Luigi Speranza --
Grice e Macedo: la ragione conversazionale e l’orto romano – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Macedo was a philosopher and a friend of Aulo Gellio. Macedo. Keywords: Livio. Macedo.
Luigi Speranza -- Grice e Machiavelli: l’implicatura
conversazionale del principe di Livio– Machiavelli at Oxford – la scuola di
Firenze -- filosofia toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo fiorentino. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “While
Strawson prefers ‘The Prince,’ my favourite Machiavelli is the dialogo,
discorso, ovvero dialogo intorno della lingua –“ Grice: “The full title makes
it sound slightly analytic – ‘whether it should be called ‘florentine, Italian,
or tooscana’ I mean, a stipulation!” -- Grice: “Like me, we can call
Machiavelli a philosopher of language – the trend being very Florentine between
Machiavelli and Varchi.” -- possibly Italy’s greateset philosopher – Noto come
il fondatore della scienza politica moderna, i cui principi base emergono dalla
sua opera più famosa, Il Principe, nella quale è esposto il concetto di ragion
di stato e la concezione ciclica della storia. Questa definizione, secondo
molti, descrive in maniera compiuta sia l'uomo sia il letterato più del termine
machiavellico, entrato peraltro nel linguaggio corrente ad indicare
un'intelligenza acuta e sottile, ma anche spregiudicata e, proprio per questa
connotazione negativa del termine, negli ambiti letterari viene preferito il
termine "machiavelliano". L'ortografia del cognome è,
purtroppo, ambigua: la versione "Macchiavelli", quella della statua a
lui dedicata agli Uffizi, in attesa di chiarimenti dell'Ufficio Culturale del
museo o dell'Accademia della Crusca, andrebbe considerata ugualmente corretta
in lingua italiana. L'analisi della firma del filosofo, riportata qui accanto,
farebbe propendere per la "c" singola[senza fonte]. «Nacqui
povero, ed imparai prima a stentare che a godere.» (N. M., Lettera a
Francesco Vettori.) Niccolò M. (scritto anche Macchiavelli sulla statua a lui
dedicata all'ingresso degli Uffizi) nacque a Firenze, terzo figlio, dopo le
sorelle Primavera e Margherita e prima del fratello Totto; figlio di Bernardo e
di Bartolomea Nelli. Anticamente originari della Val di Pesa, i M. sono
attestati popolani guelfi residenti almeno dal XIII secolo a Firenze, dove
occuparono uffici pubblici ed esercitarono il commercio. Il padre Bernardo era
tuttavia di così poca fortuna da esser considerato, non si sa quanto
veritieramente, figlio illegittimo: dottore in legge, risparmiatore per
carattere o per necessità, ebbe interesse agli studi di umanità, come risulta
da un suo Libro di Ricordi che è anche la principale fonte di notizie
sull'infanzia di Niccolò. La madre, secondo un suo lontano pronipote, avrebbe
composto laude sacre, rimaste peraltro sconosciute, dedicate proprio al figlio
Niccolò. Cominciò a studiare latino con un certo Matteo, l'anno dopo si
dedicava allo studio della grammatica con Poppi, all'aritmetica e l'anno seguente affrontava le prove scritte
di componimento in latino. Opere in questa lingua esistevano nella biblioteca
paterna: la I Deca di Tito Livio e quelle di Flavio Biondo, opere di Cicerone,
Macrobio, Prisciano e Marco Giuniano Giustino. Adulto, maneggerà anche Lucrezio
e la Historia persecutionis vandalicae di Vittore Uticense. Non conobbe invece
il greco, ma poté leggere le traduzioni di alcuni degli storici più importanti,
soprattutto Tucidide, Polibio e Plutarco, da cui trasse importantissimi spunti
per la sua riflessione sulla Storia. S'interessò alla politica anche prima di
avere degli incarichi istituzionali, come dimostra una sua lettera, la seconda
che di lui ci è pervenutala prima è una richiesta al cardinale Giovanni Lopez, affinché
si adoperi a riconoscere alla sua famiglia un terreno contestato dalla famiglia
dei Pazziindirizzata probabilmente all'amico Ricciardo Becchi, ambasciatore
fiorentino a Roma, nella quale egli si esprime in modo critico contro Girolamo
Savonarola. Due sono le fasi che scandiscono la vita di Niccolò M.:
nella prima parte della sua esistenza egli è impegnato soprattutto negli affari
pubblici; nella successiva nella scrittura di testi di portata teorica e speculativa.
Si apre la seconda fase segnata dal forzato allontanamento dello storico e
filosofo toscano dalla politica attiva. «Della persona fu ben
proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento
con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente
all'ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi
vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di
lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col
quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in
pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso» (Roberto
Ridolfi, Vita di Niccolò M.) Caterina Sforza Riario, ritratta da Lorenzo
di Credi. Niccolò aveva già presentato al Consiglio dei Richiesti, la propria
candidatura a segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina,
ma gli fu preferito un candidato savonaroliano. Pochi giorni però dopo la fine
dell'avventura politica e religiosa del frate ferrarese, M. fu nuovamente
designato ed eletto il 15 giugno dal Consiglio degli Ottanta, elezione
ratificata dal Consiglio maggiore, probabilmente grazie all'autorevole
raccomandazione del Primo segretario della Repubblica, Marcello Virgilio
Adriani, che il Giovio asserisce essere stato suo maestro. Per quanto i
compiti delle due Cancellerie siano stati spesso confusi, generalmente alla
prima si attribuivano gli affari esterni, e alla seconda quelli interni e la
guerra: ma i compiti della seconda Cancelleria, presto unificati con quelli
della Cancelleria dei Dieci di libertà e pace, consistevano nel tenere i
rapporti con gli ambasciatori della Repubblica, cosicché, essendogli stata
affidata, ianche questa ulteriore responsabilità, M. finì per doversi occupare
di una tale somma di compiti da essere storicamente considerato, senza
ulteriori distinzioni, il «Segretario fiorentino». Era il tempo nel
quale, conclusa l'avventura italiana di Carlo VIII, la maggiore preoccupazione
di Firenze era volta alla riconquista di Pisaresasi indipendente dopo che Piero
de' Medici l'aveva data in pegno al re di Francia- e alleata di Venezia che,
intendendo impedire l'espansione fiorentina, aveva invaso il Casentino,
occupandolo a nome dei Medici. Il pericolo venne fronteggiato dal capitano di
ventura Paolo Vitelli, e la mediazione del duca di Ferrara Ercole I, iriconsegnò
il Casentino a Firenze, autorizzandola altresì a riprendersi Pisa. In marzo
venne inviato a Pontedera, dove erano acquartierate le milizie del signore di
Piombino, Jacopo d'Appiano, alleato di Firenze. In maggio scrisse il
Discorso della guerra di Pisa per il magistrato dei Dieci: poiché «Pisa bisogna
averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria
alle mura», esaminate diverse soluzioni, si esprime favorevole a un assedio di
«un quaranta o cinquanta dì ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da
guerra potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne
volesse uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un
subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per
accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne,
fanciulli, vecchi ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così
trovandosi i Pisani voti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o
quattro assalti sarìa impossibile che reggessero». Il 16 luglio 1499 si
presentò a Forlì alla contessa Caterina Sforza Riario, nipote di Ludovico il
Moro e madre di Ottaviano Riario, che era stato al soldo dei fiorentini, per
rinnovare l'alleanza e ottenere uomini e munizioni per la guerra pisana.
Ottenne solo vaghe promesse dalla contessa che era già impegnata a sostenere lo
zio nella difficile difesa del Ducato milanese dalle mire di Luigi XII e
dovette ripartire senza aver nulla ottenuto. Era nuovamente a Firenze in
agosto, quando le artiglierie fiorentine, provocata una breccia nelle mura
pisane, aprivano la via alla conquista della città, ma il Vitelli non seppe
sfruttare l'occasione e temporeggiò finché la malaria non ebbe ragione delle
sue truppe, costringendolo a togliere l'assedio. Invano ritentò l'impresa:
sospettato di tradimento, quello che «era il più reputato capitano d'Italia» fu
decapitato. Nessuna prova vi era che il Vitelli fosse stato corrotto dai
Pisani ma la giustificazione di M., a nome della Repubblica, in risposta alle
critiche di un cancelliere di Lucca, fu che «o per non havere voluto, sendo
corropto, o per non havere potuto, non avendo la compagnia, ne sono nati per
sua colpa infiniti mali ad la nostra impresa, et merita l'uno o l'altro errore,
o tuct'a due insieme che possono stare, infinito castigo». Conquistato il
Ducato di Milano, in risposta alla richieste fiorentine Luigi XII mandò suoi
soldati a risolvere l'impresa di Pisa le cui mura furono bensì abbattute nel
luglio del 1500 ma né gli svizzeri né i francesi entrarono in città anzi,
lamentando che Firenze non li pagasse, levarono l'assedio e sequestrarono il
commissario fiorentino Luca degli Albizzi, che fu rilasciato solo dietro
riscatto. A M., presente ai fatti, non restava che informare la Repubblica, che
decise di mandarlo in Francia, insieme con Francesco della Casa, per cercare
nuovi accordi che risolvessero finalmente la guerra di Pisa. Il cardinale
di Rouen Georges d'Amboise raggiunsero la corte francese a Nevers, presentando
al re e al ministro, cardinale di Rouen, le rimostranze per il cattivo
comportamento dei loro soldati; sapendo che Firenze non aveva al momento denari
sufficienti a finanziare l'impresa, invitarono Luigi a intervenire direttamente
nella guerra, al termine della quale la Repubblica avrebbe ripagato la Francia
di tutte le spese. Il rifiuto dei francesiche richiedevano a Firenze il
mantenimento degli svizzeri rimasti accampati in Lunigiana e minacciavano la
rottura dell'alleanzamise i legati fiorentini, privi di istruzioni dalla
Repubblica, in difficoltà, acuite dalla ribellione di Pistoia e dalle
iniziative che frattanto aveva preso in Romagna Cesare Borgia, i cui ambiziosi
e oscuri piani potevano anche indirizzarsi contro gli interessi
fiorentini. Occorreva, pagando, mantenere buoni rapporti con la
Franciascriveva da Tours il 21 novembree guardarsi dalle macchinazioni del
papa: così, ottenuto dalla Signoria il denaro richiesto dalla Francia, M.
