STORIA
DELLA
FILOSOFIA ROMANA
DI
, ADOLFO LEVI
501164
G. C. SANSONI - FIRENZE
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Printed in Italy
uu _____r__—mPt_r.
1949. Tip. L’Impronta S.p.A. - Firenze, Via Faenza, 54
A mia moglie
EMILIA PATRIZI
compagna incomparabile
nella vita
AVVERTENZA
Nel presente volume, che, salvo errore, è la prima
esposizione alquanto ampia della filosofia romana, si è
considerata questa per sè, mentre abitualmente è stata
trattata come un semplice aspetto di quella greca ; però, i
siccome la prima è strettamente collegata alla seconda, si }
è, nella introduzione, indicato quali rapporti esistano tra
lo svolgimento dell’una e quello dell’altra. Occorreva di-
stinguere i filosofi romani dai greci e la cosa non era
facile quando mancavano motizie precise, perchè i nomi pos-
sono ingannare : in tali casi si sono ricordati quelli che
portavano nomi romani, se non risulta che erano di stirpe
greca o appartenevano alla Grecia 0 al mondo ellenistico.
Errori possono essere avvenuti, ma era necessario adottare
qualche criterio generale.
Per motivi che si indicheranno in seguito, si è parlato
con una certa ampiezza (ove era possibile) della vita ©
della produzione letteraria di coloro che, filosofi veri e
propri o semplici cultori di filosofia, si sono interessati
delle ricerche di questa, però, per i secondi non si sono date
i notizie di tal genere a proposito dei personaggi più cono-
$ sciuti (imperatori, scrittori celebri).
| Il presente lavoro, che è un manuale, si vale assai lar-
gamente del risultato delle ricerche precedenti, soprattutto
în ciò che riguarda le informazioni biografiche e storico-
letterarie. Richiederebbe troppo spazio ricordare i nomi
degli autori di cui si è fatto uso, ma non si possono pas-
sare in silenzio il Pauly-Wissowa (e in particolare lo
studio delle opere di Cicerone compiuto da R. Philippson
e quello del concetto di bumanitas di Heinemann), lo
Schanz-Hosius (Storia della letteratura latina) e l’ inter-
pretazione del pensiero di Panezio e di Posidonio del già
ricordato Heinemann.
L'autore, convintissimo_che l’opera sua presenta nume-
rosi difetti, si augura che questo primo tentativo sia presto
sostituito da lavori migliori.
INTRODUZIONE
Prima di parlare in particolare della storia della
filosofia romana, è bene indicare le linee generali di
sviluppo che presenta.
Gli studi recenti tendono a modificare e a correggere
l’opinione, per molto tempo imperante, che la cultura
romana in generale sia, se non la semplice copia, almeno
la derivazione, priva di caratteri propri, di quella greca.
Infatti appare ormai chiaro che gli influssi ellenistici
hanno agito non sul yuoto, ma su un sostrato originario
preesistente, ossia che hanno reso possibile lo svolgi-
mento di tendenze antiche dello spirito romano. Questo
è, in ultimo, un nuovo esempio di un fatto che si pre-
senta abitualmente nello sviluppo culturale dei popoli,
perchè possono persistere e perpetuarsi soltanto quelle
forme di vita spirituale che corrispondono alle loro at-
titudini e tendenze proprie, mentre le altre ben presto
isteriliscono e spariscono. A maggior ragione queste cose
si possono ripetere a proposito del pensiero filosofico.
Se è vero che soltanto alcuni individui appartenenti
a certi popoli che posseggono una determinata cultura,
possono costruire una vera filosofia, consapevole delle
proprie esigenze e dei propri fini, organicamente arti-
colata e razionalmente giustificata, è pur vero che tutti
gli uomini vivono, anehe senza rendersene conto, la loro
filosofia, in quanto posseggono una particolare rappre-
sentazione della realtà, collegata principalmente con
le credenze religiose tradizionali, e prendono posizione
di fronte ai problemi della vita etico-pratica. Quando
questa filosofia implicita diventa esplicita per opera della
riflessione, può avvenire sia che le convinzioni primitive
siano giustificate, sia che, discusse e criticate, vengano
respinte; ma in ogni caso il pensiero riflesso si muove
entro la sfera degli interessi originari. Per questa ra-
gione lo spirito romano, essenzialmente religioso, nel
senso positivo della parola, e pratico, e perciò poco
8 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
inclinato alla speculazione pura, quando cominciò a co-
noscere la filosofia greca, si interessò delle ricerche che
essa aveva compiuto nella cerchia dell’etica, della poli-
tica, dello studio della vita sociale e delle dottrine re-
ligiose, molto più che delle costruzioni teoretiche che ne
costituiscono il fondamento. (È strano che coloro che
in questa limitazione di interessi vedono una prova di
inferiorità del pensiero romano lo accusino insieme di
mancanza di originalità). I sistemi filosofici che si co-
nobbero per primi a Roma, erano quelli che si erano
venuti formando e svolgendo nell’età ellenistica, sotto
l'influsso delle condizioni storiche che presentavano la
Grecia e l'Oriente ellenizzato e che, mirando essenzia!-
mente alla soluzione dl problema della vita, dovevano
suscitare il più vivo interesse tra i romani. La religione
ufficiale, quella della polis, non dominava più sugli
spiriti, mentre gli antichi ideali, che appunto nella città-
stato avevano il loro centro, si illanguidivano e si spe-
gnewano con la rovina della sua libertà e della sua po-
tenza. La mancanza di sicurezza di un'esistenza agitata
e minacciata da continui pericoli e che sembrava in
balìa della fortuna, da una parte aveva indotto una
cerchia ristretta di persone, appartenenti soprattutto
alle classi superiori, a cercare nella filosofia una maestra
e una guida nella vita che sostituisse le antiche credenze
religiose e le antiche idealità politico-sociali, dall’altra
aveva spinto masse assai più numerose, reclutate spe-
cialmente negli strati più umili della società, a volgersi
verso una fede diversa dalla tradizionale. Se la scuola
peripatetica antica si indirizzò sempre più verso la spe-
cializzazione di ricerche scientifiche riguardanti il mondo
della natura e quello dell’uomo, i più potenti indirizzi
filosofici dell’età ellenistica, lo Stoicismo e l'Epicureismo
(che furono anche î primi conosciuti e i più seguiti
in Roma), mirarono essenzialmente al conseguimento di
un fine etico-pratico, la determinazione e il possesso
del sommo bene, cioè alla soluzione del problema della
vita, e cercarono di liberare gli animi dalle preoccupa-
zioni prodotte dalla convinzione che le cose umane
IN het — di
È
INTRODUZIONE
sono in balìa della 75yn (0 fortuna), il cui culto si era
largamente diffuso in quell'epoca, e dalla credenza
astrologica di origine babilonese che i corpi celesti, e
soprattutto i sette pianeti, sono strumenti del destino
e governano in modo inesorabile le sorti dell’uomo.
Per lo Stoicismo l’eimarmene o il fato è insieme la legge
divina, eterna e necessaria delle cose e degli accadimenti,
e la Provvidenza, per cui tutto è rivolto verso un fine,
il bene dell’universo e dell’uomo, sicchè il sapiente deve
accordare la propria condotta con quella legge, per con-
seguire la felicità. L'Epicureismo nega l’esistenza del
fato e introduce un principio di contingenza nei movi-
menti elementari degli atomi col clinamen. In ambedue
le scuole, la filosofia generale (logica, ineludente la
teoria della conoscenza e fisica, di cui era una parte
la teologia) costituiva il fondamento di un’etica destinata
ad assicurare all’uomo la felicità per mezzo dell’apatia
(assenza di passione) nello Stoicismo, della atarassia
(imperturbabilità dell'anima) nell’Epicureismo. Lo scet-
ticismo di Pirrone intende di far raggiungere l’atarassia
e la felicità con la sospensione del giudizio (epochè) per
cui l’uomo si astiene dall’attribuire diverso valore alle
cose. Anche nelle sue fasiì posteriori le preoceupazioni
pratiche permangono nello Scetticismo : quando esso
penetra nel Platonismo con la Media e Nuova Accade-
mia, cerca di provare con Arcesilao che l’eulogon (ciò
che è ragionevole) con Carneade che il mdavby (il pro-
babile) basta a determinare l’azione ; e allorchè Enesi-
demio ritorna alla posizione di Pirrone, ripete con lui
che il dubbio permette di conseguire la felicità e l’ata-
rassia. Allo stesso fine mira anche il Cinismo che, a
partire da Diogene, si interessò sempre ed esclusiva-
mente dei problemi etico-pratici, per la trattazione
dei quali si valse, nell'età ellenistica, di composizioni
letterarie. popolari e perciò accessibili ad un pubblico
estesissimo : la diatriba (destinata ad esercitare un in-
flusso fortissimo non solo sulla filosofia, specialmente
stoica, ma anche sulla letteratura generale), rappresen-
tata da Dione di Boristene, e la satira menippea, mista
| 10 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
di prosa e di versi, di serio e di faceto, creata da Me-
nippo di Gadara. Il Cinismo ellenistico conserva del-
l'antico il disprezzo della scienza e la negazione della
cultura tradizionale in nome del ritorno alla natura,
ma unisce a ciò una profonda svalutazione della vita,
che è piena di dolori e che per la sua continua instabilità,
non merita di esser presa sul serio e viene assomigliata
a un gioco che si deve prendere come tale : la felicità
consiste nell’accontentarsi della propria sorte e nel rap-
presentare bene la parte assegnata dalla Fortuna.
Tutte queste filosofie, collegando individualismo ©
cosmopolitismo, si rivolgono all'uomo in quanto è cit-
tadino del mondo. Rapidamente quasi tutti questi in-
dirizzi attenuano i contrasti primitivi e assumono ca-
rattere eclettico. La critica scettica della Nuova Acca-
d>mia si era largamente servita delle divergenze delle
d'verse scuole per giustificare i suoi dubbi sulla possi-
bilità di una conoscenza certa ; ciò indusse i rappresen-
tanti di esse, ad eccezione dell’Epicureismo, che rimase
sempre stretto all’ortodossia, ad avvicinarsi reciproca-
mente e ad accettare dottrine di altri indirizzi per to-
glier forza a quell’argomento. Questo eclettismo era reso
più facile dal fatto che nel campo dell’etica, cioè della
disciplina che interessava più delle altre, le diverse
scuole potevano riconoscere di trovarsi su un terreno in
gran parte comune. I Romani, poi, erano portati dalle
loro tendenze pratiche verso l’eclettismo ; perciò i mae-
stri greci sentirono il bisogno di soddisfare tali esi-
genze per meglio agire sullo spirito dei loro nuovi di-
scepoli. Lo Stoicismo Medio, con Panezio e con Posi
donio, accettò insegnamenti platonici € peripatetici.
L'Accademia, ritornata in parte al dogmatismo con Fi,
lone di Larissa e interamente con Antioco di Ascalona,
gi appropriò dottrine peripatetiche e soprattutto stoiche.
Il Neo-Pitagorismo procedette pure ecletticamente. An-
che la scuola peripatetica in quest'epoca, sebbene si
dedicasse a ricerche specializzate, soprattutto nello stu-
dio della realtà naturale, contò alcuni rappresentanti
che accordarono il predominio alla filosofia etico-pratica
|
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INTRODUZIONE
e diedero al loro insegnamento un certo carattere eclet-
tico.
Ma nelle sfere più vaste degli uomini, la soluzione del
problema della vita e del destino sì ricercava in credenze
religiose diverse dalle tradizionali e specialmente nei
; culti orientali, che si espandevano sempre più nel mondo
| ellenistico, e soprattutto nelle religioni dei misteri, sia
| greci che orientali, che appagavano i bisogni più urgenti
\ di quell'età. Infatti esse, che avevano carattere inter-
nazionale e si rivolgevano a tutti, senza distinzioni di
stirpe, di nascita e di classe sociale, erano religioni di
purificazione e di redenzione e coi loro riti ascetici cor-
rispondevano alle tendenze di quegli uomini disgustati
del nostro mondo, oppressi dal senso della colpa e del
peccato, anelanti a un’esistenza diversa e superiore. Nella
forma più completa (che si incontra in certe religioni
dei misteri e in alcune dottrine gnostiche posteriori)
queste credenze ammettono che al di sopra del nostro
mondo sublunare, diretto dalla fortuna, e delle sfere
dei pianeti, governate dal destino, esiste la regione della
Divinità suprema, ove si incontrano il vero essere e la
libertà ; e l’anima umana, che è un effluvio delle stelle
perchè proviene da essa Divinità, quando si sarà sepa-
rata dal corpo, potrà, dopo avere attraversato le sfere
planetarie, congiungersi col suo principio. Per prepa-
rarsi a questo viaggio, deve condurre una vita di ri-
nunce, di purificazioni, di iniziazioni che le permette-
ranno di comunicare intimamente con Dio. Queste re-
ligioni si fondano su verità occulte, riguardanti in prima
linea la Divinità, e quindi il mondo e l’uomo, rivelate
da un Dio in tempi antichissimi, verità che costituiscono
la base dei riti iniziatori purificatori : per conseguire
la redenzione e la salvezza occorre possedere la cono-
scenza delle prime e dei secondi. Si può dire perciò,
che anche le religioni dei misteri appartengono allo
gnosticismo se si intende questo in un senso più ampio
di quello abituale, che designa con tale parola un gruppo
di eresie sorte entro il cristianesimo primitivo. Così,
quelle intuizioni della corrente orfico-pitagorica che
12 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Platone aveva elaborato filosoficamente e che Aristotele
aveva accolto nella teoria dell'intelletto attivo che entra
dal di fuori nell’uomo ed è indipendente dal corpo, ora
riprendono l’originario carattere mistico-religioso.
Sebbene queste correnti religiose dovessero diffon-
dersi largamente nel mondo occidentale soltanto nel-
l’età dell'impero, agirono però fortemente alla fine della
repubblica su Posidonio, che, al pari del suo maestro
Panezio, richiede qualche cenno a parte. Infatti, ambe-
due influirono profondamente sulla filosofia romana e
Posidonio lasciò una incancellabile impronta nel pen-
siero speculativo e religioso posteriore, preludendo al
Neo-Platonismo.
La presentazione del pensiero di Panezio e di Posi-
donio suscita difficoltà gravissime, perchè le loro opere
sono scomparse sicchè occorre ricostruirne le dottrine
per mezzo delle tracce che si ritiene abbiano lasciato
negli scritti di autori posteriori. Le difficoltà sono ae-
eresciute nel caso di Posidonio dal fatto che egli ri-
tornò a teorie dell’antico Stoicismo abbandonate da
Panezio, sicchè può nascere il dubbio che non da lui,
ma da altre fonti mediatrici provengano certe teorie che
gli si attribuiscono.
Quanto a Panezio, sembrano accettabili i risultati
di recenti ricerche che, attribuendogli teorie esposte da
Cicerone nel De natura Deorum, gli assegnano una con-
cezione del reale che è in pieno accordo con la visione
della vita che è esposta nel De officiis. La Divinità, iden-
tificata al cosmo, appare una forza vitale e organizza-
trice, razionale (qualcuno dice non pensante), dalla
quale provengono tutti gli esseri individuali, che di-
versi tra loro non per natura, ma per differenze graduali,
compiono le funzioni loro proprie in modo tale che,
mentre conservano se stessi contribuiscono alla conserva-
zione dell’universo. È certo che Panezio abbandonò
molte dottrine importanti dell'Antico Stoicismo (la ne-
cessità del fato, la simpatia universale delle cose, la di-
vinazione, la conflagrazione periodica dell’universo, l’im-
mortalità delle anime), cioè, quelle concezioni che non
_.
“
INTRODUZIONE
sì accordavano col suo rigoroso immanentismo natu-
ralistico. Si può ritenere sicuro che da lui Q. Mucio Sce-
vola l’Augure e Varrone derivarono la distinzione di
tre teologie: quella mitica dei poeti che rappresenta
gli Dei come inferiori agli uomini onesti, quella fisica o
naturale (l’unica vera, ma non adatta al popolo) e quella
politica costituita dal culto. Identificando la Divinità
a una forza vitale organizzatrice, Panezio non poteva
ammettere doveri verso gli Dei. Gli uomini si distin-
guono dagli animali perchè posseggono la ragione, men-
tre in questi si trovano soltanto impulsi irrazionali,
però è dubbio che in essi e nelle piante Panezio ammet-
tesse qualche cosa di simile al Logos. Secondo un testo
di Cicerone, Panezio avrebbe distinto nell’anima una
parte razionale e una irrazionale ; e a lui viene riferito
un altro passo ciceroniano in cui si parla della ragione
(ratio) e dell'impulso (6g) che deve essere subordinato
alla prima. Abitualmente si crede che con Platone @
Aristotele egli accettasse effettivamente l’esistenza di
una parte irrazionale dell'anima; però vi è chi ritiene
che Cicerone riproducesse poco esattamente il suo per-
siero e che Panezio si limitasse ad affermare, contro
Crisippo, ma in accordo con lo stoicismo più antico,
che esiste una forza o attività psichica irrazionale diversa
dalla razionale, sicchè non si dovrebbe parlare di plato-
nismo. Secondo l'opinione predominante, Panezio a-
yrebbe abbandonato l’ideale stoico del sapiente ideale e
delle azioni rette (xatopdopata), o doveri perfetti
(xa8ixovra 7ÉXe12) che compie naturalmente, grazie
alla scienza che possiede, e si sarebbe invece occu-
pato dei doveri semplici (xe9xovra : meglio, azioni
convenienti) di coloro che progrediscono sulla via della
virtù, mitigando così il rigorismo della sua scuola.
Altri invece sostiene che avrebbe soltanto pensato che
il sapiente è un ideale che si realizza assai raramente,
e che si sarebbe allontanato dai suoi predecessori esclu-
sivamente in quanto avrebbe accordato maggior valore
di loro alle azioni che compie l’uomo non perfetto,
ma buono, grazie alla ragione naturale (e non educata
14 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
scientificamente), che la sua scuola sino allora aveva
trascurato.
Tra i doveri più importanti sono quelli che riguardano
la società, che Panezio, svolgendo una tesi presentata
già da Crisippo, fa derivare da un impulso della natura
che ha creato gli uomini uguali e ha generato gli uni
per gli altri. Mentre lo Stoicismo precedente aveva con-
siderato soltanto il dovere della giustizia, Panezio ac-
centua anche quello dell'amore, anzi parla di ciò che
Cicerone denominerà poi caritas humani generis. Il testo
in cui ne parla deriva da Antioco, ma è probabile (seb-
bene ciò sia stato negato) che provenga da Panezio.
Queste teorie avevano per fondamento un ideale della
vita che esigeva il libero e armonico sviluppo delle
attività spirituali (condizionato dal predominio della ra-
gione sugli impulsi animali), conforme al modello del-
l'uomo in generale e altresì alle attitudini proprie di
ciascun individuo ; in tal modo la vita doveva assumere
l'aspetto unitario di un’opera d’arte e il bene si identi-
ficava col bello. Il bello morale (xaA6v) si esprimeva
esteriormente come tpértov (il conveniente, l’adeguato),
manifestazione ad altri di una struttura spirituale uni-
taria, corrispondente ai modelli indicati. Così Panezio
applicava alla vita morale quel concetto del rpi7ov che
senza dubbio occupava un posto centrale nella sua
estetica (specialmente come corrispondenza delle grazie
e delle parole ai caratteri) e che costituiva la continua-
zione di un vasto movimento di pensiero di teorici e di
critici, risalente al 5° secolo a. C. Dell'ideale della vita
di Panezio si parlerà più ampiamente trattando del con-
cetto ciceroniano di humanitas che ne deriva. Ora basta
osservare che egli negando l’immortalità dell'anima, pre-
scindeva da ogni sanzione ultra-terrena della condotta,
che si fondava soltanto sulle esigenze del valore proprio
dell’uomo quale essere razionale. La sua concezione
organicistica della realtà permetteva allo Stoico di
Rodi di conciliare egoismo e altruismo, individualismo
e universalismo in una visione della vita in cui l’essen-
ziale unità della natura umana e la comunione degli
ì. dl
INTRODUZIONE 15
interessi collegano gl’individui, generati gli uni per gli
altri. in una società in cui ciascuno, mentre compie
una propria funzione, coopera all’armonia del tutto e
così, pur conseguendo la propria utilità, realizza quella
di tutti. Da ciò segue che nessuno deve ricercare il pro-
prio vantaggio col danno altrui, perchè per questa ra-
gione, il vero utile coincide con ciò che è eticamente
pregevole. In tal modo Panezio poteva dar ragione del-
l'origine dello stato (inteso come una associazione di
uomini governati dalla legge per il conseguimento della
propria utilità) col motivo utilitaristico che il diritto
ha l’ufficio di garantire la proprietà privata, pure po-
nendo come suo ultimo fondamento un impulso naturale
verso la comunione sociale. Ma lo stato ideale di Pa-
nezio è universale come per i suoi predecessori ; infatti
dall’uguaglianza di tutti gli uomini deriva il cosmopo-
litismo, sebbene egli giustifichi l'imperialismo romano
coi benefici che arreca ai popoli soggetti.
Panezio aveva dato alle sue dottrine una larga base
di ricerche empiriche riguardanti sia il mondo naturale
che quello umano ; tali ricerche furono immensamente
ampliate dal suo discepolo Posidonio (che sotto un
certo rispetto fu avvicinato ad Aristotele), che su di
esse fondò un sistema panteistico che, a quanto sembra,
collegava dottrine filosofiche e credenze religiose at-
tinte a fonti svariatissime, orientali e greche e giustap-
poneva razionalismo e un misticismo di tendenze oc-
cultistiche e superstiziose, speculazione e ricerca em-
pirica. Posidonio ritorna in complesso allo Stoicismo
Antico e al suo universalismo e raccoglie di nuovo
quasi tutte le teorie respinte dal maestro, di cui conserva
però la distinzione di una credenza filosofica e di una
popolare e la tesi che l’anima include, con la razionale,
una parte irrazionale. Nel suo sistema, in cui al monismo
di origine stoica si intrecciano motivi dualistici deri-
vati da Platone (e quindi dal misticismo orfico pitago-
rico) e da Aristotele, l'universo è una struttura unitaria,
in quanto manifestazione di un unico principio divino,
in cui si scende gradatamente dalla Divinità (il superor-
16 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
ganico) all’organico e all’inorganico. La Divinità su-
prema è un fuoco o pneuma che include in sè una forza
razionale, è cioè il demone o il logos universale (di cui
partecipano gli Dei singoli e le anime umane); nello
stesso tempo quella forza è principio di vita e di orga-
nizzazione per le cose che essa percorre e che congiunge
con un vincolo di simpatia universale : essa ha per sor-
gente il sole da cui proviene ogni vita e ogni anima ra-
zionale.
Già qui si rivela una contrapposizione dualistica
della forza razionale di cui partecipano gli Dei e gli
uomini, così congiunti in uno stato o società unica,
e le cose che ne derivano sulle quali essa, come pneuma,
agisce in misura decrescente e questo dualismo si ac-
centua nella rappresentazione di un universo in cui,
come in quello di Aristotele, si distinguono il mondo
celeste, che sta sopra la luna, eterno e imperituro, e
quello terrestre sublunare, mortale e corruttibile.
Un nesso fra essi è l’uomo che col corpo e con la
parte irrazionale dell'anima appartiene al secondo, con
quella demoniaca e razionale al primo. Nell’anima Po-
sidonio distingue con Platone e Aristotele, una parte
(o meglio forza, attività) razionale e una irrazionale,
suddivisa col primo in una impulsiva (rivolta al dominio)
e una desiderativa (rivolta al piacere) ; da esse, se non
obbedisce alla ragione, provengono le passioni (m497).
Queste attività irrazionali sono determinate dalle condi-
zioni del corpo ; e al pari di quella razionale, sono diversi
poteri di uno stesso essere (Aristotele). Applicando al
mondo il principio dei passaggi graduali, accoglie la
teoria platonica dei demoni intermediari e pone tra la
Divinità suprema e l’uomo, spiriti superiori a questo,
i demoni e gli eroi, e così apre la via alla demonizza-
zione della religione. È dubbio come Posidonio inten-
desse la sopravvivenza dell'anima razionale, ma proba-
bilmente ammetteva non una immortalità illimitata, ma
come lo Stoicismo in generale, una vita che si prolunga
sino alla conflagrazione del cosmo che dovrà riassor-
birla nel logos universale. Però, se Posidonio pensa che
bo
INTRODUZIONE 17
questa vita sia una preparazione quella celeste, su-
periore e più felice, non propugna una dottrina ascetica,
perchè ritiene che la prima debba condurre alla seconda.
Le anime razionali umane che provengono dalla sfera
celeste, sebbene materiali come vuole lo Stoicismo, sono
incomparabilmente superiori ai corpi che lo includono
e sono un ostacolo per lo sviluppo delle loro attività
conoscitive. L'uomo deve proporsi in terra come fine
la buona condizione del suo demone (eudemonia), la
quale dipende dal dominio sulle attività irrazionali e
include la conoscenza della verità e dell’ordine dell’uni-
verso, e la sua applicazione pratica, in cui consiste la
moralità, esplicantesi nell'amore di sè, quale vero io 0
logos, e nell'amore degli altri, uguali ad esso nella loro
essenza razionale. Questo amore (che collega gli Dei con
gli uomini, perchè tutti sono come membra di un solo
organismo) implica soprattutto la partecipazione alla
vita sociale. Il sapiente (che è tale in quanto possiede
un sapere, oltre che teoretico, etico-politico-sociale) deve
governare per il bene degli altri con l’opera sua di edu-
catore, perchè il logos divino è partecipato dalla sua
mente. ‘Anche in Posidonio, come negli stoici in gene-
rale, lo stato ideale è cosmopolita.
Da questa visione della vita, però, doveva derivarsi,
specialmente per il premere delle esigenze religiose
sempre più forti, la svalutazione completa della vita
terrena e l'aspirazione alla liberazione dell'anima dal
corpo, che permette alla prima di risalire al cielo e di
condurvi una vita felice nella visione dell’universo : del
resto tale concezione era implicata da tutta la costru-
zione di Posidonio, sebbene egli non l'avesse sviluppata.
Così questo eclettismo, che giustappone, non fonde,
monismo e dualismo (del resto spunti del secondo erano
già contenuti nello Stoicismo Antico, che distingueva
un principio attivo, Dio o la forza, e uno passivo, la
materia, sebbene li riducesse a unità, e che dalla sua
etica era spinto verso posizioni dualistiche) doveva
aprire la via a intuizioni mistiche, a pratiche ascetiche
e così era destinato a esercitare un’azione assai vasta ©
18 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
profonda sul pensiero e sulla spiritualità posteriore sino
alla fine del mondo antico. Già in Posidonio trovano il
loro punto di partenza il Neo-Pitagorismo, il Neo-Pla-
tonismo e il culto solare ampiamente diffuso nell’im-
pero romano nel 3° secolo d. C. Però non vi è ragione di
fare cominciare con Posidonio il Neo-Platonismo che
ha inizio soltanto nell’età di Plotino.
I rapporti con Roma agirono particolarmente sullo
Stoicismo Medio. I fondatori della scuola, pure rite-
nendo che il sapiente deve partecipare alla vita poli-
tico-sociale nello stato universale ideale, lo avevano al-
lontanato da quelli particolari esistenti. Panezio e Po-
sidonio, invece, affermarono che l’uomo ha in generale
l'obbligo di consacrare le proprie energie al bene della
società, anche negli ordinamenti statali concreti; come
si è ricordato, Panezio esaltò lo stato romano su tutti
gli altri. Così lo Stoicismo assunse un carattere attivi-
stico che si contrapponeva al quietismo dei suoi fonda-
tori, che rinchiudevano l’attività razionale nello spirito
dell’uomo ; d’altra parte la mitigazione del rigore ori-
ginario dell’età stoica, per cui essa si veniva avvicinando
alle dottrine accademico-peripatetiche, dipendeva in
larga misura dalla conoscenza diretta della vita con-
creta.
La filosofia che si formò a Roma alla fine della Re-
pubblica si trovò di fronte ai movimenti intellettuali di
cui si è fatto cenno. Essa si atteggiò ecletticamente, ma
questo atteggiamento, che derivava dalle condizioni del
tempo, era stato in parte suggerito in Grecia dalle ten-
denze stesse della romanità. Assegnò alla filosofia fina-
lità prevalentemente pratiche perchè si rivolse ad esso per
risolvere il problema della vita, ma anche in ciò, pure
uniformandosi al movimento generale dell'età, cercò di
soddisfare le proprie esigenze più intime e perciò restrinse
la sfera delle ricerche scientifiche alle quali Panezio e s0-
prattutto Posidonio avevano dato largo sviluppo. E le
attività pratiche dovevano servire a fini politico-sociali,
perchè lo stato romano, che per la sua espansione ve-
niva assumendo l’aspetto di potenza mondiale, rimase
INTRODUZIONE 19
sempre (se si fa eccezione di Lucrezio, che però non si
disinteressò mai della sorte dei suoi concittadini) il
centro degli interessi, come era accaduto per la ONE,
nella Grecia classica. Infatti, anche coloro che seguirono
indirizzi che sconsigliavano la partecipazione alla vita
politica e sociale come l’Epicureismo, sentirono il do-
vere di servire lo stato. All’inizio, trovò diffusione par-
ticolarmente l’Epicureismo, ma poi prevalse lo Stoicismo
che più degli altri indirizzi rispondeva alle esigenze della
coscienza romana, per la severità della sue norme, per
il valore dato alla volontà razionale consapevole di sè
di fronte alle tendenze inferiori; e anche quando, nel-
l'età imperiale, quell’indirizzo rinchiuse di nuovo l’uomo
entro se stesso, continuò a dominare nelle coscienze
superiori, per motivi che si ricorderanno. :
Dall’etica di Panezio (che continuava un movimento
di pensiero che risaliva alla Sofistica e al Cinismo e che
poi aveva trovato sviluppi nello Stoicismo Antico) Ci-
cerone derivò in larga misura quel concetto di Rumanitas
che esprimeva l’ideale della aristocrazia romana. Ad
esso poi veniva a collegarsi il cosmopolitismo propu-
gnato dal pensiero filosofico ellenistico, che in Roma,
ormai centro di uno stato mondiale, incontrava le condi-
zioni più favorevoli del suo sviluppo e che doveva in-
fluire sulla scienza del diritto. Nell'età repubblicana,
con Panezio, lo Stoicismo cominciò ad agire fortemente
sui giuristi romani, tanto è vero che un suo discepolo,
Q. Mucio Scevola il Pontefice Massimo, potè essere
chiamato il fondatore délla giurisprudenza scientifica
di Roma; e questo influsso si estese e si approfondì
nell’età imperiale. Da una parte per lo sviluppo accor-
dato alle ricerche dialettiche, offriva uno strumento pre-
zioso di elaborazione sistematica dei concetti giuridici
con i procedimenti di definizione e di divisione, dal.
l’altra arrecava ad esso una base di principi etici fonda-
mentali, nelle teorie del diritto naturale e dell’ugua-
glianza di tutti gli uomini. Le dottrine filosofiche greche
corrispondevano anche ad altre esigenze della coscienza
romana, in quanto le permettevano o di sostituirle alla
PC TIRA a n
0? %
20 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
religione tradizionale o di purificarne le antiche credenze
dagli elementi inferiori che includevano e di giustifi-
carne i concetti centrali, o di rivolgersi alle intuizioni
mistiche di Posidonio e del Neo-Pitagorismo, che pre-
senta appunto in Roma in Nigidio Figulo la prima
personalità storica sicura che si possa cogliere. Nell’età
imperiale, per le mutate condizioni della vita, la filo-
sofia attira sempre più intensamente gli spiriti.
In complesso, essa nei primi secoli, rimane eclettica,
sebbene nelle diverse scuole si noti la tendenza a ritor-
nare all’insegnamento autentico dei fondatori, che de-
termina, specialmente entro l’Aristotelismo, un intenso
lavoro storico-erudito, sulla vita e le opere dei filosofi
del passato, che diventano oggetto di interpretazione e
di commento ; infatti questa ortodossia non riesce &
eliminare l’eclettismo, al quale spesso si sottopongono
anche i suoi più energici rappresentanti : così, il Nuovo
Stoicismo, il Cinismo, la Seuola peripatetica, il Neo-
Pitagorismo, il Platonismo Medio, il Giudaismo Ales-
sandrino, la letteratura ermetica, giustappongono teo-
rie di origine diversa. (Un’eccezione è rappresentata
dall’Epicureismo e dal Nuovo Scetticismo). Importa
soprattutto osservare che nei primi secoli dell'impero
le diverse scuole filosofiche (ad eccezione della peripa-
tetica,in cui continuano a prevalere gli interessi teoretici)
sì preoccupano soprattutto della soluzione del problema
della vita, e così corrispondono alle esigenze sempre più
imperiose degli uomini, specialmente delle classi supe-
riori. Infatti, con la rovina della repubblica, quella par-
tecipazione alla vita politica che era consentita dal
principato, se restava un dovere per il cittadino, non
aveva più il valore posseduto in passato, e lo Stoicismo
su questo argomento era ritornato in complesso alle po-
sizioni dei suoi fondatori. Il cosmopolitismo si accentua,
l'ideale di Roma gradatamente si illanguidisce. Per
questi motivi gli spiriti si volgono di nuovo e più inten-
samente alla filosofia e soprattutto a quella stoica che
meglio delle altre insegnava come si deve vivere e come
si deve morire ad uomini che, dopo il breve tempo di pace
INTRODUZIONE ( 21
e di tranquillità del periodo augusteo, conducono una
vita continuamente incerta ed esposta a sempre nuovi
pericoli. La ferocia pazzesca di alcuni imperatori, le
guerre civili che lacerano nuovamente lo Stato e lo cor-
rodono internamente, mentre dall'esterno è minacciato
dalla crescente pressione delle popolazioni barbariche
confinanti, tolgono ogni senso di sicurezza, sicchè gli
uomini sentono con urgenza sempre crescente il bisogno
di una direzione, di una guida che dia loro conforto e
fermezza di fronte ai pericoli della vita, e per ottenerla
si rivolgono alla filosofia.
Questa (persino entro il Cinismo, famoso per la suna
intransigente durezza) si colora di mitezza e di indul-
genza e raccomanda intensamente la pietà, la bontà.
La scuola stoica soprattutto mitiga la propria severità
e pone al centro della sua predicazione l'insegnamento
dell'amore universale e prende la difesa dei più deboli e
dei più infelici, gli schiavi, i gladiatori. Questo insegna-
mento, poi, agisce sullo sviluppo della scienza giuridica
che, in misura sempre crescente, si sforza di tutelare
gli schiavi dall’arbitrio dei padroni e stabilisce i prin-
cipi del diritto naturale e dell'uguaglianza umana che
ne deriva. Nei maggiori rappresentanti dello Stoicismo
(Seneca, Epitteto, Mareo Aurelio) questa predicazione
umanitaria e universalistica assume carattere religioso
con l'affermazione che l'uomo è affine alla Divinità.
Lo stesso aspetto presenta tutta la loro filosofia che
cerca di appagare il bisogno delle anime di entrare in
rapporti diretti con Dio. Ma l’identica esigenza si fa
sentire anche nella altre scuole : l’avvertono persino al-
cuni seguaci del Cinismo, abitualmente ostile alla reli-
gione, e dell'indirizzo peripatetico, di solito poco incli-
nato verso di esso. Se l’Epicureismo e lo Scetticismo
continuano a non interessarsi di questi argomenti, l’esi-
genza religiosa diventa predominante nel Neo-Pitago-
rismo, nel Platonismo Medio, soprattutto nel Giudaismo
Alessandrino e nella letteratura ermetica: si può anzi
dire che essa costituisce con la sua progressiva accen-
tuazione l’aspetto predominante del pensiero di questi
22 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
secoli, che perciò presenta un carattere uniforme sia
fra i filosofi greci che fra i romani.
A Roma, ove sino dal 3° secolo a. C. erano penetrati
certi culti orientali, le religioni dei misteri riuscirono
a diffondersi largamente soltanto nell'età imperiale ; ed
è noto che il Mitraismo parve per un momento desti.
nato a diventare la religione ufficiale dello stato. Le
esigenze e le intuizioni religiose che si esprimevano in
questi movimenti (che precedentemente erano apparse
soltanto in aleuni ambienti ristretti e in alcuni pensa-
tori) si estesero anche alle classi superiori, premettero
così sul pensiero filosofico e diventarono il motivo do-
minante di quasi tutta la speculazione. Inoltre, allora
soltanto si impose la convinzione che sulla conoscenza
di verità superiori riguardanti la Divinità, si fonda la pos-
sibilità della liberazione e della purificazione dell'anima,
sicchè la filosofia, che nell’età precedente culminava nella
morale, assunse carattere religioso e divenne maestra
di salvezza. In questa età infatti, i filosofi sentono tanto
più quelle esigenze e quelle aspirazioni, quanto più si
indebolisce la fiducia (che aveva animato i pensatori
delle grandi scuole elleniche) di risolvere con le proprie
forze il problema della vita. Perciò, si diffondono spe-
culazioni teologiche di carattere gnostico che ricorrono
alla rivelazione, come il Giudaismo Alessandrino €
l’Ermetismo. In ambedue questi indirizzi eminentemente
teologici in cui eclettieramente si giustappongono ele-
menti orientali e greci (del Neo-Pitagorismo, del Pla-
tonismo Medio, dello Stoicismo) si manifesta la tendenza
a ricercare, come guida alla-salvezza, una rivelazione
divina. Filone si rivolge alla Bibbia interpretata alle-
goricamente, la letteratura ermetica, all'insegnamento di
Hermes, Fra la Divinità suprema e il mondo, che si è for-
mato quando Dio ha ordinato la materia, esiste un abisso,
che però è colmato da una serie di esseri intermedi. Per
ottenere la liberazione e ricongiungersi a Dio l’anima deve
allontanarsi dal mondo e con la vita ascetica conseguire
l’illauminazione suprema nell’estasi (Filone), che è poi
la yv&ots (= conoscenza di Dio) nell’Ermetismo.
INTRODUZIONE 23
Anche negli indirizzi filosofici che non si fondano su
una religione urge lo stesso bisogno di una rivelazione.
In un certo senso ricorrono a questa anche le filo-
sofie che fanno appello alla sapienza segreta dei loro
fondatori, vissuti in età remotissime, avvolte nel manto
delle tenebre : il Neo-Pitagorismo, che segue la strada
battuta già nella fine dell’età ellenistica e il Platonismo
Medio. Il primo, mentre accentua le contrapposizioni
dell'anima e del corpo, di Dio e del mondo e la teoria dei
demoni intermedi tra questi e pone sempre più in rilievo
intuizioni religiose, mistiche, superstiziose e pratiche asce-
tiche, viene sempre piùa indicare come scopo dellaricerca
religioso-filosofica, la purificazione e la liberazione dell’a-
nima di cui è mezzo l’ascetismo. Il Platonismo Medio in-
clude aspetti molto diversi : da una parte, avvicina eclet-
ticamente teorie platoniche a dottrine aristoteliche, e s0-
prattutto neo-pitagoriche : dall’altrà risente l’esigenza
dell'ortodossia e perciò si occupa di ricerche storiche e
erudite riguardanti l’interpretazione degli scritti pla-
tonici. In generale è dualista, ma presenta anche espres-
sioni monistiche. Ciò che più caratterizza questa scuola,
che accetta dal Neo-Pitagorismo l’antitesi Dio-mondo
e il concetto dei demoni mediatori, è la forte impronta
religiosa. Tornando a Platone, afferma che la filosofia
insegna a raggiungere il fine che consiste nel renderci,
finchè è possibile, simili a Dio, conserva l’antitesi di
anima e corpo, col Neo-Pitagorismo accetta la fede
nelle rivelazioni e il misticismo e mira esso pure alla
salvezza dell'anima, per mezzo della sua liberazione
dal corpo. In un certo senso qui si ha una forma di gno-
sticismo, in quanto il conseguimento della salvezza è
gondizionato alla conoscenza di verità supreme e in
ultimo di Dio, sebbene non lo si dichiari inaccessibile
al pensiero umano.
Tutte queste teorie dominate 0 assolutamente o pre-
valentemente da esigenze religiose e mistiche, offrono
uno schema unico : la contrapposizione di Dio e del
mondo e l'inserzione di intermediari fra i termini op-
posti. Specialmente nel Neo-Pitagorismo e nel Plato-
24 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nismo esso è presentato in modo tale da aprire la via,
insieme con la intuizione monistica dello Stoicismo,
al Neo-Platonismo, iniziato da Ammonio Sacca e or-
ganizzato da Plotino. Questa ultima grande costruzione
(sineretistica più che sintetica) del mondo antico, che,
collegando coi fattori già indicati, teorie propriamente -
platoniche e aristoteliche, voleva raccogliere in un tutto
solo quanto le tradizioni religiose e filosofiche del passato
offrivano di pregevole, e fondare sulle basi di una spe-
culazione essenzialmente teologica una dottrina della
salvezza. Per Plotino, l’Uno o il Bene, ineffabile e inco-
noscibile perchè superiore all’essere e al pensiero, è il
primo principio da cui fluiscono gradatamente tutte le
cose, nelle quali però esso inerisce. Ne proviene per ne-
cessità da prima l’Intelletto (il nous) che è insieme uno
e molteplice, in quanto costituisce il mondo intelligibile
delle idee o delle forme intelligibili, che è altresì un
mondo di intelligenze, di realtà pensanti incluse nel-
l’Intelletto totale. Esso genera, pure necessariamente,
l’Anima Universale, che è un anello intermedio fra il
mondo intelligibile indiviso e quello sensibile in cui re-
gna la divisione : essa include in sè quelle individuali,
che, sebbene distinte, formano una realtà sola, che si
divide rispetto ai corpi ai quali si collega. L'Anima è
l’ultimo termine della serie delle realtà divine ed eterne.
Sotto di esse è il mondo sensibile dei corpi, che è la sfera
del perenne divenire, della molteplicità divisa, delle
lotte e dei contrasti, che è caratterizzata non dall’eter-
nità, ma dal tempo. Il principio della genesi è la materia,
che è priva di forma ; è il principio della privazione e
perciò è il vero non essere e il male primo e originario
(in quanto privazione del Bene). Pure, deve esistere
necessariamente, perchè la scala degradante di perfe-
. zione, che parte dall’Uno, deve condurre a un termine,
in cui il bene è trasformato in male. L'Anima dovette
produrre il corpo perchè è la sede del suo sviluppo : per-
ciò irraggiò come una grande fiamma alla cui estremità
apparve un’ombra, la materia : essa le diede una forma
e così sorse il mondo sensibile che è modellato su quello
INTRODUZIONE 25
intelligibile. L'anima discesa nel corpo, se vuole libe-
rarsi dalle sozzure e dai dolori del mondo sensibile e
così conseguire la propria salvezza, deve percorrere in
senso inverso la strada della discesa dal primo principio,
ritrovandolo in se stessa, e rendersi una con esso, dopo
essersi purificata con l’ascesi. Ciò ottiene se, dopo avere
esercitato le virtù pratiche e esplicato l’attività cono-
scitiva, da prima come pensiero discorsivo e poi intui-
tivo, consegue quel grado supremo di conoscenza che
è l’estasi. L'anima, sinchè è unita al corpo, può soltanto
per qualche istante conseguire questa condizione, ma
quando si sarà liberata da esso, potrà goderne ininter-
rottamente. Nel sistema plotiniano le realtà sovra sen-
sibili costituiscono gli Dei intelligibili, mentre quelli
visibili sono i corpi celesti: le Divinità tradizionali si
riducono ‘agli uni o agli altri. Al di sotto della luna si
‘trovano i demoni. Così Plotino può conservare il pan-
theon della religione antica, mentre con l’interpretazione
speculativa riesce a giustificare i miti e con argomenti
filosofici a legittimare i culti e la credenza nella magia.
Il Neo-Platonismo (che è pure una dottrina gno-
stica, nel senso ampio della parola) rimase per secoli,
si può dire, la filosofia del mondo pagano che in esso
trovò la sua difesa contro la pressione sempre maggiore
del Cristianesimo.
Tutti i sistemi seguiti nell'età imperiale (ad ecce-
zione del Giudaismo Alessandrino e dell’Ermetismo) tro-
varono rappresentanti nel mondo romano: alcuni di
questi, anzi, furono personalità molto notevoli. Allo
Stoicismo Nuovo appartennero Seneca, Musonio Ruffo
e Marco Aurelio ; basterà poi ricordare i nomi di Agrippa
per lo Scetticismo Nuovo, di Apuleio per il Platonismo
Medio, di Giuliano per il Neo-Platonismo. Un posto
a parte occupa Boezio che sta tra l'età antica e la me-
dioevale.
In complesso, si può osservare che nell'età della re-
pubblica il pensiero romano accolse insegnamenti della
filosofia ellenistica perchè gli offrivano dottrine che
corrispondevano alle sue proprie tendenze e che del
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— 26 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
resto, assunsero carattere romano nell’accentuazione
delle finalità' politico-sociali dell’uomo, e che, sotto
l'impero si svolse nella stessa corrente della specula-
zione greca perchè ambedue erano dominati dalle esi-
| genze che allora si imponevano in tutte le coscienze. Lo
studio particolare di tutti i cultori della filosofia romana
permetterà di determinare l’azione da essa esercitata
nella cultura e nella vita del mondo occidentale.
e
PARTE I.
LA FILOSOFIA ROMANA
NELL'ETÀ DELLA REPUBBLICA
+
bai
CarITOLO I.
Gli inizi della filosofia romana
e f rappresentanti minori di essa.
Sino da tempi antichissimi, cioè dall’89 secolo a. C.,
le genti italiche del centro della penisola, e tra esse i La-
tini ei Romani, subirono l’influsso della civiltà ellenica,
come risulta dalle tracce che ne sono rimaste nella re-
ligione, nell’arte, nella lingua ; tale influsso, sì esercitò
per il tramite sia dell'Etruria, sia della Magna Grecia
e soprattutto di Cuma. In seguito, i rapporti fra l'’Urbe
e la civiltà ellenica si rafforzarono grazie alla media-
zione della Magna Grecia. Appunto per ciò, già al tempo
delle guerre sannitiche (343-290), venne innalzata a
Roma una statua di Pitagora, ritenuto il più sapiente
dei greci: è probabile però che del Pitagorismo si co-
noscessero piuttosto le credenze religiose che l’attività
filosofica e scientifica. Dell’azione esercitata dalla ci-
viltà ellenica della Magna Grecia offre una conferma
la raccolta di sentenze in versi saturni di Appio Claudio
Cieco (console nel 307 e nel 296 a. C.), anche se effetti-
vamente non presentavano quel carattere pitagorico che
vi scorgeva Cicerone, il quale riferisce che Panezio le
lodava assai. Forse, dipendevano da scrittori greci con-
temporanei ; in ogni modo, nelle tre sentenze che co-
nosciamo (fra le quali è rimasta celebre la proposizione
‘ Fabrum esse suae quemque fortunae ») si manifesta
piuttosto la riflessione sulla vita di tutti i giorni, che un
vero e proprio pensiero filosofico. Nel 3° secolo, Roma
si espande nella Magna Grecia (282-266), conquista la
Sicilia (264-210), forma relazioni dirette con la Grecia
e coi centri ellenistici dell'Oriente, e così amplia e raf-
forza la sua conoscenza di quella civiltà che, dopo la
morte di Alessandro, aveva assunto i caratteri propri
30 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
dell’ellenismo. Verso il 240, Livio Andronico, un greco
di Taranto, portato prigioniero a Roma da M. Livio Sa-
linatore, inizia l’opera sua di traduttore e di imitatore
della letteratura greca, di cui i romani cominciano così
al acquistare conoscenza. Ma soltanto alla fine del 3°
secolo si determinò quel movimento che in breve tempo
aprì le porte di Roma alla cultura greca in tutta la sua
ampiezza ; forse, quando nel 209 trentamila tarantini
vennero condotti come schiavi in Italia, le dottrine
religiose dei pitagorici poterono diffondersi più larga-
mente. Lo spirito romano, però, provò 4 lungo poca
simpatia per la speculazione greca : così, quando nel
181 a. C. vennero conosciuti i cosidetti libri di Numa
(si sarebbe trattato di un’opera antichissima, ma allora
scoperta), il pretore ebbe ordine di bruciarli perchè erano
scritti filosofici. Quasi certamente si trattava di un
falso che aveva lo scopo di fare apparire il re romano
un discepolo di Pitagora. Le dottrine esposte in quei
libri avevano carattere teologico; ma non è certo che
derivassero dal Pitagorismo 0, come ha supposto lo
Zeller, dallo Stoicismo. L’avversione alla filosofia si
rafforzò quando nel corso del 2° secolo a. C., per le
relazioni sempre più ampie che si formavano tra la Gre-
cia e Roma, la cultura ellenica si diffuse in questa città
e vi inviò numerosi rappresentanti, filosofi, filologi, re-
tori, letterati, artisti.... suscitando una forte corrente na-
zionalistica ostile alle nuove tendenze. Nel 161 a. C. un
Senatoconsulto vietava la residenza in Roma ai filosofi
e ai retori greci. È incerto se nel 173 o nel 155 fu vietata
tale residenza a due filosofi epicurei, Alcio e Filisco.
Nel 155 Atene inviò in quella città, come suoi amba-
sciatori, tre filosofi, Carneade della Nuova Accademia,
Diogene stoico e Critolao peripatetico per ottenere il
condono di una multa che le era stata inflitta. Essi
tennero conferenze pubbliche che suscitarono l’entu-
siasmo della gioventù, la quale, con l'approvazione dei
genitori, abbandonata ogni altra occupazione, si diede
agli studi filosofici.
Allora M. Porcio Catone, il rappresentante più auto-
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 31
revole dell'opposizione alla cultura ellenistica e al co-
smopolitismo che includeva e implacabile svalutatore
della gente greca, si lagnò in Senato perchè gli amba-
sciatori di Atene da lungo tempo risiedevano a Roma
e ottenne che si decidesse al più presto delle loro richieste
per far sì che essi ritornassero alle loro scuole per disceu-
tere coi fanciulli greci, e i giovani romani, come prima,
ascoltassero le leggi e i magistrati. Si può dire che la
vita di Catone (n. a Tuscolo 234, m. 149 a. C.), tutta
dedicata alla difesa di Roma e della romanità, si chiuda
con la lotta contro Cartagine da una parte (di cuì egli
domandò insistentemente la distruzione) e contro l’el-
lenismo invadente dall’altra. Nella prima giovinezza
partecipò valorosamente alla guerra contro Annibale.
Questore di P. Scipione (204) in Sicilia e in Africa, edile
della plebe (199), pretore in Sardegna (198), console col
governo della Spagna(195), si rese famoso con la sua cen-
sura (184) per la quale fu chiamato Censorius. Primo
fra gli annalisti, usò il latino nelle Origines che narra-
vano le -origines di Roma e delle altre città di Italia e da
quelle giungevano all’età dell'autore e includevano al-
cune delle sue numerose orazioni, Negli scritti Ad Mar-
cum filium (che pare fossero riuniti in un tutto, costi.
tuendo così la prima enciclopedia latina) raccolse in
forma apodittica le conoscenze pratiche che potevano
servire ad un giovane. Un libro riguardava l’agricol-
tura, forse uno la medicina e uno l’eloquenza. È dubbio
che vi includesse uno scritto sull'arte della guerra. Com-
pose lavori speciali su questa, sul diritto civile e sul-
l’agricoltura ; l’ultima opera (De agri cultura o De re
rustica) ci è stata conservata, mentre degli altri scritti
restano soltanto frammenti. Un'opera di morale popo-
lare applicata era il Carmen de moribus, di cui però è
dubbia la forma poetica. Di Catone si ricordano anche
le Epistolae ad filium e una raccolta di Apoftegmi (motti
e sentenze). Egli stesso però, che studiò il greco nella
vecchiaia per meglio conoscere il nemico da combattere,
contribuì alla diffusione della filosofia ellenistica condu-
cendo con sè a Roma nel 204 dalla Sardegna, ove aveva
32 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
prestato servizio militare, il poeta Ennio. Questo, un
Messapio di Rudia (Rugge) (n. 239, m. 169) che aveva
assimilato la cultura greca, a Roma insegnava greco
e latino per vivere ; ma le sue poesie (fra le quali occupano
il primo posto gli Annales, in 18 libri, in cui si narrava
la storia tradizionale di Roma; inoltre sei tragedie,
prese da autori greci, commedie, satire e altre opere che
si ricorderanno), gli attirarono il favore e l’amicizia del-
l'aristocrazia, principalmente di Scipione l’Africano Mag-
giore, di Scipione Nasica e di M. Fulvio Nobiliore che lo
condusse con sè nell’Etolia perchè celebrasse poi le sue
imprese in quella terra. Il figlio di Fulvio, Quinto,
donò al poeta un piccolo possesso in una nuova colonia
nel Piceno, e con esso la cittadinanza romana. Ennio
nell’Epicarmo scritto in trimetri trocaici, probabilmente
tradusse o ridusse un poema sulla natura, attribuito
falsamente a quel poeta greco : se le dottrine naturali-
stiche che v'erano esposte avessero o no impronta pi-
tagorica come si è affermato, non è possibile dire con
certezza. Nell'Evemero tradusse la Sacra Iscrizione di
Evemero, che spiegava l’origine degli Dei insegnando
che erano stati uomini insigni per saggezza. In complesso,
si può riconoscere in Ennio interesse vivo per i pro-
blemi religiosi; ma anche se conosceva certe dottrine
del Pitagorismo come la trasmigrazione delle anime,
sembra troppo audace l'ipotesi che attribuisce una con-
cezione generale pitagorico-empedoclea, esposta in tutte
le opere, anche negli Annali, al poeta che diceva : « Mi
è necessario filosofare, ma limitatamente ».
L'opposizione all’influsso della cultura e in parti.
colare della filosofia greca fu vana, perchè per troppe
vie penetrava in Roma. Soltanto alcuni dei mille achei
condotti in Italia e ivi trattenuti per 17 anni come
ostaggi ebbero dimora in Roma, ma fra essi si trovavano
uomini che, come Polibio, sebbene non filosofi, erano
imbevuti di una cultura che aveva ricevuto la sua forma
dalla filosofia e che contribuiva a diffondere la cono-
scenza del pensiero greco. L. Emilio Paolo, dopo la sua
vittoria su Perseo (168), la cui biblioteca destinò al-
va Mei È cai 26 PA . », e
x î >. 3 G
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 33
l’uso dei propri figli, scelse fra gli altri maestri greci di
questi, il filosofo Metrodoro. Il Senatoconsulto del 161,
l’effetto prodotto dai tre ambasciatori di Atene nel 155,
mostrano quale interesse suscitasse in Roma il pensiero
greco. Verso la metà del 2° secolo questo movimento
si accentuò fortemente. La casa degli Scipioni, che già
con l’Africano Maggiore aveva aperto le porte all’elle-
nismo, con P. Cornelio Scipione Emiliano (l’Africano
Minore) ospitò per lunghi anni Panezio, cioè colui che
è stato chiamato il fondatore dello Stoicismo romano
e uno dei principali fondatori della filosofia di Roma e
che con l’opera sua mirò soprattutto ad agire sullo spi-
rito dell’aristocrazia di questa città. Per mezzo degli
insegnanti di letteratura greca, la filosofia entrò a far
parte della cultura generale e così tutti gli indirizzi di
essa furono conosciuti e seguiti. Nel circolo degli Sci-
pioni (al quale appartennero Panezio, Polibio, ‘Terenzio,
Lucilio, C. Lelio, Q. Elio Tuberone, Sp. Mummio, Ru-
tilio Rufo, M. Vigellio, L. Furio Filo, forse Valerio
Sorano) si svolse il concetto della humanitas, sintesi di
valori culturali ed etico-sociali.
Sia l’Africano Minore che i più insigni romani eb-
bero come amici e consiglieri, filosofi greci e ne apprez-
zarono e seguirono le ricerche. Panezio accompagnò
l’Emiliano nella sua ambasceria in Oriente, il neo-acca-
demico Clitomaco dedicò a Lucio Censorino (cons. 149)
e a Lucilio due scritti sulla gnoseologia di Carneade,
‘Tiberio Gracco ebbe come amico e consigliere C. Blossio
di Cuma e si dice che per impulso di lui e del retore
Diofane difendesse le leggi agrarie. Lucullo fu amico
dell’accademico Antioco di Ascalona, P. Pupio Pisone
del peripatetico Staseas ; Pompeo ascoltò l'insegnamento
di Posidonio (162). Lo stoico Diodoto fu accolto nella
famiglia di Cicerone, che seguì gl’insegnamenti di di-
versi filosofi dell'età sua. A Roma si recarono (oltre i
tre ambasciatori ateniesi e Panezio) Staseas (verso il
92), Filone di Larissa (88 a.C.), Posidonio (verso il
principio del 1° secolo?), gli epicurei Fedro (c. 90), Fi-
lodemo e Sirone (c. metà del 1° sec.). Da giovane ascoltò
IA
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34 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
alcuni giorni in Atene l’ormai vecchio Carneade Q. Ce-
cilio Metello, che poi (109), eletto console, diresse per
qualche tempo vittoriosamente la guerra contro Giu-
gurta e che, sebbene sostituito da Mario (107), fu dal-
l'aristocrazia romana considerato il vero vincitore di
essa, ebbe il soprannome di Numidico e nel 106 ottenne
gli onori del trionfo. Per sottrarsi all'esilio, al quale do-
veva essere condannato per l’inimicizia di Mario, ab-
bandonò volontariamente Roma (100) e visse, da prima
a Rodi, ove coltivò gli studi filosofici, poi a Tralle, ove
(99) ebbe notizia del suo richiamo.
Le scuole che ebbero maggior numero di seguaci
furono lo Stoicismo e l’Epicureismo (che fu il primo in-
dirizzo filosofico conosciuto a Roma). Allo Stoicismo
romano può collegarsi Blossio di Cuma (il nome ha origine
osca), che fu scolaro dello stoico Antipatro di Tarso. Dopo
la morte di Tiberio Gracco, dovette difendersi davanti
ai consoli ; poi fuggì da Roma, e si recò in Asia presso
Aristonico di Pergamo e, quando questo fu sconfitto,
si diede la morte. Seguirono lo Stoicismo anche due San-
niti, Marcio e Nisio : del secondo si dice che diede l’e-
sempio di parodiare argomenti seri e fu scolaro di Pa-
nezio.
Al centro del più antico Stoicismo romano si trova
l’Africano Minore (n. 183-184, m. 129), che fu console
nel 147, distrusse Cartagine nel 146, ottenne la censura
nel 142, diresse un’ambasciata in Oriente dal 141 al 139,
fu di nuovo console nel 134, distrusse Numanzia nel
133. Era un appassionato lettore della Ciropedia di
Senofonte e aveva tendenze stoiche : forse, anche per
questo motivo, dava alle sue orazioni contenuto morale
e vi dipingeva la corruzione del tempo suo. Fra i più
antichi stoici romani (membri, in generale, del circolo
degli Scipioni), si contano C. Lelio e i suoi due generi,
C. Fannio e Mucio Scevola l’Augure, Q. Elio Tuberone,
Spurio Mummio, Rutilio Rufo, L. Elio Stilone, M. Sce-
vola Pontefice Massimo, M. Vigellio, Sesto Pompeo, €.
Lelio (n.v. 190, m. in tarda età) ebbe fama soprattutto
per l’intima amicizia che lo legava all’Africano Minore.
