare pace qualche cuore tenero, che sul Ferrari ha stam- pato opuscoli col titolo: Il rosignolo di Alberino, e vede con isdegno che io considero il valente Severino come un uomo e non come un augello. E via discorrendo, perchè gli esempi si potreb- bero accrescere. Che cosa fare? Io non me ne dolgo, perchè non mi dolgo dell'inevitabile; e poi ci ho fatto la pelle; e poi ancora ho qualche compenso, non solo nella mia coscienza (« co- scienza » è parola rettorica, e non bisogna pro- nunziarla!), ma anche nelle inaspettate e dolcis- sime manifestazioni che ho ricevute da parte di alcuni degli autori da me liberamente criticati, i quali mi hanno ricambiato col farmi l'amiche- vole confidenza delle loro lotte e dei loro dubbi e dei loro scontenti, quasi ad illustrazione e conferma di quanto io aveva spregiudicatamente osservato. Ancora un'altra cagione che fa apparire ri- gido ed eccessivo il metodo da me adoperato, sta nel fatto che la prolungata consuetudine con la letteratura del giorno tende ad alterare il senso della grande arte e a deprimere lo stan- dard of faste, il livello della vita estetica. Di questo pericolo io sono consapevole, e per mia B. Croce, Giovanni Pascoli. 6 82 II - INTORNO ALLA CRITICA parte cerco premunirmene, rileggendo di tanto in tanto i classici e giovandomi di tale lettura come di un esercizio spirituale (di una praepa- ratio ad missam) pel mio ufficio di critico. Non- dimeno, penso che i miei saggi critici sulla lette- ratura contemporanea siano alquanto indulgenti, e che tali saranno giudicati da chi li rileggerà fra un mezzo secolo. Ma, se io forse non sono abbastanza esigente, oso dire che i più dei miei colleghi in critica, sempre tuffati nella letteratura del giorno, hanno addirittura fatto l'abito a con- tentarsi di poco. Odo frequenti parole sulla « di- vina bellezza » della forma del Pascoli. Chi dice questo, quanto tempo è che non rilegge un'ottava di messer Ludovico? Il D'Annunzio ha osato ricordare V Aiace sofocleo, a proposito del suo ultimo dramma. Ma ha egli avuto ben presente la tragedia di Sofocle? Quanto a me, avendola ripresa tra mano dopo aver letto la prefazione al Più che l'amore, giunto appena alle parole di Odisseo: èTCotxteipw Sé viv, ecc., balzai dalla sedia e mi sorpresi a gridare dantescamente al D'Annunzio: « Fa', fa' che le ginocchia cali!... ». E, come il senso della classicità, nella consue- tudine con la letteratura contemporanea si smar risce sovente quello della storia, ossia della len- tezza e faticosità dello svolgimento e della rarità del prodotto veramente geniale: Tu che '1 diamante pur generi, lenta, in tua mole, tu sai su l'eterno quadrante quante ore di secoli, e quante II - INTORNO ALLA CRITICA 83 vigilie e che doglia si vuole, o laboriosa gestante, per dare un cervello di Dante, o un cuore di Shelley, al tuo sole! La letteratura italiana (che è una grande lette- ratura) in sei secoli non offre dieci o quindici veri poeti; e si sarebbe preteso che io ne ritro- vassi una cinquantina, se non addirittura un centinaio, nel periodo di un quarantennio o di un cinquantennio, che è quello che sono andato investigando. Quale meraviglia se, per la mag- gior parte degli scrittori che hanno avuto voga e riputazione, il mio giudizio è o negativo o circondato da molte restrizioni? Ripeto: anche per tale rispetto credo di essere piuttosto indul gente che severo; e sono indulgente perchè com- prendo le angosce dell'arte, e tengo conto anche delle approssimazioni al segno non raggiunto, e persino ho qualche simpatia per le disfatte non inglorioso. Chi nei secoli venturi riscriverà la storia letteraria dello stesso periodo trattato da me, avrà (oh, non dubitate!) la mano assai più ruvida e pesante della mia. Per queste e per altre cagioni simili a queste, che, non volendo andare per le lunghe, lascio di enumerare e illustrare, il metodo critico da me professato sembra, e non è, violento. Ma per un'altra cagione sembra poi talora sbagliato: per l'incompiuta preparazione mentale della maggior parte dei critici che trattano di letteratura del giorno. I quali sono di solito (avverto che non faccio allusioni e non penso a nessuno in par- 84 II - INTORNO ALLA CRITICA ticolare) o persone^ che hanno tentato infelice- mente l'arte e hanno poi smesso (peggio se con- tinuano a farne, perchè in tal caso sono tratte a preparare a sé medesime l'ambiente della com- piacenza); o uomini di gusto che, leggendo poesie per proprio diletto e acquistando cosi esperienza e pratica dell'arte, via via passano dal discor- rerne oralmente allo scriverne sui giornali, e diventano per tal modo, senz'averci mai pensato, critici di professione. Ma a costoro, pur tra molte belle qualità particolari, manca quello studio e quella annosa meditazione sui problemi dell'arte e della critica, e quelle cognizioni di storia della critica d'arte, che spesso si provano indispensa- bili; e ciò li mena a confondersi innanzi a certi casi, pei quali il gusto naturale e il semplice buon senso non sono bastevoli. Talvolta, essi non riescono a intendere esattamente nemmeno i termini, che adopera il critico addottrinato e meglio informato dell'odissea secolare della sua disciplina. Se ne desidera qualche esempio? E io ne darò, restringendomi a quelli che mi vengono forniti dalle dispute intorno al mio saggio sul Pascoli. Nel quale aveva scritto tra l'altro, di passata, che « il pensiero poetico e l'importanza di Dante non è nelle allegorie e nei concetti morali ». E un fervente ammiratore del Pascoli (*) mi redargui- sce: «Le allegorie e i concetti morali non son (!) Lettera aperta del prof. Pietrobono a È. C. sulla poesia di G. P., nel Giornale d'Italia, del 1° aprile 1907. II - INTORNO ALLA CRITICA 85 tutto Dante, lo sappiamo: ma senza quelle e questi Dante non è più lui. Chi rinunzia a render- sene ragione, rinunzia semplicemente a capirlo. Ora qual critico mai s'è sognato d'insegnare che il pensiero dei poeti non importa conoscerlo?». E qui, un argomento irresistibile : — Se si tol- gono le allegorie, l'arte di Dante si riduce a frammenti; resta una ruina, sebbene una nobile ruina. — Ora, come spiegare in quattro parole al mio contradittore che il pensiero artistico non ha che fare col pensiero allegorico o extrar- tistico, e che la sintesi, l'elemento unificatore, è data nell'arte di Dante dalla sua possente fantasia e non già dalle sue escogitazioni di moralista e di teologo? Questa distinzione di pensiero arti- stico (intuizione) e di pensiero extrartistico è una delle più sudate conquiste della scienza este tica. E come spiegargli, in quattro parole, che la critica è stata impotente a comprendere la grandezza di Dante fintanto che ha insistito sulle sue allegorie e sulle sue intenzioni, e ha fatto un gran passo solo quando (nel periodo roman- tico) ha guardato Dante non come un dotto e un filosofo, ma come un poeta dell'anima pas- sionale, quasi uno Shakespeare in anticipazione? e che perciò il Pascoli, che crede di poter assi- dere su più solide basi la grandezza di Dante scoprendo la sua ìmdvota, il suo pensiero riposto, è, nella storia della critica, un ritardatario, anzi un fossile? Un altro esempio ci è fornito dalla questione che è stata mossa: se valga la pena, nella critica, 86 II - INTORNO ALLA CRITICA di far tutte le fatiche che io faccio per « clas- sificare » e mettere nel « casellario » gli scrit- tori, che bisogna invece soltanto gustare e far gustare. Dapprima, a questa opposizione, sono cascato dalle nuvole. Classificare? casellario? Ma se io non classifico mai! Ma se sono il più radicale avversario delle classificazioni e dei casellari (dei generi, delle arti, della rettorica, e di quanti altri se ne conoscono di questa sorte), che sia mai comparso nel campo estetico! 8e mi rifiuto perfino a raccogliere gli scrittori, di cui tratto, in gruppi di lirici, drammaturgi, ro- manzieri, e via dicendo ! Ma, poi, ho capito : i miei contradittori avevano confuso Vintelligere col classificare, la comprensione col casellario, tra i quali due procedimenti c'è un abisso, perchè il secondo è la morte della critica e il primo il suo ufficio proprio. Anche qui, come spiegare in poche parole una differenza, che non si può giu- stificare se non risalendo alle teorie fondamen- tali della logica? Prendiamo il sonetto: « Solo e pensoso i più deserti campi ». Se io dico che è una « lirica » , l'ho classificato in uno degli schemi delle vecchie istituzioni letterarie; se dico che è un « sonetto » , l'ho classificato secondo la metrica. E quella lirica o sonetto rimane ancora criticamente intatto. È bello o brutto? e quale stato d'animo esprime? La classificazione, facen- dosi per caratteri esterni, è impotente a rispon- dere a queste domande. Ma se si determina la si- tuazione psicologica del Petrarca (e determinarla non si può se non ricorrendo a concetti, giacché, II - INTORNO ALLA CRITICA 87 per sentirla così com'è, non c'è da far altro che leggere il sonetto stesso), e se si mostra come quella situazione si è svolta nelle varie parti del sonetto, e come tutto bene si accordi ad essa e bene l'esprima, non si classifica, ma si cerca di comprendere il sonetto, cioè di farne la cri- tica. Ora, bene o male, questo e non altro io mi sono sforzato di fare pel Pascoli e per gli altri scrittori, che sono andato esaminando. Il « clas- sificare » non c'entra; e la confusione tra i due procedimenti è di quelle in cui possono cascare soltanto le menti non abbastanza disciplinate. A talun altro il modo della mia critica, in fondo, non dispiace; ma gli sembra troppo freddo e ragionatore e polemico, e preferirebbe, per esempio, il calore e l'eloquenza di Giuseppe Mazzini. E ciò andrebbe bene, se io fossi Maz- zini; ma, essendo Cecco «come sono e fui», non posso discorrere se non nel tono, che è pro- prio al mio temperamento. Così il De Sanctis, educatore e maestro nell'anima, non poteva scri- vere di critica al modo del Carducci, poeta nel- l'anima. Voglio dire, che non bisogna confondere il metodo della critica, che