« VOX AUGUSTA » Francesco Petrarca, nel secondo capitolo del primo libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avve- nuto, ancora giovinetto, di leggere un libriccino con- tenente gli epigrammi e le lettere agli amici dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum facetissima gravitate et luculentissima brevitate « adorno di forbita dignità di stile e di eloquente brevità »; un volumetto quasi intonso e mezzo divorato dalle tarme, che andò per- duto, e che, per quanto disperatamente cercasse, il Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti dubitano della veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto, giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men- tire la notizia, e da nessun’altra fonte che dalla diretta lettura avrebbe egli potuto derivare un giudizio così vero e preciso sulle doti stilistiche degli scritti di Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti che a rivelare al mondo la grandezza di Cesare Augusto scrittore sia stato il primo umanista d’Italia, e che a nessun altro sia riuscito meglio che a lui di definire, in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello stile del figlio adottivo di Giulio Cesare. 202 I GRANDI ITALIANI Molti secoli passarono prima che si ponesse di nuovo mente ad Augusto scrittore, e solo quando fu ritrovata l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si diedero a raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a ripro- durli più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando meticolosamente il benchè minimo frammento. Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici e filologi discu- tono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro documenti che Augusto, nel 14 dopo Cristo, nel set- tantesimo sesto anno di vita, consegnò, insieme col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i funerali, il resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione militare e finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come reggere e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio, obbedendo alla volontà di Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due pilastri collocati innanzi al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella parte setten- trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Fla- minia; bensì nella copia che fu incisa nella pietra dell’Augusteo di Ancyra, capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara, capitale della nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta ese- AUGUSTO 203 guire dal successore Tiberio, perchè le parole di Cesare. Augusto sonassero più intelligibili alle popolazioni orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum ancyranum, da venti anni a questa parte riprodotta in un testo sempre meglio corretto, essendo stata rin- venuta un’altra copia dell’originale latino nella colonia imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto innanzi, i dotti discutono ancora sul significato del documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica ragione delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e delle imprese operate. E, purtroppo, anche in questo caso, taluni critici, per cercare di scoprire i diversi momenti della redazione dello scritto, hanno affermato che il piano generale dell’opera è disorganico e disor- dinato, che molte sono le incoerenze di alcune parti, e che però Cesare Augusto ha redatto il documento ampliandone uno precedente, più modesto e meglio ordinato. Insomma... una quistione omerica, che, a parer nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false ed ingannevoli argomentazioni con poche parole. DI Il documento di Augusto non è un bilancio, non è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo degli elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium, perchè Augusto l’ha redatto quando si appressava il giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in nessun genere. La solennità del latino del documento augusteo DI non è soltanto nello stile, ma è nei fatti che vi sono 204 I GRANDI ITALIANI LI esposti, e soprattutto è nel fatto che al Senato e al Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre della Patria, Augusto, e non per esaltare la sua propria opera, ma per proclamare che essa rimarrà in eterno legata alla fedele collaborazione del Senato e del Popolo di Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere tutto ciò che dovesse dire, che scriveva perfino quello d’im- portante che dovesse dire a sua moglie Livia; e che si era assuefatto a scrivere meticolosamente i suoi discorsi al punto che, quando la troppo cagionevole gola gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg- geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis voce ad populum contionatus est. Perciò io dico che anche questo documento è un discorso al Popolo di Roma: l’ultimo discorso nel quale il Padre della Patria, Cesare Augusto, rende conto dell’opera sua. E le prove della mia affermazione sono la presunta incoerenza e il presunto disordine scoperti e biasimati dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli quei critici i quali cercano di dimostrare in « sede scientifica » che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti capitoli di un libro dei commentarii della guerra gallica (e sono, purtroppo, Italiani); o questi altri (e fortunatamente non sono Italiani) che scoprono in Augusto un errore di cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro, « Augusto avrebbe commesso l’errore di menzionare alla fine del documento i due maggiori titoli del Pater AUGUSTO 205 Patriae e di Augustus conferitigli dal Senato e dal popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che nel trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo, Augusto avrebbe dovuto ricordarli, a giudizio di cotesti critici, molto prima: chè insomma avrebbe dovuto fare opera di storico mediocre e dimenticare di essere Cesare Augusto. | Leggete il documento. Esso comincia: annos unde- viginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac- tionis oppressam