poteva finalmente ritornare a Firenze. Quella lunga permanenza nella corte
francese verrà dislocata negli opuscoli De natura Gallorum, dove i francesi
verranno descritti come «humilissimi nella captiva fortuna; nella buona
insolenti più cupidi de' danari che del sangue vani et leggieri più tosto
tachagni che prudenti», con una bassa opinione degli Italiani, e nel successivo
Ritratto delle cose di Francia, dove, spostandosi su un piano d'analisi
prettamente politica, finisce col fare della Francia l'esemplare dello stato
moderno. Soprattutto egli insiste sul nesso fra la prosperità della monarchia e
il raggiunto processo di unificazione nazionale, sentito come la lezione
peculiare delle "cose di Francia". Cesare Borgia «Questo
signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è
sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai
si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne
possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha
cappati e' migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e
formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna» (M., Lettera ai Dieci) La
minaccia del Borgia si fece presto concreta: fermato dalle minacce della
Francia quando tentava d'impadronirsi di Bologna, si volse contro Piombino,
entrando nel territorio della Repubblica e cercando di imporle tributi, dai
quali Firenze fu nuovamente fatta salva dall'intervento di Luigi. Fra una
missione a Pistoia e un'altra a Siena, Niccolò ebbe tempo di sposare. Marietta
Corsini, donna di modesta origine, dalla quale avrà sei figli: Primerana,
Bernardo, Lodovico, Guido, Piero e Baccina. Padrone di Piombino il 3 settembre
1501, il Borgia, per mezzo del suo sodale Vitellozzo Vitelli s'impadronì di
Arezzo, dove si stabilì Piero de' Medici, poi delle terre di Valdichiana, di
Cortona, di Anghiari e di Borgo San Sepolcro e di lì passò a investire Camerino
e Urbino, chiedendo nel contempo di intavolare trattative con Firenze che, nel
frattempo, vistasi stretta dai due Borgia, padre e figlio, aveva rinnovato gli
accordi con la Francia. lo stesso giorno della caduta della città nelle
mani di Cesare, partirono per Urbino M. e il vescovo di Volterra, Francesco
Soderini, fratello di Piero: ricevuti, si sentirono ordinare di cambiare il
governo della Repubblica, pena la sua inimicizia. La crisi fu superata grazie
all'intervento delle armi francesi: avvicinandosi queste ad Arezzo, la città fu
sgomberata e restituita, insieme con le altre terre, ai Fiorentini. Riferimento
a questi casi è il breve scritto dell'anno successivo, Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati, nel quale, preso esempio dal comportamento
tenuto dagli antichi Romani in caso di ribellioni, rimprovera il governo
fiorentino di non aver trattato severamente la ribelle città di Arezzo. Pensa
che come i Romani «fecero giudizio differente per esser differente il
peccato di quelli popoli, così dovevi fare voi, trovando ancora nei vostri
ribellati differenza di peccati giudico ben giudicato che a Cortona,
Castiglione, il Borgo, Foiano, si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati
e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficii ma io non approvo che gli
Aretini, simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro. I
Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o
spegnere e che ogni altra via sia pericolosissima.» Di fronte a quelli
che apparivano tempi nuovi e tempestosi, nei quali occorreva che uomini capaci
prendessero pronte risoluzioni, come prima riforma nell'organizzazione dello
Stato fiorentino fu resa vitalizia la carica di gonfaloniere, affidata a Pier
Soderini, che appariva uomo accetto tanto agli ottimati che ai popolani. La
prima missione che egli affidò a M. fu quella di prendere nuovamente contatto
col Borgia il quale, formalmente capitano delle truppe pontificie e finanziato
da quello Stato, intendeva tuttavia agire nel proprio interesse e in quello
della sua famiglia, stringendo un nuovo patto col Luigi XII e ottenendone
libertà d'azione nei suoi piani di espansione, non solo nei confronti di
signorotti quali gli Orsini, i Baglioni e il Vitelli, già suoi alleati, ma
anche contro lo stesso Bentivoglio di Bologna. Seguendo la tradizionale
politica di alleanza con la Francia, Firenzepur diffidando del
Valentinointendeva confermargli la sua amicizia, per non essere investita dai
suoi aggressivi disegni. M. giunse a Imola dal Borgia il 7 ottobre,
confidandogli che Firenze non aveva aderito all'offerta di amicizia propostale
dagli Orsini e dai Vitelli, congiurati a Magione contro il duca Valentino, e ne
ricevette in cambio un'offerta di alleanza, alla quale Niccolò, affascinato
dalla figura di Cesare Borgia, guardava con favore più di quanto non facesse il
governo fiorentino. Fu al seguito del Valentino per tutta la durata di quei tre
mesi di campagna militare e, due ore dopo l'uccisione a tradimento di Vitellozzo
e di Oliverotto da Fermo, ne raccolse le parole «savie e affezionatissime» per
i Fiorentini, invitati nuovamente a unirsi a lui per avventarsi contro Perugia
e Città di Castello. Firenze, a questo punto, decise di mandare presso il
Borgia un ambasciatore accreditato, Jacopo Salviati, così che il nostro
Segretario lasciò il campo di Città della Pieve per fare ritorno a Firenze. Vitellozzo
Vitelli, ritratto da Luca Signorelli. «Vitellozo, Pagolo et duca di Gravina in
su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; et
Vitellozo disarmato, con una cappa foderata di verde, tucto aflicto se fussi
conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello huomo et
la passata sua fortuna, qualche ammirationeArrivati adunque questi tre davanti
al duca, et salutatolo humanamente, furno da quello ricevuti con buono volto Ma,
veduto il duca come Liverotto vi mancava adciennò con l'occhio a don Michele,
al quale lLeverotto era demandata, che provedessi in modo che Liverotto non
schapassi Liverotto havendo facto riverenza, si adcompagnò con gli altri; et
entrati in Senigagla, et scavalcati tutti ad lo alloggiamento del duca, et
entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni venuta la
nocte al duca parve di fare admazare
Vitellozzo e Liverotto; et conductogli in uno luogo insieme, gli fe'
strangolare Pagolo et el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino
che il duca intese che a Roma el papa haveva preso el cardinale Orsino,
l'arcivescovo di Firenze et messer Jacopo da Santa Croce; dopo la quale nuova,
a dì 18 di giennaio, ad Castel della Pieve furno anchora loro nel medesimo modo
strangolati» (M., Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello
ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca
di Gravina Orsini). La morte di Alessandro VI privò Cesare Borgia delle risorse
finanziarie e politiche che gli occorrevano per mantenere il ducato di Romagna,
che si dissolse tornando a frammentarsi nelle vecchie signorie, mentre Venezia
s'impadronì di Imola e di Rimini. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, M.
