DIEQO RAPOLLA
VITA
DI
CON RAGGUAGLI NOVISSIMI
E CON NOTE DIFFUSE
SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA
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POR TIOI
Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano
1892
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VITA
DI
QVISTO OBAZIO FLACCO
DI
DIEGO RAPOLLA
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VITA
DI
CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE
SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A
DI
DIEQO RAPOLLA
MOBILB VKN08IMO
CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA
CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI
PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB
PORTICI
pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO
Corso Garibaldi, 173
1893
L'ijf.S'^
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Riproduzione e traduzione vietate.
Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti
che gli concedono le leggi vigenti.
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Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem
nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo
CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico
tumet, nunc semipede ingreditìtr.
8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio
Sommo di poesìa mastro e di vita.
Pisdnnont*, ad Orazio
Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto !
D'un si vivace
Splendido colorir, d'un si fecondo
Sublime imagjnar, d'una si ardita
Felicità secura,
Altro mortai non arricchì natura
Xetattailo, Canto ad Orazio.
Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures,
DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra.
Ovidio, Trist. 4. Elegia to.
il mastro dei poeti, Orazio
La cui lira per tutto manda il suono,
E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio.
Tansillo, Canto al viceré di Napoli.
Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose
D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose,
Voltaire, EpItre à Horace.
Sume superbiam
Quaesitam meritis
VenoBino.
AI LETTORI
Dauti - /■/. Cult. XIV.
// cittadino di Venosa sentir devesi som-
mamente orgoglioso per esser nato in così
celebre terra, pili antica di Roma: splendida
civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi-
dissima nei medio-evo, e patria, il che più
monta, di Quinto Orazio Fiacco.
Del grande Venosino smisurate innume-
revoli sono state le produzioni letterarie che
ne hanno decantato il nome, criticata F opera
eterna, postillato e glossato ciascun verso o
parola
Non havvi paese al mondo che non abbia
offerto suir altare del culto della poesia per-
fetta di Orazio il suo attestato di reverente
omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran-
eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi
sulle opere del gran poeta italiano, e bio-
grafie e ricerche storiche pregevolissime su
tutto quello che riguarda la sua vita, ed i
luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par-
ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose
di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto.
Duole non poco però che in Venosa, fra
tanto lume d ingegni preclari che ha dato
quel paese, non vi sia stato scrittore che ab-
bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^
fondita, e con opera particolarmente a lui
dedicata; ed era un dovere attraverso i se-
coli venir lodato Orazio da gente venosina.
Neppure un bronzo od una lapide parlava
di lui sin oggi. '^
Ed invero il dottissimo cardinale Giovan
Battista De Luca venosino perchè nei suoi
quaranta volumi in folio non trovò il posto
per seguire quello che un S. Girolamo iniziò?
Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato
de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni
Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel-
lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve-
nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan-
gelo Lupoli), perchè non composero poema
sult immortale loro concittadino ?
Che anzi giustamente Francesco Fioren-
tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo,
redarguisce costui, perchè « discorre di quello
ix^che chiamava suo concittadino con un certo
« risentimento che non è giusto, perché Ora-
« zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve-
« nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi
(( un certo compiacimento nel ricordare la sua
a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per
fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità,
sia perchè ogni genio sublitne sorvolando
per forza arcana, trova pure in tutto il ter-
restre spazio angusto confine!
In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una
componente r aristocrazia di quei tristi tempi
di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non
poteva il Tansillo toccare la sua lira can-
tando di Orazio, stella che illumina il mondo
e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ?
Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa-
mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma
non è lecito negligere i sommi.
Io, benché non degno di venir noverato fra
cotanto senno, ho composto questo lavoro con
gran fatica, con gran sudore, con gran reli-
gione, essendomi prefisso con esso diradare
molte idee oscure circa la vita e le opere di
Orazio, riferire coti la maggiore esattezza
quanto ad esse si associa, mettere in luce
tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che
formava pel passato delle lacune negli scritti
dei biografi anche più esatti italiani e stra-
nieri.
Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla
celebre Venosa, che si commettono con la vita
del suo immortale concittadino.
Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto
»
strenuamente compensato col fatto, che ho
aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che
immarcescibile cinge la fronte sublime del
grande italiano.
Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di-
sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri-
temprare gli animi alla fonte delle opere lei*
terarie immortali come quelle di Orazio, ed
il seguirne le norme che da esse emanano,
o cittadini^ è quanto di meglio si può fare.
Si respira così aura piti pura ; si resta an-
negato in un Lete morale dolcissimo: si guar-
da con occhio impassibile la vertiginosa corsa
del torbido torrente della vita umana, da una
sponda secura e tranquilla.
Valete.
Portici— Granatello 1892.
DZE&O BAPOLLA
PROLEGOMENI
L mondo, questo pianeta, che pare
sin oggi abbia il primato sul si-
stema universale dei pianeti, perchè in
esso vive l'uomo, il re della creazione,
avverti , circa duemila anni or sono,
una di quelle trasformazioni , uno di
quegli avvenimenti, che segnano date incan-
'cellabili, e che forse non più si verificheranno
nei secoli futuri, tranne quando avverrà la
fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi
vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava
il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian-
chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini,
la mollezza, la superbia, la degenerazione del
genio del bene in quello del male erano
giunte all'estremo limite del possibile. Era
prossima l'ora delle rivendicazioni, della re-
denzione, della riscossa voluta dalla ragione.
Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an-
nunziato, già da secoli, come apportatore di
pace ed amore. Roma, caput mundi, impe-
rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi,
ghermendo prede facili in difficili e remoti
paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si
disegnavano al massimo grado. I grandi ed
i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al-
bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori
morituri.
Roma già da sette secoli esisteva, quando
l'umanità parve potersi paragonare al vapore
chiuso in forte e potente recipiente che sem-
bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci,
le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come
i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta-
vano maggiore e più antica coltura, eran pres-
sochè cancellati da questi violenti conati di
gente che era barbara e volea divenire inci-
vilita. Neir immensa Roma, per la quale po-
poli al sommo grado belligeri pugnavano
sanguinosamente per potersi dire cittadini
romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed
appena ornati da toghe e preziose porpore,
che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti
e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare-
vano non use a piegarsi alle volubili e spesso
avverse disposizioni del destino. Da Roma
partiva quella voce imperiosa che comandava
alle schiere invitte la conquista del mondo
intero.
Tutto pareva nascer gigante in quel tempo,
e con l'impronta del misterioso e del sublime.
Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu-
gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo-
patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti-
bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone,
Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate ,
Augusto I
Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in-
vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva-
no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le-
vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone
della foresta : nato da vilissima gente, sorbì
sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i
potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo,
nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel
colore della pelle dovesse indicarne la mal-
vagità dell'animo, come dopo molti secoli in
Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe
solea far aspro maneggio.
Gridava fremente alle turbe spensierate e
lussuriose : O voi altri, che vantate imagini
lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi;
verrà Y ora della rivendicazione sociale. II
vostro cammino trionfale sarà arrestato da
un fiume di sangue. Le vostre pompe su-
perbe saranno oscurate da montagne di ca-
daveri deformi 1
Eppure Mario avea sortito dalla natura il
genio uguale a quello di Cesare, suo grande
nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri,
aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila
stesso si misurò a suo forte discapito. Corse
vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi
iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito
da visioni tremende 1
A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di
patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto;
era vendicativo oltre ogni credere, ma celava
in petto cuor generoso e forte.
Non poche migliaia di Sanniti restarono
sgozzati al semplice muovere del suo soprac-
ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui,
che invano entrava nel cotidiano bagno di es-
senze per torsi di dosso la miriade di paras-
siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen-
sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse
infetto il sangue degli umani, tra i servi e
gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii,
nelle barbare e sanguinose lotte, formicola-
vano, per appagare la sozza cupidigia di vec-
chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate
di rose, e briache e spossate dalla crapula
e dal piacere. Era il preludio delle guerre
servili. Dugentoventimila servi e Spartaco
con centoventimila gladiatori produssero uno
scoppio ed uno schianto formidabile, come
potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave.
Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or-
pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei-
mila.
►^( 6 )»►-
A spaventoso movimento, repressioni più
spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente
ricco per le opime spoglie e per V oro rag-
granellato con la confisca dei beni delle sue
vittime e dei milioni di proscritti.
Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli
fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli
stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz-
zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia,
furono quelli che espiarono con lui V inau-
dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu-
mida e di regio sangue , morì da eroe nella
fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania,
condottiero di stanche e poche agguerrite
schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e
Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel
povero oppresso e quel ricco oppressore, es-
servi dovea odio mortale. Perversi però e
scelesti ambidue !
Cicerone e Catilina, sommo oratore ma
ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso-
luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che
mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni,
e dalla fine del primo si videro strani risul-
tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le
sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone
ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro-
stri del foro romano, e la lingua foracchiata
dall' aureo spillone della proterva Fulvia.
Splendidi esempii agli ambiziosi I
Mentre che alla magnifica Atene non re-
stava che il primato nel mondo per le let-
tere e per le scienze, e mentre V immensa
Roma repubblicana si affraliva e s* incrude-
liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas-
sacri e le guerre , nasceva Cesare.
Cesare lo si disse dapprima congiuratore
con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il
sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am-
bizione smodata e livore. Fu uno dei più
grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò
da atleta gigante con Pompeo, nato da eque-
stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e
Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani
gliene recarono la testa mozza, e volle punita
la barbara adulazione. Era letterato di gran
talento. Era generoso, ma sotto il mantello di
leone ascondeva animo felino , vendicativo,
dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di
propria mano il corpo con la spada, piutto-
^( 8 )»^
sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am-
biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger-
mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato.
Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di
Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si
macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo
premeva come incubo, anelava alla libertà,
E tale fu la progenie umana sin da che
vide la luce.
Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla
missione di pace tra gli uomini. Fatalmente
però gli uomini si mantennero sempre gli
' stessi.
Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra-
tricida per invidia e per sete di dominio. E
da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a
Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi
a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli
spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole
umane. *)
E da questi ai Torquemada, agli autori
degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono
Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da
questi a Luigi XI, il compare di Tristano,
ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre
( 9 )»^
aizzava le orde a fare strage, e permise la tre-
menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre
che allagò il bel suolo di Francia col sangue
delle vittime del Terrore ; al prigioniero di
S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti
buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-
merevoli, che in questo nostro secolo avven-
turoso han messo a soqquadro l'universo con
lotte ferocissime.
Una è perciò la linea che appare precisa:
l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro
qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres-
sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla
porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel-
l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so-
vrani e sudditi, tra volgo profano e menti
elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi-
nistri delle diverse religioni; il quale odio
malvagio personificato potrebbe raffigurarsi
quale Encelado premuto dall' Etna.
La scala della nequizia in tutti i tempi ha
toccato i cieli, come quella biblica. . . .
Tale era lo stato del mondo allorché nac-
que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene
scorreva sangue di schiavo.
II.
LA FAMIGLIA DEL POETA
I ELLA vetustissima Venosa [Venu-
sid), città situata tra la Puglia e la
Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno
689 dalla fondazione di Roma, sessan-
tacinque anni prima dell' era cristiana,
essendo consoli L. Aurelio Cotta e L.
Manlio Torquato , essendo Cesare compro-
messo con la prima congiura di Catilina, per-
chè sognava la caduta della repubblica e la
dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il
nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel
libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo
chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò
nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco
nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli
stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira
del secondo libro, così si cognominò.
Ma tale soprannome non indicava che
avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi
a lui, quello che egli stesso dice di essere
di facilissima audizione, oppure che quelli
di sua famiglia fossero distinti con tal no-
mignolo, tra le non poche famiglie della
tribù oraziana, della quale si discorrerà in
appresso.
In un antico manoscritto che si conserva
nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che
vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna,
venosino, si asserisce che Orazio nacque
nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna
scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della
città, e presso certi molini, che in appresso
(come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap-
partennero ai Pironti venosini, e che oggi
son quasi di fronte alla cattedrale, venendo
^( 13 M^
dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto
/e Sa/me.