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 35
Conobbe i tre filosofi ateniesi inviati a Roma nel 155,
ma fu attirato principalmente dallo Stoico Diogene ; in
seguito ebbe rapporti con Panezio e ne diffuse le dottrine
nell’aristocrazia romana. Come legato di Scipione, par-
tecipò alla terza guerra punica (147) e si distinse nell’as-
sedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura (145).
Appartenne agli auguri è nel 140 conseguì il consolato.
Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio Gracco
SÎ schierò contro questo e i suoi fautori. Fu ammirato,
se non come oratore come uomo politico, e forse dovette
il soprannome di sapiens, datogli dall’aristocrazia, al
suo atteggiamento politico più che ad altro. Per mezzo
di ©. Lelio, C. Fannio conobbe Panezio e ne seguì l’in-
segnamento. Combattè contro Cartagine nel 146, fu
tribuno della plebe nel 142 e l’anno seguente si distinse
in Ispagna contro Viriato ; fu pretore (132?) e console
(122). Si oppose alla proposta di C. Gracco di concedere
la piena cittadinanza romana ai Latini e i diritti di
questi agli Italici, con una orazione famosa, di cui però,
gli venne contestata la paternità. Scrisse un’opera sto-
rica spesso ricordata da Cicerone (Annales), che -forse
cominciava con le origini di Roma e giungeva all’età
sua, e orazioni. Q. Mucio Scevola l’Augure (n. proba-
bilmente nel 174, m. e. 87 a più di 80 anni) nel 155
ascoltò Carneade, ma si avvicinò allo Stoicismo e so-
prattutto a Panezio. Insieme con Q. Elio Tuberone e
Rutilio Rufo fu lodato da Posidonio. Augure prima del
129, ebbe la pretura e il governo dell'Asia nel 120;
il consolato nel 117. Fu un insigne giurista, ma non in-
segnò, nè scrisse libri. Q. Elio Tuberone, nipote di E-
milio Paolo, come tribuno della plebe (prima del. 129)
si oppose all’Africano Minore e a Caio Gracco ; poi fu
pretore, ma non è certo che conseguisse il conso-
lato. Non molto lodato come oratore, si distinse per
la cultura giuridica. La semplicità della vita e la rigi-
dezza del carattere lo portarono verso lo Stoicismo, le
cui dottrine applicò nella condotta. Conobbe Panezio
e ne seguì l'insegnamento ; da lui e. da Ecatone gli fu-
Tono I: scritti: la cosa è dubbia per Posidonio,
36 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Sp. Mummio, fratello del vincitore di Corinto, nel 139
partecipò con Scipione Emiliano e con L. Metello Calvo
a un’ambasciata politica in Oriente e così potè strin-
gere più stretti rapporti con Panezio. Scrisse lettere in
versi e orazioni : Cicerone lo pone tra gli interlocutori del
De republica. Fu scolaro di Panezio anche P. Rutilio
Rufo (n. c. 154.), che nel 134 combattè sotto Numanzia
agli ordini di Scipione come tribunus militum e fu pretore
urbano prima del 118. Al pari di Mario nel 109 seguì
come legato Q. Metello nella guerra contro Giugurta,
quando nel 107 Mario, quale console, assunse il comando
dell’esercito, ritornò a Roma. Console nel 105, nel 94
seguì l’amico M. Scevola l’Augure nel suo proconsolato
d’Asia; condannato ingiustamente per accuse di ne-
mici che si era procurato con la sua rigida onestà, visse
da prima a Mitilene e poi a Smirne, e rifiutò l'invito di
Silla di accompagnarlo a Roma (85). Cicerone lo conobbe
a Smirne nel 78; pare morisse verso il 75. A Smirne
scrisse un De vita sua e una storia romana in greco.
Fu oratore (e i suoi discorsi hanno per la loro aridità
impronta stoica) e coltivò gli studi giuridici. Q. Elio
Stilone (n. a Lanuvio nel 154, m. dopo il 90) appartenne
all'ordine equestre. Nel 100 seguì nell’esilio Q. Metello
Numidico. A Roma fu maestro e scrisse discorsi per al-
tri. I suoi discepoli più insigni furono Cicerone e Var-
rone. Conoscitore sicuro della letteratura greca e della
latina, fu il primo rappresentante notevole della scienza
grammaticale del tempo antico. Opere sicuramente sue
sono: 1) Interpretatio carminum Saliorum. 2) Index
comoediarum Plautinarum. 3) Commentarius de proloquiis.
(Forse era uno studio sulla sintassi, di impronta stoica).
4) Discorsi per altri. Inoltre curò edizioni di scritti altrui.
Gli è stata attribuita un’opera glossografica. Q. Mucio
Scevola (n. c. 140) fu pontefice (115) questore (110)
tribuno della plebe (106) pretore (ec. 98) console (95)
proconsole d’Asia (94) e si attirò per la sua giustizia e
il suo disinteresse l'affetto dei provinciali e l’odio dei ca-
valieri romani, che accusarono il suo legato Rutilio Rufo,
che egli difese. Pontefice Massimo nell’89, cadde vit-
_»»
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 37
tima delle lotte civili nell'87. Giurista insigne, compose
libri XVIII juris civilis, in cui per la prima volta tentò
una trattazione sistematica dell’argomento, e un’opera
intitolata épot, che conteneva definizioni di concetti
e di rapporti giuridici. Era molto ricercato il suo inse-
gnamento di diritto. Insegnò ( derivandola, pare, da Pa-
nezio) la distinzione di tre teologie, ripresa da Varrone.
M. Vigellio, amico di Crasso, visse con Panezio. Sesto
Pompeo, zio di Pompeo Magno, ebbe forte cultura giu-
ridica e matematica e conobbe a fondo lo Stoicismo.
È ricordato come Stoico un Pisone, che si è identificato
con L. Calpurnio Pisone Frugi, che fu tribuno della plebe
(149) e poi, come pretore e come console (133), combattè
la rivolta degli schiavi in Sicilia e la domò. Ottenne la
censura nel 120 o nel 108. Lasciò un’opera storica (An-
males) che si estendeva dalle origini al tempo suo ; in
essa combatteva le nuove tendenze che si introduce-
vano in Roma e il rilassamento morale della gioventù.
Seguaci più recenti dello Stoicismo furono L. Lucilio
Balbo e Q. Lucilio Balbo (fratelli o cugini), M. Porcio
Catone, M. Favonio e Cornificio Lungo. L. Lucilio Balbo,
scolaro di Q. Mucio Scevola Pontefice, fu soprattutto un
giurista. Q. Lucilio Balbo è chiamato stoico da Cice-
rone, che nel De natura Deorum (dialogo che si presumo
avvenuto nel 76 a C.) gli assegna l’esposizione delle
dottrine teologiche stoiche. Ivi dichiara di avere avuto
familiarità con Posidonio. Antioco da Ascalona gli de-
dieò un’opera ; secondo Cicerone era pari ai più insigni
stoici greci. Catone ebbe come maestri due stoici, Ate-
nodoro Cordilione (che si recò a visitare a Pergamo
perchè lo seguisse a Roma ove lo tenne come ospite)
e Antipatro di Tiro. In Sicilia conobbe l’accademico
Filostrato. Nei suoi ultimi giorni in Utica ebbe vicino
a sè lo stoico Apollonide e il peripatetico Demetrio.
Catone fu questore nel 65 e pretore nel 54; si oppose
ai triumviri e nella guerra civile si schierò con Pompeo.
Dopo Tapso, si recò a presidiare Utica, ove si uccise
(aprile 46 a. C.). Coltivò con molto successo l’eloquenza
e si compiacque di introdurre discussioni filosofiche nelle
38 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
orazioni. Scrisse anche giambi. Cicerone lo chiamò per-
fettissimo stoico e nel De finibus gli assegnò la esposi-
zione delle dottrine etiche di quella scuola di cui aveva
studiato intensamente le opere. Fu amico e ammira-
tore di Catone M. Favonio (n. c. 90 a. C.), pretore nel
49. Aspro avversario dei triumviri, parteggiò per Pom-
peo e lo seguì nella fuga. Dopo l’uccisione di Cesare, si
unì ai congiurati ; fatto prigioniero a Filippi, fu subito
giustiziato perchè era un proscritto. Aderì allo Stoîeismo
- Cornificio Lungo, autore di un’opera etimologica in al-
meno tre libri, che deve essere stata composta fra il
tempo di Cicerone e quello di Augusto. Forse seguì
quella scuola Q. Valerio Sorano, alquanto più vecchio
di Cicerone che lo fa chiamare da Crasso litteratissimus
omnium togatorum. Da giovane era in stretti rapporti
con Cicerone e con Varrone. Poi partecipò attivamente
alla vita politica e fu tribuno della plebe (82) ; in seguito
dovette fuggire in Sicilia ove Pompeo lo fece giustiziare.
Poco rimane di lui, sicchè è difficile apprezzare la sua
attività letteraria. Certamente si è oceupato di storia
letteraria e di grammatica. Dedicò a Publio Scipione
(Nasica ?) uno scritto che non si sa se fosse in prosa 0
in versi; sembra fosse composta in prosa un’opera in-
titolata ‘Eronzidec, che forse conteneva principalmente
interpretazioni allegoriche di nomi. Due esametri che
sì ricordano di lui fanno pensare al panteismo stoico
e probabilmente erano inclusi in un poema naturalistico.
Anche più numerosi seguaci ebbe l’Epicureismo. Per
primo, pare, Amafinio espose in latino le dottrine della sua
scuola: ne seguirono l'esempio Rabirio e Cazio, tutti eriti-
cati perchè cattivi espositori : sono incerti però i loro
rapporti cronologici con Lucrezio. Essi trovarono molti
seguaci che li superarono assai in facilità e semplicità.
Nell’età di Cicerone si contavano molti epicurei romani,
ma in generale (salvo Luerezio) si conoscono soltanto
per le notizie che egli ne dà : i più importanti fra essi
sono T. Albucio e C. Velleio. Il primo, dottissimo nelle
cose greche e satireggiato da Lucilio e Q. Mucio Scevola
l'Augure per la sua grecomania, resse come propretore
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 39
la provincia di Sardegna. Condannato per estorsioni,
andò in esilio in Atene, sopportando con molta calma la
sua sorte. Cicerone, che ricorda i suoi discorsi e lo chiama
perfectus Epicureus, pare accennare a suoi scritti filo-
sofici tra i quali forse si trovava un carme epicureo,
C. Velleio di Lanuvio fu senatore e tribuno della plebe
nel 91 a. C. Nel De natura Deorum difende le teorie epi-
euree : stando a quel dialogo, l'oratore L. Crasso lo pre-
feriva a tutti i romani e poteva confrontare con lui pochi
epicurei greci. Altri seguaci della stessa scuola furono
il già ricordato C. Cazio, della Gallia Insubria, autore
di quattro libri De rerum matura et summo bono, un
Gallo (quale ?), L. Calpurnio Pisone, C. Cassio Longino,
C. Vibio Pansa, i due L. Manlio Torquato, Statilio, L.
Varo, amico di Cesare. L. Calpurnio Pisone Censorino
(n. c. 101) fu questore, edile, pretore (e. 61), console
(58) coll’aiuto di Cesare che aveva sposato una sua fi-
glia. Fu attaccato da Cicerone con l’orazione In Pisonem
quando nel 50 era governatore della Macedonia e ad essa
rispose poi con un libello. Censore nel 50, cercò inutil
mente d’impedire la guerra fra Cesare e Pompeo; ©
gli stessi vani sforzi ripetè nel 43 perchè non seoppias-
sero nuove lotte civili: in seguito abbandonò la vita
politica. In giovinezza fu molto amico di Filodemo ;
Cicerone ne parla sempre come di un epicureo. C. Cassio
Longino (n. prima dell’85) fu questore con Crasso nella
guerra contro i pirati (54); poi pro-questore ; tribuno
della plebe nel 49, seguì Pompeo. Fu uno dei capi della
congiura contro Cesare e uno degli uccisori di questo. A
Filippi, prevedendo la sconfitta, si uccise. C. Vibio Pansa
amico di Cicerone che ne loda l'ingegno, e lo chiama
epieureo, fu nel 51 tribuno della plebe. Console con Fazio
nel 43, morì col collega a Modena combattendo valoro-
samente contro Antonio. L. Manlio Torquato padre (n.
108?; m. poco dopo 55?), pretore nel 68, proconsole
ti’Asia nel 67, console nel 65, proconsole della Macedonia
nel 64, senatore, si avvicinò all’Epicureismo al pari del
figlio dello stesso nome, che nel 66 aveva una ventina
d’anni e che fu senatore (58 ?) e' pretore (49). Nella guerra
40 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
civile combattè in Africa con i Pompeiani : dopo Tapso
(46) cercò di salvarsi in Ispagna per mare, ma vedendo
la sua nave circondata dai nemici, sì uecise. Cicerone,
che lo loda, nel De finibus gli fa esporre dottrine epi-
curee. Statilio, amico di Catone l’Uticense e di Bruto,
era ancor giovane nel 46 quando trovandosi col primo
ad Utica, dichiarò di voler seguire il suo esempio,
ma Catone, deciso ad uccidersi, lo affidò allo stoico
Apollonide e al peripatetico Demetrio perchè gl’impe-
dissero di imitarlo. Poi seguì Bruto e morì a Filippi
(42 a. C.). Forse fu epicureo e imitatore di Lucrezio,
Egnazio, di cui è ricordato, un De rerum natura. Pro-
babilmente seguì quell’indirizzo Aurelio Opilio, liberto
di un epicureo, che dopo avere insegnato filosofia, poi
retorica, infine grammatica, sciolse la sua scuola per
seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie opere,
fra le quali Musarum libri IX. Più dubbia l'apparte-
nenza all’Epicureismo di un amico di Cicerone, L. Papirio
Peto. Si avvicinò a quella più che ad altre scuole, senza
però seguirne alcuna, T. Pomponio Attico (n. 109 a. C.
da stirpe nobilissima), condiscepolo prima, poi intimo
amico di Cicerone, che gli dedicò il De amicitia e il De
senectute e gli scrisse numerose lettere, raccolte in 16
libri. Per sfuggire i pericoli delle lotte interne di Roma,
visse in Atene dall’87 al 65 (?). Nelle nuove guerre ci-
vili rimase neutrale. Fu il primo grande editore di Roma.
Per sottrarsi a una malattia incurabile si uecise per fame
a 77 anni. Serisse un liber annalis, che includeva tutta
la storia di Roma dalle origini al tempo suo : vi si ri-
cordavano anche importanti riforme legislative e opere
letterarie notevoli e vi si parlava degli eventi storici di
altri popoli, particolarmente dei Greci. Pomponio At-
tico compose anche monografie genealogiche, uno seritto
greco. sul consolato di Cicerone, versi posti sotto i ri-
tratti di personaggi famosi. Come il suo contemporaneo
e amico Pomponio Attico, e al pari di lui cavaliere ro-
mano e ricco uomo d’affari, si avvicinò all’Epicureismo
più che ad altre scuole L. Saufeio (n. e. 110). Al pari di
Attico visse lungamente in Atene per coltivarvi gli
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA .41
studi filosofici. Per le sue ricchezze i triumviri lo inelu-
sero nelle proscrizioni, ma si salvò per l'interesse di
Attico, Cicerone accenna a lui come ad un epicureo, e
pare sì riferisca ad un suo libro. Si è voluto collocare
tra gli epicurei Giulio Cesare perchè nell’orazione che
secondo Sallustio avrebbe tenuto in senato per opporsi
alla condanna a morte dei complici di Catilina, nega
l'immortalità dell’anima e le pene dell’oltretomba. Però
non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi il suo
pensiero quell’orazione, che, in ogni modo, mirava a
impedire l'uccisione dei catiliniani.
Peripatetico con mescolanze stoiche e accademiche
(cioè eclettico) fu M. Pupio Pisone Calpurniano che
trionfò della Spagna nel 69, fu console nel 61 e morì
prima del 45. Fu detto eloquentissimo e dottissimo e
serisse 5 libri mepì teX@v. Apparteneva all'antica Ac-
cademia (cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze
stoiche di Antioco d’Ascalona) M. Giunio Bruto (n. 85
a. C.), che appunto accettò dottrine derivate dallo
Stoicismo. In Atene fece studi di rettorica e di filosofia,
e in questa ebbe maestro Aristone. Nella guerra civile
parteggiò per Pompeo e combattè a Farsaglia, ma ot-
tenne di riconciliarsi con Cesare. Formò allora stretti
rapporti con Cicerone che gli dedicò varie opere (Brutus,
Paradoxa, Orator, De finibus, Tusculanae, De natura Deo-
rum, e a lui egli dedicò il De virtute. Legato propretore
nelle Gallie (47-45), pretore urbano, per il 44, partecipò
alla congiura contro Cesare e fu uno dei suoi uccisori.
Sconfitto a Filippi da Ottaviano, si uecise (novembre 42).
Fu uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo è
oratore insigne. Serisse lettere (8 a Cicerone ci restano
nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere mo-
rali. Nel De virtute difese la teoria dell’auto-sufficienza
della virtù; in uno scritto Sui doveri diede precetti ai
genitori, ai figli, ai fratelli sulla loro condotta; nel De
patientia, trattò di questa. Cicerone ricorda come udi-
tori di Filone di Larissa, Publio e Caio Selio e Tetrilio
Rogo, ma s’ignora se ne seguissero le dottrine.
Seguace dello scetticismo neo-accademico fu L. Tu-
42 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
berone, al quale Enesidemo dedicò i suoi Discorsi Pir-
roniani ; se, come si ritiene, è identico a L. Elio Tube-
rone, amico intimo di Cicerone (che ne loda il carattere
e la cultura), quello scritto dovrebbe porsi verso 0 dopo
la morte dell’oratore, il quale pure molto attinse alla
scepsi della Nuova Accademia. L. Elio Tuberone fu
legato di Q. Cicerone (proconsole di Asia nel 61-58);
nella guerra civile insieme col figlio combattè coi Pom-
peiani : graziati ambedue da Cesare, vissero a Roma.
Puberone si occupò di studi storici. Seguì la Nuova Ac-
cademia anche M. Aurelio Cotta e verso di esso pare
inclinasse C. Lutazio Catulo. Il primo (n. 120, m. e. 73
a. C.) fu tribuno della plebe nel 91, visse in esilio dal
91 all'82, ottenne il consolato nel 75 e fu anche ponte-
fice massimo. Appartenne ai più notevoli oratori del
tempo suo. Il secondo (n. ec. 150 a. C.) combattè a Nu-
manzia (134-133) sotto Scipione Emiliano e così fu ac-
colto nel suo circolo ; nel 102 fu console con Mario e
l’anno seguente partecipò con lui alla vittoria di Ver-
celli sui Cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia
che provocò l’implacabile inimicizia di Mario la quale
costrinse Catulo, che era stato dalla parte del Senato,
a darsi la morte col veleno (87) per sottrarsi alla con-
danna capitale che lo attendeva. Compose epigrammi
latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che
Cicerone loda al pari dei suoi discorsi. Forse seguì la
Nuova Accademia anche L. Furio Filo. Questo, nel 155,
udì i tre filosofi ; nel 136 conseguì il consolato e ottenne
la Spagna come provincia. Nel De Republica di Cicerone
ficura come uno dei principali oratori : si dice che avesse
l'abitudine di discutere il pro e il contra delle questioni.
Una personalità assai notevole di questo periodo è
quella di P. Nigidio Figulo, senatore nel 63 a. C., pretore
nel 58 e ascoltatissimo consigliere di Cicerone nel mo-
mento critico della congiura di Catilina; nella guerra
civile si schierò col partito di Pompeo e dopo la scon-
fitta di questo visse in esilio e vi morì probabilmente
nel 45. Nella vita politica occupò sempre posizioni se-
condarie, ma ebbe fama notevole per l'ampiezza del
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 43
suo sapere che lo fece ritenere il più dotto dei romani al
pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di
cultura. Cicerone afferma che ha fatto risorgere il Pi-
tagorismo morto da lungo tempo come dottrina filo-
sofica ; ma effettivamente era riapparso come Neo-Pita-
gorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appar-
tenne Bolos di Mendes (o Bolos Democrito) nel 30 sec.
a. C.; quindi l’affermazione di Cicerone va limitata al
mondo romano. Nigidio Figulo aveva raccolto intorno
à sè un circolo pitagorico, che permise ai suol nemici
personali di parlare di una factio ; il suo sforzo di fon-
dere l'insegnamento di Pitagora (nel quale vedeva un
maestro di verità filosofico-religiose, di astronomia e
di scienze occulte) con credenze, oltrechè romane, etru-
sche e orientali, specialmente babilonesi, suscitò l'accusa
di infedeltà alla religione dello stato. Sembra che col-
tivasse l'astrologia e la magia e che predicesse al padre
di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe
dominato il mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti :
Commentarii grammatici di almeno 29 libri; De gestu
(una monografia retorica); De dis, di cui è citato il 1.
199, è il primo tentativo di rappresentare tutto il pan-
theon romano e precede un’opera simile di Varrone,
che ne offuscò il ricordo ; vi si notano intuizioni stoiche,
ma è dubbio l'influsso di Posidonio, chiari invece quelli
etruschi e astrologici; De ertis, che doveva diffondersi
‘sull'arte augurale etrusca; Augurium privatum, in al-
meno 2 libri. È dubbia l'attribuzione a lui di un libro
Sulla interpretazione dei sogni. Uno seritto De ventis
comprendeva almeno 4 libri. Si cita il 4° libro di un'opera
De animalibus e il 4° di un De hominum natura. È pro-
babile abbia composto un De terris, che sembra fosse
un’opera di geografia astrologica. La Sphaera era un’o-
pera di astronomia e di astrologia che pare includesse
una Sphaera graecanica (descriziene delle costellazioni
greche) e una Sphaera barbarica (descrizione di quelle dei
popoli non greci): probabilmente conteneva predizioni
astrologiche.
Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che
44 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
lo dominavano dovevano conservarsi in tutto il Neo-Pi-
tagorismo posteriore.
L'indirizzo pitagorico trovò un fautore in Vatinio, al
quale Cicerone (che poi si riconciliò con lui) rimproverò
di coprire col nome di Pitagora mostruosità nefande ; e
può darsi che a quella scuola aderisse anche lo storico
C. Sallustio Crispo (n. ad Amiterno 86 a. C., m. e. 35).
Tribuno della plebe nel 52, senatore, fu espulso dal se-
nato nel 50 per motivi morali, e probabilmente perchè
fautore di Cesare, che lo nominò questore (51), pretore
nella guerra africana e proconsole della Numidia (45).
Dopo la morte di Cesare abbandonò la vita pubblica
per dedicarsi completamente agli studi storici (La con-
giura di Catilina, La guerra giugurtina, Le Storie). Gli
venne rivolta l’accusa di essere stato complice dei sa-
crilegi di Nigidio Figulo ; certamente spesso insiste nei
suoi scritti sulla opposizione di anima e corpo, parla
di un nume divino che veglia sulla condotta dei mortali
e accenna a sanzioni nell’oltretomba. È quindi proba-
bile che allo storico debba essere identificato quel Sal-
lustio che scrisse un Empedoclea per esporre le dottrine
del filosofo d’Agrigento, tutte colorate di Pitagorismo.
Sesto Clodio, siciliano, retore e maestro del triumviro
Antonio, compose in greco un libro sugli Dei e verisimil-
mente anche uno seritto contro i nemici dell’alimenta-
zione carnea (i pitagorici); ma non si può dire quale
indirizzo seguisse.
Alcuni uomini insigni, senza essere filosofi, nutri-
rono interesse vivo per i problemi della filosofia ; ciò si
può dire di un membro del circolo degli Scipioni, Lu-
cilio, nato (forse nel 180) a Sessa Aurunca da famiglia
ricca e distinta. Ebbe un fratello che fu senatore e, per
mezzo della figlia, nonno di Pompeo. Deve avere cono-
sciuto la cultura greca (di cui si penetrò) nell’Italia
meridionale e a Roma, ove passò la maggior parte della
vita: forse soggiornò anche in Atene. Come cavaliere
partecipò alla guerra contro Numanzia, agli ordini di
Scipione Emiliano, con cui aveva già stretti rapporti ;
in seguito ne appoggiò energicamente l'azione politica.
GLI INIZI DELLA FILOSOFIA ROMANA 45
Fece parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno
più ampio. Deve essere stato amico del neo-accademico
Clitomaco, che gli dedicò un libro. Morì a Napoli nel 102.
Scrisse 30 libri di.satire, di cui restano frammenti,
composte dal 132-131 fino all’epoca della morte. In esse
rappresenta e critica la vita romana dell’età sua, in-
teressandosi soprattutto di questioni politiche; ma dei
vizi del tempo fu giudice severo. Si occupò molto di
problemi grammaticali, retorici e letterari, ma si in-
teressò anche di filosofia, alla quale deve avere dedicato
una satira. Nei framm. del l. 28 la teoria epicurea è
confutata verisimilmente da un accademico, anche per-
chè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale scuola.
La forma e il contenuto dei suoi seritti rivelano l’in-
flusso della filosofia popolare del Cinismo di Bione e di
Menippo. Un ampio frammento in cui è dipinta l'antica
virtù romana, secondo alcuni proviene da Panezio, se-
condo altri da Cleante: però qualche storico pone
Lucilio in relazione con l'Accademia.
Non filosofi e nemmeno seguaci di un indirizzo deter-
minato, ma persone colte e animate da interessi filoso-
fici furono L. Licinio Crasso e L. Licinio Lucullo : il
primo (n. 140, m. 91 a. C.), uno dei più famosi oratori
dell'età sua, fu tribuno della plebe nel 107, console
nel 95, proconsole della Gallia Cisalpina nel 94, censore
nel 92. Secondo Cicerone ebbe stretti rapporti con fi.
losofi e con uomini che si appassionavano per i pro-
blemi della filosofia, come il peripatetico Staseas, l’epi-
cureo Velleio, lo stoico M. Vigellio scolaro di Panezio.
Lucullo (n. e. 117?, m. 57?), che si distinse nella guerra
sociale come tribunus militum, avendo avuto quale pro-
questore sotto Silla nella guerra mitridatica (86) l’in-
carico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto e di
raccogliere una flotta, volle avere presso di sè Antioco
d’Ascalona in quel pericoloso viaggio sul mare. Pretore
nel 77, propretore in Africa nel 76, console nel 74 ottenne
il governo proconsolare della Cilicia e il comando della
guerra contro Mitridate e sconfisse prima questo, poi
il suo alleato Tigrane re di Armenia. Nei sette anni
Ci: Rel STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
(74-67) del suo comando, batiè con poche forze grossi
eserciti nemici; ma per il malcontento dei soldati le
cose peggiorarono, sicchè i suoi avversari lo fecero
richiamare a Roma (66) ove soltanto dopo tre anni gli
fu concesso il trionfo. Lucullo contribuì potentemente
all'introduzione della cultura ellenistica in Roma; fu
oratore, storico (scrisse in greco un’opera sulla guerra
sociale) e si interessò. vivamente per la filosofia, tanto
che volle compagno Antioco sia da proquestore che da
proconsole e con gli studi filosofici si consolò degli in-
successi politici. Forte interesse per la filosofia provò
anche un’amica di Cicerone, Cerellia.
Di Nigidio Figulo e di molti altri autori nominati
restano soltanto testimonianze, e di alcuni, pochi fram-
menti. Nel primo caso si trova P. Nigidio Figulo, la
figura principale fra le minori. Possediamo invece le
opere di Lucrezio, il poeta dell’Epicureismo, e di Cice-
rone, rappresentante dell’eclettismo ; degli scritti di in-
teresse filosofico di un altro eclettico, Terenzio Varrone,
abbiamo frammenti abbastanza numerosi. Questo è una
figura notevole, sebbene di secondo ordine. Incompara-
bilmente superiori a tutti sono i due primi.
A n
ne
CaprroLo II.
T. Lucrezio Caro.
Della vita di Lmerezio Caro quasi nulla sappiamo.
Sono incerte le date di nascita e di morte, che oscillano
dal 99 al 95 a. C. per la prima, dal 55 al 51 per la seconda,
avvenuta quando il poeta aveva 44 anni. È incerto il
luogo di nascita. Recentemente G. Della Valle ha soste-
nuto che era pompeiano, ma, sebbene abbia difeso con pas-
sione la sua tesi, non si può dire che l’abbia dimostrata.
Secondo una notizia di S. Girolamo, che si suppone at-
tinta a Svetonio, Lucrezio, impazzito per un filtro amo-
roso, dopo avere seritto in periodi di lucido intervallo
alcuni libri (cioè il poema), si sarebbe tolta la vita; ma
sul valore di questa testimonianza i pareri sono discordi.
Si è affermato che Lucrezio era di umili origini, ma pare
senza ragione perchè almeno un ramo della gens Luere-
zia apparteneva all’aristocrazia di cui faceva parte un
Memmio identificato di solito a quel C. Memmio di cui
parla Catullo, al quale Lucrezio (che pare gli fosse amico
oltrechè protetto) dedicò il suo poema. Secondo $. Gi-
rolamo, questo, dopo la morte dell’autore, fu corretto da
Cicerone (deve trattarsi dell'edizione curata dall’ora-
tore, che in una lettera al fratello Quinto, seritta nel 54,
parla con lode dell’opera che certamente l’autore non
aveva riveduto e corretto in modo definitivo). Comunque,
siecome rimangono tracce di questo fatto (ad es., ripe-
tizioni) si deve pensare che Cicerone, se pure corresse
il poema, limitò fortemente l’opera sua.
Lucrezio ha esposto dottrine epicuree, con una fe-
deltà che le ricerche recenti hanno messo sempre meglio
in luce, nel De rerum matura, conservando notizie di
aspetti degl’insegnamenti del maestro non testimo-
niati in altro modo. Però egli derivò pensieri anche da
-
48 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
altre fonti. In Epicuro, Lucrezio vede ed esalta con en-/
tusiasmo colui che ha liberato gli nomini dall’influsso/
funesto della religione, perchè facendo conoscere la vera
natura delle cose, ha disperso le opinioni superstiziosé
che ne turbano la vita, cioè la convinzione che gli Dei
intervengono ostilmente negli avvenimenti della loro esi-
stenza e il terrore della morte, prodotto dalla rappresen-
tazione paurosa del mondo d’oltre tomba. Lucrezio si
interessa soprattutto di questo ufficio della filosofia
epicurea, di assicurare tranquillità alla vita umana, e
ciò si comprende meglio quando si ricorda che nell'età
sua, alle feroci lotte politiche si unì una profonda
crisi religiosa, per cui si diffusero le forme più varie
della superstizione e trovarono seguaci culti di origine
orientale, e discipline occultistiche, come l'astrologia e la
magia. Invece, egli accenna soltanto fuggevolmente alla
vera e propria etica del maestro, che ha abitualmente
attirato l’attenzione sia dei seguaci che degli avversari.
La passione severa, ma ardente, dicui Luerezio dà prova
in questa polemica anti-religiosa, conferisce all'opera sua
un vero e proprio carattere di religiosità sui generis.
Ma insieme (questo punto è più accennato qua e là che
espresso) egli si volgeva appassionatamente alla filosofia
per evadere dalle lotte e dalle brutture della vita poli-
tica dell’età sua, che però lo interessava in quanto non
era affatto indifferente alle sorti del suo popolo.
Il poema risulta di 6 libri ; nel I° parla dei principi di
tutte le cose, gli atomi e il vuoto ; nel II° dei movimenti
dei primi e dei composti percepibili che ne risultano ;
nel III° e nel IV° dell'uomo (e propriamente nel III°
dell'anima e della sua natura mortale, nel IV° dei sensi
e dei loro oggetti); nel Vo dell'origine del mondo, della
fondazione degli esseri viventi e della storia della ci-
viltà; nel VI° di alcuni fenomeni naturali particolar-
mente notevoli. Siccome ragioni estetiche giustificano
l'ordinamento attuale del poema, non vi è motivo suf-
ficente per ammettere che quello originario fosse diverso,
ossia che considerasse prima la natura e poi l’uomo (I,
TI, V, VI, III, IV o, come alcuno vuole, I, I_, V, VI,
7, LUCREZIO CARO 49
IV, Ill). Però l'esposizione del pensiero filosofico
richiede che dell’uomo (III, IV) si parli in ultimo.
Punto di partenza della costruzione sono queste due
proposizioni : 1* Nessuna cosa nasce dal nulla (contro la
credenza generale degli uomini che, vedendo che molte
\cose avvengono di cui non sanno trovare le cause, le
\ . . . * *__t_:t DI 2
attribuiscono all’azione di una Divinità e così sono presi
dal terrore davanti ad essa). 2* Nessuna cosa si dissolve
nel nulla. Nessun essere perisce effettivamente, nessuno
si crea, perchè la nascita di uno ha per condizione la
morte di un altro. Occorre quindi ammettere che i corpi
visibili risultano di elementi primi invisibili; 6 siccome
la realtà presenta processi di movimento, è necessario
che esista anche il vuoto in cui essi sono collocati, il
quale ne costituisce la condizione.
I corpi si distinguono nei principi primi delle cose
e nei loro compiti. I primi sono indistruttibili ed eterni
per la loro solidità, cioè perchè non includono vuoto ;
perciò le parti omogenee di cui risultano sono indivisi-
bili. Ossia sono atomi, e sono piccolissimi e quindi im-
percettibili. Infinito è il vuoto in cui i principi (0 atomi)
si muovono eternamente, e illimitata pure è la somma
di essi. L'ordinamento attuale delle cose è stato prece-
duto da processi di movimento e di combinazione di
atomi di ogni specie, dai quali le condizioni presenti
sono. risultate.
Dello studio dei movimenti incessanti degli atomi,
della forza che li determina, degli effetti che ne proven-
gono basterà ricordare alcuni concetti. I principi delle
cose sono trasportati o dal loro peso o dall’urto di altri.
Un movimento di particolare importanza è il clinamen,
cioè la declinazione degli atomi dal movimento in linea
retta attraverso il vuoto che è determinato dal peso :
in questo punto certamente Epicuro, seguito da Lucre-
zio, si oppose a Democrito, anzi a tutti i filosofi del-
l’antichità. In un momento di tempo e in un punto dello
spazio indeterminati gli atomi debbono scostarsi lievis-
simamente dalla verticale, perchè altrimenti non po-
trebbero urtarsi e la natura non avrebbe mai nulla ge-
50 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nerato e tutto sarebbe sottoposto alle leggi del fato,
nè esisterebbe quella libertà che appartiene a tutti gli
esseri animati, per cui la loro volontà dirige i movimenti
che compiono. Siccome tale potere è insito in noi, oc-
corre che derivi da una simile causa naturale nei semi
delle cose, perchè nulla può nascere dal nulla. Per questa/
ragione sia la qualità totale della materia, che quella
del movimento, restano eternamente identiche ; ma molti
dei secondi sono invisibili per la piccolezza degli atomi!
Questi presentano forme diverse e tale varietà e le dif-
ferenze della loro piccolezza permettono di spiegare le
proprietà sensibili delle cose. Però la varietà delle fi-
gure dei principi è finita, sebbene siano infiniti quelli
che hanno forme simili. Per questa loro infinitezza esiste
nell’eternità una lotta continua tra le forze vitali e quelle
opposte, sicchè ora sono superiori le une, ora le altre e le
morti e le nascite si mescolano. Ogni corpo risulta di più
principi diversi; ma non tutte le combinazioni possono
verificarsi, nè esse sono infinite in numero, altrimenti si
genererebbero esseri mostruosi. Gli atomi non posseggono
colori; questi derivano dalle loro diverse forme, dalle
loro combinazioni, dalle loro posizioni e dai movimenti
che s'imprimono reciprocamente; e la stessa cosa si
«deve ripetere per il caldo, il freddo, i sapori, gli odori,
i suoni. In generale, tutto ciò che è perituro (come le
proprietà sensibili) non può essere attribuito ai principi
se si vuole che le cose poggino su basi immortali. Gli
esseri forniti di senso consistono di principi insensibili,
come mostrano molteplici fatti ; ad esempio, dalle uova
derivano pulcini. Se nello spazio infinito si aggirano in
molteplici modi con movimento eterno innumerevoli
semi delle cose, non si può pensare che siano stati creati
soltanto questo cielo e questa terra, quindi debbono esi-
stere altri raggruppamenti di materia simili al nostro
mondo, e in altre parti dell'universo altre terre, e vivere
genti umane e altre specie di fiere: ma ogni cosa avviene
per l’azione libera e spontanea della natura senza l’inter-
vento di forze divine. Ma il nostro mondo, come nasce
e cresce, grazie ai corpi estremi che si aggiungono a
Mae — —_ — __ n I
T. LUCREZIO CARO
quelli simili che vi si trovano, così invecchia e già nel-
l'età nostra ha le forze indebolite, e noi assistiamo al
progressivo isterilimento della terra che crea e produce
sempre meno. Come ogni cosa, anche il nostro mondo
si avvia verso la fine.
Nel V libro Lucrezio, trattando dell’origine del no-
stro mondo (la terra e i corpi celesti che la circondano)
e degli esseri viventi, si occupa in modo particolare
dell’uomo, della lingua, della religione e dello sviluppo
della civiltà umana. Il mondo è perituro, la terra e i
corpi celesti che l’attorniano non sono animati e perciò
non sono guidati nei loro movimenti da una mente
divina, bensì dalla natura. Gli Dei hanno corpi tenui
e intangibili, le loro sedi hanno gli stessi caratteri e
perciò si trovano fuori del nostro mondo [negli inter-
mundia). Gli Dei non hanno formato il mondo per gli
uomini : su tale punto Luerezio arreca molte prove e
tra le altre questa : che troppi sono i difetti del mondo
per ciò che riguarda i bisogni dell’uomo e troppo misera
è la condizione umana perchè si possa pensare a una pro-
duzione divina. Effettivamente il mondo non è perenne,
ma è soltanto ai suoi inizi, come mostrano i progressi
delle arti e delle scienze. Il mondo si è formato non per
uno scopo dei principi delle cose, ma grazie al loro
accozzamento fortuito determinato da movimenti di
ogni genere prodotti dal loro peso ; la condizione attuale
è stata preceduta da combinazioni e da movimenti di
tutte le specie, a partire da uno stato in cui tutto era
confuso e informe. In questo studio cosmologico Luerezio,
seguendo il maestro, offre diverse ‘spiegazioni possibili
degli stessi fatti, senza ricercare quale sia preferibile.
Parlando della formazione degli esseri viventi, Lu-
crezio, che riprende una teoria di origine empedoclea,
afferma che la terra da prima produsse molti animali
mostruosi che perirono o perchè non erano capaci di
riprodursi o perchè non potevano difendersi nè otte-
nere la tutela dell’uomo. Mai però si produssero mostri
costituiti di membra di specie diverse, perchè tutte le
cose sottostanno a leggi fisse della natura.
\
52 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
La vita umana era da prima selvaggia e soltanto gra-
datamente si è svolta la civiltà. Il linguaggio non deriva
da convenzioni arbitrarie, ma si è formato partendo da |
suoni naturali. La religione e il culto hanno avuto ori-/
gine da visioni che gli uomini hanno avuto, specialment
nei sogni, di esseri più belli e più forti di loro, ai quali
hanno attribuito vita perenne e felice : ad essi hannò
assegnato l'ordinamento dei cieli di cui non potevano
conoscere le cause. Perciò supposero che tutto dipen».
desse dal volere degli Dei, dei quali collocarono le sedi
nel cielo. Ma, attribuendo queste azioni agli Dei e inoltre
acerbe ire, quanti mali si è procurato l’infelice genere
umano! Così si è generato il terrore dell’intervento
divino nel corso della natura. Gradatamente vennero
fatte scoperte utili alla vita e si formarono e svolsero
le istituzioni sociali, le arti utili e belle, le scienze, ma
insieme si generarono cupidigie, ambizioni, guerre, sicchè
l'umanità si affatica sempre invano perchè ignora quale
sia il limite del possesso e fino a qual punto possa ere-
scere il vero piacere. È qui palese una nota di pessimi-
smo che, del resto, non manca in Epicuro. Nel libro VI
Lucrezio vuol dare la spiegazione di fatti di difficile
interpretazione che si presentano sulla terra e soprat-
tutto in cielo : di essi, per ignoranza delle cause, gli uo-
mini considerano autori gli Dei che così si rappresentano
come padroni crudeli, mentre effettivamente conducono
una vita senza cure e perciò non si occupano delle fae-
cende umane ; per tale scopo parla dei fenomeni celesti,
che ineludono quelli meteorologici (in questa parte si
riconoscono derivazioni da Teofrasto e da Posidonio),
dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche, delle inonda-
zioni del Nilo e di altre stranezze della natura, delle cause
delle malattie e chiude il poema colla descrizione, che
segue quella di Tucidide, della peste che desolò Atene
nel tempo della guerra peloponnesiaca. Però, come si è
detto, si è alterato l’ordine dell’esposizione per collegare
le dottrine naturalistiche.
La trattazione dell’uomo nel III libro comincia con
lo studio dell’attività spirituale o mente (animus) e della
T. LUCREZIO CARO 53
| forza vitale (anima), che mira a disperdere i terrori
dell’Acheronte i quali perturbano e avvelenano l’esi-
stenza. Dalla paura della morte provengono in gran
parte le colpe degli uomini, che diventano criminali
per il desiderio delle ricchezze e degli onori, in quanto
senza di essi, ritengono la vita un soggiorno davanti alle
porte del Tartaro. Il terrore della morte spinge gli uomini
a tradire la patria, i parenti, gli amici, talvolta a odiare
la vita e a privarsene. È quindi necessario disperdere
questo terrore e queste tenebre dell'anima, con la visione
e la interpretazione della natura. E da prima si deve
stabilire che la mente o spirito che governa la vita, e
l’anima, sono parti del corpo non meno della mano e del
piede. L’uno e l’altra sono intimamente congiunti ©
formano una sostanza sola; però la mente, che ha sede
nel petto (infatti ivi risiedono il timore e la gioia) tutto
dirige, mentrel’anima, sparsa ovunque nel corpo, si muove
secondo il suo impulso. La prima può conoscere e ralle-
grarsi o soffrire soltanto per sè, e, movendo l’anima, agire
sul corpo. Ma da ciò e dal fatto che la prima subisce le im-
pressioni del corpo, risulta che ambedue hanno] natura
corporea. Siccome la mente è rapidissima, deve essere
costituita di semi (elementi) insieme sommamente ro-
tondi e sommamente minuti. Però la sostanza della
mente e dell’anima non è semplice, ma risulta di quattro
principî : vapore, calore, aria e un quarto privo di nome,
la sostanza più mobile e tenue che vi sia, composta de-
gli elementi più piccoli e più lisci, che mette in moto
gli altri tre. Questa sostanza, che inizia i movimenti
della sensazione e li comunica agli altri elementi, si na-
sconde profondamente nell’interno del nostro corpo, forma
l’anima di tutta l’anima e governa l’intero organismo. La
sostanza dell'anima è custodita da tutto il corpo che a sua
volta essa custodisce e di cui determina la salute, perchè
sono intimamente congiunti e non possono separarsi senza
perire: hanno la stessa origine e vita comune. Senza l’a-
nima il corpo non può persistere oltre la morte, e l’ani-
ma senza di esso non può sentire perchè il senso dipende
dalla congiunzione dei loro movimenti. Ma più dell’ani-
54 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
ma la mente domina la vita, perchè quando è assente, l’a-
nima ne segue la fuga dal corpo, che è preso dalla morte,
mentre essa si disperde nell’aria. In tutti gli esseri ani-
mati, la mente e l’anima nascono e muoiono: e sulla loro
mortalità Lucrezio insiste a lungo, sforzandosi di accu-
mularne le prove, derivate soprattutto dalla loro con-
nessione col corpo e con le sue condizioni. Del resto, se
l’anima fosse immortale, dovrebbe ricordarsi della sua
esistenza precedente e delle azioni che ha compiuto.
Se l’anima passasse da un corpo all’altro, non si spie-
gherebbe la trasmissione ereditaria dei caratteri propri
dei diversi animali, come la violenza nei leoni, il timore
nei cervi, e non si intenderebbe perchè certe doti si for-
mino soltanto col passare del tempo. Come poi si può
comprendere che un essere immortale e perenne possa
unirsi a una natura mortale? Inoltre, possono restare
eterni soltanto o corpi solidi e impenetrabili come gli
atomi, o ciò che, come il vuoto, permane intangibile
e non patisce urti, o che, come l’universo, non è incluso
in un luogo in cui le cose si possano dissolvere, nè esi-
stono corpi capaci di urtarlo e di disgregarlo, mentre
l’anima non corrisponde a nessuna di queste condizioni.
Da ciò segue che, essendo mortale la sostanza dell’anima,
la morte non ci riguarda affatto; e come prima di na-
scere non abbiamo provato dolore quando i Cartaginesi
minacciavano di distruzione Roma, così, quando non
saremo più, nulla potrà colpirei. Si deve dunque com-
prendere che nulla si deve temere dalla morte, che chi
non è non può diventare infelice. Quindi, chi si rattrista
per ciò che subirà il suo cadavere dopo la morte e perchè
pensa che non godrà più le gioie della vita, anche incon-
sapevolmente ritiene che qualche cosa di lui esisterà
ancora. D'altra parte, coloro che, per la brevità delle
gioie nmane, spingono a cercare il godimento nel vino
(cioè gli epicurei volgari) non considerano che dopo la
morte la sete non li tormenterà più. Se la stessa Natura
dicesse ad alcuno di noi : « Se hai potuto godere in pas-
sato, perchè non ti ritiri dalla vita, come un convitato
soddisfatto? Se invece la tua esistenza passata è stata
T. LUCREZIO CARO
piena di sofferenze, perchè vuoi prolungarla, mentre
io non posso escogitare nulla di nuovo per compiacerti,
e le cose restano sempre le stesse? », egli potrebbe ri-
spondere soltanto che essa dice il vero. Le generazioni
si succedono e si lasciano successivamente il posto :
la vita non è data a nessuno come proprietà, ma è con-
cessa a tutti perchè ne usino. La natura ci mostra nel
periodo del tempo eterno che ha preceduto la nostra na-
scita lo specchio di quello che sarà il futuro dopo la
nostra morte : in ciò non vi è nulla di orribile, esso è
anzi qualche cosa di più tranquillo di qualunque sonno,
Del pari, gli orrori dell’Acheronte si presentano tutti
nella nostra vita, perchè qui il vano terrore degli Dei,
il timore dei colpi del destino torturano i mortali, qui
l'amore, la gelosia li consumano : questi sono i tormenti
di cui le pene d’oltretomba sono raffigurazioni. In questa
vita esistono tremende punizioni per misfatti insigni, e
anche senza di esse l’anima consapevole dei suoi delitti
si flagella e teme che i suoi mali si aggravino nella morte.
Infine, qui la vita degli stolti diventa un inferno. D'altra
parte, tutti, anche i più potenti, anche i più sapienti
come Epicuro, sono stati presi dalla morte; perchè
deve indignarsi di ciò chi è tanto inferiore a loro? Se
gli uomini potessero conoscere la cause del male che pesa
sul loro cuore non vivrebbero, come fanno i più, igno-
rando ciò che vogliono, e non cercherebbero sempre di
mutare luogo e condizione per sfuggire se stessi, ma
si sforzerebbero di conoscere la natura delle cose, perchè
ciò che è in discussione è lo stato dell’eternità, in cui
tutti i mortali debbono restare dopo la loro morte. Se
poi il fine della vita è fissato per tutti, e vicino, e inevi-
tabile, perchè tanto timore nei pericoli? Inoltre ei ag-
giriamo sempre intorno allo stesso punto, nè possiamo,
vivendo, procurarci aleun piacere nuovo. In ultimo, per
lunga che sia la nostra vita, è sempre un nulla rispetto
al tempo illimitato che seguirà la nostra morte.
Il IV libro tratta da prima dei sensi e dei loro 0g-
getti, poi delle conoscenze della mente, e comincia con
lo studio dei fenomeni della vista, che, secondo una
56 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
teoria di origine empedoclea, che però Epicuro ha de-
rivato da Democrito e da Leucippo, li spiega per mezzo
di immaginette (eldo2a, effigies, imagines, simulacra)
costituite da atomi emananti dagli oggetti: un’imma-
ginetta singola per la sua minutissima struttura non può
essere vista dagli occhi, che avvertono soltanto una suc-
cessione incredibilmente rapida di simulacri : e in modo
simile egli dà ragione degli odori, dei sapori, dei suoni :
si tratta di processi di contatto affini a quelli del tatto.
Gli errorì che si attribuiscono ai sensi derivano dalla
mente : così una torre quadrata vista da lontano appare
rotonda perchè gli angoli delle sue immaginette sono
logorati dall’aria nel loro percorso ; in questo e in altri
casi simili non ingannano i sensi, ma la mente che ag-
giunge ai loro dati le proprie opinioni. Il concetto della
verità ha avuto la prima origine dai sensi, che non si
possono respingere perchè occorrerebbe sostituirli con
qualche altro [criterio] più degno di fede, capace di con-
futare il falso col vero. Ma che cosa è più degno di fede dei
sensi? Non certo il ragionamento che ne deriva e che
perciò, se essi sono falsi, è pure falso ; nè un senso può
confutare l’altro, perchò ciascuno ha il proprio ufficio e
deve decidere di determinate proprietà delle cose. Essi
non possono confutare sè stessi in momenti successivi,
perchè meritano sempre la stessa fede e ciò che ogni
volta è apparso loro vero, è vero. Se si nega fede ai sensi,
non soltanto la ragione, ma la vita stessa rovina. Ma
anche la mente ha conoscenze sue proprie. Molte imma-
ginette si muovono in tutte le direzioni ed essendo te-
nuissime, si combinano facilmente : esse, penetrando per
gli interstizi del corpo, eccitano la sostanza della mente,
sicchè noi vediamo mostri e immagini di morti. Le stesse
cose accadono nel sogno; allora i sensi sono ostruiti
e riposano e non possono confutare il falso col vero e
langue anche la memoria, che è incapace di smentire
quelle visioni ricordando che è morto colui che la mente
erede di vedere vivente. I movimenti del corpo si spie-
gano in questo modo: immaginette di movimento colpi-
scono la mente e si forma la volontà di muovere il corpo.
T., LUCREZIO CARO
Allora la mente agisce sull’anima che muove il corpo.
Il libro IV si chiude con la descrizione dell’amore che
è determinata dall’impulso sessuale, furore che non si
soddisfa mai e reca dolori, tormenti, gelosie.
L’analisi del poema luereziano mostra che lo studio
dei problemi morali, che aveva tanta parte nell’opera
di Epicuro, non è affrontato direttamente e in modo
sistematico. In un passo del II libro (vv. 14 sgg.) si
ripresenta la tesi fondamentale del maestro, che la
natura esige soltanto per il corpo l'assenza di dolore e
per lo spirito un senso di letizia privo di preoccupazioni e
di timori e si afferma che il corpo esige poche cose che,
mentre tolgono il dolore, possono arrecargli molte gioie ;
con poco si soddisfano la fame e la sete. Altrove (III
vv. 59 sgg.) si collegano al timore della morte, il deside-
rio delle riechezze e degli onori (che spinge gli uomini
alla violazione del diritto e ai delitti), in quanto una
vita povera e oscura sembra posta davanti alle porte
della morte. Più oltre si afferma che le pene dell’Ade
sono soltanto immagini dei desideri e delle passioni che
torturano l’uomo in questa esistenza. Ma l’atteggia-
mento che Lucrezio assume di fronte alla vita si rivela
soprattutto nell’ultima parte dello stesso libro (vv.
1076 sgg.). Come ha osservato il Bréhier, Luerezio non
si limita al pari di Epicuro a liberarci dal terrore del-
l’oltre tomba, ma vuole proteggerei anche dall’orrore
del nulla con la meditazione della « morte immortale ».
Egli insiste sulla monotonia delle cose e così suggerisce
più che l’intrepidità davanti alla morte, il disgusto della
vita, valendosi di motivi delle diatribe dei cinici. In
Epicuro, come in tutti gli edonisti, il pessimismo era
implicito, perchè il piacere richiede un continuo supe-
ramento del dolore; ma questo pessimismo nel grande di-
scepolo si afferma imperiosamente e diventa, si può
dire, il motivo ispiratore della visione della vita. In
questo pensiero doloroso e nel pathos intenso che ispira
la sua polemica contro la religione, concepita come fonte
di terrori e di mali, risiede l’aspetto più originale del-
l’opera di Lucrezio.
58 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Per le fonti, ha attinto certamente, oltre che a Epi-
curo, a Empedocle, a Tucidide (per la descrizione della
peste di Atene) ; inoltre si sono riconosciuti altri influssi
(Eraclito, Senofane, Democrito, Aristotele, Teofrasto,
Posidonio, Filodemo), ma in ogni caso hanno minore
importanza.
Ben presto l’arte di Lucrezio destò ammirazione,
anche se non mancarono le riserve e le limitazioni e
soltanto Ovidio mostrò di apprezzarlo degnamente; è
. certo, però, che quasi tutti i poeti dell'età augustea,
come Virgilio, Properzio.... aspirarono, anche momenta-
neamente, a gareggiare con lui. Egli agì pure su prosatori,
come Seneca ; e Tacito attesta che alcuni lo preferirono a
Virgilio. Nella prima età cristiana gli scrittori, anche se
lo eriticarono, lo studiarono e lo imitarono ; ma dopo
Rabano Mauro venne ignorato. Quando nel 1417 Pog-
gio Bracciolini lo riscoprì, Lucrezio suscitò l’ammira-
zione e lo studio degli Umanisti e dei poeti (per es.
del Poliziano e del Pontano) e ispirò anche all'arte del
Botticelli la figura di Venere nella Primavera. È proba-
bile che G. Bruno abbia derivato da lui la concezione
dell’infinito. Verso il 1600 Lucrezio attirò l’interesse dei
pensatori francesi e per suo mezzo il Gassendi ritornò
ad Epicuro, determinando, come reazione, 1’ Antilucre-
zio del Polignac (edito postumo nel 1747). Nel 1700 e
nel 1800 sì interessarono di lui anche i tedeschi (Kant,
Winckelmann, Herder, Schlegel, soprattutto Goethe) e
gli inglesi (Byron, De Quincey, Browning, Tennyson).
In Italia lo ammirò assai il Foscolo. Lo studio filologico
si iniziò nel 1845, quando il Lachmann cominciò ad
occuparsi di lui, aprendo la via a numerose ricerche di
studiosi di tutto il mondo.
CapitoLO III.
M. Terenzio Varrone.
M. Terenzio Varrone (n., pare a Rieti, nel 116, m. nel 27
a. C.), fu triumviro capitale, questore (86 ?) legato, pro-
pretore di Pompeo, nella guerra contro Sertorio (76 8g.)
tribuno della plebe, pretore (68?) legato di Pompeo
nella guerra contro i pirati ed ebbe altri uffici impor-
tanti. Da prima, nella guerra civile, fu legato di Pompeo
in Ispagna e si trovò a Durazzo con Cicerone e Catone ;
ma poi si astenne dal parteciparvi e si pacificò con Ce-
sare che doveva avere già conosciuto. Il dittatore (al
quale dedicò nel 57 le Antiquitates rerum divinarum)
gli affidò l’incarico di organizzare una pubblica biblio-
teca che però non venne attuata. Nel 43 fu prosceritto da
Antonio ; potè sottrarsi alla morte, ma le sue biblioteche
vennero saccheggiate. Negli anni che seguirono la guerra
civile scrisse le opere più importanti. Ancora vivente,
fu giudicato il più dotto dei romani ed effettivamente
dominò tutto il sapere del tempo suo, greco e romano :
per lui lo studio era un bisogno. Fu soprattutto uno stu-
dioso delle antichità romane che volle rendere familiari
ai suoi concittadini, valendosi dei procedimenti scien-
tifici usati dai greci e insieme mirò a far conoscere in
Roma le grandi opere della erudizione ellenica. Ma
non voleva mentre teneva l’occhio fisso sulla vita pas-
sata di Roma, rappresentarla soltanto, ma con quello
studio, esercitare un’azione sul presente. Le sue opere
hanno costituito il tesoro cui hanno attinto in seguito,
per secoli e secoli, quanti si sono occupati di antichità
romana, e hanno così esercitato un’azione fondamen-
tale sulla cultura posteriore. Fino al 77° anno di età
scrisse 490 libri, e non si può dire quanti ne abbia com-
posti poi.
60 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Opere in prosa: Libri tres rerum rusticarum, scritti
a 80 anni. Scritti grammaticali : Principale il De lingua
latina, in 25 libri, di cui restano soltanto sei. Scritti di
storia letteraria : si possono ricordare: De poematis,
in 3 libri: De poetis (storia di poeti romani), De se@e-
nicis originibus, in 3 libri (sulle origini del teatro);
De actionibus scaenicis, in 3 libri; Quaestionum Plauti-
narum libri V. Scritti archeologici e stoici : Antiquitates
rerum humanarum et divinarum in 41 libri, l’opera più
letta nell’antichità; Annalium libri III. Fra le opere
politiche : De Pompeio in 3 libri; Legationum libri ITI.
Scritti di geografia, di agraria, di retorica, di diritto
(fra i quali De iure civili, in 15 libri). Il primo tentativo
di un’enciclopedia includente le arti liberali. Discipli-
narum libri IX (1. De gramatica. 2. De dialectica. 3. De
rhetorica. 4. De geometria. 5. De arithmetica. 6. De
astrologia. 7. De musica. 8. De medicina. 9. De architec-
tura). Con lo studio delle humanae artes l’uomo doveva
essere educato ed elevato dalle cose inferiori alle supe-
riori. Scritti di oratoria : Orationes, in 22 libri, Swasio-
nes, in 3 libri, De lectionibus, in 3 libri.
Scritti filosofici : Liber de philosophia (sul fine della
filosofia); De forma philosophiae libri III (principî di
filosofia) ; De principiis numerorum libri TX (esposizione
delle teorie pitagoriche sui numeri) ; i Logistorici in 76
libri: ogni trattazione portava due titoli, il nome di
una persona e l'indicazione del contenuto (per es.,
Cato, de liberis educandis). Ne danno notizia scrittori
posteriori. Secondo alcuni studiosi erano prose in cui
dottrine filosofiche si univano a esemplificazioni stori-
che, secondo altri, dialoghi (A6yot) che confermavano con
l'esposizione storica tesi filosofiche. Riguardavano argo-
menti d’interesse generale come il culto degli Dei, l’edu-
cazione dei figli:
Opere in poesia: Forse 4 libri di Saturae; 6 libri
Pseudo-tragoediarum (tragedie da lettura); 10 libri di
Poemata, o brevi carmi, È dubbio un poema didascalico.
Miste di prosa e di versi erano le Saturae Menippeae
in 150 libri in cui Varrone, a quanto si è pensato, avrebbe
M. TERENZIO VARRONE 6l
preso a modello Eraclide Pontico, Nelle Menippee, di
cui restano frammenti, Varrone satireggiava i corrotti
costumi dell’età sua, posti in contrasto con la vita sem-
plice e sana del buon tempo antico. Gli argomenti trat-
tati erano talvolta politici, ma soprattutto morali. Le
Menippee parlavano anche ripetutamente di argomenti
filosofici, come le differenze e i contrasti delle varie
scuole.