fu inviato a Roma per il conclave che il 1º novembre elesse Giulio II. Raccolse
le ultime confidenze del Valentino, del quale pronosticò la rovina imminente, e
cercò di comprendere le intenzioni politiche del nuovo papa, che egli sperava
s'impegnasse contro i Veneziani, le cui mire espansionistiche erano temute da
Firenze. O la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o fia la rovina
loro. A Roma gli giunse la notizia della nascita del secondogenito Bernardo:
«Somiglia voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero,
et è peloso come voi, e da che somiglia voi parmi bello», gli scrive la moglie
Marietta. E M., che lungamente in questo scorcio di tempo aveva frequentato la
casa del cardinal Soderini, al quale forse prospettò già il suo progetto di
costituire una milizia nazionale che sostituisse l'infida soldatesca
mercenaria, s'avvia per Firenze. In Francia Ingresso a Genova di
Luigi XII, Le fortune della Francia in Italia sembrarono declinare dopo la
cacciata dal Napoletano ad opera dell'armata spagnola di Gonzalo Fernández de
Córdoba. Firenze, alleata di Luigi XII, e timorosa delle prossime iniziative
della Spagna, del papa e della nemica tradizionale, la Siena di Pandolfo
Petrucci, era interessata a conoscere i progetti del re e a questo scopo alla
sua corte mandò M. «a vedere in viso le provvisioni che si fanno e scrivercene
immediate, e aggiungervi la coniettura e iudizio tuo». M. e a Milano per
conferire con il luogotenente Charles II d'Amboise, che non credeva in un
attacco spagnolo in Lombardia e rassicurò Niccolò sull'amicizia francese per
Firenze. Raggiunse la corte e l'ambasciatore Niccolò Valori a Lione,
ricevendo uguali rassicurazioni dal cardinale di Rouen e da Luigi stesso. In
marzo ripartiva per Firenze e di qui si recava per pochi giorni a Piombino da
Jacopo d'Appiano, per sondare la posizione di quel signorotto. È di questo
tempo la stesura del suo primo Decennale, una storia dei fatti notevoli occorsi
degli ultimi dieci anni volta in terzine: M. non è poeta, anche se invoca
Apollo nell'esordio del poemetto, ma a noi interessa il suo giudizio
sull'attualità della vicenda politica italiana e su quel che attende
Firenze: «L'imperador, con l'unica sua prole vuol presentarsi al
successor di Pietro al Gallo il colpo ricevuto duole; e Spagna che di Puglia
tien lo scetro va tendendo a' vicin laccioli e rete, per non tornar con le sue
imprese a retro; Marco, pien di paura e pien di sete, fra la pace e la guerra
tutto pende; e voi di Pisa troppa voglia avete. Onde l'animo mio tutto
s'infiamma or di speranza, or di timor si carca tanto che si consuma a dramma a
dramma, perché saper vorrebbe dove, carca di tanti incarchi debbe, o in qual
porto, con questi venti, andar la vostra barca. Pur si confida nel nocchier
accorto ne' remi, nelle vele e nelle sarte; ma sarebbe il cammin facile e corto
se voi el tempio riapriste a Marte» (Decennale primo) I tentativi
d'impadronirsi di Pisa fallirono ancora: battuta a Ponte a Cappellese il 27
marzo 1505, Firenze doveva anche guardarsi dalle manovre dei signori ai loro
confini. M. andò a Perugia l'11 aprile per conferire col Baglioni, ora alleato
con gli Orsini, con Lucca e con Siena, poi a Mantova, per cercare invano
accordi con il marchese Giovan Francesco Gonzaga e il 17 luglio a Siena. In
settembre, fallì un nuovo assalto a Pisa e M. ne trasse spunto per presentare
la proposta della creazione di un esercito cittadino. Rimasti diffidenti i
maggiorenti della cittàche temevano che un esercito popolare potesse costituire
una minaccia per i loro interessima appoggiato dal Soderini, M. si mosse per
mesi nei borghi toscani a far leva di soldati, istruiti «alla tedesca», e finalmente,
Firenze puo vedere la prima parata di una milizia «nazionale» che peraltro non
avrà nessun ruolo nella successiva conquista di Pisa e si rivelerà di scarso
affidamento nella difesa di Prato. Con la pace concordata con la Francia, la
Spagna, con Ferdinando II d'Aragona, aveva preso definitivamente possesso del
Regno di Napoli. I piccoli stati della penisola attendevano ora le mosse di
Giulio II, deciso a imporre la sua egemonia nell'Italia centrale: nel luglio,
il papa chiese a Firenze di partecipare alla guerra che egli intendeva muovere
al signore di Bologna, Bentivoglio, che era alleato, come Firenze, dei
francesi, e perciò teoricamente amico, oltre che confinante, dei Fiorentini. Si
trattava di temporeggiare, osservando gli sviluppi dell'impresa del papa al
quale fu mandato M., che lo incontrò a Nepi. Giulio II gli dimostrò di godere
dell'appoggio della Francia, che aveva promesso di inviare truppe in suo aiuto,
cosicché fu agevole a M. promettere aiuti a sua voltadopo però che fossero
arrivati quelli di re Luigie seguì papa Giulio che, con la sua corte curiale e
pochi armati se n'andava a Perugia, ottenendo, il 13 settembre, la resa senza
combattimento di Giampaolo Baglioni che, con stupore e rimprovero del M. e, un
giorno, anche del Guicciardini, non ebbe il coraggio di opporsi alle poche
forze allora a disposizione del Papa. La corte papale, dopo aver atteso a
Cesena fino a ottobre l'arrivo dei francesi e, dopo questi, dei Fiorentini di
Marcantonio Colonna, entrò trionfante a Bologna l'11 novembre. M., tornato a
Firenze già alla fine d'ottobre, s'occupò ancora dell'istituzione delle milizie
fiorentine: il 6 dicembre furono creati i Nove ufficiali dell'Ordinanza e
Milizia fiorentina, eletti dal popolo, responsabili militari della
Repubblica. In Germania Massimiliano I d'Asburgo Il nuovo anno si
apre con le minacce del passaggio in Italia del «Re dei Romani» Massimiliano,
intenzionato a ribadire le proprie pretese di dominio sulla penisola, a
espellere i francesi e a farsi incoronare a Roma «imperatore del Sacro Romano
Impero». Si valutò a Firenze la possibilità di finanziargli l'impresa in cambio
della sua amicizia e del riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica: fu
inviato a questo scopo l'ambasciatore Francesco Vettori e lo stesso M.. Giunse
a Bolzano, dove Massimiliano teneva corte, e le lunghe trattative sull'esborso preteso da
Massimiliano s'interruppero quando i Veneziani, sconfiggendolo più volte, gli
fecero comprendere la velleità dei suoi sogni di gloria. Da questa
esperienza M. trasse tre scritti, il Rapporto delle cose della Magna, compost il
giorno dopo il suo rientro a Firenze, il Discorso sopra le cose della Magna e
sopra l'Imperatore, del settembre 1509, e il più tardo Ritratto delle cose
della Magna, una rielaborazione del primo Rapporto. Rileva la grande potenza
della Germania, che «abunda di uomini, di ricchezze e d'arme»; le popolazioni
hanno «da mangiare e bere e ardere per uno anno: e così da lavorare le
industrie loro, per potere in una obsidione [assedio] pascere la plebe e quelli
che vivono delle braccia, per uno anno intero sanza perdita. In soldati non
spendono perché tengono li uomini loro armati ed esercitati; e li giorni delle
feste tali uomini, in cambio delli giuochi, chi si esercita collo scoppietto,
chi colla picca e chi con una arme e chi con un'altra, giocando tra loro onori
et similia, e quali tra loro poi si godono. In salari e in altre cose spendono
poco: talmente che ogni comunità si truova ricca in publico». Importano e
consumano poco perché «le loro necessità sono assai minori delle nostre», ma
esportano molte merci «di che quasi condiscono tutta la Italia [...] e così si
godono questa loro rozza vita e libertà e per questa causa non vogliono ire
alla guerra se non sono soprappagati e questo anche non basterebbe loro, se non
fussino comandati dalle loro comunità. E però bisogna a uno imperadore molti
più denari che a uno altro principe». Tanta forza potenziale, che potrebbe fare
la grandezza politica e militare dell'Imperatore, è limitata dalle divisioni
delle comunità governate dai singoli principi, una realtà simile a quella
italiana: nessun principe tedesco vuole favorire l'imperatore, «perché,
qualunque volta in proprietà lui avessi stati o fussi potente, è domerebbe e
abbasserebbe e principi e ridurrebbeli a una obedienzia di sorte da potersene
valere a posta sua e non quando pare a loro: come fa oggi il re di Francia, e
come fece già il re Luigi, quale con l'arme e ammazzarne qualcuno li ridusse a
quella obedienzia che ancora oggi si vede». La conquista di Pisa Decisa a
concludere le operazioni militari contro Pisa, Firenze mandò M. a far leve di
soldati: in agosto condusse soldati prelevati da San Miniato e da Pescia
all'assedio della città irriducibile. Riunite altre milizie, si incaricò di
tagliare i rifornimenti bloccando l'Arno; poi, il 4 marzo del 1509, andò prima
a Lucca a intimare a quella Repubblica di cessare ogni aiuto ai Pisani e, il
14, si recò a Piombino, incontrando gli ambasciatori di Pisa per cercare invano
un accordo di resa. Raccolte nuove truppe, in maggio era presente all'assedio:
Pisa, ormai stremata, trattava finalmente la pace. M. accompagnò i legati
pisani a Firenze dove fu firmata la resa e l'8 giugno poté entrare in Pisa con
i commissari Niccolò Capponi, Antonio Filicaia e Alamanno Salviati. Un ben
più vasto incendio era intanto divampato nell'Italia settentrionale: stipulata
un'alleanza a Cambrai, Francia, Spagna, Impero e papato si avventavano contro
la Repubblica veneziana che a maggio cedeva i suoi possedimenti lombardi e
romagnoli e, in giugno, anche Verona, Vicenza e Padova, consegnate a
Massimiliano. Firenze, da parte sua, doveva finanziare la nuova impresa
imperiale: consegnato un primo acconto in ottobre, M. era a Verona per
consegnare il saldo a Massimiliano, che era stato però costretto alla ritirata
dalla controffensiva veneziana, resa possibile dalla rivolta popolare contro i
nuovi padroni. E M. commentava dei «due re, che l'uno può fare la guerra e non
vuol farla, l'altro ben vorrebbe farla e non può», riferendosi a Luigi e a
Massimiliano che se n'era tornato in Germania a chiedere soldati e denari ai
principi tedeschi. Atteso inutilmente il ritorno dell'Imperatore, se ne
tornò a Firenze. Venezia si salvò soprattutto grazie alle divisioni degli
alleati: mentre Luigi XII aveva tutto l'interesse di ridurre all'impotenza
Venezia per avere le mani libere nella pianura padana, Giulio II la voleva abbastanza
forte da opporsi alla Francia senza averne contrasto alle proprie ambizioni di
espansione. Per Firenze, amica della Francia ma non nemica del papa, era
necessario spiegarsi con il re francese, e M. fu mandato a Blois, dove Luigi
teneva la corte, incontrandolo. M. confermò l'amicizia con la Francia ma
disse di dubitare che la Repubblica potesse impegnarsi in una guerra contro
Giulio II, in grado di volgere contro Firenze forze troppo superiori: meglio
sarebbe stata una mediazione che evitasse il conflitto e sottraesse, oltre
tutto, Firenze dalla responsabilità di un impegno nel quale era difficile
trarre un guadagno. Dovette tornare a Firenze il 19 ottobre, convinto che la
guerra fosse ineluttabile. Le vittorie militari non furono sfruttate da Luigi
XII e la sua indizione di un concilio a Pisa, che condannasse il papa, provocò
l'interdetto di Giulio II contro Firenze. Il 22 settembre 1511 M. era ancora in
Francia, ottenendo dal re soltanto un breve rinvio del concilio: dalla Francia
andò a Pisa e riuscì a ottenere il trasferimento del concilio a Milano.
Il ritorno dei Medici a Firenze Le fortune di Luigi XII volgevano al tramonto:
sconfitto dalla nuova coalizione guidata dal papa, era costretto ad abbandonare
la Lombardia, lasciando Firenze politicamente isolata e incapace di resistere
alle armi spagnole. Pier Soderini fuggì a Siena, i Medici rientrarono a
Firenze: disfatto il vecchio governo, anche M. venne rimosso dal suo incarico,
il successivo 10 novembre fu confinato e multato della grande somma di mille
fiorini e il 17 gli fu interdetto l'ingresso a Palazzo Vecchio.