Suo padre era uno schiavo fatto libero. La
quale condizione se non era tanto miserevole
quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av-
vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li-
berto ripeter doveva quella larva di libertà
dal suo antico padrone; come cittadino ve-
deasi privato del diritto al suffragio; aspirar
non potea agli alti uffizii civili, e neppure a
coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro
perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo
stesso matrimonio era per lui limitato nella
cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo-
sar non poteva sia la figliuola d' un senatore
o d* un patrizio, sia altro essere nato libero
od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il
liberto sotto la tutela del passato padrone, e
lui malaugurato se a questo si fosse ribel-
lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas-
sato padrone se ne avvaleva per servizii ono-
rifici, mediante lieve mercede. Malamente
taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio
fosse libertino nel senso voluto da Svetonio
in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di
-«( 14 ))^
Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di
schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo
padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel
senso detto dapprima, volendo intendere che
suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto
poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al-
cuno. \
. Il padre di Orazio prestava il servizio di
riscotitore di tasse del comune di Venosa e
di banditore, era un servus pubKcus; il Che
dimostra che il suo passato padrone essere
dovea di alto grado sociale, assegnandogli
tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser-
vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi
potea felice ed agiato, stantechè possedeva
presso la Rendina, luogo neir agro di Ve-
nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene
Orazio dicesse esser suo padre macro pan-
per ugello) un conveniente provento, e
quindi potette unire al suo impiego anche un
negozio di salsamentario, o salumiere; e come
vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la-
conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher-
nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni
di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum
( 15 )
brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in
quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice-
rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu--
aito se emungere solebat. 5)
Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto
ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni-
tori, né da altri scrittori suoi contemporanei,
compreso lo stesso Svetonio, né il nome di
suo padre, né il nome e la condizione di sua
madre.
Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri-
zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri-
zione che dice leggersi sopra una casetta in
Venosa, che erroneamente fu detta esser la
casa di Orazio, così concepita:
HORATI C. L. Dio ....
MlTULLEIAE UX. . . .
e che sì è voluta decifrare così:
HoRATio DioDORo Caji Liberto
MiTULLEjAE Uxori 6)
La quale interpretazione importerebbe che
il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro
o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo
-«( i6 ))^
un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi
non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno
di questi è riferibile l'iscrizione funeraria.
I due eruditi Grotefend, il Franke nei
suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua
splendida opera The works of Q. Horatius
Flaccus illustrateci , opinarono il padre di
Orazio poter esser un discendente dell' il-
lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri-
divenuto libero, avesse ripreso, secondo il
costume del tempo, il proprio nome. Ma il
Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re--
gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin-
venute in Venosa indicanti l'esistenza di una
tribù Hofatia, colonia romana, nella quale
erano allistati gli abitanti della città di Ve-
nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que-
sta colonia, non discendeva però dalla fami-
glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op-
posizione le continue lamentazioni del figlio
di vii nascimento.
Né si potea concepire che , fra tanta chia-
rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di
un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non
enunziasse neppure il nome di quelli che gli
-«( 17 )f^
aveano data la vita. Ed è poi noto, come si
vedrà in appresso, che tutto venne confiscato
alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi-
lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando,
e del tutto sprovvista di mezzi, il che per-
metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi
con iscrizioni commemorative.
G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo-
sophia vetus et nova ad usum scholae, opina
che un avo del poeta Orazio, assoldato nel-
r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del
Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma,
e comprato da un questore venosino, dal
quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta-
stica, come moltissime venute fuori dalla pen-
na del letterato e filosofo del Calvados, non
ha fondamento, mancando della parte princi-
pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo
fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di
Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che
per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto,
non liberto, come era infatti; Orazio chia-
mando sempre suo padre liòertinus, non nel
senso voluto da Svetonio, e mostrando sem-
pre rammarico per tale causa.
3
( i8)
Altri poi (come rilevasi da vecchissime
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare
al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma
pure questo va chiaramente emendato, stante-
che si è voluto confondere il nomignolo del-
l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in
Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban-
ditori in quel tempo solcano annunziarsi a
suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^
tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse-
rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre
di Orazio e quello della sua genitrice: se ne
conoscono solo del tutto la condizione e lo
stato del primo. Orazio disse essere stato suo
padre uno schiavo, al quale venne concessa
la libertà. Tale origine del suo casato lo mo-
lestava acremente. E qui cade in acconcio
notare che mentre Orazio non ha mai indi-
cato il nome di suo padre e di sua madre,
non ha mai nominata la città di Venosa. Con
molta lucidità indica il luogo della sua na-
scita e ne fa un piccolo cenno storico topo-
grafico così concepito: Io non so con preci-
sione se son Lucano o Pugliese, perché il
colono venosino suole volgere l'aratro tra i
( 19 )
due confini di queste due regioni. E che Luigi
Tansillo venosino cosi traducendo imita nel
suo canto al viceré di Napoli:
Io non so se Lucani o se Pugliesi
Siam noiy però ch'il venosin villano
Ara i confini d'ambidue paesi..,,.
Ed una colonia romana fu spedita in tal
luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar-
neli, e per impedir poi che tale infesta gente
corresse sopra Roma a molestarla come pel
passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non
poco ai Romani come le storie luculentemen-
te asseriscono. E tale colonia romana spedita
in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar
dovea guarentigia a tutta la regione pugliese
e lucana, e mostra ad evidenza V importanza
della città di Venosa in quei tempi.
Orazio volle con precisione dichiararsi ap-
partenente alla colonia ronìana che discac-
ciava da Venosa i Sanniti.
Eppure i Sanniti furono di razza Sabina,
ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè
la patria prima dei Sanniti, formar dovea la
sua seconda desiderata patria, la sua aspira-
^ 20 >»^
zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana
commedia !
Eppure i costumi dei Sanniti furono qual
si conviene a popolo belligero, sobrio e buo-
no. Governavansi in austera repubblica, ed il
sistema democratico formava la base delle
loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria
davan persino le avvenenti compagne e le
figlie come premio. O sacrifizio memorabile \
Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i
Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora
definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra
tra le genti, il più forte li debellò. I Romani
290 anni prima di Cristo li espugnarono del
tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché
dice che la colonia venosina, debellati i San-
niti, divenne propugnacolo contro le ossi-
dioni di tal forte e belligera gente. Convien
quindi notare che Orazio per quanto asserì
esser nato sul suolo venosino, per tanto sem-
bra mostrarsi superbo di appartenere alla co-
lonia romana ivi residente: che anzi bisogne-
rebbe assegnargli meritevolmente la taccia
d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare
una sola volta in tutte le sue opere la patria
•^ 21 )»-
sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe
immortalati) né di suo padre, né di sua ma-
dre, bensì il nome del suo primo maestro
Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^
cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod--
cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis,
venusinae plectantur silvae, te sospite.....
E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa
traduce, cangiando le venosine selve in lucani
boschi:
Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^
Ai flutti esperii^ di là ratto il muova
A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7)
E per giunta in tutte le sue opere Orazio
non nominando mai, come dissi, Venosa,
spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,
TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma-
tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa
Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis-
sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su-
perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e
dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno
tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate
con le qualità individuali, superiori e rare,
-«( 22 )»-
vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio,
sovrano poeta, onore della razza umana!
Venosa, la patria tua, perdona tale non-
curanza, e tale al certo involontaria irricono-
scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura,
indicando a chiare note che sorbisti le prime
aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò
bastar deve per fare scomparire ogni traccia
di livore o sdegno verso di te, se pur può
albergare nell'animo di alcun tuo concitta-
dino livore o sdegno, come invece alberga
venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-.
tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im-
mortale aleggia benefico genio del luogo su
quella ancor bellissima terra; oppure da qual-
che stella lucente gitta raggio amico che mo-
stra la via al viandante in quelle selve lucane,
od al nocchiero la via nera dell'antico mare
Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an-
cora oggi si annega !
Orazio scrisse :
Che qual figliuol di libertin trafitto
Soft da tutti. 8)
Invero Guerrazzi da savio sostiene: La
-«( 23 )»-
ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio
riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven-
do la natura concesso all'uomo maggiori po-
tenze per acquistare, che non per mante-
nere. ^^
L'assillo nonpertanto che tormentava Ora-
zio era la sua nascita: perché non potendo
schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi
della plebe che lo dicea discendente da schia-
vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più
su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che
il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma-
gnanimità del suo genitore per averlo fatto
educare, istruii^e e porre a livello dei giovani
di buone famiglie ed agiate. Che anzi con
boria e sicumere che mal velava lo struggersi
interno, asseriva potersi porre a pari, egli
figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei
cavalieri di quel tempo anche nella superba
Romal
Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo-
sa questa sua assertiva, allorché si noterà co-
me egli stentar doveva per accaparrarsi sia
l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei
grandi, che un solo fortuito caso gli permise
avvicinare, e come molte volte ingiustamente
ne restava mortificato, mendicandone le
grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per
meritarsi l'onore di venire annoverato tra i
commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi
maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio-
vani amici ed ammiratori !
Non è lecito credersi di più di quello che
si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me-
rito, per quanto incontrastabile esso sia, in
questa commedia umana nella quale regna
sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come
poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva
circa la sua condizione nella società nella
quale viveva. Ma quel marchio che al solo
presentarselo alla mente lo straziava a morte,
il marchio di esser figliuolo di uno schiavo,
gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce
sublime quando esclama:
Io disdegno e allontano
Da me il vulgo profano
Tacciasi ognun
Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o)
Egli lodò grandemente il padre, perché
-«(25 )»-
questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove
molto era conosciuta la sua origine, e di af-
francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se-
natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i-
struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot-
tenne.
Orazio nacque, come si accennò, dodici
anni prima della congiura di Catilina. Cele-
bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio
Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i
filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo.
E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e
Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi
eravi pure una classe sociale che si distin-
gueva dalla volgare, la quale frequentava la
scuola di un maestro Flavio, del povero
Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar-
si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi
consacrato nel libro di Orazio, che pur non
dice il nome del suo genitore, della genitrice,
della patria. A questa scuola attinse i primi
rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni
lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza
col farsi in seguito beffe di essi e dei loro
parenti nobili venosini I La povera nobiltà
-«( 26 ))^
venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa
in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione :
Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA
Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus
CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM
Splendidae Civitatis Venusinorum
Consecravit ")
resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo
satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed
agiate della città di Venosa dovean tenere a
vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante
che ne conoscevano Torigine. Fu questa una
delle ragioni per cui il padre decise condurlo
in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto
un ingegno precoce e svegliato che promet-
teva alcun che di grande, e pensò abbiso-
gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade-
guato e conveniente. Orazio aveva circa otto
anni o dieci al massimo, secondo il computo
di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an-
norum Horatii, allorché giunse col padre
in Roma, e cominciò a frequentare quelle
scuole romane. Ed è caro quel vanto che
-«( 27 )»-
trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor-
dando il padre ed i felici giorni della pueri-
zia, e sentendosi nella folla della scolaresca
deir immensa città susurrare airorecchio di
esser creduto di alto lignaggio, dice :
Ma d'alti sensi osò condurre a Roma
Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti
Che un cavaliere che un senatore insegna
Ai propri figli, Allor se, come avviene
In un popolo immenso^ avesse alcuno
Gli abiti visto^ ed i seguaci servii
Certo creduto avria spese sì fatte
A me apprestarsi da retaggio avito 13)
La quale ingenua confessione dimostra
che il padre di Orazio, sebbene appartenente
alla bassa condizione di liberto, non doveva
essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen-
te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli
di coloni agiati e signori delle provincie^ non
vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad
apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi
vivono certo vita allegra, vestono panni di
lusso, e possono farsi seguire da servi e
staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma-
nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio
però per generoso e riconoscente sentimento
riferisce al padre il potersi istruire con tanta
comodità, né può tacciarsi di parabolano o
falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che
abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva
con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i
centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una
morale istintiva covava Tira repressa del
figliuol del liberto 1
ni.
ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE
L padre d' Orazio condusse suo fi-
" glìo in Roma nel 699 , cioè cin-
quantacinque anni prima dell' era cri-
stiana, non raggiungendo questi ancora
i dieci anni di età. Forte baleno dì or-
goglio e di stupore dovette abbagliare
il piccolo venosino, ma pur cittadino romano,
nel calpestare le aboliate strade della magnì-
fica Roma.
Ergevasi la città , che imperava allora su
buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici
celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio,
e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi
suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente
nel mondo , perchè dominio di validissime
potenze: la tiara, e la monarchia costituzio-
nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti
lunghi e meravigliosi, porte monumentali,
mura che potean vantarsi più durature e in-
concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle
cinesi. Avea più di quattrocento templi ador-
nati di colonne preziose, archi trionfali, obe-
lischi fatti trasportare con ingentissime spese
dalle più remote regioni del mondo onde si
fosse palesata la grandezza delle vittorie ro-
mane dalle spoglie ricavate dai potenti e
riottosi nemici.
Se però Roma mostravasi tanto superba e
potente alla vista, il che poteva lusingare i
sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non
proveniva da paese barbaro e povero , bensì
da Venosa, caput Apuliae, città monumen-
tale e stupenda, siccome attestano le antiche
carte e le lapidi che hanno sfidata la corro-
sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere
( 31 )
nella sua ampiezza e magnificenza gente av-
vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di
Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui
più sopra si delineò la proterva jattanza),
quel popolo, dapprima così forte e generoso,
vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon-
derante, la libertà che offriva ai cittadini la
repubblica di Catone, repubblica ormai mo-
ribonda. La mollezza ed il mal costume tor-
cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo
romano. E perciò Orazio stesso, allorché co-
minciò a balenargli in mente il vero, scrisse
che le cure del suo buon genitore, che gli fu
guida permanente, fra tante grandezze e fra
tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca-
dere in brutture ed ignominie e dal venir tac-
ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu-
rarono la stima dei buoni e dei veramente
grandi.