dev'esser uno, coi temperamento dei critici, che non può non esser vario; e non bisogna (codesto ci manche- rebbe!) mettere tra i requisiti della critica un particolare temperamento. All'osservanza del metodo tutti sono obbligati; ma nessuno è tenuto a sforzarsi a un tono a lui estraneo: che anzi ciò gli è assolutamente vietato sotto pena di cadere nell'artifizio, nella rettorica e nella l'ai- b» II - INTORNO ALLA CRITICA sita. Amo grandemente il De Sanctis e ne accolto le idee fondamentali; ma mi sarebbe impossibile imitare il suo stile, e mi guardo pur dal ten- tarlo. Mi si prenda dunque come sono, con la mia simpatia per gli schiarimenti e le digres- sioni filosofiche, con la mia tendenza alla pole- mica e alla controcritica, col mio tono prosastico e talvolta sarcastico, col mio dilettarmi talvolta Bioneis sermonibus et sale nigro, perchè posso bensi correggere i miei errori quando me ne accorgo, ma non posso e non debbo mutare il mio essere. — Così anche non so come si sia potuto far questione di bontà di metodo pel fatto che, nell'esaminare il Pascoli, ho esaminato altresì le opinioni dei critici intorno a lui: dico « anche», perchè non è vero che quello sia stato il mio punto di partenza: il punto di partenza (e l'introduzione stessa del mio scritto ciò mostra chiaro) fu l'impressione diretta, prodottami dalla lettura dei versi di lui. Vi ha questioni vessate o pregiudicate, perchè già molte volte tentate e trattate; e lo scrittore (che si riattacca sempre agli scrittori precedenti e con essi dialoga) non può non tenere conto di quanto altri intelletti hanno osservato e pensato intorno al suo argo- mento, non solo per trarne aiuto, ma anche per conoscere verso quali punti deve orientare la sua esposizione critica. E basti di ciò. Mi sembra di aver difeso il metodo da me professato contro gli appunti, in verità non gravi, che gli sono stati mossi, e posso concludere con tanto maggiore sicurezza II - INTORNO ALLA CRITICA 89 e franchezza, che quel metodo è buono, in quanto esso non è mia privata invenzione e possesso, ma è il risultamento della storia della critica. So bene che mi si osserverà: — Tu hai difeso il metodo, ma, nel caso del giudizio circa il Pascoli, non si tratta di metodo, sibbene di appli- cazione. « Il padre Zappata predicava bene, ma razzolava male » , mi proverbia il Gargano in un secondo suo articolo (*); senonchè, nel primo, aveva invece rifiutato, mi sembra, il metodo e non l'applicazione, o questa solamente come effetto di quello. Dunque, procediamo per divi- sione. Di metodo non si parla più? Il metodo è buono? Si? Questo mi premeva soprattutto. E la questione è terminata; e siamo d'accordo. E possiamo ora passare all' «applicazione», ossia al caso particolare del mio giudizio sul Pascoli. Dove mi si para innanzi una pregiudiziale, perchè, a detta di taluno dei miei contradittori, a me sarebbe accaduta una piccola disgrazia, per la quale potrei bensì utilmente discettare in teoria, ma non potrei accostarmi ai casi parti- colari. « Il Croce, grazie alla prolungata rifles- sione e al ripensamento della filosofia hegeliana, non si trova più nello stato di fresca ver- ginità, di docilità amorosa, che è necessaria per seguire i poeti nelle loro fantasie... » (2). Vera- ci) Nel Marzocco, del 7 aprile. (2) G. A. Sartini, nella rivista Studium, di Milano, 30 aprile 1907. 90 II - INTORNO ALLA CRITICA mente, una siffatta verginità, che consisterebbe nel non meditare, non che io l'abbia perduta, non l'ho mai posseduta; e sono per questo rispetto in condizioni gravi, quasi direi nelle medesime condizioni di quella Quartina sacer- dotessa, che esclamava appo Petronio: Junonem meam iratam habeam, si unquam me memine- rim virginem fuisse. Ma conosco e posseggo un'altra «verginità», che si rinnova ogni qual volta il mio animo corre a dissetarsi nella poesia: una verginità, che potrà somigliare alquanto a quella di Marion de Lorme (come si vede, non intendo esaltarmi mercè i personaggi coi quali mi paragono): Ton soufflé a relevè mori àme. .... Près de toi rieri de moi n'est reste, et ton amour m'a fait une virginité! Ma, naturalmente, concedo subito che io possa avere sbagliato nel giudizio sul Pascoli; anzi questa concessione è già implicita in quel che ho detto di sopra circa le difficoltà della critica d'arte. E non solo per ciò che riguarda il Pascoli. Ho esaminato finora, nei miei saggi, l'opera complessiva di parecchie decine di contempora- nei scrittori italiani; e, quantunque abbia ado- perato ogni diligenza, se pensassi di non essermi mai distratto, di aver semptre reso esatta giusti- zia a tutti quegli scrittori e a tutte le singole loro opere, sarei un fatuo. E, se avessi sbagliato circa il Pascoli, certo me ne dorrebbe, e ne proverei una qualche con- II - INTORNO ALLA CRITICA 91 trarietà e mortificazione di amor proprio; ma stia tranquillo il dottor Rabizzani, che ha pub- blicato testé un bell'articolo sul Pascoli ('), nel quale, tra l'altro, si dà pensiero della possibilità di un mio «postumo pentimento», e mi ricorda sin da ora, per incoraggiarmi, il nobile atto di contrizione che lo Chateaubriand recitò pel suo giudizio, nientemeno, sullo Shakespeare : — ho fiducia che troverei in me la quantità di corag- gio necessaria, e saprei consolarmi, pensando che, costretto io a lacerare cinquanta delle non poche mie pagine di prosa, l'Italia avrebbe assodato io cambio la gloria di un suo forte e perfetto poeta. Ma ho poi sbagliato? Temo di no, a giudicare anzitutto dai modi tenuti nelle loro risposte dai miei avversari. Uno dei quali, il Gargano (un critico con cui in altre questioni letterarie ho avuto il piacere di andar d'accordo), in un primo articolo, in luogo di difendere il Pascoli, assalì il metodo in genere, che, come si è visto, è affatto incolpevole; in un secondo articoletto, cercò di farmi passare per uno che sfuggisse alla discussione (laddove il vizio del quale, se mai, debbo correggermi, è l'opposto); in un terzo, finalmente, cavò fuori uno strano pensiero : che cioè « sembra avere io ora scelto come bersa- glio dei miei colpi i poeti più celebri dell'Italia di mezzo » (2): il che suona un appello, vero e (!) Nella Nuova rassegna di Firenze, aprile-maggio 1907, pp. 457-479. (2) Nel Marzocco, del 21 aprile. 92 II - INTORNO ALLA CRITICA proprio, alle brutte passioni del campanilismo. E mi pare perciò che l'affetto pel suo poeta gli abbia, questa volta, mosso nell'animo sentimenti di stizza verso chi è di avviso alquanto diverso dal suo: e la stizza (ecco un adagio ben trito) non giova alla causa che si difende. Vediamo, a ogni modo, le controcritiche ; le quali si sono aggirate quasi sempre sui parti- colari delle analisi che io ho date di alcune poesie del Pascoli per illustrare il mio giudizio generale sull'opera di lui. Nella poesia La voce ho mostrato come quel «Zvani», che fa da ritornello, rompa brutta- mente la delicatezza dell'ispirazione. Il prof. Pie- trobono (*) dà al mio giudizio questo significato: che io non ammetta l'uso del dialetto nella poesia e nella prosa colta; e mi ricorda il miscuglio dia- lettale omerico, con erudizione alquanto remota, quando poteva semplicemente citare ciò che io stesso ho scritto più volte (2) per difendere il dialetto e il miscuglio dei dialetti. Ma no: quel « Zvani » mi spiace come mi spiacciono di fre- quente le onomatopee ornitologiche del Pascoli, non perchè dialetto, ma perchè mi sembra un modo alquanto comodo e semplicistico di risolvere il problema artistico, offrendo la materialità della cosa invece del suo spirito. Come mai il Pascoli, che freme e trema alla voce della morta, (i) Si veda la citata Lettera aperta del rev. prof. Pietrobono. (2) Si veda, tra l'altrev a proposito del Di Giacomo, in Letter. d. nuova Italia, in, 97-100. II - INTORNO ALLA CRITICA 93 alla voce di sua madre, può, nel medesimo istante, mettersi freddamente a contraffare quella voce e rimodulatia dilettautescamente dentro di sé? Quella voce dovrebbe sentirsi dappertutto nella lirica, e non lasciarsi mai fis- sare nella sua determinatezza estrinseca e nel suo contorno preciso. È un « infinito > di ango- scia e di nostalgia, che non bisogna rendere finito e tascabile. Il mio contradittore afferma che «quel Zvani... ci sta d'incanto, specie se si pronunzia a dovere»; e così scopre egli stesso la sollecitudine di salvare, per virtù di pronunzia, l'effetto di quel ritornello. Che cosa dirgli? Io mi provai a pronunziarlo in tutte le più varie intonazioni; me lo feci perfino leggere da un amico, valente lettore di versi: e la stona- tura mi parve e mi pare sempre gravissima. Forse, se lo sentissi pronunziare da lui, sarei vinto, e qualche lacrima mi sgorgherebbe; ma anche in quel caso mi resterebbe il dubbio di avere reso omaggio non alla virtù del poeta, ma a quella del bravo declamatore, che sa come si tappino i buchi o si scivoli sulle asprezze del- l'espressione poetica. Si dica lo stesso del: « Papà, papà, papà » dell'altra poesia Un ricordo. Qui il Gargano anche osserva che io mi son « fatto lecito di associare ad una delle più soavi elegie pasco- liane il ricordo di una canzonetta napoletana volgaruccia anzi che no » . Mi son fatto lecito? Si posseggono non so quante parodie di Omero e di Dante, anzi quasi non c'è verso di quei 94 II - INTORNO ALLA CRITICA grandi che non sia stato parodiato e cui non sia appiccato un ricordo buffo; eppure non mi accade mai di ricordarmene quando leggo Omero e Dante. Quella reminiscenza di opera buffa mi è stata suscitata, e comandata, a quel punto, dal Pa- scoli stesso, per l'imperfezione, pel vano sforzo, in quel punto, della sua arte. Che poi (come nota il precedente contradittore) « Un ricordo e la Cavalla storna seguiteranno a commovere i let- tori anche quando noi saremo fatti vecchi, ecc. », sarà e non sarà: ma sono affermazioni con le quali il dibattito non fa un passo innanzi. Per dare un piccolo e curioso e quasi scher- zoso esempio del modo in cui il Pascoli tende a strafare, ho notato il mutamento del