Giuliano de' Medici duca di Nemours Il nuovo regime processò Pietro Paolo
Boscoli e Agostino Capponi, accusati di aver complottato contro Giuliano de'
Medici, condannandoli a morte. Anche M. è sospettato: arrestato il 12 febbraio
1513, è anche torturato (gli fu somministrata la corda o, com'era chiamata
allora a Firenze, la "colla"). Scrisse allora a Giuliano di Lorenzo
de' Medici duca di Nemours due sonetti, per ricordargli, ma senza averne l'aria
e in forma scherzosa, la sua condizione di carcerato: «Io ho, Giuliano,
in gamba un paio di geti e sei tratti di fune in sulle spalle; l'altre miserie
mie non vo' contalle, poiché così si trattano i poeti Menon pidocchi
queste parieti grossi e paffuti che paion farfalle, né mai fu tanto puzzo in
Roncisvalle o in Sardigna fra quegli arboreti quanto nel mio sì delicato
ostello» Giulio II moriva intanto proprio in quei giorni e dal conclave
uscì eletto l'11 marzo il cardinale de' Medici con il nome di Leone X: era la
fine dei pericoli di guerra per Firenze e anche il tempo dell'amnistia. Uscito
dal carcere, M. cercò di ottenere favori dai Medici attraverso l'ambasciatore
Francesco Vettori e lo stesso Giuliano, ma invano. Si ritirò allora nel suo
podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, tra Firenze e San
Casciano in Val di Pesa. L'esilio dalla politica. «Il Principe» Qui, tra
le giornate rese lunghe dall'ozio forzato, comincia a scrivere i Discorsi sopra
la prima Deca di Tito Livio che, forse nel luglio 1513, interrompe per metter
mano al suo libro più famoso, il De Principatibus, dal solenne titolo latino ma
scritto in volgare e perciò divenuto ben più noto come Il Principe. Lo dedica
dapprima a Giuliano di Lorenzo de' Medici e, dopo la morte di questi nel 1516,
a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero "fatuo"; ma il libro uscì solo
postumo, nel 1532. Certo, non doveva farsi illusioni che un Medici potesse mai
essere quel «redentore» atteso dall'Italia contro «questo barbaro dominio», ma
da un Medici si attendeva almeno la sua propria «redenzione» dall'inattività
cui era stato relegato dal ritorno a Firenze di quella famiglia. Sperava
che l'amico Vettori, ambasciatore a Roma, si facesse interprete del suo
desiderio che questi signori Medici mi cominciasseino adoperare», dal momento
«che io sono stato a studio all'arte dello stato e doverrebbe ciascheduno aver
caro servirsi d'uno che alle spese d'altri fussi pieno d'esperienza. E della
fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede,
io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré
anni che io ho, non debbe potere mutare natura; e della fede e bontà mia ne è
testimonio la povertà mia». Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci,
M. scrive al Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra
letteratura: L'Albergaccio di M. a Sant'Andrea in Percussina
«Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio
mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni
reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli
antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che
solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e
domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi
rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni
affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco
in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere
inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale,
e composto uno opuscolo de Principatibus» (Lettera a Francesco Vettori)
Ritornato il 3 febbraio 1514 a Firenze, continuò a sperare a lungo che il
Vettori, al quale spedì il manoscritto del Principe, lo facesse introdurre in
qualche incarico nell'amministrazione cittadina, ma invano. Tutto dipendeva
dalla volontà del papa, e Leone non era affatto intenzionato a favorire chi non
si era mostrato, a suo tempo, favorevole agli interessi di Casa Medici. M., da
parte sua, scriveva al Vettori di aver «lasciato i pensieri delle cose grandi e
gravi» e di non dilettarsi più di «leggere le cose antiche, né ragionare delle
moderne: tutte si sono converse in ragionamenti dolci». Si era infatti
innamorato di una «creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile e per
natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né tanto amarla che
la non meritasse più». La guerra, ripresa in Italia dalla discesa del
nuovo re di Francia Francesco I, si concluse nel settembre 1515 con la sua
grande vittoria a Marignano (oggi Melegnano) contro la vecchia «Lega santa»:
Leone X dovette accettare il dominio francese in Lombardia e la stipula a
Bologna di un concordato che riconosceva il controllo reale sul clero francese.
Si rifece impossessandosi, per conto del nipote Lorenzo, capitano generale dei
Fiorentini, del Ducato di Urbino. A quest'ultimo invano dedicava M. il suo
Principe: la sua esclusione dalla gestione degli affari di Firenze continuava.
Si diede a frequentare gli «Orti Oricellari», latineggiamento che indica i
giardini del Palazzo di Cosimo Rucellai, dove si riunivano letterati, giuristi
ed eruditi come Luigi Alamanni, Jacopo da Diacceto, Jacopo Nardi, Zanobi
Buondelmonti, Antonfrancesco degli Albizi, Filippo de' Nerli e Battista della
Palla. Qui vi lesse probabilmente qualche capitolo di quell'Asino, poemetto in
terzine che voleva essere una contaminazione fra l'Asino d'oro di Apuleio e la
Divina Commedia dantesca, ma che lasciò presto interrotto: e al Rucellai e al
Buondelmonti dedicò i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. M. si era già
cimentato, quando ricopriva l'incarico di segretario della Repubblica, in
composizioni teatrali: una imitazione dell'Aulularia di Plauto e una commedia,
Le maschere, ispirata a Nebulae di Aristofane, sono tuttavia perdute. Al 1518
risale il suo capolavoro letterario, la commedia Mandragola, nel cui prologo
egli inserisce un accenno autobiografico «scusatelo con questo, che
s'ingegna con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have dove voltare el viso; ché gli è stato interciso mostrar
con altre imprese altra virtue, non sendo premio alle fatiche sue.»
Intorno a quest'anno vanno collocate la traduzione dell'Andria di Terenzio e
stesura della novella di Belfagor arcidiavolo o Novella del demonio che pigliò
moglieil suo titolo preciso è attualmente stabilito in Favolail cui tema di
fondo è la visione pessimistica dei rapporti che legano gli esseri umani, tutti
intesi al proprio interesse a danno, se necessario, di quello di ciascun
altro. Il ritorno alla vita politica Lorenzo de' Medici morì, lasciando
il governo di Firenze al cardinale Giulio. Costui, favorevole a M., lo incaricò
della stesura di una storia della città sotto lauta retribuzione. M.,
galvanizzato dall'incarico, diede alle stampe l’Arte della guerra, dedicandola
allo stesso cardinal Giulio. Nello stesso anno fu inviato in missione
diplomatica a Carpi presso il governatore Francesco Guicciardini di cui, pur
avendo opposte visioni della Storia, divenne buon amico. Nel 1525 cercò di
guadagnare il favore di papa Clemente VII offrendogli le Istorie fiorentine.