in libertatem vindicavi: « all’età di diciannove anni, di mia iniziativa e con danaro mio apparecchiai un esercito, e con esso restituii libertà allo Stato oppresso dalla prepotenza di una fazione ». E si chiude così: « Tra il sesto e il settimo consolato mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed assunto, per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato e Popolo romano il governo della cosa pubblica. Per questa mia benemerenza, mi fu conferito, con decreto del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus... Durante il tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine equestre e il Popolo romano mi acclamarono Padre della Patria, e decretarono che questo titolo dovesse essere iscritto nel vestibolo della mia casa e nella curia Giulia, sotto la quadriga che per decreto del Senato fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo docu- mento, avevo settantasei anni ». 206 I GRANDI ITALIANI Comincia: annos undeviginti natus...; finisce: annum agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo questa chiara e significativa corrispondenza tra l’inizio e la chiusa del documento, nella quale sono compresi i cinquantasette anni della vita politica di Cesare Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime orgoglio il primo cittadino della Roma imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare alle generazioni avvenire il nome di Augustus e il titolo di Pater Patriae? | » Augusto era infermo, la morte si appressava non temuta, ma serenamente attesa, chè infatti morì di «bella morte». Egli parla per l’ultima volta al Senato e Popolo di Roma, come un cittadino, che, amministrata la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al suc- cessore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba, il benservito. C’è in questo documento un crescendo di tono, che verso la fine raggiunge il maestoso: dal venticinquesimo paragrafo in poi esso si fa solenne come litania: ... mare pacavi a praedonibus...; omnium provinciarum populi romani fines auxi...; Aegyptum imperio populi romani adieci...; colonias deduxi...; signa militaria reciperavi...; Pannoniorum gentes imperio po- puli romani subieci...; ad me ex India regum legationes saepe missae sunt...; ad me supplices confugerunt reges...; a me gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt...; e finalmente i due ultimi paragrafi sopratradotti. Sui AUGUSTO I | 207 «mari ha debellato i pirati, ha allargato i territori di tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova provincia di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni colonie di Roma, ha recuperato bandiere e vessilli: a lui hanno fatto ricorso in atto di supplica i re di tante nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i re che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo si chiude il rendiconto delle imprese operate da Cesare Augusto; nel trentaquattresimo e nel trentacinquesimo paragrafo risuona il ricordo del nome di Augustus e del titolo di Pater Patriae. Al Senato e Popolo romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena giornata si chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo. * ws Cesare Augusto affidò il manoscritto alle vergini Vestali perchè fosse consegnato dopo la sua morte al Senato e inciso sul bronzo. Il successore Tiberio fece riprodurre il testo com’era, con una brevissima appen- dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe- rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale modificazione. Dunque, noi possediamo un’opera intera di Augusto, la quale ci rivela la sua grande personalità di scrittore. Il latino di Augusto non è quello di Cesare. Augusto scrive in prima persona, ma si può dire che in questo 208 I GRANDI ITALIANI scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commen- tari. Non giudica, non aggiunge nessun commento ai fatti che espone pacatamente e senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degli edifici pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite all’erario e alla plebs, delle genti soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre conquistate, delle leggi promulgate, spira il calore dell’epopea e della leggenda. La sua opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di ripen- sare ai primi quattro versi della prima epistola del secondo libro di Orazio: «Se io tentassi di rubarti un po’ di tempo con una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro l’interesse dello Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi la emendi... ». Epico è il tono di questo scritto di Augusto, anche là dove sono riassunte in brevissime parole imprese che durarono anni: « Colonie militari ho inviato in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte per ordine mio, le quali, per tutto il tempo ch'io vissi, sono state assai popolose e prosperose ». Leggendarie appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai generali suoi « sotto ì suoi auspici», marciano, di conquista in conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse poni “bi ski AUGUSTO 209 audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse l’Oceano dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano prima di allora era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono sempre esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione delle parole è sem- plicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in questo periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum senatus consulto inclusum est in saltare carmen, et sacrosanctus in perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est: « Il mio nome per decreto del Senato fu compreso nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo, ed a vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito». Non fa mai il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che assassinarono il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos in exilium expulsi iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea bellum inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas- sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con procedimento legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi portaron guerra allo Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua, pacato e grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore 14 — Coppota. 