Il padre soleva giornalmente condurlo dai
maestri più celebri della città, ed ai banchi di
quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli
di senatori e di altre famiglie nobili ed alto-
locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre
che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto
( 32 )»-
Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè
s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio
immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i
popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo
fatto libero superava per lusso e per criterio
sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini.
Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che
se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto
scegliersi un padre, avrebbe scelto quello
che gli die natura, non trovando altro uomo
più coscenzioso, più perspicace, più amore-
vole di questo ! Desta ammirazione e mera-
viglia questa confessione, se si rifletta che il
padre di Orazio era illetterato, e che era stato
soggetto alla schiavitù 1
Ed Orazio nel parlar di suo .padre include
pure la madre sua, perchè dice:
. ... io pago a' miei (genitori), di fasci
E di sedie curuli avoli adorni
Saprei spezzar . . . . »S)
Le prime lettere gli furono apprese da Pu-
pilio Orbilio da Benevento, che, come narra
Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel
tempo e tra i migliori maestri sotto il con-
solato di Cicerone. Visse centenario; morì
povero , solita fine dei non pochi lavoratori
coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e
non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora-
zio, che se lo rammentava con satirica soddi-
sfazione.
L'uso delle sferzate nella palma delle mani
degli scolari, antico più del tempo del quale
si discorre , formava sin negli ultimi nostri
giorni un genere di punizione che la civiltà
invadente va oggi disperdendo, siccome si è
tolto il barbaro uso di bastonare e torturare
i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti-
tuirsi a quelle corporali e costrittive.
Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò
Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me-
nando a memoria e tratteggiando le scene
drammatiche del poeta Livio Andronico ed
altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni,
cominciò ad attingere alle fonti delle lettere
greche, che egli stesso poi definì le più pure
e che dovevano occupare i dì e le notti degli
scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi-
loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra-
lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che
5
gli fece acquistar gusto alla satira, furono i
suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap-
prese quell'arte divina , quella melodia am-
maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio
tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago-
narsi all'ape industre del monte Matino (ser-
vendosi per similitudine del nome d* un monte
della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso
del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee
svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da
ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for-
mar xumti immortali 1
Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de-
rogare l'aurea massima di Ovidio del prin-
cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del tetto
«npic.1, eha Bud«t
■ var»(EUr bnpuko
. SctDW col cV»l.
Io rad•-
che, essendo gli scribi addetti al contenziose
amministrativo, od alla pubblica contabilità,
formavano un' autorità speciale, siccome la
Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi
formavano un collegio a parte e la carica era
vitalizia ed inamovibile.
Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli,
e presso la via Nomentana in Roma nei pri-
mi anni del secolo decimonono, come da altre
che vennero con esattezza riportate e com-
mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati,
da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma
inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da
Visconti, si rileva appunto l'importanza del-
Tuffizio di scriba.
Hawene una di un Tito Sabidio Massimo,
scriba della questura, ed appartenente al sur-
referito collegio, al quale i Tiburtini innalza-
rono un monumento in riconoscenza dell'alta
protezione accordata da lui a questa città:
T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae.
Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici.
Salio. Curatori Fani Herculis.
Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii.
Locus Sepulturae. Datus,
•^( 69 )»-
VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS.
TlBURTIUM.
Siccome quest'altra seguente iscrizione a
Manio Valerio Basso antico tribuno di legio-
ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854
nel Giornale di Roma dal comm. Visconti,
rende noto che la carica di scriba della que-
stura soleva assegnarsi alla miglior classe
dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam-
biare con la carica di tribuno delle milizie,
acciocché se qualcuno fosse stato esonerato
o per età o per volontà, trovar potesse un
appannaggio adeguato al proprio valore, ed
un meritato guiderdone:
Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso.
Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI.
Primo. Harispic. Maximo.
Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et.
Fratri. Suo.
Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.
Erroneamente quindi gli antichi interpreti
della parola scriba e dell' impiego ottenuto
da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e
biografi attribuirono solo il senso di copia-
tori di pubblici atti, oppure notai o redatt
di atti privati, all'ufficio di scriba.
Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii
pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi
zio più facile V accesso ed il conversare e
grandi ed i potenti di queir età, come si \
drà in appresso.
U importanza poi di tale impiego ott
nuto dal poeta si rileva anche da quello ci
egli stesso scrisse nella satira sesta del libi
secondo :
Quinto ,
Ti pregano i notai che non ti scordi
Di tornar oggi pel noto affare
Al collegio d* altissima importanza ... 32)
Anche il Gargallo spiega la parola scribi
con la voce notato; ma non credo aver voluta
egli intendere quello che oggidì importa h
carica di notaio, bensì componente il collegio
degli scribi questorii suddetti.
Il sommo poeta trascorse dunque i primi
anni della sua dimora in Roma tra Toccupa-
zione che gli offriva tale dignità onorifica e
lucrativa e tra i diletti della poesia.
Non può asserirsi con piena conoscenza
quanto Weichert, uno dei più indefessi il-
lustratori del poeta, nella sua opera Poe-
tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che
Orazio avesse solo ventisette anni allorché
venne presentato a Mecenate, cioè nel 715
di Roma. La cronologia diventa un mito
quando si ravvolge in date così lontane e
senza testimoni oculari. Volendo però se-
guire tale opinione, adottata pure da Andrea
Dacier, la presentazione di Orazio a Mece-
nate successe quattro o cinque anni dopo
la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran
protettore degrillustri letterati di quel tempo,
non lo ammise nella propria corte se non dopo
averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo
e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato
se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda-
rono, avessero imberciato nel segno propo-
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando
era a sua conoscenza che Orazio aveva so-
stenuto la carica di tribuno nelle legioni di
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano.
Riesce quindi logico noverare la satira quarta
del primo libro di Orazio come scritta poco
prima che fosse a Mecenate presentato, stante
che in essa si scusa con quelli che lamenta-
•^( 72 )»-
vansi delle sue punture, e gliele rimprove
vano come poco coerenti per uno che int(
deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]
egli vuol farsi credere semplice moralista
filosofo che castiga, ridendo, i costumi,
perciò egli si esprime presso a poco coi
Il leggere satire, il veder frizzata la catti
gente non riesce certo piacevol cosa a colo
che hanno la coscienza poco monda. Ma e
è puro ed integro ed onesto, non teme
scudisciate del poeta, siccome disprezza
calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai
dar divulgando le mie composizioni nel
piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel
accademie. Scrivo per semplice diletto, spini
da forza arcana e per pura intenzione di ù
del bene e purgare la società inondata d;
vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv
diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh
costarono sudori a generazioni di lavorator
Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci:
può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia
d'aver calunniato chi merita lode, d'aver
scemato il merito, anzi non aver abbastanz;
lodato i cittadini eminenti ed onesti?
Un uomo che parla così di se stesso me-
ritava venire annoverato tra quelli la cui ami
cizia è un guadagno, un pregio, un onore.
Vario e Virgilio lo presentarono a Me-
cenate.
IO
VI.
MECENATE
iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa.
cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu
k ÉufanUl pad or nada td kncluopv.
Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa
AIO Cilnio Mecenate nacque in
Arezzo l'anno di Roma 686, e
68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile,
-■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di-
ì scendente dai re dell'Etruria, che erano
quei guerrieri etruschi venuti a soc-
correre Romolo nella guerra contro i Sabini.
Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i
primi anni legato di amicìzia col giovane Ot-
taviano, e fecero insieme gli studii delle h
tere e delle scienze in Atene.
Egli pure, seguendo le orme degli avi,
intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt
rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli
la repubblica e difendere Roma dai nemi
interni ed esterni.
Non fu affetto dal morbo dell' ambizion
Allorché Augusto divenne padrone del v
stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei
i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg
rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl
di rappresentarlo quando si allontanava e
Roma.
Preferiva il sistema governativo a regim
monarchico assoluto, piuttosto che quell
retto a repubblica, e riuscì a far determinar
col suo savio consiglio Augusto a conservar
quel potere sovrano che per suoi fini particc
lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell
propria influenza, dei suoi disinteressati am
monimenti e del suo credito per rendere Au
gusto, imperatore e pontefice, proclive ali
clemenza ed a far più manifesto il fastigio
della monarchia. Amante del lusso, egli stes
( 71 >-
so spronava Augusto severo, economico e
restio al grandeggiare, al rendersi sovrano
per magnificenza e per sublimi intraprese edi-
lizie e monumentali.
Sposò Terenzia, donna di grandissima
bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò:
ritornò ad essa sommesso: che non hawi
grande uomo esente da mende , principal-
mente dipendenti da procacia donnesca. So-
stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne
ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^
la dipinge nel vero suo aspetto.
Era scrittore forbito, piacevole ed erudito.
Compose ( ma non sono giunte fino a noi )
una Storia naturale, la Vita di Augusto, e
diverse tragedie e poesie.
Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi
competere con Lucullo: largheggiava con ma-
gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro-
verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be-
neficato i sommi letterati del suo tempo.
Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul-
lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono
i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi-
tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son-
tuosi conviti od a sterili raccomandazioni
Bensì soleva rendersi splendido per largi
zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze
per tutta la vita del protetto. Pochi sovran
si sono succeduti sulla scena del mondo pro-
dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei
dare ed innalzare chi realmente possedeva
meriti personali così insigni da immortalare
il protettore, considerandolo nei frutti del lorc
ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro-
vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu-
sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della
splendida sua villa a Tivoli non sarebbero
bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran-
dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha
fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna.
Il vero monumento imperituro a Mecenate
glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino.
Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo
insigne protettore: « O Mecenate, o decoro
nostro e parte massima della nostra fama. »
Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me-
cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu-
do della sua persona; ma non attribuisce a
lui, bensì al proprio ingegno la propria im-
-«( 79 )^
mortalità. La superbia Oraziana (superbia
derivante dai meritati allori ) non comportava
servilità comuni al volgo.
Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir-
gli una sola favilla di quel genio che il gran
cittadino di Venosa stesso definì particella di
aura divina?
Tutti i tesori di Golconda non equivalgono
a quegli slanci di lirica sublime che non han-
no avuto eguale in nessun mortale quaggiù !
Come si accennò innanzi, Orazio venne
presentato a Mecenate mentre vivea occu-
pato neir ufficio di scriba questorio, e nel
comporre satire ed altre poesie, che aveano
già richiamato l'attenzione degli altri eruditi
del giorno. E ciò dovette succedere neir an-
no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor-
passato il ventisettesimo anno. Egli stesso
così descrive questa presentazione:
r ottimo Virgilio
Da pria^ poi Vario dissero chi fossi,
' Né me figliuol di genitor preclaro
Né me opulento possessor che scorra
Suoi vasti campi su destrier pugliese^
Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^
Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«)
( 8o )m^
E dice pure:
Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando
Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua
Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s)
Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà
tanta bonomia e tanta confusione vedendos
al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò
tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu
un amico sincero che cordialmente e senzc
vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc
nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava
l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams
di lui, mentre pel contrario molti altri lo di-
sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine
cercavano fargli il maggior danno possibile?
Aggiunger poi si deve che la magnificenza
che circondava Mecenate, il suo palagio, la
fila dei cortigiani che colle teste curve sino
a toccare le lastre marmoree del pavimento,
il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che,
per quanto impavido fosse, dovette risentirne
certamente imbarazzo e confusione.
Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti,
dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle
anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano.
^( 8i )]»-
ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit-
torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu-
sa nella cornice che cinge i re nelle reggie,
colla divisa brillante di generale italiano, con
quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano
come saette sin nelle intime latebre dell'ani-
mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e
sentimenti, non ti produsse alcuna emozio-
ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti
avesse di sua mano largita un' alta onorifi-
cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito
sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e
compiacimento? Se nulla hai provato, dir
debbo che l'animo tuo è insensibile come pie-
tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour,
Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci-
turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo,
quando la mano del gran re strinse la loro !
Discordanti ben vero appaiono le opinioni
circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da
Virgilio e da Vario presentato a Mecenate.
Molti sostengono (e si riscontra nelle me-
morie dei suoi moderni biografi) che siffatto
avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di
Roma, così che fanno succedere nel 737 il
II
•^( 82 )»-
viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi
e quindi pochi mesi dopo questa data la pub
blicazione della satira quinta del libro primo
che ne descrive facetamente il viaggio , l
evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat
terelli piccanti.