Nel frattempo giunsero la revoca ufficiale dell'interdizione dalla vita
pubblica e l'affidamento di missioni militari in Romagna in collaborazione col
Guicciardini. I Medici furono
cacciati da Firenze e venne instaurata nuovamente la repubblica. M. si propose
come candidato alla carica di segretario della repubblica, ma venne respinto in
quanto ritenuto colluso coi Medici e soprattutto con papa Clemente VII. La
delusione per M. fu insopportabile. Ammalatosi repentinamente, cominciò a
peggiorare vistosamente fino alla morte. Abbandonato da tutti, fu sepolto nel
corso di una modesta cerimonia funebre nella tomba di famiglia nella basilica
di Santa Croce. La città di Firenze fece costruire un monumento nella basilica
stessa; esso raffigura la Diplomazia assisa su un sarcofago marmoreo. Sulla
lastra frontale sono incise le parole Tanto nomini nullum par elogium (Nessun
elogio sarà mai degno di tanto nome). Pensiero M. e il Rinascimento Con
il termine M.co si è spesso indicato un atteggiamento spregiudicato e
disinvolto nell'uso del potere: un buon principe deve essere astuto per evitare
le trappole tese dagli avversari, capace di usare la forza se ciò si rivela
necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Ciò si
accompagna a un travaglio personale che M. sentiva nella sua attività
quotidiana e di teorico, secondo una tradizione politica che già in Cicerone
affermava: "un buon politico deve avere le giuste conoscenze, stringere
mani, vestire in modo elegante, tessere amicizie clientelari per avere un'adeguata
scorta di voti". Con M. l'Italia ha conosciuto il più grande teorico
della politica. Secondo M. la politica è il campo nel quale l'uomo può mostrare
nel modo più evidente la propria capacità di iniziativa, il proprio ardimento,
la capacità di costruire il proprio destino secondo il classico modello del
faber fortunae suae. Nel suo pensiero si risolve il conflitto fra regole morali
e ragion di Stato che impone talvolta di sacrificare i propri princìpi in nome
del superiore interesse di un popolo. La politica deve essere autonoma da
teologia e morale e non ammette ideali, è un gioco di forze finalizzate al bene
della collettività e dello stato. La politica, svincolata da dogmatismi e
princìpi teorici, guarda alla realtà effettuale, ai "fatti": "Mi
è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa
piuttosto che alla immaginazione di essa". Si tratta di una visione
antropocentrica che si richiama all'Umanesimo quattrocentesco ed esprime gli
ideali del Rinascimento. Nel “Dialogo intorno alla nostra lingua” dà un
giudizio severo su Alighieri. Alighieri è rimproverato di negare la matrice
fiorentina della lingua della Commedia. Il passo assume i caratteri dell'invettiva
contro Aligheri, accusato di aver infangato la reputazione di Firenze:
«Alighieri il quale in ogni parte mostrò d'esser per ingegno, per dottrina et
per giuditio huomo eccellente, eccetto che dove egli hebbe a ragionare della
patria sua, la quale, fuori d'ogni humanità et filosofico instituto, perseguitò
con ogni spetie d'ingiuria. E non potendo altro fare che infamarla, accusò
quella d'ogni vitio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi
et delle legge di lei; et questo fece non solo in una parte de la sua cantica,
ma in tutta, et diversamente et in diversi modi: tanto l'offese l'ingiuria
dell'exilio, tanta vendetta ne desiderava. Ma la Fortuna, per farlo mendace et
per ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di quello, l'ha continuamente
prosperata et fatta celebre per tutte le province, et condotta al presente in
tanta felicità et sì tranquillo stato, che se Alighieri la vedessi, o egli
accuserebbe sé stesso, o ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia,
vorrebbe essendo risuscitato di nuovo morire. Poi, durante un altro
scambio immaginario con Aligheri, M.i rimprovera il carattere
"goffo", "osceno", addirittura "porco" del
registro utilizzato nell'Inferno: «Aligheri mio, io voglio che tu
t'emendi, et che tu consideri meglio il “parlare” fiorentino et la tua opera;
et vedrai che, se alcuno s'harà da vergognare, sarà più tosto Firenze che tu:
perché, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne' tuoi
versi non hai fuggito il goffo, come è quello: "Poi ci partimmo et
n'andavamo introcque"; non hai fuggito il porco, com'è quello:
"che merda fa di quel che si trangugia"; non hai fuggito
l'osceno, com'è: "le mani alzò con ambedue le fiche"; e
non avendo fuggito questo, che disonora tutta l'opera tua, tu non puoi haver
fuggito infiniti vocaboli patrii che non s'usano altrove che in quella» Autografo
delle Historiae Fiorentinae Per M. la storia è il punto di riferimento verso il
quale il politico deve sempre orientare la propria azione. La storia fornisce i
dati oggettivi su cui basarsi, i modelli da imitare, ma indica anche le strade
da non ripercorrere. M. si basa su una concezione ciclica della storia:
"Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi". Ma ciò
che allontana M. da una visione deterministica della storia è l'importanza che
egli attribuisce alla virtù, ovvero alla capacità dell'uomo di dominare il
corso degli eventi utilizzando opportunamente le esperienze degli errori
compiuti nel passato, nonché servendosi di tutti i mezzi e di tutte le
occasioni per la più alta finalità dello stato, facendo anche violenza, se
necessario, alla legge morale. Non a caso il Principe, nella conclusione,
abbandona il suo taglio cinico e pragmatico per esortare i sovrani italiani,
con una scrittura più solenne e venata di un certo idealismo, a riconquistare
la sovranità perduta e a cacciare l'invasore straniero. Non c'è rassegnazione
nel Principe, né tanto meno sfiducia nei confronti dell'uomo. La storia è il
prodotto dell'attività politica dell'uomo per finalità terrene esclusivamente
pratiche. Lo stato, oggetto di tale attività, nella situazione politica e nel
pensiero del tempo si identifica con la persona del principe. Di
conseguenza l'attività politica è riservata solo ai grandi protagonisti, ai
pochi capaci di agire, non al "vulgo" incapace di decisione e di
coraggio. L'obiettivo è creare o conservare lo stato, una creazione individuale
legata alle qualità e alla sorte del suo fondatore: la fine del principe può
determinare la fine del suo stato, come capitò ad esempio a Cesare Borgia. Il M.
ha dunque un'importanza fondamentale per la scoperta che la politica è una
forma particolare autonoma di attività umana, il cui studio rende possibile la
comprensione delle leggi da cui è perennemente retta la storia; da quella
scoperta discende, come suo naturale fondamento, una vigorosa concezione della
vita, incentrata unicamente sulla volontà e sulla responsabilità
dell'uomo. Una errata interpretazione del Novecento fece del M. un
precursore del movimento unitario italiano, ma la parola nazione ha assunto
l'attuale significato solo a partire dalla seconda metà del Settecento, mentre
il M. la usò in senso particolaristico e cittadino (es. nazione fiorentina o,
nel senso più generico di popolo, moltitudine). Tuttavia, M. propugna un
principato in grado di reggersi sull'unità etnica dell'Italia; così facendo, e
denunciando in tal modo una chiara coscienza dell'esistenza di una civiltà
italiana, M. predica la liberazione dell'Italia sotto il patrocinio di un
principe, criticando il dominio temporale dei Papi che spezzava in due la
penisola. Ma l'unità d'Italia resta in M. un problema solo intuito. Non
si può dubitare che avesse concepito l'idea dell'unità italiana, ma tale idea
restò indeterminata, poiché non trovò appigli concreti nella realtà, restando
perciò a livello di utopia, cui solo dava forma la figura ideale del principe
nuovo. M. dunque intraprese un viaggio che identificò come spirituale in giro
per il mondo. In seguito, tornato in patria, ebbe una nuova visione sia del
"popolo" che della "nazione" (di qui quello che oggi
definiamo rinnovamento culturale). Il principe o De Principatibus. Niccolò
M. nello studio, Stefano Ussi, Emblematico è il modo di trattare argomenti
delicati, quali le mosse necessarie al Principe per organizzare uno stato ed
ottenerne uno stabile e duraturo consenso. Per esempio vi troviamo indicazioni
programmatiche, quali l'utilità nello "spegnere" gli stati abituati a
vivere liberi di modo da averli sotto il proprio diretto controllo (metodo
preferito al creare un'amministrazione locale "filo-principesca" o al
recarvisi e stabilirvisi personalmente, metodo però sempre tenuto da conto in
modo da avere un occhio sempre presente sulle proprie terre, e stabilire una
figura rispettata e conosciuta in loco). Altro elemento caratteristico
del trattato sta nella scelta dell'atteggiamento da tenere nei confronti dei
sudditi, culminante nell'annosa questione del "s'elli è meglio essere
amato che temuto o e converso" La risposta corretta si concretizzerebbe in
un ipotetico principe amato e temuto, ma essendo difficile o quasi impossibile
per una persona umana l'essere ambedue le cose, si conclude decretando che la
posizione più utile viene ad essere quella del Principe temuto (pur ricordando
che mai e poi mai il Principe dovrà rendersi odioso nei confronti del popolo,
fatto che porrebbe i prodromi della propria caduta). Qua appare indubbiamente
la concezione realistica e la concretezza del M., il quale non viene a proporre
un ipotetico Principe perfetto, ma irrealizzabile nel concreto, bensì una
figura effettivamente possibile e soprattutto "umana".
Ulteriore atteggiamento principesco dovrà l'essere metaforicamente sia "volpe"
che "leone", in modo da potersi difendere dalle avversità sia tramite
l'astuzia (volpe) che tramite la violenza (leone). Mantenendo un solo
atteggiamento dei due non ci si potrà difendere da una minaccia violenta o di
astuzia. Spesso alla figura evocata dal Principe di M. viene associata la
figura di un uomo privo di scrupoli, di un cinismo estremo, nemico della
libertà. Inoltre gli viene erroneamente associata la frase "il fine
giustifica i mezzi", che invece mai enunciò. Questo perché la parola
"giustifica" evoca sempre un criterio morale, mentre M. non vuole
"giustificare" nulla, vuole solo valutare, in base ad un altro metro
di misura, se i mezzi utilizzati sono adatti a conseguire il fine politico,
l'unico fine da perseguire è il mantenimento dello Stato. M. nella
stesura del Principe si rifà alla reale situazione che gli si presentava
attorno, una situazione che necessitava essere risolta con un atto deciso,
forte, violento. M. non vuole proporre dei mezzi giustificati da un fine, egli
pone un programma politico che qualunque Principe che voglia portare alla
liberazione dell'Italia, da troppo tempo schiava, dovrà seguire. Fuori dai suoi
intenti una giustificazione morale dei punti suggeriti: egli stende un
vademecum necessariamente utile a quel Principe che finalmente vorrà impugnare
le armi. Alle accuse di sola illiberalità od autoritarismo, si può dare una
risposta leggendo il capitolo IX, "De Principatu Civili", ritratto di
un principe nascente dal e col consenso del popolo, figura ben più solida del
Principe nato dal consesso dei "grandi", cioè dei grandi proprietari
feudali. Non esiste un unico tipo di principato, ma per ognuno troviamo
un'ampia trattazione di pregi e dei difetti. Controversie sul Principe
«Quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori gli allor ne sfronda, ed
alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (Ugo Foscolo,
Dei sepolcri) La gelida obiettività e un certo cinismo con cui M. descriveva il
comportamento freddo, razionale ed eventualmente spietato che un capo di Stato
deve mettere in atto, colpì i critici. Così, da una parte vi è la linea di
pensiero tradizionale, secondo la quale "Il Principe" è un trattato
di scienza politica destinato al governante, che tramite esso saprà come
affrontare i problemi, spesso drammatici, posti dal suo ruolo di garante della
stabilità dello stato. Dall'altra, troviamo un'interpretazione secondo cui il
trattato di M., che era originariamente un repubblicano, ha come vero scopo
quello di mettere a nudo, e quindi chiarire, le atrocità compiute dai principi
dell'epoca, a vantaggio del popolo, che di conseguenza avrebbe le dovute
conoscenze per attuare le precauzioni al fine di stare in guardia e difendersi
quando si dimostra necessario. Il principe è visto anche come figura assai
drammatica, la quale, per il bene dello stato stesso, non si può permettere di
lasciare spazio al proprio carattere, diventando così quasi un uomo-macchina. Secondo
alcuni, M. venne in realtà accusato da subito di nicodemismo, e: «...di
non aver mirato ad altro, in quel libro, che a condurre il tiranno a
precipitosa rovina, allettandolo con precetti a lui graditi...»