Varrone dichiarava di accettare la filosofia accade-
mica di Antioco di Ascalona, di cui era stato scolaro,
ma effettivamente era un eclettico. Seguì lo Stoicismo,
specialmente di Panezio, nello studio della mitologia,
e di Posidonio in quello della scienza della natura. Dal
Pitagorismo accolse la tendenza verso la concezione mi-
stica dei numeri, dal Cinismo, l'esaltazione della vita
semplice e la condanna del desiderio del lusso e del pia-
cere regnante nell’età sua. Negli studi letterari accettò
dottrine peripatetiche. S'interessò soprattutto per i pro-
blemi dell'etica. Per lui, movente della filosofia è la
ricerca dell’eudemonia: le differenze importanti delle
scuole filosofiche sono soltanto quelle che riguardano
la concezione del fine della vita. Sotto questo rispetto,
distingueva 288 indirizzi filosofici possibili, riducibili a
3 classi principali; infatti, il problema fondamentale è
quello di determinare quale rapporto si debba porre
fra la virtù e ciò che è primo secondo natura : sono la
prima fine e il secondo mezzo, o viceversa, o ambedue
sono fine per sè? Siccome si tratta del bene supremo
dell’uomo, che risulta di anima e di corpo, esso deve
includere i beni dell’una e dell’altro ; sia la virtù che il
primo per natura, sono desiderabili per sè. Ma il supremo
bene è la virtù che è l’arte di condurre la vita, acqui-
stata con lo studio. Però, siccome inelude in sè anche
ciò che è il primo oggetto dell'impulso naturale, desidera
anche questo per sè stesso ; essa considera sè come il
bene più alto, ma possiede anche gli altri e sa assegnare
a ciascuno il posto che gli spetta. Il possesso della virtù
e dei beni dell'anima e del corpo che ne sono le condi-
zioni costituisce la vita beata ; se le si aggiungono quelli
Y Ù
62 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
di cui la virtù può fare a meno, si ha la vita beatior ; se
poi non manca aleun bene dell'anima e del corpo esiste
la vita beatissima. La vita beata deve esplicarsi in rap-
porti sociali sempre più vasti che vanno dalla famiglia
all'universo e realizzarsi in una connessione di attività
teoretica e pratica. I principî dei beni e dei mali però
non debbono essere puramente verosimili, ma superiori
a ogni dubbio. In tutte queste teorie Varrone si mantiene
nelle linee direttive della filosofia di Antioco : e forse
segue questo anche quando, avvicinandosi allo Stoi-
cismo, materialisticamente vede nell'anima un pneuma.
Aderiva allo Stoicismo nelle dottrine teologiche in cui
identificava Dio all'anima del mondo, le eni parti (cioè
le anime che reggono le divisioni dell'universo) sono
gli Dei celesti, gli eroi, i lauri e i geni. Con Panezio e
Mucio Scevola, Varrone distingueva i tre generi di teo-
logia, di cui si è già parlato. Mentre criticava vivace-
mente la mitologia dei poeti, osservava che le dottrine
dei filosofi discordano fra loro e riteneva che avessero
one coloro che ammettevano una sola Divinità,
l’Anima del mondo. Quanto alla teologia politica (cioè
l'insieme delle istituzioni religiose degli stati), pure ri-
conoscendovi elementi eriticabili, riteneva che fosse ne-
cessario conservarla per l’utilità della massa. Neanche
in ciò si può trovare alcunchè che oltrepassi lo Stoicismo
di Panezio, che si poteva conciliare benissimo coll’eclet-
tismo di Antioco.
CapitoLo IV.
M. Tullio Cicerone.
M. Tullio Cicerone nacque in Arpino, la patria di
Mario, il 3 gennaio 106 a. C., da una famiglia di possi-
denti. Ricevette a Roma l'insegnamento di M. Antonio
e L. Crasso nell’arte oratoria, dei due Mucio Scevola ‘
(l’augure e il pontefice) nella giurisprudenza, dell’epi-
cureo Fedro e del neo-accademico Filone nella filosofia.
Ma il fine era quello di diventare un oratore e ad esso
erano subordinati gli altri studi, considerati mezzi ne-
cessari per conseguirlo. Verso venti anni, Cicerone iniziò
la sua attività di scrittore e di avvocato ; però, per com-
pletare la sua cultura, al pari di molti altri giovani ro-
mani, si recò in Grecia e in Asia (79-77). In Atene ascoltò
diversi maestri di filosofia e di eloquenza e altri ne udì
in Asia e a Rodi. Ritornato a Roma, riprese la sua opera
di patrono e nel 75, raggiunta l’età legale, ottenne la
questura e l’amministrazione della Sicilia occidentale.
Nel 70, per fare cosa grata ai siciliani che aveva cono-
sciuto, sostenne l'accusa che essi rivolgevano a Verre,
di avere come propretore dell’isola (dal 78 al 71) com-
messo abusi di ogni sorta a loro danno. Sebbene Verre
fosse difeso da uno dei più autorevoli rappresentanti
del partito senatorio, Q. Ortensio, dovette spontanea-
mente recarsi in esilio per sottrarsi a una condanna
sicura. Nel 69 Cicerone fu edile curule, nel 66 pretore
con la giurisdizione sui processi de repetundis, nel 63
console. In tale anno si formò la congiura di Catilina che
Cicerone riuscì a soffocare ; ma se così toccò l’apice della
sua carriera politica, si preparò una serie di sventure per
il futuro. Fu considerato strumento dell’oligarchia se-
natoria e accusato di aver fatto uccidere senza processo
cittadini romani, sicchè i triumviri (Cesare, Pompeo,
Ln
64 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Crasso), per toglierlo di mezzo, si valsero del tribuno
Clodio perchè proponesse che chi avesse agito così fosse
esiliato. Cicerone spontaneamente abbandonò Roma e
la condanna venne pronunciata contro lui assente. La
sua lontananza dalla capitale (aprile 58 - agosto 57) ter-
minò quando, per un decreto dei comizi centuriati, fu
richiamato, ma ben poco potè fare, sicchè la sua attività
politica venne interrotta. Ritornato a Roma dopo essere
stato proconsole in Cilicia (51-50) si trovò involto nella
guerra civile fra Cesare e Pompeo; per qualche tempo
esitò, poi si decise a seguire Pompeo a Durazzo, quan-
tunque comprendesse che il conflitto si sarebbe rivolto
in ogni modo con la caduta della libertà. Dopo Farsaglia,
si recò a Brindisi sperando di ritornare a Roma, ma là
dovette attendere (ottobre 48-agosto 47) il ritorno di
Cesare, che lo trattò molto bene e gli concesse di attuare
il suo progetto. Però di nuovo Cicerone dovette tenersi
lontano dalla vita pubblica, che (dopo diverse sventure
domestiche, principalmente la perdita della dilettissima
figlia Tullia, nel febbraio 45) gli si riaprì con la morte
di Cesare (15 marzo 44). Ma ciò produsse la sua fine ;
infatti, essendosi opposto con violenza ad Antonio, che
assalì aspramente nelle Filippiche, venne ineluso dai
triumviri (Ottaviano, Antonio, Lepido) nelle liste di pro-
serizione e ucciso il 7 dicembre 43 nella sua villa di
Formia dai sicari di Antonio.
Si può dire che dalla prima giovinezza sino alla fine
della vita, Cicerone abbia coltivato gli studi filosofici ;
ma gli interessi che provò per essi non furono sempre
gli stessi. Da prima, il desiderio di emergere nella vita
politica di Roma per mezzo dell’eloquenza (la via più
adatta per un Romo novus), bene lo aveva indotto a ricer-
care in un’ampia cultura, che includeva una certa cono-
scenza della filosofia, il mezzo migliore per conseguire il
suo scopo. Si comprende quindi perchè il giovane Ci-
cerone (il quale del resto aveva avuto come primo mae-
stro il grammatico Elio Stilone, seguace dello Stoicismo
e che, terminati gli studi, era stato dal padre affidato,
nel suo tirocinio giuridico e politico, a due giureconsulti
Cate ix: °. MERI
M. TULLIO CICERONE 65
insigni che appartenevano alla stessa scuola e che aveva
già avuto rapporti con l’epicureo Fedro) abbia seguito
l'insegnamento del capo della Nuova-Accademia, Filone
di Larissa, che si era recato allora a Roma (88 a. C.).
Ma gradatamente, pure vedendo nelle discussioni filo-
sofiche un esercizio utile alla sua attività di oratore (s0-
prattutto l'abitudine dei neo-accademici di sostenere
rispetto a una tesi il pro e il contra gli sembrava uno stru-
mento prezioso per quello scopo) comincia a interessarsi
direttamente per gli argomenti trattati e ad apprezzarne
l'importanza. In quel tempo segue l’insegnamento di
dialettica dello stoico Diodoto. Nove anni dopo, nel 79,
riprende gli studi filosofici ascoltando le lezioni di An-
tioco di Ascalona, l’antico discepolo di Filone di Larissa
e poi suo avversario ; ciò non impedisce di seguire a
Cicerone l'insegnamento di due maestri epicurei, Fedro
e Zenone. A Rodi studia rettorica con Molone: ma è
probabile che là conosca lo stoico Posidonio che dovrà
poi ricordare fra i suoi maestri e che a Roma sarà un
suo familiare. Ritornato nell’Urbe, rientra nella +vita
pubblica e ad essa dedica le proprie attività migliori;
ma i suoi discorsi, in cui sono abbastanza frequenti gli
accenni a questioni filosofiche, mostrano che non tra-
seura gli antichi studi ai quali lo riconducono le rela-
zioni di amicizia che lo stringono a uomini che, come
Attico, Varrone, Catone, Bruto, s’interessavano per esse.
Quando, dopo il primo triumvirato, fu costretto a
interrompere la sua attività politica, serisse di argomenti
collegati con la filosofia, componendo opere retoriche e
politiche, il De oratore (55); il De republica (54), il De
legibus (52). (Egli incluse i suoi scritti retorici tra quelli
filosofici, ed effettivamente cercò di mettere in evidenza
la necessità di collegare l’eloquenza con la filosofia).
Questi scritti però non avevano carattere essenzialmente
filosofico. Dopo le vittorie di Cesare sui pompeiani,
Cicerone deve astenersi dal prender parte alla vita pub.
blica ed è rattristato, oltre che dalle sofferenze di citta-
dino per la perdita della libertà romana, da dolori
familiari e da preoccupazioni economiche : si volge al-
ro
66 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
lora agli studi filosofici per trovarvi conforto, per espli-
care in modo degno di lui le sue attività intellettuali.
Ma principalmente voleva servire la sua patria, sia of-
frendole quella letteratura e quel linguaggio filosofico
che ancora le mancavano (perchè gli seritti degli epicurei
romani erano secondo Cicerone, non soltanto errati nel
contenuto, ma anche difettosi nella forma), sia ammae-
strando i giovani, se non altro i migliori, a vincere in se
stessi la decadenza morale del loro tempo e a prepa-
rarsi così a esercitare un’azione benefica nello stato.
I primi seritti di quest'epoca, però (le Partitiones
oratoriae, il Brutus [46], i Paradowa stoicorum [46], con-
siderati dall’autore un’esercitazione retorica, l’Orator
[46], riguardavano la rettorica, pur collegandola con la
filosofia; ma subito dopo l’ultima opera, se non anche
prima, sembra che Cicerone abbia concepito il programma
di presentare ai suoi concittadini in forma facilmente
accessibile il contenuto complessivo della filosofia; ma
l'attuazione di quel proponimento (iniziata con la com-
posizione dell’Hortensius, probabilmente alla fine del
46) fu interrotta dalla morte della figlia Tullia (feb-
braio 45). Affranto dal dolore, Cicerone allora si isola
nella solitudine della sua villa di Astura presso Anzio
e si immerge nella produzione filosofica, serive sia di
giorno che di notte perchè il sonno lo sfugge, sicchè
in quell’anno e nel seguente compone la Consolatio, gli
Academica, il De finibus, le Tusculanae Disputationes,
la traduzione di parti del Zimeo, il De natura Deorum, il
Cato Maior de senectute, il De divinatione, il De fato,
il De gloria, il Laelius de amicitia, i Topica e, infine,
nel novenbre 44, il De officiis. Seguiva il De virtutibus,
perduto. L’Hortensius costituiva un protrettico alla fi-
losofia, gli Academica espongono la teoria della cono-
scenza, il De finibus, le Tusculanae, presentano l’etica
generale. Il De senectute, il De amicitia, il De gloria,
considerano argomenti etici speciali : il De officiis e il
De wirtutibus trattano dell’etica applicata. Alla fisica, 0
filosofia della natura, che includeva la teologia, si ri-
feriscono il De natura Deorum, il De divinatione, il De
M. TULLIO CICERONE 67
fato. Dell’opera principale, invece, restano soltanto fram-
menti della introduzione a un dialogo e della traduzione
di una parte del Zimeo. I Z'opica sono uno seritto di
occasione, ?
Che una produzione così rapida non potesse avere
carattere originale è chiaro ; e questo fatto e soprattutto
ciò che in una lettera ad Attico Cicerone stesso diceva di
quei lavori (Ar6ypupe sunt; minore labore fiunt, verba
tantum ajfero, quibus abundo : Ad Att. XII, 52,3) hanno
fatto supporre che egli si limitasse a tradurre e a coor-
dinare testi presi a vari scritti greci, che si è cercato di
identificare facendo uso di ipotesi che si debbono giu-
dicare sempre arrischiate quando l’autore stesso non
nomina le fonti che adopera, perchè si sono perdute le
opere filosofiche dell’età ellenistica, da Aristotele al
tempo di Cicerone ; del resto, talvolta si ha ragione di
non prendere alla lettera certe sue indicazioni in propo-
sito. Ma v'è di più. Egli stesso più volte limita il signi-
ficato della sua dichiarazione ad Attico, affermando che
si serve delle fonti greche secondo il suo giudizio (per la
scelta delle fonti. stesse) e l'ordinamento e ne espone il
contenuto nel proprio stile (De off. I, 2,6; De fin. I, 2,6).
Effettivamente vi sono cose che i modelli greci non pote-
vano offrirgli: citazioni di antichi poeti latini, fatti, aned-
doti, esempi presi alle tradizioni, alla storia, alla vita di
Roma, e non soltanto si è servito di questo materiale in-
digeno, ma ha dato impronta romana alle cose che espo-
neva soprattutto in quanto sempre ha avuto presenti alla
mente i modi di pensare e di sentire del suo popolo, e
propriamente della aristocrazia che egli rappresentava
nei suoi scritti e alla quale li destinava. Di più non man-
cano casi che portano a ritenere che egli non si sia limi-
tato a tradurre o a ridurre i pensieri degli autori greci.
Ma anche se si ammette l’opera personale di Cicerone
nella presentazione di determinate dottrine, occorre ri-
cordare ciò che è stato già osservato sul carattere essen-
* Gli scritti filosofici di Cicerone non sono stati raccolti insieme |
nell’antichità. Un corpus comprendeva: De natura Deorum, De di-
vinatione, T'imaeus, De fato, Topica, Paradora, Lucullus, De legibus.
68 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
zialmente ipotetico delle ricerche fatte per scoprire le
sue fonti, che del resto hanno condotto più volte a con-
clusioni assai diverse tra loro. È soltanto con tali riserve
che si può parlare delle fonti ciceroniane. Quanto alla
forma, gli scritti filosofici di Cicerone, con poche ecce-
zioni (la Consolatio, l’Orator, i Paradoxa) (questi del
resto, per il loro carattere di diatriba, si avvicinano al
dialogo), hanno forma dialogica. Essa non era una novità
per i romani, perchè l’avevano usata verso il 150 a. C.
M. Giunio Bruto il giurista in un’opera De jure civili
e più tardi, tra il 59 e il 52, C. Sceribonio Curione, in
uno scritto che era un’invettiva contro Cesare. Però
Cicerone modellò i suoi dialoghi filosofici su quelli dei
greci, derivati nelle loro varie forme dalla conversa-
zione socratica, di cui ci danno una rappresentazione
soprattutto gli scritti platonici del cosidetto periodo so-
cratico. Molti filosofi successivi, pure riprendendo il
modello antico, lo atteggiarono in vari modi : Cicerone
confermò l’opera sua a quei diversi esempi, ma in com-
plesso, l'autore che esercitò l’influsso maggiore sulla
forma artistica dei dialoghi ciceroniani è Platone. Quanto
al contenuto, ben raramente, in generale, attinge per
l'insieme in modo diretto alle opere dei maggiori pensa-
tori, Platone, Aristotile, Crisippo, Epicuro, e si serve
invece principalmente degli autori posteriori ed anche
di compendi e di trattati popolari. Per eccezione, nei
primi due libri del De officiis si attiene strettamente a
Panezio che riassume. Si osserva infatti una progressiva
attenuazione della libertà con cui Cicerone si era servito
delle fonti degli scritti più antichi.
Scritti filosofici e rettorici. Forse lo scritto più antico
riguardante argomenti filosofici è la traduzione dell’ Eco-
_ momico di Senofonte (85 a. C.), di cui rimangono fram-
menti: però è un semplice esercizio stilistico. Nei he-
toriei libri, o De inventione (ec. 80) appaiono influssi
filosofici svariati : già Cicerone si dichiara seguace dello
Scetticismo neo-accademico e mostra di aderire a Fi-
lone di Larissa ; inoltre lo scritto rivela l’azione di pen-
sieri platonici (probabilmente mediati da altri) e stoici.
M. TULLIO CICERONE 69
Come in opere retoriche posteriori, vi è affermata l’esi-
genza che l'oratore possegga cultura filosofica; e la
stessa tesi è sostenuta nel De oratore libri III, scritto
nel 55 (quando infuriavano le lotte fra Milone e Clodio),
che include dottrine neo-accademiche e stoffiche, spe-
cialmente di Panezio e di Posidonio, ma rielaborate
in modo personale. Per la forma e il contenuto, que-
st'opera rivela influssi platonici. Contro i retori e l’in-
segnamento delle scuole, che facevano consistere tutto
nelle regole, Cicerone afferma che per parlar bene oe-
corre pensare bene e conoscere gli argomenti di cui si
parla. Per conseguenza il fondamento dell’arte oratoria
dev'essere la cultura generale, cioè l'insieme di quelle
conoscenze che sono degne di un uomo libero, tra le
quali emergono il diritto civile e la storia, ma soprat-
tutto la filosofia in quanto è la scienza dei concetti
generali che si riferiscono a tutti i casi particolari di
cui deve parlare l'oratore ; e tra le discipline filosofiche,
Cicerone attribuisce importanza particolare all'etica,
scienza dei costumi e della vita. Siccome il pensiero è
inseparabile dall’espressione, è necessario ristabilire quel
nesso di filosofia e di eloquenza che esisteva nella Grecia
antica e che venne poi spezzato da Socrate e dai suoi
continuatori.
Il De republica, in 6 libri (ne doveva includere 9),
menzionato la prima volta nel 54 venne finito nel 51,
dopo vari mutamenti del piano e della composizione :
è dedicato al fratello Quinto. Il dialogo, che si suppone
avvenuto nel 129, ha diversi personaggi del circolo degli
Scipioni, ha per principale interlocutore Scipione Emi-
liano, ma vi interviene ripetutamente C. Lelio. Il tema
è De optimo rei publicae statu, Rimangono una parte
del, VI libro denominata Somnium Scipionis, citazioni 0 -
riassunti di Lattanzio e di Sant'Agostino ei frammenti
scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. Nell’in-
troduzione, in cui è notevole la preferenza data agli
statisti ed ai legislatori sui filosofi, si mette in rilievo
che è dovere occuparsi dello stato. Nel libro I, Scipione,
dopo aver trattato dell’essenza e dell’origine di questo,
RT e RCS —— RO i PE,
pe Pe 7
70 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
distingue le tre forme pure degli ordinamenti politici,
la monarchia, l’oligarchia e la democrazia, parla delle
loro degenerazioni e stabilisce che il miglior regime è
quello che sostanzialmente coincide con la costituzione ro-
mana. Nel libro II, per mostrare come l’ideale si attua,
segue lo svolgimento di questa fino al decemvirato.
Il libro III prova che la giustizia deve essere il fonda-
mento dello stato ; il IV tratta delle istituzioni, che,
a cominciare dall’educazione, debbono assicurare ai cit-
tadini una vita morale e felice; il V considera la for-
mazione del rector rerum publicarum, e il VI continua
il precedente. Nel Somnium, Scipione narra che in un
sogno il suo avo, l’Africano Maggiore, gli ha rivelato
come ritornino alla sede celeste da cui sono usciti e quali
premi conseguano coloro che si sono resi benemeriti della
patria. Fonte principale per la forma e per molti pensieri
è Platone, di cui riappare nel Sogno la svalutazione della
vita terrena. Da lui, da Aristotele e da Dicearco pro-
viene, per mezzo di Panezio, la tesi che lo stato misto
è il migliore; ma per il contenuto pare che l’opera (nei
libri II e III) dipenda soprattutto dallo stoico di Rodi,
ad eccezione del Sogno, che si ritiene derivato da Po-
sidonio o da questo e da Platone : si è anche sostenuto
che alcune parti debbono probabilmente collegarsi al
Protrettico e al De philosophia di Aristotele che rispec-
chiano il platonismo del edone. Riporta a Polibio
(1. II) lo studio dello svolgimento dello stato romano,
in cui Cicerone certamente si è servito di fonti patrie ;
per il libro III si pensa anche a Carneade e a Crisippo.
Il De legibus, forse cominciato alla fine del 53 e finito
nel maggio 51 (è dubbio che seritti posteriori si riferi-
scano a una nuova revisione di quell’opera), non fu pub-
blicato, se pure lo fu, prima del 46. Ne rimangono tre
libri che promettono il IV e un frammento del V, ma
forse l’opera ne includeva anche altri. Il dialogo, che si
pone in Arpino, nell’estate del 52, poi in un’isola del
fiume Fibreno, poi presso il Liri, ha per interlocutori
l’autore, il fratello Quinto e Attico. Argomento, le leggi
migliori. Il libro I tratta del diritto naturale e del con-
.
M, TULLIO CICERONE
cetto di legge. Cicerone mostra che il diritto ha per fon-
damento non l'opinione degli uomini, ma una legge
insita alla natura e che esso diritto, e in generale ciò
che è moralmente lodevole (Ronestum), deve essere ri.
cercato per sè, non per fini interessati. Il libro II ci
mostra che le leggi civili perfette debbono derivarsi
dalla naturale e ne offre un piano stando al modello
che è presentato da quelle romane che si avvicinano
ad esse : poi si determinano le leggi religiose e nel libro
III, quelle dei magistrati. Il libro IV doveva trattare
De judiciis, il V, De educatione. Il modello sono le
Leggi di Platone sia per la forma, sia, in varie cose, per
il contenuto. Sono citati molti altri autori greci (1. III),
ma forse secondo una fonte del platonismo recente (An-
tioco d’Ascalona, a parere di alcuni). Per i libri I e III
si considera fonte Panezio o Antioco o Crisippo; per
il libro I, in particolare, secondo alcuni fonte principale
è Posidonio, secondo altri Posidonio, Panezio e Antioco,
o un manuale stoico rispecchiante la mentalità del tempo
di Antipatro. Il libro II utilizzerebbe Posidonio e fonti
romane usate anche per il libro III. L’Heinemann ri.
tiene che le teorie fondamentali di filosofia del diritto
del De republica e del De legibus, specialmente nel libro I
(anche se riportano a pensieri dello Stoicismo Antico),
derivino da Posidonio.
Le Partitiones oratoriae (di data incerta) costituiscono
un manuale di retorica, composto dietro domanda del
figlio, nella forma di un dialogo tra questo e il padre, in
cui l'autore pone alla base della eloquenza la conoscenza
della filosofia : vi si notano influssi della Nuova Acca-
demia e di Antioco. Il Brutus (46), che è un dialogo fra
l’autore, Bruto e Attico, scritto dopo la vittoria di Ce-
sagre a Farsaglia e poco prima di quella di Tapso e del
suicidio di Catone, contiene una storia dell’eloquenza
romana sotto la repubblica, che viene presentata come
processo ascendente che culmina in Ortensio, che a suna
volta deve considerarsi inferiore a Cicerone (di cui non è
fatto il nome), appunto perchè questo possiede quella cul.
tura generale e soprattutto filosofica che è condizione
72 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
necessaria della vera eloquenza. Sono interessanti le no-
tizie sul giudizio che le tre scuole filosofiche degli stoici,
degli epicurei e dell’eclettismo accademico, davano sull’e-
loquenza e sulla carriera di Cicerone come oratore e fi-
losofo. I Paradora Stoicorum, dedicati a Bruto e scritti
nella primavera del 46 prima della morte di Catone, pre-
sentano in forma retorica tesi caratteristiche della morale
stoica, valendosi di argomenti usati nella diatriba cinieo-
stoica, ma corredati di esempi romani, Cicerone deve es-
sersi servito di un trattato di filosofia popolare sull’argo-
mento. L’Orator, pure dedicato a Bruto, fu scritto nella
metà del settembre 46. Vi è tracciato il ritratto del.
l'oratore ideale (che coincide con quello di Cicerone).
Ribadisce la necessità di congiungere l’eloquenza con
la filosofia e mette in luce il valore della conoscenza
della logica, della fisica e dell’etica per l’oratore.
Per consolarsi della morte della figlia, Cicerone
scrisse prima del 6 marzo la Consolatio, ora perduta, sul
tema De moerore minuendo. (Del genere letterario cui
apparteneva si riparlerà a proposito di Seneca). Inelu-
deva quella svalutazione della vita che appare nel Sogno
e poi nelle Z'usculane. Le citazioni che ne restano pro-
vengono principalmente dallo stesso Cicerone, poi da
Lattanzio. Come fonti, si è servito. di Crantore (che
egli stesso cita) e probabilmente di uno scritto conso-
latorio popolare.
Si è perduto anche l’Mortensius, di cui restano nu-
merosi frammenti e testimonianze. Quest’opera, con cui
Cicerone iniziava la attuazione del progetto di presen-
tare ai romani tutta la filosofia, era cominciata prima
della Consolatio e finita prima degli Academici priores.
Era un dialogo fra Cicerone, Ortensio, Lucullo e Catulo
e costituiva un’esortazione allo studio della filosofia,
di cui prendeva le difese contro gli avversari. Fonte prin-
cipale era il Protrettico di Aristotele. Vi è chi pensa
anche a Posidonio e ritiene anzi possibile che da lui
derivino gli elementi aristotelici dello scritto di cui sa-
rebbe la fonte principale. In ogni modo, vi si incontrava
lo scetticismo del pensiero ciceroniano. Quest'opera trovò
-
M. TULLIO CICERONE 73
gran favore in seguito e Sant’ Agostino testimonia che nel
suo tempo era usata nelle scuole come introduzione
alla filosofia. Si perdette dopo 1’°11° secolo. Alla fine
del 46 o all’inizio del 45 Cicerone deve avere composto
un Volumen prohoemiorum, non pubblicato, dal quale
toglieva i prologhi da premettere ai suoi scritti.
Degli Academici libri, Cicerone stese due redazioni,
gli Academici priores in due libri (i cosidetti Ac. priora)
e gli Academici libri quattuor (gli Ac. posteriora). Degli
Ac. priores resta il II libro (Lucullus: il I, Catulus,
si è perduto), degli Ae. libri IV, il I libro, frammenti
e testimonianze. Gli Ac. priores furonopo rtati a termine
nel maggio 45 ad Astura, gli Ac. libri IV, alla fine
del giugno 45, in Arpino. Le due opere avevano forma
dialogica, Negli Ac. priores figurano come interlocutori
C. Lutazio Catulo, L. Licinio Lucullo, Ortensio e Cice-
rone. Il dialogo del Catulus aveva per sede una villa
di Cicerone sulla costa campana, quello del Lucullus,
una di Ortensio presso Bauli: tempo presunto, dal 63
al 60. Probabilmente il Catulus conteneva un’esposi-
zione, fatta da Ortensio, dello sviluppo delle scuole
socratiche sino a Filone e ad Antioco ; poi Catulo doveva
presentare, contro l’interpretazione filoniana, le teorie
autentiche di Carneade. Nel Zueullo, questo sostiene le
dottrine di Antioco contro quelle di Carneade, ma poi
è confutato da Cicerone. Siccome Catulo e Lucullo non
apparivano adatti per sostenere discussioni scientifiche,
Cicerone pensò di sostituirli con Catone e Bruto, poi, per
soddisfare il desiderio di Varrone che gli fosse dedicata
quell’opera, ne mutò di nuovo il piano. Gli Ac. libri IV,
hanno per interlocutori Cicerone, Varrone e Attico, per
sede la villa del secondo presso Cuma, vicino a quella
dell'autore, ove era posto il dialogo dei libri III e IV: >
tempo presumibile, la fine del 46. Il contenuto doveva
differire poco da quello dello scritto precedente. Var-
rone, invece di Ortensio, espone lo svolgimento delle
scuole filosofiche fino a Carneade (è l’unica parte ri-
masta) e sostituisce Lucullo nel difendere le teorie di
Antioco ; contro di lui Cicerone, che ha preso il posto di
74 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Catulo nell’esporre le tesi di Carneade, difende lo
scetticismo neo-accademico. Per le fonti del Catulo
e del libro I degli Ae. libri IV, si suppone che l’esposi-
zione storica delle teorie dei dogmatiei fino a Zenone fosse
derivata dal Sosos di Antioco, quella della Nuova-Acca-
demia da Filone. Nel Zucullo si pensa che Cicerone
abbia usato il Sosos per l'esposizione luculliana ; mentre
per la replica dell'autore alcuni si riferiscono a Clito-
maco che aveva presentato le teorie di Carneade. Se-
condo un’altra opinione, qui la fonte sarebbe un’opera
di Filone (seritta per rispondere alle critiche dell’antico
discepolo), dalla quale proverrebbe anche il richiamo &
Clitomaco.
Il 13 maggio 45 Cicerone finì di scrivere in forma di
lettera un ovpfovievtixév a Cesare, in cui gli rivolgeva
consigli e lodi; siccome gli amici del dittatore richiede-
vano molte modificazioni, egli decise di non spedirlo e
di distruggerlo. Il 28 maggio Cicerone progettava la
stesura di un dialogo politico, sul genere di Dicearco ;
ma non se ne occupò più.
Il 16 marzo 45 egli accennava al De finibus bonorum
et malorum (finis — estremum, ultimum, termine ultimo)
che scrisse contemporaneamente agli Academici e portò
a termine alla fine di giugno, dedicandolo a Bruto ;
forse fu pubblicato definitivamente nell'agosto. Questo
seritto mira all’esposizione sistematica di una teoria
personale, perchè Cicerone vuole esporre quelle dei
diversi filosofi e le critiche che hanno suscitato. In so-
stanza si limitò alle dottrine dell’Epieureismo, dello
Stoicismo e dell’eclettismo di Antioco di Ascalona.
L’opera comprende tre dialoghi : il primo, elie include i
libri I-II, avviene in una villa di Cicerone a Cuma nel
50 e ha per interlocutori C. L. Manlio Torquato, C. Tri.
‘cario e Cicerone. Torquato, nel libro I, espone la teoria
epicurea che pone il bene nel piacere e Cicerone la con-
futa nel libro II. Il secondo dialogo, che comprende i
libri III e IV, ha per interlocutori M. Porcio Catone
e l’autore ed ha luogo nel 52 in una villa Tusculana del
giovane Lucullo. Catone sostiene la teoria stoica, se-
M. TULLIO CICERONE P; 75
condo la quale il sommo bene è l’Ronestum (la virtù)
e tutte le altre cose sono indifferenti ; Cicerone la eritica
e afferma che lo Stoicismo non ha fatto altro che ri-
prendere le dottrine dei Platonici e degli Aristotelici,
mutando soltanto i termini usati. Nel terzo dialogo
(1. V) figurano come interlocutori l’autore, suo fratello
Quinto, il loro giovane cugino Lucio Cicerone, Attico
e M. Pupio Pisone Calpurniano. Il dialogo ha luogo in
Atene, nell'Accademia, nel 79. Pisone espone e sostiene
la teoria di Antioco, per cui la vita beatissima include i
beni dello spirito e del corpo, ma anche senza i secondi
può esistere la vita beata. Cicerone solleva brevi ob-
biezioni. Secondo lo Schanz, unica fonte sicura è An-
tioco per i libri IV-V. Altri parlano di Epicuro o di un
epicureo recente (Zenone, o Fedro o Filodemo....) per il
libro I, di Crisippo o di Panezio o di Antioco per il libro
II, di una fonte stoica (Crisippo, o Diogene di Babilonia 0
un autore recente dipendente da questo o Antipatro 0
uno storico conosciuto da Cicerone) per il libro III.
Si è pensato anche a Ecatone, ad-Antioco e a un’epitome
di scritti di molti filosofi e qualcuno ha considerato An-
tioco la fonte delle critiche dei libri II, IV e V.
Tusculanae disputationes.in cinque libri, dedicate
a Bruto, completano il De finibus, e forse lo seguirono
immediatamente : furono composte dal 30 giugno al-
l'agosto 45 e pubblicate probabilmente prima della
morte di Cesare. Si suppone che il dialogo abbia luogo
nella villa ciceroniana di Tuscolo nei giorni 16-21 giugno
tra due interlocutori non nominati. L’opera tratta delle
cose che sembrano soprattutto necessarie per vivere
felicemente ed ha carattere popolare perchè si rivolge
ad un pubblico più esteso di quello al quale erano rivolti
gli scritti precedenti. Da prima (1, I) si prova che il saggio
non ha paura della morte (riappare qui, ce. 34-36,
quella intuizione pessimistica della vita che, accennata
nel Sogno, è sviluppata nella Consolatio), che non teme i
dolori del corpo (1. II); che è inaccessibile alla tristezza
(1. III) e alle altre passioni (1. IV). Da ciò risulta già la
tesi che viene più ampiamente provata nel l. V, che la
76 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
virtù o la saggezza basta da sola o quasi a far conseguire
la vita felice, perchè è l’unico bene (Stoicismo) ; anche se
ve ne sono altri, è tanto superiore ad essi che chi la pos-
siede è nella massima parte felice (Peripatetici, Antioco).
Cicerone mostra di preferire la tesi stoica, ma non si
decide in modo preciso. In complesso, sebbene anche
nelle Z'usculanae Cicerone dichiari di seguire la Nuova
Accademia, l’opera ha carattere stoico e si ispira s0-
prattutto allo Stoicismo Medio, platonizzante. Con ra-
gione lo Schanz ha affermato che la determinazione
delle fonti è più difficile per le Tusculanae che per gli
altri scritti ciceroniani; perciò si sono presentate in
proposito ipotesi svariatissime. R. Hirzel è stato il solo
che abbia parlato d’una fonte unica, un’opera ipotetica
di Filone, perchè tutti gli altri critici ne ammettono
varie. Libro I: Posidonio ; Posidonio e Crantore ; am-
bedue e Dicearco ; Antioco; questo e anche in parte
Crisippo. Secondo altri, per la prima parte (immorta-
lità dell'anima) Platone per la disposizione, un trattato
popolare, uno stoico contemporaneo e altri scritti (la
Consolatio e le sue fonti); per la seconda parte princi-
pale quella usata nella precedente e nella Consolatio (un
ampliamento di Crantore forse usato in tutto il libro I).
Si è detto che per certi punti Cicerone, come nel Somnium
Scipionis, ha fatto uso del Protrettico e del De philo-
sophia aristotelici. Per il libro IT: uno stoico recente
(di solito si pensa a una lettera di Panezio a Q. Tuberone).
Libri III-IV: Crisippo e Diogene di Babilonia molto
rielaborati o Antioco 0 uno stoico recente che si è atte-
nuto a Crisippo. Fonte parziale Posidonio. Per il libro
III : Antioco o uno stoico (che secondo alcuni è Posi-
donio) o entrambi. Per il libro IV: Crisippo. Per il libroV :
Posidonio, Antioco e un epieureo (Zenone o Fedro); o
Posidonio e Antioco ; o uno stoico recente e un epicu-
reo ; 0 per la prima parte una fonte stoica recente, per
la seconda Antioco, un epicureo e trattati senza una po-
sizione filosofica precisa per la dossografia.
Sono posteriori al De finibus le traduzioni di due
opere platoniche, il Protagora (probabilmente com-
-
a
M., TULLIO CICERONE 77
“
pleta) e il Timeo. Di questa resta una parte ed è presu-
mibile che Cicerone non volesse tradurre tutto il dialogo
platonico. Egli voleva includerla in un dialogo che in-
tendeva comporre sulla filosofia della natura in cui
interlocutori dovevano essere egli stesso, il neo-pitago-
rico Nigidio Figulo e il peripatetico Cratippo, da lui
incontrati in Efeso nel 51, ai quali era affidato l’uf-
ficio di esporre le teorie fisiche delle loro scuole. Ci-
cerone intendeva, sull’esempio di Carneade, criticare
i fisici,
Il De natura Deorum libri tres, di cui Cicerone comin.
ciò ad occuparsi nell'agosto 45, venne finito dopo la
pubblicazione delle Tusculanae e prima della morte di
Cesare : è dedicato a Bruto. Nelle ferie latine (77-75)
Cicerone si reca da C. Aurelio Cotta l’accademico e
vi incontra l’epicureo C. Velleio e lo stoico Q. Lucilio
Balbo. Cicerone è ancora giovane ma segue già l’Ac-
cademia; gli altri tre sono chiamati principes delle
loro scuole. Queste persone discutono della natura de-
gli Dei. Nel libro I Velleio, dopo avere polemizzato
contro Platone e lo Stoicismo, delinea lo sviluppo delle
teorie teologiche da Talete a Diogene di Babilonia e
poi espone quella di Epieuro, che è confutata da Cotta.
Nel libro II Balbo presenta la teoria stoica sull'esistenza
degli Dei, sulla loro natura, sul loro governo del mondo
e sulle cure ehe hanno per gli uomini. Nel libro III
Cotta segue questa ripartizione nella sua confutazione
allo Stoicismo : in questo libro esiste una notevole la-
cuna (mancano la fine della parte 2a, quasi tutta la 34
e parte della 4%). Alla fine, Cicerone, sebbene seguace
della Accademia, dichiara di trovare più verosimile delle
altre, l’opinione di Balbo. Per le parti storiche del libro I
sarebbe fonte Filodemo, per quelle non storiche Ze-
none l’Epicureo ; o per tutte Zenone o Fedro o Filodemo
o una pluralità di autori. Per la critica dell’Epicureismo
si è pensato a Carneade, mediato da Clitomaco o da Fi-
lone, o a Clitomaco e a Posidonio. Per il libro II sarebbero
fonte Panezio (in gran parte) o Posidonio; o Posidonio e
uno seritto neo-accademico (Filone che attingeva a Car-
via STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
neade); o Posidonio, Antioco e un manuale stoico (una
raccolta di opinioni di filosofi, soprattutto in forma di sil-
logismi) ; o Posidonio, Apollodoro, Panezio e altri ; 0 Cri.
sippo, Panezio, Posidonio; o un ‘manuale stoico del-
l'età di Cicerone e una fonte stoica antica. Fonte del
libro III sarebbe in ultimo Carneade, mediato però da
Clitomaco o da Filone. Il De natura Deorum fu molto
usato dagli Apologeti cristiani contro il paganesimo.
A quell’opera fanno seguito il De divinatione e il De
fato. 1 De divinatione Il. duo, che però sono preceduti
dal De senectute, futono cominciati prima della morte
di Cesare e finiti e pubblicati poco dopo. Il dialogo si
syolge tra Cicerone e il fratello Quinto, nella villa di
Tuscolo, alla fine del dicembre 45. L'oggetto proprio
dell’opera è combattere la superstizione collegata con
la divinazione, senza danneggiare la religione. Nel libro I
è da prima esposta la storia della mantica e della critica
di essa; poi Quinto difende la teoria stoica e dichiara
che occorre fondarsi sui fatti numerosi offerti. dall’espe-
«rienza che la attestano, anche se non si riesce a darne
ragione. Nel libro II Cicerone critica la teoria esposta
dal fratello. Fonte principale del libro I si ritiene Po-
Sidonio, una parte secondaria è data a Cratippo. Gran
parte della. critica del libro II è derivata da Carneade,
probabilmente per mezzo di Clitomaco ; la confutazione
dell'astrologia caldea proviene da Panezio. Inoltre è
chiaro l’uso di fonti romane.
Anche il De fato, come il De divinatione, scritto dopo
il De senectute, serve a completare il De natura Deorum.
stato composto dopo la morte di Cesare (nel maggio-
giugno 44), ma nelle linee generali può essere stato
disegnato prima. L’opera, che ci è giunta con lacune,
doveva consistere in un dialogo che sarebbe avvenuto
il 21-23 aprile nel Puteolanum di Cicerone, tra questo
e il console designato Irzio al quale lo seritto così era
dedicato; ma siccome l’interlocutore non possedeva
; cultura filosofica, l’autore dovette esporre la teoria
| Stoica fato omnia fiunt. Cicerone, che già da molto tempo
\ sì era fortemente interessato del problema della libertà,
M. TULLIO CICERONE
rileva l'incertezza di Crisippo tra questa e la necessità
e mostra di essere convinto dell’esistenza del libero vo-
lere dell'uomo. Fonte principale si ritiene Carneade (0
Clitomaco) : aleunî parlano di Antioco.
Il Cato maior de senectute fu scritto da Cicerone prima E
di avere portato a termine il De natura Deorum e il De
divinatione : è anteriore alla morte di Cesare, ma edito
nel maggio 44. L’opera, dedicata ad Attico, contiene
un dialogo che si suppone avvenuto tra Catone il Cen-
sore, di 84 anni, Scipione Emiliano e C. Lelio nel 150.
Il primo difende la vecchiaia dalle accuse che le sono
rivolte. L’autore ricorda uno scritto sull’argomento di
Aristone Chius (lo stoico di Ceo o il peripatetico di Chio?);
ma si è pensato anche a Posidonio, a Teofrasto, a un
trattato popolare derivato forse da una diatriba di Bione.
La fonte primitiva si può considerare un testo della
Repubblica platonica (I, 328 sgg.). Alcuni passi ven-
gono collegati a Senofonte. L’opera, che si serve di
molto materiale romano, ebbe in seguito numerosi -
lettori,
Pure dedicato ad Attico è il Laelius de amicitia, che .
segue il De senectute e precede il De officiis e fu scritto
dal 15 marzo al 7 maggio 44. È un dialogo che si suppone
avvenuto nella casa di Lelio, amico di Scipione il Mi-
nore, dopo la morte di questo, nel 129, e i suoi generi
C. Fannio e Q. Mucio Scevola. Per la fonte principale
si è pensato a peripatetici (Aristotele o Teofrasto o tutti
e due) o a Panezio che si sarebbe servito di pensieri dei
due filosofi ricordati, o a Panezio e Teofrasto. Fu molto
conosciuto e apprezzato dalla tarda romanità e dal
Medio-Evo e venne ricordato da Dante nel Convivio, II,
13. Si è perduto il De gloria, in due libri, seritto dopo il
De amicitia. Fu iniziato il 27 giugno in Tusculo e ivi
finito poco dopo. Ne restano pochi frammenti ; proba-
bilmente Cicerone ha attinto al libro sui doveri di Pa-
nezio. L’Herakleideion, al quale Cicerone accenna in
lettere che vanno dal 4 maggio al 25 ottobre 44, doveva
essere una difesa in forma dialogica dell’uccisione di
Cesare; probabilmente l’opera non fn mai scritta.
80 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
I Topica, composti in un viaggio pet mare da Velia
a Rhegium, alla fine del luglio 44 e dedicati al giure-
consulto Trebazio, sono essenzialmente un’opera re-
torica di carattere tecnico. Cicerone deve essersi servito
della memoria, senza aiuto di libri,/valendosi delle sue
letture precedenti e delle lezioni dei suoi maestri. È
dubbio che abbia letto l’opera omonima di Aristotele,
che egli cita. Molto più importante il. De officiis, in tre
libri, composto dopo il Lelius e il De gloria. Menzionato
espressamente il 25 ottobre 44, venne portato a termine
dopo il ritorno dell'autore a Roma il 9 dicembre. È però
difficile che quest'opera, dedicata al figlio, sia stata pub-
blicata dall'autore, perchè vi manca l’ultima mano.
Oggetto: i media officia (rà xadhxovta degli stoici).
Nel libro I si considerano i doveri morali (l’hRonestum),
nel libro II, quelli dell'utilità, che però non è separabile
dai precedenti. Il libro III tratta dei possibili conflitti
tra l’Ronestum e l'utile, cioè dei casi in cui, malgrado il
principio generale che il primo deve anteporsi al secondo,
può restare dubbia la decisione. L’opera, che ha carat-
tere stoico, nei due primi libri segue II, toò xa9MMxovtos
di Panezio, in tre libri, però con abbreviazioni da una
parte, con ampliamenti dall’altra, in quanto l’autore si
serve di materiale attinto alla vita e alla storia di Roma:
si ammette che aleune parti di quei libri provengano da
Posidonio o dai xep4Axtx di Atenodoro Calvo 0 Sando-
nio. Si ritiene che nel libro III, in cui è trattato un
argomento omesso da Panezio, Cicerone si sia servito
di Atenodoro o di questo, di Posidonio e di Ecatone,
forse di altri. Il De officiis è stato molto letto e am-
mirato.
Nell’età patristica è servito di modello a S. Ambro-
gio per il De officiis clericorum ; nella moderna, la teoria
del rpéroy ha esercitato un’azione sui moralisti inglesi,
su Kant, sul giovane Schiller e sullo Herbart. Non senza
esagerazione Voltaire e Federico il Grande l’hanno giu-
dicato la migliore etica che conoscessero.
Un’integrazione dell’opera precedente doveva es-
sere il De virtutibus in un libro ora perduto, che si occu-
Fi ;
M. TULLIO CICERONE "BE
pava delle quattro virtù cardinali : ne rimangono soltanto
due frammenti."
Le opere filosyfiche di Cicerone furono molto lette
nell'età sua e trovarono diffusione nelle successive ;
alcune furono usatè nelle scuole (ciò avvenne per 2’ Hor-
tensius sino all’età li Sant’ Agostino), ma esercitarono
un’azione piuttosto eon la forma artistica che col con-
tenuto. Nel conflitto tra il paganesimo e il cristianesimo,
le due parti, dal 3° secolo al 5°, studiarono con nuova
intensità quelle opere, perchè l’aristocrazia romana vi
ricercava una difesa delle credenze avite (si può ricordare
il commento di Macrobio al Somnium Scipionis), mentre
gli serittori cristiani di lingua latina se ne servivano
per trovarvi argomenti contro il paganesimo. Minucio
Felice nell’Ottavio (2° secolo), Lattanzio (39), S. Giro-
lamo (4°) sono imitatori appassionati di Cicerone, il
cui De officiis forma il modello del De officiis clericorum
di Sant’ Ambrogio, destinato ad avere un’importanza fon-
damentale per tutto il Medio-Evo. Sant’ Agostino, che ri.
conosce che dall’Hortensius è stato spinto verso lo studio
della filosofia e il cristianesimo, ha formato sugli Acade-
mvica la propria gnoseologia, che ha esercitato un'azione
sino al Descartes ; però nella sua ultima fase egli si av-
vicina a una corrente ostile alla letteratura pagana
che, sorta nel 2° secolo, culmina nel 79.
Per l’opera di Cassiodoro e dei monaci irlandesi che
ne seguirono le direttive, i testi degli scrittori pagani
sì sottrassero alla distruzione di cui erano minacciati,
sicchè, dopo un periodo di trascuranza, la rinascenza
carolingia potè ritornare ad essi e preparare nuovi ma-
noseritti dai quali, in generale, derivano quelli che noi
possediamo. Nell’età scolastica Aristotele. dominò il
pensiero filosofico, mentre tra gli scrittori romani il
più ammirato e studiato fu Virgilio sia come poeta, sia
come l’annunciatore della nascita del Redentore (Eceloga
IV), sia come colui che nell’Eneide aveva rappresentato
1 Oltre agli scritti retorici e filosofici, Cicerone compose
orazioni, lavori storici e geografici, poesie e lettere,
+
ti
- 82 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
le vicende dell'anima nella via della r enzione ; però
anche Cicerone trovò cultori e tra egli Dante che lo
incontra tra gli abitanti del nobile stello del Limbo
(Znf. IV, 141), lo menziona spesso,/ricorda vari suoi
seritti e dichiara che dalla lettura/del De amicitia è
Stato spinto allo studio della filosofia. All'alba del Ri-
nascimento il Petrarca lo sceglie /come guida perchè
vede in lui (e così dovevano fare gli Umanisti) l’esempio
e il maestro della libera agita SE della personalità.
Egli ne ammira ed esalta anche insegnamento filoso-
fico, ma gli Umanisti in ciò si allontanano da lui, perchè
all’Aristotele della scolastica contrappongono o l’Ari-
Stotele autentico (quale essi l’intendono) o un Platone
che però vedono spesso con gli occhi del Neo-Platoni-
smo, mentre in Cicerone si interessano piuttosto all’arte
dello serittore che al pensiero del filosofo ; però si ri-
volgono a lui perchè nel De officiis vedono rappresen-
tato quell’ideale dell'umanità che prediligono. Più tardi,
quando il latino venne studiato come lingua dotta, gli
seritti di Cicerone occuparono un posto d’onore negli
istituti di tipo umanistico (le scuole dei Gesuiti fra i
cattolici, le seuole latine tra i riformati) e agirono sulla
cultura non soltanto con la forma, ma anche col contenuto,
in quanto contribuivano fortemente a formare la co-
scienza delle classi superiori. D’altra parte l’illuminismo
inglese e francese derivò dalle opere di Cicerone sia di-
verse teorie positive, e specialmente il concetto di reli-
gione naturale, fondamento del deismo, sia la critica
scettica della religione e della metafisica razionale ; il
De officiis trovò nuovi ammiratori, tra i quali emergono
il Voltaire e il Gran Federico. $i collegano all’insegnamento
di quest'opera i moralisti inglesi dell’indirizzo sentimen-
, talista quando pongono nel sentimento estetico le ra-
dici del giudizio morale e così aprono la via a teorie che
dovevano essere sviluppate dal Kant, dallo Schiller e
poi dallo Herbart. Il Neo-Umanesimo attinse a Cice-
rone e quindi anche a Panezio il suo ideale dell'umanità.
Una presentazione, sia pure schematica, delle idee
filosofiche esposte da Cicerone presenta difficoltà per
M. TULLIO CICERONE
le numerose e fèrii incoerenze che includono, le quali di-
pendono in partà dall’uso di fonti diverse, ma hanno per
origine generale la mentalità dell'autore, che non sente
il bisogno di connettere i suoi pensieri in modo orga-
nico, Egli, che si compiace di rimproverare agli altri fi-
losofi e specialmente ad Epicuro, le incoerenze in eni
cadono, si vanta quasi, come se ciò costituisse la prova
della sua libertà intellettuale, di accettare in momenti
diversi teorie contrastanti, se ora l'una, ora l’altra, gli
sembra più probabile \e crede «che questo procedimento
risulti dal suo atteggiamento gnoseologico. Ma effetti-
vamente il probabilisnio che egli accetta esigerebbe che
in tali casi, riconosciuto il conflitto delle diverse opinioni,
si mettesse in luce che esse non possono accettarsi in-
sieme e che perciò le une o le altre almeno non possono
essere accolte. Secondo Cicerone occorre partire da un
fatto indiscutibile, il nostro desiderio della felicità che
ci spinge a filosofare. Così si coglie un quid che supera
la sfera della probabilità, per la sua natura soggettiva
chenonimplica aleuna dubbiezza; main tal modo si mette
anche in luce la funzione essenzialmente pratica che Cice-
rone attribuisce alla filosofia, sebbene riconosca che nel-
l’uomo esiste un innato desiderio di sapere e affermi che
nelle isole dei beati non vi sarebbe posto per le virtù mo-
rali, ma ve ne resterebbe per la conoscenza della natura e
per la scienza che sola fa lodare la vita degli dei. Per
lui, che segue la tendenza generale del pensiero elleni-
stico-romano, ma soprattutto esprime le proprie convin-
zioni e le proprie preferenze personali di uomo d’azione,
che nella filosofia ricerca una guida per la condotta e
un rifugio dalle tempeste della vita, la conoscenza è
preparazione all’azione e rimane monca se non si realizza
in essa. L’azione è superiore alla conoscenza e perciò si
debbono porre gli statisti e i legislatori più in alto dei
filosofi : la parte più importante e più interessante della
filosofia è l’etica. ‘
Il problema filosofico essenziale è quello del sommo
bene o dell’ultimo fine che coincide con quello della fe-
licità, dalla cui soluzione dipende tutto il resto. Talvolta
84 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Cicerone parla di un altro problema decisivo, perchè
menziona anche quello del eriterio della verità, ma le
due affermazioni si possono accordare, perchè si può
vedere nella soluzione del secondo, Ja condizione delle
costruzioni filosofiche da cui dipendé quella del primo.
La ricerca filosofica deve chiedersi (all’inizio quale cer-
tezza abbiano le conoscenze che superano quel dato
soggettivo da cui essa riceve l'impulso. Ora, come si è
visto, sino dalla giovinezza Cicerone si è dichiarato
seguace dello scetticismo della Nuova Accademia e in
particolare del probabilismo di Carneade, ma effettiva-
mente ha subito in modo profondo l’azione di Filone
di Larissa (che gli-era stato maestro), che aveva assai
attenuato il pensiero del suo predecessore e soprattutto
si è avvicinato al discepolo, poi avversario del Larisseo,
Antioco di Ascalona, di cui ha accettato l’eclettismo,
in modo da far sue numerose dottrine platoniche, peripa-
tetiche e particolarmente stoiche. Del resto, anche per
conto suo, Cicerone ha mitigato le andaci critiche di
Carneade : così, se al pari di questo ritiene che è impos-
sibile trovare un criterio che permetta di distinguere
con sicurezza le rappresentazioni vere dalle false, cioè
la verità dall’errore, e che perciò non si può pretendere
di possedere alcuna conoscenza certa, fonda il suo dubbio
soprattutto sui contrasti esistenti fra le dottrine altrui,
mentre quel filosofo e gli scettici precedenti lo avevano
giustificato essenzialmente con l’esame diretto dei pro-
blemi. Carneade, per respingere l’obbiezione degli av-
versari che il dubbio scettico rende impossibile l’azione,
aveva sostenuto che questa può regolarsi secondo la
probabilità (r19avév, probabile piuttosto che verosimile
come traduce Cicerone) e distinto vari gradi di essa:
così la teoria probabilista compiva un ufficio puramente
pratico e aveva un posto subordinato di fronte allo
scetticismo generale, In Cicerone la posizione si rovescia,
perchè, discutendo il pro è il contra delle tesi sostenute
‘ dagli altri filosofi, cerca di determinare quale sia la
più probabile e in tal modo, al pari di Filone, estende
il concetto di 718xvév a tutta la sfera della conoscenza.
M. TULLIO CICERONE 85
Soprattutto pate che per lui la critica scettica costitui-
sca, per così dite, l'introduzione a una teoria probabi-
listica che occupà il centro della ricerca e che a sua volta
sta alla base di un eclettismo affine a quello di Antioco,
che giustappone teorie derivate, ad eccezione dell’Epi-
cureismo, dai diversi sistemi filosofici contemporanei e
particolarmente dallo Stoicismo, che era stato l'oggetto
preferito delle polemiche di Carneade.
Lo scetticismo di Cicerone è temperato anche dalla
fiducia che ripone nella natura che crea ogni cosa per-
fetta. Nella sfera teorica, sarebbe contro natura l’inesi-
stenza di conoscenze probabili, tra le quali egli pone le
testimonianze dei sensi, pure criticandole. Soprattutto
egli accorda valore nella sfera etica a quei semina innata
virtutum che la natura ha posto nelle anime di tutti
gli uomini, e ciò spiega il suo apprezzamento del con-
sensus gentium, specialmente rispetto ai problemi morali
e religiosi. Si è discusso se Cicerone ammettesse vere
e proprie idee innate (Zeller) o se, come sembra più pro-
babile, designasse così disposizioni che si svolgono in con-
nessione con l’esperienza, o pensasse ai risultati uguali in
tutti gli nomini di un’esperienza naturale e primitiva.
È certo però che non ha ribattuto gli argomenti che
nel De natura Deorum Cotta (che probabilmente li de-
riva da Carneade) rivolge controla tesi stoica che la Prov-
videnza divina regge il mondo e che gli Dei tutto fanno
per il bene degli uomini, tesi che coincide, sotto molti
rispetti, con l'ottimismo naturalistico che egli propugna.
Occupandosi delle tre parti in cui la tradizione del-
l'età ellenistica divideva la filosofia, dialettica (logica),
fisica (filosofia della natura includente la teologia) ed
etica, Cicerone rimane fedele alla sua convinzione che
questa deve avere il primato su ogni altro aspetto del
sapere, in quanto è necessario che esso abbia per difesa
la logica, mentre la conoscenza di sè, raccomandata da
Socrate, che è indispensabile per la soluzione del pro-
blema della felicità, esige una sicura fondazione natura-
listica in quanto questa permette di rendersi conto del
nostro vero io, della nostra origine e della nostra desti-
86
I » Sal) T cetpti
, x i È v
STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nazione. (Nell'ultima tesi Cicerone segue Posidonio).
Però, quando considera in particolare /le diverse parti
della filosofia, Cicerone cade in alcune incoerenze. Da
una parte accusa Epicuro di avere trascurato la dia-
lettica, dall'altra rimprovera a questa di essere una di-
seiplina puramente formale. Quanto alla filosofia della
natura, ritiene che in essa, in misura anche maggiore
che in altri argomenti, è più facile dire quello che le cose
non sono di ciò che sono e che non vi è aleuno che possa
pretendere di possedere una conoscenza certa sui suoi
oggetti, che sono impenetrabili per il pensiero umano ;
ma questo non gl’impedisce di ritrovare in quella disci-
plina teorie che gli sembrano base sicura per la sua etica,
e quanto teologia in particolare, pur dichiarando di
non voler superare i limiti del probabile, ne parla con
una certezza assai maggiore di quella che le sue premesse
gli consentirebbero.
Nella sua rappresentazione totale dell’universo (che
riporta ad Aristotele e soprattutto a Posidonio), Cicerone
distingue in questo una parte super e una sublunare,
sotto tutti i rispetti inferiore all'altra. La prima è costi-
tuita di etere, include tutte le stelle che sono animate
da menti divine, ed ha una grandezza immensamente
più estesa della seconda : essa è la sfera in cui regnano
in modo insuperabile bellezza, ordine, regolarità, eter-
nità, incorruttibilità. La sfera sublunare, che dipende
dall'altra, e principalmente la terra, è piccola cosa di
fronte all'universo, con le sue bellezze presenta defi-
cienze, come le regioni inabitabili, e soprattutto è il
mondo della mutabilità e della corruzione. I caratteri
di perfezione che presenta l’universo, a parere di Cice-
rone, offrono una base sicura all’affermazione che esso
deve avere per causa non il caso o la necessità, ma un
essere razionale, cioè la Divinità.