210 I GRANDI ITALIANI risparmiai tutti i cittadini che dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu possibile, senza peri- colo, perdonare, preferii conservarle anzi che distrug- gerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit- tadini romani militarono. Di essi più che trecentomila mandai nelle colonie o feci ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto gli anni di servizio, e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa del servizio prestato. Seicento navi catturai, non inclu- dendo in questo numero quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. « Entrai in Roma ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato imperator, seb- bene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi, ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e così sciolsi il voto che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le imprese feli- cemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque volte decretò che si rendessero grazie agli dèi immor- tali. Ottocentonovanta furono i giorni nei quali, per decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi al mio cocchio ». | Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la sua opera di legislatore: « Con leggi nuove da me promulgate richiamai in vigore le consuetudini antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra gene- AUGUSTO 211 razione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di molte cose, degni d’essere imitati ». Sentitelo quando ricorda gli onori che il Senato e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi, e leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre per l’immatura morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano e affettuoso compiacimento suo nel ricordare che appena quindicenni essi furono acclamati principi della gio- ventù romana e designati consoli: « I due figli miei, che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e Lucio Cesare, il Senato e Popolo romano per farmi onore li designò consoli appena quindicenni, che entrassero in carica dopo cinque anni. E il Senato decretò che dal giorno della loro presentazione nel Foro partecipas- sero ai pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li acclamarono principi della gioventù, e offrirono in dono scudi e lancie di argento ». E, infine, ascoltatelo quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra civile: « Mi giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spon- taneamente, e mi volle condottiero della guerra nella quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le pro- vincie delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia, di Sardegna ». I | Augusto è scrittore accortissimo, che aborre da ogni lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel giuoco delle congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a far leggiero o grave il tono della voce, più lento o più celere, ma non mai concitato il movimento della frase. 14* — Coppota. 212 I GRANDI ITALIANI Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in cui le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono più solenne l’immagine del mondo romano stretto nel giuramento intorno al suo Duce; eccone, invece, un altro di polisindeto, là dove Augusto ricorda l’iscri- zione dello scudo d’oro offertogli dal Senato il 27 avanti Cristo. — Il testo originale dell’iscrizione era il seguente: « Il. Senato e Popolo di Roma offrì ad Augusto questo scudo per il suo valore clemenza giustizia pietà »: ... virtutis clementiae iustitiae pietatis caussa (e natural- mente virtus sta a significare l’opera del condottiero di eserciti, e pietas il profondo ossequio alle istituzioni religiose). Ma Augusto riunisce più efficacemente in due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime proprie dell’opera sua di condottiero, le altre due del magistrato civile e supremo amministratore dello Stato: virtutis clementiaeque, iustitiae et pietatis caussa. Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i trentacinque paragrafi delle res gestae di Cesare Augusto. A questa grande iscrizione, che Teodoro Mommsen chiamò la regina delle iscrizioni latine, è mancato chi la traducesse nella lingua del « Principe », perchè è stata rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe potuto tradurla solo il Tommaseo, ma non l’ha fatto perchè non la conosceva. Ha tradotto solo le sette parole che son citate da Svetonio nella vita di Augusto, ed io le ho ripetute nella mia traduzione copiandole dal AUGUSTO 213 Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo con accanto il latino di Augusto: bis ovans triumphavi et tris egi curulis triumphos... « entrai in Roma ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni». Solo la collocazione delle parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento nella scelta dei vocaboli e dei sinonimi potrebbero soddisfare il desiderio nostro di una traduzione ita- liana che riproducesse gli effetti del latino di Cesare Augusto. I Augusto fu scrittore elegante e temperato. Svetonio riferisce che egli scrisse molte cose in prosa di vario genere, alcune delle quali leggeva nella conversazione degli amici, quasi dinanzi a un uditorio come le Ri- sposte a Bruto intorno a Catone, che da vecchio essen- dosi messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, final- mente stanco dovè farne terminare a Tiberio la lettura; le Esortazioni alla filosofia, ed alcune notizie Della sua vita che espose in tredici libri giungendo fino alla guerra cantabrica e non più in là. Compose anche qualche verso. Rimaneva, al tempo di Svetonio, un volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di Epi- grammi, i quali egli era andato componendo durante il bagno. Aveva anche incominciata con grande ala- crità una tragedia, ma non essendo contento della forma la distrusse, e agli amici che un giorno gli diman- davano che facesse di bello il suo « Aiace », rispose che il suo Aiace s’era buttato non sulla spada, ma in una spugna. 