Ma nella Cronologia del Dacier, che devt
stimarsi la più esatta disposizione degli av
venimenti e degli anni nei quali Orazio com
pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con-
solati sotto i quali Orazio accenna scrivere,
viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716,
od in quel torno di tempo, cioè quando Ora-
zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò
più presumibile. Poiché nelle opinioni con-
trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por-
tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri-
guardo alla sua salute un po' malandata ed
alla circospezione a conservarsi, ed alla sua
vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e
rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non
appare verosimile. Sia però come si voglia,
certa cosa é che Mecenate riserbossi nove
mesi per poterlo ammettere nel novero dei
suoi amici stretti.
( 83 )
Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis-
simo, baldo, perchè adusato agli esercizii
aspri della milizia: sperto del mondo, perchè
provato dalle sventure e chiaroveggente: a-
mante del vivere allegro, buontempone, re-
sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni,
uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade-
scarle col vischio della poesia, dovea venir
ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti
e dei viveurs di quel tempo.
Era bel giovane, se non bellissimo, e ne
menava vanto; ed i malanni della precoce se-
nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la
cisposità degli occhi ed i reumatismi, non
aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso-
gnevole delle stufe calde di Cuma o delle
fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò
fé' propendere la bilancia a suo favore.
Mecenate, gran conoscitore degli uomini,
ed indagatore minuzioso, specialmente trat-
tandosi di quelli che doveano essergli sempre
vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con
sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com-
mensale ed ospite nelle sue splendide reggie.
Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni
-«( 84 )
detrattori del sommo poeta, che nel temp
in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve
nisse pubblicata in Roma una lettera sua i
prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co
quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n
implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms
calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv
più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat
tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup
plice nessun onore, provando in petto senti
menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé
tanto che in luogo di adulare sferzava i cor
tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl
dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de
fatti di sua vita e le proverbiali espression
di superbia che si notano nei suoi scritti, at
testano lalto grado della sua alterigia , fie-
rezza ed indipendenza. E non aveva poi h
carica autorevole e redditizia di scriba que-
storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante
poco, a lui nemico del lusso e delle albagie
boriose dei grandi, come potette addebitarsi
tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es-
sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia-
mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro.
-«( 85 )
È noto del resto che il gran Venosino nei
più antichi tempi non fu tenuto in quella no-
minanza altissima, come ora si tiene. *^)
Oh che gli uomini sogliono vedere sem-
pre il male nel prossimo, e fingono non ve-
derne il bene I
L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a
Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo
animo riconoscente e buono. Mecenate lo
colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a
gran fortuna ed insperata, e per aver ester-
nata la sua riconoscenza procacciossi la tac-
cia di pettegolo e vile adulatore.
Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La
malizia regna sovrana negli apprezzamenti,
come nelle altre cose. Che un letterato espri-
ma le proprie idee sulla divinità in maniera
da rendersi sublime, esponga le massime più
belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene
dair ammirare il cuore da cui partono siffatti
sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia
di stravagante. Se poi, al contrario, allo
scrittore sfugge il benché minimo biasime-
vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore
cattivo, da un animo perverso. »
-«( 86 )
Così giudicano gli uomini!
Le massime così morali ed istruttive d
Orazio, la sua circospezione, la sua religio
ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza
il suo animo generoso ed affettuoso insieme
la sua amicizia, che si svelava sempre sin
cera e disinteressata, non furono bastevoli e
liberarlo dal dente della calunnia e dai vita
perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori
Quando altro i suoi nemici non potetterc
fare, stabilirono la lega del silenzio, creden-
do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti
ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc
qualcuno dei sommi furono quelli che ricor-
darono Orazio.
Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg-
giante di propria luce!
Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe-
dirono certo, perché pregavano Orazio stesso
a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche
e petizioni a Mecenate per aversi quello
che Orazio ottenne per suoi meriti straor-
dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne
aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi-
pendenti e sommi non mercanteggiavano
( 87 )
sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò
sempre una virile dignità, né fu mai pa-
rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo
amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte
che li colpì, per istrana fatalità, insieme !
Svetonio riporta l'epigramma faceto ed
amichevole che Mecenate ad Orazio diresse,
che molto spiega e rischiara :
Ni te visceribiis meis, Morati^
Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm
ninno me videas strigosiorem,
(( Se io, o Orazio, non continuerò ad
amarti più di me stesso, possa tu vedermi
ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^)
Al cardinale Ippolito d'Este, che non era
certo al livello di Mecenate, né per inge-
gno, né per ricchezza e potenza, e che ri-
volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili-
ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo-
vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva :
Fa che la povertà meno m*incresca^
E fa che la ricchezza sì non m*ami
Che di mia libertà per suo amor esca.
Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii
Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9)
-«( 88 )»-
Si noti differenza di sentimenti !
Orazio così risponde al celebre giurecon
sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi
gliava a celebrare coi carmi suoi immorta]
le gesta di Ottaviano :
Trebazio di Cesare tinvitto
Osa le gesta celebrar^ sicuro
Che ne otterrai ricca al lavor mercede,
Orazio cedono ineguali
A tanto desio le forze inferme.
. . . . fuor che in propizio istante . .
Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30)
Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed
c( si tibi natura deest, corpuscolum non
« deest. ))
Dai quali brani si rileva che Augusto non
solo stimava Orazio al massimo grado, tanto
da temere che essendo le sue opere immor-
tali, non curasse d'immortalarlo in esse,
quanto eragli amico intrinseco e con lui so-
leva scherzare come con un suo pari. Ed
Augusto non addivenne l'erede testamentario
del poeta? Sono fatti che riescono incom-
prensibili a quelli che non vogliono riflet-
tere quanto grande sia la potenza del genio,
dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate
venosino è un fenomeno che merita uno stu-
dio speciale, e non altrimenti possono spie-
garsi quelle poesie nelle quali la superbia
e lo sprezzo del volgo profano fanno ma-
nifesta quella grandezza sua, che chiarissima
a lui stesso appariva.
( no )
Di bronzo più durevole
Ho un monumento alzato.,.^
Non Jta che basti a chiudere
Me breve tomba intero
Dair imo suolo alt etere
Diran eh* io seppi alzarmi
Primier su cetra italica
Cigno d* Eolii carmi,,,..
Superba or va^ Melpomene
Dei meritati allori
Tutto il terrestre spazio
È angusto a me confine,...
Non io
Da r urna e da la stigia
Onda sarò ristretto^
Già del figliuol di Dedalo
Io spiego ala piti ardita....
Laude fra tardi posteri
Farà ch'io, guai per fresca
Aura, arbuscel piti vegeto
Ognor m^ innovi e cresca..,.
La pompa è a me soverchia
Che r altrui tombe onora,.,. 34)
Colui che si esprimeva in questi termin
sentir doveva di essere di gran lunga supe
riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso
incomprensibile che abbia potuto divenire i
favorito del potentissimo Augusto, siccom(
lo era del generoso Mecenate.
E che la superbia di Orazio fosse stafc
-^ III )»-
sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo-
ta supremazia sui suoi simili, patentemente
vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle
sue massime radicate di sobrietà e morigera-
tezza, dal suo contentarsi del poco e godere
della parsimonia. Mecenate ed Augusto po-
teaii certo offerirgli più che un podere in Sa-
bina, potean delegarlo proconsole in terre lon-
tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu-
cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un
ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio,
un attendersi un reciso rifiuto, perchè non
eran questi i voti del venosino.
È notorio che Orazio non usò altri di-
stintivi di onorificenze se non lanello e gli
ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol-
tanto per accompagnare Mecenate nei pub-
blici ritrovi, perchè non amava certo che si
fosse detto che l'amico del potente signore
fosse un figliuol di liberto, bensì un cava-
liere che comandato aveva una legione ro-
mana!
Un poderetto in luogo ameno, salubre,
tranquillo e lontano dai rumori della gran
città, un tetto sicuro, la certezza di vivere
( 1J2 )
agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici
protettori, ai quali dimostrava ad ogni p
sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne
solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii
graziava le divinità!
Ah che daddovero era una grand' anim
quella di Orazio venosino ! O divino Verd
o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi
venti di uomini immortali aborrenti dalla st
perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e
all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs
cile notare nel passato, fatte le dovute ecce
zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual
riuscì appena in certa guisa a far risonar
pel mondo la tromba della fama, che non pii
si appagarono di piccoli poderi o rustich-
casette, ma bramarono s'innalzassero monu
menti a loro stessi viventi. Vollero onor
sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra
stuono di accademie e di teatri, e scialo à
superare i re della terra !
IX.
LA VILLA SABINA
SvsTomo — Vitt ili Orma
L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa,
Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^...
Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL
Gaioallo — Tra4. ili Orati
I ell' esposizione della Promotrice
del 1878 in Napoli si ammirava un
cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia,
dell'illustre pittore Camillo Miola, mio
amico, autore della Sibilla, del San-
sone al torchio, delle Danaidi, del
Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar-
danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita-
liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som-
( "4 )
mo, dichiarandolo uno dei migliori artii
moderni d' Italia.
Ed invero chi esamina quel quadro st
pendo yien compreso d' ammirazione p
l'arte e per la precisione storica che vi
nota. Non palagio cinto da portici, o i
parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca
celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui
modesta costruzione nascosta da un altissin
albero, sul quale si arrampica un cespo g
gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno
me roseto; con semplicità di colore, con pi
cola corte, con finestrette modeste, da un
delle quali pende una gabbiolina con un
capinera, e da cui compare il busto di On
zio che maschera una vaga donzella, dell
quale si distinguono solo le belle fattezz-
rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che
saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si
versan dalle anfore colme vini prelibati rac-
colti nel podere. Una capretta randagia presso
il rustico cancello di legno, apparisce spetta-
trice innocua di quelle piacevolezze campestri.
Basta veder quel quadro per formarsi una
idea della proprietà che Orazio si ebbe in
dono da Mecenate, unico dono che la sua
modestia aggradì, e che confaceva al suo
ideale.
Orazio cosi enunzia la topografìa del suo
podere rustico:
Tutto di monti una catena il forma^
Se non che t interrompe opaca valle
Ma così^ che sorgendo^ il destro lato
Ne copre il sole^ e con fuggente carro
Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima
Ne loderesti »7)
Nella terza satira del secondo libro per
la prima volta parla di tal dono che gli venne
fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando
cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina
il Dacier, nella sua Cronologia delle opere
oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit-
( ii6 )»^
ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece-
nate per tal dono che gli giungeva nel suo
trentesimosecondo anno di età.
La voracità del tempo che ogni traccia
di opera distrugge ed oscura, fece del tutto
scomparire le vestigia della villa di Orazio
in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi
ammiratori, e la religione che accompagnò
i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru-
deri di tal fabbricato e podere, guidati dal
lume nello stesso Orazio nelle descrizioni
che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul-
timi anni stabilire il luogo preciso, la con-
formazione e r area dove quella villa sor-
geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve-
tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu)
e nella quiete.
Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus-
siano, nelle sue Racemationes venusinae ,
stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no-
te sulle epistole oraziane; e principalmente
r opera che X illustre letterato abbate Cap-
martin de Chaupy pubblicò in Roma nel
1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta
della casa di Orazio, possono offrire pre-
-«( 117 )
zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in-
vestigazioni profonde e minuziose fatte per
dar luce chiara a tale obbietto.
Orazio disse che al suo piccolo fondo ba-
stavano cinque lavoratori per menarlo a col-
tura, i quali andavano a smerciarne le der-
rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene,
ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia-
centi a quelli che lui stesso abitava, e dove
ciascuno soleva vivere con la propria fami-
glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul
far della sera, sprigionavansi cinque nuvo-
lette azzurrognole che ne indicavano il ru-
stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno
tranquillo.
Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii
di terre nelle province meridionali di vivere
nel proprio fondo circondati dai rispettivi
coloni, e r occhio vigile del padrone non
nuoce alla prosperità di esso.
Si comincia pure oggi a comprendere dai
ricchi possessori di latifondi che la pigra vita
delle popolose città non ridonda a vantag-
gio della loro fortuna. Si creino pure ca-
stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora
-«( ii8 )
presso la sorgente, donde si ricavano quel
ricchezze che rendono disuguali gli uomii
fra loro. Si renderebbe così possibile e pei
donabile tale disuguaglianza!....