titolo dell'ottava Neve in quello di Orfano. Il Gargano risponde: « Quel bimbo non è soltanto ora diven- tato orfano; lo era già prima, quando lo cullava sempre quella vecchia, che neppure allora era sua madre». Perchè? La situazione della poesia è nel contrasto tra lo squallore nivale della realtà e il bel giardino della fantasia, la dura vita reale che quell'essere umano dovrà una volta affrontare e l'illusione in cui viene cullato. La vecchia può essere la nonna o la balia, e lasciar presupporre vivente o morta la madre. Tutto ciò non cangia nulla all'essenza poetica dell'ottava. Il nuovo titolo lagrimoso, che richiama una sventura al- quanto contingente e individuale del bambino, mi sembra che impicciolisca e non rafforzi. L'altro contradittore mi fa notare che io ho sbagliato nel parlare, a proposito della poesia II - INTORNO ALLA CRITICA 95 Il sogno della vergine, della culla come di una culla reale, laddove è una culla metaforica. E ha ragione, e lo ringrazio di avermi fatto accorto della svista in cui sono incorso nello stendere i miei appunti; come anche di avermi avvertito (altra svista) che le strofe di Un ricordo sono composte di dieci e non di nove versi. Correg- gerò. Ma ciò non tocca il punto sostanziale della mia critica, che sta nel notare la soverchia accen- tuazione data alla figurazione metaforica o no che sia (e peggio ancora se metaforica) della culla: «Si dondola, dondola, dondola» ecc., e l'eccessiva dilatazione in una lunga poesia di un motivo (i figli non nati), del quale un gran poeta avrebbe fatto appena un incidente e un tocco, che in questa sua rapidità sarebbe rimasto indi- menticabile. — Così nella poesia: / due cugini, io credo che dopo la strofa: Tu, piccola sposa, crescesti: man mano intrecciavi i capelli, man mano allungavi le vesti, — l'altra che segue: Crescevi sott'occhi che negano ancora; ed i petali snelli cadeano: il flore già lega; sia uno stento d'immagini, che ottenebra e non potenzia le immagini della strofa antecedente. Il mio contradittore vuole che il Pascoli, in quella seconda strofa, faccia sorgere accanto alla bam- bina «l'immagine della madre, con quel suo 96 II - INTORNO ALLA CRITICA sentimento di grande delicatezza, ond'è mossa a desiderare, come tutte le mamme, che la figliuola le resti sempre piccina », sentimento che « fa eco e si sostituisce al desiderio inespresso e ormai inesprimibile del piccolo morto». Sarebbe un parallelismo artifizioso e una lambiccatura; e, a ogni modo, si veda se tutto ciò è poi detto con la frase oscurissima : Crescevi sott'occhi che negano ancora... Il metodo ermeneutico qui adoperato dal mio contradittore mi ricorda quello di un erudito campano, il quale, una trentina d'anni fa, inte- stato che Pier della Vigna fosse nato a Caiazzo, avendo trovato colà alcuni frammenti di marmo con le lettere nus M., aul, reas f. r., coraggio- samente integrò: « Dominus Magister Petrus de Vinea Magne Imperialis Aule Protonotarius Edes Marmoreas Fecit Restituii » ; e pretendeva aver ragione contro il Capasso, che non gli me- nava buona la troppo abbondante integrazione. — Vuole ancora il mio contradittore che « il cadere dei petali snelli, della fiorita d'ali che la rassomigliava a un lucherino, esprima un nuovo dolore per il morto, che vede cadere quello che in lei principalmente amò » : come se il pasticcio di metafore, onde le metaforiche ali diventano petali di fiori, accresca, e non piuttosto confonda, le belle e dirette immagini dell'intrecciare man mano i capelli e dell'allungare man mano le vesti. Vuole, inoltre, che « la pennellata sobria II - INTORNO ALLA CRITICA 97 e pudica del ' fiore che lega ' dica come la fan- ciulla cominci a diventar donna e annunzi quel c nuovo seno ' che il bimbo ignora » : come se, sempre dopo la prima bellissima strofetta, ci volesse il vieto paragone del fiore per fare inten- dere il formarsi della bambina a donna. — Ma perchè non essere schietti e non confessare la semplice e prosaica verità? Al Pascoli, dopo la prima strofetta uscitagli di getto, mancò la vena ; e, non sapendo come riempire la seconda, che pure il prefisso schema strofico richiedeva, con- tinuò alla peggio nella primitiva redazione: Crescevi, come erba nel prato. I petali dai ramoscelli già caddero, e il fiore ha legato (')• Questa strofetta, assai scialba e sciatta, non poteva contentarlo; e procurò di rabberciare, sostituendole quella che abbiamo or ora esami- nata. Ma il lavoro di rappezzo poetico non gli riusci, come non riesce ora il rappezzo critico al suo difensore. E lascio d'inseguire altri particolari, e mi restringo ad osservare che il mio contradittore ha frainteso il mio pensiero circa i metri, quando ha creduto che io volessi stabilire che un soggetto non può essere trattato se non in una determi- nata forma metrica, mettendo in rapporto i metri in astratto e i soggetti in astratto. Tutti sanno (!) Con questa variante la lirica 1 due cugini fu pubblicata la prima volta nel Marzocco, a. i, n. 20, 14 giugno 1896. B. Ckocb, Giovanni Pascoli. 7 98 II - INTORNO ALLA CRITICA c;he io ho sostenuto sempre l'opposto, e ho negato ogni valore alla dottrina metrica come fonda- mento di giudizio estetico ('). Io ho inteso sempre parlare della disarmonia di molte poesie del Pascoli, la quale dalla disannonia nel metro si stende a quella nelle proporzioni del componi- mento e nelle accentuazioni delle immagini, alle materialità inopportune, e via dicendo; e, se ho parlato di queste cose come distinte, l'ho fatto per semplice espediente espositivo o didascalico. L'osservazione enfatica che « Dante nella terzina ha gittato il bronzo di Farinata, l'odio di Ugo lino, la timida preghiera della Pia e il volo del- l'aquila portata da Cesare », può fare effetto sui profani, ma lascia freddo chi come me ha sempre affermato che non solo ogni terzina è diversa da ogni altra terzina, ma ogni verso da ogni verso, anzi ogni parola da ogni altra parola, anche quelle che il vocabolario pone come iden- tiche: l'« amore» di Francesca, nelle terzine: «Amor che a cor gentil» ecc., (dice benissimo il mio amico Vossler) non è una stessa parola tre volte ripetuta, ma sono tre parole diverse. Tanto il Gargano quanto il Pietrobono e il dottor Rabizzani si meravigliano che io, dopo avere approvato come belle alcune descrizioni nei poemetti georgici del Pascoli, resti perplesso sull'insieme e mi domandi: «Dov'è il mondo interno del poetar». «Ebbene, in questo caso (!) Si veda, per es., Problemi di estetica, pp. 163-66. II - INTORNO ALLA CRITICA 99 (scrive, e più efficacemente degli altri due, il Rabizzani, a cui do la parola) il mondo interno del poeta è proprio il mondo che sta fuori di lui e che solo per opera d'intuizione vien ripro- dotto. Dinanzi alla cosa veduta c'è l'occhio che vede e modifica inconsciamente e sceglie scien- temente eliminando la scoria delle impressioni inutili per far luogo solo a quelle che possono determinare la sua visione. Così la descrizione è obbiettiva per gli elementi che la costituiscono, ma subiettiva per il modo nel quale sono costi- tuiti. Ed è inutile cercare dietro ad esso una corrispondenza morale propria del poeta; tanto varrebbe cercare i regni celesti oltre la zona fisica del padiglione costellato. C'è nella nostra coscienza estetica un residuo di simbolismo per il quale la natura ha diritto di vivere nell'arte solo a patto che un'allegoria la giustifichi •» . Per- fettamente d'accordo nel principio che non biso- gni cercare nelle poesie l'allegoria, e che, se un residuo di allegorismo resta in fondo alla coscienza estetica, occorra liberarsene, io non sono poi d'accordo nel credere al valore delle descri- zioni oggettive in poesia. Se una descrizione non è soggettiva, ossia non ha afflato lirico (e s'in- tenda pure la lirica in tutte le sue gradazioni fino alla ironia e allo scherno), non ò poesia. E poiché questo afflato lirico non manca in molti punti dei poemetti georgici del Pascoli, io li ho ammi- rati; e poiché non li investe tutti (pel solito difetto che è in lui di perdersi nei particolari e nelle sottigliezze), ho notato in quei poemetti 100 II - INTORNO ALLA CRITICA il miscuglio di un poeta vero con un verseggia- tore e descrittore meramente virtuoso. Nel giudizio sui Poemi conviviali, anche il Pietrobono riconosce esatta la caratteristica da me data dell'atteggiamento spirituale tutt'al- tro che omerico, anzi sommamente raffinato, del Pascoli; e solamente crede che io faccia di ciò un rimprovero al Pascoli, il che non mi è mai passato pel capo. Io ho insistito invece sul modo di concezione e composizione di quei poemi, che sembrano mucchi di frammentini delicati: è tutta carne molle, e manca l'ossatura; di qui la scarsa loro efficacia. Chi ripensi, per esempio, ai Sepol- cri del Foscolo, intenderà ciò di cui lamento la mancanza nel Pascoli. E quando il mio contra- dittore si duole che né io né altri abbia osser- vato « che lungo e che grande amore debba esser costato al Pascoli la ispirazione di quei suoi Poemi conviviali, in cui rinovera, analizza e rivive a una a una ordinatamente le età di Omero e di Esiodo, quella dei tragici greci nei Poemi di Ate, quella dell'arte plastica in Sileno, i pen- samenti di Platone nei poemi di Psiche, e ci denuda l'anima dell'età di Alessandro, di Tiberio, dei popoli di Oriente in Gog e Magog, e final- mente canta l'annunzio dell'era novella cristiana, nella quale tutte le altre si assommano e con- fluiscono a produrre la civiltà moderna », — sono costretto a rispondere ancora una volta, che egli dimentica un principio di critica, pel quale la ricchezza di erudizione, l'ordine storico sapiente, la giustezza del colore storico, e via dicendo, II - INTORNO ALLA CRITICA 101 sono cose tutte estranee all'arte ; tanto vero, che si trovano anche in poeti mediocri, i quali, incapaci di scrivere dieci bei versi d'amore, sono poi resistentissimi nel comporre trilogie e decalogie di drammi, cicli di poemi e leg- gende di secoli, con relative annotazioni stori- che dottissime. Senonchè, qual