È difficile però determinare esattamente il suo pen-
siero su questi argomenti. Alla fine del De natura Deorum
egli dichiara di trovare più probabile la teologia stoica
dell’agnosticismo di Cotta seguace della Nuova Acca-
demia, alla quale egli pure si collega, agnosticismo che
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|M, TULLIO CICERONE 87
si estende anche al passaggio dall’universo alla sua causa ;
ma non è lecito prenderlo completamente in parola, sia
perchè sono troppo numerose e stringenti le critiche che
Cotta rivolge contro quella teologia, che non trovano ri-
sposta, sia perchè in non poche cose Cicerone si allon-
tana da essa. Comunque, egli ritiene che la fede
nell'esistenza degli Dei sia l'opinione più probabile e
quella a cui la stessa natura ci porta, che essa stessa ci
insegna, come risulta dal consensus gentium su questo
punto ; e se non sente il bisogno di respingere le ob-
biezioni di fbtta, probabilmente ciò avviene perchè
trova che quella convinzione è giustificata sufficiente-
mente dal fatto che, eliminata la Provvidenza divina
(che su di essa evidentemente si fonda), erollano la pietà,
la religione, il culto, la società del genere umano, la giu-
stizia e le altre virtù. Cicerone, come in generale i filo-
sofi antichi, parla sia di Dio che degli Dei, ma non si
preoccupa di conciliare l’unità del primo, che egli am-
mette, con la molteplicità dei secondi ;. pensa la Divi-
nità come un'intelligenza libera e separata da ogni
conerezione mortale (7'use. I, 27, 66), ma non è sieuro
che sia spiritualità pura, perchè ammette che possa
consistere di aria o di fuoco, diversi però dai terrestri
(ivi, 26, 65): in ciò probabilmente sta sotto l’influsso
di Posidonio. Però la sua concezione della Divinità ae-
centua più di quelle offerte dallo Stoicismo la natura
personale di essa. Come si è detto, accorda grande va-
lore alla tesi della provvidenza divina, pure non ribat-
tendo le critiche di Dotta. Respinge le credenze nel fato
e nella divinazione che in particolare erano state pro-
pugnate dagli stoici, e nella seconda trova un'espressione
della superstizione che egli vuole totalmente sradicata.
Per contro deve propugnarsi quella religione che è con-
giunta con la conoscenza della natura e deve essere
tutelato per motivi politico-sociali quell'insieme di opi-
nioni sugli Dei, di eulti e di riti che è imposto dalla tradi-
zione degli avi. Quanto alla mitologia, Cicerone vorrebbe
che fosse purificata dalle invenzioni dei poeti che appaio-
no indegne della natura degli Dei.
88 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Parlando della Divinità si è trattato già di un essere
che è affine a ciò che vi è di superiore nell'uomo, e che
ne costituisce l'essenza, l’anima razionale, la quale forma
l'oggetto vero della nostra conoscenza, L'uomo risulta
del corpo e dell'anima, ma il primo è senza confronto
inferiore alla seconda che gli arreca vita e movimento.
Essa include una parte irrazionale che appartiene anche
agli animali, e che possiede l’attività vegetativa e quella
sensitiva, la quale ultima compie le funzioni del senso, ©
del movimento e dell'appetito; ma ha in proprio una
parte razionale (ratio), che assume gli aspetti di pen-
siero intuitivo (intelligentia), di conoscenza discorsiva
(ratio in senso stretto) e di volontà : Cicerone è convinto
che questa è libera in quanto è indipendente dai moventi
esterni e per giustificare questa tesi si vale degli argo-
menti di Carneade. La ratio costituisce il vero essere
dell’uomo ed è il divino in lui. Più volte Cicerone, colle-
gandosi a Platone e forse a Posidonio, afferma che il
corpo è un’appendice dannosa dell'anima che vi è in-
celusa ; la vera sede di questa non è la terra, ma il cielo,
che al pari di essa è immortale e imperituro. L'anima
umana è affine a quella divina dalla quale proviene e
perciò la determinazione della sua natura suscita le
stesse difficoltà che si presentano per quella della se-
conda. Cicerone si interessa particolarmente della cre-
denza dell'immortalità dell'anima, che cerca di giusti-
ficare con argomenti presi a Platone, specialmente con
quello che si fonda sul suo carattere di principio auto-
motore, e col consensus gentium; ammette la pos-
sibilità dell'opposto, ma per mostrare che nemmeno in
questo caso è giustificabile il timore della morte.
Le teorie esposte da Cicerone sulla natura dell'uomo,
identificato nella parte divina e razionale dell’anima
per cui ilcorpo è un ostacolo e le parti inferiori possono
essere causa di colpe e di infelicità, sulla sua affinità
con la Divinità, sulla sua origine e sulla sua destinazione
celeste, sulla posizione che l’uomo stesso occupa nel
mondo, concordano col dualismo e col misticismo di
Posidonio. Invece non a questo, ma al Platone del
M. TULLIO CICERONE 89
Fedone riporta un passo delle Tusculane (I, 74-75) che
afferma non essere altro* tutta la vita dei filosofi che
una meditazione della morte, perchè quando ci sforzia-
mo di allontanare l’animo dal piacere, cioè dal corpo,
dalle sostanze, dalla vita politica (a republica), da ogni
attività pratica, non facciamo altro che questo. Abbiamo
in ciò l'affermazione di un pessimismo e di un asceti-
smo che, per quanto riguarda l'allontanamento dello
stato, sono in insanabile contraddizione con le convin-
zioni e con la vita reale di Cicerone, il quale, del resto,
insegna continuamente che i più urgenti doveri riguar-
dano la vita sociale e politica e soprattutto quelli che si
riferiscono alla patria. Anche nel Sogno (in cui pure è
svalutata l'esistenza terrena di fronte alla celeste) si
dichiara che la via per salire al cielo risiede nelle bene-'
merenze verso la patria, affermazione questa che non
s'accorda col cosmopolitismo propugnato altrove in ac-
cordo con Panezio e con Posidonio. Il testo citato sopra
delle Tusculane è seguito da un altro (ivi, 82 agg.) anche
più radicalmente pessimista, che, sfruttando motivi di
pensiero usati di solito nelle Consolazioni e nelle dia-
tribe cinico-storiche (e presenti, del resto, anche in
Lucrezio), dipinge coi più foschi colori le miserie e i
dolori della vita per mostrare che non vi sarebbe ragione
di temere la morte anche se l’anima non fosse immortale.
In complesso, si può pensare che in ambedue quei
testi delle T'usculane Cicerone si sia lasciato dominare
sia dal desiderio di provare che la morte non deve in
alcun caso incutere terrore, sia da motivi più retorici
che filosofici. à
Comunque, se si fa eccezione del secondo testo,
ultra-pessimista, le teorie esposte implicano già la so-
luzione generale del problema del sommo bene, della
felicità e dell'ultimo fine. Cicerone però, se respinge senza
altro l’Epicureismo, che identificava il bene al piacere,
non riesce a prendere una posizione sicura tra lo stoi-
cismo, che riteneva unico bene la virtù (l’Ronestum),
e l’eclettismo accademico-peripatetico di Antioeo di
Ascalona, il quale, pure riponendo in essa il sommo bene
i
90 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
e affermando che basta a rendere la vita felice, soste-
neva però che esistono altri beni, esterni al soggetto,
che sono elementi della vita felicissima. Talvolta trova
che lo stoicismo ha soltanto espresso con diverso lin-
guaggio Je tesi della Antica-Accademia e della scuola
peripatetica, talvolta riconosce e accentua le loro dif-
ferenze. E oscilla pure nella soluzione: ora propende
per quella stoica che lo attira con la sublimità e la coe-
renza delle proprie dottrine, ora critica quella eclet-
tica (De fin. TV) verso la quale lo portava la considera-
zione della debolezza umana, sua e altrui, ora si rimpro-
vera di giudicare della funzione della virtù tenendo conto
non della natura di questa, ma della mollezza umana.
Cicerone, che riconosce questa sua oscillazione, crede
di potersi contentare con l’affermazione che l’honestum
(o la virtù), se non l’unico bene, è quello che supera tutti
gli altri, che al confronto appaiono privi di ogni signi-
ficato. In complesso, però, come mostrano i suoi ultimi
seritti (’usculanae, De officiis), egli ha subito sempre
più fortemente l'influsso dell’etica stoica. Particolar-
mente si accorda con lo Stoicismo nell’affermare che
ie passioni (748) debbono essere sradicate, non, come
volevano gli aristotelici, ridotte alla giusta misura
nell’anteporre la virtù pratica (o etica) a quella dia-
noetica o intellettuale.
“ Mentre Cicerone ritiene che anche nella questione
fondamentale del sommo bene occorre ricercare soltanto
la soluzione più probabile, con nuova incoerenza chiede
alla Nuova Accademia, perturbatrice di ogni cosa, di
tacere in ciò che riguarda la filosofia pratica (etica,
giuridica, politica), per non produrre troppe rovine (De
leg. I, 13, 39 : Perturbatricem harum omnium rerum Aca-
demiam, hane ab Arcesila et Carneade recentem, exore-
mus ut sileat. Nam si invaserit in haec, nimias edat
ruinas). Se ciò si accorda con l’intonazione con cui
Cicerone presenta molte teorie di morale applicata è
in contrasto con l'incertezza del loro fondamento ge-
nerale.
La soluzione del problema della felicità o del sommo
M. TULLIO CICERONE 91
bene riguarda propriamente il sapiente ideale, che compie
scientificamente doveri perfetti, per lui soltanto si può
dire che la virtù è recta ratio, perfecta ratio, perchè è
appunto la ragione che rende perfetta l’attività. (Lo
stesso significato hanno altre espressioni: Bonum men-
tis, perfectio rationis). Cicerone però si occupa anche del-
l'uomo buono e onesto che non realizza la perfezione
e perciò nei primi due libri del De officiis prende per
guida Panezio che si era interessato particolarmente
del secondo. Sebbene sia difficile determinare con preci-
sione ciò che appartiene all’uno e all’altro, perchè cono-
sciamo in questa parte la fonte greca soltanto attraverso
la sua derivazione romana, si può ritenere che le linee
generali della trattazione risalgono a quella. L'uomo,
in quanto essere ragionevole, possiede quattro impulsi
fondamentali, che mancano agli altri animali: verso
la conoscenza, verso la vita sociale in cui gli uomini
sono uniti per mezzo della ragione e del linguaggio, verso
il dominio e l'indipendenza, verso la bellezza, che con-
siste in un ordine e in un'armonia, Questo impulso si
riferisce da prima a oggetti naturali ; ma poi l’uomo
cerca di realizzare tale ordine e armonia nella propria
vita, nel pensiero e nell’azione. Questi impulsi, se rego-
lati dalla ragione, si esplicano nelle virtù, che sono le
condizioni perfette delle attività spirituali, Si tratta però
sempre di virtù che non provengono dalla vera scienza
e che perciò si fondano su una ragione che si limita al
probabile. La virtù che si riferisce alla conoscenza, è
teoretica, le altre tre sono pratiche. Propriamente, la
prima può avere per oggetto sia la pura contemplazione, .
ed è la sapienza, sia le decisioni che si debbono prendere
sulle cose che riguardano la vita buona e felice, ed è la
prudenza ; quella riguardante la vita sociale si divide
nella giustizia, in cui è lo splendore massimo della
virtù, e nella beneficenza o benignità o liberalità. La
virtù che riguarda il predominio e l'indipendenza dalle
cose esterne si esplica nella magnanimità, che è vera-
mente tale se non si lascia dominare dall’egoismo, ma
si rivolge verso il bene della società, soprattutto nella
92 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
partecipazione e nella direzione della vita pubblica. La
virtù che ha per oggetto la bellezza è la moderazione 0)
la temperanza, che del resto, non si esplica soltanto nella
sfera propria come dominio delle tendenze inferiori, ma
anche in quella delle altre virtà (che sono forme del
bello morale, Ronestum), perchè occorre portare ordine
e misura nella esplicazione di tutte le singole attività
e nella totalità della vita dello spirito che deve presen-
tare armonia e quindi costanza e unità.
Le virtù come condizioni e le loro esplicazioni costitui-
scono l’Ronestum (xaX6v) il bello morale, che come la
virtù e le virtù si deve ricercare per sè, non per conside-
razioni utilitarie. L’honestum si manifesta all’esterno come
il conveniente (decorum, mpérov), che suscita nelle per-
sone colle quali si vive e di cui è doveroso considerare il
giudizio, un senso (estetico) di approvazione. Ma questa
convenienza 0 adeguatezza a un modello armonico e
unitario riguarda non soltanto la natura razionale del-
l'uomo in generale, ma anche quella dell'individuo, se
essa non è in contrasto con la prima, eltrimenti non
darà mai alla vita, costanza, coerenza, unità. Cicerone
insiste sulla giustificazione dell'esigenza che ciascuno,
pure comportandosi in conformità con la natura umana,
sia fedele a quella sua individuale. La formazione della
nostra personalità dipende sia da condizioni che sono in
balia del caso, sia dalle nostre decisioni volontarie ;
occorre che le seconde si conformino soprattutto alle
disposizioni proprie alla nostra natura. L’uomo deve
poi conformare la propria condotta alla sua età, alla sua
condizione sociale, deve ricercare il conveniente (de-
corum) nel contegno e nei movimenti del corpo, nel
modo di parlare, di vestire, nell'abitazione.
Siccome gli individui umani sono stati fatti gli uni
per gli altri, l’uomo è l'essere più utile o dannoso all’altro
uomo e anche i più potenti non possono prescindere dal-
l’aiuto degli inferiori, sicchè la vera utilità del singolo
è inseparabile da quella della totalità sociale di cui fa
parte; perciò l’utile e l’onesto sono indissolubilmente
connessi, anzi coincidono. Così il magnanimo (che Ci-
Mi. TULLIO CICERONE 93
cerone si rappresenta come il modello più alto di umanità),
contribuendo al bene di tutti, consegue anche il proprio,
in quanto può esplicare liberamente e armonicamente
le proprie attività. L'ideale della humanitas consiste
dunque per Cicerone come per Panezio nel libero e
armonico sviluppo delle attività spirituali che dominano
le tendenze inferiori e arrecano ordine e misura anche
al comportamento esteriore. Però, questa rappresenta-
zione include elementi propriamente romani che Cice-
rone deve avere aggiunto a quelli del suo modello : come
tali si possono considerare il valore dato alla mitezza,
alla benignità, alla clemenza verso i nemici, cioè a doti
che l'aristocrazia di Roma riteneva proprie degli ante-
nati e l'affermazione che nessuna società è più impor-
tante e più cara dello Stato, che fra i doveri umani
i primi e i più urgenti sono quelli che riguardano la
patria, affermazione che però è in contrasto col cosmo-
politismo propugnato altrove dallo stesso Cicerone, che
del resto insiste spesso sul concetto della societas humani
generis (v. ad es. De fin., V, 65; De off., I, 50 sg. ; 149;
153 e passim). Si fa derivare da Posidonio, ma potrebbe
essere l’espressione della mentalità romana, l’afferma-
zione che i primi doveri riguardano gli Dei, che rimane
isolata e senza giustificazione ed è in contrasto col pen-
siero di Panezio che non li ammetteva. Cosa molto più
importante, Cicerone omette completamente i concetti
‘metafisici sui quali il Rodiense aveva fondato il suo idea-
le insieme individualistico e universalistico.
L'ideale della humanitas propugnato da Cicerone ha
indiscutibilmente ‘carattere aristocratico, come risulta
dal rilievo dato alle qualità estetiche, dal fatto che sol-
tanto pochi uomini in Roma potevano conseguire il
libero e armonico sviluppo di tutte le attività spirituali
poggiante sulla cultura, dall’apprezzamento del com-
portamento esterno, dall’accentuazione della libertà,
soprattutto dalla convinzione che il magnanimo rap-
presenta il modello più perfetto dell’uomo. Aspetti
simili doveva avere, almeno in gran parte, l’ideale
umano di Panezio e di Posidonio (che però differivano
94 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
tra loro per il forte carattere religioso presente nel se-
condo, assente nel primo), ma, sebbene si sia affermato —
che quello dello stoico di Rodi non era meno aristocra-
tico ed esaltatore della devozione allo stato, della huma= i
mitas ciceroniana, sembra giusto ritenere che includesse
il cosmopolitismo e i principi dell'uguaglianza di tutti
gli uomini e dell'amore universale che si trovano in due
suoi discepoli, Posidonio e Antioco. (Antecedenti diga
questi pensieri offriva la scuola. aristotelica con Teo-%
frasto e Dicearco). Come i due rappresentanti dello
Stoicismo Medio conciliassero il loro ideale aristoera-
tico di rardetx con l’universalismo e il principio dell’a-
more (che, anche se non sviluppato, era presente alla
loro mente), è difficile determinare, ma che in essi
l’Rumanitas includesse tutti quei fattori sembra certo.
In Cicerone la cosa è diversa. La valutazione che —
egli dà dello stato romano potrebbe apparire superiore
per concretezza al cosmopolitismo difeso dai due filo-
Sofi greci, ma con essa si collega l'assenza del ricono-
seimento dell’uguaglianza umana e del dovere dell'amore.
Infatti, Cicerone, che talvolta, ispirandosi ad Antioco
(e così quasi certamente a Panezio), parla della caritas
humani generis (De fin. V, 65, 66 e 67 ; II, 45) ed esprime
l'esigenza dell'amore universale seguendo Posidonio (De
leg. I, 60), nel De officiis (I, 41) non soltanto non svolge
questi cenni, ma quando parla degli schiavi si limita
a chiedere che siano trattati con giustizia e ad appro-
vare l’affermazione di Crisippo che essi si debbono con-
siderare mercenari perpetui, di cui si deve pretendere
l’opera e ai quali è doveroso dare il giusto, e non ricorda
che per lo stoico antico (che era stato preceduto da: al-
cuni sofisti, da ‘Sofocle e da Euripide) nessun uomo è
schiavo per natura ; così, quando afferma che la ragione
comanda alle passioni come il padrone agli schiavi,
che li affatica per domarne la malvagità, ammette che
questi .erano giustamente trattati con durezza. Quando
‘ parla delle lotte dei gladiatori, Cicerone dichiara che,
se avvengono tra malfattori, sono la più forte scuola
che si possa offrire agli occhi contro il timore del dolore
M. TULLIO CICERONE 95
e della morte (use. II, 41). Si ha l'impressione che i
principî di uguaglianza umana e di amore universale
rimangano in Cicerone formule fredde di scuola e non
siano l’espressione di convinzioni intimamente vissute.
In complesso, il suo ideale di humanitas, che designa
soprattutto ciò che si è chiamato cultura dello spirito,
coordina in una sintesi armonica elementi che proba-
bilmente erano rimasti privi di ordinamento sistema-
tico nello Stoicismo Medio, ma eselude alcuni dei va-
lori fondamentali che esso aveva riconosciuto e che in
seguito dovevano costituirne l’essenza. D'altra parte oe-
corre riconoscere che Cicerone così dava impronta nuova
a elementi presi al pensiero greco, in quanto li collegava
in un ideale corrispondente alle esigenze dell’aristo-
crazia romana. Dall’ideale dell’Rumanitas si passa natu-
ralmente a quelli del diritto e dello stato. Fondamento
della filosofia giuridica di Cicerone dovrebbe essere il
concetto di legge, la quale nella sua essenza si identi-
fica alla ragione retta e suprema che proviene dalla
volontà divina ed è insita alla natura. Essa tutto regge
in cielo e in terra e unisce in una società e in uno stato
gli Dei e gli uomini. Quella ragione, che diviene legge
quando risiede nella mente umana, è stata data dagli
Dei agli uomini, ai quali prescrive ciò che si deve fare
e proibisce l’opposto. È eterna, immutabile, universale,
“e precede nel tempo tutte le legislazioni scritte che pos-
sono chiamarsi leggi soltanto in quanto sono giuste,
conformandosi ad essa. L’obbedienza che le prestano gli
uomini non è deteminata dal timore della pena o da
motivi utilitari, ma dal fatto che trova un’eco nell’a-
nima del giusto e dai tormenti della coscienza di chi la
viola. Queste tesi riportano sostanzialmente allo Stoi-
cismo Antico, ma forse per mezzo di Posidonio ; în ogni
modo, il panteismo trova qui un’espressione che abi-
tualmente manca in Cicerone. Questo si accorda con
Posidonio quando respinge ogni motivazione utilitaria
della legge e del diritto, ma se ciò è in armonia coi testi
che parlano nello stesso modo dell’honestum. e delle
virtù in generale e del jus in particolare, è in insanabile
ibà 0 dé è
96 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
contrasto con quello in cui Cicerone, seguendo Panezio,
afferma che se il diritto ha per fondamento un impulso
naturale delluomo verso la società, ha l’ufficio di ga-
rantire la proprietà privata. Più propriamente, fon-
damento del diritto è la tendenza naturale che porta
ad amare gli uomini (ad diligendos homines), dalla
quale nascono le virtù. Ciò significa che quella tendenza
li spinge ad associarsi tra loro e a regolare tale comunione
con le norme del diritto, in quanto la legge civile (che
deve rispecchiare quella naturale) è il vincolo della
società.
Ma anche a proposito dello stato (societas juris,
associazione di uomini governati da leggi) si ripresen-
tano le incoerenze incontrate a proposito del diritto.
Talvolta Cicerone, seguendo Posidonio, ritiene che la
consociazione umana non è stata determinata dai bi-
sogni della vita, ma da un impulso naturale e afferma
che lo stato ha l’ufficio di assicurare ai cittadini una
vita felice e morale (la felicità effettivamente coincide
con la virtù); in altri casi, invece, accordandosi con
Panezio, sostiene che la società e lo stato debbono le
loro origini ad ambedue quei motivi, mettendo in ri-
lievo l’importanza della tutela della proprietà privata
e talvolta definisce lo stato per mezzo della comunione
dell’utilità. In ogni modo, Cicerone è convinto che alla
causa o alle cause dell’origine dello stato debbano cor-
rispondere le sue finalità e che esso deve fondarsi sulla
giustizia che si identifica alla ragione. Si è già ricordato
che Cicerone, riprendendo una dottrina derivata in
ultimo da Platone e dalla seuola aristotelica, ritiene
che la forma più perfetta dello stato sia quella mista,
che egli vede realizzata negli ordinamenti romani. Ba-
Sterà poi richiamare l'osservazione precedente, che in
Cicerone e nei suoi contemporanei, salvo Lucrezio, le
finalità etico-pratiche (che sono al centro degli interessi
spirituali) non sono quelle dell'individuo, perchè ri-
guardano la collettività politico-sociale che ha nome
Roma, alla quale il singolo sente legata la propria sorte
in modo indissolubile.
LI
M. TULLIO CICERONE
In complesso, non è troppo severo il giudizio del Phi-
lippson che non esiste una filosofia di Cicerone; ciò si
può dire non perchè abbia preso ad altri tutti i suoi
concetti filosofici (anche procedendo così, avrebbe po-
tuto connetterli organicamente), ma per la ragione che,
pure interessandosi in modo vivo e intenso per i pro-
blemi che trattava, non ha mostrato di avvertire quelle
esigenze di rigore, di profondità, soprattutto di coerenza,
che sono la condizione imprescindibile di serie ricerche di
tal genere. Infatti egli deve cadere in continue incoe-
renze perchè giustappone pensieri presi a indirizzi op-
posti e contrastanti : allo scetticismo della Nuova Acca-
demia e al dogmatismo eclettico di Antioco di Ascalona ;
al dualismo spiritualistico di Platone e al panteismo ma-
terialistico degli stoici e entro questo al vitalismo pura-
mente monistico di Panezio e alla concezione religiosa
e mistica del Logos-demone universale di Posidonio con
tendenze dualistiche ; all’ascetismo di certi aspetti del
Platonismo, alla intransigente etica razionalistica dello
Stoicismo Antico, all’etica più mite dell’ Aristotelismo
e dello Stoicismo Medio; all’universalismo , umano di
origine stoica e all’esaltazione romana dello stato nazio-
nale.... Per attenuare i contrasti e spesso anche per espri-
mere le sue predilezioni per una Divinità separata dal
“mondo che governa, egli cerca di mitigare il significato
dei pensieri che fa suoi, soprattutto in quanto li scioglie
dalle connessioni che formavano nei sistemi originari,
ma in tal modo riesce soltanto a impoverirli del loro
contenuto filosofico più importante, non a eliminare
le incoerenze che si presentano ovunque. Però Cicerone
merita di occupare un posto nella storia della filosofia.
A lui Roma deve un notevole ampliamento e arriechi-
mento della propria cultura, perchè le ha arrecato un
linguaggio filosofico che ancora non possedeva e la co-
noscenza diffusa del pensiero greco, limitata sino al tempo
suo entro ambienti ristretti di lettori. Egli ha conservato
all’età moderna notizie, ora più, ora meno estese di
teorie della filosofia ellenistica, che altrimenti, per la
scomparsa delle opere originali, sarebbero rimaste ignote
Mad se: - al i ‘e
— SICU» A iti
98 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
o molto meno note. Sotto questo rispetto, egli, occupan-
dosi in generale di filosofi di secondaria importanza,
ha reso un maggior servizio alla conoscenza del pensiero
È ‘ antico di quel che avrebbe fatto se si fosse interessato
“pi principalmente delle grandissime figure dell'età pre-
NE cedente: Platone e Aristotele, Cicerone ha diffuso e
reso familiari quei principi dell'uguaglianza umana e
di una legge razionale e naturale, criterio di valutazione
del diritto positivo, che doveva, collegandosi col pen-
siero cristiano, esercitare un’azione fortissima sullo spi-
rito delle età successive; di più, come si è ricordato, |
La ha dato espressione a quel concetto ellenistico-romano,
y ‘di humanîtas, che era destinato ad esercitare un'azione
vastissima sull’ideale della vita di certi periodi dell’età
moderna. Così Cicerone ha agito fortemente su questa,
perchè, dopo il Rinascimento, molti uomini colti, for-
mati nelle scuole umanistiche, hanno assimilato quei
’’—’ Suoi concetti etici che si potevano conciliare coi principi
|. religiosi del cristianesimo (al quale rimaneva affidato
e l'insegnamento dell'amore universale) e ne hanno fatto
. i criteri direttori della loro condotta : la sua interpreta-
Ì zione della vita morale è divenuta, per molto tempo,
n) quella dell’Ronnéte Romme, che senza studiare, come i
tecnici della filosofia, i testi di Platone e di Aristotele,
cercava nel pensiero antico, non solo una fonte di cultura,
l ma anche un ideale di vita. Ad un certo punto, però,
î quell’ideale è sembrato troppo ristretto ed è apparsa
la necessità di ridargli, anche prescindendo da ogni
presupposto religioso, quel significato universalistieo che
aveva posseduto nello Stoicismo Medio.
PARTE II.
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE
DA AUGUSTO
ALLA FINE DELL’ETÀ ANTICA
CapiroLo I.
Il tempo di Augusto.
Il crollo della repubblica e la fondazione dell'Impero
determinano nel mondo romano effetti simili a quelli
che si erano prodotti in Grecia quando, per opera di
Alessandro e dei suoi successori, si era chiusa l’età delle
libere città-stati. Gli uomini, che avevano posto nel
centro dei propri scopi il servizio dello stato, ora, non
dovendosi più interessare del governo della vita pubblica,
diretta dal principe e dai suoi rappresentanti, si concen-'
trano in se stessi e si chiedono come debbano orientare
e dirigere la propria esistenza, come svolgere le proprie
attività, e per conseguenza si volgono alla filosofia che,
specialmente per il prevalere delle esigenze etico-prati-
che del periodo ellenistico-romano, appariva la vera
guida della condotta: ad essa ricorrono soprattutto i
discendenti di quella vecchia nobiltà che si sentiva più
fortemente colpita dalla perdita della libertà, perchè
la direzione dello stato repubblicano aveva costituito
un suo privilegio. Ma questa tendenza è così viva e dif-
fusa che anche l’imperatore e gli uomini che lo cireondano
la dividono. Augusto, che tenne vicino a sè due stoici
(Ario Didimo, che fuil suo filosofo personale, e Atenodoro
di Sandone, di Tarso), compose, secondo riferisce Sve-
tonio, Hortationes ad philosophiam, cioè un protrettico,
. forse di contenuto stoico. Livia, sua moglie, dopo la
morte di Druso, ricorse agl’insegnamenti di Ario Didimo
e dichiarò di averne tratto molto conforto. Atenodoro
dedicò uno seritto a Ottavia, sorella dell’imperatore.
L'interesse che le donne romane provavano per la filo-
sofia, risulta dal fatto stesso che Orazio satireggiava
una vecchia sensuale che teneva sul suo capezzale trat-
tati stoici; seriamente era appassionata per tali studi
102 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Elvia, la madre di Seneca, di cui si riparlerà. Interessi.
filosofici provò C. Cilnio Mecenate (n. il 13 aprile di un
anno indeterminato), il potentissimo consigliere di Augu.
sto. Di origine etrusca, e probabilmente aretina, discen-
deva da stirpe regia ; ma volle restare semplice cavaliere
romano. Combattèò a Filippi per i triumviri e nel 40
era intimo di Ottaviano che egli cercò di conciliare con
Antonio, siechè ebbe luogo l’incontro di Brindisi. Nel |
38 per conto di Ottaviano si recò presso Antonio affin- |
chè partecipasse alla guerra contro Sesto Pompeo. Dal
36 al 29 fu il rappresentante di Ottaviano a Roma e in
Italia con poteri illimitati. Augusto si servì di Mecenate
in pace e in guerra e trovò sia in lui che in Agrippa il so-
stegno più sicuro del suo principato ; ma egli deve la sua
fama imperitura alla protezione che concesse ai mag-
giori poeti del tempo suo. Restano pochi frammenti dei
suoi scritti in versi e in prosa, nei quali, e specialmente
nel Simposio (opera che introduceva in Roma un genere
letterario molto coltivato in Grecia), mostrò di subire
l’influsso di Epicuro.
Interessi filosofici e influssi epicurei si manifestano
negli seritti dei maggiori poeti del suo circolo letterario,
L. Vario Rufo, Virgilio, Orazio, Properzio; siccome poi in
due grandi scuole dell’età ellenistica, lo Stoicismo e l’Epi-
eureismo, la filosofia della natura era stata posta alla base
dell’etica, non deve sorprendere il fatto che spesso quegli
scrittori si occupino di problemi naturalistici. L. Vario
Rufo (n. 74, m. 14 a. C.), che fu amico di Virgilio e di
Orazio, curò per ordine di Augusto la pubblicazione del.
l’Eneide, fa poeta elegiaco, epico e tragico e serisse un
poema in onore dell’imperatore. Compose un altro poema
sulla morte in cui cercò, ponendosi nella posizione epi- —
curea di Luerezio, di combattere il terrore che ispira agli
uomini e l’infelicità che ne proviene : ciò ha fatto sup-
porre che appartenesse al circolo epicureo di Sirone
come Virgilio. Influssi luereziani e quindi epicurei ap-
paiono infatti anche in P. Virgilio Marone (n. a Andes
presso Mantova il 70, m. a Brindisi il 19 a. C.) che certa-
mente fu scolaro di Sirone. In una poesia (Catal. 5)
IL TEMPO DI AUGUSTO
prende congedo dalle Muse per volgersi verso la scuola
sironiana affinchè la filosofia gl’insegni a liberare la
vita dalle passioni ed esprime il proponimento di de-
dicare ad essa il resto dell’esistenza, e nel Ciris (1-12) (che
ormiai quasi concordemente è ritenuto suo) esaltando
di nuovo l'insegnamento epieureo, manifesta l'intenzione
di comporre un carme sui fenomeni celesti. L’influsso
dell’Epicureismo è esplicito nelle Georgiche (II, 490 sgg.) ;
ma l’Eneide, nella escatologia del libro VI (724 sgg.),
dipende invece dalla corrente orfico-pitagorica, mediata,
si erede, da Posidonio, dal quale si fanno derivare le
rappresentazioni dell’età dell'oro e dello sviluppo della
civiltà umana e alcune teorie d’impronta stoica. Agli
interessi filosofici si collegano quelli naturalistici. Nel.
l'Ecloga VI (31 sgg.) Sileno espone ùna cosmogonia ;
nelle Georgiche(II,475sgg.) il poeta prega le Muse d’inter-
pretargli una serie di fenomeni naturali; nell’ Eneide (1,
740 sgg.) Iopas tratta di problemi naturalistici. Fa
parte dell’Appendix Vergiliana il poemetto Aetna sullo
cause e gli effetti delle eruzioni vulcaniche, del quale
sono incerte la paternità e la data. Questa ha per limite,
da una parte la metà del 1° secolo a. C., dall’altra il
79 d. C. ; fra gli autori ai quali è stato attribuito il poe-
metto, trovano adesioni soprattutto Virgilio e Lucilio
il Giovane; l’amico di Seneca. Per le teorie scientifiche
particolari l’autore si serve principalmente di Posidonio
e ciò spiega l’affinità dell’'Aetna con le Questioni Natu-
rali di Seneca che provengono dalla stessa fonte. Per
la filosofia egli mescola ecletticamente elementi sva-
riati e non fusi, perchè espone dottrine stoiche, epicureo-
lucreziane e inoltre pensieri eraclitei, democritei ecc....
Fu attirato dai problemi morali ed estetici Q. Orazio
Flacco (n. a Venosa il 65, m. a Roma l’8 a. C.). Soltanto
nelle Epistole, cioè nella sua opera più tarda, egli, che
si vede già avanti negli anni, dichiara di sentirsi atti-
rato dalla filosofia morale per la quale vuole abban-
donare la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144: si è notato
che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico) ;
ma anche negli scritti precedenti tocca spesso argomenti
PRI SI SIIT VENI Ln
104 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
filosofici. Scherzosamente Orazio si chiama Epicuri de
grege poreus (Epist. I, 4, 16), ma effettivamente egli,
che dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun
maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato,
Il poeta, che nei suoi studi giovanili in Atene aveva
conosciuto dottrine di scuole diverse, vede nella filo-
sofia in generale una forma di cultura che non deve
essere ignorata, ma s’interessa soprattutto per la mo-
rale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante
dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa
considerare con simpatia l’etica epicurea, di cui si scorge.
l’influsso nella 2* satira del primo libro ; e nella 3% di |.
questo, in versi che abbondano di reminiscenze lucre-
ziane, riassume la teoria dell’Epieureismo sull’origine del
diritto e delle leggi. Più volte satireggia paradossi stoici
(tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce
ogni cosa) e disegna la caricatura degli stoici capelluti
e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono pre-
cetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita ;
ma coll’andare del tempo, mostra di apprezzare mag-
giormente la severa nobiltà degli ideali di quella scuola.
Si avvicina sia all’Epicureismo che allo Stoicismo quando
loda la vita semplice e sana della campagna ; ma quando
sferza la caccia ‘alle riechezze e al lusso si collega al
Cinismo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle
sue satire. Nell'insieme, la morale di Orazio è utilitaria
ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura,
ma non è una teoria filosoficamente fondata e perciò
non manca di incoerenze. Nell’ Arte Poetica si riconoscono
abitualmente riflessi di teorie peripatetiche e partico-
larmente di Neottolemo di Pario che assegnava alla
poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare, mentre
da Panezio si fa provenire il concetto del decorum, che
ha un posto centrale nella dottrina estetica che egli
propugna. In complesso, questa (che corrisponde non.
soltanto alle direttive di Augusto, ma anche alle esi-
genze della coscienza del tempo, desiderosa di una com-
pleta restaurazione degli antichi ideali della virtus ro-
mana) si contrappone all'autonomia dell’arte propu-
G
IL TEMPO DI AUGUSTO 105
gnata da Filodemo e assegna a questa un ufficio morale
e 3 Sesto Properzio (n. nell’Umbria verso il 49,
m. verso il 15 a. C.) si propose di studiare nella vec.
chiaia problemi naturali collegati con la filosofia.
Publio Ovidio Nasone (n. a Sulmona il 43 a. Cc. m. a
Tomi il 17 d. C.) rivela influssi assai svariati. A Posidonio,
mediato da Varrone, si fa risalire la sua rappresenta-
zione dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura
(Met. XV, 96 5898. ; Fasti I, 335 sgg; IV, 395 sge.).
Dal Pitagorismo deriva in larga misura il libro XV delle
Metamorfosi (69-478), in cui Pitagora (di cui si dice
che si innalzò sino agli Dei col pensiero e scorse con l’a-
nimo ciò che la natura nega agli sguardi umani) espone
ai discepoli un ampio insegnamento “sulla natura, la
Divinità, numerosi problemi naturali oscuri e condanna
l’uso delle carni animali, giustificando questa proibi-
zione con la teoria della metempsicosi. Nella tesi che
nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli
elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano
invece influssi eraclitei e empedoclei. La formazione del
mondo dal caos (Met. I, 1, sgg.), in complesso, riecheggia
lo Stoicismo, ma include anche elementi che fanno pen-
sare a Empedocle, ad Anassagora e a Lucrezio,
Era imbevuto di discorsi socratici M. Valerio Messalla
Corvino (n. 64 a. C., m. 8 d. C.), insigne per le sue atti-
vità politiche e militari, scrittore e protettore di poeti.
Studiò in Atene con Orazio e poi coltivò l’eloquenza,
la grammatica, la poesia. Fu incluso nelle liste di pro-
serizione perchè avversario di Cesare, ma salvò la vita.
Combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad
Antonio ; in seguito strinse rapporti con Ottaviano. Fu
console nel 31, combattè ad Azio ed ebbe comandi in
Oriente. Per una vittoria sugli Aquitani, conseguì il
trionfo nel 27 a. C. Rimase però sempre fedele alle an-
tiche convinzioni politiche, e perciò nel 26, dopo sei
giorni dalla nomina, abbandonò l’ufficio di praefectus
urbis. Nell'11 fu curator aquarum. Nel 2. a. C. a nome del
Senato salutò Augusto pater patriae. Fu centro di un
N — per
alert, i.
106 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
circolo letterario al quale appartennero Tibullo, Ligs
damo, la poetessa Sulpicia. Probabilmente in giovinezza
serisse in greco carmi bucolici e tradusse in latino ora-
zioni greche. Come oratore fu molto lodato (per es. da
Tacito, da Quintiliano). Compose un’opera storica, pro-
babilmente di memorie. Alcuni hanno rilevato influssi
dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento
che ci rimane di un poema sulla caccia (Cynegetica)
composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto ;
ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare le
direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabil-
mente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico
e rivale in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai
libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso
delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escato-
logici e naturali.
Tito Livio (n. a Padova nel 59 a. C., m. il 17 d.C.)
serisse opere su argomenti tilosofici e dialoghi che riguar-
davano sia la filosofia che la storia, Si è affermato (ma la
cosa è dubbia) che fosse derivata dallo Stoicismo la con-
cezione deterministica della storia esposta nella sua opera
sulle guerre civili (dal primo triumvirato a Filippi) da
Asinio Pollione (n. 76 a. C., m. 5 d. C.), al quale Virgilio
dedicò la IV Ecloga. Ostile al primo triumvirato e soprat
tutto a Pompeo, si ‘schierò poi con Cesare che servì in
Africa e in Sicilia ; fu presente a Farsaglia, e a Tapso e a
Munda seguì il vincitore. Dopo la morte di Cesare si unì
ad Antonio di cui fu legato nella Gallia Transpadana.
Nel 40 ebbe il consolato ; dopo il 39 si allontanò da An-
tonio e strinse rapporti con Ottaviano, ma si rifiutò
di seguirlo ad Azio, e da allora in poi si occupò di studi
storici. Si interessò anche intensamente di poesia e di
eloquenza e si distinse come acuto critico letterario.
P. Alfeno Varo (verosimilmente identico a l’Alfeno
di Orazio e forse a quello al quale Catullo dedicò il e. 30),
che come legato di Ottaviano diresse la divisione delle
terre ai veterani nella Gallia Transpadana (41) e pro-
tesse i beni di Virgilio dal quale fu ricordato più volte
nelle Ecloghe, e nel 39 fu consul suffectus, si interessò
IL TEMPO DI AUGUSTO 107
soprattutto di studi giuridici e compose opere di diritto
(Digesti in 40 libri ; dubbia l’opera Coniectanea) ; ma in
un frammento di esse menziona la teoria atomistica
democrito-epicurea. Si dice che con Virgilio fu disce-
polo di Sirone, ma la cosa è apparsa dubbia, perchè
era più vecchio del poeta. In tal caso, il condiscepolo
di Virgilio sarebbe probabilmente Quintilio Varo, cre-
monese, amico di Catullo. È molto dubbio che si deb-
bano prendere alla lettera certe espressioni di Cicerone
che accennano all’epieureismo di C. Trebazio Testa
(n. e. 84 a. C.; m. e. 4 d. C.). Proveniva da famiglia agiata
di Velia nella Lucania e pare che da giovane si sia re-
cato a Roma per darsi agli studi giuridici. Per raccoman-
dazione di Cicerone, Cesare lo condusse nelle Gallie
e si servì di lui per pareri giuridici. Ritornato a Roma
nel 50, all’inizio della guerra civile agì da mediatore
tra Cesare e Cicerone. Nel conflitto fra Cesare e Pom-
peo, si schierò col primo al quale rimase sempre fedele.
Dopo la morte di Cesare si recò spesso alla villa Tuscolana
di Cicerone, ove gli caddero in mano i Topica di Aristo-
tele ; per contentare il suo desiderio di avere chiarimenti
di quella trattazione, Cicerone scrisse l’opera omonima
che gli dedicò e gli inviò nel luglio 44, In seguito Trebazio
seguì Ottaviano. Nel 30 Orazio gli dedicò la 1 satira
del libro ILL, in cui lo presentò come un insigne giurista.
Venne nominato cavaliere o da Cesare o da Augusto. Fu
il maggiore giurista del tempo suo ed ebbe come scolaro
Antistio Labeone. Scrisse sul diritto civile e sulle
religiones, ma ci restano soltanto citazioni di autori
posteriori. Probabilmente aderì a un eclettismo simile
in parte a quello di Cicerone con forti caratteri accade-
mici e stoici, ma non si può dire se abbia accettato
lo scetticismo probabilista della Nuova Accademia. Ebbe
larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età
augustea, il già menzionato M. Antistio Labeone (n. c.
50 a, C.; m. prima del 22 d. C.), ma si ignora se se-
guisse un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura,
ma rifiutò il consolato offertogli da Augusto perchè
conseguito prima di lui da persona meno anziana. Ap-
i
Pe e n O n. PP _ _ ..
108 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
partenne al partito repubblicano. Si dice che abbia
scritto 400 libri di cui restano frammenti. Si ricordano
fra gli altri: De iure pontificio-in almeno 15 libri, diversi
Commentarii giuridici, 7davd, Responsae, in almeno 15
libri, Librì posteriores, in almeno 40 libri. Si interessò
anche di studi grammaticali. Vitruvio Pollione (archi-
tetto di professione, architetto militare di Cesare e di
Augusto) compose in tarda età l’opera De architectura
in 10 libri (25-23 a, C.), che dedicò ad, Augusto. Egli
riteneva necessario lo studio della morale per la vita
e quello della filosofia della natura per la professione
dell’architetto. Iccio, che nel 20 a. C. era procuratore dei
beni di Agrippa in Sicilia, aveva comprato ovunque
opere di Panezio.
In complesso, in questi scrittori, in generale, manca
una concezione filosofica organica e coerente e perciò
il loro interesse per i problemi filosofici, specialmente
per quelli morali, anche se vivo, li porta verso quell’eclet-
tismo che, del resto, è una caratteristica di tutta l’età
ellenistico-romana. Precetti filosofici, e soprattutto mo-
rali, erano luoghi comuni nel mondo delle persone colte
e venivano largamente usati dai poeti ; insomma, in
questo periodo la filosofia, di cui gli spiriti migliori
sentivano viva e profonda l'esigenza, era diventata un
argomento alla moda nelle classi superiori.
Oltre questi uomini che si interessano per la filosofia,
l’età di Augusto presenta veri e propri filosofi. Plu-
tarco ricorda come tale, senza indicare la sua scuola,
Volumnio, autore di una vita di M. Bruto. Erano stoici
Sergio Plauto, e tre persone ricordate da Orazio nelle !.
sue opere di cui ci danno alcune notizie i suoi commenta-
tori. P. Fabio Massimo di Narbona, di famiglia equestre,
seguace del partito pompeiano, scrisse alcuni trattati
di contenuto stoico ; Stertinio, in 220 libri, trattò di
problemi stoici, rendendo coi suoi versi anche più oscura
la filosofia studiata; Plozio Crispino, studioso di filoso-
fia e poeta, scrisse in versi sulle dottrine di quella scuola.
Dipende essenzialmente dallo Stoicismo la scuola dei
Sesti, sorta con vigorosi inizi nell’età di Augusto ed
È
av
IL TEMPO DI AUGUSTO 109
estintasi rapidamente dopo pochi decenni di vita. Venne
fondata da Q. Sestio (n. c. 70 a. C.), uomo di anima forte,
che per consacrarsi pienamente alla filosofia che amava
profondamente trascurò gli onori e gli uffici politici ai
uali lo destinavano la sua nascita e rifiutò il laticlavio
offertogli da Cesare. Gli succedette, pare, nella direzione
della scuola, il figlio Sesto ‘che viene identificato al
Sextius Niger, che Plinio indica come fonte dei libri 12-
13, 21-30, 32-34 della sua storia naturale: si tratta di
un’opera di medicina scritta in greco, presumibilmente
fra il 10 e il 40 d. C. Aderirono alla scuola dei Sesti
anche Sozione d’Alessandria, di tendenze neopitago-
riche, che nel 18-20 d. C. fu maestro di Seneca; Cornelio
Celso, l’enciclopedista, di cui riparleremo; L. Crassicio,
di Taranto, che per seguire la filosofia dei Sesti abban-
donò l'insegnamento in cui aveva acquistato fama; Fa-
biano Papirio, passato dalla retorica agli studi filosofici.
Anche Fabiano fu maestro di Seneca, il quale testimonia
che non era un filosofo ex his cathedraris, sed ex veris et
antiquis (non un professore, ma un vero filosofo di stampo
antico). Seneca ricorda la sue doti di conferenziere (le
declamazioni, le pubbliche letture erano alla moda nel
I secolo d. C.), ne loda il nobile carattere e le doti di serit-
tore : egli riferisee che la produzione filosofica di Fa-
biano non era meno ampia di quella di Cicerone. Di lui
si ricordano Libri causarum maturalium (almeno tre),
De amimalibus, Libri civilium. Quinto Sesto e Sozione
scrissero in greco : delle opere di questa scuola riman-
gono poche sentenze di ambedue e di Fabiano, conser-
vate da Seneca e dallo Stobeo, che confermano il giu-
dizio di Seneca, che le dottrine di quell’indirizzo erano
|, caratterizzate dal vigore romano, ma avevano’ carattere
stoico, sebbene il fondatore negasse di appartenere alla
‘Stoa. Però si allontanano dallo Stoicismo Antico, quando
limitano le loro ricerche all'etica e in questa trascurano
la parte teorica ; ma così si avvicinavano alla posizione
dei cinici e degli stoici più recenti, e insieme alle prefe-
renze dello spirito romano per ciò che serve all’azione.
Essi miravano non a sviluppare teorie, ma a esercitare
110 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
un influsso personale sulla condotta degli nomini e con-
dannavano le dottrine che non miravano a un’azione
etica. Puramente stoica è la tesi di Sesto, che Giove
non ha maggior potere dell’uomo virtuoso. Alcuni loro
precetti, invece, non hanno le caratteristiche di una
filosofia particolare ; inoltre, anche in questa scuola si
manifesta l’eclettismo contemporaneo, perchè accoglie
anche teorie pitagoriche (la norma di rendersi conto
ogni giorno della propria condotta, l'astinenza da cibi
carnei, in Sozione la teorìa della trasmigrazione delle
anime) e, platonico-aristoteliche (la natura incorporea
e non spaziale dell'anima). Nulla di filosoficamente im-
portante può trovarsi in questi autori, che però sono
interessanti in quanto mostrano come Stoicismo e roma-
nità si potessero collegare e fondere in alcune anime
nobili e vigorose.
A. Cornelio Celso (vissuto sotto Tiberio), secondo Quin-
tiliano, aderiva alla scuola dei Sesti, ma le opere in cui
si esprimono quelle sue convinzioni dovevano essere
diverse dai sei libri che costituivano la parte filosofica
della sua enciclopedia (intitolata Artes secondo i ms.),
che includeva sei sezioni: Agricoltura, Medicina, Arte
della guerra, Retorica, Filosofia, Giurisprudenza. Si è
conservata soltanto la parte riguardante la Medicina,
fondamentale per la conoscenza di quella disciplina
nell’età alessandrina sino ad Asclepiade e degli inizi
della scuola metodica. In quella filosofica Sant’ Agostino
afferma che Celso si limitava a esporre e a criticare le
opinioni di tutti i filosofi che sino al tempo suo avevano
fondato scuole, nominando anche quelli che avevano
seguito altri. Così avrebbe menzionato un centinaio di
filosofi.
CapitoLO II.
Gli imperatori del I secolo e la filosofia.
Sebbene la filosofia trovasse larga diffusione, per-
sisteva ancora, in romani di stampo antico, l’ostilità
per essa. Seneca ci assicura che suo padre l’odiava,
Quintiliano era ostile ad una disciplina che allontanava
i suoi cultori dall’esercizio dell’eloquenza e dalla parte-
cipazione alla vita pubblica : anche Tacito mostrò per
essa sentimenti simili. Particolarmente nel I secolo d.
C. i successori di Augusto provarono diffidenza e av-
versione per i filosofi stoici soprattutto, ma anche per
i cultori della filosofia in generale, e in vari casi li per-
seguitarono. Sotto Tiberio fu bandito da Roma lo stoico
Attalo, Caligola mandò a morte Giulio Cano, Claudio
esiliò in Corsica Seneca. Sotto Nerone, alcuni filosofi
stoici e alcuni seguaci di questa filosofia, furono uccisi
(Trasea Peto, Seneca, Lucano, Rubellio Plauto) o esi-
liati da Roma (Musonio Rufo, Cornuto, Paconio Agrip-
pino), e fra le accuse sollevate da Tigellino contro Ru-
bellib Plauto era quella di seguire «la setta arrogante
degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disor-
dini » (Tacito, Ann. XIV, 57). Sotto Vespasiano, Elvidio
Prisco, il genero di Trasea, fu mandato a morte; nel
71 tutti i filosofi vennero cacciati da Roma ad ecce-
zione di Musonio Rufo che vi era rientrato sotto Galba :
in quel tempo Dione Crisostomo, che non aveva ancora
abbandonato la retorica per la filosofia cinica, compo-
neva il discorso Contro i filosofi, peste delle città e dei
governi, Nell’85 Domiziano, irritato per l’elogio che di
Trasea e di Elvidio Prisco aveva composto Giunio Ru-
stico, fece uccidere questo e il figlio di Elvidio e cacciò
da Roma tutti i filosofi. Queste persecuzioni, però,
erano determinate o da motivi personali o da ragioni
112 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
politiche ed estendevano a tutti i filosofi la diffidenza
e l’avversione che erano suscitate principalmente dai
seguaci dello Stoicismo. Effettivamente, la filosofia non
era soltanto l'oggetto di un interesse culturale generale
(e a tal punto che, secondo Marziale, una donna, la
moglie di Canio Rufo, si era appassionata per le dot-
trine dello Stoicismo e dell’Epicureismo): in tutte le
scuole di quel tempo agitato e pieno di pericoli predo-
minavano gli interessi morali e religiosi e la filosofia
appariva una fonte di pace interiore, di auto-dominio,
di sicurezza e di forza davanti alle tempeste della vita
e i suoi cultori erano considerati consiglieri, guide della
condotta, direttori di anime, Ma soprattutto lo Stoicismo,
che con la sua morale severa si era diffuso fra gli spiriti
migliori, ai quali arrecava, più che le altre scuole, quel
conforto e quell’energia interiore che erano necessari
per non cedere alla marea dei tempi o alla disperazione,
attirava i discendenti dell’antica aristocrazia, ostili per
principio al nuovo governo, sicchè sebbene nemmeno
allora costituisse un partito politico, contava tra i pro-
pri seguaci non pochi membri dell’opposizione all’auto-
rità degli imperatori. In seguito, però, le cose mutarono.
Sotto Adriano furono istituiti insegnamenti pubblici di
|. filosofia con onori e stipendi e Antonino Pio estese questa
misura alle province. M. Aurelio stabilì che in Atene
(ritornata il centro degli studi filosofici) vi fossero in-
segnanti pubblici, pagati dallo stato, delle quattro scuole
filosofiche principali : la stoica, la platonica, la peripa-
tetica, l’epicurea. Questo fatto si collega all’interesse
che, come si è detto, i diversi indirizzi provavano allora
per le proprig origini e che li induceva a occuparsi
della vita, delle opere e dell’insegnamento dei propri
fondatori. Questa attività erudita, particolarmente in-
tensa in prima linea nella seuola peripatetica e poi in
quella platonica, nelle quali persistette senza interru-
zioni sino alla fine dell’età antica, ebbe cultori anche
negli altri indirizzi filosofici.
CapiroLO III.
Da Augusto al Neo-Platonismo.
1. Peripatetici, Cinici, Epieurei, Neo-Scettici,
Neo-Accademici.
Parlando di questo periodo, non è possibile conside-
rare a parte le maggiori personalità filosofiche come si
ò fatto per l’età della Repubblica, perchè non si presenta
più il fatto che soltanto di esse rimangano opere com-
plete o almeno frammenti importanti. Inoltre, alcune
delle scuole di cui si deve parlare (lo Stoicismo, il Neo-
Pitagorismo, il Platonismo-Medio) costituiscono il pre-
cedente necessario della filosofia che ha il predominio
assoluto nei secoli successivi, cioè il Neo-Platonismo.
Occorre dunque considerare in ultimo tali indirizzi, ai
quali, del resto, appartengono i pensatori più notevoli
di questi secoli.
Oltre alle quattro scuole ricordate sopra, altre sono
attive nei primi secoli dell'impero : il Cinismo, che ac-
quista nuova vita e trova larga diffusione, il Neo-Pita-
gorismo, la Scuola platonica del tempo (Platonismo
Medio), lo Scetticismo Nuovo: di tutte sono ricordati
seguaci romani, ma soltanto di aleune si menzionano
aderenti notevoli in Roma. Lo Stoicismo, la scuola più
importante del periodo, deve all’Urbe due tra le figure
filosofiche più insigni di questi secoli, Seneca e M. Aure-
lio, e inoltre altri numerosi rappresentanti.
Appartenne ai peripatetici Claudio Severo (identi-
ficato a Cl. Severo Arabieno, console nel 146), maestro
di M. Aurelio che lo ricorda con affetto e ammirazione
assai forti e dichiara di dovere a lui il culto costante
della filosofia, l’amore del vero e del bene, il chiaro
concetto di uno stato democratico fondato sull’ugua-
glianza dei cittadini, di un impero rispettoso soprattutto
della libertà dei sudditi. Nel II secolo seguirono la stessa
114 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMAN,
scuola Paolo, praefectus urbis, e Flaviof Boeto, conso»
lare, cultore di medicina e di filosofia, menzionato da
Galeno, che gli dedicò vari scritti ; Virginio Rufo, pure
peripatetico, deve essere vissuto in unò dei due primi
secoli d. C. I
Il Cinismo contava certamente molti seguaci in Ro-
ma, ma si ricordano soltanto pochi snoi rappresentanti
col nome romano : Ostilio, dell'età di Vespasiano; Cre-
scente, l’accusatore di Giustino Martire, dell'età degli
Antonini, e Onorato, vissuto nel II secolo, che si ve-
stiva con pelli di orso. Ì
Seguirono l’Epicureismo due filosofi dal nome di
Celso, vissuti, l’uno nel tempo di Nerone, l’altro, in .
quello di Adriano : Luciano, che ha dedicato al secondo
l’Alessandro, ricorda una sua opera Contro i Magi. Fu-
rono pure epigurei il senatore Pompedio, del tempo di
Caligola, lo stolos Aufidio Basso (che Seneca ricorda come
già vecchio in una lettera scritta tra il 57 e il 65), autore
di un’opera che si ritiene andasse dall’inizio delle guerre
civili alla morte di Tiberio, almeno; Pollio Felice (Pol-
lius Felix) di Pozzuoli, del tempo di Domiziano, oratore
e poeta, amico di Stazio che gli dedicò il libro III delle
Selve. È dubbia l'appartenenza all'Epicureismo di un
Prisco, di cui Marziale ricorda un’opera sui piaceri della
tavola. Un periodo di risveglio ebbe quell’indirizzo nel
II secolo in opposizione al diffondersi delle correnti
religiose e contò fra i suoi seguaci una imperatrice,
Plotina, moglie di Traiano e madre di Adriano, che si
interessò presso il figlio per il riordinamento di tale
scuola, di cui furono seguaci Antonio, amico di Ga-
leno, che criticò le teorie che aveva esposto in un libro
(sulla difesa dalle proprie passioni: rep rig ènì roîs
Idlors nddeor tpedpelac). Forse appartenne a questa
epoca anche l’epieureo Pudenziano, menzionato pure
da Galeno in uno dei suoi seritti (Ez:oroA) Iovdevria-
vo ’Erixovpetov). Dell'Epicureismo furono seguaci an-
che P. Ottavio Secondo e-C. Stallio Auranio (Haura-
nius) di Napoli, ma non se ne conosce la cronologia.
Diversi rappresentanti romani trova il Nuovo Scet-
ticismo iniziato da Enesidemo ; e forse tra essi può col.
locarsi anche\ uno «dei più notevoli pensatori di quel.
l'indirizzo, quéll’Agrippa, di cui, per la vita e la crono-
logia, può dirsi soltanto che è vissuto tra Enesidemo
e Sesto Empirigo, ossia in uno dei due primi secoli d.
C. I dieci tropi 0 argomenti di Enesidemo in favore della
sospensione del giudizio, riguardavano la conoscenza
sensibile e la valutazione morale e si potevano ridurre
ai- due della divergenza fra le credenze degli uomini e
fra le opinioni dei filosofi e alla relatività delle cono-
scenze. Agrippa ne presentò cinque che avevano un ca-
rattere più generale, perchè si riferivano a ogni forma
del conoscere, sensibile e intelligibile, e includevano,
oltre i due ora ricordati (il 10 e il 3°),*altri tre riguar-
danti, piuttosto che il contenuto, la forma della cono-
scenza. Propriamente, essi hanno per oggetto il tenta-
tivo di giustificare qualche tesi. Questi argomenti sono : 20
del processo all'infinito, perchè ciò che è in questione
deve essere provato con altro e così via illimitata-
mente; 4° delle premesse ingiustificate : se si vuole
sfuggire al 2° argomento occorre partire da ipotesi che
non si impongono più delle conseguenze ; 5° del circolo,
perchò a deve provarsi con d e è con a, altrimenti si
ricade nei due casi precedenti.
Viene ricordato come scettico un certo Cassio che
aveva rivolto critiche a diverse tesi di Zenone i sì erede
sia identico al filosofo omonimo (I o II secolo d. C.)
che secondo Galeno condannava l’uso di quel ragiona-
mento che era stato denominato il passaggio dal simile
al simile, cioè l'analogico. Potrebbe però trattarsi di due
scettici diversi e sarebbe possibile in tal caso che il cri-
tico di Zenone fosse più antico dell’altro. Seguace di
Sesto Empirico (e. 150 d. C.) e perciò vissuto alla fine
del II secolo d. C. o al prineipoi del III, fu Saturnino,
scettico pirroniano e medico :! non si ricordano sue
dottrine particolari, ma si può supporre che accettasse
! Diogene Laerzio dice che era soprannominato Kvnvag : la
parola è incomprensibile, ma forse indicava un’origine greca,
116 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
quelle fondamentali del maestro che, negando la possi-
bilità di una scienza razionale che pretendesse di co-
gliere le cause nascoste delle cose, ammetteva la legitti-
mità di arti (prima fra esse la medicina) che si limitassero
a constatare empiricamente coincidenze e successioni
di fenomeni per fondare così previsioni probabili per il
futuro.
