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Tuesday, January 28, 2014

La Rusalka di Dvorak

Speranza

Il finto scandalo della Rusalka
Luca Pavanel.

IL PIZZICO


Tra quattro anni, c’è quasi da scommetterci una bella somma.

Risentiremo parlare della "Rusalka", il melodramma di Antonin Dvořák che recentemente ha tanto indignato il popolo inglese della Royal Opera House di Londra, nella versione registica di Jossi Weiler e Sergio Morabito.

L’accusa degli spettatori e dei critici con pipe, bombette e bastoni, il giorno dopo amplificata dagli articoli apparsi sui giornali di mezzo mondo, è di quelle che possono traumatizzare l’uomo del Ventunesimo secolo: “Rappresentazione troppo sexy, troppo volgare!”.

Che “scandalo”, sembravano lamentarsi un po’ tutti, “un’amara scoperta”, “mai più una Prima così”.

A dirla tutta l’esecuzione musicale è stata giudicata di buon livello, ma per il resto… il mondo della lirica si è sentito per tre secondi contrito oltraggiato, colpito a morte (dalla pruderie?).

Ma non è tutto.

Sulla genesi della vicenda infatti, c’è qualcosa da aggiungere.

Lo si capisce al volo dalle ultime righe di gran parte dei resoconti sulla serata: la pièce finita nel mirino, spiegano i media, nel 2008 aveva già fatto bella mostra (e parlare) di sé al festival di Salisburgo, dunque luogo del suo vero debutto.

Come era andata?

A quanto pare come l’altra sera nella capitale anglossassone: fischi, buuuu, gente che al passo del leopardo lasciava la poltrona ruggendo un sonoro: “Che vergogna!!!”. Dopo la figuraccia, minimo il tutto avrebbe potuto o finire in soffitta oppure sì, restare in giro, ma certo non aspirare all’Olimpo dei teatri planetari, come l’Opera House appunto. E invece…

Ecco rispuntare la stessa ambientazione lirica.

Una storia tratta dalla favola di Hans Christian Andersen (adottata anche da Disney per il film La Sirenetta).

Uno spirito d’acqua si innamora di un principe…  Fiabesco.

Ma sul palcoscenico britannico in questione invece, mise trasparenti, sangue e, per citare il titolo di una canzone firmata dagli Squallor (l’italico gruppo di rock demenziale degli anni Settanta, ndr): “Sesso e carnazza”.

Notoriamente tutte cose che non interessano il pubblico.

Tanto che la notte all’opera ha registrato il sold out, gli astanti non hanno fatto altro che parlare dello show, l’evento chissà perché è finito sulla carta stampata globale e qui, se ne discute ancora, perché sulla nudità ostentata e quel che ne consegue si sa, l’inchiostro versato per lo scavo non è mai abbastanza.

E per non farsi mancare niente, lo spettacolo va in scena ancora.

Morale: proprio in fondo in fondo la “volgarità” – almeno qualche volta (mamma mia, che dio perdoni) non dispiace, nel privato più che nel pubblico, o chissà, forse il contrario.

Posto, ovviamente, che la parola ha un valore soggettivo, quando non c’è un evidente parere generale, qualcuno dice che siamo circondati dalla volgarità, che dunque fa parte della vita. O no?

Perciò quale scandalo è mettere in scena uno dei tanti riflessi della realtà, che coi suoi sinonimi alla fine ha mille nomi: oscenità, pacchianeria, rozzezza, trivialità, villania…

In qualunque modo la si chiami, l’altra sera ha fatto breccia.

Per carità, giusto criticare, fa parte del gioco, ma non censurare. Che sarebbe assai peggio di qualsiasi insulto.

E poi diciamola tutta: il Moloch del mercato – che vuol dire pubblico, incassi e pubblicità – non disdegna affatto questo genere di corto circuiti, anzi. E non c’è bisogno di Cassandra per sapere come andrà a finire: ri-troviamoci qui tra quattro anni, quando magari proprio a marzo saranno state riaccese per l’ennesima volta quelle “luci rosse“.

Allora quel che diceva quel diavolo di Oscar Wilde, che ben si sposa con la Rusalka, sembrerà, roba da tavole della legge: “Bene o male, purché se ne parli…”.

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