è poi il giudizio complessivo e conclusivo che i miei contradittori hanno opposto a quello da me proposto e dimostrato intorno all'opera del Pascoli? Ho innanzi a me i parecchi articoli, che si sono pubblicati a pro- posito del mio studio; e cerco una conclusione diversa dalla mia, e non la trovo. Ecco il Rabiz- zani, che si dava pensiero di una mia possibile e probabile conversazione: « Pur non accettando le conclusioni a cui giunge il Croce nella crudità della formola e nel rigore dello spinto, dobbiamo ammettere il carattere frammentario dell'opera pascoliana. Il poeta ha uu grande mondo, ma non è ancora riuscito ad esprimerlo compiutamente. Per ora, la sua sovranità è nell'abisso della sua mente. E quand'an- che non riuscisse a farnela uscire, noi gliene daremmo il merito, sebbene l'Amiel abbia detto che le genie latent rìest qu'une prèsomption: tout ce qui peut étre, doit devenir, et ce qui ne devieni pas n'ètait rien». Mi pare giudizio assai più severo del mio; e, se mai, ho paura che il dottor Rabizzani dovrà fare una penitenza più grossa della mia. Ecco la Rivista di cultura di don Romolo Murri, non certo avversa al 102 II - INTORNO ALLA CRITICA Pascoli e, a ogni modo, assai equanime»: Non dividiamo, a proposito del Pascoli, il giudizio recentemente datone dal Croce: giudizio giu- sto nella sostanza, se riguarda, nell'in- sieme, l'opera e l'ispirazione poetica del Pascoli, ma ingiusto per rapporto a molte par- ticolari poesie. E vogliamo dire questo: che il Pascoli non ha una così ricca e possente ispirazione poetica che non gli venga mai meno nel suo molto versificare, né un cosi fine e sicuro gusto da non dare al pubblico, della molta opera sua, se non quello che è Anito o perfetto; ma, dall'altra parte, quello che il Croce concede di strofe e di brani di poesie, che sono di un vero e grande poeta, noi pensiamo si possa raramente estendere a poesie intere » (i). Non dividiamo; ma, viceversa, dividiamo. Un altro e temperato critico affaccia un dubbio, ma comin- cia col concedere: «Il Croce ha messo il dito sulla piaga: lo smarrirsi dell'ispirazione univer- sale nel mare dei particolari è, presso il Pascoli, un caso non infrequente. Ma non sarebbe questo un segno de' tempi, non sarebbe la parte caduca dell'arte pascoliana, la quale vivrà egualmente ne' secoli ad onta di tutti i suoi difetti, ombra appena percettibile a petto ai suoi grandissimi pregi?» (2). Perfino il Pietrobono non sa dire altro circa il carattere generale della poesia del Pascoli se non che quella è « una gran bella (1) Rivista di cultura, 19 maggio 1907. (2) F. Pasini, nel Palvese, di Trieste, del 14 aprile 1907. II - INTORNO ALLA CRITICA 103 poesia»; lode che, nella sua indeterminatezza, potrei concedere anch'io. Perchè, se alla poesia del Pascoli non avessi riconosciuto valore, e molto valore, non le avrei fatto (questo è ben chiaro) l'onore di un lungo esame, e di questa non breve discussione, che ora gli ha tenuto dietro. 1907. Ili DODICI ANNI DOPO 1. Ancora sulla poesia del Pascoli (*). Da una dozzina d'anni non avevo letto quasi più nulla del Pascoli, saziato dallo studio che un tempo feci delle cose sue per scrivervi in- torno un saggio, il quale, quando fu pubblicato, nel 1907, parve, peggio che severo, ingiusto. E con curiosità ho tolto tra mano la scelta che delle poesie di lui ha testé curata il Pietrobono {Poesie di Giovanni Pascoli, con note di Luigi Pietrobono, Bologna, Zanichelli, 1918); con cu- riosità (prego il lettore di credermi) assai bene- vola, animata dal desiderio di scoprire nel Pa- scoli, dopo tant'anni, aspetti che allora potevo non avere scorti, e di giudicare, dopo tant'anni, con mente rinfrescata, non solo la poesia di quel (») Dalla Critica, XVII, 1919, pp. 320-28. 106 III - DODICI ANNI DOPO poeta, ma lo stesso giudizio mio. Il Pascoli non è più; e tra il tempo ch'egli ancora viveva e il presente sono accaduti tanti straordinari avve- nimenti, che hanno respinto assai indietro, nel remoto, gli anni anteriori al 1914, comprimen- doli in un periodo già chiuso, quasi con lo stesso cangiamento di prospettiva che la Rivoluzione francese fece per gli anni anteriori al 1 789. Ho levato dunque gli occhi verso il Pascoli come verso un autore del vecchio tempo (del « buon » vecchio tempo ?), pel quale non si può non esser disposti a simpatia; e perfino l'averlo criticato nei giorni lontani accresceva il sentimento di simpatia, perchè anche questo mi formava un legame con lui, anche questo me lo faceva parte di una parte della mia vita passata. S'aggiunga che il compilatore del volume, il Pietrobono, ha molto amato il Pascoli ed è colto e fino inge- gno, e m'invogliava perciò a rileggere quelle poesie sotto la sua guida bene informata, esperta ed affettuosa; e, a dir vero, per questo riguardo, non mi è toccata alcuna delusione, e credo che, posto che giovi adornare di comento le opere del Pascoli, non si poteva eseguir tale compito in modo migliore di quello tenuto dal Pietro- bono, che non può esser tacciato se non forse di sottigliezza e ingegnosità eccessive, effetti di eccessivo amore. Ma, pel resto, ahi, ahi, come la mia buona intenzione, la mia mite e sentimentale e malin- conica disposizione d'animo, è stata presto tutta sconvolta! Come mi son sentito riprendere di Ili - DODICI ANNI DOPO 107 colpo dall'antica ripugnanza, e risospingere al- l'antica riprovazione, fotta più acuta e più vio- lenta dalla stessa serenità con la quale mi ero messo a riconsiderare, dalla stessa aspettazione che avevo carezzata di poter temperare il mio antico giudizio o integrarlo col riconoscimento di alcune cose belle di quella poesia! E la riprova- zione si è volta in isdegno, ricordando di aver letto su pei giornali letterari, che è ormai ve- nuto il tempo d'introdurre il Pascoli nelle scuole italiane, a modello o incitamento stilistico per la nuova generazione. Oh, no! Noi non abbiamo il diritto di propagare nella nuova generazione le malsanie e i vizi nostri; non abbiamo, in ogni caso, il diritto di toglier d'innanzi ad essa quelli che la tradizione dei secoli ha consacrati classici, per surrogarvi gl'idoli delle nostre fuggevoli esaltazioni, dei nostri morbosi sentimentalismi, e dei nostri capricci. Ciò che altra volta ebbi a notare, ciò che sempre mi era sommamente spiaciuto nei versi del Pascoli, e mi aveva fatto dubitare della sua virtù poetica, mi s'è ripresentato subito agli occhi, appena aperto il volume, alle prime pa- gine. È quasi la caratteristica della sua arte : il dissidio tra ritmo e metro : il ritmo del sentimento che richiede un certo andamento, che s'intrav- vede, si presente, si attende, e il metro che gliene dà un altro. Donde anche, introdotta questa prima scissione nell'inscindibile, il compiacersi nel par- ticolare per sé fuori della nota fondamentale, e, per un altro verso, caricare il tono per ottenere 108 III - DODICI ANNI DOPO l'effetto cercato : disarmonia ed affettazione. Vedo che il comentatore insiste su ciò, che la poesia del Pascoli è poesia di dissidio; e teorizza che € il dubbio è uno stato d'animo anch'esso, e il poeta che n'è vittima, e vuol essere sincero, bisogna pure che, come sente, così si esprima, e non rifugga dall'apparire nel tempo stesso ot- timista e pessimista, ecc. » . E starebbe benissimo, e non ci sarebbe niente da ridire, se si trattasse solo di contrasti psichici; ma i contrasti psichici debbono, in arte, essere composti in armonia estetica: ciò che l'uomo divide, e ciò che divide l'uomo, la dea dell'arte congiunge. Che è poi per l'appunto quel che al Pascoli, per infelicità d'in- gegno, non veniva mai fatto. Si tagliò da una siepe — era un mattino triste ma dolce — il suo bordone, e, volta ' la fronte, mosse per il suo cammino. Si sente che lo scrittore vorrebbe esser sem- plice, ma la terzina, invece, si gira e si dondola, come compiacendosi di sé stessa. Si noti quel «volta la fronte», che atteggia il personaggio come un attore, che prende a rappresentare la sua parte. E non pago di aver dato quest'at- teggiamento, lo scrittore vi calca sopra: SI: mosse. Al che il comentatore : « Si accorge di aver ado- perata una parola forse superba, e la ripensa come per correggerla; ma trova invece che non la sua superbia, ma la verità glie l'ha posta sulle Ili - DODICI ANNI DOPO 109 labbra, e la conferma » . Ora, veramente, non si vede qual superbia ci sia nel « moversi per il proprio cammino»; ma ben si vede che il Pa- scoli ha « ripensata » la sua parola, ossia, al so- lito, l'ha vezzeggiata, compiacendovisi. E quella era la siepe folta d'un camposanto, ed era il camposanto, quello, dove sua madre era sepolta. Affettazione di semplicità che s'impaccia nelle ampie pieghe del verso e della strofa, e affet- tazione di sentimentalità, in quella fantasia del bordone, tagliato dalla siepe, e proprio da quella del camposanto, e proprio del camposanto in cui giaceva la madre morta. D'allora ha errato. Seco avea soltanto il suo bordone. E qua tese la mano, e qua la porse. E ha gioito e pianto. Solennità apparente, vuoto sostanziale, tutte frasi generiche che paiono dire grandi cose e dicono nulla. E le frasi generiche continuano nella ter- zina che segue: E vidi il fiume, il mare, il monte, il piano: tutto... Sì, tutto, perchè non ha visto niente di parti- colare e di significante. e a tutto era più presso il cuore di quanto il piede n'era più lontano. Sentimento, che potrebbe esser vero, ma è reso in forma di antitesi, e perciò falsato in un gio- 110 III - DODICI ANNI DOPO chetto. Invece di sentirci riempire l'animo da quel sentimento, ci soffermiamo ad analizzare, con lo scrittore, il giochetto. Così si va innanzi sino alla fine: peggiorando, perchè il bordone mette poi foglie, germina, ra- dica, e, senza diventare simbolo vivente, s' in- goffisce in cattiva allegoria. Il secondo componimento del volume è quello de Le ciaramelle. Chi non sente come liquefarsi l'anima al loro suonoj^Jfla appunto chi questo -Tret*ter~c1:uè preso da un soave palpito al riudire le ciaramelle, palpita