Si collega da una parte allo Scettieismo pirroniano,
dall’altra a quello della Nuova Accademia, ma è soprat-
tutto un eclettico, Favorino di Arelate (Arles: n. c.
80-90, m. fra 143-176 d. C.), piuttosto retore ed enci-
clopedico che filosofo, sebbene volesse essere chiamato
con questo nome. Può essere stato discepolo di Dione
Crisostomo a Roma, forse all’inizio del II secolo, ma
non è provato che abbia avuto per maestro Epitteto.
Già al tempo delle guerre daciche di Traiano deve avere
conosciuto Plutarco che gli dedicò il De primo Frigido
e ne fece un interlocutore delle Quaestiones Conviviales ;
inoltre fu maestro di Erode Attico che conservò sempre
per lui affetto e ammirazione. Visse soprattutto a Roma
(ove fu ascritto all'ordine equestre, mentre in patria
conseguì un ufficio sacerdotale) sotto Traiano, Adriano e
Antonino; ma si recò a tener discorsi e conferenze ad
Atene e a Corinto, che lo onorarono ciascuna con una
statua-ritratto, e nell'Asia Minore, riportando successi
specialmente a Efeso. In quel tempo si svolse fra lui
e il suo concorrente Polemone un'aspra polemica che
venne ripresa a Roma ove i due sofisti si disputavano
il favore di Adriano; Favorino, dopo averlo goduto,
lo perdette, e probabilmente per ciò deve essere stato
esiliato a Chio (c. 131). Ritornò a Roma presumi-
bilmente quando salì al trono Antonino (138) e stabilì
la sua residenza in quella città, ove il pubblico lo ammi.
rava assai. Era in relazione con le persone più colte
del tempo suo, come Frontone e Aulo Gellio ; era uomo
di vasta cultura, dominava sia la letteratura greca che
quella romana e si distingueva per l’acume della dialet-
tica e per la leggiadria dell’espressione.
Scrisse in greco, trattando argomenti svariati; ma
delle sue opére rimangono soltanto alcuni discorsi e dia-
tribe e pochi.frammenti. Un gruppo di scritti era costi-
tuito da discorsi epidittici e da diatribe : nei primi,
secondo il gusto retorico del tempo, sono contenute
lodi di esseri dannosi o spregevoli (Tersite, per es.).
Fra gli scritti di erudizione storica e più importanti
sono i Memorabili, in almeno 5 libri, e la Storia svariata,
in 24 libri che interessano la storia della filosofia, I
primi, che conosciamo per ciò che ne riferisce Diogene
Laerzio, erano principalmente una raccolta di aneddoti
sui filosofi dei secoli VI-IV a. C. La seconda aveva
un contenuto molto vario ; nei frammenti che sono con-
servati emergono i capitoli che riguardavano I filosofi
che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia
della cultura; Gli accusatori dei filosofi. Un Compendio
di Pamfile era un estratto di un’opera di questa serit-
trice (una grammatica). Più numerosi gli seritti di filo-
sofia scientifica o popolare: Sulle idee; Sulla filosofia
di Omero ; Su Platone; Su Socrate e sulla sua arte ero-
tica; Sul modo di vivere dei filosofi ; Plutarco, o dello
stato d'animo dell’ Accademico ; Contro Epitteto (dialogo) ;
«Alcibiade; 3 libri rep. is xaradngetIXiio pavraolag
(contro la gnoseologia stoica : in un libro intero mostrava
che nemmeno il sole è comprensibile: xateAnmemdv).
L’opera sua più importante era giudicata uno seritto
in 10 libri, / tropî pirroniani, in cui disponeva in modo
diverso dal solito gli argomenti di Enesidemo. È dubbia
una raccolta di sentenze (G@nomologia). Agli scritti filo-
sofici si può aggiungere un esteso frammento, recente-
mente scoperto, di un discorso Sull’esilio, rivolto agli
abitanti di Chio : ciò che resta sembra costituisse l’in-
troduzione a una diatriba d’intonazione cinico-stoica sul-
l’esilio che, giudicato un male dai più, non può nuocere
al filosofo. Ritenuto al tempo suo uno dei primi serit-
tori, fu criticato da Galeno in varie opere e trovò let-
tori anche nel III secolo.
Poca importanza hanno le sue opinioni nella sfera
della morale (in cui, in generale, non superò i limiti
dei luoghi comuni abituali) e alcune sue tesi natura-
118 STORIA DELLA FILOSOFIA n,
listiche, che mostrano influssi aristotelici é stoici. Più
interessante è il suo atteggiamento filosofico generale.
Favorino si collegava alla Nuova Accademia, di cui
accettava il principio fondamentale inquirere potius quam
decernere, e riteneva l'insegnamento migliore quello che
argomentava pro e contra; d’altra parte, la sua opera
principale mostra che accettava lo Scetticismo pirro-
niano. Ma effettivamente non si fermava al puro e sem-
plice dubbio, perchè accettava la tesi neo-accademica
della probabilità, sicchè, dopo avere difese successiva-
mente due proposizioni opposte, lasciava che i disce-
a ‘poli scegliessero la più vera (cioè la più probabile). Così,
al pari di Cicerone, estendeva il probabilismo oltre i
limiti della vita pratica assegnatagli da Carneade e,
__‘—col suo predecessore romano, faceva di esso il fonda-
mento dell’eclettismo ; infatti, è verosimile che in questo
modo giustificasse l'affermazione che l'insegnamento del
Peripato conteneva la maggiore probabilità. Deve avere
seguito l'indirizzo di Favorino il suo discepolo Qua-
drato, che viene identificato a L. Stazio Quadrato (cons.
142, poi proconsole d’Asia).
Si può collegare allo Scetticismo neo-accademico L.
i Licinio Sura (n. in Ispagna e. 56, m. poco dopo 110),
Ri corregionale e amico di Marziale. Fu tre volte console
e contribuì notevolmente alle vittorie di Traiano sui
e Daci. Amico dell’imperatore che se ne serviva per la
composizione dei suoi discorsi, era, dopo di lui, l’uomo
più autorevole dello stato. Persona molto colta, si in-
teressava di problemi naturalistici e partecipava atti-
‘vamente ai movimenti spirituali del tempo suo. Plinio
Ss il Giovane, che gli ha indirizzato due lettere, dice che
i aveva l'abitudine di discutere su problemi scientifici
il pro e il contra.
2. Lo Stoicismo. — A) Figure minori.
In questi secoli la scuola stoica, valendosi di tutti
i mezzi orali e scritti, soprattutto di quelli più popolari,
che favorissero la diffusione del suo insegnamento, eser-
e =
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
citò una forte azione non soltanto sulle classi superiori,
(di queste si. è parlato precedentemente), ma anche
su quelle più modeste della società romana per mezzo
di vere e proprie predicazioni, determinando un gran
numero di adesioni e di conversioni, Segnaci dello Stoi-
cismo furono infatti uno schiavo come Epitteto e un
imperatore come Marco Aurelio. Siccome, però, soltanto
alcuni di essi, soprattutto questo, e più di lui Seneca
e anche Musonio Rufo, meritano di essere considerati
particolarmente, è opportuno ricordare da prima i no-
mi degli stoici dell’epoca e poi parlare separatamente
dei principali.
Non tutti i seguaci dello Stoicismo vissuti in questi
secoli rappresentavano degnamente quella scuola, anzi
alcuni erano la negazione vivente della morale che in-
segnavano ; così sotto Nerone P. Egnazio Celere de-
nunciò un altro stoico, Borea Sorano e sua figlia, e
Giovenale ricorda a titolo d’infamia Palfurio Sura, pure -
stoico ; masi trattava di casi isolati. Alla scuola di cui
si parla (e probabilmente in modo particolare a Posi-
donio) si può collegare M. Manilio, vissuto nell’età di
Augusto e di Tiberio. Nel suo poema astrologico ( Astro-
nomica), composto, sembra, parte sotto il primo e parte
sotto il secondo imperatore, propugna con entusiasmo
una visione del mondo che ha per centro il principio
dell'unità di tutte le cose, che sono sottoposte a una
legge fissa e ineluttabile, Dio, che penetra e vivifica
l'universo. La Divinità risiede nel mondo celeste, del
quale quello terrestre è un’immagine. Le stelle determi-
nano la sorte degli uomini ai quali non resta che rivol-
gersi ad esse per interrogarle : questa conoscenza rende
l’uomo simile a Dio. È
Si occupò di argomenti astronomiei anche ©. Giulio
Cesare Germanico, n. il 24 maggio del 15 a. C. da Nerone
Claudio Druso Germanico e da Antonia Minore, Nel
4 d. C. venne adottato da Tiberio, che contemporanea-
mente era adottato da Augusto e in tal modo fece parte
della famiglia Giulia. Nel 14, dopo la morte di Augusto,
dovette reprimere le gravi rivolte che erano scoppiate
120 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nella regione renana fra le legioni; poi passato il Reno,
intraprese una spedizione in Germania (14-15), sconfisse
Arminio, ne fece prigioniera la moglie Tusnelda, vendi-
cando la sconfitta delle legioni di Varo. Richiamato da
Tiberio il 16, venne inviato in Oriente con poteri straor-
. dinari. Là venne in conflitto col proconsole della Siria,
Calpurnio Pisone : intanto si ammalò improvvisamente
in Antiochia e vi morì il 10 ottobre. Si diffuse la voce
che fosse stato avvelenato da Pisone e dalla moglie di
questo Plancina, ma tale accusa venne smentita nel
processo che si fece in seguito. Ebbe larga cultura. Scris-
se commedie in greco e gli si attribuiscono epigrammi
in greco e in latino ; fu anche un valente oratore. Rie-
laborò liberamente, servendosi dei progressi compiuti
dalla scienza astronomica, i Fenomeni di Arato, già
tradotti da Cicerone. Di quest'opera restano 700 versi.
Possediamo pure frammenti di contenuto astronomico
(c. 200 versi), che precedentemente si consideravano
avanzi di Prognostica, ma che dovevano essere inclusi
nella seconda parte dei Fenomeni con cui Germanico
voleva completare l’opera di Arato. Si è affermato che
seguiva fedelmente lo Stoicismo, ma le affinità che vi
sono indicate, rispetto ad argomenti particolari, tra
.certe tesi sue e le dottrine di quella scuola non riguar-
dano le teorie centrali di essa.
Sotto Claudio e Caligola visse Giulio Cano ucciso
dal secondo : stando a Seneca, davanti alla morte mo-
strò una rara imperturbabilità. L'interesse da lui mo-
strato per l'immortalità dell'anima ha fatto pensare a
influssi neo-pitagorici sul suo stoicismo. Nell’età di Ne-
rone (che ebbe per maestri due stoici, Cheremone e Se-
neca) seguirono lo Stoicismo Clarano, condiscepolo e
coetaneo di Seneca, e Anneo Sereno amico e parente
o liberto di questo (che gli dedicò vari seritti) e morto,
a breve distanza dalla nomina a praefectus vigilum,
poco prima di lui (62 o 63). Stoici della stessa epoca fu-
rono un altro amico di Seneca, C. Crispo Passieno,
marito di Agrippina, e L. Anneo Cornuto di Leptis.
Il primo, oratore insigne, fu due volte console (la se-
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 121
conda nel 44 d, C.). Sposò Aria Domizia, zia di Nerone,
poi Agrippina, che con frode, gli tolse la vita (37). Cor-
nuto, confinato da Nerone in un’isola per la. libertà
delle sue critiche (66 o 68), scrisse in greco su argomenti
retorici e filosofici. Compose in latino De figuris senten- ,
tiarum, un commento a Virgilio e un lavoro De enun-
tiatione vel de ortographia. La sua opera ‘principale è
Ertdpopà tov xatà Thv ’EXXgvix}y deoXbylay rapadedo-
pévoy (che ancora ci rimane) che, valendosi di opere pre-
cedenti più estese sull'argomento, presenta l’interpre-
tazione stoica dei miti greci considerati come allegorie
della fisica stoica. Origene, che lo studiò, applicò quel
procedimento all’interpretazione dei testi biblici. Sco-
lari di Cornuto furono due poeti, A. Persio Flacco (34»
62), le cui satire sviluppano in versi vigorosi, ma spesso
oscuri, dottrine stoiche, e M. Anneo Lucano (39-65), ni-
pote di Seneca (mandato a morte da Nerone per la sua
partecipazione alla congiura di Pisone), che nella Far-
salia spesso manifesta la sua adesione allo Stoicismo.
Influssi di uno Stoicismo eclettico si sono rilevati negli
scritti di Giunio Moderato Columella, di Gades (Cadice),
contemporaneo di Seneca, che fu tribuno militare della
6 legione ferrata, che risiedeva nella Siria. Possedeva
terre in Italia, che riteneva il paese più adatto per
l'agricoltura, di cui si interessò in modo particolare.
Compose due redazioni di un’opera sulla agricoltura,
una più breve (di cui resta un libro De arboribus), che
doveva includere tre o quattro libri, e una più ampia
in dodici (De re rustica), scritta probabilmente tra il
61 e il 65 d. C. Di lui rimane anche sugli stessi argo-
menti un liber singularis. Quando redigeva l’opera mag-
giore ne aveva già scritta una contro gli astrologi, ora
perduta, e ne disegnava un’altra, riguardante lustra-
tiones ceteraque sacrificia quae pro frugibus sunt, che,
se pure è stata composta, non ci è giunta.
Appartengono all’età di Nerone e dei suoi successori,
oltre i già ricordati Borea Sorano e P. Egnazio Celere,
anche altri stoici. Il primo, consul designatus (veramente
consul suffectus) per il 52, fu avanti il 63 proconsole di
0
“= -
"122 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Asia: venne accusato presso Nerone perchè era amico
di Rubellio Plauto e perchè aveva cercato di acquistarsi
il favore dei propri amministrati, nei quali aveva fo-
mentato lo spirito di rivolta; sua figlia Servilia fu
incolpata di pratiche magiche. Corrotto dagli accusatori,
testimoniò falsamente contro ambedue l’antico cliente
e amico e attuale insegnante di filosofia stoica di So-
rano, P. Egnazio Celere (di Berito ?). Padre e figlia fu-
rono condannati a morte, ma nel 69, sotto Vespasiano,
Egnazio Celere fu accusato davanti al Senato da Muso-
nio Rufo e, sebbene difeso dal cinico Demetrio, fu a sua
volta condannato alla pena capitale. Palfurio Sura
visse da prima sotto Nerone; allontanato dal Senato
da Vespasiano, divenne stoico e acquistò fama come
oratore e poeta. Fu delatore al tempo di Domiziano ;
morto questo, venne accusato davanti al Senato e con-
dannato.
Rubellio Plauto (n. dopo il 33 d. C., m. nel 62), per
parte della madre nipote di Augusto allo stesso grado di
Nerone, aderì allo Stoicismo, seguendo la tradizione della
propria famiglia. Confinato da Nerone nell'Asia Minore
(60), strinse amicizia con Borea Sorano, allora procon-
sole d’Asia, ed ebbe rapporti con Musonio Rufo e Ce-
rano. Nel 62 Tigellino decise Nerone a liberarsi di lui ;
fra le accuse che gli erano rivolte v'era quella di apparte-
nere alla‘“scuola stoica. Condannato a morte senza pro-
cesso, seguì il consiglio di Musonio Rufo e di Cerano e
si lasciò uccidere da un centurione senza opporre resi-
stenza. Paconio Agrippino, il figlio di M. Paconio, man-
dato a morte da Tiberio, dopo essere stato al tempo di
Claudio questore in Creta e in Cirenaica, fu da Nerone
esiliato dall’Italia. Morto quell’imperatore ritornò in
Cirenaica come legato di Vespasiano (71 e 72 d; C.).
Nella stessa epoca vissero due audaci assertori de-
gli antichi ideali repubblicani, Trasea Peto e suo genero
Elvidio Prisco. Il primo, nato a Padova da famiglia
distinta e ricca, nel 42 risiedeva a Roma. Sebbene ap-
partenesse all'opposizione all'impero, fu consul suffectus
(56-57); sino al 63 partecipò attivamente alle adunanze
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
del Senato opponendosi a Nerone ; ne stette lontano dal
63 al 66. L'imperatore gli era ostile sia perchè aveva
composto uno seritto in lode di Catone, sia per l’azione
personale che svolgeva. Processato davanti al Senato e
condannato a morte, si fece segare le vene dopo aver
detto al questore che gli aveva comunicato la sentenza :
Libiamo a Giove Liberatore. Lo assistette negli ultimi
momenti il cinico Demetrio col quale precedentemente
aveva discusso della natura dell'anima e della sua divi-
sione dal corpo. Elvidio Prisco, nato nel Sannio, si de-
dicò da giovane alla filosofia ed ebbe maestri stoici.
Sebbene rigido repubblicano, partecipò attivamente alla
vita pubblica; fu quaestor Achaiae nel 51, come quae-
storius comandò una legione e fu tribuno della plebe
nel 56. Nel 66 fu involto nel processo del suocero e
bandito da Roma ; richiamato da Galba, aceusò il dela-
tore di Trasea Peto ; nel 70 ottenne la pretura. Energico
oppositore dell’imperatore si attirò l’avversione perso-
nale di Vespasiano e perciò fu relegato per la seconda
volta, poi condannato a morte (70). Il filosofo Ostiliano,
bandito da Vespasiano verso il 74, è forse identico allo
stoico C. Tutilio Ostiliano da Cortona.
Nell’età di Domiziano vissero C. Vibio Massimo,
Giunio Aruleno Rustico, Erennio Senecione e inoltre un
‘Frontone e un Deciano di Emerita nella Lusitania, ri-
cordati da Marziale : forse il secondo dei due ultimi si
deve identificare a L. Silio Deciano, console nel 93.
C. Vibio Massimo nel 93 era prefetto della 3% coorte
Alpina nella Dalmazia, nel 104, prefetto dell'Egitto ;
fu amico di Stazio e di Plinio il Giovane. Aruleno Ru-
stico, tribuno della plebe nel 66, pretore nel 69, venne
fatto uccidere da Domiziano (non prima del 93) perchè
filosofava e considerava Trasea un santo. Ebbe uguale
sorte, poco dopo l’agosto 93, per avere scritto la vita
di Elvidio Prisco, Senecione, nato nella Spagna Betica
ove fu questore: deve aver seguito lo Stoicismo. Alla
stessa epoca appartenne Silio Italico, l’autore dei Pu-
nica (un poema sulla 28 guerra punica); nato nel 25
a Italica (in Italia). Accusato di essere stato un delatore
124 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
sotto Nerone, ottenne il consolato nel 68, l’ultimo anno
del principato di quell’imperatore, poi partecipò attiva-
mente alle lotte per la successione all'impero, che av-
vennero negli anni seguenti e ottenne bella fama come
proconsole d’Asia. Ritiratosi a vita privata, impiegò
il suo tempo negli studi, passando gli ultimi anni nella
Campania. Nel 101, per sottrarsi a una malattia incura-
bile, si diede la morte con la fame.
I due Plinii (23-79; 62-113) non si possono conside-
rare stoici, sebbene nei loro scritti si trovino pensieri
che dipendono da quella scuola, di cui Plinio il Vecchio
era un ammiratore. Quanto a Plinio il Giovane, conobbe
in Siria, quando vi prestava servizio, due filosofi, Arte-
midoro e Eufrate, coi quali più tardi ebbe stretti rapporti
in Roma.
Giovenale (n. 55, m. 130 a 140), anche se si collega
allo Stoicismo, si ferma alla morale delle diatribe senza
imprimervi carattere propriamente filosofico. Si è vo-
luto far dipendere dalla stessa scuola anche Tacito
(n. 54 o 55, m. 117 a 120), che effettivamente provava
simpatia per la rigida morale di esso; ma è certo che
nella sua concezione della storia, e quindi nella sua vi-
sione della realtà, egli (che in generale non apprezza
troppo la filosofia e i suoi cultori) mostra un pensiero
poco coerente e poco organico, tanto è vero che spiega
gli stessi avvenimenti sia con cause naturali, sia con
forze che le trascendono, come il favore degli Dei e il
destino, e anche, rispetto alle seconde, oscilla fra il
caso e il fato. Nell’età di Adriano e nella seguente visse
un certo Lucio, discepolo di Musonio Rufo. Marco Aure-
lio ricorda con affetto e lode tre seguaci di quell’indi-
rizzo, vissuti nello stesso periodo: Giunio Rustico (fi-
glio o nipote di G. Rustico Aruleno), due volte console
(nel 119 fu collega di Adriano nel suo terzo consolato).
e una volta praefectus urbis ; Claudio Massimo, console
e poi legato e procuratore imperiale; Cinna Catulo,
tutti e tre suoi maestri. Era seguace dello stesso indirizzo
anche l’imperatore.
Dopo Mareo Aurelio, lo Stoicismo va perdendo im-
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 125
portanza e gradatamente si estingue. Nel III secolo
vengono ricordati due suoi rappresentanti romani con-
temporanei della formazione del Neo-Platonismo : An-
nio e Medio : una discussione che il secondo ebbe con
Longino può essere avvenuta tra il 258 e il 262. Secondo
Longino, ambedue sarebbero stati privi di originalità
e si sarebbero limitati a riprodurre il pensiero degli
antichi. Forse era romano lo stoieo Musonio che inse-
gnava in Atene quando vi studiava Longino, ma non
pubblicò scritti. Non è nota la cronologia di un altro
stoico, T. Claudio Alessandro (romano ?). In ogni modo
lo Stoicismo esercitò un’azione profonda ed estesa sullo
svolgimento posteriore dell’etica come scienza e come
norma pratica di vita, aprendo la via agli sviluppi del
Cristianesimo, e, dopo avere esercitato una forte azione
sul Neo-Platonismo, influì notevolmente sulle dottrine
dei Padri della Chiesa.
B) Seneca.
L. Anneo Seneca nacque a Corduba verso il 4 a, C.
Il padre chiamato poco esattamente il Retore, cultore
degli studi letterari e, soprattutto, dell’eloquenza, serisre
una storia romana dalle guerre civili in poi, che si è
perduta, dieci libri di Controversiae e uno di Suasoriae,
in cui, servendosi dei suoi ricordi, raccoglieva parti di
declamazioni di retori che aveva ascoltato. La madre
di Seneca, Elvia, affezionatissima ai figli, seppe agire
fortemente sul loro spirito : era appassionata per gli
studi e anche per la filosofia e da lei probabilmente
Lucio derivò l’amore per quella disciplina, poco apprez-
zata dal padre. Il fratello maggiore di Seneca, Marco
Anneo Novato (al quale sono dedicati il De ira, il De
. vita beata e il De remediis fortuitorum) venne adottato
dal retore Giunio Gallione amieo di suo padre, di cui
prese il nome. Coprì uffici molto elevati perchè fu con-
sole e proconsole dell’Acaia, ma dopo qualche tempo
dalla morte del fratello; si tolse la vita, forse perchè
ii de:
TRO 7 ©
y =
126 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
fatto oggetto degli attacchi, da prima inutili, dei suoi
nemici. Di lui Seneca parla spesso con affetto e stima,
mentre raramente accenna al fratello minore, Mela, che
ebbe per figlio il poeta Lucano. Anneo fu condotto a
Roma ancora fanciullo da una zia materna (moglie di
Vitrasio Pollione che fu poi per sedici anni prefetto
dell'Egitto) ed essa dovette occuparsi soprattutto della
salute delicata del nipote indebolita anche per l'intensità
con cui si dava agli studi. La filosofia lo attirò ben
presto, sicchè si interessò degli insegnamenti dei più
notevoli rappresentanti di essa in Roma : fanciullo, ebbe
per maestri Sozione d’Alessandria e Sestio il giovane ;
giovanetto, Attalo, Papirio Fabiano e il cinico Demetrio,
che ricordò spesso con viva ammirazione. Egli aderì
allo Stoicismo, di cui volle applicare le norme severe
alla vita di tutti i giorni, ma per consiglio del padre
(che temeva sia che le rinuncie che si imponeva mettes-
sero in pericolo la sua salute già debole, sia che incor-
resse nell’avversione di Tiberio, ostile ai filosofi), si
volse all’eloquenza forense e alle cariche pubbliche.
Conseguì la questura (pare nel 31 o nel 32) per l’opera
della zia, entrò in Senato e come oratore conseguì tali
trionfi da suscitare l'invidia e l’avversione di Caligola
che avrebbe voluto mandarlo a morte, ma che mutò
parere perchè venne convinto che Seneca aveva ben
poco tempo da vivere. Allora abbandonò l'avvocatura,
poi rimasto libero per la morte del padre (verso il 39),
ritornò agli studi filosofici ; appartengono forse a questa
epoca le sue prime opere di filosofia, la Consolatio ad
Marciam e i libri del De ira. Ma una nuova tempesta
lo colse perchè, per l’inimicizia di Messalina, venne
aceusato di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Cali.
gola, sicchè Claudio lo esiliò in Corsica. Rimesso dal
grave colpo tentò di trovar conforto e forza nell’insegna-
mento stoico e cercò di calmare il dolore della madre
con la Consolatio ad Helviam (42 o 43), ma poi si ab-
battè a tal punto da scrivere una Consolatio ad Poly-
bium (liberto e segretario di Claudio), piena di adula-
zioni per lui e per l’imperatore, Nel 49, Agrippina, che
è
.
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 127
aveva sposato Claudio, richiamò Seneca dall’esilio, lo
fece nominare pretore e gli affidò l'educazione del fi-
glio Nerone adottato dall’imperatore : siccome Nerone
aveva altri due precettori di filosofia, è probabile che
Seneca si occupasse piuttosto degli insegnamenti del-
l’eloquenza e della poesia e della formazione morale
del discepolo. Collega di Seneca era Afranio Burro,
prefetto del pretorio, uomo di nobile tempra morale.
Agrippina riuscì ad assicurare l'impero a Nerone ai
danni di Britannico e quando morì Claudio avvelenato
da lei (54), fece proclamare imperatore il figlio che
non aveva ancora 17 anni, Allora Seneca (che per la
morte di Claudio aveva seritto una satira feroce contro
di lui) vide rafforzato il suo potere e pare che ottenesse |
il consolato. Per il 180 anno di Nerone serisse il De ele-
mentia, ma in questo periodo la sua attività letteraria
si rallentò ; infatti egli e Burro, divenuti ministri, erano
i veri dominatori dell'impero che, nei primi cinque anni
del principato neroniano, fu guidato con saggezza. Ma:
ben presto il loro potere scemò, perchè l’imperatore
ascoltava cattivi consiglieri e si mostrava sempre più
malvagio e crudele, tanto che, malgrado i tentativi dei
suoi maestri per dissuaderlo dal suo insano proposito,
fece uccidere la madre (59?): però Seneca serisse il
messaggio inviato da Nerone al Senato per giustificare
il matricidio. Poco prima, nel 58, Seneca era stato.
fortemente attaccato dai suoi nemici e specialmente da
Suillio che lo aveva accusato di essere riuscito in quattro
‘- anni ad accumulare immense ricchezze, di andare a
caccia di testamenti, di captare la benevolenza di vec-
chi senza eredi, di opprimere l’Italia e le province con
usure formidabili. Seneca ottenne che Suillio fosse con-
finato nelle isole Baleari, ma non riuscì a fare esiliare
anche il di lui figlio : cercò poi nel De vita beata di ri-
spondere alle critiche che gli erano state rivolte, ma la
difesa è poco convincente.
Morto Burro (62), decadde sempre più l'autorità di
Seneca che, denigrato presso l'imperatore, per sfuggire
ai pericoli che lo minacciavano, gli offrì le sue ricchezze
Vv le VA ee 1 VO ee 0
128 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
e gli chiese il permesso di abbandonare la corte. Nerone
respinse ambedue le proposte, ma Seneca approfittò
delle costruzioni intraprese dall'imperatore per render-
gli in parte i suoi doni, e, deposto ogni lusso e ogni
fasto, condusse vita solitaria occupandosi esclusivamente
di studi filosofici. A questo tempo appartengono il De
beneficiis, le Lettere a Lucilio, le Questioni naturali. Ne-
rone, che aveva inutilmente cercato di farlo avvelenare,
si valse dell'accusa che gli fu rivolta di partecipare alla
congiura di G. Calpurnio Pisone per ordinargli di uce-
cidersi. Seneca domandò di far testamento, e avuto
un rifiuto, disse agli amici che legava loro l’unico bene
che gli era rimasto, l'esempio della sua vita, e li esortò a
vincere il dolore che li invadeva. La sua giovane moglie
Paolina (la seconda perchè la prima pare gli fosse morta
avanti l’esilio) chiese di morire con lui e ambedue si
fecero contemporaneamente segare le vene; siccome la
morte tardava a venire, Seneca indusse la consorte a
farsi portare in un’altra stanza, ma Nerone, per non
accrescersi odio, mandò soldati perchè le impedissero
di attuare il suo proposito. Seneca dettò ai suoi segre-
tari parole che Tacito non ci ha trasmesso perchè tutti
i suoi contemporanei le conoscevano ; per affrettare la
morte bevette cicuta, ma inutilmente, per le condizioni
del suo organismo. Allora si fece portare in un bagno
caldo e, aspersi con quell'acqua gli schiavi che gli erano
vicini, disse : consacro questo liquore a Giove liberatore.
Portato in una stufa spirò fra quei vapori (65).
Le opere che ei restano di lui sono molto numerose,
e diverse non ci sono giunte. Quintiliano divide quegli
scritti in orationes, poèmata, epistulae, dialogi. Quanto
alle orazioni si conservano frammenti o notizie di quelle
fatte in lode di Messalina e per Plauzio Laterano e dei
discorsi composti per Nerone in onore di Claudio, ai
pretoriani, al Senato e a questo, per giustificare la
morte di Agrippina. Si può menzionare anche il discorso
che secondo Tacito avrebbe rivolto a Nerone per of-
frirgli le sue ricchezze e per ritirarsi dalla corte. Le
poesie più brevi dovevano comprendere almeno 4 libri,
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 129
Si discute sull’autenticità degli epigrammi che portano
il nome di Seneca, ma almeno alcuni sembrano suoi ;
alle poesie appertengono le tragedie di cui riparleremoz
L’Apokolokyntosis (l’inzuccamento di Claudio) è una sa-
tira menippea mista di prosa e di versi. Rientrano
nelle opere filosofiche le lettere a Lucilio in 20 libri,
Si è perduta una Vita patris che non rientra nella divi-
sione di Quintiliano. Questo designava con Dialogi
tutte le opere filosofiche salvo le lettere a Lucilio,
dando a quella parola il significato di diatribe.
Fra le opere di Seneca ci interessano, oltre gli seritti
filosofici, le tragedie per l’affinità che presentano nel
loro contenuto con le dottrine morali dell’autore: è
questo uno dei più forti argomenti che si possono por-
tare per rivendicarne al filosofo la paternità, che è
stata a lungo discussa, ma che ora è accettata general.
mente. Come mostrano gli stessi titoli (Hercules [furens],
Troades [o Hecuba], Phoenissae [o Thebais], Medea,
Phaedra [o Hippolytus], Oedipus, Agamemnon, Thyestes,
Hercules Ocetaeus), gli argomenti sono presi dal mondo
delle leggende greche, ma l’autore vi ha messo l'impronta
della romanità. È più dubbia la paternità della Octavia
(l’unica tragedia praetexta che sia rimasta), ma trova
ancora difensori. È discussa la cronologia delle trage-
die ; la tesi più accettata in passato ne poneva la com-
posizione nel tempo dell’esilio in Corsica, ma ora si
propende a credere che siano state scritte quando Se-
neca viveva a corte; anzi, vi è chi pensa che il T'hyestes
appartenga ad anni posteriori. Importanza molto mag-
giore hanno gli seritti filosofici in prosa : come si è detto,
Quintiliano li chiamava tutti dialoghi, ma la tradi-
zione manoseritta denomina così dieci lavori: De pro-
videntia, De constantia sapientis, De ira libri tres, Ad
Mareiam de consolatione, De vita beata, De otio, De
tranquillitate animi, De brevitate vitae, Ad Polybium de
consolatione, Ad Helviam matrem de consolatione. Sono
però dialoghi apparenti, perchè effettivamente pre-
sentano esposizioni continuate, interrotte talvolta da
interrogazioni o da obbiezioni presentate o dalla persona
130 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
cui l’opera è dedicata o da altri. Scritti non inclusi in
questa raccolta sono: De clementia libri tres, De bene-
ficiis libri septem, Naturalium quaestionum libri octo,
Epistulae morales ad Lucilium (ne restano 20 libri,
ma non sono complete, perchè Aulo Gellio ne ricorda
il libro 22°). È incerta la cronologia di questi scritti
che rappresentano soltanto una parte della produzione
filosofica e scientifica di Seneca, perchè diversi sono
perduti: di aleuni rimangono soltanto frammenti
citazioni, di altri rielaborazioni o florilegi medioevali.
Rientrano nel primo gruppo seritti filosofici, soprat-
tutto morali (Exhortationes, De officiis, De immatura
morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione
dialogus : i Moralis philosophiae libri, in generale, si
ritengono un’opera a sè, ma aleuno erede che con quel
titolo Seneca designasse un gruppo di lavori affini,
fra i quali De clementia, De beneficiis, De providentia,
De officiis) e naturalistiche (De motu terrarum, De la-
pidum natura [estratto dalle Naturales Quaestiones come
lo scritto seguente?], De piscium natura, De situ Indiae, -
De situ et sacris Aegyptiorum, De forma mundi). Come
si è detto, si è perduta una Vita patris ; inoltre, non ci
sono giunte lettere a Marullo, a Cesonio Massimo e
secondo alcuni a Novato.
Dello scritto Ad Gallionem fratrem de remediis for-
twitorum (composto al tempo di Nerone), ricordato da
Tertulliano, venne composta, probabilmente all’inizio
del Medio evo, una rielaborazione con lo stesso titolo.
Il De matrimonio, pure perduto, servì a S. Girolamo
per comporre la sua epistola Ad Jovinianum. Nell’età
medioevale si composero estratti e florilegi di opere sue,
soprattutto di aleune perdute. Martino di Brancara
(m. 580) trasse dal De ira uno scritto con lo stesso titolo,
e nella Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus
rielaborò materiali tolti, pare, alle Exhortationes o al
De officiis. Dallo scritto precedente e dalle Lettere a
Lucilio fu ricavato il De copia verborum. (Alcuni però
ritengono che nel Medio Evo esistessero tre seritti asse-
gnati a Seneca con quei titoli, altri, che dal primo siano
i
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 131
stati derivati il secondo e il terzo). Con De paupertate,
furono intitolati estratti dalle lettere a Lucilio. Appar-
tiene ai florilegi il Ziber de moribus, una serie di 145
sentenze morali che pare fosse conosciuta come opera di
Seneca nel 567: sembra un estratto da una raccolta
più ampia, dalla quale deriverebbero anche i Monita
Senecae. Dal Liber de moribus provengono in gran parte
i Proverbia o Sententiae Senecae, 149 sentenze in prosa,
disposte in ordine alfabetico da N a Q e destinate a in-
tegrare quelle di Publié Siro nella redazione che giun-
geva soltanto sino a N. Può darsi che altri scritti di Se-
neca siano spariti senza lasciare traccia. È apocrifa la
corrispondenza fra Seneca e $. Paolo, composta da
un autore cristiano e conosciuta già da S. Girolamo e
da S. Agostino ; apoerife sono anche le Notae Senecae,
sei elenchi di abbreviazioni tironiane con le spiegazioni
relative.
È difficile stabilire la eronologia delle opere filoso-
fiche di Seneca, ma sembra, come si è indicato, che le
tre Consolazioni (a Marcia, a Polibio, a Elvia) stiano
tra le più antiche. Esse rientrano in un genere particolare,
molto coltivato dai filosofi dell’età ellenistico-romana,
specialmente dagli Stoici. (Come si è visto, anche Ci-
cerone ne scrisse una). Essi cercavano di dare conforto
e coraggio alle persone più legate a loro quando le ve-
devano colpite a fondo dalla sventura; e partendo
dalle loro condizioni particolari si elevavano a consi-
derazioni filosofiche generali e portavano esempi di casi
della stessa natura avvenuti a persone insigni e (questa
parte era in complesso simile in tutti gli scritti del ge-
nere) per convincere il destinatario che doveva farsi
forza e rimanere al suo posto nelle lotte della vita.
Queste esortazioni e questi insegnamenti morali dove-
vano servire non soltanto al destinatario, ma a tutti gli
uomini colpiti da dolori e da sventure simili.
Forse la Consolatio più antica è quella rivolta a
Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, che per il
suo libero linguaggio venne preso in odio da Seiano il
quale, valendosi dell’audacia con cui aveva seritto i
5
hi
132 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
suoi annali, lo fece accusare di lesa maestà. Dopo esserti
alteramente difeso davanti al Senato, si tolse la vita
con la fame per sottrarsi a una sicura condanna. La fi
glia, che aveva conservato in segreto le opere paterne,
fatte ardere dal Senato, ottenne da Caligola il permesso
di pubblicarle, dopo averne tolto la parti pericolose,
Marcia, madre di due figlie e di due figli, si vide rapire
dalla morte questi ultimi : le riuscì particolarmente do-
lorosa la perdita del secondo, Metilio. Per darle conforto,
Seneca scrisse una consolatio, che certamente è posteriore
all'avvento al trono di Caligola, ma la data precisa resta
incerta. Generalmente si pone tra il 37 e il 41 d. C.,
ma alcuni studiosi la collocano nel 49 o nel 50. Può
darsi che la menzione di Fabiano accenni a lui come
fonte, ma è possibile che abbia attinto anche ai conforti
dati da Ario Didimo a Livia. Abitualmente si pensa a
rapporti con la Consolatio di Cicerone e ai passi delle
sue Tusculane che si riferiscono ad argomenti simili. ;
Nel 42 o nel 43 Seneca scrisse la Consolatio ad Hel-,
viam per confortare la madre, rimasta vedova, del
dolore che le aveva arrecato l’esilio suo in Corsica,
Egli, che non soffre nulla per cui possa essere chiamato
infelice e non può diventarlo, perchè quelli che abitual.
mente si chiamano mali (lontananza dalla patria, po-
vertà....) non sono tali, esorta la. madre a darsi agli
studi liberali, il solo rifugio che si apre a coloro che fug-
gono i colpi della fortuna. Seneca chiude questo scritto
assicurando la madre che è lieto e alacre, come chi si
trovi nelle condizioni più fortunate ; ed effettivamente
è in tale situazione perchè l’anima sua, libera da ogni
occupazione, attende agli uffici propri e ora si allieta
con studi più leggeri, ora si eleva a considerare la natura
propria e quella dell'universo, finchè sale alle somme
altezze e contempla lo spettacolo delle cose divine :
e, memore della propria eternità, percorre tutto il pas-
sato e tutto il futuro. Come fonti, Seneca accenna
Varrone e a M. Bruto.
Però l’esilio divenne tanto grave che prima del 44
scrisse una Consolatio ad Polybium (di cui si è perduto il
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 133
principio), apparentemente per confortarlo per la morte
di un fratello, ma effettivamente per ottenere la revoca
della condanna : e per raggiungere lo scopo, esaltò con
adulazioni indecorose il destinatario e l’imperatore,
senza però che la grazia gli fosse concessa.
Probabilmente fa parte delle più antiche opere di
Seneca anche il De ira (composto, a quanto sembra,
sotto Caligola, ma pubblicato poco dopo la morte di
questo). L'opera in tre libri, mutila all’inizio del primo,
è dedicata al fratello Novato (Gallione) che gli aveva
chiesto di indicargli come sia possibile calmare l'ira.
Tale passione era stata spesso trattata dai filosofi greci,
ma non dai romani. Seneca, nel libro I, per mostrare
che chi ne è posseduto è in uno stato di pazzia, ne de-
serive le manifestazioni esterne, odiose e deformi,
ne indica gli effetti funesti, ne dà una definizione (che
nel testo manca, ma doveva essere quella tramandata da
Lattanzio nel De ira Dei (ira est incitatio animi ad no-
cendum ei qui nocuit aut nocere voluit), mette in luce che
appartiene soltanto all'uomo, la distingue dall’iracondia,
critica a lungo la $tbria peripatetica la quale afferma
che l'ira deve esserè non estirpata, ma moderata, perchè
è data dalla natura ed è utile, e mostra che produce
sempre effetti funesti, per concludere, dichiara che essa
non è mai nè grande, nè nobile; che, al pari delle altre
passioni, è miserabile a bassa. Nel libro II comincia
coll’affermare che lira non nasce entro di noi involon-
tiuriamente (insedis nobis), ma dipende dal concorso della
volontà, cioè dal consenso dell'anima e perciò può es-
sere vinta dalla ragione; poi, dopo avere criticato gli
argomenti che sono stati portati per difendere quella
passione, passa a trattare sui suoi rimedi. L'educazione
si può usare per i fanciulli ; negli adulti, occorre com-
battere da prima la causa fondamentale dell’ira, e sic-
come essa risiede nell’opinione che altri ha voluto re-
carci ingiuria, non bisogna prestarle fede facilmente.
Nel libro III Seneca ricerca come l’ira possa essere
sradicata o almeno frenata. Egli eritica di nuovo la teoria
peripatetica (che attribuisce ad Aristotele) che non
134 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
vuole estirparla dall'anima; poi ricerca come sia pos-
sibile non cadere in essa o liberarcene se ci ha
vinto, infine, come possiamo calmare e ridurre alla
ragione un uomo irato. In ultimo osserva che l’aiuto
migliore è il pensiero della nostra mortalità. Non
abbiamo tempo da perdere: cerchiamo di rendere
questa nostra breve vita placida (pacifica) per noi e
per gli altri, di far sì che altri ci ami in vita e ci desideri
dopo la morte. Finchè restiamo fra gli uomini, eserci-
tiamo l'umanità, non siamo causa di pericolo o di ti-
more per alcuno.
È chiaro che quest'opera non segue un piano orga-
nico e unitario ed è priva di ordine e di coerenza. Sic-
come il libro III è difettoso, soprattutto perchè ritorna
su argomenti studiati precedentemente, alcuni l’hanno
considerato un trattato a sè, o come una redazione di-
versa del II, che forse lo stesso autore o altri avrebbe_
aggiunto ai precedenti; ma anche i libri precedenti sono
difettosi e la mancanza d’ordine e di nesso si incontra
pure in altri scritti di Seneca, sebbene in misura minore
sicchè non è necessario ricorrere a quelle ipotesi. È na-
turale che difetti simili appaiano più accentuati in uno
dei prîmi scritti di questo autore. In ogni modo è note-
vole la conelusione, in cui si rivela uno dei motivi domi.
nanti del suo pensiero, cioè la convinzione che la con-
sapevolezza della brevità della nostra vita deve ren-
derei miti e umani verso tutti. Quanto alle fonti, si è
molto disensso. I nomi che si presentano abitualmente |,
sono quelli di Crisippo, Posidonio e Sozione e alcuni /
parlano anche di Antioco e vi è chi ritiene la questione
insolubile. I
Il De brevitate vitae, che probabilmente è stato com-
posto nel 49 dopo il ritorno dall’esilio in Corsica, è de-
dicato a un Paolino, prefetto dell’annona, che secondo
alcuni sarebbe stato il padre di quella Pomponia Pao-
lina che poi Seneca doveva sposare. Il tema principale -
dello scritto è la tesi (che contrasta coi lamenti sulla
limitazione della esistenza umana che è un motivo fon-
damentale delle Consolationes) che a torto gli uomini
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
si lagnano della brevità della loro vita, perchè sono
essi che la rendono tale sciupandola con una prodiga-
lità insensata in occupazioni vuote e inutili (nelle quali
Seneca inelude le ricerche di erudizione) e nel com-
piacere alle loro passioni e ai loro vizi. La vita è abba-
stanza lunga se è consacrata allo studio della sapienza
(che è essenzialmente la filosofia morale); vivono dav-
vero coloro che si dedicano a questa, che non soltanto
occupano bene la loro esistenza, ma aggiungono ad essa
tutti i secoli passati. In loro dobbiamo vedere le guide
della nostra vita; tutti ci insegnano a morire, I grandi
filosofi ci aprono la strada dell'eternità dalla quale nes-
suno è precipitato : è questo l’unico modo di trasfor-
mare la nostra mortalità in immortalità. Quindi la vita
del sapiente è molto estesa, perchè egli solo è libero
dalle leggi del genere umano, in quanto tutti i secoli
gli sono sottoposti come a Dio: col pensiero, infatti,
domina il presente, il passato e il futuro. Seneca con-
clude lo seritto esortando Paolino a rinunciare alla
vita pubblica per consacrare le sue attività agli studi
filosofici : ricerchi quale sia la natura della Divinità,
quale la sorte dell'anima dopo la morte, quale la strut-
tura dell’universo. Però se certi concetti principali si
possono facilmente indicare, è difficile analizzare par-
ticolarmente l’opera, perchè contiene digressioni che la
rendono priva di coerenza.
Il De clementia, indirizzata a Nerone da poco impe-
ratore, deve essere stato seritto dal dicembre 55 al di-
cembre 56, se si sta alla lezione comune per cui si dice
che l’imperiale discepolo aveva oltrepassato il 18° anno ;
il Prèchac, invece, correggendo il testo, lo vuole com-
posto nel 54-55. Il sommario divide la trattazione in
tre parti: generalmente si ritiene che si possegga sol-
tanto la prima (I libro) e l’inizio della seconda (II libro),
sicchè mancherebbero la parte maggiore del II e la tota-
lità del III. Il Préchac invece erede che possediamo
l’opera completa, in un libro solo, perchè corregge a
suo modo il testo (corrotto) che indica la 1% parte e pone
tutto il I libro, a partire dal sommario, dopo ciò che
136 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
possediamo del II; ma questa audacissima trasposi-
zione non soddisfa, se non altro perchè non corrisponde
alle indicazioni del sommario stesso. Secondo l’interpre-
tazione abituale, la 1% parte introduttiva tratta in
generale della clemenza e mostra che è in modo par-
ticolare doverosa e utile per il sovrano ; la 2% doveva
definirla e indicare quali, siano i caratteri che la distin-
guono dai vizi che la imitano ; nella 38 si ricercava come
l’anima possa essere portata a quella virtù, come la
rafforziamo e come con l’uso essa diventi nostra. Della
2a parte rimangono la definizione della clemenza che è
contrapposta alla crudeltà, e la distinzione della prima
dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono).
Sorprendono le lodi illimitate della clemenza di Nerone,
che poco prima aveva fatto uccidere Britannico, ma
può darsi che così Seneca volesse costringerlo a frenare
le tenderize brutali che cominciava a manifestare e
obbligarlo a non contraddire le dichiarazioni che aveva
fatto all’inizio del suo principato. È presumibile che
l'opera abbia usato fonti greche, soprattutto stoiche,
ma non è possibile determinarle esattamente. Il De
clementia, nella letteratura francese, ha ispirato al Mon-
taigne pagine interessanti, al Corneille il Cinna, a Ra-
cine versi eloquenti del Britannicus nella parte di Burro,
Ml De constantia sapientis è dedicato a Anneo Se-
reno (che successe a Tigellino come praefectus vigilum),
morto prima di Seneca; probabilmente è stato seritto
all’inizio dell'ascesa al trono di Nerone, ma qualcuno
lo ha collocato dopo la condanna di Suillio. Vuole di-
mostrare il paradosso stoico che il sapiente non può
ricevere nè ingiuria (injuria) nè offesa’ (contumelia).
Seneca osserva che egli è impenetrabile ai colpi della
prima e che effettivamente essa non può raggiungere
il suo scopo di fare del male, perchè la sapienza non
lascia posto a questo : chi la possiede si contenta della
virtù che non gli può essere tolta dalla fortuna e per
conseguenza non può ricevere ingiuria. Quanto all’of-
fesa, implica disprezzo: ma non possiamo disprezzare,
chi ci è superiore : come i genitori non sono offesi dalla
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 137
condotta dei loro bambini che non possono disprezzarli,
così si comporta il sapiente con tutti gli uomini che,
anche se canuti, permangono bambini.
Si può collocare nel 58 il De beata vita (mutilo nel-
l’ultima parte), perchè la discussione della critica rivolta
ai filosofi di non conformare la vita alle teorie sostenute,
: fa supporre che Seneca l’abbia composto per difendersi
dalle accuse di Suillio. L'autore da prima osserva che
tutti desiderano vivere felicemente, ma che è difficile
raggiungere questo scopo: occorre non seguire come .
pecore il gregge della massa dél volgo che preferisce .
credere a giudicare e conduce nell’errore, ma rivolgersi
alla ragione. Seneea da prima determina che cosa sia
la vita felice; in ciò egli segue il parere degli stoici,
per i quali è tale quella che si accorda con la natura.
Del resto, il bene può definirsi anche diversamente :,
in ogni modo, occorre farlo consistere nella virtù che
si fonda sull’esercizio della ragione ed è necessario da
prima distinguerlo dalla voluttà colla quale è incom-
patibile. Perciò Seneca critica largamente l’Epicureismo
che collega inseparabilmente termini inconciliabili e,
pur ammirando la vita e i precetti del suo fondatore,
ritiene che con le sue teorie abbia offerto una giustifi-
cazione ai viziosi. E non si può nemmeno dire (e così
si passa alla critica delle dottrine di Antioco di Asca-
lona) che virtù e voluttà insieme costituiscano il sommo
bene, perchè chi le collega toglie alla prima ogni solida
base, pone l’uomo nella più grave delle servitù, quella
della fortuna, Però, se la virtù è il fondamento della
vera felicità, perchè basta a far sì che la vita sia felice,
chi tende verso di essa dipende ancora in qualche mi-
sura dai favori della fortuna. Non vi è quindi ragione
di rimproverare ai filosofi perchè non uniformano la
vita ai precetti, valendosi di accuse che si sono rivolte
ai maggiori (Socrate, Platone, Aristotele), i quali dice-
vano non come essi vivevano, ma come avrebbero do-
vuto vivere, e di rinfacciare loro che trascorrevano l’esi-
stenza nel lusso e nelle ricchezze. Invece di disprezzare
gli uomini che tentano ascensioni ardue se non raggiun-
JE
i
ù
138 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
gono la cima, occorre ammirarne la difficile impresa
anche se non condotta a termine. D'altra parte, non è
necessario che il sapiente faccia getto dei beni esterni
offerti dalla fortuna, come le ricchezze, basta che non
se ne renda schiavo. Egli non le ama, ma le ritiene cose
preferibili alle opposte (così Seneca si vale della teoria
stoica che fra le cose indifferenti alcune sono da pre-
ferire, altre da respingere); basta che le acquisti one-
stamente, che se ne serva bene e in modo generoso, e
che non si lamenti quando lo abbandonano. Le rie-
chezze servono al sapiente, comandano allo stolto.
Il De otio (che in un certo senso si collega al De vita
beata, nella parte in cui questo seritto ricorda il ritiro
dalle cose pubbliche), mutilo all’inizio e alla fine, pro-
babilmente è stato scritto dopo il 62, cioè quando l’au-
tore si era ritirato dalla vita politica; infatti cerca di
difendersi dall’accusa di disertare la causa dello stoi-
cismo cui aderiva. Egli ricorda che, secondo Zenone,
il sapiente si occuperà delle cose pubbliche, se qualche
causa non lo vieta, ma questa causa ha estensione molto
ampia, perchè include i casi in cui lo stato è troppo
corrotto perchè sia possibile soccorrerlo e quelli in cui
la salvezza del sapiente costituisce un ostacolo all’opera
sua. Chi non può giovare ad altri (a molti, e se non
altro a pochi) deve cercare di essere utile a se stesso,
perchè così prepara del bene ad altri. Seneca cerca di
provare due tesi: 1° che aleuno può, sino dalla prima
età, darsi completamente alla contemplazione della ve-
rità, cereare una norma di vita e tradurla in pratica,
nella esistenza privata; 2° che alcuno può fare ciò col
maggiore diritto quando è già avanti negli anni e ha
lungamente servito la cosa pubblica. Ma effettivamente
ciò che resta del trattato ha per oggetto di mostrare
in generale che è lecito consacrare le proprie attività
alla contemplazione. Se consideriamo quel grande stato
(res publica) che include gli Dei e gli uomini, vediamo
che possiamo servirlo soprattutto nel riposo, meditando
sui grandi problemi che riguardano Dio, la natura, la
condotta umana, Così serviamo Dio, in quanto facciamo
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 139
sì che le sue grandi opere non restino prive di testimoni
Del resto, si dice che il sommo bene consiste nel vivere
secondo la natura ; ora questa ci ha generati sia per la
contemplazione che per l’azione : infatti un impulso na-
turale spinge gli uomini alla ricerca. La natura stessa
ci porta allo studio dell'universo, per il quale è troppo
breve l’intera vita umana ; quindi l’uomo vive secondo
la natura, se si dà completamente ad essa. Ma in tal
modo egli non soltanto contempla, ma anche agisce,
perchè la speculazione deve tradursi nell’azione. Se poi
il sapiente non ha modo di comportarsi così, può, anche
restando solo con se stesso, agire in maniera tale da
essere utile alla posterità. I grandi filosofi stoici hanno
compiuto cose maggiori dei capitani e dei legislatori,
perchè hanno operato per tutto il genere umano, pre-
sente e futuro. Del resto, se, come la realtà mostra,
non si trova stato alcuno che il sapiente possa soppor-
tare 0 che possa sopportarlo, se non se ne trova uno
uguale a quello che ci immaginiamo, il riposo appare
una necessità per tutti, perchè non esiste l’unica cosa
che gli poteva essere preferita.
Il De tranquillitate animi, dedicato a Sereno, che
si può ritenere scritto nel 62 o nel 63, non molto dopo
il De otio, ha una singolare introduzione, in cui Seneca,
parlando a se stesso, riconosce che l’esame della sua
anima gli mostra che inelude vizi di cui non sa libe-
rarsi, pure non essendone schiavo, sicchè si trova nello
stato penoso di chi non è nè sano nè malato ; così non
tende fortemente nè verso ciò che è retto, nè verso l’op-
posto. A. questa dichiarazione segue una specie di esame
di coscienza, in cui Seneca indica le forze che lo spin-
gono in direzioni opposte, le tentazioni, si potrebbe dire,
che agiscono su di lui; egli prega Sereno di indicargli,
se lo conosce, qualche rimedio per quei suoi ondeggia-
menti. Desidererebbe di conseguire quella eòdupia di
cui ha trattato Democrito, cioè la tranquillità dell'anima
per cui essa è in accordo con se stessa: a questo stato
si oppone quello in cui l’anima dispiace a sè e perciò
sì agita e detesta il riposo ; si irrita contro la sorte, si
=
140 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
lamenta del secolo, si rincantuccia e si concentra nella
sua sofferenza, ha disgusto di sè. Per uscire da questo
stato cerca continuamente di mutare sedi, occupazioni.
Secondo Atenodoro il rimedio migliore sarebbe l’occu-
parsi degli uffici pubblici; ma per i vizi degli uomini,
la simplicitas è poco sicura e perciò occorre allontanar-
sene. Però, anche nella solitudine si può essere utili a
tutti, educando le anime alla virtù. Seneca pensa che
la cosa migliore è il mescolare il riposo all'attività, perchè
vi è sempre posto per un’azione virtuosa, anche nelle
condizioni politiche più infelici... se non altro nei rap-
porti privati; a seconda della situazione dello stato ‘e
di ciò che la fortuna permette, occorre ora esplicare
se stessi, ora rinchiudersi in sè, senza mai intorpidire
per timore. Quando si vive in una età difficile, bisogna
consacrare maggior tempo al riposo e agli studi. A que-
Ste considerazioni generali si aggiungono norme parti-
colari per conseguire la tranquillità dell'anima.
Il De providentia, al pari delle Naturales Quaestiones,
è dedicato all'amico Lucilio (che è pure il destinatario
delle Epistulae morales). Questo, nato nella Campania,
fu procuratore nelle Alpi Cozie, poi in Epiro, in Mace-
donia e in Africa e nel 63-64 in Sicilia. Scrittore e poeta,
forse fu l’autore del poemetto Aetna. Il De providentia
deve collocarsi fra le ultime opere di Seneca. Alcuni
lo ritengono anteriore alle lettere a Lucilio in cui è an-
nunciata una grande opera, moralis philosophiae libri,
che abitualmente si considera un lavoro a sè; ma sie-
come egli poteva designare così un gruppo di scritti
affini, contrapposti a quelli riguardanti la filosofia natu-
rale, di cui il De providentia farebbe parte, quella col-
locazione non è sicura. Lucilio gli aveva chiesto perchè,
se il mondo è guidato dalla Provvidenza, tanti mali
avvengono agli uomini buoni. Seneca rimanda ad un’altra
opera la dimostrazione della tesi che l'universo non
sottostà al caso e che la Provvidenza governa e dirige
ogni cosa ; che il corso della natura è governato da una
legge eterna: per mezzo di quel principio meglio si
potrà risolvere la difficoltà presentata, perchè da ciò
'
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 141
segue che le avversità che colpiscono i buoni debbono
provenire da quella Provvidenza. Per il momento, egli
afferma che Dio e l’uomo buono si assomigliano e dif-
feriscono soltanto per la durata della vita ; il primo è
un padre per il secondo, ma un padre severo, che educa
duramente, che pet mettere alla prova i buoni e per
renderli migliori, li sottopone ai colpi della ‘fortuna.
Anzi, lo spettacolo che merita lo sguardo della Divi-
nità si presenta quando l’uomo forte lotta con la for-
tuna avversa, soprattutto quando l’ha provocata. Del
resto (è questa la tesi che riceve più ampio svolgimento),
quelle che si chiamano avversità, cose abbominevoli,
riescono utili da prima a coloro che le soffrono, perchè
la sventura è un’occasione per la virtù (e questa affer-
mazione coincide con una precedente), e poi alla uni-
versalità degli uomini, di cui gli Dei più si curano che
dei singoli ; infatti, in questo modo appare che ciò che
il volgo appetisce, non è un bene, come non è un male
quello che esso teme. I buoni sopportano volontaria-
mente queste cose che avvengono per l’azione del fato
e per la stessa legge che li rende buoni. In fine, non
bisogna provare compassione per i buoni, che si possono
chiamare infelici, ma non possono essere tali. Anche
l’ultima tesi è trattata e perciò non si può ritenere,
come alcuno ha fatto, che l’opera non sia completa ;
però, come gli seritti di Seneca in generale, pecca nel-
l’ordine e nel nesso dei pensieri e ha una forte impronta
retorica. In questo scritto Seneca ricorda e riproduce
abbastanza a lungo dottrine del cinico Demetrio al
quale s’ispira.
Il De beneficiis, in sette libri, è dedicato a Ebuzio
Liberale che può identificarsi all'amico Liberale che in
una lettera a Lucilio si dice molto afflitto per l'incendio
della sua città, Lione, alla quale era assai affezionato,
sebbene vivesse a Roma. Sembra che fosse cavaliere e
molto ricco, e certamente possedeva cultura letteraria.