214 I GRANDI ITALIANI Spregiava di fare uso di vocaboli dotti e difficili o com’egli stesso li definiva reconditorum verborum feto- ribus. Aveva a noia i leziosi e gli arcaizzanti, ciascuno vizioso nel suo genere, e talvolta li metteva in deri- sione e sopra ogni altro il suo Mecenate di cui conti- nuamente riprendeva «i riccioli stillanti unguento », come li chiamava. Non la perdonò neppure a Tiberio che andava a caccia di parole stantie, e dava del . matto a Marco Antonio, come colui che scriveva più per farsi ammirare che per farsi intendere. Nei di- scorsi, di alcuno dei quali leggesi in Cicerone menzione entusiastica, sappiamo che si preoccupò di riuscire eloquente senza mai ricorrere alla verbosità e pesante sentenziosità dell’allora decadente oratoria. In una let- tera alla nipote Agrippina, lodando l’ingegno di lei, l’ammonisce che si studi di non scrivere o parlare in modo disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì che tutti potessero capire, preferiva una sintassi lim- pida ad una sintassi più armoniosa e serrata, e adope- rava le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città, facendo cosa che un diligente maestro dei nostri tempi sottolineerebbe con frego azzurro nel compito del ma- laccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi parti- colari della grammatica e sintassi di Augusto, e che ebbe modo di consultarne gli autografi, ricorda anche che egli non divideva mai le parole in fine di riga per terminarle nella riga seguente, ma le ripiegava. sotto chiudendole con una linea curva. E aggiunge che — AUGUSTO 215 l'ortografia di Augusto, abituato a scrivere per parlare, era quella di chi scrive come pronunzia. Se dobbiamo credere agli antichi, di Cesare Augusto restarono famose le lettere. Raccolte per tempo in più volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costitui- rono mai un vero e proprio corpus, ma andarono a poco a poco disperse. Esse non ebbero la buona e cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro di testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia. Restano però i giudizi degli antichi e alcuni frammenti degni d’essere ricordati. Augusto discorreva alla buona, familiarmente, sia che scrivesse di affari politici, sia che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecitava Vir- gilio che gli mandasse almeno l’abbozzo dei primi versi dell’Eneide; scherzava con Orazio rimproverandolo che non parlasse mai di lui, e chiedendogli se per caso non credesse di rimanere infamato presso i posteri, qualora dagli scritti suoi apparisse chiara la loro inti- mità. All’amico Mecenate un giorno scrisse che essendo infermo e tuttavia indaffarato in più cose, chiamava e fargli da segretario il suo Orazio; lo richiamava cioè dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua mensa di pontefice massimo: veniet ergo ab ista para- sitica mensa ad hanc regiam, et nos in epistulis scri- bendis adiuvabit. E un’altra volta gli scrisse una let- tera che si chiudeva con questa forbita apostrofe: « Salute o mio ebano di Medullia (città etrusca), avorio di Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, sme- 216 I GRANDI ITALIANI raldo dei Cilnii, diaspro degli Iguvini, berillo di Por- senna, carbonchio di Adria, e, per dirle tutte in una parola, céccolo delle meretrici... ». Suo nipote Gaio Cesare era da lui chiamato in segno di affetto, asellus tucundissimus; e al figliastro Tiberio egli scriveva lettere gonfie di tenerezza e con- fidenza, raccontandogli come avesse passato il giorno, quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti dalla cagionevole salute, e d’aver sboc- concellato in lettiga, tornando al palazzo, un’oncia di pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il quale militava lontano con gli eserciti, scriveva di essere smagrito per le continue fatiche della campagna, ei lo supplicava di riguardarsi, chè, alle cattive notizie della sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia voleva un gran bene, e la licenziosa vita ch’ella condu- ceva amareggiò assai l’animo suo: soleva dire di aver due figlie, tutt'e due delicatissime, la res publica e Giulia; e molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio Plinio, recriminava penosamente la dissolutezza di lei. Umano egli era sempre e ricco di sentimento: qua- lunque cosa scrivesse, politica o familiare, alieno da ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad acco- gliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non scriveva die quinto ma diequinte, chè così comune- mente dicevasi; e, per esprimere la celerità di un avvenimento, diceva ch’esso era accaduto più presta- AUGUSTO 217 mente che non cuoce uno sparagio, celerius quam aspa- ragi coquuntur; e per dir « stolto » adoperava baceolus che corrisponde al nostro « baggeo »; e per dire che stava male in salute diceva vapide se habere. ‘+ Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola iscrizione delle res gestae in latino, e alcuni decreti ed editti in greco, non tradotti da lui direttamente, ma certo da lui corretti e controllati. Svetonio racconta che Augusto, sebbene conoscesse il greco e sempre lo leggesse e studiasse, tuttavia non si provò mai a scri- verlo, chè temeva di non conoscerlo abbastanza. Egli aveva studiato con retori greci, i quali gli appresero cose di larga erudizione; ma scrittore, come ci appare nel lapidario latino della iscrizione delle res gestae, egli s'era formato sull’esempio di Cesare, nell’azione ed esperienza militare e politica di tutti i giorni. Aveva innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia, ma la loquacità, e a reputare perciò che l’eloquenza con- siste nel non far mostra di eloquenza: partem esse eloquentiae putabat eloquentiam abscondere: che è poi la grande virtù della parola destinata a commuovere i popoli e a guidarli alla vittoria e all’impero. * * * I contemporanei