così perchè non è lui una ciaramella, ma un'anima, che, ormai diversa e matura, è riportata alle immagini e alle com- mozioni della fanciullezza. Ricordo la vigilia di "Natale, evocata- dal Di Giacomo in una sua li- rica d'amore: la Napoli, verso sera, tripudiente, rumoreggiante, piena di lumi, guardata dal poeta dal mezzo della collina, che le sovrasta. Ci sono anche le zampogne: Saglieva 'a dinto Napule, nzieme, cu tanta voce, cunfusa 'int' a na nebbia na luce 'e tanta lume: sentevemo 'e zampogne, c''o suono antico e ddoce jenghere ll'aria, e tutti sti voce accumpagnà... Ma il Pascoli si fa lui ciaramella, e ciaramel- leggia con esse: Udii tra il sonno le ciaramelle, ho udito un suono di ninne nanne. Ci sono in cielo tutte le stelle, ci sono i lumi nelle capanne. Ili - DODICI ANNI DOPO 111 Sono venute dai monti oscuri le ciaramelle senza dir niente; hanno destata nei suoi tuguri tutta la buona povera gente... Una filastrocca tutta ripetizioni di concetti, ar- guzie, insistenze, affanno, piagnucolamento : una bruttura. E sorvolo sul terzo componimento {La voce) — quello di « Zvani », — perchè l'altra volta già ne mostrai la sconvenienza e sconcezza ; e libo appena il quarto, in cui l'abbaiar di un cane a notte alta è chiuso in istrofe di questa sponta- neità: là nell'oscura valle dov'errano sole, da niuno viste, le lucciole, sonava da fratte lontane velato il latrare d'un cane; e, in tanto artificio e scontorcimento e ballon- zolamento, il cane abbaia davvero, fa bau-bau: Va! va! gli dice la voce vigile, sonando irosa di tra le tenebre... E, infine, incontrandomi nel quinto compo- nimento {Valentino) — con le galline che schia- mazzano: « Un cocco! Ecco ecco un cocco un cocco per te! » , — mi arresto e non procedo oltre. Cioè, smetto di percorrere ordinatamente il volume e lo sfoglio qua e là; e su qualunque cosa poso l'occhio, ritrovo le stesse affettazioni. Ecco il tanto celebrato Aquilone: nel quale lo scrittore vorrebbe ritrarre un momento della 112 III - DODICI ANNI DOPO propria vita di fanciullo, risvegliatosi noi suo ricordo alla vista di una bella mattina, piena di sole, che lo riconduce ad altra simile di quei tempi lontani. Ma la sua incapacità a fecondare un motivo poetico, si che produca la propria for- ma, si dimostra qui chiara dal suo ricorrere (cosa che è sfuggita al Pietrobono) a una forma bella e fatta, all'Idillio maremmano del Carducci. Il canto del Carducci comincia: Col raggio del mattin novo eh' inonda roseo la stanza, tu sorridi ancora improvvisa al mio cuore, o Maria bionda! E il Pascoli, sebbene col solito tono di appa- recchio e d'affettazione, comincia allo stesso modo: C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini... Il Carducci termina: Meglio era sposar te, bionda Maria! Meglio ir tracciando Meglio oprando obliar E il Pascoli: Meglio venirci ansante, roseo, molle di sudor, come dopo una gioconda corsa di gara per salire al colle! Meglio venirci con la testa bionda, che poi che fredda giacque sul guanciale, ti pettinò co' bei capelli a onda tua madre... adagio, per non farti male. Ili - DODICI ANNI DOPO 113 Ma le parole del Carducci sono schiette, il tono eguale; e quelle del Pascoli una sequela di abi- lita da virtuoso, frigidissime: versi troppo vi- brati non si sa perchè, specie il terzo di ciascuna terzina; versi che, non si sa perchè, fanno spicco: tra le morte foglie che al ceppo delle quercie agita il vento; immagini leziose, come l'aquilone che s'innalza: s'innalza; e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga su lo stelo esile, e vada a rifiorir lontano; e falsità di ritmo e leziosaggini, che impedi- scono alle più gentili immagini di acquistare la loro musica: Si respira una dolce aria che scioglie le dure zolle, e visita le chiese di campagna, ch'erbose hanno le soglie (bello!): un'aria d'altro luogo e d'altro mese e d'altra vita: un'aria celestina che regga molte bianche ali sospese {troppo [cincischiato !)... E tutto il componimento ha un aspetto di con- gegnato, di preparato («Sì, gli aquiloni! È que- sta una mattina Che non c'è scuola...»), direi, di ginnastico, alienissimo della vera poesia. E a proposito del Carducci e del Pascoli. Mi fu raccontato, da chi v'era presente (uno dei nostri più fini artisti), che un giorno il Carducci, trat- tenendosi in casa di amici e trovato sul tavolino B. Croce, Giovanni Pascoli. 8 114 III - DODICI ANNI DOPO un volume del Pascoli, ne lesse qua e là ad alta voce alcune pagine, e poi, richiudendolo d'un colpo e posandovi su la mano, ammoni gli astanti: — Questa, non è poesia! — La stessa sentenza mi sale dai precordi, dopo avere rias- saggiato le composizioni del Pascoli. Gridate contro di me quanto vi piace: questa, non è poesia. E se non è poesia, eppure ha avuto tanta voga, ed ha ancora tanti ammiratori, donde la ragione della sua fortuna? Credo da ciò, che essa giunse opportuna: la grande poesia italiana, mercè i diversi ma del pari alti esempì del Manzoni e del Leopardi, era stata salvata dallo scompiglio romantico, e, mercè quello del Car- ducci, dalle mollezze dell'ultimo romanticismo. E l'esempio del Carducci operò anche sul D'An- nunzio (non solo nel giovanile Canto novo, ma anche qua e là di poi) come freno, e come freno operò nel primo e nel miglior Pascoli (le prime Myricae): ma, più tardi nel D'Annunzio e più presto nel Pascoli, quel freno s'allentò, e proruppe in essi la letteratura decadente, che era in ag- guato dietro le loro anime, e l'uno e l'altro di- ventarono precursori e avviatori del futurismo. Il Pascoli, meno vigoroso del D'Annunzio, il quale ha avuto una sua forza di gioia sensuale, che è stata la sua sanità e si è guastato soprattutto con l'intellettualismo dell'eroico e ora del reli- gioso; il Pascoli, che era disposto al sentimen- talismo, doveva più gravemente soggiacere al de- cadentismo e futurismo, alla spinta analitica, alla Ili - DODICI ANNI DOPO 115 disarmonia, al disgregamento, alle smorfie e alle sconcezze dell'impressionismo inconcludente. E poiché la sua corruttela estetica prendeva per materia la pietà, la bontà, la tenerezza, la tri- stezza, la morte (diversamente dal D'Annunzio il quale si compiaceva di altre cose, che davano scandalo ai timorati), al Pascoli è stato possibile soddisfare in modo decente quel ch'era di mal- sano nelle anime timorate, e persino nei preti : — come, per un altro verso, il Fogazzaro è stato il D'Annunzio dei cattolici, ed ha scritto per le famiglie cattoliche il Piacere e il Trionfo dello morte sotto i titoli di Daniele Cortis, di Ma- lombra e di Piccolo mondo moderno. Con quali aspettazioni abbiano accolto il Pa- scoli i cattolici si può vedere dalla prefazione stessa del Pietrobono, che è preso da quella con- dizione di lui tra la fede e l'incredulità, interpe- trandola quasi presentimento di cielo, quasi per- secuzione che il Signore faceva di un'anima, che ancora gli riluttava. E da essa si può vedere quanto potere il sentimentalismo, lo spirito di pietà e di carità, il desiderio e le esortazioni alla pace, della quale il Pascoli si era fatto professio- nale rappresentante, abbiano avuto sui cuori te- neri, a segno da far dimenticare che tutto ciò in poesia non vai nulla se non diventa poesia, ed è addirittura odioso quando procura di surrogare al mancante valore di poesia materiali valori di sentimento. Così ora i decadenti, gli stilisti (che sono poi decadenti, perchè sol essi pensano allo « stile » : 116 III - DODICI ANNI DOPO i grandi, i classici lo hanno e non vi pensano), vorrebbero introdurre la poesia e la prosa del Pascoli nelle scuole, nelle scuole classiche, come ideale di finezza artistica; e i cuori teneri, nelle scuole elementari, come educatrici a gentili af- fetti, e i preti nelle loro, perchè non vi si parla di amore (di quell'amore che è persino nel- Y Adelchi e nei Promessi sposi]). Ma per le scuole elementari è proprio indispensabile il Pascoli? Non c'è di più vecchio e di meglio? Non c'è il poeta che facevano leggere a noi ra- gazzi, e imparare a mente, il buon canonico Parzanese, gloria di Ariano di Puglia? Se è ne- cessaria per certi usi una poesia non poetica, una poesia pratica, quella del Parzanese fa sem- pre perfettamente al caso ; e quasi mi vuol parere che essa dia, per questa parte, la realtà di ciò che il Pascoli invano si sforzò di raggiungere. Volete onomatopee? Suona, o campana, suona, o campana, suona vicina, suona lontana. Tu sei la musica del poveretto, che nel sentirti piange d'affetto; ei sol comprende la tua parola, quando sonora per l'aria vola. Dig din, dog don, T'allegra, o povero, questo è il tuo suon! Volete riproduzioni di movimenti? Dote non ho né panni, e pur vo' farmi sposa. Passati son tre anni che la mia man non posa. Ili - DODICI ANNI DOPO 117 Ma il tempo via sen va, e il caro dì verrà che tanto il ciel sospira; Filatoio, gira, gira. Volete ninna-nanne? Dormi. La bella luna prende del ciel la via; passa, e sulla tua cuna un bianco raggio invia. Pe' poveri Iddio vuole che splenda luna e sole. Dormi, fanciullo mio, dormi, ti veglia Iddio. Volete figurini di curati? Zitto! Cessi lo strepito e '1 baccano: che! non vedete il nostro buon pievano? 8' inoltra passo passo il vecchierello: traetevi il cappello. E di poverelli? Se vedete un vecchierello d'occhi cieco e d'anni stanco, senza scarpe né mantello, che alla figlia appoggia il fianco, nel recinto del castello date loco al vecchierello... E di sventurati? Chi non ha lagrimato per la cieca del Parzanese? Non mi dite che torna il mattino a svegliare le cose dormenti ; non mi dite che d'oro e rubino sono i lembi del cielo ridenti. Il mio ciglio il Signor non aprio... Deh! sia fatto il volere di Dio. 118 III - DODICI ANNI DOPO Ed era molto gentile, quella cieca: Quando sento il profumo d'un giglio, voi mi dite ch'è bianco qual neve. Com'è il bianco? — In pensier lo somiglio a quel senso che l'alma riceve quando ascolta sull'ala del vento d'un liuto il lontano lamento... Che cosa mai sono venuto recitando? Vecchi suoni dell' infanzia, anche questi ; ma, al tempo stesso, cosette modeste, adatte al loro pratico intento, ben intonate, che mi ridanno quel senso di equilibrio, che gli spasmodici ritmi del Pa- scoli mi avevano tolto: del Pascoli che (per dir tutto in una parola) in arte era un atassico, ossia non coordinava i suoi movimenti. « Quiconque ne sent pas ce defaut est sans aucun goùt ; et quiconque veut le justifier se rnent à lui mérne. Ceux qui m'ont fait un crime d'étre trop sevère, m'ont force à Vétre vèritablement et à n'adoucir aucune véritè » (Voltaire, commento sul Corneille). 