Il De beneficiis, senza dubbio posteriore alla morte di
Claudio, è generalmente posto nell’ultimo periodo della
vita di Seneca. I sette libri non furono composti in-
142 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
sieme : al principio del V si dice che nei quattro pre»
cedenti si è realizzato il piano dell’opera, sicchè i ll. V-
VI formano un gruppo nuovo e il 1. VII è chiaramente
un complemento, di modo che il problema cronologico
si complica. Sembra che l’opera si possa assegnare al
62-64, anche perchè, dopo la sua caduta, Seneca, venuto
in odio al suo antico discepolo che precedentemente lo
aveva colmato di doni e di favori, doveva ritenere che
effettivamente il vero beneficato era stato l’imperatore
che ora gli si mostrava ingrato e perciò non poteva
non interessarsi personalmente ai problemi discussi in
quello scritto ; però è molto dubbio che questo includa
numerose allusioni ostili a Nerone come alcuno ha sup-
posto. Nel l. I Seneca comincia con l’osservare che
nessun vizio è più frequente dell’ingratitudine, della
quale, però, sono spesso causa coloro che beneficano
per il modo in cui si comportano ; ma essa non deve
distogliere dalla beneficenza, che Seneca fa consistere
nell’intenzione benevola di arrecare gioia con un'azione
o con un dono. Poi ricerca quali benefici si debbano
impartire, a quali persone e in qual modo: l’ultimo
punto è trattato nel l. II, in cui si parla del modo di
ricevere i benefici, della intenzione ingrata, delle cause
della ingratitudine e si definisce la riconoscenza. Il
1. III definita l’ingratitudine ed esaminati i suoi aspetti,
discute diversi problemi, tra i quali è interessante la
questione se uno schiavo possa beneficare il padrone ;
Seneca la risolve affermativamente, portando numerosi
esempi di azioni generose compiute da schiavi. Il 1. IV
ricerca se beneficare e dimostrare gratitudine sono cose
desiderabili per sè e risponde in modo affermativo, dopo
avere criticato la loro giustificazione utilitaristica e trat-
tato ampiamente dei benefici che gli Dei concedono
agli uomini e del concetto della Divinità. Poi si chiede
se l’uomo buono debba beneficare anche l’ingrato che
conosce come tale e nello stesso modo che all’inizio del
1. I, risponde di sì per ciò che riguarda chi è inclinato
per natura all’ingratitudine. I tre libri successivi, di-
stinti dai precedenti, trattano problemi particolari e in
DA AUGUSTO AI NEO-PLATONISMO 143
complesso costituiseono una casistica dell'argomento.
Il VIT; che spesso riprende in esame questioni studiate
precedehtemente, finisce insegnando come ci si deve
comportàre con gli ingrati, L'organizzazione della ma-
teria è difettosa, perchè abbondano le digressioni e
manca un nesso unitario ; negli ultimi libri la casistica
conduce a sottigliezze, ma l’opera contiene acute osser-
vazioni della vita. È certa una lacuna (prima di VII,
13). Aleuni né ammettono altre tre (alla fine di I, 9, 1;
di I, 9, 2; di III, 18, 1), ma il Préchac nega almeno
la prima e la terza. Fonti principali sono Panezio e so-
prattutto Ecatone; inoltre, al principio del 1. VII, si
ricordano il cinieo Demetrio (che è molto lodato) e Bione.
Seneca mette di suo aneddoti di storia romana e digres-
sioni filosofiche che riguardano specialmente argomenti
politici, sociali e religiosi : la parte più originale riguarda
gli schiavi e la loro difesa. A
Le Naturales Quaestiones constano ora di sette libri,
ma dovevano contenerne otto, perchè occorre dividere
il IV in due, sicchè il titolo era presumibilmente Natu-
ralium Quaestionum libri VIII. Quest'opera, dedicata
a Lueilio, è”senza dubbio una delle ultime di Seneca
(62-63 o 62-64), cioè è stata composta insieme al De pro-
videntia (probabilmente), al De beneficiis e a molte delle
Epistulae ad°Lucilium, e forse ad altri scritti ancora.
Questairapidità”si spiega in parte ricordando che Se-
neca si era occupato fin dalla giovinezza di problemi
naturalistici. I diversi libri devono essere stati composti
e inviati a Lucilio separatamente e soltanto più tardi
raccolti insieme, ma è probabile che la successione ero-
nologica differisse dall'ordinamento attuale (IVb - VII ;
I-IV a). L’opera presenta una grave lacuna perchè
manca la fine del 1. IVa e il principio del 1. IV db. Il
1. I comincia col distinguere la filosofia morale da quella
della natura che viene esaltata : poi Seneca passa bru-
scamente a trattare dell'oggetto del libro, costituito
effettivamente dalle meteore luminose (i fuochi e le
luci che esistono nell’aria) e soprattutto dall’arcobaleno
e dall’alone. Il 1. IT si apre con la tripartizione della
144 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
scienza della natura in Astronomia, Meteorologia «
grafia, secondo che considera la regione celeste, quella
che sta fra il cielo e la terra o la terra ; poi studia i ful-
mini e i tuoni. Nel 1. III Seneca si duole di avére preso
a trattare nella vecchiaia un argomento tarto vasto,
al quale vuole consacrare tutto il tempo/che potrà.
Dopo essersi lagnato degli scrittori che si occupano delle
storie di Filippo, di Alessandro, di Annibale, invece di
insegnare agli uomini a vivere bene, parla delle acque
terrestri e infine rappresenta il diluvio universale e la
fine dell'umanità. Il 1. IV da prima esorta Lucilio a
guardarsi dalle adulazioni, poi tratta delle inondazioni
.del Nilo; ma questa parte è mutila, La lacuna involge
gran parte del 1, IV b (che aveva per oggetto le nubi),
di cui restano soltanto gli ultimi capitoli, che consi-
derano la grandine e la neve. Il 1. V muove dalla defi-
nizione del vento e studia gli argomenti che si collegano
ad esso. Il 1. VI ha per oggetto i terremoti. Nella prefa-
zione Seneca ricorda quello che aveva devastato Pompei
nel 63 e il terrore che ne era derivato e cerca di libe-
rare gli uomini da esso. Dopo avere cercato la spiega-
zione del fenomeno, si sforza di indurre gli spiriti a vin-
cere il timore della morte. Il 1. VII considera le comete.
È chiaro che non è attuato il piano indicato al. prin»
cipio del l. II, di studiare tutto l'universo fisico ; e ciò
ha fatto pensare che si ha da fare non con una tratta-
zione sintetica, ma con monografie particolari, indipen-
denti l'una dall’altra: si è supposto da qualcuno che
il piano indicato mostra che l’autore ha in un certo mo-
mento concepito, ma non attuato, il progetto di riela-
borare ed ampliare l’opera sua. I ll. I-IVa sono pre-
ceduti da prefazioni generali abbastanza collegate tra
loro, ma non coi libri stessi. L’autore usa sia la tratta-
zione sistematica, sia l'esposizione delle opinioni altrui,
ma in modo diverso nei vari libri : talvolta, come nel II,
i due procedimenti si alternano, nel VI e VII predo-
mina la dossografia, nel III e V l’esposizione delle teorie
accettate. Seneca non si limita a descrivere i fenomeni
naturali, ma cerea di scoprirne le cause; però troppo
e DA AUGUSTO ATL NEO-PLATONISMO
spess nella descrizione accetta senza discriminazione
le affermazioni degli autori che segue anche se inesatte
e presenta come spiegazione le opinioni altrui che pre-
ferisce, dopo avere discusso le diverse ipotesi con pro-
cedimentì essenzialmente dialettici ; ma le sue finalità
sono quellè di un moralista che coglie tutte le occasioni
per dare atmaestramenti e si vale dei mezzi che gli
offre la retorica, sicchè le Naturales Quaestiones si avvi-
cinano alle altre opere dell’autore e differiscono pro-
fondamente dai veri trattati scientifici. Siccome l’opera,
quale noi la possediamo, non ha carattere unitario, si
è cercato di ricostruirla, giungendo a risultati svaria-
tissimi e non si è in aleun modo raggiunto lo scopo.
Effettivamente, essa, per la sua natura moralistica e
retorica, è, al pari degli altri scritti di Seneca, e anche
più di essi, in generale, priva di organicità e ricca di
digressioni che turbano “lo sviluppo degli argomenti.
Egli cita molti autori, ma di solito deve ricordarli di
seconda mano. La fonte principale dell’opera è senza
dubbio Posidonio ; si ritiene che Seneca si sia servito di
Aselepiadoto quando se ne allontana, ma ciò è stato
messo in dubbio. Si è anche pensato alle guar v dbÉat
di Teofrasto ; sono state poco sfruttate le fonti scien-
tifiche latine. Le Naturales Quaestiones hanno eserci-
tato una forte azione sulla Farsaglia di Lucano. Plinio
però si è servito come fonte degli studi naturalistici
speciali di Seneca, non dell’opera generale. Passata una
lunga eclissi, la Scolastica, dopo il XII secolo, le ha
concesso una immensa autorità; Ruggero Bacone spe-
cialmente l’ha citata con molta ampiezza.
Le Epistulae Morales ad Lucilium (144), ora divise
in 20 libri, appartengono all'ultima età di Seneca (60
o 63 al 65 o 63-64). I primi tre libri si possono raggrup-
pare insieme : il I presenta diverse regole per la vita,
il II insiste sulla tesi che l’unica guida alla felicità è
la filosofia e insegna a non allontanarsi da essa per cose
senza valore, il III, come sia facile superare ostacoli
di tal genere. Debbono essere stati pubblicati insieme ;
ma è dubbio che ciò sia avvenuto per i libri seguenti,
"E
ee i condi Led
146 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
e che l’autore volesse raggrupparli in altre uni
certo che Seneca destinava quelle lettere alla
cazione e che, pure indirizzandole a Lucilio,
geva al pubblico; ma si è esagerato parandy di una
corrispondenza artificiale e di pseudo-lettere/ Sembra
però verosimile che, raccogliendo le lettere ifsieme, se-
condo l’ordine cronologico, l’autore vi abbia inserito
trattazioni morali, che diventano più numerose negli
ultimi libri, alle quali ha dato la forma epistolare. Queste
lettere hanno per oggetto la morale pratica e vorreh-
bero guidare alla felicità, ma offrono l’aspetto non di
una trattazione sistematica, bensì di una serie di saggi.
La corrispondenza, che è l’opera più importante di Se-
neca, mentre raccoglie i frutti di una lunga esperienza
della vita, tratta argomenti svariati, richiama e discute
teorie filosofiche precedenti, specialmente morali, occu-
pandosi in modo particolare dei diversi indirizzi dello
stoicismo. Se l’eccesso della predicazione morale e tal-
volta l’abuso di sottigliezze alla lunga stancano il lettore,
l’opera sviluppa molti pensieri elevati, e spesso audaci,
come il dovere dell'amore verso tutti gli nomini, la
dura condanna del trattamento inumano degli schiavi
e dei gladiatori, l'uguaglianza dei sessi e l'obbligo della
fedeltà coniugale, l'amore della natura. Modello per la’
forma sono le lettere di Epicuro e dei suoi SUCCEsSOTÌ ;
pensieri del primo sono spesso citati e svolti nelle 31 let-
tere che aprono la corrispondenza, poi Seneca lo ricorda
assai più raramente e pare attinga molto a Posidonio.
Un forte influsso ha esercitato su quest’opera l’inse-
gnamento orale di Attalo e del cinico Demetrio, e si
è parlato anche dell’influsso di Antioco, ma nell'insieme
essa costituisce un’interpretazione dello Stoicismo, so-
prattutto di quello posidoniano.
L’antichità pagana, se si interessò dell’opera lette-
raria di Seneca per lodarla o per criticarla, poco si
ocenpò del suo pensiero, che invece attirò le simpatie
di serittori cristiani, che lo sentirono, almeno in parte,
affine al proprio : così Tertulliano e Lattanzio lo cita-
rono con lode. Soprattutto furono attirati a lui dalla
er" p e TREO PRO
\ DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 147
apochifa corrispondenza con S. Paolo, che lo presentava
come ‘un cristiano. Così egli venne chiamato il « vene-
rabile Seneca » e fu da S. Girolamo, che lo citò larga-
mente, posto fra i santi, La miglior prova dell’influsso
esercitato\da lui in tutto il Medio Evo è offerta dalle
rielaborazioni, dai florilegi e dagli estratti delle sue opere
che si fecero in quel periodo. I suoi scritti, spesso rico-
piati, molto letti e studiati, erano inclusi nei cataloghi
di quasi tutte le biblioteche dell’età scolastica, alla quale
apparve uno dei più insigni rappresentanti della filosofia
morale (Seneca morale, lo chiama Dante). Nel Rinasci-
mento, Giusto Lipsio si ispirò principalmente al suo
pensiero quando iniziò un ritorno alle dottrine stoiche ;
ma in complesso la sua fama di moralista si oscurò,
mentre si affermò la sua azione sulla formazione della
tragedia classicheggiante italiana e sullo sviluppo di
quella francese che col Corneille e col Racine lo prese
a modello. Nella penisola iberica influì sul Cervantes
e sul Camoens ed esercitò un’azione anche in Inghil-
terra. Nel campo delle ricerche filologiche si interessa-
rono delle opere sue studiosi come Erasmo, che ne curò
un'edizione, Giusto Lipsio, R. Bentley. Il suo pensiero,
invece, non suscitò molto interesse. In Francia, ebbe
simpatie per lui nel ’700 il Diderot : in Germania (ove
in complesso non suscitò molto favore), nello stesso
secolo il Goethe e il Lessing si appropriarono aleuni
suoi concetti e nel XIX lo Schopenhauer lo studiò in-
tensamente. Però il suo pensiero non è apprezzato come
meriterebbe.
La filosofia di Seneca (e la stessa cosa si deve ripe-
tere per Marco Aurelio), anche più di quella di altri
pensatori di quell’età, produce l'impressione di essere
rivolta allo scopo di risolvere il problema della vita nel-
l'aspetto che assumeva agli occhi del suo costruttore
e di giustificare aleune credenze accettate sino dall'inizio
senza discussione. Si tratta di presupposti che, conside-
rati con criteri esclusivamente teoretici, possono appa-
rire poco coerenti, mentre si fondono in uno stato d’animo
complessivo di cui sono i momenti. A Seneca la vita si
TA E E OT LETO
presenta, nell’insieme, sotto gli aspetti che avevé as-
sunto nell’età ellenistico-romana, quelli che avevafio of-
. ferto alla letteratura consolatoria alcuni dei sudi temi
preferiti. I beni umani sono pieni di fragilità, ogni cosa» _
è incerta perchè su tutte domina, dura, mutevole, ine-
sorabile, la fortuna che sconvolge ogni nostrò progetto.
L’uomo è un essere debole, che un nulla infrange ; tutta
la sua vita è una meschinità, un tormento, una causa
di pianto, sicchè l’unico rifugio in questo mare tempe-
stoso è il porto della morte. E questo pensiero è raf-
forzato dalla convinzione, dominante in quell'età, che
l’anima, che proviene dal cielo al quale deve risalire,
è prigioniera nella carne miserabile in cui è inclusa;
che costituisce per essa un peso e una pena, che la sua
vera vita è altrove, non in questa terra. Ma alla spe-
ranza in una immortalità beata e al desiderio di sot-
trarsi ai dolori di questa vita, si contrappone il terrore
della morte, che per Seneca deve essere stato una vera
ossessione, perchè continuamente ha cercato di liberar-
sene, valendosi di argomenti svariati; e la causa mag-
giore di tale ossessione probabilmente consisteva nel
timore dell’ignoto e delle tenebre del mondo infero.
Però, la visione delle incertezze e dei dolori della vita,
e la preoccupazione del mistero della morte si collegano
in Seneca (e lo stesso fatto è avvenuto altre volte in
seguito) coll’esigenza dell'amore universale per gli uo-
mini, tutti infelici e tutti mortali, che è forse l'aspetto
più significativo dell’opera sua, esigenza che ha cercato
poi di giustificare filosoficamente. Come prima di lui
Antifonte e come in seguito il Leopardi, talvolta Se-
neca fonda quell’esigenza con una motivazione utilita-
ristica. Lo scambio dei benefici (in cui si esprime l’amore)
è la cosa che costituisce il maggior vincolo della società
umana (De ben. I, 4, 1), la quale è la migliore e più
salda, anzi l’unica difesa contro i mali e i pericoli della
vita, contro i colpi della fortuna. Ma ciò non si accorda
con la convinzione costante di Seneca, che il bene si
deve compiere disinteressatamente, che la virtù spesso
consiste in sacrifici spontanei. Meglio corrisponde alle
DA AUGUSTO AI. NEO-PLATONISMO 149
sue donvinzioni intime l'affermazione (che riapparirà
nel Pascoli) che il pensiero della brevità della vita, della
imminenza della morte che ci rende tutti uguali, deve
estinguere i nostri odi, ispirarei mitezza, umanità, su-
scitare il desiderio di farci amare. Qui, la visione della
morte determina il concetto della essenziale uguaglianza
umana, che, come si vedrà, Seneca cerca di giustificare
filosoficamente. Forse, anche prima di costruire una
filosofia, egli aveva attinto alla religiosità contempo-
ranea quella intuizione di una-divinità personale, di cui
gli uomini sono figli, che male si accorda coi principi
speculativi da lui propugnati. Queste profonde esigenze
imprimono al pensiero di Seneca i caratteri più signifi-
cativi e ne fanno una teoria della purificazione e della
liberazione, dominata da finalità etico-religiose.
Per risolvere i problemi della fortuna, del dolore,
della morte, per giustificare la sua fiducia nell’immor-
talità dell'anima e in un Dio benefico e provvidente,
Seneca si rivolge alla filosofia stoica, che nella forma
che le aveva arrecato Posidonio, dava appagamento
alle esigenze della coscienza religiosa. Egli, però, non
si crede legato dall’ortodossia stoica e afferma il suo
diritto al libero esercizio del proprio pensiero, ma in
tal modo rende ancora più eclettica una filosofia che
con Posidonio aveva assimilato elementi di altre dot-
trine. Sotto l’influsso del Cinismo e specialmente di
Demetrio, la cui azione è fortissima sulle lettere a Lu-
cilio, Seneca accentua l’ufficio etico-pratieo della filo-
sofia e condanna sia le sottigliezze dialettiche di eni
si era compiaciuta la sua scuola, sia le critiche nega-
tive e distruttrici dell'’Eleatismo e dello Scetticismo, e
inoltre mostra di apprezzare poco le cosidette arti libe-
rali, gli studi storici, archeologici, letterari, cioè disci-
pline che Posidonio aveva coltivato con amore. Inoltre,
assai più degli altri stoici mostra di apprezzare Epi-
curo, di cui nelle Lettere ricorda, per accettarli, molti
pensieri. Qualche volta giunge a dire scetticamente :
Vi sono molte cose di cui ammettiamo l’esistenza, ma
ignoriamo la natura e fra queste è l’anima ; ma se essa
Pe LP
150 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
non è sicura intorno a se stessa, non può arrecare cer-
tezza sugli altri esseri.
Sull’oggetto della filosofia, le sue parti e il valore
di esse, Seneca, al pari della sua scuola, sì esprime in
modi diversi, senza indicare come sia possibile conci-
liare i suoi pensieri. Talvolta definisce la filosofia, 0
meglio la sapienza (che è la meta alla quale essa tende),
come la scienza delle cose divine e umane: nel suo
primo aspetto è contemplativa e mostra ciò che avviene
nel cielo o, in generale, studia tutto l'universo e con-
duce a teorie (decreta): nel secondo è attiva; insegna
ciò che si deve fare sulla terra e impartisce norme (prae-
cepta). Il secondo studio deve fondarsi sul primo. Tale
definizione coincide con l’altra : la filosofia è lo studio
della virtù, perchè con questa, nel senso più generale,
è designata appunto la sapienza. Così, però, è omessa
la parte razionale della filosofia, suddivisa in rettorica
e in dialettica o logica, che lo stesso Seneca ricorda in
seguito insieme con la fisica, che coincide con lo studio
delle cose divine o naturali, e con la morale che ha per
oggetto quelle umane. Talvolta, invece, Seneca fa coin-
cidere la filosofia con la morale, perchè la definisce la
scienza o l’arte della vita retta, l’arte o la legge della
vita. Con questa concezione si collega il primato che
qualche volta concede all'etica sulle altre parti della
filosofia. Lo scarso valore riconosciuto alla logica risulta
sia dal fatto che quasi Seneca non ne tratta, sia dalla
già ricordata condanna delle sottigliezze dialettiche.
Quanto alla fisica (filosofia della natura e teologia),
egli, che talvolta vede in essa uno svago, mostra Spesso,
anche lodandola, di apprezzarla soprattutto per la fun-
zione etica, o almeno spirituale che compie, in quanto
libera dai terrori suscitati dall’ignoranza delle cause dei
fenomeni naturali, ispira forza, fiducia e coraggio, fa
che l’uomo riconosca la propria piccolezza, mostran-
dogli la grandezza di Dio e della natura. Un’azione più
largamente spirituale esercita, insegnando a disprez-
zare il corpo e le meschinità di questa vita, sollevando
l’anima, indicando all'uomo la sua origine e la sua de-
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 151
stinazione celeste, rappresentandogli la grandezza e la
sublimità dell'universo. Del resto, lo Stoicismo, che pone
come norma etica suprema l’obbedienza alla legge razio-
nale della natura, deve considerare la conoscenza di
questa come il fondamento della morale, alla quale,
però, in generale, se non sempre, è subordinata come
mezzo e fine. Perciò Seneca può dire, mentre loda lo
studio della natura, che la filosofia deve insegnare ad
agire, e chiedere che tutto ciò che si apprende venga
riferito alla formazione morale : così nelle Questioni na-
turali interrompe spesso la trattazione scientifica con
considerazioni e con applicazioni di carattere etico. In
altri casi, invece, affermando che la natura ci ha desti-
nato sia all’azione che alla contemplazione, che è pure
un’attività, rivendica l'autonomia della conoscenza teo-
retica della realtà, ed effettivamente richiede che la
natura sia studiata per se stessa. Infine, nella prefa-
zione alle Questioni naturali, egli sostiene che la fisica
è tanto superiore alla morale, quanto il suo oggetto,
la Divinità, oltrepassa l’uomo e che non metterebbe
conto di vivere se non si potessero conoscere le cose
che essa studia. La virtù che la morale ci insegna a
conseguire, che consiste essenzialmente nella vittoria
sulle passioni, sui vizi, sul male, ha valore soltanto perchò
prepara l’anima a conoscere le cose celesti e la reride
degna di associarsi con la Divinità. Queste diverse tesi
si possono ridurre a una certa unità pensando che Se-
neca ritenesse il problema della fondazione etica del:
l’uomo il compito più immediatamente urgente della
filosofia, pur riconoscendo alla scienza della natura ‘e
della Divinità maggior valore intrinseco, siechè la fisica
è, in un primo momento, una preparazione all'etica,
mentre in seguito, per l’uomo purificato dalle tendenze
malvage, il rapporto s’inverte.
Per quel che riguarda le teorie metafisiche e teo-
logiche, Seneca, in complesso, non si allontana dalla
scuola stoica, di cui accetta il panteismo materialista,
Tutto ciò che agisce è un corpo, quindi è corporeo Dio,
sia perchè, come si vedrà, è la causa attiva per eccel-
STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
lenza, sia per ciò che da esso provengono le anime umane,
di cui è esplicitamente affermata la corporeità (al pari
del bene o virtù, delle virtù particolari, delle passioni
e dei vizi: altrimenti essi non potrebbero agire sul
corpo). Giove (che si apprende non con gli occhi, ma
soltanto col pensiero) è in un certo senso uguale alla
natura, al mondo, all'universo, in quanto è la totalità
delle cose visibili e invisibili che tutte ne provengono.
In un altro senso, però, si può dire che esistono due
principi nella natura, Dio e la materia; il primo è la
causa attiva, in quanto è lo spiritus, il fuoco intelligente
che opera sulla seconda che è passiva e dalla quale
produce tutte le cose. Ma anche la materia, al pari
degli esseri che ne provengono, che nel loro insieme
costituiscono il mondo, in ultimo deriva da Dio, sicchè
la differenza posta fra questo e quelli, è relativa. Dio,
che può chiamarsi Jupiter (Giove), in quanto distinto
dall’universo, è identico alla mente o anima puramente
razionale di questo, inclusa in esso e nelle sue parti, è
il fato o la necessità infrangibile di tutte le cose e di tutte
le azioni, in quanto è la prima causa da cwi dipende
tutto il nesso della serie causale in eni esso fato con-
siste. Può anche chiamarsi la fortuna ola Provvidenza
divina che provvede affinchè il mondo segua la sua via.
Per sua natura, la Divinità è benefica e non può nuo-
cere ; perciò l'universo, di cui è la custode e la mode-
ratrice, la signora e l’artefice, è perfettamente bello e
ordinato. Esso rivela in ogni cosa una struttura teleo-
logica che è prova della mente divina che lo regge. Tutto
nella natura segue le proprie leggi ed è errato preten-
dere che ogni cosa sia stata fatta per noi e giudicare
sempre col criterio dei nostri vantaggi, invece di ammi.
rare la maestà della natura ; però la Divinità ha mirato
anche, anzi soprattutto, al bene dell’uomo, che spesso,
con la sua stoltezza e malvagità, ha rivolto a proprio
danno quei benefici. Se così sono riprese le tesi tradi-
zionali del panteismo stoico, il posto centrale assegnato
alla bontà di Dio offre lo spunto di una concezione
personale di lui opposta alla precedente e affine a quella
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 153
della coscienza religiosa contemporanea, che trova svi-
luppo quando Seneca afferma che fra Dio e l’uomo buono .
esiste, più che amicizia, parentela e somiglianza, che il
secondo è discepolo e figlio del primo (De prov., 1, 5 sg.).
Dio è il nostro padre (De ben., II, 29, 4), perciò deve
essere amato, non temuto (ivi, IV, 19, 1): agli Dei si
dovrebbe tributare un culto disinteressato ; per propi-
ziarseli occorre soltanto essere buoni, perchè così si
imitano (Ep., 95, 50). Seneca segue invece completa-
mente il panteismo stoico, affermando che tutti gli es-
seri provengono periodicamente dal fuoco divino o Giove,
e ritornano ad esso con una conflagrazione universale
e che poi si forma un nuovo universo completamente
simile al precedente di cui deve dividere la sorte.
Egli si interessa particolarmente dell’uomo e soprat-
tutto della sua anima in cui vede uno spiritus o un
pneuma. Allontanandosi dall’ortodossia stoica, e avvi-
cinandosi a Posidonio e a Platone, distingue in essa
una parte razionale e una irrazionale (che è collegata
col corpo e deve subordinarsi alla prima), che suddivide
in passionale o coraggiosa e in desiderativa dei piaceri,
ma concilia questa tesi con quella della sua scuola col.
locando tutte quelle parti nell’ yepovix6v. In tal modo
egli ritiene di poter dar ragione delle debolezze e dei
vizi che presentano in ogni tempo gli uomini, salvo in
brevi periodi di innocenza che seguono la formazione
di un nuovo universo, Questo dualismo si ripresenta
e si accentua nella contrapposizione dell'anima 0 meglio
della sua parte razionale, e del corpo (detto, con espres-
sione sdegnosa, carne), che è un velame, un peso ne-
cessario, una punizione, un vincolo, un carcere per la
prima che deve lottare con esso perchè spinge al vizio
ed è causa di molti mali. A eiò si uniscono la svaluta-
zione e la condanna della vita terrena e l'aspirazione a
una superiore che avrà inizio per l’anima liberata dal
corpo, il giorno (che seguirà il giudizio che verrà dato
di tutta la vità di ciascuno: Ep., 26, 4) in cui nascerà
all’immortalità (dies ista... aeterni natalis est : Ep., 102,
26). Di tale esistenza celeste, migliore di questa, Seneca
154 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
esalta l’eterna pace, la libertà dalle passioni, la felicità.
. Allora l’anima, giunta dalle tenebre alla luce, potrà
godere della visione dell’universo e penetrare nei segreti
della natura. Così Seneca, mentre si collega alla cor-
rente orfico-pitagorico-platonica, mediata da Posidonio,
rispecchia le convinzioni della religiosità ascetico-mi-
stica dell’età sua e in tal modo si avvicina a certi inse-
gnamenti del Cristianesimo. Alcune espressioni, come
immortalis, aeternus, è l’affermazione che le anime ritor-
neranno alla loro patria originaria, al cielo, dal quale
sono discese in terra, non debbono però far pensare che
egli ammettesse una immortalità illimitata nel passato
e nel futuro, perchè non si allontanava dalla sua scuola,
la quale accettava soltanto, con Crisippo, che le anime
dei sapienti sarebbero sopravvissute alla morte fino alla
conflagrazione universale per risolversi allora nella ra-
gione divina. La discesa dal cielo e il ritorno ad esso
ricevono il loro significato dalla tesi che le anime razio-
nali sono parti di quella ragione dalla quale proven-
gono, sono Dio che abita nell'uomo e perciò sono affini
a Lui. Egli discende negli uomini, è presente ai loro
pensieri e nessuna mente è buona senza di Lui. Non
si tratta dunque di una immortalità personale illimitata,
ma di una concezione panteistica che la esclude. (Tal-
volta, però, dicendo che l’anima, se non è pura e santa,
non può ricevere Dio, stabilisce una distinzione fra
essi). Del resto, anche questa, più che immortalità, per-
sistenza dell'anima, è per Seneca piuttosto l'oggetto di
una credenza che di una certezza razionale, tanto è
vero che ne parla come di un bellum sommnium e dice
che vuole, più che fare ricerche sulla eternità delle anime,
eredere in essa. (Non hanno questo significato i testi
in cui ammette, per provare che non si deve temere la
morte, che con questa tutto finisce). |
Nella morale, di cui soprattutto si interessa, Seneca
si sforza di attenersi ai principi direttori della sua scuola,
ma insieme ne mitiga il rigore e cerca di evitarne le
conseguenze paradossali, non senza incoerenze e con-
traddizioni. Anche per lui ogni animale è spinto dalla
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 155
natura ad amare se stesso e a cercare la propria con-
servazione; ma l’uomo, essendo razionale, si ama e
tende a conservarsi non come animale, ma in quanto
fornito di ragione (insieme teoretica e pratica) e perciò
mira a salvarla e a perfezionarla. La ragione retta e
perfetta, quella del sapiente, possiede la visione delle
cose divine e umane e perciò, nella sua funzioné teore-
tica riconosce la legge razionale dell’universo e in quella
pratica, quale atteggiamento della volontà, si conforma
ad essa e così segue la natura. Essa ragione coincide
con la virtù o eccellenza [umana], con l’Aonestum, il
bello morale in senso ampio che si identificano. Essendo
la ragione il bene proprio, anzi, unico dell’uomo, rea-
lizza la felicità umana ; così si deve dire che il solo bene
è la virtù che è sufficiente per la vita felice. E ciò si
deve ripetere per l’Ronestum. Infatti, il sapiente sa che
soltanto l'atteggiamento interiore della volontà è in suo
potere, si rende conto che l'universo è governato dalla
suprema legge razionale del fato, riconosce che esso
coincide con la Provvidenza e comprende che quanto
avviene è necessario per il bene del tutto. Per questa
ragione obbedisce di buon grado al volere divino e
così è libero e, siccome ritiene che niente è male, che
nulla gli nuoce, è esente da passioni e da sofferenze e
vive felice. Seneca, che con Cleante ripete ducunt vo-
lentem fata, nolentem trahunt, si avvicina alle posizioni
di Democrito e di Epicuro, affermando che nella tran-
quillità dell'anima consiste la beatitudine propria del
sapiente. Quindi, il sommo bene è l’anima che conosce
la verità e regola le sue azioni secondo la visione del-
l'universo, è il condursi secondo la volontà della na-
tura; per ciò nel conformarsi a questa consiste la vita
felice.
La virtù fondamentale, la sapienza (che contiene
un aspetto conoscitivo e uno attivo, al pari della ratio
alla quale si identifica) si divide nelle quattro virtù
principali, secondo gli oggetti ai quali si applica; ma
essa, al pari del suo opposto, il vizio, il turpe, non am-
mette gradi. Tutte le virtù, tutti i beni, come i loro op-
156 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
posti, sono uguali in sè, sebbene ne muti la materia, e
da un opposto all’altro non v'è passaggio : del pari sono
uguali, da una parte, le azioni buone, le malvage dal-
l’altra. La virtù e il vizio risiedono nell'animo, nella
volontà, nell’intenzione, dalla quale dipende il valore
dell’azione esterna. Se l’unico bene e l’unico male risie-
dono nell'anima, tutto ciò che ne differisce, tutte le
cose esterne (la vita, la salute, la ricchezza e i loro op-
posti) non sono nè beni, nè mali, ma una materia che
può essere usata bene o male ; soprattutto non si deve
giudicare il piacere un bene e meno che mai, come fa-
ceva Epicuro, il sommo bene. È vero che alla virtù del
sapiente si collega un piacere che è l’unico perpetuo e
sicuro, ma esso non deve ricercarsi come un fine, perchè
soltanto la virtù, che ha in sè la propria ricompensa,
è degna di essere perseguita per sè. Per lo Stoicismo,
che identifica il vero bene alla virtù che risiede nella
ragione, tutte le altre cose sono indifferenti. Però esso
aveva mitigato questa tesi (che era poi in contraddi-
zione con la sua fede che tutto è governato da un fato
provvidenziale e perciò è rivolto al bene) distinguendo
le cose indifferenti in quelle che sono tali assolutamente
e nelle altre che hanno un certo valore, positivo o nega-
tivo, pure non essendo nè beni, nò mali e perciò si deb-
bono o desiderare o respingere, secondo che sono gli
oggetti primi degli impulsi dell'anima (doti spirituali,
come buone disposizioni, abilità artistiche ; qualità fi-
siche, come vita, salute ; cose esterne, come ricchezze,
fama) o i loro opposti. Seneca non si limita ad accet-
tare questa tesi, ma la sostiene in modo tale da avvi-
cinarsi alle posizioni della scuola peripatetica. Con lo
Stoicismo, egli ritiene che le passioni siano l’ostacolo
che si oppone al conseguimento della virtù e della feli-
cità, perchè sono movimenti dell'anima disordinati, im»
provvisi e violenti, che, se ripetuti e trascurati, si tra-
«formano in malattie, cioè in vizi inveterati e induriti
e perciò si debbono estirpare completamente. Siccome
la sede della virtù è l'intenzione e la passione dipende
dalla volontà e richiede. l'assenso della mente (sebbene
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 157
provenga dalla parte irrazionale dell'anima), Seneca può
affermare che basta voler essere virtuosi per diventare
tali : si tratta di sviluppare quei germi di virtà o di,
scienza che la natura ha posto in tutti gli uomini. È
quindi facilissimo condurre una vita conforme alla
nostra natura razionale e vivere felicemente. D'altra
parte, egli, che con la sua scuola esalta l’infallibilità,
l'assoluta libertà, la perfetta virtù, la suprema felicità
del sapiente che soltanto per la durata è inferiore a
quella di Giove (lo stolto invece è completamente mal-
vagio e infelice ed è schiavo delle sue passioni), ritiene
con gli stoici in generale che, all'infuori di rarissime
eccezioni, tra le quali pone Catone, tutti gli uomini siano
pazzi e malvagi. Su questo punto, anzi, egli insiste più
energicamente e più spesso degli altri stoici. Noi nomini
siamo stati, siamo e saremo sempre stolti e malvagi ;
tutti abbiamo peccato e peccheremo fino alla fine della
vita, pure rimproverando agli altri Je colpe di cui sono
macchiati ; soltanto ora predomina un vizio, ora un
altro. £ vita degli uomini è quella di un branco di
helve feroci che sono più miti di loro, perchè mostrano
mansuetudine con coloro che li nutrono, mentre essi
li divorano : tutto è pieno di difetti e di vizi. Egli tal-
volta ripone la causa della stoltezza e della malvagità
| universali nell’azione corruttrice che l’insania comune
della massa esercita sul singolo con l'esempio. Erra chi
ritiene che i vizi siano nati con noi, perchè la natura
non ci ha inclinati verso di essi, ma ci ha generati puri
e liberi. Altre volte invece afferma che il sapiente non
prova collera per chi pecca perchè conosce le condizioni
della vita umana e nessun uomo di mente sana si adira
con la natura, per vizi che essa scusa. Ciò significa che,
in ultimo, dipende dalla natura l'impossibilità, da parte
della quasi totalità degli uomini, di svolgere i germi
originari di virtù, la volontà di essere sapienti, ossia
virtuosi e felici. Siamo di fronte al conflitto che si pre-
senta in generale nello Stoicismo tra la fede nella libertà
del volere e quella nel determinismo universale. Già gli
stoici, riconosciuta la natura eccezionale del sapiente,
STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
avevano parlato di colui che fa progressi nella virtù,
e prevalentemente, se non soltanto di lui, si era interes-
sato Panezio. Seneca va anche più in là. Occorre seguire
gli Dei nei limiti che ci sono concessi dalla debolezza
umana. Per conto suo, egli confessa che non è un sa- .
piente e che non lo sarà mai, non aspira a pareggiare
gli ottimi, ma cerca essere migliore dei malvagi e si
contenta di diminuire ogni giorno i suoi vizi. Racco-
manda a sè e agli altri di esaminarsi accuratamente,
di rendersi conto tutte le sere della giornata trascorsa,
di fare ogni sforzo per correggersi, ricorda che alla nostra
coscienza nulla di noi rimane nascosto.
Lo spettacolo della malvagità e della stoltezza uni-
versali degli uomini, però, non ispira a Seneca l’aspra
condanna pronunciata dallo Stoicismo precedente, ma
un senso profondo di indulgenza e di compassione. Chi
pecca è simile a un bambino, a un ammalato, a un pazzo,
occorre considerarlo con l’oechio con cui il medico guarda
i suoi pazienti, bisogna perdonare a tutti, concedere
venia al genere umano (De ira, II, 9-10; III, 26-27).
Più gravi delle incoerenze osservate fin qui sono
altre, le quali mostrano che l’originarià intuizione pes-
simistica della vita non è stata eliminata dalla filosofia
accettata da Seneca. Per questa, che identifica la for-
tuna a un fato provvidenziale, tutto ciò che accade è
rivolto al bene, sicchè soltanto lo stolto può lagnarsi
dei mali della vita. Il bene risiede nell'anima e tutte
le altre cose, inclusa la morte, sono indifferenti; ora
Seneca, non soltanto chiede talvolta che cosa gl’importi
che sia certo per la natura (fato) ciò che è incerto per
lui (fortuna), ma abitualmente accetta l’irriducibilità
della seconda al primo : ciò avviene anche quando, per
giustificare i mali che colpiscono i buoni, sostiene che
ad essi non può avvenire alcun male e che la Divinità
li designa alla fortuna perchè si esercitino in quella lotta,
in quanto lo spettacolo più degno di Dio, è il conflitto
fra l’uomo forte e la sorte avversa, soprattutto se egli
l’ha provocata. Più chiaramente ancora riconosce l’esi- —
stenza della fortuna, quando insegna con Posidonio che
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 159
bisogna lottare contro di essa con le sue stesse armi,
allorchè sostiene che i suoi colpi sono mali soltanto in
apparenza e soprattutto nei testi numerosissimi in cui
ricorda la potenza di essa e la sua azione inaspettata
che tutto sconvolge, contro la quale presenta un solo
rimedio : bisogna essere preparati a tutto, rimedio che,
evidentemente, non è offerto da un sistema filosofico
piuttosto che da un altro. Si è già ricordato come egli
deplorasse continuamente i mali di cui è ricolma la
vita. Per quello che riguarda il timore della morte, in-
segna che occorre fare ogni sforzo per vincerlo, perchè
ci avvilisce, ci agita e rovina la vita stessa. Bisogna
pensare alla morte perchè ciò significa pensare alla li-
bertà ; chi sa morire non sa servire, inquantochè è al di
là, se non al di sopra di ogni potenza : ci tiene legati
soltanto l’amore della vita, che bisogna almeno mode-
rare. Effettivamente ci atterrisce soltanto la parola
morte, con la quale occorre acquistare familiarità. Per
vincere questo terrore, Seneca adopera vari argomenti
che non sempre implicano che sia una cosa indifferente
e ne ricorda anche alcuni usati da Epicuro o simili ad
essi: la morte non è nè un bene nè un male, perchè
è un nulla che tutto annienta e chi non esiste non può
essere infelice. Essa non deve ispirare timore perchè è
o una fine o un passaggio : nel primo caso equivale alla
condizione di chi non ha cominciato a vivere; e nel
secondo l’uomo non sarà mai in un luogo tanto angusto
come questo. Seneca si attiene più allo Stoicismo quando
presenta questa alternativa: l’anima o sarà condotta
a un'esistenza migliore per permanere fra le cose divine,
o senza alcun danno si ricongiungerà alla natura e ritor-
nerà nell'universo [cioè nella ragione divina]. È fondata
sulla teoria eraclitea e stoica del perenne ritorno di
tutte le cose, l'affermazione : se desiderate vivere, pen-
sate che tutto finisce, ma nulla. perisce perchè tutto
rinasce. Però, anche in questo caso, l'argomento più
forte, cioè il pensiero costante «della inevitabilità della
morte, legge della natura, tributo e obbligo dei mor-
tali, non si fonda su alcun sistema filosofico particolare,
‘160 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Meglio si accordano con lo Stoicismo quelle convin-
zioni originarie di Seneca che riguardano i rapporti fra
gli uomini. Già gli stoici antichi avevano insegnato A
l'uguaglianza umana, la dignità della persona, il cosmo-
politismo e Panezio e Posidonio avevano prescritto
l’amore per tutti gli uomini ; però nessuno di loro aveva
trattato questi argomenti con l’intima e profonda con-
vinzione di Seneca, che supera in ciò anche i suoi con-
temporanei Epitteto e Marco Aurelio : le sue parole
corrispondono ad un atteggiamento spirituale che deve
avere assunto prima di accettare un credo filosofico de-
terminato. La giustificazione teoretica di quelle cre-
denze poggia sulla tesi (panteistica per sè, ma conci-
liata nella mente di Seneca con una concezione perso-
nale della Divinità) che le anime razionali umane sono
parti della ragione divina, sono Dio che alberga nel-
l'uomo, sicchè il carattere religioso dell’etica, che nelle
teorie precedenti era già chiaro, ora appare sotto una
luce anche maggiore. L'universo, che include le cose
divine e umane, è uno ed è Dio e noi siamo membra
di questo grande corpo: la natura ci ha creato tutti
parenti. Siccome l'animo buono e retto è Dio che al-
berga in un corpo umano, può risiedere in un cavaliere
romano come in un liberto o in uno schiavo, che diffe-
riscono soltanto per nomi originati dall'ambizione o
dall’ingiustizia. Tutti gli uomini, quindi, sono uguali e
posseggono una propria dignità e un proprio valore e
si distinguono tra loro esclusivamente per le doti del-
l’anima, che può essere libera anche nello schiavo.
Servire nel consolare (Ep., 47, 15 sgg.; De ben., III,
28, 1 sgg.). La natura stessa ci ha creato socievoli ; Dio
‘ha dato all'uomo, che da solo è il più debole fra gli es-
seri, la ragione e la vita sociale che l'hanno reso il più
forte di tutti. La società non soltanto lo difende dai
pericoli e dai mali, ma gli ha anche arrecato il dominio
del mondo. Si vive in comune e nessuno può essere felice
se rivolge tutto al proprio vantaggio. « Oecorre che tu
viva per altri, se vuoi vivere per te » (Alteri vivas oportet, .
si vis tibi vivere : Ep., 48, 2).
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 161
Ma non soltanto per il proprio vantaggio (che del
resto non è che una conseguenza di quello di tutti),
ma anche e soprattutto per affetto reciproco, gli uomini
debbono essere congiunti tra loro e aiutarsi: « L'uomo
è cosa sacra per l’uomo » (Homo res sacra homini : Ep.,
95, 33), perchè la stessa natura cei ha ispirato amore
reciproco, Questo si esplica nei benefici : tale argomento
ha molto interessato Seneca, che lo ha studiato in un
trattato di sette libri. Anche nei benefici egli considera
due aspetti: da una parte lo scambio di essi è il vincolo
più forte della società che è la difesa più valida della
debolezza umana; dall’altra essi ci sono imposti dalla
stessa natura, che vuole che le mani siano pronte a
soccorrere : ovunque è un uomo, anche se un ignoto,
un nemico, vi è posto per il beneficio. Sempre dobbiamo
avere nel cuore e sulle labbra il verso di Terenzio :
Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Heauton.,
I, 1, 54). Per l’ordinamento della natura è peggio nuo-
cere che essere offesi (De ira, I, 5, 2, e passim). Occorre
beneficare senza stancarsi, senza scoraggiarsi, senza
pentirsi e imitare gli Dei che giovano ugualmente ai
degni e agl’indegni, senza curarsi dell’ingratitudine
umana : la bontà pertinace vince i malvagi. È proprio
dell'animo grande e buono cercare di beneficare, non
di ottenere il frutto dei benefici, perdere e dare, perchè
nel dare consiste la virtù: bisogna imitare gli Dei, che
beneficano senza ricompensa (De ben., I, 1, 12; IV,
24-25; VII,.31, fine).
Molte volte occorre beneficare in segrete, anzi, in-
gannare chi riceve, perchè ignori chi lo ha soccorso.
L'esigenza dell’amore universale si deve estendere anche
ai più infelici, ai più umili: gli schiavi, i gladiatori. Se-
neca, che bolla con parole roventi i padroni erudeli,
inumani e viziosi, che maltrattavano e torturavano i
loro schiavi, che li condannavano ai servizi più abbietti,
più vergognosi e più infami, afferma recisamente che
essi sono uomini, anzi umili amici, conservi, perchè,
come i padroni, sottoposti al dominio della fortuna (Ep.;
47, 1). Hanno la stessa natura dei padroni, sono uguali
162 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
ad essi (De elem., I, 18, 2; De ben., III, 28, 1 sgg.);
soltanto il corpo è proprietà di altri, ma l’anima è libera,
La virtù è accessibile a tutti, ai re e agli schiavi, si con-
tenta dell'uomo nudo, tanto è vero che molte yolte i
secondi hanno dato prova di una devozione illimitata
ai loro padroni, sacrificando la propria vita per salvarli
(De ben., III, 18-28; ef. Ep., 44). Seneca ammonisce il
superbo : Pensa che la fortuna può ridurti nella più
umile condizione, vivi con gli inferiori come vorresti che
chi ti è superiore vivesse con te, usa clemenza, anche
affabilità con lo schiavo, consigliati con lui, ammettilo
al tuo convito, così lo renderai degno di parteciparvi,
se non è tale. Anche fra gli schiavi puoi trovare amici,
I padroni debbono cercare di essere piuttosto amati
che temuti, come Dio si contenta dell'amore e del culto
degli uomini (#p., 47, 11 sgg.). Cicerone aveva giudi-
cato ammirabile scuola di fortezza le lotte dei gladia-
tori se avvenivano tra colpevoli : Seneca invece le con-
danna senza pietà anche in questo caso e a chi gli ob-
bietta che quegli uomini hanno commesso reati e meri-
tano la loro sorte, risponde: E tu, infelice, che cosa
hai fatto per assistere a uno spettacolo simile? (Ep.,
7, 3 sgg.). Del pari, condanna nel modo più risoluto,
riferendosi direttamente a Roma, le guerre e la gloria
che si fonda sulle stragi (Zp., 95, 80-31); e contro i co-
stumi contemporanei propugna l'eguaglianza dei doveri
dei due coniugi (Ep., 94, 26).
All’insegnamento dell'uguaglianza di tutti gli nomini
e dell'amore universale Seneca collega la teoria, accet-
tata da tutti gli stoici, del cosmopolitismo. Per lui, la
patria è il mondo, lo stato è la vera cosa pubblica che
include gli Dei e gli uomini, che ha i confini misurati
dal corso del sole. Vi è un diritto comune a tutto il
genere umano (Ep., 48, 3).
Panezio e Posidonio avevano conciliato col cosmo-
politismo la partecipazione attiva alla vita pubblica negli
stati esistenti; Seneca invece, ritornando, al pari degli
stoici del tempo suo, alla posizione dei fondatori della
scuola, mostra di interessarsene poco, e per gli stessi
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 163
motivi. Quando ancora godeva del favore di Nerone,
egli riconosceva che la pax romana, la salvezza della
città, era ormai congiunta indissolubilmente con la
sorte dell’imperatore, e ciò implicava che era svanito
l'impulso più forte alla partecipazione del cittadino alla
attività politica. In seguito, quando dovette nel De otio
giustificare il suo ritiro dalla vita pubblica, ricordò che
Zenone aveva insegnato che il sapiente parteciperà ad
essa se nulla ne lo impedirà e osservò che molte pos-
sono essere le cause di quella astensione. Infatti può
darsi che lo stato sia troppo corrotto perchè egli possa
giovargli ; o che sia dominato dai malvagi nel qual caso
non si deve sacrificare inutilmente. Effettivamente non
esisterà mai uno stato al quale il sapiente possa acce-
dere; nè Zenone, nè Cleante, nè Crisippo amministra-
rono mai la: cosa pubblica e nemmeno spinsero altri a
far ciò. Con Atenodoro, Seneca ritiene che il privato che
educa gli uomini alla virtù non è meno utile allo stato
dell’uomo politico, del magistrato, del soldato. Zenone
e Cleante con l’opera loro hanno giovato a tutto il ge-
nere umano ; se fossero stati statisti o generali avreb-
bero servito soltanto vina città.
Considerata con criteri puramente teoretici, la filo-
sofia di Seneca non può essere molto valutata, perchè
appare uno Stoicismo eclettico privo di originalità e
ricco di incoerenze. Per di più, i problemi originari della
fortuna, dei mali della vita, della morte, non trovano
soluzione nel suo sistema, e i mezzi migliori che egli
offre contro quei terrori sono indipendenti da esso. La
fede nell’immortalità rimane sempre una fede e la ere-
denza in un Dio personale è in contrasto col panteismo
della dottrina. Ma il significato e il valore vitale del-
l’opera sua non risiedono nell’elaborazione scientifica
di concetti, ma nella visione dolorosa della vita, nel
senso amaro dell’universale debolezza e peccabilità degli
uomini, nella pietà e nell’amore per tutti, nell’aspira-
zione a un’esistenza migliore, nella tendenza verso una
personalità divina provvidente, benefica, paterna, che
si esprimono nelle pagine di Seneca con una convin-
6.
164 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
zione, una sincerità, un’intensità che contrastano con
l'enfasi rettorica che appare quando egli si limita a
presentare le tesi della sua scuola. Certamente egli si
collegava al movimento religioso dell'età sua che, sorto
nelle classi inferiori, premeva sempre più sulle supe-
riori; ma nessuno, forse, dei filosofi contemporanei ha
vissuto così fortemente quelle sofferenze e provato così
intensamente quelle esigenze. A ragione, le prime gene-
razioni cristiane hanno colto nelle parole di Seneca, al
disotto delle formule della scuola, irriducibilmente con-
trastanti con le loro eredenze più care, un’anima in
pena che tendeva verso ideali affini, se pur diversi dai
loro. Soprattutto, l'insegnamento dell’amore universale,
che sarà ripresentato da Marco Aurelio, e la difesa degli
umili e degli infelici, che venivano a prendere il posto
dell'ideale aristocratico della humamnitas di Cicerone, se-
gnano il punto in cui lo spirito antico più si avvicina
alla parola del Vangelo.
0) Musonio Rufo.
Esercitò un forte influsso sui contemporanei €. Mu-
sonio Rufo, di famiglia equestre dell’etrusca Volsini
(Bolsena) : dev’essere nato circa il 30 d. C. perchè verso
il 65 suscitò per la sua fama di filosofo l’invidia di Ne-
rone. Nel 60 0 poco dopo seguì Rubellio Plauto nell'Asia
Minore e lo incoraggiò a togliersi la vita quando l’im-
peratore lo condannò a morte. Deve essere ritornato a
Roma, perchè nel 65-66 ne fu bandito insieme con Cor-
nuto in occasione della congiura di Pisone e confinato
nell’isoletta di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rino-
manza attirò uditori da ogni parte. Verosimilmente
richiamato a Roma da Galba, negli ultimi giorni di
Vitellio si unì ad una ambasceria del Senato presso An-
tonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi
soldati, ma senza successo. Quando Vespasiano assunse
il potere, Musonio accusò davanti al Senato P. Egnazio
Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 165
Borea Sorano. Vespasiano lo escluse dalla prima espul-
sione dei filosofi da Roma (71), ma poi lo esiliò per la
seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto,
lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito
mancano notizie su di lui, ma da una lettera di Plinio
il Giovane sembra che nel 101-102 non fosse più in
vita. Non risulta che abbia composto e pubblicato seritti,
anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegna-
mento orale, del quale, però, rimangono frammenti ab-
bastanza numerosi. Essi comprendono : 19 brevi apof-
tegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo
Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni filosofiche rela-
ivamente ampie raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-
È e trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Sto-
beo ; 3° esposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo
o costituiscono la parte più estesa dei frammenti. È
verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio
che si è già ricordato e che si deve ritenere la fonte più
importante dello Stobeo ; un’altra è Epitteto, cioè Ar-
riano. Sembra che un Pollione (probabilmente Valerio
Pollione da Alessandria, vissuto sotto Adriano) abbia
composto Memorabili di Musonio, ma non ne restano
tracce. È giudicata falsa una lettera di Musonio a un
certo Paneratide. Le concordanze che si sono osservate
tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente
di Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza
di questo da uno seritto di Lucio o alla derivazione di
ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di
Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi
scolari, tra i quali si ricordano (oltre al genero Arte-
midoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i filosofi
Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo sco-
laro Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come Ru-
bellio Plauto, forse Borea Sorano e Minicio Fundano,
Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filo-
sofia finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti
dell’ascetismo neo-pitagorico, ma nel complesso dipende
dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno inse-
gnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i fram-
“a
166 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
menti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto
degli Dei, designati con le denominazioni della religione
tradizionale, non supera la sfera del pensiero comune
e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta
allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale,
che equivale alla teoria del fato. Però l'interesse di Mu-
sonio si concentra sulla funzione pratica della filosofia,
che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la
tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi gene-
ralmente accettata) gli uomini sono malati che richie-
dono una cura continua la quale dev'essere prestata
dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne
non meno che agli uomini : essa però è identificata alla
ricerca e alla realizzazione della virtù, per conseguire
la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte
teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore impor-
tanza dell’insegnamento (o del discorso). Siccome la
natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il
discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione
è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici giusti.
Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo
uniformino la loro condotta ai propri principi. Si com-
prende che Musonio si interessasse in primo luogo della
formazione etica degli scolari.
Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle
dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distin-
guere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora
da noi dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni,
cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male,
dalle quali è determinata la giusta valutazione delle
cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore
della volontà; in essa, se è retta, consiste la libertà,
la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi
| e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dob-
biamo rimetterci all’ordine necessario dell'universo e ae-
cettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la virtù è
bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è
indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio
‘ riteneva necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio
DA AUGUSTO AL .NEO-PLATONISMO 167
morale, anche l’indurimento fisico, perchè, essendo il
corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre
rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvici-
nandosi al Cinismo, la vita semplice e conforme alla
natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi
carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi,
esige una vita morale severissima, raccomanda il matri-
monio, condanna la limitazione delle nascite e l’espo-
sizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio
rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il
bene e guidata dal desiderio di educare gli spiriti, ma
a queste doti non corrisponde il valore scientifico degli
insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri
e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle
sue parole l’espressione di una visione della vita vi-
brante di dolore e di amore simile a quella di Seneca.
D) Marco Aurelio.
Importanza senza confronto maggiore ha l’opera
dell’ultimo dei grandi stoici, l’imperatore Marco Au-
relio, discepolo spirituale di Epitteto. Nacque a Roma
sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, di-
scendente da una famiglia originaria della Spagna, che
aveva coperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, e rice-
vette i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo;
A sei anni fu da Adriano designato a far parte dell’or-
dine equestre, a otto del collegio dei Sali. Rimasto presto
(circa 130) privo del padre, allora pretore, fu adottato
dal nonno paterno che gli diede il nome (M. Annio Vero)
e gli fece impartire: una larga cultura. (Per volontà del
bisnonno materno venne educato in casa). Ebbe allora
come maestro di filosofia Diogneto. A 12 anni rivestì
il costume dei filosofi e volle sottoporsi a privazioni e
forme austere di vita che danneggiarono la sua salute
originariamente forte. Sembra però che verso quel tempo
interrompesse gli studi, per riprenderli in seguito. Adriano,
che lo apprezzava assai e che una volta per ischerzo
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168 RTORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
lo chiamò Verissimo, lo fidanzò il 26 aprile 136 alla
figlia di L. Ceionio Commodo, che aveva designato suo
successore, e morto questo il 1° gennaio 138, adottò
Antonino, zio di Marco, a condizione che adottasse a
sua volta il nipote e il figlio di Ceionio. Alla morte di
Adriano, il 10 luglio, Antonino Pio adottò entrambi e
Marco, che prese il nome di M. Elio Aurelio Vero, par-
tecipò sempre più al potere imperiale: presto il so-
vrano lo indicò suo successore, dandogli il titolo di Ce-
sare, nel 138-139 lo nominò questore, nel 140 console,
‘nel 145 gli diede in isposa la figlia Faustina. In quel
tempo Marco ritornò agli studi, occupandosi da prima
principalmente di rettorica, sotto Frontone per la parte
latina e Erode Attico per quella greca; è dubbio se
allora abbia avuto l’insegnamento filosofico dello stoico
Apollonio, ma la cosa è sicura per quelli del platonico
Alessandro, del peripatetico Claudio Severo e per l’am-
maestramento del giurista L. Volusio Meciano. Nel 146,
Marco, che Frontone avrebbe voluto rivolgere in modo
definitivo alla rettorica, si diede invece completamente
alla filosofia per impulso di Giunio Rustico, il quale gli
fece conoscere l'insegnamento di Epitteto, che lasciò
un'impronta incancellabile nel suo spirito. In quel tempo
deve avere chiamato presso di sè altri filosofi, gli stoici
Claudio Massimo e Cinna Catulo, e il platonico Sesto
di Cheronea, nipote di Plutarco. Marco si sforzò di ap-
plicare alla sua vita le norme severe della morale stoica.
Negli ultimi anni del principato del padre adottivo im-
parò a conoscere da vicino la vita pubblica e l’ordina-
mento dello stato, formandosi un’esperienza che gli fu
preziosa quando, salito al trono, dovette affrontare dif-
ficoltà di ogni genere. Antonino, gravemente ammalato,
nominò successore Marco, che salito al trono dopo la -
sua morte (7 marzo 161) col nome di M. Aurelio An-
tonino, volle governare l'impero insieme al fratello adot-
tivo, che prese i nomi di Lucio Annio Vero; ma questo
non gli fu di aleuna utilità nel governo dello stato, anzi
gli arrecò dispiaceri con la sua condotta leggera e dis.
soluta,
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 169
Il principato di'Antonino era stato uno dei più tran-
quilli e prosperi dell'età imperiale; invece quello del
suo successore, pieno di pericoli e di sventure, iniziò la
decadenza dello stato romano. Subito la situazione. si
presentò minacciosa : inondazioni in Italia, carestia a
Roma, agitazioni nella Bretagna, ove i legionari vole-
vano eleggere imperatore il proprio comandante, inizio
di agitazioni dei Germani, vittoriose campagne militari
dei Parti nell’Armenia. Marco Aurelio affrontò energi-
camente quest’ultimo pericolo, e inviò rinforzi in Oriente,
ove i romani, riconquistata l'Armenia, distrussero le
due capitali dei Parti, Seleucia e Ctesifonte; ma una
terribile pestilenza impedì che la loro vittoria fosse defi-
nitiva e li costrinse a ritirarsi; però poterono consoli-
dare le loro posizioni orientali.