lo salutarono coi versi di Virgilio: « ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato pro- messo e che resusciterà nel Lazio e nelle campagne 218 I GRANDI ITALIANI d’Italia, dove in antico regnava Saturno, l’età del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan e all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instan- cabile Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro dei cieli». Lo avevano veduto « entrare tre volte in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi d’Italia l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di trecento templi », e fra l’applauso della folla e i canti delle vergini e delle matrone, mentre sugli altari fumanti cadevano immolati migliaia di tori, l'avevano ammi- rato, « sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli sottomessi per abbellire le magnifiche colonne del superbo porticato ». Sono passati duemila anni, e l’immagine virgiliana dell’apoteosi di Augusto si è trasmessa, di generazione in generazione, come l’immagine della pace romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e . dalla volontà pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione politica e ideale di civiltà: riformatore della costituzione, difensore del territorio, organizzatore dell’amministrazione e della società, Ce- sare Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Im- pero e il diritto fondamentale dello Stato. I simboli del suo destino, l'adozione di Cesare, la battaglia di Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale; più chiaramente ancora, il 16 gennaio del 27 avanti AUGUSTO | 219 Cristo, l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un solo destino l’eroe creatore e la volontà implacabil- mente lucida del fondatore dell’Impero. Religiosa eredità fu quella di Cesare: e infatti duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli ordina- menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto del Divus Iulius era diventato il culto dello Stato, garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma rafforzando e difendendo la Romanità così che niente mai potesse distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente l’antitesi tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva drammaticamente vissuta negli ultimi anni della vita sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e tragica, nella lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco An-. tonio. È però costruendo in Occidente la Roma impe- riale sognata e creata da Cesare, Augusto che aveva da Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla gran- dezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo la civiltà europea. Insieme con Cesare, egli è il simbolo della dignità imperiale, e il nome suo di Imperator Caesar Augustus consacra da duemila anni l’identificazione dell’Impero con l’Occidente. Il titolo di Cesare dava il diritto di successione al trono, quello di Augusto concedeva la dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficial- mente inaugurato da Adriano fu poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore dell’Impero era Cesare, 220 | O I GRANDI ITALIANI fondatore era Augusto, il quale era riuscito a far sopravvivere l’opera e la gloria di Cesare in cinquan- tasei anni di regno, e della santità di Cesare aveva fatto il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appa- riva dunque ricco di conseguenze per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare aveva proclamato suo erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che in terra di Spagna, alla vigilia di una battaglia, mentre faceva tagliare un bosco per costruirvi il campo delle legioni, ordinò si risparmiasse una palma come augurio di vittoria, e quella sùbito gittò polloni alti e fiorenti. Sul finire del Medioevo, all’albo della Rinascenza, quando si inaugura la ricerca storica e si annunzia fecondo di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato, e la Romanità risorge nella cultura e nell’arte nutrite dalla possente vita dei sensi; allora i due nomi di Cesare e di Augusto tornano ad essere creatori della religione dell’Impero. Allora il romanticismo eroico del- l’Umanesimo celebra ed esalta l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che gli Italiani dei secoli futuri ne trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone straniero spoglia e insozza le loro terre; e da quel grido di amore per l’antica grandezza romana nascerà un appassionato libro del Risorgimento, sul primato della nostra gente e sulla universale missione d’Italia. | Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leg- gende sui monumenti ch’erano rimasti segni tangibili AUGUSTO 221 della sua presenza, a testimonio della grandezza di Augusto. Ed Egli apparve garante del miracoloso destino d’Italia, come nella formula dell’ultimo Impero che salutava il nuovo imperatore con l’augurio che fosse più fortunato di Augusto: felicior Augusto. E si divulgò la fama che nel Mausoleo comunemente noto col nome di Austa sorgesse circondata dalle tombe un’abside, e Ottaviano e i sacerdoti suoi vi celebrassero sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’Im- pero. L’Austa divenne una fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, e « fu strascinato allo campo dell’Austa » il cadavere di Cola di Rienzo e là fu bruciato «in un fuoco di cardi secchi », in quegli ‘anni che Francesco Petrarca scopriva e vaticinava nella grandezza di Roma imperiale l’ideale politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e l’avvenire. E dopo che nel duecento il maestro Mar- chionne di Arezzo ehbe costruita presso il Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nacque, più suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che ‘sotto la torre fosse un palazzo incantato e Augusto vi riposasse da secoli. E un giorno si desterebbe dal sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni, quando Roma fosse pronta a reggere e guidare per la seconda volta le sorti del mondo.
Thursday, June 6, 2024
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