2. Il « Paulo Ucello » (1). Il Pascoli lesse nel Vasari che Paolo di Dono dipingeva storie di animali, « de' quali sempre si dilettò, e per fargli bene vi mise grandissimo (i) Dalla Critica, XVIII, 1920, pp. 60-64. Ili - DODICI ANNI DOPO 119 studio, e, che è più, tenne sempre per casa di- pinti uccelli, gatti, cani, e d'ogni sorta ani- mali strani che potette avere in . disegno, non potendo tenerne de' vivi per esser povero; e perchè si dilettò più degli uccelli che d'altro, fu cognominato Paulo Ucello > (Vite, ed. Milanesi, II, 208). Lesse e fraintese, perchè il biografo non volle punto dire che Paolo amasse gli uccelli e gli altri animali e, non potendo farne acquisto, im- pedito da povertà, se li dipingesse per suo gaudio sulle pareti di casa, ma che amava dipingere uccelli ed altri animali (compresi leoni e ser- penti e ogni sorta di brutte bestie) e che, non essendo in grado di possederne i vivi modelli, aveva adunato in casa sua quanti disegni po- tesse procurarsene. La notizia, data dal Vasari, si riferisce alla comune vita degli artisti, ed è psicologicamente comprensibile e naturale; ma lo stesso non si può affermare della interpetra- zione o fraintendimento del Pascoli, perchè (si rifletta un istante) a quale verità psicologica risponderebbe questa surrogazione del dipingere al possedere? Chi desidera un uccellino reale, desidera qualcosa di pratico, e, non potendo ot- tenerlo, si dorrà o si rassegnerà; ma non tro- verà mai un equivalente o un sostituto omo- geneo a quell'oggetto nell'attività artistica, che trascende l'uccellino come realtà vivente e si compiace nel proprio creare. Chi ama una donna, ama quella donna, la desidera, .la brama; ma, se si mette a dipingerla, l'abbassa a materia o modello che si chiami, e, in quell'atto, trascende 120 III - DODICI ANNI DOPO il suo amore e ogni altra cosa terrena, ed è Inna- morato, non più di una donna, ma di un'idea. Tanto vero che raccoglitori e amorevoli curatori di animali domestici non sono mai i pittori di ani- mali, ma le vecchie signorine e i vecchi celiba- tari; e il pittore Dalbono, famoso in Napoli per la sua mania di riempirsi la casa di gatti, non dipingeva gatti, ma festosi paesaggi di Napoli. Ma forse il Pascoli non fraintese per isvista di lettura, e volle deliberatamente fraintendere, ossia sul testo del Vasari ideò quella sua im- maginazione di un Paolo Ucello, desideroso di avere uccelli in casa, e sfogantesi nel ritrarli, e tuttavia tornante sempre al suo desiderio. Perchè? Perchè quell'immaginazione gli parve commovente, leggiadra, tenera. Pensate un po'! Un gran pittore, che passa pel mercato, vede un fringuello in gabbia, rosso in petto e nero il mantello, che gli somigliava un fraticino di san Marco, vorrebbe portarselo a casa, ma non ha un grosso per comperarlo, e tira innanzi con quel mortificato desiderio nel cuore, e va alla sua opera della giornata, ma la sbriga il più presto che può, per tornare a casa e aggiungere ai tanti uccelli che ha già dipinti sulle pareti, ai tanti suoi desideri insoddisfatti, là, sopra un ramoscello di melo, quel «monachino rosso». Quanta gente non si lascia subito prendere da queste immaginazioni leggiadre, tenere, commo- venti! Quanta? Moltissima: tutta la legione dei pascoliani, che, da alcune settimane in qua, stanno dando prova dei gentili sentimenti che Ili - DODICI ANNI DOPO 121 siffatte immaginazioni educano negli animi, e li dimostrano nelle loro mansuete, francescane pa- role, indirizzate a Sorella Critica! Ma quella moltissima gente è anche di facile contentatura; e, come si compiace nel verso che suona e non crea, così sdilinquisce per le immagini che paiono attraenti e sono vuote, vuote di schietto e pro- fondo sentire. Che vi sia o non vi sia una realtà psicologica nell'atto attribuito a Paolo di Dono, essa non cura : si attiene alla superfìcie e scatta in entusiasmi, che altro non chiedono e non aspettano che di scattare. Comunque, ideata quella prima arguzia o acutezza sentimentale, il Pascoli non si fermò. E perchè avrebbe dovuto fermarsi? Con lo stesso metodo, e con lo stesso buon successo, poteva foggiarne quante altre voleva. E immaginò che Paolo Uccello fosse terziario, e che nel suo irre- frenabile desiderio di un possesso terreno, fosse anche di quello -tenuissimo di un uccellino, pec- casse; e che, dunque, san Francesco gli appa- risse, là, sulla parete, tra la sua pittura o dalla sua pittura, e lo rimproverasse e lo ammonisse, e lo purgasse di profani desideri, e poi, andando via, attingesse dallo scollo del suo cappuccio briciole di pane e le spargesse per la campa- gna, e gli uccelli volassero a quel lieto convito, e Paolo, quetato alfine, si addormentasse nel suo sogno. La poesia s'iunalzava così, a suo credere, a idealità francescana. Tale fu, per chiunque abbia qualche pratica di poeti e poesia, la genesi di questo Paulo U cello, 122 III - DODICI ANNI DOPO lodatissimo tra i componimenti del Pascoli. Ed è chiaro che non fu una genesi poetica, ma senti- mentalistica, come di solito in quel tempo della produzione pascoliana, quando l'autore si era dato tutto in balia a certe sue impoetiche ten- denze, incoraggiato e traviato da false lodi, specie da quelle di amici, che par si fossero proposto di addensargli intorno un velo e fargli perdere il senso della realtà, e un po' lo vagheggiavano at- traverso quel velo, un po' celiavano sulle sue bizzarrie. Senonchè, la poesia non può nascere da intenzioni, per gentili che siano, perchè tutte le intenzioni sono, in questo caso, aride, unilate- rali, astratte; ma nasce dalla piena umanità com- mossa, come suono tra i suoni, accordato con gli altri suoni, non mai tutta tenera o tutta gentile o tutta leggiadra. Anche la poesia dell'idealità francescana; della quale uno dei più vivi esempi che mi vengano ora a mente è un verso e mezzo di Tommaso Campanella, in un suo duro e no- doso sonetto, dove, ritratto l'orrore dell'umano egoismo, le lotte, le insidie, le calunnie, e, più di tutto, gl'infingimenti interiori per cui l'uomo « sé stesso annichilando si converte alfine in istìnge», improvvisamente esclama, come se gli si spieghi innanzi un lembo di paradiso: Tu, buon Francesco, i pesci anche e gli uccelli frati appelli!... E, se si vuole un esempio più a noi vicino, ri- corderò il sonetto del non professionale france- scano Carducci, quel sonetto, in cui il poeta, Ili - DODICI ANNI DOPO 123 alla vista della fertile costa che pende dal Su- basio, considera commosso su] piano laborioso, che al sol di luglio risuona di canti d'amore, Santa Maria degli Angeli: Frate Francesco, quanto d'aere abbraccia questa cupola bella del Vignola, dove incrociando a l'agonia le braccia nudo giacesti su la terra sola!... Poiché la genesi non fu poetica ma intenzio- nale, o, come io dico, intellettualistica, il Pascoli non potè indovinare la forma poetica, la quale è tutt'uno con l'ispirazione, e nell'ispirazione è già delineata e mossa. E prese a stendere il suo estratto quintessenziale di tenerezze e dulcitudini e francescanerift in una forma artificiosa ed estrinseca, che è subito dimostrata tale dalla mo- notonia dell' intonazione, dalla semplicità troppo semplice, che in essa si osserva. Si desiderano prove di ciò? Come darle a chi non ha orecchio per sentire il tono falso? Come fissare in alcune parole ciò che è diffuso in ogni snodatura e spez- zatura della sintassi, in ogni inflessione della voce? La critica (l'ho detto tante volte) ha un limite o un presupposto che si chiami: il presup- posto che si abbiano occhi per ben vedere e orecchi per ben udire. Tutt'al più, essa può aiutare con qualche indicazione: Dipingea con la sua bella maniera sulla parete, al fiammeggiar del cielo. E il monachino rosso, ecco, lì era, posato sopra un ramuscel di melo. Che la parete verzicava tutta d'alberi.. 124 III - DODICI ANNI DOPO 0 anche: Oh! non voglio un podere in Cafaggiolo, come Donato: ma un cantuccio d'orto, sì, con un pero, un melo, un azzeruolo. Ch'egli è pur, credo, il singoiar conforto un capodaglio per chi l'ha piantato!... Ma un rosignolo io lo vorrei di buono... Un altro aspetto di questa forma, senza in- timo freno, senza intima sua legge, e che ha accattato una legge dall'esterno, da un proposito della mente, da uno sforzo, da uno stento di vel- licare i cuori teneri e tenerli in dolce spasimo, è il frazionamento nei particolari, le lungherie, le materialità inopportune. Il Pascoli, anche in questo caso, non ci risparmia né le nomenclature di uccelli, né le sensazioni fìsiche, per es., dei becchi che beccano le miche sparse ( « E, come un bruscinar di primavera, Rimase un trito bec- chettio sonoro»), né il solito usignuolo onoma- topeico, che, alla dipartita del santo, canta chie- dendo «dov'era ito... ito... ito...». E conseguenza di ciò è la perplessità nel let- tore, che non sa se il poeta scherzi o dica sul serio, se sia in un momento di festevolezza o non piuttosto di accoramento, se voglia dilettare con un rifacimento arcaico che susciti un sor- riso, o se esprima un suo serio sentire. Che cosa è quel san Francesco, che favella con vocaboli e formole tolte di peso ai Fioretti e gestisce con attucci che mal traducono le pitture trecentesche? È una figurina grottesca, una caricaturina, un follettino, da divertir bimbi, o il santo del gran Ili - DODICI ANNI DOPO 125 cuore, che deve riempirci di riverenza? No: nella figurazione del Pascoli egli non mi riempie di riverenza e di