(Attribuita a Niccolò M.[28]). M.smo § L'antiM.smo e il repubblicanesimo. Gli
esponenti di questa seconda interpretazione (la cosiddetta
"interpretazione obliqua", diffusa dal XVII secolo, e avanzata per la
prima volta da Alberico Gentili spirandosi a Reginald Pole, poi ripresa da
Traiano Boccalini e in seguito Baruch Spinoza)[31], furono numerosi soprattutto
in ambito illuminista (anche se venne rifiutata da Voltaire), che vedeva in M.
un precursore della politica laica e del repubblicanesimo: la sostennero, dal
Settecento, Jean-Jacques Rousseau[33], Vittorio Alfieri[34], Baretti, Galanti,
gli enciclopedisti (in primis Diderot[3 Opere: Discorso 8] edAlembert),
Foscolo e Parini[, e ha avuto diffusione soprattutto nell'Ottocento, prima e
durante il Risorgimento; ne è un esempio quello che Foscolo scrive nei
"Sepolcri": «Io quando il monumento / vidi ove posa il corpo di quel
grande / che temprando lo scettro a' regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle
genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue». Forse alcuni di essiad
esempio, per quanto riguarda Foscolo, è un'ipotesi alternativa di Spongano e
riportata anche da Mario Pazzagliaritenevano anche che, pur essendo Il principe
un'opera fatta per i tiranni e i governanti, fosse utile lo stesso per svelare
al popolo gli intrighi del potere, ritenendo valida l'interpretazione obliqua,
qualunque fossero le intenzioni di M.. In generale, per i sostenitori di questa
lettura, Il principe avrebbe, come le satire (ad esempio Una modesta proposta
di Swift), uno scopo opposto a quello apparente, come avverrà anche per alcuni
scritti di epoca romantica (Lettera semiseria di Grisostomo di Berchet o alcune
Operette Morali di Giacomo Leopardi). In epoca più recente, tuttavia,
nella maggioranza dei critici è prevalsa la prima interpretazione, quella
tradizionale, dal quale risalta la libertà e concretezza, anche spregiudicata,
del pensiero di M., che non descrive mondi utopici, ma il mondo reale della
politica dei suoi tempi,e la sua concezione anticipatrice del realismo politico
e della cosiddetta realpolitik. L'interpretazione obliqua è stata riproposta in
modo minoritario, ad esempio in alcuni monologhi del drammaturgo e attore Dario
Fo. Il modello linguistico prescelto da M. è fondato sull'uso vivo più che sui
modelli letterari; lo scopo, esplicito soprattutto nel Principe, di
scrivere qualcosa di utile e chiaramente espressivo lo induce a scegliere
spesso modi di dire proverbiali di immediata evidenza. Il lessico impiegato
dall'autore si rifà a quello boccacciano, è ricco di parole comuni e i
latinismi, seppure abbondanti, provengono per lo più dal gergo cancelleresco.
Nelle sue opere ricoprono un ruolo assai rilevante anche le metafore, i
paragoni e le immagini. La concretezza è una delle caratteristiche salienti,
l'esempio concreto ed essenziale, tratto dalla storia sia antica che recente, è
sempre preferito al concetto astratto. In generale si parla di uno stile
"fresco", come lo ebbe a definire il filosofo Nietzsche in Al di là
del bene e del male, con un riferimento particolare all'uso della paratassi, a
una certa sentenziosità delle frasi, costruite secondo un criterio di chiarezza
a scapito di un maggior rigore logico-sintattico. M. rende evidenti concetti
che, se espressi con un linguaggio più elaborato, sarebbero molto difficili da
decifrare, e riesce a esprimere le sue tesi con originale capacità
espositiva. Opere Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di
Pisa, Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, Descrizione del modo
tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da
Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, De natura Gallorum, Ritratto
delle cose di Francia, Ritratto delle cose della Magna, Il Principe, Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio, Dell'arte della guerra, La vita di
Castruccio Castracani da Lucca, Istorie fiorentine, )Riedizione Istorie
fiorentine, Venezia, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, Decennali
Mandragola, commedia teatrale Belfagor arcidiavolo, Epistolario, L'asino, Edizioni
critiche in pubblico dominio: Legazioni, commissarie, scritti di governo.
Chiappelli. Laterza, Roma-Bari. Drammaturgie minori Clizia, Andria,
traduzione-rifacimento dell'Andria di Terenzio. Alitalia gli ha dedicato uno
dei suoi Airbus Nella cultura di massa Il suo nome, modificato in
"Makaveli", venne usato dal rapper statunitense Tupac Shakur tper
firmare molte sue canzoni e un album uscito postumo. Niccolò M. viene proposto
anche nel videogioco Assassin's Creed 2 e il seguito Assassin's Creed:
Brotherhood, in veste di Assassino. Proprio in quest'ultimo assume un ruolo
particolarmente importante, insieme ad altri personaggi dell'Italia
rinascimentale. Niccolò M. è, assieme a John Dee, il principale antagonista
della serie di romanzi fantasy I segreti di Nicholas Flamel, l'immortale (come
capo dei servizi segreti francesi), scritta da Michael Scott. Nella mostra
"Il Principe di M. e il suo tempo" (Roma, Complesso del Vittoriano,
Salone Centrale, promossa dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana e dalla
sezione italiana di Aspen Institute, la sezione "M. e il nostro tempo: usi
e abusi" presenta, tra altre "opere", Figurine Liebig, pacchetti
di sigarette, schede telefoniche, trading card, cartoline, francobolli, giochi
da tavolo e videogiochi dedicati a M.. Nella serie I Borgia di Neil Jordan è
interpretato da Julian Bleach. Machiavel è una band belga, catalogabile sotto
il genere progressive rock. Il nome della band è un chiaro omaggio a Niccolò M.
Nella serie I Medici è interpretato da Vincenzo Crea, Edizione nazionale delle
opere Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò M., Salerno Editrice di
Roma: Il principe, Mario Martelli, corredo filologico Marcelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio,
Francesco Bausi, L'arte della guerra. Scritti politici minori, Masi, Marchand,
Fachard, Opere storiche, Alessandro Montevecchi,
Carlo Varotti, ITeatro.
Andria-Mandragola-Clizia, Pasquale Stoppelli,
Scritti in poesia e in prosa, Antonio Corsaro, Paola Cosentino, Rèndina,
Grazzini, Marcelli, coordinam. di Bausi,
ILegazioni, Commissarie, Scritti di governo, Jean-Jacques Marchand, Legazioni.
Commissarie. Scritti di governo, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, Jean-Jacques
Marchand, Matteo Melera-Morettini, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo Denis
Fachard, Emanuele Cutinelli-Rèndina, Legazioni. Commissarie. Scritti di
governo, Marchand, Guidi, Morettini, Legazioni.
Commissarie. Scritti di governo. Denis Fachard, Emanuele
Cutinelli-Rèndina, Legazioni. Commissarie.
Scritti di governo, Jean-Jacques Marchand, Andrea Guidi, Matteo
Melera-Morettini. La famosa frase
"Il fine giustifica il mezzo" (o "i mezzi"), usata spesso
come esempio di M.smo, è del critico letterario Francesco de Sanctis, con
riferimento ad interpretazioni fuorvianti del pensiero di M. espresso nel
Principe. Il passo di De Sanctis, dal capitolo XV della sua Storia della
letteratura italiana, dedicato a M., recita: "Ci è un piccolo libro del M.,
tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre
sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato
giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E
hanno trovato che questo libro è un codice di tirannia, fondato sulla turpe
massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l'opera. E hanno
chiamato M.smo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro
ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno
lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un M.
rimpiccinito". Celebrazioni per il
V centenario del Principe di M., Accademia della Crusca, Opera di Santa Maria
del Fiore, Libri dei battesimi: Niccolò Piero e Michele di m. Bernardo M.di
Santa Trinita, nacque a dì 3 a hore 4, battezzato a dì 4 Dal Villani, nella sua Cronica. In Discorsi
di Architettura del senatore Giovan Battista Nelli,La sua trascrizione del De
rerum natura è nel manoscritto Vaticano Rossiano L. Canfora, Noi e gli antichi, Milano Giovio,
Elogia clarorum virorum, 1546, 55v: «Constat a Marcello Virgilio graecae atque
latinae linguae flores accepisse» R.
Ridolfi, Lettera Riccardo Bruscagli, "M.". Il Senato romano fece
distruggere Velletri e indebolì Anzio sottraendole la flotta: cfr. Livio, "La
sua vicinanza a Pier Soderini, vexillifer perpetuus, si accentua
progressivamente in uno sforzo di sottrarre Firenze a un immobilismo indotto
dal timore di un potere esecutivo più forte e irrispettoso di una lunga
tradizione di libertà repubblicano-oligarchica": Grazzini, Filippo, Ante
res perdita, post res perditas: dalle dediche del Decennale primo a quella del
Principe, Interpres: rivista di studi quattrocenteschi:Roma: Salerno,. Lettera. È un'ipotesi del Ridolfi, cDiscorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, «Giovanpagolo, il quale non stimava essere
incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone
giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo,
e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a'
prelati quanto sia poco uno che vive e regna come loro. Ed avessi fatto una
cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da
quella potesse dependere» Nella sua
Storia d'Italia, il Guicciardini esprime lo stesso giudizio di M. Ritratto delle cose della Magna, in «Tutte le
opere storiche, politiche e letterarie. Lettera ai Dieci, Il carcere, la
tortura e il ritiro all'Albergaccio, su viv-it.org. Ottenendo un giudizio
evasivo: cfr. la lettera del Vettori Lettera a Francesco Vettori, David Quint, Armi e nobiltà: M., Guicciardini
e le aristocrazie cittadine, Cadmo, Studi italiani. De credulitate et pietate;
et an sit melius amari quam timeri, vel e contra. Il M.smo, su dizionariostoria.wordpress.com.