Il principale castaido di Orazio dovev
nominarsi Davo, marito forse a quella Fi
dile alla quale dirige consigli savissimi
salutari con una sua epistola. Davo esser do
veva un cattivo castaido, come lo son per h
più quei villici che abituati da tempo a fa
da padroni nel fondo, mal vedono un nuo
vo signore venire ad imporre ad essi leggi (
dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta
acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe-
ste saturnali, solendosi concedere ai subal-
terni piena facoltà di esternare i proprii sen-
timenti senza poter venire redaguiti dal pa-
drone, ancorché gliele cantassero amare,
(e tal costume si è conservato sin negli ul-
timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel
suo sudicio e laido poema, che intitolò //
yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà
possa degenerare in licenza) svela il suo
animo protervo, indocile e poco amante delle
rusticane usanze e prosperità derivanti dalle
( 119 )^
buone e fertili annate, e dall' amor del suolo
opimo; che anzi si svela amante dei piaceri
della città per quanto spregiatore delle gioje
campestri, e sotto la veste del campagnuolo
si nasconde un guattero tralignato, ed un
operajo invido ed infingardo.
Davo prima di entrare nel podere aveva
servito dei signori romani nell* ufficio di
mediastmus. Si figuri il bel tomol
Il fondo si componeva di una selvetta ce-
dua (dove al poeta successe quel fiero in-
contro col lupo, ed un dio propizio lo fé'
restare incolume) ricca di elei ed altri alberi
ghiandiferi che servivano ad alimentare le
piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre-
scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed
un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab-
bondavano, con diverse altre specie di frutta
delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben
potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite
poi formava la parte più ricca del fondo, e
dalla quale Orazio solea distillare quel cele-
brato vinello che non disdegnava far gusta-
re al palato di Mecenate.
Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo
( I20 )»-
di acqua freschissima, che ricascando in gt
terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi
je, formava poi una fonte limpida e crisfc
lina da potersi paragonare al celebre fon
Bandusia, che versava le sue pure linfe pres;
la patria del poeta, e che ancora oggidì qu
di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah
di Venosa, presso il bosco di Banzi. La
fontana
D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9>
è appunto \ attuale fontana degli Oratir
presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press
Venosa nella strada che mena a Palazzo £
Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai
da Orazio in una gita a Venosa per cacci,
o diporto.
Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio
corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav-
viverà I In che cosa si discosta dalle credenze
del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla
divinità che dall' alto dispone, assiste e pro-
tegge ?
O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin-
cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale
che tutto vede e dispone, e che premia o
punisce. Non è la sommissione buddistica,
bensì la virile sommissione ad una forza on-
nipotente. Orazio diceva:
Che Giove fra celesti
Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^
E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben-
ché ammantato di scetticismo volteriano, gri-
dava: // est, il est, il est! ■**)
A tali credenze religiose mescolandosi la
-c(a più dolce salsa alle vivande
Procaccia col sudor. 5^)
Soleva in compagnia dei suoi familiari ed
alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere
a queste semplici vivande un buon bicchiere
di vino schietto e leggiero, che essi mede-
simi avevano manipolato dopo la gioconda
vendemmia.
La sua mensa era linda, lucente, bianca,
sulla quale campeggiava un vasello emble-
matico ripieno di sale: e V aveva per caro
auspicio e quale usanza religiosa.
Il sale ha avuto grande importanza in tutti
i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe-
liti serviva per purificare e consacrar la vit-
tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è
19
( H6)
mista al sale. Questa sua grande mondezza,
non lo dissuadeva dall' invitare a convito
amichevole, oltre ai suoi amici di condizione
eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio,
LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle
di vita allegra ed avvenenti, come Fillide,
Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me-
cenate, al quale scriveva:
n nauseoso lusso
ammirar cessa.
Grato ben giunger suole
Sovente ai grandi il variar di scena.
Cerca mensa frugai^ là dove ammessa
Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora
In pover tetto fa sparir le impronte
Che affanno incide in accigliata fronte.
Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio
Povertà senza fasto e senza sfregio. 53)
Ed in tali circostanze straordinarie mo-
strar si soleva galante a modo suo. Inco-
minciava col prevenir gli amici che se con-
servavano vino miglior del suo, Io portas-
sero pure alla sua mensa che non se ne
sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un
bicchierino di soverchio alla salute del do-
natore.
( H7 )
Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse
l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero
al suo desco gli astemii, sostenendo che pu-
tirono di vino sin dall' alba le dolci muse.
Prometteva ai commensali che li avrebbe
collocati nel triclinio ciascuno presso a per-
sona che non gli riuscisse antipatica o me-
ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava
riservare il posto ai più gai, ai più giovani
e baldi, presso quelle generose donzelle ro-
mane di bellezza e brio regine. La gentilez-
za, poi, formava il principale suo pensiere.
Così scriveva a Torquato:
Già il focolare da un pezzo e le stoviglie
Splendon rigovernate a farti onore
A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,.
Che sozza coltre
Che sordido mantil non giunga il nc^so
Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto
Tal non sia che specchiarviti non possa 54)
Né gli piacevano numerosi convitati, ma
pochi, cari e buoni:
Che caprino sentore ammorba i troppo
Folti conviti. 55)
-«(148 )
Riesce in vero gradito e dilettoso figi
rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi
vito, con quel suo faccione pieno e rose^
ilare, faceto, coronato di rose, levigato
terso colla cute, da sembrare un majaletl
lustro e pinzo.
Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi
zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover
glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit
curare gì' innesti delle piante e degli albei
da frutta; della qual cosa solcano ridere
vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi
frequentasse la corte, e che di Augusto e e
Mecenate e di altri potenti fosse familiare
non poteano persuadersi di questo suo amor
per così rustiche e basse faccende campe
stri. Non riflettevano essi che nella ment
del venosino eravi fisso, incardinato il « m
admirari y> secondo l'opinione di Laerzic
e di Democrito. Orazio era dotato di « aia
raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor
lo lusingavano punto, anzi ne era al somme
disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle
sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie
consiglio:
( H9 )
Alma al ben fare accorta
Tu serbi •
inflessibile
A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57)
E dopo le escursioni nel podere ponea
mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg-
gendo, meditando.
Solca poi di tratto in tratto recarsi nella
gran città, in Roma, sia pel disimpegno della
sua carica di scriba della questura, sia per
altre faccende, sia per coltivare le amicizie
di Augusto, di Mecenate e di altri che egli
stimava, principalmente versati nelle lettere
e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè
la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei
finti amici invidi e malvagi, degli zingani,
dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor-
dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette-
rati non lo avevano risparmiato.
villa, e quando io rivedrotti^ e quando
Potrò dei prischi saggi or fra i volumi
Or tra il sonno e le pigre ore oziose
Trarre de V egra vita un dolce oblio ì
Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte
E i buoni erbaggi come va conditi
Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I
-«( I50 )»-
notti I cene degli dei^ dov* io
Presso il mio focolar coi miei m' assido^
E mangio^ ed alla vispa famiglinola
Dei servii nati dai miei servii io stesso
I già libati pria cibi dispenso! S^)
Della sjpa persona soleva avere som
cura, perchè quasi giornalmente immerge
nel bagno, e dopo ungere si solea di o
profumato e finissimo. Nel vestire most
vasi dimesso e noncurante, ma non pe
privo di gran pulitezza o da potersi dir come vuole san-
to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del
Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi-
nario ed inesplicabile quanto in appresso
verrò esponendo circa le consuetudini do-
mestiche di Orazio.
Nelle molteplici edizioni delle opere del
sommo poeta, le quali riportano la sua bio-
grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho
rilevato che si è tralasciata una notizia in-
teressante che riguarda una sua pratica oc-
culta, la quale può ben riferirsi al culto sur-
riferito di misticismo caldaico.
La vita di Orazio composta da Svetonio
Tranquillo, che fu V unico che scrisse del
gran venosino pochi anni dopo la morte di
( IS7 )
lui, e che fa accrescere certezza alle investiga-
zioni fatte neir analizzarne le opere, si com-
pone non più di una sessantina di versi di
stampa. Tutto è laconico e scritto fugace-
mente, come se si trattasse d* un cenno ne-
crologico. Sembra che Svetonio abbia vo-
luto far notare con certa diffusione Solo l'a-
micizia intima che legava Orazio ad Augusto,
ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani
di lettere. La quale riproduzione di brani di
lettere di Augusto ad Orazio dirette forma-
vano forse il soggetto che per la maggior
parte dei contemporanei destar doveva in-
teresse maggiore, e far di Orazio un uomo
agli altri superiore per tanto onore. Il brano
della biografia che è stato cancellato ( forse
per purgarla), V ho rilevato da un' edizione
olandese delle opere di Orazio del 1663, pub-
blicata dal filologo inglese Giovanni Bond,
che la prima volta comparve in Londra nel
1614, e dopo se ne riprodussero diverse al-
tre edizioni intere, ed è il seguente :
(( Ad res venereas (Horatius) intemperan-
tior traditur nani speculato cubiculo scorta
dicitur , habuisse disposila , ut quocunque
-«( 158 ))•-
respextsset, tòt et imago e re f erre-
tur....... ))
Formava adunque per Fiacco un culto
(( / ars Venerea » , ed egli addimostrava-
sene tanto fervente, perchè nato nel luogo
ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella
cennata antica cronaca venosina del Cenna ,
il quale era pure investito della prima di-
gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di
Venosa, si leggono i seguenti versi che rin-
forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe-
tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi,
vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato
in sua vita di costumi osceni, il che tutto
è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico
Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi
Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese
del 1700, nel suo poema. « L Emulation »
va all'eccesso contrario, proclamando Orazio
(( modéle de bravoure et de chasteté. »
Ciò che forma adunque l'addentellato al
dispregio di molte produzioni oraziane, viene
per tal riguardo distrutto ; considerando che
la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei
tempi una qualifica essenziale dell' immora-
( 159 )
lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta-
mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi-
sce gli adulteri, i violatori delle vergini,
gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo-
rali ed i disonesti. E se non è questo il cor-
reggere i costumi, qual altro fondamento di
morale, mancando la cristiana, poteva offrir-
gliene sostegno ?
Egli rampogna acremente i Romani d' ir-
religione e lascivia. Egli volle vivere sempre
celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto
d' alta responsabilità che non volle allacciar-
sene, né restarne tenacemente avvinto. La
moglie di Mecenate gli forniva un esempio
troppo splendido d* incostanza, infedeltà e
disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia
abbandonando lo sposo. E non parea conve-
niente al sagace venosino far la triste figura
di Mecenate, intendendo professare V opi-
nione di Seneca a tal riguardo, quando com-
pose la biografia del marito dell' infedelis-
sima Terenzia. (^^)
Il suo celibato vien confermato dal non
aver scritto mai carme o verso per donna
che fosse stata sua moglie.
( i6o )
E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del
libro 3^:
Te Mecenate il rimirar sorprende
Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^
Io cèlibe^ di ?narzo a le calende
E fior prepari.
E solo ad un celibe sarebbe convenuto far
pompa di tante conoscenze di cortigiane e
donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine,
Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera,
Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-
no, essendo state amanti riamate di Orazio,
che se egli non aveva moglie, godeva non
poco del benefizio inapprezzabile di essere li-
bero e celibe.
ìÀjiS^Ì
se. "*-Sj
XII.
GLI ULTIMI ANNI DEL POETA
GuOALio — Tml. di Orm
, N moltissimi punti delle opere di
Orazio appare che nella sua mente
elevata si presentava l'immagine della
morte, questo indecifrabile, nebuloso,
oscurissimo problema, questo fatto in-
cognito, pauroso e spaventevole. E dir
ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so-
steneva che :
Con impavido ciglio
Se delteteree spere in pezzi infrante
( l62 )
Valta compage piombi
Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s)
Non poteva con tutto ciò esimersi da quella
paura istintiva, da quel senso di terrore in-
generato dal dover mancare alla vita, dal do-
ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto.
...... Nato a morir ^
Tutti attende alfin quella profonda
Che non conosce aurora unica notte . .
Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . .
Presto rapì t inclito Achille morte
E a me ciò farse offrir vorrà la sorte
Necessità di morte
Getta sovra ciascun
Legge crudeli Ma pazienza mitiga
Ciò che non ha riparo
Tutti spigne tal forza ad ugual meta
Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66)
Tutta la sua filosofia: le massime di De-
mocrito e di Epicuro, che facean precetto
essenziale di dispregiare e non curare gli
orrori del sepolcro, non bastarono a toglier
questo pensiero ftinestissimo dalla mente di
lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com-
mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu-
ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli
rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano
( i63 )
il dolore, promettendogli una patria lassù,
sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni
godimento ed allietata dalla vista di quel Dio
rimuneratore e buono ed onnipotente.
Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so-
levansi ammettere quei miti inverosimili ed
incredibili, che acchetavano la bramosia di
quei popoli privi di una fede consolatrice,
che prometteva la beatitudine ventura come
compenso alla vita onesta e laboriosa.
Dato che il piacere terreno formar do-
vesse la meta della felicità, che poteva spe-
rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru-
zione completa, la particella della materia
andava a ricongiungersi alla materia:
Noi cadendo
Nella notte che non sgombra
Più non siatn che polve ed ombra .