amore, ma non posso dir neppure che mi diverta. E quale impressione, dunque, mi suscita? Buona è codesta, color foglia secca, tale qual ha la tua sirocchia santa, la lodoletta, che ben sai che becca due grani in terra, e vola in cielo, e canta... E sminuiva, e già di lui non c'era, sui monti, che cinque stelline d'oro... Quale impressione? Non altra che quella, poco piacevole, della poesia stentata e sbagliata. Sbagliata, ho detto; ma sbagliata dal Pascoli, e non già da un qualsiasi arfasatto: dal Pascoli che non solo era un letterato studiosissimo, ma era, o almeno era stato una volta, poeta, il poeta idilliaco e triste delle primissime Myricae, e di tempo in tempo aveva come un'apertura di cuore verso la campagna, gli uccelli, le modeste opere agricole e casalinghe, e un senso di gioia e di malinconia schiette. Di questo fondo spirituale di lui, guasto da sovrapposte cattive tendenze e dal cangiamento dello spontaneo nel professio- nale, si scorgono le tracce anche nel Paulo V cello, particolarmente nel modo simpatico in cui egli ritrae (e. 2) la parete dipinta da Paulo, quella parete che verzicava tutta d'alberi, d'erbe, di fiori, di frutta, e qua vi si vedevano zappe e là falci, e qua l'aratura e là messi biondeggianti, e due bovi messi in prospettiva che parevano 126 III - DODICI ANNI DOPO grandi ed erano più piccoli di un leprotto che fuggiva nel primo piano. Peccato che anche qui la lamentela del tono turbi l'effetto, e la troppa semplicità tolga semplicità. E questo è quanto si può onestamente dire intorno al Paulo U cello. A coloro che oggi lo esaltano come un « capolavoro » , come il « ca- polavoro dei capolavori pascoliani » , una « pu- rissima >, una «divina poesia francescana > , e insolentiscono contro di me perchè l'ho passato sotto silenzio, e mi tacciano di non « sentire la poesia » , di poca « sensibilità * (o di poca mor- bosità), mi contento di rispondere: — Eh, via! APPENDICE Da qualche accenno che è nelle noterelle critiche raccolte nella terza parte di questo volume, i let- tori avranno agevolmente inferito che anch'esse fecero scandalo e suscitarono un uragano di proteste e d'in- vettive, maggiore e peggiore di quello che si ebbe nel 1907, quando fu pubblicato il saggio ristampato in primo luogo. Cosa naturalissima: nel dodicennio corso fra le due date si era maturato e svolto a pi^no il «futurismo», del quale il Pascoli è, a mio avviso, da considerare precursore e promotore, nella nostra letteratura; e la reazione contro il mio giudi- zio, dopo tanta devastazione e perversione prodotta nel gusto, doveva essere, come fu, violentissima. Una delle accuse che, in quel gridìo, risonava come un ritornello contro di me, concerneva la mia «insensibilità». Confesso candidamente che dap- prima non compresi di che cosa mai si volesse, con questa parola, lamentare in me l'assenza. Ma, con pazienza filologica ravvicinando i testi (e quali testi !), e cercandone l'interpetrazione, ho poi non solo com- preso, ma, quel ch'è meglio, mi sono trovato affatto d'accordo con gli accusatori. Mi si tacciava, in fondo, 128 APPENDICE di essere « insensibile » alle seduzioni del pascoli- amo, del semifuturismo e del futurismo. Insensibilis- simo: sono, per questa parte, addirittura un pezzo di marmo. Dopo di ciò, non avrei niente da aggiungere, non parendomi che quella critica d'opposizione abbia apportato lume alcuno allo schiarimento dei problemi artistici da me trattati. Ma, poiché, per fortuna una rivista letteraria, La ronda di Roma, fu invogliata dalle mie noterelle critiche ad aprire una discussione o referendum sul Pascoli, che venne inserendo nei suoi fascicoli tra il 1919 e il 1920 (a. I, nn. 7 e 8, a. II, n. 1), mi piace rinviare i curiosi e gli stu- diosi a quelle pagine, che contengono molte cose istruttive e, nel complesso, confermano il mio giu- dizio. Anzi, come saggio di queste cose istruttive, trascriverò qui alcuni brani dell'articolo di uno di coloro che presero parte alla discussione, il Gargiulo, il quale ebbe, tra l'altro, il buon pensiero di spre- mere il succo dei principali studi sul Pascoli, pub- blicati dopo il mio del 1907, e, diversamente dal mio, intonati ad ammirazione, o addirittura a commossa tenerezza, pel poeta romagnolo. « È recente, solo di qualche anno fa, — scrive dun- que il Gargiulo — lo scritto che cominciò a pubblicare nella Voce l'Onofri, sotto forma di commento estetico perpetuo alle poesie del Pascoli. Fu arrestato a mezzo delle Myricae. Quando mi occorse di leggerlo, tempo dopo, io dovetti candidamente domandare all'autore come avrebbe fatto a continuarlo, e qual vantaggio si sarebbe ripromesso per la fama del poeta, nel proseguire. Da quel che se ne vide, la negazione risultava pressocchè totale; d'altra parte, nel modo, talvolta perfino un po' ingenuo, con cui rari versi restavano additati all'ammirazione, non si ricono- APPENDICE 129 sceva punto l'Onofri, che pur aveva dato prova di possedere, oltre quella sensibilità che conosciamo investita direttamente in saggi di poesia, scaltrite facoltà critiche. Discussi alquanto con lui anche i rari versi e, se mal non rammento, urtai infine con- tro un atteggiamento di resistenza passiva, se non d'indifferenza. Ma certo conclusi che per lo meno era passato dall' Onofri il quasi entusiastico momento di fiducia, che gli aveva dato lena per proporsi quel lunghissimo lavoro destinato a discriminazione e volgarizzamento delle bellezze pascoliane. « Di R. Serra — del quale non mi esagero il valore critico, ma riconosco alcune buone per quanto disgre- gate disposizioni, — richiamiamo un po' il saggio sul Pascoli, del 1909. È da notare che il Serra, giu- stamente, fu detto un temperamento pascoliano; e forse quel saggio, da solo, basterebbe a provare le affinità. Ora, in tutta la parte negativa, che è ampia, le osservazioni giuste abbondano, né certo l'amor dell'argomento riesce ad attenuarne l'acutezza. Si porta all'evidenza, nella parte positiva, la « man- canza di forma » del Pascoli, che sarebbe la « forma propria» di lui: i versi del poeta non si cantano, non si ricordano, non si citano, se non forse : Roma- gna solatia, dolce paese, ( che veramente è un bello e dolce verso '. c E se noi, richiesti, dovessimo offrire in uno o pochi versi rappresentata quasi in iscorcio la virtù propria di lui, ci rifiuteremmo; per quanti ce ne potessero passare innanzi, sappiamo bene che di nessuno saremmo contenti a pieno. Anzi, dicendone e mostrandone ad altri, mi par che sempre si senta il bisogno di soggiungere a ogni tratto: a questo non badar troppo, non ti fermare su quel particolare; che il poeta non è lì '.E dov'è mai? — dimandiamo al Serra, caduto in così profondo oblio del proprio B. Croce, Giovanni Pascoli. 9 130 APPENDICE cosidetto umanesimo? È nelle cose: c La poesia del Pascoli consiste in qualche cosa che è fuori della letteratura, fuori dei versi presi a uno a uno; essa è di cose, è nel cuore stesso delle cose '. Ed è lo stesso Serra che in altro scritto, in difesa della forma, o della letteratura, ebbe questo scatto: c Le cosel tutto quello che c'è in me di meno ingrato si rivolta dispettosamente. Nulla è così vago, goffo, incon- cluderite, retorico, come le cose '. Le cose dunque; ed anche la persona; cioè, il Pascoli bisognava vederlo: 'È un poeta. Ogni timore, ogni inquietu- dine che la lettura poteva aver lasciato dietro di sé, subito cade; in lui non c'è falsità, maschera, posa, artifizio. Tali cose non esistono; non possono aver luogo in quest' uomo eh' io vedo. Altri potrà giudicare, pesare, classificare... \ C'è altro ancora, e forse di peggio, che tralascio, nello scritto del Serra; ma non mi è mai accaduto d'incontrarmi nella condanna di un artista concepita in una forma più cruda e radicale di quella che trascrivo: « Questa è la sua gran forza e la sua gran debolezza. Secondo che l'uomo accetti la poesia di lui per quello che è o per quello che vuole essere. Poiché se io accetto la poesia di lui, col significato ch'essa ebbe per lui quando la fece, se mi trasporto, come altri direbbe, nel suo punto di vista, allora il valore ne diviene in- commensurabile: non è valore di cosa d'arte, ma di cosa viva ». « Dove si arriva? Eppure il Pascoli del Cecchi, del 1912, ha queste parole nell'epilogo, che non sono meno preoccupanti di quelle ora riferite del Serra: f Bisogna rifondere gli aspetti torbidi e contrastanti, nei quali questa poesia viene, mano a mano, rive- landosi, in un misterioso aspetto solo nel quale le sue contraddizioni, le sue incertezze, i suoi errori, APPENDICE 131 bì siano stratti all'ardore del nostro affetto, della comprensione nostra '. Osservavo, in una recen- sione che feci del libro nella vecchia Cultura, che in tale giudizio è c come una confessione al lettore, la quale suona: l'aspetto misterioso, in questo libro, è rimasto misterioso; il mistero non è stato svelato '. Di quello studio dicevo in genere (mi permetto di autocitarmi, perchè resto precisamente a quel punto ora che l'ho riletto) : c È animato dalle più benevoli e indulgenti intenzioni; ma riesce ad una condanna, quasi tutta esplicita, in minima parte implicita, del- l'opera pascoliana. Pare che il Cecchi abbia impe- gnato in questo suo studio tutta la propria sensibilità inventiva, che è molta, e i residui di un'antica sim- patia pel poeta, che doveva essere ingenua, non criti- camente illuminata. Pure, il risultato è quello che è, vale a dire negativo '. Non mancai di rilevare la sproporzione tra la parte negativa e quella che voleva essere positiva: c Egli non si è neppure accorto che uno studio costituito in massima parte da una violenta negazione, e diretto, nel tempo stesso, ad una affermazione energica, doveva essere assai più svolto nella parte affermativa, anche sotto il rispetto che sembra puramente materiale, del numero delle pagine. Il Pascoli è, pel Cecchi, un poeta coperto da una corazza di falsità? Ha sotto la corazza una emo- tività delicatissima e nuova? Ebbene bisognava che lo studio critico riuscisse solidamente