M.smo, Treccani, 2Citata in Niccolò M., Periodici Mondadori, A. Gentili, De
legationibus. R. POLE, Apologia ad Carolum V Caesarem de Unitate Ecclesiae che talvolta elogiarono però anche alcuni
consigli pragmatici dati al principe, come quello della religione come
instrumentum regnii; ad esempio Voltaire, nel capitolo Se sia utile mantenere
il popolo nella superstizione, del trattato sulla tolleranza, afferma
l'utilità, entro certi limiti, di una forma di religione razionale per il
popolo La fortuna di M. nei secoli, su
windoweb «M. era un uomo giusto e un buon cittadino; ma, essendo legato alla
corte dei Medici, non poteva velare il proprio amore per la libertà
nell'oppressione che imperava nel suo paese. La scelta di Cesare Borgia come
proprio eroe, ben evidenziò il suo intento segreto; e la contraddizione insita
negli insegnamenti del Principe e in quelli dei Discorsi e delle Istorie
fiorentine ben dimostra quanto questo profondo pensatore politico è stata
finora studiato solo dai lettori superficiali o corrotti. La Corte pontificia
vietò severamente la diffusione di quest'opera. Ci credo... in fondo, quanto
scritto la ritrae fedelmente. il libro dei repubblicani fingendo di dare
lezioni ai re, ne ha date di grandi ai popoli. Rousseau, Il contratto sociale. Dal
solo suo libro Del Principe si potrebbero qua e là ricavare alcune massime
immorali e tiranniche, e queste dall'autore son messe in luce (a chi ben
riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose ed avvedute crudeltà
dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarne...
all'incontro, il M. nelle Storie, e nei Discorsi sopra Tito Livio, ad ogni sua
parola e pensiero, respira libertà, giustizia, acume, verità, ed altezza
d'animo somma, onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell'autore
s'immedesima, non può riuscire se non un fuocoso entusiasta di libertà, e un
illuminatissimo amatore d'ogni politica virtù» (Del principe e delle lettere,) «Con quel libro, se la sapessimo tutta, egli
si pensò forse di pigliare, come si suol dire, due colombi ad una fava:
presentando dall'un lato a' suoi Fiorentini come schietta e naturale una
caricata e mostruosa immagine d'un sovrano assoluto, affinché si risolvessero a
non averne mai alcuno; e cercando dall'altro di tirare insidiosamente i Medici
a governarsi in guisa che s'avessero poi a snodolare il collo, seguendo i
fraudolenti precetti da lui con molta adornezza sciorinati in quella sua
dannata opera.» G. Galanti, Elogio di N.
M. cittadino e segretario fiorentino
Alessandro Arienzo, BORRELLI, Anglo-American Faces of M., Voce "M.smo"
dell'Encyclopedie Franco Ferrucci, Il
teatro della fortuna: potere e destino in M. e Shakespeare, Fazi Editore, Mario
Pazzaglia, Note ai Sepolcri, in Antologia della letteratura italiana, cfr.
l'inizio del Dialogo di Tristano e di un amico.
Introduzione a: ORIANI, M. //repubblica/rubriche/la-parola news/realpolitik
Realpolitik Video di Fo che parla di M.
(trasmissione tv Vieni via con me, su youtube.com. Il Principe di M. e il suo
tempo. Catalogo della mostra, Roma Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La su M. è sterminata. Tentativi di redigerla
sono stati realizzati da Achille Norsa, Il principio della forza nel pensiero
politico di M., seguito da un contributo bibliografico, Milano Silvia Ruffo
Fiore, M.: an annotated bibliography of modern criticism and scholarship, New
York‑Westport‑London; Daria Perocco, Rassegna di studi sulle opere letterarie
del M., in "Lettere italiane", Cutinelli‑Rendina, Rassegna di studi
sulle opere politiche e storiche di M., in "Lettere italiane", Nell'Istituto
della Enciclopedia Italiana Treccani ha pubblicato in 3 volumi l'opera M.:
enciclopedia M.ana. Di seguito una selezione di studi. Gilbert, M. e la vita
culturale del suo tempo, Bologna, Il mulino, LEFORT, Le travail de l'oeuvre M.,
Paris, Gallimard, Marchand, M.: I primi scritti politici Nascita di un pensiero
e di uno stile, Padova, Antenore, Riccardo Bruscagli, Niccolò M., Firenze, La
Nuova Italia editrice, Roberto Ridolfi, Vita di M., Firenze, Sansoni, CHABOD,
Scritti su M., Torino, Einaudi, John Greville Agard Pocock, Il momento M.ano:
il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone,
Bologna, Il mulino, Dionisotti, MACHIAVELLERIE, Torino, Einaudi, SASSO, M.: Il
pensiero politico; La storiografia,
Bologna, Il mulino (Napoli); Procacci, M. nella cultura europea dell'età moderna,
Roma-Bari, Laterza, Gennaro Sasso, M. e gli antichi e altri saggi, I-IV, Milano-Napoli,
Ricciardi, Viroli, Il sorriso di Niccolò, storia di M., Roma-Bari, Laterza, Cutinelli-Rendina,
Chiesa e religione in M., Pisa, Istituti editoriali e poligrafici
internazionali, Dotti, M. rivoluzionario: vita e opere, Roma, Carocci, Bausi, M.,
Roma, Salerno editrice, INGLESE, Per M.: l'arte dello stato, la cognizione delle
storie, Roma, Carocci, Corrado Vivanti, M.: i tempi della politica, Roma,
Donzelli, Andrea Guidi, Un segretario militante. Politica, diplomazia e armi
nel Cancelliere M., Bologna, il Mulino, Pedullà, M. in tumulto. Conquista,
cittadinanza e conflitto nei 'Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio',
Roma, Bulzoni,. William J. Connell, M. nel Rinascimento italiano, Milano,
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libertino in fuga. M. e la genealogia di un modello culturale, Roma, Donzelli, Ciliberto,
Niccolò M.. Ragione e pazzia, Roma-Bari, Laterza,. Altri contributi A.
Montevecchi, M., la vita, il pensiero, i testi esemplari, Milano E. Janni, M.,
Milano S. Zen, Veritas ecclesiastica e M., in Monarchia della verità. Modelli
culturali e pedagogia della Controriforma, Napoli, Vivarium (La Ricerca
Umanistica, Cosimo Scarcella, M., Tacito, Grozio: un nesso "ideale"
tra libertinismo e previchismo, in "Filosofia", Torino, Mursia, M.
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Tra realismo e utopia, Aracne, Roma, Ferri, L'opinione pubblica e il sovrano in
M., in «The Lab's Quarterly», Pisa. Giuseppe Leone, Silone e M.: una scuola...
che non crea prìncipi, Centro Studi Silone, Pescina. M. i Guicciardini, Lublin, Marietti, "M.:
l'eccezione fiorentina", Fiesole, Cadmo, Marietti, Machiavel, Paris, Payot
et Rivages, Enzo Sciacca, Principati e repubbliche. M., le forme politiche e il
pensiero francese del Cinquecento, Tep, Firenze Verrier, Sforza et M. ou
l'origine du monde, Vecchiarelli, Cutinelli-Rendina, Introduzione a M.,
Roma-Bari, Laterza, Lettera a Francesco Vettori Letteratura italiana Francesco
Guicciardini Teoria della ragion di Stato Istorie fiorentine Barbara Salutati M.smo.
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M. in Enciclopedia Italiana, Istituto
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Italiana, Franceschini, M. Enciclopedia dell'italiano, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, -. il Principe, ediz. Istorie fiorentine, ediz. Le
opere minori di M., su M..letteraturaoperaomnia.org. Opere di M. con giunta di
un nuovo indice generale delle cose notabili, Milano, per Silvestri, Rassegna
bibliografica degli studi M.ani: una ricognizione dei contributi scientifici
dedicati al M. negli ultimi decenni. Grice: “L. J. Cohen told me that he once asked for the
MS of The Prince at his college – and they told him: ‘We cannot find it!’ --. Niccolò di Bernardo dei Machiavelli. Niccolò
Machiavelli. Marchiavelli. Keywords: Livio, storia romana – H. P. Grice on the
history of England – Livio, storia romana –la storia romana come fonte
d’essempi nella filosofia romana --il principe, Macchiavelli fascista –
l’ossessione dal duce per Machiavelli, la dottrina fascista dello stato
machiavellico, impiegatura Machiavelli. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Machiavelli," per il club anglo-italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Machiavelli.
Luigi Speranza -- Grice e Macrobio: l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Adere al Platonismo. E
praefectus praetorio Hispaniarum, proconsole d’Africa, praepositus sacri
cubiculi, gran ciambellano. È ignota la patria di M. Certamente M.