Appena i due imperatori ebbero celebrato il loro
trionfo, si presentò un pericolo anche più grave sul Da-
nubio, varcato in più punti da genti germaniche e slave,
dirette dai Marcomanni e dai Quadi ; esse poi, superate
le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero le forze ro-
mane inviate contro di loro : intanto altri barbari pene-
travano nell’Acaia e nell’Asia Minore e la peste, venuta
dall'Oriente, devastava l’Italia. Marco Aurelio, oppo-
nendo serenità ed energia a questo cumulo di disastri,
prese tutti i provvedimenti che la tragica situazione
richiedeva : alla testa di un nuovo esercito i due impe-
ratori mossero contro i barbari che, tolto l'assedio da
Aquileia, ripassarono le Alpi. Nel 169 Lucio Vero morì
di apoplessia mentre ritornava a Roma; Marco Aurelio
proseguì per più di cinque anni una guerra asprissima,
in cui sconfisse i Marcomanni (172), i Quadi (174), gli
Iazigi (175). Avrebbe voluto formare due nuove pro-
vince e portare la frontiera ai Carpazi, ma dovette
concludere affrettatamente la pace per recarsi in Oriente
ove si era proclamato imperatore il legato di Siria, Avi-
dio Cassio; trovando fautori in molte province. Marco
Aurelio, sebbene l’usurpatore fosse stato ucciso da un
centurione prima del suo arrivo in Oriente (175), vi si
trattenne per riordinare e pacificare quelle province ;
170 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nel viaggio di ritorno, Faustina, che l'aveva accompa-
gnato, morì in un villaggio dell'Asia Minore. Egli si
trattenne a lungo in Atene, ove fondò quattro pubbliche
cattedre di filosofia, affidate ai rappresentanti delle
scuole maggiori. Poco dopo il suo ritorno a Roma, do-
vette di nuovo recarsi nella zona danubiana per la in-
surrezione dei Quadi e dei Marcomanni ; morì il 17 mar-
zo 180, a Sirmium, sulla Sava, forse colpito dalla peste,
che di nuovo faceva strage, dopo avere designato come
successore il figlio Commodo, sebbene ne conoscesse
la natura grossolana e malvagia. Nei 19 anni di regno,
Marco Aurelio fu pari al suo ufficio di sovrano non sol-
tanto come generale, ma anche come legislatore e come
amministratore. Egli perfezionò l’opera legislativa dei
predecessori e con criteri di umanità mirò a proteggere
più che in passato gli schiavi, a tutelare gli orfani, i
poveri, le donne, i figli. Cercò di rendere ben determi-
nato l'ordinamento amministrativo e fece ogni sforzo
per superare le difficoltà delle finanze, senza ridurre le
spese di pubblica utilità e di beneficenza. Esercitò con
serupolo che fu ritenuto eccessivo il suo ufficio di giu-
dice, tendendo verso l’indulgenza; ma quando lo ere-
dette necessario, applicò rigidamente le leggi. Perciò,
ritenendo che i cristiani fossero pericolosi per lo stato,
prese provvedimenti contro di loro.
Di Marco Aurelio rimangono in latino lettere a Fron-
tone e a Erode Attico (sono apocrife quelle riprodotte
dagli Scriptores Historiae Augustae) e frammenti di di-
scorsi ; è scritta in greco invece la sua opera principale
tà els gavrév, titolo che si traduce con Colloqui con
se stesso o con Ricordi o con Pensieri o anche con Note
personali; è divisa in 12 libri e contiene aforismi, non
teorie organicamente connesse. Il libro I, seritto nella
terra dei Quadi, si pone abitualmente dopo il 166 e
prima del 176; il libro II, scritto in Carnuntum (Ham-
burg, in Ungheria) fra il 170 e il 174; I'VIII, dopo la
morte di Vero (169). Però vi è chi ritiene che il libro I
sia stato composto per ultimo, che il libro II appartenga
agli anni dell’ultima campagna contro i barbari (177-
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 171
180) e che gli altri libri ineludano elementi di età di-
verse : molte parti proverrebbero dal periodo 170-180,
mentre altre sarebbero più antiche o costituirebbero
semplici note, sparse qua e là. Vi è chi pensa che i libri II,
III e XII formino il nueleo originale dal quale si sa-
rebbe svolta l’opera complessiva.
1 Pensieri di Marco Aurelio rappresentano un am-
monimento che l’imperatore rivolge continuamente a
se stesso per affrontare con serenità e forza d’animo le
contingenze della vita, per accogliere con spirito tran-
quillo, anzi lieto, tutto ciò che esse gli possono presen-
tare e per compiere imperturbato tutti i suoi doveri.
Ora questo appunto fa pensare che egli si sia rivolto
alla filosofia, anzi a un determinato sistema, per risol-
vere i problemi che la vita gli presentava e per giustifi-
care quei valori che si imponevano alla sua coscienza.
Si tratta quindi di riconoscere quell’atteggiamento spiri-
tuale che costituisce il presupposto della sua costruzione
filosofica. Ben presto egli deve avere sentito l'esigenza,
continuamente espressa nei Pensieri, di rendersi conto
a fondo della natura e del valore delle cose con un’ana-
lisi implacabile che doveva arrestarsi soltanto davanti
alla virtù (cioè ai valori morali). È probabile però che
da prima egli non mirasse con quest’analisi a disprez-
zare i suoi oggetti, come afferma in un pensiero (XI, 2),
ma che questo ne fosse un risultato e che soltanto in
seguito ne diventasse lo scopo. A ciò si aggiunge che Mar-
co Aurelio si appropria l’intuizione eracliteo-stoica del
perenne fluire di tutte le cose, ma per intenderla come
una destinazione alla distruzione, come un processo
continuo di dissolvimento e di morte degli esseri indi-
viduali, risultante nella formazione di altri esseri e di
altri avvenimenti uguali ai precedenti. Una simile vi-
sione della vita, necessariamente, doveva portare a una
posizione simile a quella dell’Eeclesiaste (Vanità delle
vanità, tutto è vanità. Non c’è nulla di nuovo sotto il
sole), alla stanchezza, al disgusto di un’esistenza mono-
tona, spregevole, mutevole, inconsistente. Ogni cosa è
effimera e spregevole, è fango, è putredine e fumo; ed
172 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
è inoltre meschina quanto mai se confrontata con l’in-
finita estensione del tempo, dello spazio, del cielo.
Da questo punto di vista, appare vuota e sciocca la
ricerca della fama e della gloria e insignificante anche
la stoltezza e la malvagità dei piccoli esseri umani che
lottano e si torturano per nuocersi, senza pensare che
fra un istante saranno dissolti in cenere. Questi pen-
sieri, però, non sono cosa nuova, perchè si collegano in
parte alla predicazione cinica, in parte, e soprattutto,
alle intuizioni della religiosità popolare che aveva giu-
dicato in modo simile il mondo sublunare e di esse si
sono notati gli influssi in Cicerone e anche più in Se-
neca. A quelle intuizioni (che ponevano l’anima, di ori-
gine celeste, incomparabilmente al di sopra di tutto ciò
che fa parte della sfera sotto la luna) riporta anche ciò
che Marco Aurelio dice del daîmon interno, sebbene
sia dubbio se originariamente l’identificasse alla ragione
o al nous. Più propriamente personale, e del pari ori-
ginaria, appare la sua posizione rispetto alla vita mo-
rale. Quanto egli racconta nel libro dei Pensieri della
sua prima età e della sua educazione mostra che pre-
stissimo deve avere ritenuto supremi i valori etici, e
assoluti i suoi doveri di uomo, di romano, di futuro
principe, doveri che gli imponevano di agire secondo
giustizia e per il bene comune. Ora, fra la convinzione
della vanità e della spregiabilità di ogni cosa e quella
della imperiosità di quei doveri, esiste non il nesso che
collega la visione pessimistica dei dolori della vita al-
l’amore universale, ma un contrasto, o almeno una di-
vergenza. Se non è animato da una fede morale inerol-
labile che prescinde da ogni giustificazione teoretica,
l’uomo che ritiene tutto vano e meschino facilmente si
disinteressa della vita e dell’azione, o, al più, si limita
a non nuocere, ma difficilmente si induce ad agire ener-
gicamente per il bene comune. La filosofia, che per
Marco Aurelio è l’unica nostra guida nel turbine della
vita (II, 17, 3), doveva fondare l’amore e la cura degli
uomini con la loro affinità essenziale ed eliminare lo
sconforto e il disgusto suscitati dalla convinzione della
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
vanità universale, mostrando che ogni cosa è governata
da una Provvidenza divina saggia e benefica, che tutto
destina al bene dell’universo. E questa certezza doveva
dargli forza e calma specialmente quando, giunto all’im-
pero, fu costretto ad affrontare le situazioni tragiche
che minacciavano di portare alla rovina lo stato e la
civiltà che egli aveva l'obbligo di difendere. Appunto
per ciò insiste sulla necessità di scegliere fra due ipo-
tesi: o tutto consiste in un cumulo di atomi, mescolati
senza ordine e senza scopo, o una provvidenza suprema
governa tutte le cose. (Talvolta egli ammette tre pos-
sibilità : o l'ordine inflessibile del fato, o una Provvi-
denza accessibile alla pietà, o un caos privo di dire-
zione, abbandonato al caso ; in altri termini, la neces-
sità cieca del fato, la credenza della religione popolare,
l’atomismo). Per conto suo si decide per la seconda
alternativa, cioè per lo Stoicismo contro l’Epicureismo,
mettendo in evidenza l'ordine e l'armonia che l’uni-
verso presenta in ogni suo aspetto. E lo Stoicismo,
nella forma assunta con Posidonio, gli permette anche
di fondare l’amore per tutti gli uomini con la parteci-
pazione delle anime razionali alla ragione universale.
Però, seguendo l’eclettismo contemporaneo, egli collega
allo Stoicismo pensieri attinti ad altre fonti : per non
parlare ora di certi spunti scettici e dei motivi cinici
che appaiono nel suo disprezzo di tutte le cose umane,
basterà ricordare l’influsso di alenne dottrine centrali
dell’ Aristotelismo.
Anche Marco Aurelio ammette la legittimità delle
tre discipline filosofiche fondamentali, ma apprezza poco
l’analisi dei sillogismi e gli studi meteorologici. Ciò però
non significa che egli neghi valore alle ricerche teore-
tiche, perchè riconosce la necessità di non assentire a
rappresentazioni dubbie o false, ritiene che è impossi-
bile diventare esseri morali se non si parte dalle verità
che riguardano la natura dell’universo e quella propria
dell’uomo, cioè respinge soltanto le sottigliezze della
logica e gli studi speciali della scienza della natura, non
la teoria della conoscenza, che per lo Stoicismo fa parte
174 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
| della dialettica, e la metafisica e la teologia incluse nella/
fisica, pur subordinandole a finalità etiche.
Quanto alle ricerche gnoseologiche i Pensieri si limi-
tano a pochi cenni, in cui risuona una nota scettica:
le cose sono talmente velate che a molti filosofi, e non
dei minori, sono apparse inafferrabili e agli stoici sem-
brano difficili da apprendere: ogni nostro assenso è
mutevole, perchè non v'è aleun uomo che non muti,
Ma questo scetticismo, che riguarda il continuo mutare
del soggetto e degli oggetti, non impedisce & Marco Au-
relio di presentare concezioni metafisiche ben determi-
nate sulla natura dell’universo ; le incertezze si limitano
alle ricerche particolari, non si estendono allo studio
della realtà essenziale del tutto. In questa parte egli
modifica profondamente le dottrine storiche, perchè,
mentre ne conserva il panteismo, ne respinge il mate-
rialismo, ammettendo, forse per l’azione esercitata su
di lui dal peripatetico Claudio Severo, la natura pura-
mente spirituale dell’intelligenza divina e umana. È
così portato alle ultime conseguenze il dualismo che
Posidonio aveva, se non introdotto, accentuato entro
lo Stoicismo. Questa distinzione coincide con l’altra,
che appartiene a quella scuola in generale, di materia
e di causa, in quanto la seconda è pensata come imma-
teriale. L'universo è un essere vivente e unitario nel
quale, come nell’uomo, si distinguono il corpo, la psiche
o anima (soffio vitale) e l’intelletto. Quindi è uno il
mondo che tutto include, una la Divinità che ovunque
si espande, una la sostanza e una la legge, una la ra-
gione comune a tutti gli esseri intelligenti. L'universo
è una città di cui partecipano gli Dei e gli uomini. L’in-
telligenza divina e universale è il logos, la ragione che
ovunque si diffonde e che nell’eternità governa il tutto
secondo periodi determinati. Spesso Marco Aurelio usa
l’espressione sostanza universale per designare la Divi-
nità; ma propriamente si tratta della ragione di quella.
Egli parlava sia della Divinità, che chiamava anche
Zeus, che degli Dei, ma doveva pensarli, secondo la
‘dottrina stoica, come manifestazioni della prima, seb-
‘bene, nel linguaggio, si conformasse alle credenze della
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
eligione tradizionale che onorava con ogni serupolo.
ara credeva di avere ricevuto dagli Dei avvisi,
comunicazioni, aiuti. La divinità è soprattutto la Prov-
vìdenza che tutto dirige. Marco Aurelio talvolta lascia
in\sospeso se essa agisca caso per caso a proposito del
singolo o abbia deciso una volta per sempre su ciò che
riguarda l'universo, sicchè quanto si riferisce all’indi-
viduo consegue a quella deliberazione iniziale. Abitual-
mente, però, ammette la seconda alternativa, perchè
parla del fato come della grande causa che è costituita
dal nesso di tutte le cause e che proviene dall’impulso
primitivo della Provvidenza e della legge universale :
anche le opere della fortuna non sono indipendenti dalla
natura e fanno parte del tessuto governato dalla Prov-
videnza, perchè tutto fluisce di là. (Talvolta però la
prima è contrapposta alla seconda). Appunto perchè
tutto è guidato dalla Provvidenza divina l’universo è
perfettamente ordinato e ogni cosa e ogni avvenimento
contribuiscono all’armonia e alla perfezione di esso.
Esiste negli avvenimenti un nesso che non è soltanto
razionale, ma anche armonico, perchè ogni cosa coopera
a un solo scopo, anche colui che cerca di distruggere
ciò che accade, e tutto si attua giustamente, secondo
il merito di ogni essere, perchè ciò che gli avviene gli
era assegnato dal destino in conformità della sua na-
tura. Non si può ammettere che esista alcun male in-
giustificato nell’universo, perchè l'intelligenza univer-
sale o Dio non ha alcuna ragione di nuocere a un essere
qualunque. Essa (o gli Dei) si preoccupa del bene del-
l'universo ; perciò quello che accade a ogni essere giova
al bene del tutto; ma siccome ciò che è o non è utile
a questo è pure di vantaggio o di danno a quello, giova
a ciascuno ciò che gli arreca la natura universale. Oe-
corre quindi comprendere che quelli che appaiono mali
non sono tali se si considerano dal punto di vista del
tutto : ciò che è turpe e nocivo è una concomitanza del
bello e del bene, perchè proviene necessariamente dalla
fonte di ogni cosa che opera teleologicamente. Anche
176 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
ciò che della natura universale sembra guastarsi e ren
dersi inutile, viene da essa trasformato in esseri nuovi.
Tutte le parti dell'universo per necessità periscono, mà
ciò non può essere un male per esse, perchè la natura
‘non può avere mirato a nuocere alle proprie parti e
nemmeno non essersi resa conto di questo : effettiva-
mente la natura che governa il tutto ama il cambia-
mento e trasforma ogni cosa in una simile, affinchè il
mondo sia sempre giovane, perchè con questa trasfor-
mazione il cosmo si conserva. E ciò si applica anche
alla storia del cosmo considerato nell'insieme. È quindi
con la visione essenzialmente estetica dell'armonia uni-
versale, che vengono giustificati le imperfezioni e i mali
della realtà fisica. Quanto al male morale (che pure
non si può eliminare dal mondo), siecome gli Dei esi-
stono e hanno cura delle cose umane, occorre ammet-
tere che hanno dato all'uomo il potere di non cadere
in quelli che sono veramente mali. L'ordinamento del-
. l’umiverso determinato dall’intelligenza universale si ma-
nifesta nel fatto che essa ha creato gli esseri superiori
come fine di quelli inferiori, e i primi sono stati fatti
gli uni per gli altri: ora, gli esseri razionali sono supe-
riori agli irrazionali, sicchè gli uomini rappresentano lo
scopo della gerarchia cosmica al disotto della Divinità.
Fra gli esseri dell’universo, il più elevato dopo gli Dei è
l’uomo, che riceve da quello i suoi tre costitutori, il
corpo, l’anima, o soffio vitale e l’intelletto o hRegemoni-
kén. (Talvolta Marco Aurelio distingue soltanto il corpo
e l’anima, che è identificata all’intelletto). Le percezioni
riguardano il corpo, gli impulsi, l’anima, i principi, l’in-
telletto. Nella valutazione dei tre costituenti dell'essere
umano Marco Aurelio collega alcuni aspetti della teoria
aristotelica del vob, con intuizioni di origine posido-
niane, forse derivate, almeno in parte, da Epitteto, di
cui accentua fortemente il significato religioso e asce-
tico. Il corpo e la psiche sono aspramente svalutati :
il primo è un finme che continuamente fluisce, qualche
cosa facile a imputridire, un cadavere, una cosa spre-
.gevole ; il soffio muta continuamente, è un sogno e un
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 177
vapore. Essi non dipendono da noi, sono nostri soltanto
n quanto dobbiamo prendercene cura. È veramente
ostro soltanto l’intelletto che è una particella, un ef-
vio di quello divino ; esso è (come dice Marco Au-
rélio usando un’espressione di Posidonio e di Epitteto)
il nostro demone interno o il signore interiore, il Dio
in noi, la ragione comune a tutti gli animali intelligenti
e quindi a tutti gli uomini: si comprende perciò che
Marco Aurelio possa affermare, valendosi di un’espres-
sione che riporta al misticismo ascetico della religiosità
ellenistico-romana, che la vita, per quel demone, è un
esilio in terra straniera. Però ciò non significa che egli
ammetta l'immortalità dell’anima intellettuale, perchè
invece è inclinato a negarla completamente o, se non
altro, a limitare assai quella sia pure temporanea so-
pravvivenza che la sua scuola ammetteva e che Seneca
aveva dipinto con i più smaglianti colori. Parleremo in
seguito delle possibilità che egli ammette provvisoria-
mente, per mostrare che nemmeno chi le accetta deve
temere la morte: quando esprime il proprio pensiero,
pensa che tutte le parti che costituiscono l’uomo ritor-
neranno a ciò da cui sono uscite per trasformarsi in
altre parti dell'universo, in un processo infinito. Non
esclude la possibilità che con la morte l’uomo non si
estingua subito, ma sia trasferito altrove, cioè che il
suo dissolvimento non sia immediato. Ma quando si
tratta di determinare meglio la seconda alternativa,
Mareo Aurelio, che parla della psyche, non dell’intelletto
immateriale, ammette che la sopravvivenza abbia breve
durata, perchè le anime, dopo avere emigrato nell’aria,
dovranno presto riassorbirsi per conflagrazioni, nel logos
spermatikos (ragione seminale o forza generatrice) del-
l’universo. Probabilmente pensava che anche il demone
dell’uomo dovesse ritornare, o subito o dopo una breve
sopravvivenza, alla Divinità da cui era emanato.
Su questi concetti metafisici e teologici Marco Au-
relio fonda la morale, che costituisce l'oggetto continuo
delle sue meditazioni, ma è proprio in questa parte che
è più difficile coordinare i suoi pensieri, perchè, anche
175 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
se non presentano incoerenze, spesso offrono soltanto
aspetti diversi di una stessa concezione, sicchè è neces
sario integrarli reciprocamente, Si deve notare però ch
la determinazione dei valori etici appartiene a ciò e
Marco Aurelio chiama la facoltà dell'opinione, ossia pl
giudizio in quanto assenso volontario, che perciò di-
‘ pende da noi. Anche per lui, come per gli stoici in gene-
rale, ogni essere tende al fine per il quale è stato costi-
tuito, in cui consiste il suo bene: così esso segue /sia
la natura universale che la propria. Ciò vale anche per
il bene, il fine o la felicità dell'uomo, che consistono
nel seguire quelle due nature, che coincidono perchè
dalla ragione, ingellisenza universale, cioè Dio, deriva
quella umana. Quindi per un essere razionale quale è
l’uomo seguire la natura o Dio equivale a conformarsi
alla ragione (intesa insieme come pensiero e come vo-
lontà) e preservarla da deformazioni contrarie alla pro-
pria natura razionale. E siccome l’intelletto è il nostro
Dio interiore, si può esprimere la stessa norma dicendo
che occorre conservare puro il demone interno e seguirlo.
Ma per un essere razionale quale è l’uomo il bene risiede
nell'attività, sicchè seguire la natura o la ragione significa
agire in accordo con essa.
Ciò vuol dire che non vi è bene per l’uomo all’in-
fuori della virtù, nè male salvo l’opposto. Nel deter-
minare il contenuto dell’azione etica, Marco Aurelio
si esprime in modi diversi; ma si tratta di presenta-
zioni parziali delle stesse concezioni, che richiedono di
essere integrate. In complesso, si può dire che l’ispira-
zione religiosa, che appare fortissima nella teoria del
demone interno, è lo spirito animatore della sua visione
etica. Appunto perchè ciò che gli è proprio è il demone
o l'intelletto, che è una particella della Divinità, l’uomo
deve più di ogni cosa venerare, obbedire e temere gli
Dei, cioè onorare quella totalità razionale di cui par-
tecipa ; questo esige la sua stessa ragione. Ma ciò non
implica soltanto, come talvolta Marco Aurelio afferma,
che la pietà e la venerazione della Divinità siano supe-
riori alle azioni giuste ; bensì significa anche che la vita
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO.
.
etica puramente umana ha significato religioso, che
Lr le colpe sono forme di empietà e quindi tutte le
irtù sono aspetti del suo opposto, perchè Dio o la na-
tura universale prescrive questa e quindi vieta quella.
Operando eticamente, gli uomini si rendono simili agli
Dei, come questi richiedono. Siceome sono stati generati
gli uni per gli altri e partecipano della stessa ragione
divina, tutti gli uomini sono esseri sociali, ossia hanno
per fine la società, che perciò costituisce il loro bene ;
essi sono parenti e affini e come membra di uno stesso
corpo, debbono cooperare per il bene comune degli es-
À seri. È quindi naturale che Marco Aurelio, che non con-
sidera le virtù in modo sistematico, si occupi di prefe-
renza di quelle propriamente sociali, la giustizia e la
benevolenza, intesa sia come amore per gli uomini, sia
come disposizione a far loro del bene, pure non parlan-
done sempre nello stesso modo. Talvolta, come del resto
il pensiero antico tendeva a fare, identifica tutte le
virtù alla giustizia, o fa di essa la fonte da cui le altre
derivano. In altri casi, però, le distingue e soprattutto
parla a parte e a lungo della benevolenza, nei suoi due
aspetti. Dell'’amore universale per gli uomini parla con
una convinzione e una frequenza che richiamano Se-
neca e, come in questo, fanno pensare all'insegnamento
del Cristianesimo : « Ama il genere umano » è il suo
comando (VII, 31, 2; ef. VIII, 26, 2). Ma l’uomo deve
sentirsi non una parte, bensì un membro dell'organismo
degli esseri razionali, deve amarli di cuore e compren-
dere che beneficandoli, fa del bene a se stesso (VII, 13 ;
cf. VI, 39). È simile a un membro reciso dal corpo dal
quale riceve vita, chi fa qualehe cosa contro il bene
comune, chi si separa dalla società numana, e si separa
da questa chi si divide anche da un solo uomo. Non
dobbiamo avere avversione per alcuno, nemmeno per
chi, pure essendo stato per noi cagione di fatiche e do-
lori, desidera la nostra morte, perchè ne spera qualche
i sollievo (VIII, 43; X, 36, 6). Dobbiamo essere miti e
benevoli verso chi ci odia (IX, 27; XI, 13). Anzi, è
proprio dell’uomo amare chi l’offende, ricordando che
180 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
è suo parente, che agisce male involontariamente, per-
chè ignora che fra breve entrambi saranno morti, che
effettivamente l’offensore non gli ha nociuto, non avendd
reso peggiore la sua ragione dominante. Per la stessà
ragione e perehè noi pure abbiamo errato e perchè l’uomo
che agisce male opera necessariamente per la sua na-
tura, dobbiamo amare e sopportare tutti gli uomini in
generale, anche chi erra, cercando, se possibile, di am-
maestrare questo amichevolmente e cortesemente, senza
irritarci con lui. Chi agisce male lede se stesso, perchè
sì rende malvagio. Ma dobbiamo, non soltanto amare
e sopportare gli uomini, ma anche beneficarli ed essere
soddisfatti dell’opera nostra, senza aspirare ad una ri-
compensa (IV, 3; V, 20, 1; V, 33, 6; VII, 13; VII,
7,3; IX, 42, 5; XI, 4). Anzi, l’uomo dovrebbe benefi-
care spontaneamente, come la vite produce i suoi grap-
poli (V, 6). In ultimo, il godimento della vita si do-
vrebbe porre nel formare un tessuto assolutamente inin-
terrotto di azioni buone (XII, 29).
Soltanto la condotta razionale, cioè sociale, ossia la
virtù, costituisce il bene e il suo opposto, il male ; ora,
essi sono espressioni della nostra attività, che è l’unica
cosa che dipende da noi; infatti, niente può impedirci
di essere buoni. La stessa cosa si può esprimere dicendo
che nulla può costituire un ostacolo all’intelletto, alla
virtù, che dipende da me non far nulla contro il mio
Dio interno. Da ciò segue, da una parte, che dobbiamo
considerare come un bene (e ricercare) o come un male
(e sfuggire) esclusivamente quello che dipende da noi,
e ogni altra cosa, ossia ciò che sta in mezzo tra la virtù
e il vizio, come indifferente ; dall’altra, che nel nostro
interno è la fonte del bene che scorrerà sempre, se sempre
sarà scavata. Perciò occorre che l’uomo si ritiri in esso,
perchè in nessun altro luogo troverà pace e tranquillità
maggiori ; ivi la ragione, non disturbata dalle passioni,
è una rocca inespugnabile (IV, 3; VI, 11; VII, 28;
VIII, 48). La libertà, l'indipendenza, la serena pace del-
l’anima svaniscono quando l’uomo accorda valore alle
cose esterne che non sono in suo potere. Ora esse non
nà n o
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 181
.
\ toccano l’anima, ma ne rimangono fuori e possono tur-
‘barla soltanto grazie all'opinione che ce ne formiamo,
in quanto riteniamo che siano beni o mali. Esse, come
sì è visto, sono indifferenti, non sono nè beni nè mali,
perchè possono accadere e appartenere sia ai buoni che
ai malvagi e non nuocendo all’intelletto, non vanno
contro la natura dell’uomo e non danneggiano la sua
vita. Se ci asteniamo dal giudicarle beni o mali pos-
siamo restare impassibili rispetto ad esse e così con-
seguire la felicità. Propriamente è in sè indifferente
per l’anima ciò che non riguarda la sua attività pre-
sente : bisogna pensare soltanto a questo, che può es-
sere sempre materia di bene, lasciare il passato a se
stesso e affidare il futuro alla Provvidenza.
Le cose esterne si possono distinguere in quelle ehe
ci accadono e in quelle che abitualmente si chiamano
così e che si ricereano o sfuggono. Ma se in un senso
dobbiamo essere indifferenti rispetto a quello che ci
avviene perchè non è nè un bene nè un male, in un
altro dobbiamo esserne contenti, perchè ci è stato asse-
gnato originariamente dal destino, è stato legato in
modo indissolubile al tessuto della nostra esistenza dalla
Provvidenza divina che così ha mirato al bene dell’uni-
verso e al proprio. Inoltre, ogni cosa che avviene a un
uomo si conforma a lui. Anche la morte si deve accet-
tare serenamente e di buon grado, senza timore, perchè
è un segreto della natura e un’opera sua, ed essendo
conforme ad essa, non può essere un male; anzi è uno
degli atti della vita e costituisce un riposo dalle agi-
tazioni di questa, mentre è una cosa utile all’universo
e alla natura. Se alcuno chiede come si accordino la
giustizia degli Dei e il fatto che gli uomini buoni e
pii mudiono per estinguersi completamente, Marco Au-
relio risponde che quelli avrebbero ordinato diversa-
mente le cose se ciò fosse stato giusto e razionale. Del
resto, qualunque concezione filosofica si accetti, la morte
non deve incutere timore. Se non esistono che gli atomi,
essa è una disgregazione di questi; se esiste un solo
tutto, è o una dispersione dell'essere umano nei suoi
182 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
elementi, cioè una estinzione, o una emigrazione altrove :/
in generale, o è l’insensibilità, e allora libera l’anima/
dalla sua sottomissione al proprio involuero corporeo, 9
una sensibilità diversa, e in tal caso l’anima si reca ih
un luogo che non è certamente privo di Dei. Mai, quindi,
vi è ragione di temerla. Per rafforzare questa conclu-
sione Marco Aurelio insiste sull’universalità della morte
e sulla brevità infinitesima della vita rispetto al tempo
illimitato che l’ha preceduta e che le succederà.
Occorre abbandonare la vita come l’oliva matura
cade lodando la terra che l’ha sostenuta e ringraziando
l'albero che l’ha sviluppata.
In conclusione, l’uomo deve conformarsi alla natura
dell’universo. « Tutto ciò che è in armonia con te, 0
universo, è in armonia anche con me » (IV, 23). Infatti,
è dovere di pietà amare tutto ciò che avviene. Ma anche
se non esistesse la Provvidenza l’uomo dovrebbe acco-
gliere senza irritazione e senza lamento gli avvenimenti.
Se tutto si riducesse ad aggruppamenti di atomi veri-
ficantisi a caso, sarebbe follia biasimare o i primi o il
secondo : e anche se le cose stanno così, io almeno, non
voglio procedere a caso e debbo esser lieto se ho in me
una ragione direttrice. Se esiste un fato predestinato e
ineluttabile, ma non la Provvidenza, è stolto ribellarsi
ad esso. Quanto a quelle cose che più propriamente si
dicono esterne, è ingiusto ed empio ricercarle, perchè
sono indifferenti; e Mareo Aurelio applica ottimamente
ad esse l’analisi per mostrare che sono, più che indiffe-
renti, meschine, vane e spregevoli e conclude che le cose
umane sono fumo e nulla; e di fronte a una vita vuota,
senza valore e sempre uguale, si domanda: sino a quando?
Pure, più forte della stanchezza e del disgusto è la
coscienza del dovere che dev'essere compiuto senza
preoccupazione di altro (VI, 2 ; VI, 22). E questo dovere
è quello, sia dell’uomo, cittadino del mondo (Marco
Aurelio ritiene che tutti gli esseri umani, che parteci-
pano della stessa ragione e abitano la stessa città, go-
vernata da una sola legge, sono concittadini), sia di
Antonino, cittadino &i Roma (VI, 44).
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 183
Si può ripetere per Marco Aurelio ciò che s°è detto
per Seneca : il suo pensiero, privo di originalità e lace-
rato da incoerenze in quanto teoria filosofica, appare
invece vivo e significativo se è considerato un atteg-
giamento spirituale di fronte ai problemi della vita.
Egli cercò nella filosofia stoica una fonte di fiducia,
di serenità, di forza, innanzi alle avversità e soprat-
tutto all’irrimediabile vanità dell’esistenza, e perciò ri-
petè ostinatamente che la Provvidenza divina, sorgente
del destino, tutto guida e tutto rivolge al bene dell’uni-
verso e del singolo e così espresse l’esigenza profonda-
mente religiosa della sua anima; ma in tal modo, senza
riuscire a superare il disgusto e la stanchezza della vita,
cioè a raggiungere il suo scopo principale, rese più grave
una contraddizione implicita nelle dottrine stoiche. In-
fatti, per queste le cose e gli avvenimenti esterni, indif-
ferenti perchè per sè presi non sono nè veri beni, nè
veri mali, appaiono benefici e pregevoli in quanto vo-
luti dal fato divino e provvidenziale; Marco Aurelio
aggrava questa contraddizione in senso diverso da Se-
neca, perchè con la sua analisi spietata li mostra me-
schini, vani, monotoni, sicchè alla fine conclude che
tutta la vita è fumo e nulla e si domanda : fino a quando
vivrò? D'altra parte, mentre il suo spirito religioso si
sforza di rintracciare ovunque la manifestazione di una
Divinità provvidenziale non riesce a calmare il sospetto
che l’universo sia governato da una necessità inesorabile,
sicchè la lieta e pia sottomissione al volere divino si
discolora nell’accettazione dell’inevitabile legge del de-
stino. Pure, questo stato d’animo lacerato e doloroso,
che si nasconde sotto l'apparente calma e serenità dei
Pensieri, non intacca la profonda, invincibile fede etica
che all'uomo si impone incondizionatamente la legge del
dovere : essa gli comanda (e tutta la vita di Marco Au-
relio prova che egli ha obbedito sempre a questa norma)
di lottare per il bene anche contro il destino : soltanto
quando tale conflitto è riuscito vano, l’uomo si piega
senza un lamento, non passivamente rassegnato, ma
dignitosamente silenzioso, davanti a una forza che lo
184 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
supera. Ed è notevole il fatto, che mentre le dottrine
che insistono sul carattere assoluto del dovere, tendono
ad attenuare il valore dell'amore, Marco Aurelio li col-
lega indissolubilmente e parla dell'amore per tutti gli
uomini, anche per coloro che ci odiano ; dell’obbligo
di far del bene ad ognuno senza eccezione, in termini
che fanno pensare all'insegnamento del Vangelo.
3. Il Neo-Pitagorismo. — Il Platonismo Medio.
Se, come è molto probabile, la basilica di Porta Mag-
giore costruita alla metà del I secolo d. C. e scoperta
nel 1916, apparteneva a una setta religiosa di neo-pi-
tagorici, si deve riconoscere in questo fatto la prova
che il movimento iniziato alla fine della Repubblica da
Nigidio Figulo aveva trovato continuatori sotto l'Im-
pero ; però non si possono determinare in Roma seguaci
di esso. Proveniva invece dall’Iberia il neo-pitagorico .
Moderato di Gades (Cadice), parente di Giunio Moderato
Columella, l’autore del De re rustica, e vissuto, al pari
di lui, nella seconda metà del I secolo d. C. Compose
in greco un’opera in undici libri intitolata IIvdayoprxal
cyoXxt, di cui rimangono frammenti in Simplicio, in
Porfirio e nello Stobeo. Egli affermava che Platone aveva
preso dai pitagorici la teoria della materia e ciò ha fatto
pensare che mirasse a ridurre alla filosofia dei secondi
i fondamenti della metafisica del primo, ma effettiva-
mente interpretava nel senso di un platonismo conce-
pito in modo monistico le teorie matematiche del Pita-
gorismo antico. In questo monismo, che va contro alle
direttive dualistiche del vero pensiero platonico, si può
con lo Zeller riconoscere l’influsso dello Stoicismo. In-
fatti Moderato vedeva in quelle dottrine matematiche
soltanto un simbolismo destinato a rendere accessibili
i primi principi della realtà che non si possono afferrare
facilmente col pensiero ed esprimere col discorso, per
cui si chiamava uno l’unità, l'identità, l'uguaglianza,
la causa dell'armonia e della permanenza di tutte le
.
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
cose, due l’alterità, la differenza, la divisibilità, il cam-
biamento... In tal modo i concetti matematici, perduto
il loro carattere scientifico, si riducevano a simboli di
entità metafisiche. Per Moderato, al vertice di esse sta
l’Uno primitivo, al di là dell’essere o dell’essenza, dal
quale proviene ogni grado della realtà. Sotto la prima
Unità, o Monade, ve ne è una seconda, l’essere reale
o intelligibile, ossia il mondo delle Idee, al quale segue
una terza Unità, l’anima, che partecipa del primo Uno
e delle Idee. All'ultimo posto, al disotto di questa, è
la natura delle cose sensibili, che non partecipa delle
realtà ideali, ma è ordinata sul loro modello. La ragione
originaria (ò Svitog A6yoc), che vuole procedere alla
generazione delle cose sensibili, separa da sè la quan-
tità privandola di tutte le forme : essa proietta un’ombra
che è la materia di tali cose, che viene formata sul mo-
dello delle Idee. In questo passaggio graduale dall’ Unità
primitiva al mondo materiale degli oggetti sensibili si
presenta già il tema fondamentale del Neo-Platonismo ;
ma anche in Moderato si rivela quella tendenza eclet-
tica che caratterizza tutte le filosofie di questo periodo.
Come suo scolaro Plutarco ricorda un Lucio ‘Tirreno
(cioè etrusco), ma lo fa parlare soltanto di precetti pi-
tagorici, non di teorie religiose o filosofiche.
Q. Sossio Senecione (n. forse tra il 55 e il 59) visse
molto tempo in Grecia ove conobbe Plutarco, probabil-
mente verso il 98, cioè poco prima di conseguire il con-
solato (99). Per la parte avuta nella vittoria di Traiano
sui Daci, ottenne le insegne del trionfo e il secondo
consolato (107). Mentre era intimo amico dell’impera-
tore aveva relazioni con i più importanti gruppi cultu-
rali del tempo suo ed era unito da stretti rapporti con
Plinio e anche più con Plutarco, che gli dedicò diverse
opere (il De profectibus in virtute, le Quaestiones Convi-.
viales e le Vite parallele). Da ciò risulta che, senza essere
un pensatore originale, era uomo di non superfigiale .
cultura filosofica ; altre indicazioni di Plutarco fanno
ritenere che, come lui, fosse un seguace del Platonismo
Medio. Sebbene avesse avuto per maestro Musonio Rufo
186 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
e conservasse sempre simpatie per lo Stoicismo è vero-
simile che si avvicinasse al Platonismo Medio, al pari
del suo amico Plutarco, anche C. Minicio Fundano, sena-
tore, console nel 107, poi proconsole d’Asia sotto Adriano
(124-125), che indirizzò a lui il reseritto sui processi dei
cristiani. Persona molto colta, contava numerosi amici
ira le più insigni personalità del tempo suo, come Plinio,
Tacito, Plutarco. Questo ne fece uno degli interlocutori
e il principale espositore del De cohibenda ira; ed è
probabile che gli attribuisse pensieri che, in sostanza,
corrispondono alle sue convinzioni. Lo Zeller, dalle lodi
che M. Fundano rivolgeva a certi precetti di Empe-
docle, inferisce che tendesse verso qualche specie di
Neo-Pitagorismo, ma la cosa è molto discutibile.
Verso il 150 d. C. dovette vivere €. Giulio Sabino,
chiamato da un'iscrizione filosofo platonico. Aderirono
al Platonismo Medio nel II secolo Apuleio, Nigrino,
Severo, un Lucio, un Censorino. Apuleio, di cui non è
sicuro il prenome Lucio, nato quasi certamente a Ma-
daura, ora Mdauruch nel dipartimento di Costantina,
presumibilmente verso il 125 d. C., apparteneva a una
famiglia ricca e distinta. Suo padre era stato uno dei
decemviri jure dicendo della sua città. Ricevuto il primo
insegnamento a Madaura, si recò a Cartagine per com-
piervi studi grammaticali e retorici; e questi ultimi
predilesse sempre in seguito. Poi partì per Atene, ove
coltivò particolarmente la filosofia ; è probabile che là
sia stato scolaro del platonico Gaio, perchè le dottrine
che espone nel De Platone eiusque dogmate concordano
- tanto con quelle del Didaskalikos di Albino (un disce-
polo di quel maestro) da far pensare all'insegnamento
di questo come fonte comune. Apuleio dopo di allora
sì professò sempre platonico, ma il suo platonismo era,
come quello della sua età in generale, piuttosto eclet-
tico e dominato da interessi mistico-religiosi i quali lo
indussero, nel suo soggiorno in Grecia (in cui era dive?
nuto padrone della lingua ellenica), a farsi iniziare in
numerose religioni dei misteri. Inoltre studiò retorica,
poesia, musica, geometria, astronomia e coltivò le scienze
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 187
naturali, specialmente la storia naturale, e rielaborò in
latino le opere di Aristotele e della sua scuola su questi
argomenti. Fece lunghi viaggi, specialmente nell'Asia
greca, spendendovi larga parte del suo patrimonio. Poi
si trattenne a Roma, ove con successo difese cause.
Dopo il suo ritorno in patria, in un viaggio da Madaura
ad Alessandria, si ammalò a Oca (Tripoli) e perciò do-
vette trattenervisi : in quel tempo tenne conferenze che
ebbero successo e così stabili buoni rapporti con Lol-
liano Avito allora proconsole d’Africa. In Oca abitava
un giovane che Apuleio aveva conosciuto in Atene, Si-
cinio Ponziano, il figlio maggiore di Pudentilla vedova
da quattordici anni di Sicinio Amico, dal quale aveva
avuto anche un altro figlio, Sicinio Pudente. Secondo
Apuleio, Ponziano lo indusse a sposare la madre, che
allora desiderava di rimaritarsi, donna ricca, ma non
bella e quarantenne, cioè più anziana di una diecina
d’anni del nuovo coniuge. Sebbene Apuleio trattasse i
figliastri con molta larghezza, i parenti del primo ma-
rito per motivi d’interesse insorsero contro di lui e da
prima lo incolparono della morte di Ponziano, avvenuta
a Cartagine, ma dovettero abbandonare l'accusa; poi
eccitarono il giovanetto Pudente contro il patrigno e
insieme lo accusarono di avere con arti magiche indotto
Pudentilla a sposarlo. Il processo avvenne a Sabratha,
al tempo di Antonino Pio (forse nel 158), davanti al
nuovo proconsole d’Africa, Claudio Massimo, uno dei
maestri di Marco Aurelio e si chiuse con l’assoluzione
o almeno col proscioglimento (per non provata reità)
di Apuleio, che però dovette lasciare Oca perchè i suoi
nemici non disarmavano. In seguito pare che risiedesse
a Cartagine o almeno che vi soggiornasse abitualmente :
ivi si era acquistato il favore del pubblico che ascol-
tava le sue conferenze ; era l’oratore ufficiale della città
che gli aveva eretto statue e lo aveva nominato sacer-
dote della provincia per il culto imperiale. Presumibil-
mente per la sua volontà, non coprì uffici pubblici. È
ignota la data della sua morte (180?).
Apuleio compose opere assai numerose e svariate, |
188 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
in greco e in latino, ma le prime e molte delle seconde
sì sono perdute. Rimangono due opere retoriche, il De
magia 0 Pro se de magia e i Florida; un romanzo, le
Metamorphoses ; due trattati filosofici sicuri, il De deo
Socratis, e il De Platone eiusque dogmate, e due discussi,
il Ilepl Epunvetac e il De mundo. De magia è il titolo
dell’Apologia, o auto-difesa contro l’aceusa di magia. I
Florida sono una specie di antologia di discorsi di Apu-
leio (composti, pare, sotto M. Aurelio e L. Vero) e con-
tengono ventitrè estratti di lunghezza diversa. Siccome
son divisi in quattro libri, seguono il piano di una rac-
colta di orazioni complete, ripartite ugualmente, fatta
dall'autore. Non si possono determinare nè il criterio
della scelta, nè lo scopo di essa; si ritiene sia l’opera
di uno scolaro. Le Metamorphoses, l’opera maggiore di
Apuleio, narrano le avventure di un giovane greco,
Lucio, che, trasformato in asino per effetto di magia,
ridiventa uomo con l’aiuto di Iside, dopo aver man-
giato una corona di rose, portata da un sacerdote della
dea in una cerimonia in onore di essa. Il romanzo si
accorda, nella narrazione principale, con un breve scritto
greco, Lucio o l’Asino, attribuito a Luciano : lo stesso
argomento poi era trattato nelle perdute Metamorfosi
di Lucio di Patre. Però, siccome nello seritto lucianeo
il protagonista è chiamato Lucio, alcuni ritengono che
lo studio perduto fosse anonimo o portasse un nome
falso : sui rapporti fra queste tre composizioni sono state
presentate ipotesi assai diverse. Il De deo Socratis,
svolgendo cenni platonici, tratta dei demoni, esseri inter-
mediari, fra i quali è posto quello di Socrate. Il De Pla-
tone eiusque dogmate è un’introduzione allo studio di
Platone che riguarda tutta la fisica, cioè la metafisica
e la filosofia della natura (1. I) e l’etica [e la politica]
(1. II): manca il terzo libro sulla dialettica, mentre
esiste un trattatello di logica formale, il Iepì èpunvetag,
che però costituisce un lavoro a sè. Viene attribuito
ad Apuleio, ma l’autenticità n'è stata contestata, seb-
bene in modo non decisivo ; il carattere non platonico,
ma aristotelico di esso, si può spiegare con l’eclettismo
DA' AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 189
dell’epoca. Del pari non è dimostrato il carattere apo-
crifo del De mundo, che è una rielaborazione dello scritto
pseudo-aristotelico che porta lo stesso titolo, composto
probabilmente alla fine del I o all’inizio del II secolo
a. C. Apuleio compose molte altre opere ora perdute,
che sono menzionate da lui nell’Apologia o da autori
posteriori. La prima ricorda seritti naturalistici in greco
e in latino, che riguardano soprattutto la zoologia e in
modo particolare i pesci. Sono ricordati anche altri
scritti scientifici (De arboribus, De re rustica, Medici-
nalia, Astronomica, De arithmetica, De musica). Apuleio
ha composto inoltre discorsi diversi, una traduzione del
Fedone, il romanzo Hermagoras di cui rimangono due
frammenti, poesie in tutti i generi, Quaestiones convi-
viales, un De republica : esistono allusioni a un’Epitome
historiarum e a un ’Eporixéc, che pare fosse una rac-
colta di aneddoti amorosi. Si giudicano apocrifi il trat-
tato Asclepius (che fa parte della collezione ermetica)
e gli seritti De herbarum virtute, De remediis salutaribus,
Physiognomonica.
È chiaro che Apuleio, che si professava filosofo, in-
tendeva per filosofia sia l’attività letteraria e retorica,
sia il sapere in generale (umanistico, matematico, na-
turalistico, speculativo e religioso) di cui la vera e propria
filosofia costituiva soltanto una piecola parte. Certa-
mente, per i suoi gusti, le sue consuetudini letterarie
e stilistiche, le sue attività di oratore e di maestro di
eloquenza, egli fu essenzialmente un retore che si può
avvicinare ad altri retori contemporanei, i rappresen-
tanti della seconda sofistica greca e autori come Fron-
tone nel mondo latino ; ma, come è stato più volte no-
tato, si distingue da loro, che erano completamente in-
differenti al contenuto della loro virtuosità formale o
almeno lo subordinavano completamente ad essa, perchè
era animato da un desiderio vivo e sincero di dominare
tutto il sapere contemporaneo, sebbene si contentasse
di un encielopedismo superficiale, in quanto non appro-
fondiva le questioni trattate e si limitava a giustap-
porre, senza rielaborazione personale, ciò che aveva ap-
‘ scienza contemporanea, che costringe sempre più la
190 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
preso da altri. Non si riconosce però abbastanza che
se in Apuleio non esiste un interesse che sia la radice
degli altri, vi è però una preoccupazione più forte di © —
tutte, quella religiosa, che si colora di misticismo da
una parte, di occultismo e di superstizione dall’altra @
che concorda con la tendenza predominante della co-
speculazione filosofica ad assumere l'aspetto teologico
di una teoria della redenzione e della salvezza. Alla
preoccupazione religiosa si subordinano in Apuleio sia
le speculazioni filosofiche, sia gli studi scientifici, che
allora male si distinguevano dalle discipline occulte e
dalla magìa in particolare. Sotto questi aspetti egli si
muove, su un piano senza confronto interiore, lungo le
direttive di Posidonio (che egli però non mostra di cono-
scere), di cui da una parte diluisce le svariate ricerche
scientifiche personali in compilazioni enciclopedistiche
e, dall’altra sviluppa ed esaspera i germi di misticismo
di occultismo e di superstizione.
Perciò, certi padri della Chiesa (Lattanzio, S. Girolamo,
S. Agostino) lo avvicinarono ad un taumaturgo come
Apollonio di Tiana e contrapposero l’uno e l’altro a Gesù,
e più tardi, l'età medioevale vide in Apuleio un mago.
Come si è già accennato, il suo platonismo ha carattere
eclettico, perchè avvicina all'insegnamento della scuola
platonica teorie di altre fonti (pitagoriche, aristoteliche)
e delle religioni dei misteri. Con Platone, Apuleio distin-
gue due sostanze o essenze, che unite generano ogni cosa
e lo stesso universo : l’una, che è afferrabile soltanto col
pensiero, è sempre uguale a se stessa, eterna e vera-
mente è; l’altra che può cadere sotto i sensi si deve
valutare con l'opinione sensibile e irrazionale, nasce e
muore e (si può dire) non esiste veramente. In un testo,
la prima essenza include Dio, la materia, le forme delle
cose (o Idee) e l’anima, in un altro, che più si conforma
a Platone, l’anima non è annoverata fra i primi prin-
cipi. Dio è incorporeo, uno, immisurabile, è il genera-
tore delle cose, è felice e rende felici, è ottimo, è libero
dai vincoli della passività e dell’attività. È ineffabile
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 191
e a stento può balenare talvolta per un istante ai sa-
pienti, quando sono giunti, nei limiti della possibilità,
a separarsi dal corpo. Al disotto della suprema Divi-
nità stanno gli altri Dei; quelli visibili (o i corpi ce-
lesti) e quelli invisibili, come i dodici dell'Olimpo, esseri
animati, incorporei, superiori'a ogni contatto col corpo,
senza principio nè fine, buoni per se stessi. Non è chiaro
il rapporto di questi Dei con l’Iside esaltata nelle Meta-
morfosi, che chiama se stessa « madre della natura delle
cose, signora di tutti gli elementi, progenie iniziale dei
secoli, superna dei numi, regina dei mani, prima dei
celesti, uniforme aspetto di tutti gli Dei e le Dee», ma
che si identifica soltanto con svariate divinità femminili
(XI, 5). Come nelle religioni dei misteri in generale,
si nota qui la tendenza a ridurre tutto il pantheon pa-
gano a una sola Divinità, pur non negando l’esistenza
indipendente di altre personalità divine. Inoltre è oscuro
il rapporto tra questa Divinità, che personifica la po-
tenza della natura, e quella suprema e ineffabile. La
speculazione filosofica derivata da Platone e l’intuizione
religiosa dei misteri, così giustapposte, rimangono diver-
genti. Delle Idee Apuleio molto inesattamente afferma
una volta che sono «non circoseritte, prive di forma,
non distinte per aspetto o qualità » (inabsolutae, informes,
nulla specie nec qualitatis significatione distinetae : De
Plat. ciusque dogm., I, 5); meglio altrove le presenta
come forme semplici, eterne, incorporee di tutte le cose
(ivi, 6). La materia è increabile e incorruttibile ; essendo
grandezza illimitata è infinita. Originariamente informe,
ha la capacità di ricevere figure e divisioni e non è nè
corporea, nè incorporea. Essa è il principio di tutti i
corpi, in quanto Dio, imprimendovi le immagini delle
Idee (forme o modelli delle cose), ne ha fatto uscire i
quattro elementi, che poi, combinandosi, hanno gene-
rato tutti gli altri esseri, animati e inanimati, del mondo.
Questo ha avuto origine; ma siccome ha per causa
Dio, la sua durata è senza termine. Sebbene parli, non
dell'anima cosmica, ma di quella celeste, è chiaro che
Apuleio ammette con Platone, che essa, che è la fonte
192 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
di tutte le altre anime (che senza eccezioni sono incor-
poree e imperiture), è inclusa nell'universo. Egli la
chiama una mente, la dice sapientissima, indicando così
che è una sostanza razionale ; e insieme la denomina
una virtù (o potenza) generatrice. Tutto ciò che avviene
naturalmente, e perciò in modo retto, è governato dalla
Provvidenza, che è un pensiero divino che tutela la
prosperità di ciò cui si riferisce ; essa si attua per mezzo
di quella divina legge che è il fato, col quale coincide,
Ma non tutto è governato dal fato, perchè vi sono cose
che dipendono da noi o dalla fortuna. Degli esseri ter-
restri il più elevato è l’uomo in cui l’anima è la signora
del corpo. Con Platone, vi distingue tre parti : la razio-
nale, l’irascibile e la desiderativa o appetitiva. Non è
chiaro se limiti l'immortalità alla prima o la estenda a
tutte e tre. Gli Dei e gli uomini sono del pari esseri ani-
mati, ma i primi differiscono fortemente dai secondi
soprattutto perchè risiedono in un luogo sublime : in-
fatti, lontano da noi, conducono una vita perenne e
beata, hanno una natura perfetta, mentre gli esseri
umani, pure avendo un'anima immortale, sono mortali
rispetto al corpo e sono immersi nelle miserie, sicchè
la loto vita è tutta un lamento. Siccome gli Dei non
possono entrare in rapporto con gli uomini, debbono
esistere certe potenze divine intermedie, che risiedono
nell’aria, che sta fra l’etere superiore e la nostra infima
terra, i quali hanno l’ufficio di rendere noti agli Dei i
nostri desideri e i nostri meriti. Chiamati demoni dai
Greci, arrecano agli abitanti del cielo preghiere e ri-
chieste, a quelli della terra doni e soccorsi. I demoni
sono come gli uomini, esseri animati, ragionevoli, ma
capaci di provare passioni; posseggono la qualità pro-
pria di vivere nell’aria e hanno in comune con gli Dei
l'immortalità dell’esistenza. Apuleio, nella demonologia
largamente sviluppata del De Deo Socratis (che muove
da alcuni cenni del Simposio platonico, ma segue le
direttive del pensiero di Posidonio) attribuisce ai demoni
i miracoli della magia, tutto ciò che fa conoscere il fu-
turo e dalle differenze delle loro predilezioni fa deri-
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 193
vare quelle delle istituzioni e delle pratiche religiose.
Fra i demoni più elevati, che sono liberi da vineoli cor-
porei, si trovano quelli che sono testimoni e custodi
della vita di ogni uomo, di cui conoscono non soltanto
le azioni, ma anche i pensieri: dopo la morte, portano
le anime davanti al tribunale che le deve giudicare e
con la loro testimonianza ne determinano le sentenze.
Le anime umane in un certo senso sono chiamate de-
moni anche quando sono ineluse nel corpo, in un altro
uando ne sono uscite (i Lemwures).
Meno importante è lo studio dell’etica, del libro II
del De Platone, di cui basta ricordare alcuni concetti.
Ufficio della filosofia morale è insegnare come si possa
giungere alla vita beata, cioè al sommo bene (le espres-
sioni sono prese non a Platone, ma alle filosofie elle-
nistiche). I primi e più elevati beni esistono per sè,
mentre gli altri sono tali grazie al sapere di chi ne usa.
I beni primi sono Dio e quella intelligenza che Platone
chiàma vods, di cui però Apuleio nulla dice in seguito ;
inoltre, quelli che ne derivano, cioè le virtù dell’anima :
la prudenza, la giustizia, la pudicizia (che qui è sosti-
tuita alla temperanza), il coraggio. Mentre questi beni
sono divini, sono umani quelli che riguardano le como-
dità del corpo e quelli che si chiamano esterni. I se-
condi sono beni per i sapienti che usano misura e ra-
gione, mali invece per gli stolti e per coloro che ne igno-
rano l’uso. A ciò segue l’esame (piuttosto sconnesso)
delle virtù e dei vizi che si può omettere, per ricordare
che, secondo Apuleio, fine della sapienza è far sì che chi
la possiede segua e imiti Dio ; ma per far ciò deve unire
l’azione alla conoscenza teoretica, perchè la somma Di-
vinità non si limita a considerare la totalità delle cose,
ma anche regge queste con la sua provvidenza. Tra-
scorsa piamente la vita, l’anima del sapiente risiederà
con i beati e si unirà ai cori degli Dei, dei semidei. Lo
studio della morale individuale è seguito da quello della
politica, in cui Apuleio segue da vicino la Repubblica
e le Leggi di Platone. Anche rispetto alla suprema fina-
lità della vita si incontra la divergenza tra la specnla-
PA e E
Î
194 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
zione filosofica e l’intuizione religiosa dei culti dei mi-
steri che si è già osservata sopra. Infatti, mentre nel
De Platone... la felicità dovrebbe consistere nel pos-
sesso del sommo bene, cioè nella conoscenza di Dio e
nella imitazione della sua opera (per quanto è difficile
che ciò possa ammettersi quando si ritiene che soltanto
in rari istanti può lampeggiare alla mente la visione
della più alta Divinità), le cose appaiono completamente
diverse nelle Metamorfosi. Qui Iside, che è chiamata la
santa e perpetua salvatrice del genere umano, che con-
cede un dolce affetto di madre alle sventure dei miseri
(e che perciò ocenpandosi delle cose umane, dovrebbe
essere soltanto un demone, non una Divinità, anzi quella
in cui tutte tendono a risolversi) non soltanto offre a
Lucio un porto di riposo al sicuro dai colpi della for-
tuna, ma fa sì che egli, nel rito iniziatorio, oltrepassato
il limite di Proserpina, attraversi le sfere di tutti gli
elementi e veda da vicino gli Dei inferi e superi. Così
egli, superata la morte, nato a nuova vita, diventa
l’immagine vivente della divinità solare Osiride. Sic-
come si dice che a Iside prestano culto i superi, è dif-
ficile ammettere che debba condurre verso la Divinità
suprema e ineffabile alla quale le Metamorfosi non ac-
cennano affatto. Per complicare le cose, la storia di
Amore e Psiche inclusa nel romanzo quasi certamente
raffigura le sorti dell'anima che dopo prove dolorose
riesce, col favore divino, a conseguire l'immortalità
beata: ora, non soltanto vi è incerto il significato di
Eros, ma anche vi si attribuisce la salvazione della sua
amante all'aiuto di Giove. In complesso, le preoccupa- +
zioni religiose rimangono sempre predominanti in Apu-
leio, ma per la loro natura svariata ed eterogenea, non
riescono ad organizzarsi in modo coerente, anzi, si ha
.l'impressione che l'accento posi piuttosto sulle credenze
dei culti dei misteri che sulle speculazioni filosofico-
teologiche. Spetterà al Neo-Platonismo compiere ciò
.che nei suoi predecessori è soltanto abbozzato.
Verso la metà del II secolo d. C. deve essere vissuto
Nigrino, filosofo platonico, che Luciano dice di aver
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO 195
visitato a Roma nel dialogo omonimo che gli inviò con
una dedica. Le affermazioni che gli attribuisce non in-
cludono nulla che porti l'impronta di una scuola deter-
minata, ma ciò può dipendere dalla natura dell’argo-
mento trattato, le lodi di Atene, messa in contrasto con
Roma, che permetteva di condannare la ricerca delle ‘
ricchezze e del lusso, ma poco si prestava alla determi-
nazione di una posizione filosofica piuttosto che di
un’altra.