poggiato ed equilibrato sulla parte affermativa '. Concentravo naturalmente l'attenzione sulla parte del libro che voleva essere di sicura affermazione, dedicata c alla definizione della particolarissima, intima ispirazione pascoliana, di cui poi quasi tutta l'opera del poeta sarebbe una deformazione '. Tale ispirazione centrale si risolveva pel Cecchi in una disposizione iniziai- 132 APPENDICE mente sensuale, oggettiva, di pura dedizione alle cose, attraversata poi dal brivido del dolore e del mi- stero. E dovevo concludere: c Lo sforzo grande, ma vano, del critico consiste nel rendere questo brivido '. c Ma ecco che il Cecchi, invece di svolgere e scio- gliere fino all'evidenza l'asserito sentimento di dolore e di mistero, il quale resta, nei termini indicati, ancora sotto una forma schematica, dura ed ambigua; invece di trarlo alla vita piena, immergendo in esso le opere del poeta; impegna tutta la sua sensibilità inventiva, ed anche tutta la sua industria stilistica, nel ridurre quel dolore e quel mistero alle più fugaci ed inafferrabili espressioni : ad un brivido, un attimo, un baleno, e via dicendo '. Il critico aveva paura di fermare il brivido; le poche citazioni restarono anch'esse sorde all'invito di rivelarlo. Sulla poesia che ha il privilegio del più lungo commento, la Digitale purpurea, io avrei ora curiosità di sentire da capo il giudizio del Cecchi >. Così il Gargiulo. — Del resto, la lode ottenuta, e in parte ancora mantenuta, dalla poesia pascoliana, e la difficoltà di far prevalere un diverso e più pa- cato giudizio, richiamano moltissime altre vicende consimili della storia letteraria. Ci vuol pazienza innanzi alle asserzioni dei poco perspicaci e dei fanatici : A voce più ch'ai ver drizzan li volti, e così ferinan sua opinione prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l'ha vinto il ver con più persone (Purg., XXVI, 124-6). Marzo 1920. INDICE Avvertenza dell'editore Pag. vii I. Giovanni Pascoli » 1 II. Intorno alla critica della letteratura con- temporanea ed alla poesia di G. Pascoli. » 71 III. Dodici anni dopo » 105 1. Ancora sulla poesia del Pascoli . . » 105 2. Il «Paulo Ucello» » 118 Appendice » 127 EDIZIONI LATERZA zii:\ i::c (Estratto del Catalogo Settembre 1920) SCRITTORI D'ITALIA A cura di FAUSTO NICOLINI ELKGANTE RACCOLTA CHK 81 COMPORRÀ DI OLTRE SEICENTO VOLUMI DEDICATA A S. M. VITTORIO EMANUELE III ARETINO P., Cartéggio (Il I libro delle lettere), voi. I (n. 53). (Il II libro delle lettere), parte I e II (n. 76 e 77). AMENTI (degli) S., Le Porretane, (n. 66). BALBO C, Sommario della Storia d'Italia, voli. 2 (n. 50, 60). BANDELLO M., Le novelle, voli. 5 (n. 2, 5, 9, 17, 23). BARETTI G., Prefazioni e polémiche, (n. 13). — La scelta delle lettere familiari, (n. 26). BERCHET G., Opere, voi. I: Poesie, (n. 18). Voi. II: Scritti aitici e letterari, (n. 27). BLANCH L., Della scienza militare, (n. 7). BOCCACCIO G., Il Contento alla Divina Commèdia e gli altri scritti intorno a Dante, voli. 3 (n. 84, 85, 86). BOCCALINI T., Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, voli. I e II (n. 6, 39). CAMPANELLA T., Poesie, (n. 70). BARO A., Opere, voi. I (n. 41). COCAI M. (T. Folengo), Le maccheronee, voli. 2 (n. 10, 19). Commedie dei Cinquecento, voli. 2 (n. 25, 38). CUOCO V., Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, seguito dal Rapporto al cittadino Carnot, di Fran- cesco Lomonaco, (n. 43). — Platone in Italia, voi. I (n. 74). DA PONTE L., Memorie, voli. 2 (n. 81, 82). 2 Editori GIUS. LATERZA & FIGLI - Bari DELLA PORTA G. B., Le commedie, voli. I e II (n. 4, 21). DE SANCTIS F., Storia della lettor, ital., voli. 2 (n. 31, 32). Economisti del Cinque e Seicento, (n. 47). FANTONI G., Poesie, (n. 48). Fiore di leggende. Cantari antichi ed. e ord. da E. Levi, (n. 64). FOLENGO T., Opere italiane, voli. 3 (n. 15, 28, 63). FOSCOLO IL, Prose, voli. I, II e III (n. 42, 57, 87). FREZZI F., Il Quadriregio, (n. 65). GALIANI F., Della moneta, (n. 73). GIOBERTI V., Del rinnovamento civile d'Italia, voli. 3 (n. 14, 16, 24). GOZZI C, Memorie inutili, voli. 2 (n. 3, 8). — La Marflsa bizzarra, (n. 22). GUARINI G., Il Pastor fido e il compendio della poesia tra- gicomica, (n. 61). GUIDICCIONI G. - COPPETTA BECCUTI F., Rime, (n. 35). IACOPONE (fra) da TODI, Le laude secondo la stampa fio- rentina del 1490, (n. 69). LEOPARDI G., Canti, (n. 83). Lirici marinisti, (n. 1). LORENZO IL MAGNIFICO, Opere, voli. 2 (n. 54, 59). MARINO G. B., Epistolario, seguito da lettere di altri scrit- tori del Seicento, voli. 2 (n. 20, 29). — Poesie varie, (n. 51). METASTASIO P., Opere, voli. I-IV (n. 44, 46, 62, 68). Novellieri minori del Cinquecento — G. Parubosco e S. Erizzo, (n. 40). PARINI G., Prose, voi. I e II, (n. 55-71). Poeti minori del Settecento (Savioli, Pompei, Paradisi, Cer- reta ed altri) (n. 33). — (Mazza, Rezzonico, Bolidi, Fiorentino, Cassoli, Mascheroni, (n. 45). POLO M., Il Milione, (n. 30). PRATI G., Poesie varie, voli. 2 (n. 75, 78). Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, dei secoli XVI, XVII, XVIII, voli. I, II, IIIi-ii (n. 36, 49, 79, 80). Riformatori italiani del Cinquecento, voi. I (n. 58). Rimatori siculo- toscani, voi. I (n. 72). Editori GIUS. LATERZA & FIGLI - Bari 3 SANTA CATERINA DA SIENA, Libro della divina dottrina, volgarmente detto Dialogo della divina provvidenza, (n. 34) STAMPA G. e FRANCO V., Rime, (n. 52). Trattati d'amore del Cinquecento, (n. 37). Trattati del Cinquecento sulla donna, (n. 56). VICO G. B., L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie, (n. 11). — Le orazioni inaugurali, il De italorum sapientia e le po- lemiche, (n. 67). VITTORELLI I., Poesie, (n. 12). Prezzo di ogni volume 7.50 La Bicicletta . . . > 7,50 Olocausto, romanzo » » 3,50 7.00 Quartetto .... 7 50 il nemico (due volumi) Oro incenso mirra . t 6.50 Fuochi di bivacco . . » 7.50 Matrimonio . . . » 6,50 La disfatta, romanzo . » 7.50 Gramigne (Sullo scog io) » 6,50 Ombre di occaso . . » 6,50 1 Il Teatro (voi. I) . » 6,50 OPERE VARIE. ABIGNENTE F., La moglie, romanzo L. 3.50 AMATUCCI A. G., Dalle rive del Nilo ai lidi del «Mar no- stro», voi. I: Oriente e Grecia 5,50 voi. II: Cartagine e Roma 5,50 — Hellàs, voi. I, (4a edizione) 6,50 Voi. II, (3a edizione) (esaurito). BAGOT R., Gl'Italiani d'oggi, (2a edizione) .... 4,50 BALSAMO CRIVELLI R., Boccaccino 20,00 BARDI P., Grammatica inglese, (5a edizione) .... 10,50 — Scrittori inglesi dell'Ottocento 6, — BARONE E, La storia militare della nostra guerra fino a ... Caporetto 6,50 Editori GIUS. LATERZA & FIGLI - Bari 11 BATTELLI A., OCCHIALINI A., CHELLA S., La radioatti- vità 16,— CAMPIONE F., Per i germi della specie 10,50 CARABELLESE P., L'e9sere e il problema religioso . 4, — CECI G., Saggi di una bibliografia per la storia delle arti figurative nell'Italia meridionale 8, — CERVESATO A., Contro corrente 3,— CHIMENTI G., Commercial English & Correspondence (in ristampa). COTUGNO R., La sorte di G. B. Vico 4,— — Ricordi, Propositi e Speranze 1, — DE CUMIS T., Il Mezzogiorno nel problema militare dello Stato 3,50 DE LEONARDIS R., Occhi sereni, (novelle per giovinette) 5,50 DE LORENZO G., Geologia e Geografia fisica dell'Italia me- ridionale 6,50 — I discorsi di Gotamo Bnddho (2» edizione) .... 35, — DEPOLI G., Fiume e la Liburnia 2,50 DE SANCTIS F., Lettere a Virginia 5,50 DI GIACOMO S., Nella Vita, novelle (esaurito). FORTUNATO G., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, 2 vo- lumi 15,— FUSCO E. M., Aglaia o il II libro delle poesie . . . 6,— GAETA F., Poesie d'amore 12,— GENTILE G., Il carattere storico della Filosofia italiana 2,50 — Sommario di pedagogia come scienza filosofica, voi. I: Pedagogia generale, (n. 2-i) 6,50 voi. II: Didattica, (n. 2-n) 6,50 — Teoria generale dello Spirito come atto puro . . 15,50 JUNIUS, Lettere politiche (di) 6,50 LOPEZ D., Canti baresi 3,50 LARCO R., La Russia e la sua rivoluzione .... 9,50 LORIS G., Elementi di diritto commerciale italiano 6,50 LORUSSO B., La contabilità commerciale (4» ediz.) . 10, — MARANELLI C, Dizionario Geogr. dell'Italia redenta 8,50 MEDICI DEL VASCELLO L., Per l'Italia 4,- NAPOLI G., Elementi di musica 1,— NAUMANN FR., Mitteleuropa. Trad. di G. Luzzatto, 2 volumi 15t — NENCHA P. A., Applicaz. pratiche di servitù prediali . 6,50 12 Editori GIUS. LATERZA & FIGLI - Bari NICOLINI F., «li studi sopra Orazio dell'abate «aliani 5,— OLIVERO F., Saggi di letteratura inglese 5,— — Studi sul romanticismo inglese 4,— — Sulla lirica di Alfred Tennyson 4,— — Traduzioni dalla poesia Anglo-Sassone 4,— PANTALEONI M., I. Tra le incognite 5,50 — IL Note in margine della guerra 5,50 — III. Politica: Criteri ed Eventi 6,— — IV. La fine provvisoria di un'epopea 7,50 PAPAFAVA F., Dieci anni di vita politica it., 2 voi. 15,— PASQUALI G., Socialisti tedeschi 7,50 PLAUTO M. A., L'anfitrione — Gli asini 2,50 — Commedie 2,50 PRATO G., Riflessi storici della Economia di guerra . 6,50 QUARTO di PALO L., La civiltà 18,50 RACIOPPI G., Storia dei moti di Basilicata e delle provi noie contermini nel 1860 6, — RAMORINO A., La Borsa; sna origine; suo funzionare . 3,50 RAMSAY MUIR, La espansione europea 7,50 RATHENAU W., L'economia nuova 3,50 RICCI E., Versi e lettere 3,— RICCI U., Protezionisti e liberisti italiani 6,50 SABINI G., Saggi di Diritto Pubblico 4,— SCHURÉ E.,'1 grandi iniziati, (4a edizione) .... 16.50 — Santuari d'oriente . . . 10,00 SCORZA, Complementi di geometria 6,50 SOMMA U., Stima dei terreni a colture arboree . . 3,— TITTONI T., Conflitti politici e Riforme costituzionali 7,50 TIVARONI J., Compendio di scienza delle finanze. . 8,50 — I monopoli governativi del commercio e le finanze dello Stato 3,50 TOSO A., Che cosa è l'Acquedotto Pugliese .... 1,50 WEBER M., Parlamento e Governo nel nuovo ordinamento della Germania 6,50 584 U University of Toronto library DO NOT REMOVE THE CARD FROM THIS POCKET Acme Library Card Pocket Under Pat "Rei. 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Thursday, June 6, 2024
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