dove essere legato da stretti rapporti alla famiglia dell’oratore Simmaco, a un
figlio o nipote del quale dedica un saggio. Scrive un commento al Sogno di
Scipione di CICERONE, che ci è giunto intero, e i Saturnalia,
lacunosi. Dal saggio "De differentiis et societatibus graeci
latinique verbi", Delle differenze e concordanze del verbo greco e
del latino," restano soltanto estratti, nulla può risultare
sull’argomento. Nel "Commento", dedicato al figlio Eustachio,
cerca d’interpretare in senso platonico il saggio di Cicerone, accumula molta
erudizione e perciò spesso si occupa di argomenti che poco hanno da fare col
suo oggetto. I frequenti riferimenti al "Timeo" e le lodi del
Platonismo -- Platone e Plotino sono chiamati, i principi della filosofia -- fa
supporre che Macrobio si sia servito di un commento platonico a quel dialogo,
probabilmente di quello di Porfirio, derivato in ultimo dal commento di
Posidonio.Si è anche pensato a una fonte latina intermedia e sulla questione
sono state presentate svariate ipotesi.In ogni caso, anche se non si giunge a
considerare Macrobio come un semplice trascrittore di una o due opere altrui,
che non mette nulla di suo, si può sospettare che non abbia letto i numerosi
autori che cita, Posteriori al Commento sembrano i Saturnali in 7 libri,
scritti prima della pubblicazione del commento virgiliano di Servio, pure
dedicati al figlio Eustachio, al quale volle presentare i risultati dei suoi
studi di autori di cui generalmente riprodusse le parole. Però cerca di organizzare
tali temi fingendo di riprodurre le conversazioni che, durante banchetti fatti
in occasione delle feste dei Saturnali, avevano tenuto persone insigni per
cultura su argomenti svariatissimi. Quest'opera, che e espressione del
genere letterario dei simposio o convito iniziato da Platone, contiene
materiali molto diversi, sia per il significato delle questioni trattate, che
per l’importanza delle notizie riferite. Macrobio cita numerose fonti, ma
non è sicuro che le conosca direttamente tutte, tanto più che non nomina quelle
di cui deve essersi servito più largamente, Plutarco ("Questioni
conviviali") e Aulo Gellio. I libri più significativi sono quelli
IV-VI, che riguardano VIRGILIO, di cui si esalta la universale e profonda
sapienza su ogni argomento. Le dottrine filosofiche che M. espone nel
commento al Scipione di Cicerone si conformano al Platonismo di
Plotino. Il divino o il buono, causa prima e origine di tutti gl'esseri,
che trascende il pensiero e il linguaggio umano, e l’intelletto (nous o mens)
che include in sè la idea o il modello originali della cosa.L’intelletto è poi
identificato alla monade o unità prima pensata col neo-Pitagorismo, non come
numero, ma come la sorgente e l’origine dei numeri. L’intelletto, a sua
volta, genera l’anima cosmica, identificata a GIOVE, che è principio di
vita per tutte le cose corporee che essa forma imprimendo nella materia
l’immagine dell'idea.Così una sola luce divina illumina tutte le cose, connesse
tra loro da vincoli reciproci e ininterrotti. Nei corpi del cielo e delle
stelle il principio animatore è una pura attività razionale.Nella filosofia
psicologico, M. dice che nell’uomo ad essa anima si uniscono l'anima sensitiva
e l'anima vegetativa, che sole si trovano negl'esseri
inferiori. Rispetto alla esistenza dell'anima, prima e dopo la sua unione
col corpo, alla sua discesa dal cielo e alla ascesa ad esso, È pp alla
reminiscenza, alla sorte che l’attende dopo la morte.Macrobio si conforma alle
dottrine che il Neo-Platonismo deriva dalla tradizione pitagorico-platonica e
che appartenevano al patrimonio comune della coscienza dell’età sua. Anche
per M. il corpo è un sepolcro dell'anima (soma sema), sicchè la filosofia deve
insegnare all'uomo a liberare l’una dai vincoli dell’altro.Perciò, riprendendo
la teoria plotiniana delle virtù, Macrobio pone su quelle politiche (dell’uomo
nella vita sociale) la virtu purgativa, che lo purificano dal contagio del
corpo, che sono proprie di chi vuole immergersi nella contemplazione
filosofica, quelle di chi ha raggiunto tale scopo, liberandosi completamente
dalle passioni e al di sopra di tutte, la virtù contemplativa
dell’intelletto. Il commento ha così trasmesso al pensiero medioevale la
conoscenza di numerose teorie platoniche e neo-platoniche, fra le quali ha
particolare importanza l’identificazione dell'idea a un pensiero divino. Ambrogio
Teodosio Macrobio. Macrobio raffigurato in una miniatura del Medioevo Ambrogio
Teodosio M. (in latino: Ambrosius Theodosius Macrobius) è un filosofo Italiano.
Studioso anche di astronomia, sostenne la teoria geo-centrica. Una pagina
dei Commentarii in Somnium Scipionis di M.. Della vita di Macrobio non si sa
molto e quel poco che è stato tramandato dai suoi contemporanei non è del tutto
affidabile. Così è dubbio se vada identificato con il M. che fu proconsole
d'Africa o col Teodosio prefetto del pretorio d'Italia, Africa e Illirico, identificazione
oggi condivisa dalla maggior parte degli studiosi. Due cose appaiono però certe
agli storici moderni: che M. nacque nell'Africa romana e che non professasse il
Cristianesimo (come creduto nel corso del Medioevo), ma fosse pagano.
Opere Lo stesso argomento in dettaglio: Saturnalia (M.). I Saturnalia, la
sua opera principale, sono un dialogo erudito che si svolge in tre giornate,
raccontate in sette libri, in occasione delle feste in onore del dio Saturno.
L'opera ha un carattere enciclopedico ed è centrata principalmente sulla figura
di VIRGILIO, anche se i suoi contenuti spaziano dalla religione alla
letteratura e alla storia fino alle scienze naturali. M. contribuì
significativamente all'esegesi dell' “Eneide” e dell'opera di Virgilio più in
generale. Inoltre è grazie a lui se ci sono pervenuti frammenti di vari autori
famosi, tra i quali spiccano Ennio e Sallustio, e se si è mantenuto il ricordo
di autori meno conosciuti come Egnazio e Sueio. Nei Commentarii in Somnium
Scipionis, partendo dal Somnium Scipionis di Cicerone, scrive un commentario in
due libri, dedicato al figlio Eustazio. In questi due libri emerge il pensiero
filosofico neoplatonico: Dio, che è origine di tutto ciò che esiste, crea la
mente (noûs), che crea l'«anima del mondo; a sua volta l'anima del mondo, a
poco a poco, volgendo indietro lo sguardo, essa stessa, incorporea, degenera
fino a diventare matrice dei corpi. M. compose anche un'opera grammaticale
dedicata al verbo greco e latino, De verborum graeci et latini differentiis vel
societatibus (titolo da preferire al più diffuso de differentiis vel
societatibus graeci latinique verbi, basato sia su fonti grammaticali come Apollonio
Discolo, Gellio, e una fonte utilizzata anche da Carisio e Diomede. L'opera
nella sua forma originale non si è conservata ma ne restano ampi estratti, i
più importanti dei quali sono quelli realizzati nel IX secolo molto
probabilmente ad opera di Giovanni Scoto Eriugena. Un altro gruppo di estratti,
più limitato ma testualmente molto valido, è conservato in alcuni fogli di un
manoscritto bobbiese scritto fra il VII e l'VIII secolo. Infine l'operetta
macrobiana è stata ampiamente utilizzata da un trattato grammaticale sul verbo
latino, composto forse in area orientale e tramandato anch'esso da un codice di
provenienza bobbiese. Tutte queste testimonianze ci consentono di farci un'idea
piuttosto precisa del contenuto della perduta trattazione macrobiana, che sembra
destinata, più che ad una utilizzazione scolastica, a fornire esempi e
discussioni erudite sul sistema verbale latino, utile soprattutto per un
lettore colto, in possesso di una buona formazione linguistica. Va inoltre notato
come questa sia in pratica l'unica opera latina dedicata esplicitamente ad
un'analisi sistematica del sistema verbale latino, che trova qualche analogia
solo in alcune sezioni della grammatica di Prisciano. Ampie parti dell'opera
furono citate in un manoscritto del IX secolo attribuito a Scoto Eriugena. Durante
il Medioevo Macrobio fu identificato come cristiano e per questo poté godere di
una buona reputazione, che gli permise di essere letto, studiato e citato dai
più illustri filosofi come Pietro Abelardo. Le sue opere furono copiate dagli
amanuensi nei monasteri e così non venne dimenticato, ma, terminato il
Medioevo, in un primo tempo non venne considerato dagl’umanisti, che poi invece
lo ripresero. Non ha avuto tuttavia grande considerazione nel XV secolo,
poiché, al Neoplatonismo, la maggior parte degli studiosi preferiva le opere di
Platone stesso. L'appartenere ad un periodo così tardo della storia antica non
gli ha mai giovato e solo oggi si sta riprendendo lo studio delle sue opere in
modo più approfondito, pur con meno intensità rispetto al Medioevo. In effetti
gli studiosi oggi non analizzano tanto l'opera di Macrobio per conoscerne e
apprezzarne il pensiero, ma cercano più che altro di dargli una datazione e
un'identità. Codice teodosiano. ^ P. De Paolis in Lustrum, Cicerone, De re
publica, lib. VI. ^ Macrobio Ambrogio Teodosio, su romanoimpero.com. In Somnium
Scipionis, Venetiis..., Per Augustinum de Zannis de Portesio : ad instantia Do.
Lucam Antonium de Giunta, 1513 Die xv. Iunii). M., Commento al sogno di Scipione,
testo latino a fronte, Saggio introduttivo di Ilaria Ramelli, traduzione,
bibliografia, note e apparati di Moreno Neri, Milano, Bompiani, Macròbio, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Alessandro Olivieri, MACROBIO, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ambrosius Theodosius Macrobius, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
(LA) Opere di M. su Musisque Deoque.
Opere di Ambrogio Teodosio Macrobio, su digilibLT, Università degli
Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di
Ambrogio Teodosio Macrobio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Ambrogio Teodosio Macrobio, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Pubblicazioni
di M. su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. Macrobio a Ravenna Internet Archive., su
patrimonioculturale.unibo.it V · D · M Grammatici romani V · D · M Platonici. Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Filosofia
Portale Letteratura Portale Lingua latina Categorie:
Scrittori romani Grammatici romani Funzionari romaniScrittori del V
secoloRomani del V secoloNeoplatonici. Macrobio is best known as the author of Saturnalia, a
semi-philosophical dialogue that covers a wide range of topics, although its
principal one is the poetry of Virgil. However, there are also some reflections
on religion and matters of psychology. More interesting philosophically is a
commentary he wrote for his son on the Dream of Scipio by Cicerone – an extract
from his Republic). In it Macrobio explores the nature of the soul, mainly from
the point of view of the Accademy. The ssoul’s immortality and divine nature
are discussed in the light not only of philosophy but also in that of the
science of his day. Ambrogio Teodosio
Macrobio. Keywords: Macrobio. The Swimming-Pool Library.
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