Degli anni il breve termine
Vieta ordir lunga speme:
V ombre favoleggiate e la perpetua
Notte già già ti preme, 67)
Nella distruzione completa del suo essere
Orazio ammetteva che soltanto una parte di
se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il
(J60
frutto dei suoi sudori, il suo monumento:
r anima sua.
E tale credenza, che non era dubbio, gli
scusava la fede nel!' immortalità dello spi-
rito umano.
L* (( omnis moriar », espressione tanto
concisa per quanto chiara, spiega che non
eravi dubbio in lui neir immortalità del-
lanima. La paura della morte comune a tutti,
sebbene con tanta jattanza, dalla maggior
parte apparentemente sfidata, più che Ora-
zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E
siccome la paura è attaccaticcia e conta-
giosa, Orazio non addimostravasi meno al-
larmato di lui. E tal pensiero dominante
trapela nelle sue opere, come quell'altro,
che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né
bastavagli a frenargli la lingua, la sua for-
tezza e valentia. La paura della morte era
così possente in Mecenate da fargli dettar
quei versi riportati da Seneca, che non
fanno grande onore al valoroso romano:
Vita dum superest, bene est
Hunc mihi vel acuta
Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^
-«( i65 )»-
Tanto grave e scoraggiante riusciva per
lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve-
nire inchiodato in croce come l'ultimo dei
malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca-
ronte nella palude Acherontea.
Orazio venivalo consolando con teneris-
sime espressioni, perchè Orazio non era co-
dardo, né intendea scoraggiarlo maggior-
mente. Ma le sue espressioni non appro-
davano gran che. Tentò alfine porre in ope-
ra il savio consiglio, che la pena gli sa-
rebbe venuta scemata sapendolo compagno
nel dolore, ed è perciò che gli dice senza
essere scevro di paura :
, Non piace ai numi
Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi
Un dì medesimo fia d* ambi estremo
Ne il voto è perfido, inseparabili
Andremo^ andremo. Che pria se muori
Pur teco air ultimo comun mi trovi
I nostri unanimi fuor S ogni esempio
Astri consentono 69)
E tale profetica consolazione, per istrana
fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito
veder tutto con tinte soprannaturali. Buona
parte di quello che molti direbbero spirito
-«( i66 )»►-
profetico attribuir si deve alla paura della
morte che premeva così Mecenate come O-
razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non
è vigliaccheria, bensì è innata nella natura
umana. Anzi prode è colui che questa paura
affronta, e guarda imperterrito quella figura
armata di falce, sfidandola sui campi delle
battaglie, al letto degli appestati.
Se non vi fosse terrore e spavento istin-
tivo del morire, quale prodezza, qual valentia
sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le
pesti, il mare irato ed il baleno delle armi
nelle tenzoni cavalleresche ?
L' amistà che legava Mecenate ad Orazio,
il sentirsi quel grande consolato da lui così
coraggiosamente lo fecero memore del poeta
che l'assisteva nelFora estrema a preferenza
degli altri. Nel suo testamento scriveva ad
Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura
di Orazio Fiacco come prendereste cura e
terreste memoria di me stesso I »
E riesce veramente straordinario come,
morto appena Mecenate, che era già soffe-
rente e presentiva la propria fine , dopo
pochi giorni, un subitaneo malore colpì il
( i67 )»-
sommo poeta, da non lasciargli neppure il
tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo-
lontà. Andonne misteriosamente a raggiun-
gere r amico neir ima notte, siccome aveva
promesso.
Orazio morì neir anno di Roma 746, es-
sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio
Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette,
due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27
novembre.
Già da qualche tempo varcati i dieci lu-
stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof-
ferenza ai nervi e malinconia che accom-
pagnar sogliono per lo più quelli che tra-
scorrono molte ore del giorno a logorarsi
la mente coi severi studii. Perchè i visceri si
rendono sofferenti per le occupazioni men-
tali, e defatigata la mente, la tetraggine
invade il cervello , principalmente quando
gli anni incalzano.
In una lettera che il poeta scriveva ad
un compagno d'impiego nella questura, Cel-
so Albinovano, suo amico, ma che giunto al-
l' apogeo della grandezza, perchè ben ve-
duto e careggiato dal giovane Nerone, erede
( i68
dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo
(sebbene non manchi la nota sarcastica, ben-
ché infermo , per questo favorito di ven-
tura) così diceva :
Dritto né ameno è di mia vita il corso^
Perché men della mente sano
Che delt intero corpo^ udir vo' nulla,
Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi
Medici fanno orror, gli amici restia
Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o)
Ed a Mecenate . scriveva :
Ma di cor debil troppo e troppo infermo
Me conoscendo^ chiederai tu quale
Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70
Col corpo affranto dal peso degli anni,
dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e
nelle avventure e nei godimenti venerei,
sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor-
tale malattia del suo Mecenate e la fine dì
questo. Il colpo fu troppo violento e dovea
riuscirgli fatale. La sua fibra debole non
poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con
lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la-
coniche note di Svetonio, circa la vita di
Orazio, dice che lo stato suo di salute era
( i69 )
deteriorato assai con gli anni, che non gli
conveniva più restar l'inverno nelle monta-
gne della Sabina, nella sua cara villa : che
svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo
scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi
enimi fere otium suwn conferebat , ibique
carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava
Orazio infermo e pensava morirvi là. Così
egli scriveva al fido amico Settimio:
Oh tregua al vecchio fianco
Tivoli dia
Quivi piagnente di pietosa stilla
Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^)
Certuni erroneamente attribuirono la mor-
te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana
la coincidenza della sua con la morte di Me-
cenate. Ma deve venire del tutto bandita
tale idea per le seguenti ragioni. Orazio
dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so-
leva dileggiarli; e la storia di Empedocle,
che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente
lo dimostra. Empedocle per desio di molta
vanagloria e prodezza, invano precipitossi
neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la
inutile bravura.
22
( I70 )
Esaminando imparzialmente e con co-
scienza la vita di Orazio, si nota che ogni
sua cura si volgeva a conservarla, sia che
militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa-
bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi
facilmente proclive all' apoplessia. Che era
già fiacco e malandato in salute nel suo
undecimo lustro. Che il dolore della per-
dita del suo più caro amico e protettore
Mecenate (egli così amante degli amici e
riconoscente) doveva avergli prodotto tale
un rincrudimento dei suoi malanni da dar-
gli la morte con colpo apopletico. E son
numerosi gli esempii di fratelli od amici
ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re-
pentina disparizione d* un fratello o d' un
amico, li han seguiti immantinenti nella
tomba sopraffatti da colpo di malore vio-
lento.
Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E
che fu tale il suo genere di morte lo prova
poi chiaramente il non avere avuto il tempo
di tesser un elogio funebre al suo sommo
protettore Mecenate, che aveva assistito negli
ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e
-«( 171 )»-*
con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere
il proprio testamento.
Svetònio dice: (c Quum urgente si va-
letudinis non sufficeret ad obbligandas testa-
menti tabulas . )) 73)
Dovette avvalersi di quello che, dice Giu-
stiniano, prescrivevasi dal giure civile di
quel tempo, cioè della prova testimoniale di
sette cittadini, che dinanzi notaro provarono
esser volontà del moribondo Orazio che l'im-
peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio
per decidersi a lasciare erede \ imperatore ,
che consentì ad accettare \ eredità, doveva
esser fornito di non pochi beni di fortuna.
Che di fondi, che di valsente doveva aversi
senza manco veruno un buon dato, stante
la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio
quando accennando alle largizioni di Me-
cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al-
tera liberalitate locupletavit. »
Ma delle sue sostanze rimaste non ap-
pare vestigio od accenno, meno della villa
e del podere in Sabina, che han formato,
come si disse, la paziente investigazione
dei dotti archeologi e degli ammiratori
( 172 )
del grande poeta. L' aver lui posseduto po-
deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non
è che una supposizione dei comentatori
delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi-
razione han formato un dominio. Mentre
chiaramente Orazio, nella sua diciottesima
ode del secondo libro dice: (c Satis beatus
unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara-
zione formò la base delle rimunerate inve-
stigazioni archeologiche del Capmartin de
Chaupy, siccome si accennò parlandosi della
villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune
r idea falsa che Orazio si avesse colà un po-
dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ».
Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,
principalmente dal Tommaso Nicolò d' A-
quino, autore dell'opera Delle delizie Taran-
tine, da Giambattista Gagliardo nella sua
Descrizione topografica di Taranto, e da Ate-
nisio Carducci, illustre letterato tarantino,
nella sua versione dell' opera del D'Aquino,
con note, non si è potuto affermare che Orazio
avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe
vi avesse fatto delle brevi escursioni per
isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi
( 173 )
vestigio di casa o podere a lui od ai suoi
appartenuta, dovendosi credere erronea V as-
sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua
cronaca manoscritta, più volte mentovata,
della città di Venosa del 1500, nella quale si
dice aver posseduto Orazio una casa presso
le antiche mura della città, a levante, forse
alludendo a quella che si accennò nei capi-
toli precedenti, appartenente ad uno della
tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri-
zione. E da tale ipotesi lascia derivare che
dalle finestre di quella sua abitazione in Ve-
nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra
vastissime campagne, e da quella veduta
venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda-
turque domus longas quae prospicit agros. »
Perché non riferire invece con maggiore pro-
babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra
chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto
ciò che si è riferito nei capitoli precedenti
circa la dimora di Orazio in Venosa, ove
si trattenne solo adolescente : circa la con-
fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè
seguace di Bruto, e particolarmente per non
averne fatto il menomo indizio in tutte le
-«( 174 ))^
sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era
cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten-
sione dei campi asserita dal Cenna è un
sogno.
Che Orazio abbia fatto in Venosa qual-
che rara apparizione , forse per diletto ed
in compagnia d'amici, lo lascia desumere
soltanto r ode al fonte di Bandusia, che
rumoreggiava con polla cristallina ed ar-
gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es-
sendosi recato Orazio a cacceggiare od a
merendare, dovette improvvisare quei versi.
Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu-
stratori delle sue opere.
Orazio, come si disse, nacque a dì 8
dicembre del 689 dall' edificazione di Roma,
essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu-
cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no-
vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario
Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età
di anni cinquantasette. Acrone scambia però,
per errore dei copiatori delle sue opere , il
numero LXXVII per LVII, assegnando ad
Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri-
nito asserisce: « Alti supra septuagesimum
( 175 )
annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai-
sum existimo. »
Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome
Svetonio, ritengono con precisione gli anni
della vita di Orazio essere stati cinquanta-
sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV
anno di Augusto, il secondo asserendolo
morto nelle date surriferite, e riportando i
consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ;
dai quali limiti precisi estremi non è lecito
discostarsi.
Il suo cadavere venne trasportato , tra
il compianto universale, in Roma, (non è
indicato da alcuno antico scritto il luogo
preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle
sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve-
tonio, che Mecenate possedeva un superbo
palazzo suir Esquilino, e presso ad esso
una tomba monumentale. In questa ripo-
sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed
Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera-
mente uniti di pensieri e di amore ; benché
l'uno nato di reale famiglia e di sangue
purissimo, e X altro figliuol di liberto.
-«( 176 )
Una possanza inesplicabile ed onnipotente
li fece incontrare, divenire tra loro stretta-
mente simpatici, e quindi insieme dormire
nello stesso Ietto V ultimo sonno I
Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno
le gesta e la gloria pel suono reboante della
tromba della fama procacciatasi col proteg-
gere generosamente quella schiera immor-
tale di uomini che vissero nel secolo di Au-
gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo
nionumento. È tutta sua la gloria che fa
semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire
l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di
vita sarawi sul globo.
Del sommo poeta non si conservano sta-
tue antiche o figure nei monumenti da po-
terne precisare la struttura corporale ed i
lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare
tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare
le parole che si riferiscono al suo fisico, per
vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de-
scrive con certa vanagloria la lussuria dei
suoi capelli d' un bel color d' ebano , che
ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma
che gli anni e le cure aveano resi argentei.
-«-
Questi hanno improntata una certa tinta di
pazzia benigna, che in luogo di ammira-
zione suol destare compatimento, antipatia e
ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro
osseo che le ricopre, il corpo umano, non
han bisogno di quella veste esterna non
naturale, oppur naturale, sian cenci o por-
pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema,
capelli o calvizie per foggiare un genio od
un cretino I Si può essere profondo filo-
sofo, saggio come gli antichi della Grecia,
e conservar forme aristocratiche, linde, ma-
nierose, affabili, con un corpo formato al
pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu-
culento, e Foscolo e Byron e Leopardi
negli ultimi scorsi anni così difformi tra
loro.
Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre
antiquario austriaco, nella sua opera « Doc-
trina Nummorum » e lo conferma Masson
nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti-
tolato « De Horatii effigie », essersi rin-
venuti dei medaglioni di metallo, terminati
nella loro circonferenza con un cerchio da
tre a quattro millimetri di larghezza, e che
( i8o )
possono ben rassomigliarsi alle nostre me-
daglie commemorative o di onore, nei
quali si vede inciso in un lato un busto ,
ed intorno ad esso la scritta chiarissima
(( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta
n' è illegibile e consumata. Il busto anzi-
detto è modellato esattamente a tenore di
quanto più sopra si è esposto. Uno di essi
si conserva nel museo del Louvre. E certo
appaiono riproduzione di busti o medaglie
d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel
quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno
è r opinione del dottissimo barone Walke-
naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse,
«
o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran
venosino. Deve però convenirsi che un uo-
mo che ha da poco varcati i cinquant' anni,
raro è che si renda deforme e barbogio.
Anzi la razza umana generalmente suole
giungere a questa età ancora atta a buona
vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi.
Se r aureola che circonfuse Orazio non
fu il (( nomen imitile » e neppure X opi-
nione che i suoi contemporanei ebbero di
lui ( opinione poco proporzionata ai suoi
-«( i8i )>9^
meriti, secondo che dottamente asserisce
Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe
tra i dotti il primo posto, perchè Dante
stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio
Satiro), maggiormente risulta la sua vera
gloria dal sempre fecondo entusiasmo che
per r eternità gli uomini risentiranno per
lui
Trascorsi appena nove anni dalla morte
di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri-
sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por-
tentosa !
t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-!
^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^
XIII.
L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO
Ouao - za. I/I. - Ode XXX.
HE dire di Orazio poeta, creatore
nella letteratura latina di due ge-
neri di poesie del tutto nuove, e che
seppe far giungere ed elevare persino
I la lettera all' eccelsitudine dì un ge-
nere poetico?
Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è
quasi il solo che merita di esser letto, poiché
s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è
pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà
-«( i84 )»-*
delle figure, delle espressioni, d' una felicis-
sima audacia. » E Petronio ^7) continua as-
serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora-
zio sono accuratemente felici, come Omero
ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi-
dero la strada che conduce al lirico stile, o
non ebbero il coraggio di batterla. » E que-
st* opinione distrugge la miserabile assertiva
di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che
chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi,
appena poeta non isprezzabile [memorabilts
poeta). Tanto potevano in questo possessore
degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, .
che tra certi letterati sono solite malattie I
Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti-
bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare,
S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio ,
Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo ,
Dante, Voltaire e cento altri, a coro una-
nime, gridarono le lodi del gran venosino.
Moltissimi eruditi si sono occupati di stu-
diare precisamente le opere di Orazio. I più
celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent-
lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il
Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber,
( i85 )>9-
il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum,
il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab-
ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern,
il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O-
relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle
opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio
Porfirio, e dell'altro che prendendo nome
dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano,
non meno che di Emilio e Terenzio Scauro.
Ciascuno di essi ha cercato desumere con
pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio
scrisse le singole parti del suo eterno monu-
mento. Cercherò notare le più interessanti
investigazioni.
Orazio dapprima scrisse le satire e ne
compose il primo libro negli anni di Roma
713-718 , non avendo ancora raggiunto il
trentesimo anno. Pare che la prima di tutte
sia stata la settima fatta neir inverno del
713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe
con impeto sarcastico contro un tal Rupilio
che con lui aveva militato nell'armata di Bruto,
Segue poi la seconda scritta nell' autunno del
714, nella quale parla in generale dei vizii di
cui la società romana era infetta. La quarta
24
^ i86 )
satira fu scritta nell'estate del 715, ed in
essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi
mostrato un po' virulento nello sferzare la
cattiva gente, e secondo il parere di Wei-
chert fu questa la satira che i suoi amici
Virgilio e Vario presentarono a Mecenate,
avendo inculcato al poeta di scriverla per
cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse
la terza nel principio del 716, ed in essa fa
vedere che mentre gli uomini sogliono cri-
ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i
proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve-
dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo,
e non vedi la trave che è lì lì per acce-
carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira
venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i
commensali di Mecenate; infatti la satira
quinta che descrive con gran lepidezza e pre-
cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi,
vi fa risaltare la figura di Mecenate come
attore principale e come uomo politico, spe-
dito dal governo per delicati maneggi a quel
luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per-
sonaggi influenti, e che compagni insepa-
rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario,
( i87 ))^
Cocceio e Tucca. Compose poi la prima
satira in omaggio al suo gran protettore, e
pubblicando il libro nel 717-718, la pose
come principale, perchè a lui dedicata e per
testimoniargli la sua stima ed il suo affetto.
Scrisse la nona dopo circa un anno per cor-
reggere quei miserabili che invidiandogli la
protezione di Mecenate, mostravano, .mor-
dendolo col dente velenoso della livida in-
vidia, di non esserne a parte. La bellissima
satira sesta, nella quale pone la virtù come
il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava
con la quale schernisce i superstiziosi e le
donnacce, furono scritte, secondo l'opinione
di Spohn, nel 719.
Il libro degli Epodi era già stato com-
posto da Orazio prima del cennato primo li-
bro delle satire, ma fu pubblicato non prima
del 729.
Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi
dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in-
ventore dei giambi, al dir di Diomede gram-
matico. Sebbene altri sommi scrittori, com-
preso il Gargallo nelle note, ammettano che
epodi si dicesse il libro compilato da odi pò-
^ i88 )m^
stume di Orazio, fondandosi sul termine gre-
co epodem, che significa sopraccantare.
Benteley, Weichert e Jahn sostengono che
il secondo libro delle satire sia stato com-
posto negli anni 719 a 729. E la terza del
secondo libro delle satire sostengono essere
stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo-
strando che già poco più che trentenne Orazio
avea avuta donata quella proprietà.
Riguardo alle odi, furono scritte, se-
condo il parere di Butman, del Dacier e
di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734,
E da quest'anno ed i seguenti sino al 744,
cioè nella sua età di anni cinquantacinque,
solo l'ultima ad Augusto, come omaggio
al più grand' uomo del secolo e suo insi*
gne benefattore.
Orazio dalla sua villa aveva spedito ad
Augusto diversi scritti e molte delle let-
tere surriferite, e gliele indirizzò con un
viglietto umoristico consegnato ad un Vinio
Frontone Asella, che è proprio l'epistola
decima del primo libro. Augusto dopo aver
letto tali componimenti, gli rispose così:
(( Sappi che io sono teco sdegnato , per-
-^( 189 )»►-
che in molti di cotali scritti (come sono le
satire e le epistole) tu non parli principal-
mente con me. E forse che temi non ti sia
per tornare ad infamia nella posterità, se tu
mostri d'essere stato mio amico ?» A questo
onorevole ed amorevole rimprovero Orazio
rispose colla prima epistola del secondo libro,
che è invero un capolavoro nel genere sotto
ogni rispetto.
Il primo libro delle epistole venne com-
posto prima del quarto libro delle odi.
Il carme secolare scritto per condiscen-
dere al volere di Augusto fu composto nel
737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio.
L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca-
polavoro, e che può dirsi una lettera di-
dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può
benissimo classificarsi come terza nel secon-
do libro delle epistole , e venne composta
nel 741-742, mentre la prima epistola del
secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi
essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com-
posta nel 744, avendo il poeta V età di anni
cinquantacinque.
Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta
^ 190 ))^
pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua
opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa
che sa quasi dell' inverosimile.
Basta però per convincersene notare il
numero straordinario delle edizioni delle sue
opere, dacché ci furono tramandate, siansi es-
se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti.
Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi
precisare chi sia stato il primo scopritore dei
canti immortali di Orazio, né dove rinven-
gasi la prima edizione di essi nei tempi re-
motissimi composta. Vuoisi da taluni che
in un museo inglese se ne conservi vestigio.
Certissima cosa é che da molti secoli, sia
in Italia che in Germania, in Francia ed in
Inghilterra principalmente, le edizioni delle
opere del gran poeta possono contarsi a cen-
tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne
sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e
note illustratrici. È proprio l'arboscello pro-
fetizzato da Orazio :
Laude fra tardi posteri
Farà ch'io guai per fresca
Auray arbuscel più vegeto
Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i
Quante opere insigni di altri uomini nati
in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia
ed altrove sono state composte nei secoli
scorsi I E sono ignorate o perdute e scom-
parse per sempre. E dei monumenti sanscriti
di Persia, delle opere eccelse degli arabi che
scrissero nei tempi del califfi e dei sultani,
e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori
armeni, che invano i Mechitaristi tentarono
illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute
neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo,
o giacciono ignorate in fondo a qualche pol-
verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro-
dotto un fenomeno superiore, se pure non
uguale, a quello del monumento oraziano.
Alle opere di Orazio avvenne un simile me-
raviglioso fatto.
Sembrarono piccoli granelli di seme, che
fruttificando, e dapprima poco curati (che dai
suoi contemporanei, come si disse e lo con-
fermò Leopardi, non furono tenute in quella
stima che meritavano) divennero poi giganti.
Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si
distesero nelle viscere della terra, per tutte
le latitudini, con gagliardia non mai vista.
-^( 192 )»-
E per disperdersene le tracce, per abbat-
tere tale fenomenale vegetazione, bisogne-
rebbe che la terra universa andasse in fran-
tumi.
Dalla nostra Italia, avventurosa patria del
poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli,
appaiono vestigia del portentoso volume,
in tutte le lingue tradotto e glossato.
Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta
del monumento oraziano è una fronda fre-
sca e vegeta che ci ricorda uno dei più
grandi italiani.
Non era scorso un secolo dopo la morte
di Orazio , siccome attesta Giovenale, che
già le opere di lui, dai suoi contempora-
nei poco apprezzate, servirono in presso
che tutte le scuole di Roma come libri di
testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve
arguirsi che non poche edizioni dovettero
farsene in quei tempi remoti. Ma il primo
editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba-
silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe-
lice grammatico, sui manoscritti e ne fece
redigere non pochi esemplari riveduti e cor-
retti.
^( 193 /»-
Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne
le seguenti edizioni principali antiche e mo-
derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali
esemplari condotte:
Edizione primaria, senza luogo ed anno,
con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee
26, in folio piccolo.
Altra che non porta data, né firma del ti-
pografo che s' ignora. Si compone di un vo-
lume in quarto di a 57 pagine, stampate in
lettere rotonde, di forma poco graziosa. An-
tichissima. Se ne conoscono solo due o tre
esemplari in Inghilterra.
Edizione pure senza luogo, senza data e
senza tipografo conosciuto. Forma un volu-
me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri
rotondi, ma molto belli, come quelli che si
usavano verso la fine del 1400.
1474. — Edizione di Napoli. In quarto per
Arnauld de Bruxelles, pagine 168.
1474. — Edizione di Milano. In quarto.
Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli.
1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna.
1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda-
min.
25
( 194 )
1481. — Venezia. Senza nome di tipo-
grafo.
1482. — Milano. In folio. Per Antonio
Miscomini, col comentario di Cristofaro
Lantini.
1482-1491. — Milano. In folio, con co-
menti di Antonio Mancinello e degli antichi
scoliasti. Edizioni ripetute molte volte.
1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin-
ger. Opere di Orazio in latino, con testo
stabilito sopra manoscritti preziosi antichi.
Con molte incisioni.
1501. — La prima edizione Aldina. Ver
nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo
Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa.
1503. — Firenze. La prima dei Giunti in
8.° Filippo Giunti. Rarissima.
1505. — La prima Ascenziana in 8.°
1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu-
zio. Riproduzioni.
1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini.
1553- — Venetiis. In quarto grande, di
228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio.
Con note erudite di Erasmo de Roterda-
mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara.
1555- — Venezia. Con postille di Gior-
gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu-
reto.
1561. — Lione. Due volumi in quarto di
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò
magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci
antichi codici. Edizione ripetuta con molte
correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567,
in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo-
vamente nel 1577 e nel 1587.
1566. — Anversa. Teodoro Pulman con
critiche rinomate.
1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano;
anche con critiche.
1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru-
chio.
1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un
manoscritto Blandiniano antichissimo, ed
altri della biblioteca dei benedettini di Gand
andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac-
creditatissimo.
1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due
volumi in ottavo.
1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu-
penda, bellissima I
-^( 196 )»-
1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In
quarto con dottissimo comento.
161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana
con note di Daniele Heinsius. Con disser-
tazione dotta di tale letterato sopra le sa-
tire.
1629. — Anversa. Nuova edizione del
medesimo, riveduta con note.
1653. — Leida. Variorum, Editore Cor-
nelius Schrevelius.
1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of-
ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi
di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne-
lius Schrevelius accurante. Riproduzione.
1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre-
cedente di Schrevelius, corretta.
1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di
Andrea Dacier.
1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio,
molte volte ricopiata.
1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu-
penda.
1696. — Parigi. Jouvensy.
1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo
Bentley.
^ 197 )»►-
171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent-
ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra
Orazio. In quarto. Monumento immortale
dell'arte critica, lacerato dai contemporanei
per livida invidia. Ripetuta l'edizione in
Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia
nel 1826.
1729. — Parigi. Due volumi in quarto.
Stefano Sanadon, con traduzione delle opere
di Orazio molto stimata.
1752, — Londra. Con note del Dacier.
Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa.
1756. — La suddetta in Amsterdam, ri-
■
veduta e corretta. Otto volumi in ottavo.
1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-
snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e
Both nel 1822.
1770. — Parigi. Edizione classica in ot-
tavo di Giuseppe Valart.
1774. — Napoli. Michele Stasi, con note
di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo.
Molto stimata.
1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot-
tavo, contenente solo le odi, con note ed
illustrazione di Ch. D. Jhan.
-^( 198 )
1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in
Milano nel 1792.
1791. — La stupenda edizione del Bo-
doni in Parma.
1794. — Londra. Due volumi in ottavo
di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa.
1799. — La più stupenda e magnifica si-
nora edita di F. Didot. In folio.
1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo
di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi
le satire e le epistole, ma sono eruditissimi
pomenti e note sulle altre opere e partico-
larmente sul carme secolare.
1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con
note di Gessner e Zeunio. Composta sulla
prima edizione dello stesso editore in Londra.
1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot-
tavo del Doering. Riputatissima edizione per
uso delle scuole.
181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di
Carlo Fea. Con critica e note riputatissime.
Edizione bellissima.
181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di
Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi
e gli epodi. Ma è superba.
^ 199 )«►-
1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed.
Heindorf, con conienti eruditi e note. Con-
tiene solo le satire.
1820. — Maneim-Baden. Due volumi in
ottavo di F. Both.
1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi-
zione di Carlo Fea di Roma con molte ag-
giunte.
1821. — Heidelberga. Due volumi in ot-
tavo di Grevio. Contiene le sole odi.
1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel-
tissime note ed aggiunte.
1828. — E. F. Schmid. Due volumi in
ottavo. Contiene solo le epistole.
1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo-
lume in ottavo. Edizione di Perlkamp.
1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con
biografia di Orazio e note. Libro erudi-
tissimo e molte volte riprodotto, e partico-
larmente l'ultima edizione quarta, accura-
tamente emendata e corretta, sicché con ra-
gione può dirsi la migliore.
1838. — Venezia. Premiato con meda-
glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con
traduzione in versi e note del celebre mar-
-^( 200 )>»-
chese Tommaso Gargallo. Un volume in
ottavo, preziosissimo.
Della vita e delle opere di Orazio scris-
sero pure con profondità di vedute e som-
ma dottrina:
Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae,
5 volumi in ottavo. Berlino 1817.
Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber-
lino.
Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo-
lume in ottavo. Leida 1703.
Eichstedt , Critica ed osservazioni stille
opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1.
Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva-
zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa-
rigi, 1823.
Cristofaro Martino Wieland, Traduzione
delle opere di Orazio^ con note. Quattro
volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827.
Morgesten, Le satire e le epistole ora-
ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801.
E fra tutti primeggiano gli scrittori fran-
cesi che convien notare:
C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione
delle odi di Orazio in versi francesi con
-«( 201 )l^
biografia ricavata da vecchissimo mano-
scritto.
Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran-
cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi,
1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può
definirsi una delle più dotte e belle edizioni
delle opere del poeta.
Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,
Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi-
ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour-
nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux,
Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli-
grafo barone Walckenaèr, che nel 1840
compilò una Storia della vita e delle poesie
di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo,
opera dottissima ed insuperabile.
E redizione grandiosa del Didot del 1855
in Parigi, con tavole topografiche e note e
biografia, che può asserirsi la più perfetta
edizione del secolo. Riproduzione con ag-
giunte di quella suddetta del 1799.
E tra gr italiani il Metastasio, il Leo-
pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il
Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo,
il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal-
26
( 202 )
vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi,
il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco,
ed altri molti scrittori di comenti e studii
e saggi critici.
Ma in Italia tra le molte traduzioni delle
opere oraziane, la più perfetta e completa
è quella del marchese Tommaso Gargallo,
e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa,
facendo risaltare la bellezza della frase ora-
ziana, tale ammirevole letterato ha cercato
inciderne il concetto, abbellendola con versi
armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla
musa stessa del gran poeta venosi no.
Mi sono avvalso in questa mia opera ap-
punto della traduzione del Gargallo, prin-
cipalmente in quei passi della storia, nei quali
era necessario dar luce alla dicitura con le
stesse parole di Orazio, le quali forma-
no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi
massimi del poeta : « Jamais homme n'a
donne un tour plus heureux à la parole
Pour lui /aire signifier un beau sens, avec
brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser-
vendomi dei versi sublimi frutto del forte
ingegno del Gargallo, e dettati in purissima
lingua italiana , per illustrare uno dei più
grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai
miei concittadini, ai quali, per questo mio
lavoro, chiedo venia e benevola approva-
zione.
M^ihr^^yr^'-i
NOTE
«li^^illl^^^l
?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai';
(i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso
il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria
deità orientale anteriore
r^( 212 y»^
all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di
Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome
riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe-
tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na-
poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet-
tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè
scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento
trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa,
riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal
Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori
di sigle, che viene così tradotta :
MbKCUKI tMVIC. 8ACR.
pro salute
Pbassbmtis mostri
Agaris Acnc.
Come pure trova riscontro in una pietra di corniola
incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente
alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen-
nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati,
con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto
la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-
giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò
aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon-
deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore.
Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda
opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa
e meritoria.
(4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati,
(5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium.
(6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip.
(7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere
di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*"
(8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.*
(9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante.
r^( 217 )»-
(io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.*
(11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente
avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della
nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al
Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to-
pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi
annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per
mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece
inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città
e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta
di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu-
sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori.
Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci-
tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in
Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi
opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata
tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa,
mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im-
portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu-
cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e
che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero
di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai
monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata
per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica
onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,
siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non
però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi-
stenti in Venosa.
Bemusbi
. MOMUMRNTUlf.
POBLICX
. rACTUM D. D.
M.
. MUTTIBMUS .
L. F. C. Vibius .
l.
F.
M.
Bfsssius . F.
OB
F. M. Camillius
. HONOREM.
. l.
F.
28
( 2l8 >•-
M. Mumnius « L*. F.
C. Vmn» . L. F.
n . Vis . J. D.
Statuas . KZ
D. D.
Rbficivmdas
e.
Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte
dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po-
che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono
quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva-
sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima
terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà
scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500
e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei
prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti-
tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio.
I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric-
chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie,
tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore
Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-
nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del
regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini
politici dei sovrani che si successero, non venne man-
tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar
dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi
patrizii illustri, scelti dal popolo.
E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora
in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-
derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse
la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer-
« sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri
e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de-
E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im-
peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi-
narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha
memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi-
nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse
edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello
splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce-
neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e
duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il
che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu-
Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì
L'iscrizione è la seguente :
StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM
UftBIS AMICUS DUM FUKHIS
Sbupbr Rxgmabis
Jums POTKNTEB
E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna)
del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono
magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono
un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed
illustri del regno.
In detta accademia presedeva lo stesso cardinal
Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo,
o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa
-«( 220 )ì9^
Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap-
presentava l'Olimpo.
E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita
insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto
riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500
per quanto disadorno scrittore :
e così si enumerano molti
doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare
fatti di valore e degni di stima e compenso.
Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine
riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del
1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani
nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae —
-«( 221 )•-
Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el
1723, che rimontano sino al precedente secolo deci-
mosesto:
Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di
Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno
di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale
diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della
sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici.
Deitardis.
Gomiti.
Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado
Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i
re aragonesi.
Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu-
minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei
quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian-
none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa
e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino,
agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero
Roberto, Lucio, Fabio e Carlo.
Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi-
nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L
D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa,
che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale
di Napoli.
Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del
celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era
nobile nolano.
Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di
conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa
Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di
Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV.
Fenice.
-«( 222 ))^
Solimene.
Casati,
Consultnagni.
Giustiniani,
Caputi,
Simone.
Moncelli.
Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene-
ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui
nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della
nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio
Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico.
De Bellis.
De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale
Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa,
autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio.
Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve-
nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile
Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior-
dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia-
copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo,
siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa
famiglia venosina derivato ?
Fioriti.
Tramaglia.
Ttsct.
Tommasini.
Palogani.
Pagani.
Balbi.
Sperindeo.
Berlingieri.
Violani.
-«( 223 )»^
Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne
membro della celebre accademia venosina, e poeta fa-
moso.
Abenanti,
Grossi.
Protonotabilissimi,
Capibianchi,
Campanili.
Ferrari,
Faccipecora,
Leonetto
Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale
palestra.
Aloisiis,
Rosa.
Biscioni.
De Vicariis.
Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus
D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^
U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae
triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in
legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi
ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber-
rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia
Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con-
siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio
erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto
(1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera
di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni
(1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo.
Vitamore.
Moncardi.
Lauridia.
( 224 )
De Jura o Thura.
Sprioli,
Leoparda,
Sozzi.
Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine
di Malta.
Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e
dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti
in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di
essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente
epigrafe, riportata dal Corsignani.
JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino
Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi
Prognato
MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS
OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB
Canonicatu Insignito, humanab salutis
Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos
Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi
DIGNI8SIM0 P
•
E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con
la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi
Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta
neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella
vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen-
tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei
più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima
alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am-
mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan-
tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni :
Sull* altare :
HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR.
DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM.
MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI.
-«( 225 )»^
àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO.
FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D.
PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT.
SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO.
MDCLXVU.
Sotto l'altare:
SACELLUM . HOC.
NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. .
IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA.
RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA.
Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li
Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che
dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa,
D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed
altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si
volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri-
vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla,
e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar-
chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo,
(e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia
Rapolla, la seguente iscrizione:
CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB.
U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus.
EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB.
Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc.
MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB.
UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT.
ANNO DOMINI MDCCXXII.
La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no-
bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi-
tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame
il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma-
gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri
personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan-
29
•^( 226 )»^
zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com-
t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-
luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub-
blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra-
zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro
compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera
« Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La
Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^
serve quelque chose de plus que son nom et sa position
antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai
ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche
degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po-
tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del
seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro-
logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini
1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra-
sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino,
con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve-
nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella
capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con-
siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far
distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese
a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per
sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no-
bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1
(12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera
9^
quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile
Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di-
stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto
parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di
miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in
una grotta messa sul ciglione di una collina verso
oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata
sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è
rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la-
terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo,
coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni
indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui
soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo
si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno
ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un
forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata ,
che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala,
ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la
loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer-
tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che
si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte
e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va-
sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai
tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue
e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando
andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai
tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di-
versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran-
dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E
venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un
borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin-
ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi-
tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde
-«( 231 )»-
la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro-
no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine.
In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si
disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti
ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de-
stinati a grandi imprese.
L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun
abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante
porta con sé una particella dell'aura divina, che emana
da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle
e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii
antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete
raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me-
glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi
Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri-
fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a
poche città meridionali d'Italia.
(15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di
Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*.
(16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua
ode quarta del libro terzo ed il « pios
errare per lucos > han dato campo a non poche dispute
tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per-
sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una
balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del
pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le
ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve-
nosa. Gargallo traduce :
Da pueril trastullo
Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia
-«( 232 )»-
De r Apula nutrici, amar faruimllo
Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie
Tutu a nuazi arhuscelli
Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli.
Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar
appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si
chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa ,
usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia.
Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia
Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re-
gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella
Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia
Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu*
cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro
per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È
certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture ,
della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè
i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei
tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona
parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.).
Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu-
sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^
a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che
fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-
scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio
avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come
oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella,
RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non
esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro
della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia
o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove
la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della
quale si discorre.
I
(J33j
Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat-
tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau-
beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in
Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^.. ^. .. g .É|..^ ^ .y ^, .ly.., ».^ ..^ ^ ^. | ^^ >.. ^ .L.. ^IfcHiilnlfcjtUlt^
3
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PERE DELLO STESSO AUTORE
n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250,
Tipi Di Angelis — Napoli, 1870.
XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi
Tarnese — Napou, 1877.
Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo-
lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico
Vesuviano — Portici, I891.
Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo
Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi
Giannini — Napoli, 1886. ì
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