Al Platonismo Medio appartenne anche Severo, vis-
suto probabilmente verso la metà del II secolo d. C.:
sulla sua vita mancano notizie. Di lui Proclo ricorda
un commento al Timeo, ed Eusebio riproduce un lungo
frammento Sull’anima, che però poteva far parte sia
di quell’opera che di un trattato particolare. Da studi
psicologici provengono anche le notizie che di lui ci dà
lo Stobeo. Le informazioni che si hanno sulla sua filo-
sofia, se non permettono di ricostruirla in modo orga-
nico, mostrano che aveva carattere eclettico perchè in-
cludeva, con le platoniche, teorie stoiche, peripatetiche
e neo-pitagoriche ; ma le seconde imprimevano a quel
pensiero una tendenza monistica contrastante col dua-
lismo di Platone. Infatti, conformandosi alla teoria
stoica delle categorie, Severo considerava come genere
sommo, posto sopra l’essere e il divenire, il +{ (qualche
cosa), inteso come cò mèv (il tutto). Si collega all’ini-
ziativa di Posidonio, seguita poi da continuatori sempre
più numerosi, lo sforzo di porre fra opposti, termini
intermedi. Così, interpretando la teoria platonica del
Timeo sulla composizione dell'Anima Cosmica, Severo
concepiva questa come una realtà geometrica costituita
dal punto indivisibile e dalla estensione divisibile. In
tal modo tra la realtà indivisibile'e sempre identica (0
ideale) e quella divisibile che diviene nei corpi (o sen-
sibile) di cui parla il Timeo (35 a) erano interposte due
realtà matematiche, l'una indivisibile, l’altra divisibile.
Questo matematismo ha fatto pensare a influssi neo-
pitagorici, ma potrebbe derivare dall'ultima filosofia di
Platone. La stessa tendenza a cercare intermediari si
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196 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
manifesta nella critica rivolta alla distinzione fatta da
Platone di due parti dell'anima, l’una impassibile e
l’altra no (veramente egli distingueva la parte razionale
e immortale da quella irrazionale e mortale); secondo
Severo in tal modo essa anima non sarebbe imperitura,
perchè i due elementi opposti si dividerebbero se un
terzo non li congiungesse. Ritenendo quella teoria un
adattamento alla mentalità comune, sostituì (come prima
di lui aveva fatto Posidonio) la dottrina platonica delle
parti dell'anima con quella aristotelica delle facoltà o
potenze di essa. Come fondamento di tutte le funzioni
conoscitive pose il logos. Sulla questione se Platone
avesse ammesso o no la perennità del mondo, che era
stata risolta in modi opposti, Severo presentò la tesi
che esso in senso proprio non ha avuto origine, ma che
quello attuale è stato generato : così riprendeva la teoria
di un mondo perenne ‘in sè, che però si forma e si di-
strugge periodicamente. In complesso, si nota in Se-
vero un antecedente significativo del Neo-Platonismo.
Sembra che appartenesse al Platonismo Medio un
Lucio, di cui si sa soltanto che compose un’ampia eri-
tica delle categorie aristoteliche, seguita da Nicostrato
(suo contemporaneo, a quanto sembra, fiorito e. 160-
170 d. C.): dall'opera del secondo ha tratto numerosi |
frammenti Simplicio. Si ritiene che lo seritto di Nico- |
strato, e quindi di Lucio, rappresentasse la corrente
ortodossa del Platonismo : la critica più importante ri-
volta ad Aristotele era che la sua teoria unitaria delle
categorie non rispettava il contrasto della sfera intelli-
gibile e di quella sensibile. Le critiche di Nicostrato e.
quindi anche di Lucio, occuparono un posto centrale
nelle discussioni sulla dottrina aristotelica delle cate-
gorie che si svolsero entro il Neo-Platonismo. di
Di Censorino, Alessandro d’Afrodisia ricorda e di.
seute una teoria dei colori.
DA AUGUSTO AL NEO-PLATONISMO
4. Filosofi senza indirizzo determinato.
Non si può dire a quale scuola appartenessero Giulio
Grecino, dell’ordine senatorio, padre di Agricola, chia-
mato da Seneca wir egregius, e Marciano, che Marco
Aurelio ricorda fra i suoi maestri. Il primo fu mandato
a morte da Caligola, al quale, a quanto narra Tacito,
era venuto in odio perchè emergeva per eloquenza e
sapienza (filosofia) : scrisse un’opera di viticultura che
servì di fonte a Celso. Contiene notizie che riguardano
la storia della filosofia l’opera di Aulo Gellio (n. e. 130
d. C. a Roma? ; m. ?), che ebbe da prima per maestri
principali Frontone e Favorino e anche più in Atene il
platonico Calvisio Tauro. Conobbe il cinico Peregrino
Proteo ed Erode Attico. Ritornato a Roma ebbe l'uffi-
cio di giudice nei judicia privati: poi seguì liberamente
le sue tendenze letterarie. Fin da giovane cercò di rac-
cogliere le cose più importanti e più interessanti che
aveva letto e mentre soggiornava nell’ Attica incominciò
ad attuare il suo progetto nell’opera intitolata Noctes
Atticae (pubblicata nel 169 o nel 175), in 20 libri, che,
ad eccezione dell'VIII e di varie lacune, ci sono giunti.
È una miscellanea che parla di ogni sorta di argomenti
e discute questioni di tutti i generi, inclusa la filosofia.
Aulo Gellio si occupa della vita degli scrittori, cita passi
di opere (spesso perdute), tratta di questioni di imita-
zione, di autenticità, di eritica del testo... Piuttosto
che presentare le questioni in modo sistematico, si com-
piace di farle trattare da persone che conversano o di-
seutono. Un Censorino grammatico, autore di un libro
De accentibus di cui rimangono due frammenti, compose
nel 283 lo seritto De die natali, di svariato contenuto,
che include un elenco delle opinioni dei filosofi greci
sulla generazione umana e su argomenti affini derivato
da Varrone. Si occupò di filosofia Giulia Domna, moglie
di Settimio Severo.
Piuttosto che la filosofia, coltivò gli studi teologici
e le antichità religiose Cornelio Labeone, che cercò di
198 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
far rivivere le antiche credenze del paganesimo interpre-
tandole allegoricamente. È incerta la sua cronologia,
ma siccome sembra che Arnobio, pure non nominandolo,
polemizzi contro di lui e lo consideri come un autore
ancora attuale, lo si può collocare nel III secolo. Sa-
rebbe stato un contemporaneo di Plotino, ma (sebbene
annoverasse Platone tra i semidei) non vi è ragione di
considerarlo un neo-platonico, come è avvenuto, perchè
in ciò che altri autori hanno conservato dei suoi scritti
non si incontrano le teorie caratteristiche di quella
scuola. Scrisse certamente due opere, De oraculo Apol-
linis Qlarii, De dis animalibus. Sono incerte altre tre :
De dis penatibus, Fasti, Disciplina etrusca. Probabil-
mente il De oraculo esponeva un sistema teologico in
cui si affermava la tendenza a identificare diverse grandi
divinità e a interpretarle in senso fisico, come realtà
naturali fondamentali (sole, luna, terra). Sotto queste
divinità maggiori (di selecti) pare stessero esseri divini
inferiori (numina), suddivisi in buoni e malvagi, in un
grado più basso di essi stavano i semidei e gli eroi. Fra
questi e gli uomini si trovano i demoni, pure distinti in
buoni e cattivi. Questa distinzione si trova già in Se-
nocrate, sicchè non vi è ragione di considerarla neo-pla-
tonica. Più verosimile è che la teoria di esseri divini
buoni e malvagi riveli in Labeone influssi etruschi. Nel
De dis animalibus faceva provenire certe figure divine.
(come i Penati, i Lari) dalle anime umane; forse le
collegava ai demoni. Gli seritti di C. Labeone erano _
importanti soprattutto perchè fondati sullo studio am-
pio e profondo delle opinioni di autori più antichi, come ©
Varrone e Nigidio Figulo, di cui hanno trasmesso la
conoscenza agli scrittori cristiani,
CapritoLo IV.
Il Neo-Platonismo.
Il Neo-Platonismo, verso il quale confluivano le mag»
giori correnti filosofiche e religiose dei primi secoli del-
Pera cristiana, iniziato in Alessandria da Ammonio Sacca
(circa 175-242), venne fondato come sistema dal suo
discepolo Plotino (n. a Licopoli in Egitto circa 203-204,
m. 269-270), che già quarantenne si recò a Roma, ove
per ventisei anni insegnò con molto successo e poi,
gravemente ammalato, si trasferì nella Campania, ove
chiuse la vita. Questo indirizzo, che per secoli costituì
la filosofia del paganesimo declinante, assunse aspetti
diversi nelle scuole che si costituirono in vari centriz
Porfirio di Tiro, il maggiore degli scolari di Plotino,
vissuto lungamente in Roma e in Sicilia, fu maestro di
Giamblico, fondatore della scuola siriaca essenzialmente
teosofica e teurgica, alla quale si collegò strettamente
quella di Pergamo, cui appartennero Giuliano l’ Apostata
e Sallustio. Giamblico, sotto diversi rispetti, fu seguito
anche dalla scuola di Atene, che però diede maggior
posto alla speculazione metafisica e commentò intensa-
mente le opere platoniche e soprattutto aristoteliche.
Questa scuola, che ha il maggior rappresentante in
Proclo, venne chiusa al tempo di Damascio e Simplicio
da Giustiniano che nel 529 vietò che in Atene si inse-
gnasse filosofia. Collegata con quella di Atene era la
scuola di Alessandria, che prediligeva l’esegesi plato-
nica e aristotelica, ma coltivava, invece delle specula-
zioni metafisiche e del misticismo religioso, le ricerche
matematiche e naturalistiche. Sotto questi rispetti le
sì avvicinano i neo-platonici occidentali. Il Neo-Pla-
tonismo trovò i suoi seguaci più significativi e più nu-
merosi, non nell’Occidente latino, ma nell’Oriente elle.
200 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
nico. Scolaro di Ammonio Sacca fu Antonino che, al
pari del suo condiscepolo Longino, sostenne contro Plo-
tino che le Idee esistono fuori dell’Intelletto (univer-
sale). Amelio Gentiliano, nato in Etruria, fu da prima
discepolo di un Lisimaco (probabilmente lo stoico);
‘ ma in seguito (246) si recò da Plotino, di cui seguì l’ine
segnamento sino al 269, nel quale anno si trasferì in
Apamea, ove dovette risiedere a lungo, perchè fu de-
nominato Apameo. Con Porfirio, è l’unico discepolo di
Plotino di cui risulti la produzione scientifica. Pubblicò
opere numerose e prolisse, scritte con esposizione ornata.
Raccolse le lezioni di Plotino in 100 libri, lo difese dal-
l'accusa di essere stato un plagiatore di Numenio (un
neo-pitagorico della seconda metà del II secolo d. C.)
in un’opera dedicata a Porfirio sulle differenze tra l’uno
e l’altro, e in due seritti ribattò le eritiche che questo
aveva rivolto al maestro ; trattò del carattere della filo»
sofia di esso in una lettera indirizzata a Longino. Inoltre
compose un’opera in quaranta libri contro un oracolo
attribuito da autori cristiani allo pseudo-Zostriano e
diede forma scritta a quasi tutti gl’insegnamenti di Nu-
menio che, inoltre, riassunse e imparò a memoria : si
discute se abbia composto commenti al Timeo e alla
Repubblica di Platone. In complesso, era uno serittore
privo di originalità, che seguiva da vicino le orme di
Plotino, ma non penetrava nel suo pensiero più profondo:
e ne collegava gl’insesnamenti con la mistica numerica
del Neo-Pitagorismo e con dottrine di Numenio. Da
questo deve aver preso la partizione dell’Intelletto in
tre Demiurghi ; per contro, si opponeva alla distinzione
fatta da Plotino fra le anime particolari e l’universale
e considerava le prime come diversi modi di presentarsi
della seconda. Anche nella sua mistica numerica e nelle
accentuate tendenze superstiziose si allontanava assai
da Plotino. Secondo Porfirio, ascoltarono questo molti
senatori e fra essi si occuparono di filosofia principal-
mente Marcello Oronzio, Sabinillo (cons. 366) e Ro-
gaziano. Quest'ultimo, meritandosi i più vivi elogi del
maestro, abbandonò l’ufficio di pretore, rinunciò ai suoi
IL NEO-PLATONISMO ì 301
averi, mandò liberi i suoi schiavi e si recò ad abitare
presso amici, digiunando un giorno su due. Particolare
riverenza per Plotino, sebbene seguisse la carriera pub-
blica, provava Castricio Firmo, che si era affezionato
a Porfirio come un fratello: questo gl’indirizzò il trattato
Sull’astinenza quando, dopo la morte del maestro, Ca-
stricio abbandonò il regime vegetariano. Assai devote a
Plotino e affezionate alla filosofia erano anche alcune
donne, fra le quali Gemina nella cui casa abitava, e la
figlia di lei che portava lo stesso nome. L'imperatore
Gallieno e la moglie sua Salonina onoravano assai il
filosofo che, se non fosse intervenuta l’azione ostile di
persone malevole della corte, avrebbe ottenuto che ve-
nisse restaurata una città distrutta della Campania che
avrebbe ricevuto il nome di Platonopoli e sarebbe stata
abitata da filosofi che avessero obbedito alle leggi di Plato-
ne. Fra i discepoli di Porfirio (che gli dedicò la Zntrodu-
zione alle Categorie e altri scritti) è ricordato il romano
Crisaorio, che secondo alcune testimonianze era senatore.
La personalità più notevole dei neo-platonici romani
è quella dell’imperatore Giuliano (Flavio Claudio), che
però interessa la storia politica e della religione più di
quella della filosofia. Nato a Costantinopoli nel 311 d. C.
da Giulio Costanzo, figlio di Costanzo Cloro, rimase pre-
stissimo orfano della madre Basilissa, poi, nei massacri che,
all’ascesa al trono dei figli di Costantino, spensero tutti i
discendenti di Costanzo Cloro ad eccezione di lui e del
fratello maggiore Gallo, perdette il padre e un fratellastro,
Giuliano da prima fu inviato a Nicomedia, poi, col
fratello Gallo, venne relegato per sei anni nella villa di
Macellum, in Cappadocia. In questo tempo coltivò lo
studio della letteratura classica e della religione. Co-
stanzo II, che non aveva eredi ed era in contrasto col
fratello Costante, nel 347 chiamò a Costantinopoli
Gallo per prepararlo alla successione e dopo avergli af-
fidato il governo dell’Oriente, nel 351, rimasto unico
capo di tutto l'impero, gli conferì il titolo di Cesare e
gli diede in moglie la sorella Costanza. Giuliano proseguì
i suoi studi a Costantinopoli e a Nicomedia e, ottenuto
202 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
il permesso di viaggiare, potè conoscere i maggiori di-
scepoli di Giamblico, subendo soprattutto l’influsso di
Massimo di Efeso, che era essenzialmente un teurgo.
Così, a vent’anni, Giuliano, educato nel Cristianesimo,
se ne allontanò per abbracciare una dottrina filosofica
religiosa che fondava e giustificava il politeismo pagano.
Nel 354, Costanzo II fece uecidere Gallo, che aveva
eccitato sempre più i suoi sospetti e fece trattenere a
Milano Giuliano, che, grazie alla protezione del.
l'imperatrice Eusebia, ebbe il permesso di recarsi a
Costantinopoli, ove però era sospettato dal sovrano e
insidiato da cortigiani ostili. Per un nuovo intervento
di Eusebia gli giunse l'ordine di dimorare in Atene
(354), ove si immerse negli studi filosofici. Alla fine
del 356, l’imperatore, che non aveva eredi, lo richiamò
a eorte, lo nominò Cesare, lo sposò alla sorella Elena
e gli affidò l’incarico di ristabilire l'ordine nelle Gallie,
minacciate dai Germani e presidiate da truppe infide.
Giuliano (che aveva ricevuto le insegne consolari il 19
gennaio 356) riuscì ad assicurarsi l'affetto dei soldati e
a riportare importanti successi sui Franchi e gli Ale-
manni (356-358). Costanzo II, che lo temeva, gli ordinò
di inviare in Oriente, contro la Persia, le migliori le-
gioni galliche, ma queste si ribellarono e proclamarono
imperatore Giuliano, che finì per accettare la nomina
(359). Dopo inutili trattative, si difese dalle accuse ri-
voltegli dall'imperatore con lettere indirizzate al Se-
nato di Roma, agli Ateniesi, agli Spartani e ai Corinzi
e mosse contro il cugino, che, mentre cercava di chin-
dergli la strada dell'Oriente, morì improvvisamente de-
signandolo suo suecessore. Giuliano, entrato trionfal-
mente a Costantinopoli alla fine del 361, gli rese solenni ‘
onori e l’apoteosi; ma se ne rispettò la memoria, cercò
di colpire i suoi cortigiani e consiglieri. Nello stesso
tempo (mentre sul modello di Marco Aurelio, conduceva
vita severa e rigida e lavorava in modo assiduo per lo
stato e per gli studi) riduceva il numero dei funzionari
della corte, la liberava dal lusso e dalle mollezze che vi
dominavano, affidava gli uffici a uomini insigni per
IL NEO-PLATONISMO 203
valore intellettuale e morale, intraprendeva riforme am-
ministrative, giudiziarie e finanziarie. Appena salito al
trono stabilì la restaurazione della religione e del culto
del paganesimo al quale in segreto era stato devoto
da molti anni, sperando così di far risorgere la grandezza
dell'antichità greca e romana. Quando ancora sì trovava
in Gallia, aveva proclamato la tolleranza verso i cristia-
ni, ma la lotta in difesa del paganesimo mise capo alla
persecuzione. Se alcuni incidenti di violenza pagana,
che l’imperatore non seppe reprimere, mon corrispon-
devano alle sue volontà, la posizione privilegiata che
egli riservava alla religione pagana (nei suoi miti ve-
deva verità rivelate dagli Dei), la riorganizzazione del
suo culto, sul modello cristiano, implicavano la sua vit-
toria sul Cristianesimo, che Giuliano si sforzò di indebo-
lire, escludendo i suoi seguaci dai pubblici uffici e, s0-
prattutto, dall’insegnamento. Se così suscitò l’opposizione
dei cristiani, non riuscì a infondere nuova vita al pagane-
simo, i cui fautori diedero prova di fiacchezza e di man-
canza di entusiasmo. Mentre svolgeva la sua lotta antieri-
stiana, Giuliano preparava, prima a Costantinopoli, poi
ad Antiochia la campagna (362-363) contro il re di Persia
Sapore II. Ottenne alcuni successi, ma per le difficoltà
del terreno fu costretto a ritirarsi e in uno scontro vit-
torioso col nemico venne mortalmente colpito con una
freccia. Impassibile davanti alla morte, spirò poco dopo,
a trentadue anni (26 giugno 363). Soltanto in uno serit-
tore cristiano del V secolo, Teodoreto, appare ‘per la
prima volta la leggenda che spirando esclamasse : « Hai
vinto, o Galileo!». Il suo cadavere fu riportato a Tarso.
Giuliano serisse in greco opere in gran parte conser-
vate. Ci restano Orazioni (I-VIII), la Lettera agli Ate-
niesi, la Lettera al filosofo Temistio, I Cesari o La festa
dei Saturnali o il Banchetto, il Misopogon, numerose
lettere e aleune leggi : inoltre, numerosi frammenti, tra
i quali sono particolarmente importanti quelli di una
opera Contro î Cristiani (conservati nella confutazione
fattane da $. Cirillo d’Alessadria) e un frammento di
un’epistola a un sacerdote, Si sono perduti un libro
IA
204 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
Sulla battaglia di Strasburgo e le Lettere ai Corinti, ai
Lacedemoni e al Senato di Roma. Sono infondate le sup-
posizioni rispetto ad altri scritti perduti. L'ordinamento
eronologico che appare preferibile, in complesso, è (un
po modificato) quello del Bidez. Orazioni I, III, Ik;
Libro sulla battaglia di Strasburgo ; Or. VIII (seritti
nelle Gallie) ; Lettere agli Ateniesi, ai Corinti, ai Lace-
demoni, al Senato di Roma, al filosofo Temistio (seritte
prima dell'entrata a Costantinopoli); Or. VII, V, VI
(o VII, VI, V, scritte a Costantinopoli) ; Or. IV; I
Cesari, Misopogon; Frammenti da un’epistola ; Contro
î Cristiani (scritti in Antiochia). Secondo alcuni, I Ce-
sari furono composti a Costantinopoli. Le Or. I e III
(Panegirici di Costanzo II e di Eusebia) debbono essere
State composte nelle Gallie (dicembre 355-giugno 356).
L’Or. II (sulle imprese di Costanzo o sulla monarchia,
scritta per dissipare presumibili sospetti di questo, nel.
l'inverno 358-359) ha per vero oggetto la rappresenta
zione e l’esaltazione del sovrano ideale; vi appaiono
già alcuni pensieri centrali della dottrina di Giuliano.
Il libro Sulla battaglia di Strasburgo narrava anche gli
antecedenti di essa. L’Or. VIII, seritta da Giuliano per
consolarsi della partenza del suo questore e amico Sal-
lustio (Saturnino Secondo Saluzio 0 Salustio) è anche
un protrettico al partente, che egli poi nominò prae-
fectus praetorio Orientis, alla fine del 361. Giuliano lo
dice greco. È stato identificato con l’autore dello scritto
Sugli Dei e sul mondo (forse l'estratto di un’opera più
ampia), che è stato chiamato un catechismo della reli-
gione pagana nell’interpretazione del Neo-Platonismo ;
probabilmente mirava a favorire e a diffondere l’azione
religiosa di Giuliano. Nell’Or. VIII si è rilevato l’in-
flusso di Dione Crisostomo. Le quattro Lettere agli Ate-
niesi ecc. appartengono all'autunno 361. La Lettera al
filosofo Temistio presenta di nuovo le teorie politiche
di Giuliano che ora, imperatore, cercò di attuare. Le
Or. VII e VI (Al cinico Eraclio [dicembre 361-giugno
362] e Contro i Cinici ignoranti) (maggio-giugno 362)
sono una polemica contro i neo-cinici, affini ai cristiani,
IL NEO-PLATONISMO 205
ai quali vengono contrapposti gli antichi rappresentanti
del cinismo autentico. L’Or. VII è rivolta contro Era-
clio che in una pubblica lettera aveva satireggiato Giu-
liano (almeno così egli riteneva) e in un mito aveva
parlato irriverentemente degli Dei; vi si tratta pure
del modo in cui i miti debbono essere presentati. Anche
in questo scritto si è riconosciuto l’intlusso di Dione
Crisostomo. La polemica contro i nuovi cinici è prose-
guita nell’Or. VI, in cui è difeso Diogene contro uno
di loro che lo aveva diffamato. L’Or. V (AWla Dea Madre),
che si collega strettamente alla IV (al Re Elios), in quanto
insieme includono il nueleo della teologia di Giuliano,
fu scritta nel 362 (principio del giugno) e contiene prin-
cipalmente l’interpretazione, piuttosto confusa e oscura,
del mito di Cibele e di Attis. La IV, scritta per il natale
del Dio (25 dicembre, verso la fine del 362) che è l’opera
filosoficamente più importante di Giuliano, è però as-
sai oscura e difficile. 7 Cesari (scritti alla fine di dicem-
bre 362, tra le due Or. precedenti) trattano di un ban-
chetto che Romolo Quirino offre agli Dei e agli impera-
tori divinizzati'; ma prima sono sottoposti a un giu-
dizio. Il primo posto spetta a Marco Aurelio; dopo di
lui vengono Alessandro e Traiano. In complesso, l’autore
giudica poco favorevolmente i suoi predecessori. Il Mi-
sopogon (inverno 362-363), che riprende certi motivi tra-
dizionali, è in apparenza un’autosatira di Giuliano, ma
nel fatto è rivolta contro la popolazione di Antiochia
(da tempo famosa per la sua frivolezza) che lo aveva
schernito per i suoi costumi austeri ed aveva accolto
freddamente la sua restaurazione religiosa. Allo stesso
periodo appartiene il Frammento di un’epistola, rivolto
a un sacerdote, in cui è esposto il programma della con-
dotta del clero pagano, secondo criteri derivati dal
Cristianesimo. L’ultima opera di Giuliano (giugno 362-
marzo 363) è lo scritto Contro è Cristiani. ID 1. I trattava
dell'origine dell'idea di Dio, delle concezioni della Di-
vinità dei greci, degli Ebrei e dei Cristiani ; il II con-
teneva una critica dei Vangeli: del III quasi nulla è
rimasto. Pure valendosi della polemica antieristiana dei
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206 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
predecessori (Celso, Porfirio), Giuliano, per l’avversione
che provava per il Cristianesimo, impresse carattere per-
sonale allo seritto, in cui organizzò sinteticamente i
motivi che lo allontanavano da esso: sono notevoli
la conoscenza della Bibbia e delle discussioni teologiche
contemporanee e l'abilità della critica. Egli da una parte
insiste sul concetto che nella Bibbia manca ogni nesso
con l’insegnamento cristiano, dall'altra sulla tesi che
i cristiani, che riconoscono e adorano la Divinità parti-
colaristica di un piccolo popolo, non possono pretendere
di fondare una religione universale. Gli scritti filosofi-
camente più importanti sono le Orazioni IV e V e poi
quelle VI e VII; le teorie politiche di Giuliano sono
esposte nell’Or. II e nella Lettera a T'emistio. Ma in com-
plesso il suo pensiero ha carattere ben più teologico che
filosofico ; in ciò egli segue e accentua l’indirizzo di
Giamblico. Egli espone i dogmi di una religione che gli
Dei, o i demoni, o spiriti superiori ispirati da loro (i
maggiori poeti e filosofi) hanno insegnato agli uomini
nella forma del mito, che include verità supreme che
debbono essere spogliate dal loro involuero figurativo
per mezzo di un’interpretazione allegorica, di cui egli
dà un esempio particolare nel Discorso alla Dea: Madre.‘
Gli aspetti irrazionali o immorali dei miti servono a ecci-
tare l’intelligenza a non fermarsi, ma a ricercare il loro .
significato segreto, mentre gli uomini comuni traggono
sufficiente vantaggio dai loro simboli.
Il primo principio è chiamato da Giuliano l’Uno, il
Sovraintelligibile, l’Idea degli esseri, il Bene. Seguendo
Giamblico, che nell’Intelletto di Plotino aveva distinto
il mondo intelligibile da quello intellettuale (cioè le Idee
dalle attività pensanti), Giuliano fa provenire dall’Uno
gli Dei intelligibili (e da prima Elios), che stanno al
disopra di quelli intellettuali ; sotto a questi è il mondo
sensibile che include le Divinità visibili, gli astri. In
tutte e tre queste sfere il posto centrale è assegnato a
Elios, che compie l'ufficio di mediatore, ossia è prin-
cipio di unità, di ordine e di armonia, poichè collega
il mondo intelligibile col sensibile, nel quale è princi-
IL NEO-PLATONISMO 207
pio di generazione e di vita, come è fonte di ogni per-
fezione in quello intellettuale. È così sviluppato un tema
posidoniano, che era stato ripreso dal pensiero poste-
riore, specialmente dal Platonismo Medio e dal Neo-
Platonismo. Giuliano collega poi questo col culto so-
lare e specialmente con la religione di Mitra, allora dif-
fusissima, ai cui misteri era stato iniziato, in quanto
presenta Elios soprattutto sotto l’aspetto del Dio per-
siano. Egli cerca di conciliare il monoteismo del culto
solare col politeismo pagano valendosi del sineretismo
caro ai suoi contemporanei ; in quanto pensa le Divi-
nità di questo come forze o manifestazioni di Elios-
Mitra, che si rivela anche in esseri posti sotto di esse,
gli angeli del sole, i demoni e gli eroi. Come in Posidonio
e nelle dottrine religiose e filosofiche posteriori, nel-
l’uomo l’anima divina e immortale, che proviene dal
cielo, è legata al corpo perituro e oscuro, col quale è
continuamente in lotta. Essa deve prepararsi con la
continua purificazione a liberarsi dai vincoli del senso
per risalire alla sua antica sede, senza essere costretta
a subire nuove incarnazioni. Ad aspirazioni ideali elevate
si mescola, come nel Neo-Platonismo, anzi nelle opi-
nioni filosofiche e religiose di quell’età in generale, la
tendenza verso la magia e le scienze occulte, che fa ac-
cogliere senza esitazione la credenza nei più strani pro-
digi e in tutti i miracoli possibili. Per ciò che riguarda
la condotta nella vita comune è notevole la simpatia
per il Cinismo antico e autentico, che, se purificato
dai suoi caratteri irreligiosi, può, secondo Giuliano, es-
sere accettato da tutti gl’indirizzi filosofici degni di
questo nome ; per lui la filosofia è essenzialmente una,
e le dottrine delle diverse scuole, se rettamente intese,
coincidono nei loro concetti centrali e nei loro scopi.
Ma in Giuliano non appare più lo sforzo della contem-
plazione. profonda che culmina nell’unione estatica col
primo principio (che era il vero fine della filosofia di
Plotino) : in lui predomina l’aspirazione al ritorno del.
l’anima al cielo e al mondo intelligibile, che ha per
condizione la conoscenza di verità divinamente rivelate.
CaprrorLo V.
La filosofia in Occidente negli ultimi secoli dell'impero.
Si denominano neo-platonici dell'Occidente romano,
pur riconoscendo che almeno alcuni di essi sono piut-
tosto platonici che altro, diversi scrittori degli ultimi
secoli dell'Impero e dell'inizio del Medio Evo, che effet-
tivamente hanno in comune soltanto il carattere eru-
dito delle loro ricerche e che, ad eccezione di Boezio,
sono ben più traduttori e compilatori che filosofi. È
certo però che in quel gruppo si trovano anche alcuni
_neo-pitagorici; perciò occorre considerarli separata-
"mente menzionando in seguito sia i rappresentanti di
scuole diverse dalle ricordate, sia uomini di cui si ignora
l'indirizzo seguito. Quanto a Boezio, occupa un posto
& sè. Aderì al Neo-Platonismo C. Mario Vittorino, di
origine africana, che al tempo di Costanzo (337-361),
quando nell’ Urbe, come attesta Sant’ Agostino, la
scuola di Plotino fioriva e contava numerosi e valenti
discepoli, insegnò retorica a Roma con grande suc-
cesso : infatti trovò molti discepoli nelle classi su-
periori della cittadinanza e fu onorato con l'erezione
di una statua nel Foro Traiano. Compose seritti retorici,
grammaticali, metrici (l'Ars grammatica, salvo pochi pre-
liminari grammaticali) e un trattato di metrica ; non
sono suoi due brevi scritti scolastici : De ratione metro-
rum, De finalibus metrorum); commentò il De inven-
tione di Cicerone, diffondendosi in digressioni di carat-
‘tere filosofico, i Topica e gli scritti filosofici dello stesso
autore. Di Aristotele tradusse e commentò le Categorie,
e tradusse il II. #punvelac; scrisse anche una versione
dell’Isagoge di Porfirio e di altre opere neo-platoniche.
Inoltre compose due seritti logici (De definitionibus,
De syllogismis hypotheticis). Ci restano soltanto 1 Ars
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 209
grammatica, il commento al De inventione e il De defi-
nitionibus ; la traduzione dell’Isagoge può ricostruirsi in
larga misura per mezzo del commento che Boezio scrisse
a quell’epoca, seguendo la versione di Vittorino. Verso
il 357, per motivi piuttosto intellettuali che stretta-
mente religiosi egli (in cui le preoccupazioni filosofiche,
che appaiono anche nel commento al De ‘inventione,
furono sempre il motivo direttore del pensiero) si con-
vertì al Cristianesimo e perciò nel 362 fu obbligato
dalla legge di Giuliano a chiudere la sua scuola ; allora
approfondì i suoi studi religiosi e compose numerose
opere teologiche, riguardanti principalmente la que-
stione della Trinità divina, e commenti alle lettere di
S. Paolo ; ma in questi seritti, di cui è criticata l'oscurità,
è difficile scorgere un pensiero unitario e organico. Seb-
bene includano dottrine neo-platoniche, appartengono
propriamente alla storia della filosofia cristiana. Mario
Vittorino agì sul pensiero del suo discepolo Sant'Agostino
facendogli conoscere le dottrine del Neo-Platonismo ©
con la versione dell'Isagoge di Porfirio fece sì che l’at-
tenzione degli scolastici fosse attirata dal problema;
degli universali.
Probabilmente aderì al Neo-Platonismo Nettio Agorio
Pretestato, che coprì diversi uffici importanti: fu se-
natore, questore, pretore, corrector (governatore) della
Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, pro-
console dell’Acaia (362-364, sotto Giuliano), prefetto
della capitale (367-368), due volte praefectus praetorio
dell’Italia e dell’Illirico (383-384), designato console
per il 385; però morì nel 384. Amico dell’oratore Sim-
maco e ostile al Cristianesimo, ebbe cariche sacerdotali
in numerosi culti pagani, anche orientali. Questo fatto
e il favore di cui godeva presso Giuliano, fanno pensare
che gli appartenga la teologia monoteistica derivata
da Giamblico che gli è attribuita da Macrobio nei Sa-
turnalia, in cui tutte le Divinità sono intese come nomi
dati alle diverse potenze e ai diversi effetti del sole,
il quale è anche la forza che, dominando la materia
dell'universo, forma tutti i corpi; è anche probabile
210 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
che, come il suo imperatore, fondasse tale dottrina
sui principi neo-platonici. Tradusse in latino la para-
frasi degli Analitici aristotelici composta da Temistio
e forse redasse lo seritto De decem categoriis che porta
il nome di Sant'Agostino. $i occupò della correzione di ,
antichi autori e scrisse discorsi; ma dell’opera sua re-
Stano soltanto frammenti, di cui, del resto, è dubbia
l'appartenenza. Aderì al Neo-Platonismo di Plotino e di
Porfirio, Ambrosio Macrobio Teodosio (n. e. 360), che si
deve identificare al Macrobio che nel 390-391 fu prae-
fectus praetorio Hispaniarum, nel 410 proconsole d’A-
frica, nel 422 praepositus sacri cubiculi (gran ciambel-
lano). È ignota la sua patria; si è pensato che fosse
africano. Certamente doveva essere legato da stretti rap-
porti alla famiglia dell’oratore Simmaco, a un figlio o
nipote del quale dedicò uno scritto grammaticale. $i
convertì al Cristianesimo in età avanzata, dopo aver
seritto le sue due opere maggiori, il Commento al Sogno
di Scipione di Cicerone, che ci è giunto intero, e i Satur-
nalia, lacunosi. Dallo seritto grammaticale De differen-
tiis et societatibus graeci latin ique verbi (Delle differenze
e concordanze del verbo greco e del latino), del quale re-
stano soltanto estratti, nulla può risultare sull’argo-
mento. Nel Commento, dedicato al figlio Eustachio, in
cui cerca d’interpretare in senso neo-platonico lo seritto
di Cicerone, accumula molta erudizione e perciò spesso
sì occupa di argomenti che poco hanno da fare col suo
oggetto. I frequenti riferimenti al Timeo e le lodi del
Neo-Platonismo, (per es., Plotino è chiamato, al pari
di Platone, un princeps della filosofia) hanno fatto
supporre che Macrobio si sia servito di un commento
neo-platonico a quel dialogo, probabilmente di quello
« di Porfirio, derivato in ultimo dal commento di Posido-
nio ; si è anche pensato a una fonte latina intermedia
e sulla questione sono state presentate svariate ipotesi.
In ogni caso, anche se non si giunge a considerare Ma-
erobio come un semplice trascrittore di una 0 due opere
altrui, che non mette nulla di suo, si può sospettare
che non abbia letto i numerosi autori che cita, Posteriori
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 211
al Commento sembrano i Saturnali in 7 libri (scritti
verso il 395, prima della pubblicazione del commento
virgiliano di Servio), pure dedicati al figlio Eustachio,
al quale volle presentare i risultati dei suoi studi di au-
tori greci e latini, di cui generalmente riprodusse le
parole. Però cercò di organizzare tali temi fingendo di
riprodurre le conversazioni che, durante banchetti fatti
in occasione delle feste dei Saturnali, avevano tenuto
persone insigni per cultura su argomenti svariatissimi.
Quest'opera, che costituisce l’ultima espressione del ge-
nere letterario dei Simposi iniziato da Platone, contiene
materiali molto diversi, sia per il significato delle que-
stioni trattate, che per l’importanza delle notizie ri-
ferite. Cita numerose fonti, ma non è sicuro che le co-
nosca direttamente tutte, tanto più che non nomina
quelle di cui deve essersi servito più largamente, Plu-
tarco (Questioni conviviali) e Aulo Gellio.
I libri più significativi sono quelli ITI-VI, che riguar-
dano Virgilio, di cui si esalta il valore poetico e la uni-
versale e profonda sapienza su ogni argomento. Le dot-
trine filosofiche che Macrobio espone nel Commento si
conformano al Neo-Platonismo di Plotino. Dio o il Bene,
causa prima e origine di tutti gli esseri, che trascende
il pensiero e il linguaggio umano, erea l’intelletto (vods
o mens) che include in sè le Idee o i modelli originali
delle cose. L’intelletto è poi identificato alla monade o
unità prima pensata col Neo-Pitagorismo, non come
numero, ma come la sorgente e l’origine dei numeri.
L’intelletto, a sua volta, genera l’anima cosmica (iden-
tificata a Giove), che è principio di vita per tutte le cose
corporee che essa forma imprimendo nella materia
l’immagine delle Idee. Così una sola luce divina illumina
tutte le cose, connesse tra loro da vincoli reciproci
e ininterrotti. Nei corpi del cielo e delle stelle il prin-
cipio animatore è una pura attività razionale ; nel-
l’uomo ad essa si uniscono la sensitiva e la vegetativa,
che sole si trovano negli esseri inferiori. Rispetto alla
esistenza dell'anima prima e dopo la sua unione col
corpo, alla sua discesa dal cielo e alla ascesa ad esso,
È pp
212 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
alla reminiscenza, alla sorte che l’attende dopo la morte...
Macrobio si conforma alle dottrine che il Neo-Plato-
nismo aveva derivato dalla tradizione pitagorico-pla-
tonica e che appartenevano al patrimonio comune della
coscienza religiosa dell’età sua. Anche per lui il corpo
è un sepolero dell'anima, sicchè la filosofia deve inse-
gnare all'uomo a liberare l’una dai vincoli dell’altro:
perciò, riprendendo la teoria plotiniana delle virtù,
egli pone su quelle politiche (dell’uomo nella vita so-
ciale) le purgative, che lo purificano dal contagio del %
corpo, che sono proprie di chi vuole immergersi nella
contemplazione filosofica, quelle di chi ha raggiunto
tale scopo, liberandosi completamente dalle passioni @
al di sopra di tutte, le virtù contemplative dell’intelletto.
Il Commento ha così trasmesso al pensiero medioevale |
la conoscenza di numerose teorie platoniche e neo-pla-
toniche, fra le quali ha particolare importanza l’identi-
ficazione delle Idee a pensieri divini. ‘
Neo-platonico era pure Eutropio (discendente dalla
famiglia dei Sabini, che aveva contato tra i suoi mem-
bri molti senatori), un gallo del 59 secolo che ebbe l’uf-
ficio di praefectus praetorio.
Forse fu platonico Flavio Mallio Teodoro, nato da
ignota famiglia ligure: Sant’ Agostino, che nel 386 gli de-
dicò il De beata vita, dice che conosceva bene Platone,
Dopo essere stato per qualche tempo avvocato, poi go- o
vernatore in Africa e consolare della Macedonia e aver
coperto vari uffici a corte, fu praefectus praetorio delle
Gallie (382-383). Negli anni successivi si occupò del-
l’amministrazione dei propri beni e di studi filosofici
e astronomici e scrisse dialoghi su questi argomenti,
Stilieone lo nominò praefectus praetorio per l’Italia,
l’Illirico e l'Africa (397 sgg.); mentre conferiva questo
ufficio ebbe il consolato (399) e in quell'occasione Clau-.
diano gli dedicò un panegirico. Dal 13 settembre 408
al 15 gennaio 409 fu praefectus praetorio d’Italia. Di
resta un breve scritto De metris, mentre si sono perduti
altri lavori, tra i quali un De natura rerum.
) Caleidio (Calcidius o Chalcidius), che tradusse e come
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 213
mentò il Zimeo di Platone tino a 53 e. per impulso di
un Osio al quale con una lettera dedicò l’opera sua, è
un platonico con forti tendenze eclettiche. Secondo la
tradizione manoscritta si dovrebbe identificare il dedi-
catorio del lavoro a quell’Osius o Hosius che dal 295
fino alla morte fu vescovo'di Cordova e prese parte ai
concili di Nicea (325) e di Sardica (343) : nella stessa e-
poca sarebbe vissuto Caleidio, che viene detto diacono
o arcidiacono di quella diocesi. In ogni modo è molto
yerosimile che fosse cristiano, perchè nel Commento mo-
stra di conoscere bene la Bibbia che ritiene ispirata da
Dio, cita Origene e accenna a credenze della nuova re-
ligione. Il Commento di Caleidio deriva in ultimo da quello
di Posidonio, mediato però da uno del peripatetico
Adrasto d’Afrodisia (inizio del 2° secolo a. C.) per la
parte matematica, astronomica e musicale e da uno di
mn seguace del Platonismo Medio, dal quale sembra
provenire anche lo pseudo-plutarcheo De fato. Non è
escluso, anzi, che il secondo commento sia stato l’unica
fonte di Caleidio che si sarebbe limitato a tradurlo con
poche modificazioni. Egli sopra tutti i filosofi ammira
Platone, di cui cita passi di diversi dialoghi; inoltre men-
ziona molti altri autori (stoici, neo-pitagorici, Filone
d'Alessandria, Numenio), che probabilmente conosce
soltanto indirettamente. Queste citazioni svariate sono
l’espressione estrema del suo eclettismo a base plato-
nica. Col maestro, parla di tre principi delle cose, Dio,
il modello (cioè le Idee) e la materia : in ciò si accorda
con Albino, col quale riduce le Idee a pensieri divini.
Con lo Stoicismo identifica Dio al principio attivo, la
materia al passivo. Però, mentre fa di questa un prin-
cipio originario e sostiene che il mondo non è stato
creato nel tempo, Caleidio si sforza di accordarsi con
la Bibbia, affermando che in questi argomenti l'origine
di cui si parla non ha carattere cronologico, ma designa
una dipendenza. Si esprime quindi in modo improprio
quando ammette l'eternità dell’origine delle cose e della
materia. Da questa, in cui Dio ha impresso le immagini
delle Idee, sono provenuti i corpi. Mentre in questa
cl da»
214 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
parte, in complesso, predomina il pensiero di Platone,
nello studio delle potenze divine si presentano dottrine
del Platonismo Medio, che preparano quelle neo-pla-
toniche, ma in alcuni punti essenziali ne differiscono
fortemente. Al vertice sta il Dio supremo o il Sommo
Bene, che, con Platone, è posto sopra ogni sostanza e
dichiarato superiore all’intelletto e ineffabile. Al disotto
di esso sta il secondo Dio, la Provvidenza, identificata |
al vobis, che è la volontà e insieme lV’eterno atto della
mente divina. Le cose divine intelligibili e quelle pros-
sime ad esse, sottostanno soltanto alla Provvidenza,
le naturali e corporee sono soggette al fato, o serie
delle cause, che deriva dalla prima ed è una legge divina
promulgata per reggere ogni cosa. Di questa legge è
custode la terza Divinità, Anima Cosmica, che Cal-
cidio chiama la seconda mente o il secondo intelletto.
Questa tripartizione della Divinità (che è completamente
antieristiana) riprende uno schema di Albino esi allon- |
tana dal Neo-Platonismo perchè non denomina Uno il
primo principio, gli attribuisce la volontà che Plotino gli
nega e non parla della derivazione della materia nei ter-
mini caratteristici di quel sistema. La teoria della Provvi-
denza e del fato (affine a quella dell’opera pseudo-plu-
tarchea) sembra pure attinta a una fonte medio-plato-
nica. Le teorie sui demoni e sul destino delle anime dopo
la morte concordano con quelle della scuola platonica
© di Posidonio. In complesso Caleidio giustappone teorie
svariate senza riorganizzarle, e non si accorge che al-
cune di esse sono inconciliabili colla sua fede religiosa.
La sua opera, però, sebbene priva di ogni originalità, fu |
l’unica via di accesso alla filosofia platonica di cui sino
al secolo 12° potè disporre il Medioevo e costituì per
esso una delle fonti maggiori della storia del pensiero
antico.
Visse nel 5° secolo il platonico Polemio, filosofo,
oratore, poeta e buon conoscitore delle scienze mate-
matiche e astronomiche. Discendeva da famiglia insigne
e contava. fra gli antenati î Corneli e lo storico Tacito ;
fu praefectus praetorio delle Gallie.
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 215
EA Si possono collegare al Neo-Pitagorismo Favonio
Fulogio e Marziano Capella. Il primo, cartaginese, pre-
sumibilmente cristiano, ebbe come maestro di retorica
sant'Agostino, dal quale risulta che esercitava quell’arte
in Africa (dal 384 al 388). Dedicò la sua breve opera
Disputatio de sommio Scipionis & Superio, consolare
della provincia di Bizacena. Quello scritto in ultimo
deve derivare dal commento posidoniano al 'imeo,
mediato da Varrone, al quale si ritengono attinte le
fonti citate, che sono soprattutto greche. La prima parte
dello scritto presenta la teoria dei numeri essenza delle
cose e tratta del significato simbolico di essi, dall’1 al
9; la seconda si occupa dell’armonia delle sfere. Queste
teorie sono pitagoriche in generale ; ma il Neo-Pitago-
rismo appare in ciò che Favonio dice della monade, in
cui espone in modo poco chiaro una teoria monistica
che deriva da essa ogni realtà. Il numero è eterno, in-
telligibile, incorruttibile, e include con la potenza tutto
ciò che è; ma inteso in senso proprio è una pluralità
unificata e divisibile e perciò comincia con la diade ;
invece la monade, l’unità assoluta e indivisibile e iden-
tica a Dio, è il seme e l’inizio dei numeri. Questi poi sì
distinguono dalle cose corporee numerabili che sono ac-
cidenti e sostrati dei primi, che sono riducibili alla mo-
nade. Però le cose numerabili non sono altro che tale
unità assoluta, che è prima, entro e dopo tutte le cose.
Infatti ogni quantità proviene dall’uno e in esso mette
capo ed esso permane immutabile quando periscono le
altre cose che possono accoglierlo in sè.
Marziano Minneo Felice Capella, africano di Carta-
gine, di religione pagana, scrisse (dal 410 al 439 secondo
alcuni, nella 2* metà del 4° secolo secondo altri) il De
nuptiis Philologiae et Mercurii, in nove libri. Il titolo
dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi e
perciò è simile a una satira menippea), si applica propria-
mente ai due primi libri introduttivi, in cui si parla delle
nozze del Dio dell'attività intellettuale (Mercurio = Her-
mes) con la personificazione della erudizione encieclo-
pedica. Principale fonte di questi libri si ritengono gli
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cin le dti i
È
ù,
216 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
seritti teologici di Varrone, mediati probabilmente da |
Cornelio Labeone. Il contenuto vero dell’opera, che è
un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX, in cui,
sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore
(grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica,
astronomia e musica), presentate come donne che accom.
pagnano la Filologia. Marziano ricorda altre due disci-
pline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medi-
cina è architettura), ma non vuole considerarle ; può
darsi non sia stato il primo a procedere così, ma è proba-
bile che da lui il Medio Evo abbia preso la distinzione
delle arti del trivium e del quadrivium. Marziano deve
avere preso a modello l'enciclopedia varroniana, che gli è
anche servita sino a un certo punto come fonte; ma è
probabile che abbia attinto principalmente a lavori spe-
ciali più tardi. Sebbene sia una compilazione priva di
valore intrinseco e piena di cose male intese e anche di
contraddizioni, l’opera di Marziano fu studiata appas-
sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come te-
sto scolastico, la commentò e la tradusse. Per la storia
della filosofia hanno importanza, più della trattazione
della dialettica (1. IV), ciò che dice il libro VII (De arith-
metica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali-
ficata altrove pater ultra mundaniis. Essa è il padre di
ogni essere, è il seme degli altri numeri e da essa sono
.procreate tutte le altre cose. La monade è prima che siano
le cose esistenti e permane quando esse si distruggono,
perciò deve essere eterna. È così presentato un monismo
che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e in-
telligibile, fa provenire sia i puri numeri che gli esseri
numerabili che si collegano a quelli. In tal modo dal-
l’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla
materia procreante, e la triade che conviene alle forme
ideali e all'anima (in quanto, secondo Platone, include
tre parti); e dalla diade provengono gli elementi che in-
sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu-
mero il cinque. Questa derivazione dall'unità è molto
confusa, ma si collega evidentemente alle teorie del-
Neo-Pitagorismo. 4
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 217
Di altri filosofi si hanno, in generale, scarse notizie.
Giuliano ricorda come suo contemporaneo il cinico Se-
reniano. Eustazio, che figura tra gli interlocutori dei
Saturnali di Macrobio (in cui parla delle conoscenze
filosofiche di Virgilio), dovette vivere nella seconda metà
del 4° secolo. Secondo Macrobio univa in sè il sapere di
Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di
Critolao (peripatetico) ; aveva conosciuto tutte le scuole,
ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare che aderisse
al probabilismo di Carneade.
Di altri filosofi che ricorderemo si ignora la scuola.
Un Albino, di cui Boezio menziona seritti di geometria
e di dialettica, forse è identico a quel Ceionio Rufio
Albino che fu console nel 335 e prefetto della capitale
dal 30 dicembre 335 al 9 marzo 337. Filosofo era Baraco
(Barachus), che fra il 370 e il 380 si recava da Roma
nelle Gallie. Virio Nicomaco Flaviano (n. e. nel 334, m.
nel 394), figlio di un canosino, fu questore, pretore, venne
accolto nel collegio dei pontefici e nominato consolare
della Sicilia. Forse perchè pagano, soltanto nel 376
conseguì il vicariato d'Africa. Cadde in disgrazia presso
Graziano, ma la sua ampia erudizione gli arrecò il fa-
vore di Teodosio, che dopo avergli concesso importanti
uffici a corte, lo nominò praefectus praetorio dell’Italia,
dell’Ilirico e dell’Africa, poi, dopo un periodo di eclissi,
ebbe di nuovo quella prefettura (391-392). Tale ufficio
gli fu conferito per la terza volta dall’usurpatore Euge-
nio, che lo nominò console per il 394. Flaviano sperava
di potere abbattere il Cristianesimo con la vittoria di
Eugenio e si uccise quando questo fu sconfitto da Teo-
dosio che, in considerazione della sua fama letteraria,
ne deplorò la morte in Senato. Godeva autorità soprat-
tutto nella scienza augurale e nell'arte mantica in ge-
nerale; Macrobio nei Saturnali gli assegnò l’ufficio di
interprete della teologia virgiliana. Studioso di filoso-
fia e amico di Eustazio, pubblicò un libro De dogmatibus
philosophorum, tradusse la vita di Apollonio di Tiana
di Filostrato, compose uno scritto grammaticale De
consensu mominum et verborum. Ottenne fama soprat-
218 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
tutto con una grande opera storica, gli Annales, dedi-
cata a Teodosio nel 383. Eusebio, maestro di Sidonio
Apollinare (430-479), che parlava ai suoi scolari di
Platone e di Aristotele, forse è identico a un Eusebio
che viveva nelle Gallie verso îl 440. Altro suo scolaro
fu Probo, figlio di Magno (cons. 460), che secondo il
suo condiscepolo Sidonio si occupava intensamente di
filosofia e principalmente della logica aristotelica ; an-
che in seguito continuò a coltivare gli studi.
Tullio Marcello di Cartagine scrisse sette libri sui
sillogismi categorici e ipotetici : visse probabilmente tra
il 5° e il 6° secolo.
Alcuni serittori che non si occuparono in modo par-
ticolare di filosofia, mostrarono di interessarsene : così
fece Giulio Firmico Materno, siciliano, senatore, wir
consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si de«
dicò agli studi. Per le insistenze di Lalliano Mavorzio,
che lo aveva accolto molto amichevolmente quando era
governatore della Campania, pubblicò fra il 334 e il
337, per mantenere la promessa che aveva fatto in
quell'occasione, un’opera di astrologia, Mathesis, in otto
libri, dedicata al sno protettore, allora proconsole d’A-
frica : è il più ampio trattato di quella materia che
l’antichità abbia trasmesso. Il.libro I è un’introduzione
in cui l'astrologia è difesa dalle critiche dei neo-accade-
mici e principalmente di Carneade. L’autore riconosce
la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega
platonicamente con la debolezza della natura umana
in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si
libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua
origine celeste, facilmente, con la divina ricerca della
mente, consegue risultati difficili ed ardui. Firmico esalta
la grandezza di quello spirito, parla della sua affinità
con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna alla teo-
ria della reminiscenza. Fonti di questi pensieri si consi-
derano Posidonio e Cicerone; dal primo, e forse anche
da Porfirio, può derivare altresì la discesa e l’ascesa
delle anime. Considerando i rapporti fra l’azione dei
cieli e la volontà umana, Firmico afferma che le stelle
LA FILOSOFIA IN OCCIDENTE 219
sono causa delle nostre passioni e dei nostri impulsi
malvagi, ma che il nostro spirito per la sua origine di-
vina può sottrarsi al loro potere; anche queste tesi
concordano, oltre che col Neo-Platonismo, con lo Stoi-
cismo posidoniano. I libri II-VIII trattano dell’astro-
logia propriamente detta. Firmico esige dai cultori di
essa una condotta morale retta e pura e vieta loro di
occuparsi di ciò che riguarda l’imperatore, perchè, es-
sendo una Divinità, non è sottoposto alle stelle. In
quest'opera, che offre una testimonianza importante del
timore che nell’età dell’antore il potere dei cieli incuteva
anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in
generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che spe-
cificamente neo-platonici e se in certi punti l’intona-
zione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa
scuola, si deve anche pensare al carattere generale della
filosofia contemporanea. Nell'insieme, Firmico non può
considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato.
Egli si convertì poi al cristianesimo e serisse fra il 346 (?)
e il 350 il De errore profanarum religionum, che è una
violenta polemica contro il paganesimo di cui chiede la
distruzione dagli imperatori Costazio e Costante.
Servio (n. c. 359? - 370?) nei Saturnali di Macrobio,
rivolti alla glorificazione di Virgilio, appare, sebbene
ancor giovane, uno degli interlocutori; signora la sua
patria, ma è certo che la sua attività letteraria e didat-
tica ebbe per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esaltò
come il maestro di ogni sapere e che commentò in un’o-
pera (composta dopo il 395; forse tra quest'anno e il
410) di cui rimangono due redazioni. La più breve
sembra tramandare lo scritto autentico di Servio, mentre
la più ampia (Servius auctus o plenior o Scholia Da-
nielis, dal P. Daniel, che la pubblicò nel 1603) pare de-
rivata dalla prima e da una riduzione del commento di
Elio Donato. Si discute se gli appartengano l’Expla-
natio dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre
scritti di metrica. Il Commento include non poche dot:
trine di carattere filosofico, che però provengono dalle
fonti usate da Servio. Si è voluto fare di lui un seguace
. 220 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
del Neo-Platonismo, ma da una parte non è lecito attri-
buirgli una teoria filosofica organica e dall’altra le pro-
posizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non
sono proprie di essa, perchè appartengono al Platonismo
in generale, a Posidonio, o anche alle credenze mistico-
religiose di quell’età (natura divina dell'anima, immor-
talità di essa quale principio di movimento, sue trasmi-
grazioni, suoi destini dopo la morte, teoria delle sfere).
Quando, oltre alle tre anime, vegetativa, sensitiva e ra-
zionale, ne ammette anche una quarta, la vitale, princi-
pio di movimento, si allontana dalle teorie tradizionali
inelusa la neo-platonica. Quando afferma che nulla esi-
ste salvo i quattro elementi e Dio, che è uno spirito
(o una mente, o un'anima) il quale, infuso in essa, ge-
nera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, ae-
cetta in complesso la cosmologia stoica esposta da Vir-
gilio, che però cerca di liberare dal suo materialismo
originario. Del resto, esplicitamente loda gli stoici (et
nimiae virtutis sunt, et cultores deorum), che contrappone
agli epieurei che critica spesso. In Servio mancano un
pensiero coerente e un indirizzo preciso, sebbene si af-
fermino in lui le tendenze religiose e mistiche dell’età
sua. Si può ricordare infine che si occupò di letteratura
antica e di filosofi platoniea Teodato, figlio della
sorella di Teodorico, che fu re degli Ostrogoti in Italia,
dalla fine del 535 al principio del 536. Così il pensiero
greco, nella sua veste latina, entrava da dominatore
nella mente dei sovrani barbari.
CaprroLo VI.
Boezio.
Sebbene appartenga cronologicamente al Medio Evo,
Anicio Manlio Severino Boezio si collega sotto impor-
tanti rispetti al pensiero antico, di cui appare l’ultimo
rappresentante. Nacque verso il 480 d. C. dalla famiglia
degli Anici, ricca e distinta. Perdette presto il padre,
FI. Anicio Manlio Boezio (console nel 487), ma nella sua
prima età fu curato da uomini insigni, particolarmente da
Q. Amelio Memmio Simmaco, suo cognato (discendente
dall’oratore e console senza collega nel 485, prefetto di
Roma, sotto Teodorico, re degli Ostrogoti, princeps
senatus nel 524), che lo fidanzò alla figlia Rusticiana.
Ancor giovane, Boezio si acquistò fama col suo sapere
che attirò su di lui l’attenzione di Teodorico, che gli
conferì incarichi e uffici importanti, Nel 510 era console
senza collega, nel 522 i suoi figli ancora fanciulli conse-
guirono il consolato ; nel settembre di quell’anno fu
magister officiorum; però, come in generale il Senato
romano al quale apparteneva, e i romani, era ostile al
governo goto. Boezio, per mezzo di false testimonianze,
fu involto in un processo di alto tradimento contro il
sovrano, per intese con l’imperatore d’Oriente e accu-
sato anche di sacrilegio. Venne dapprima rinchiuso in
agro Calventiano (pare vicino a Pavia) ove scrisse il De
consolatione philosophiae ; poi, probabilmente, incarce-
rato nella torre del Battistero di Pavia. Condannato a
morte senza essere stato ascoltato, fu, secondo una tra-
dizione, torturato e giustiziato nel suo carcere ; secondo
un’altra a Calvenzano (524 o 525). Il suo corpo, sepolto
da prima nell'antica cattedrale pavese, venne poi tra-
sportato in S. Pietro in Ciel d’oro ove ancora riposa.
La leggenda popolare lo ha rappresentato come un mar.
222 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
tire della fede cattolica, vittima dell’arianesimo goto.
Del cristianesimo di Boezio si è dubitato lungamente,
anche perchè si è messa in dubbio l'autenticità dei smoi
scritti teologici; quanto ai contrasti che si sono voluti
porre tra certe sue teorie filosofiche e le credenze cristiane,
non hanno il significato che è stato loro attribuito, ®
in vari casi, si incontrano in altri serittori del periodo
patristico. 3
Boezio si assegnò il compito di far conoscere ai smoi
connazionali le opere di Platone e di Aristotele, di eui
voleva mostrare (al pari dei neo-platonici) l'accordo
rispetto ai problemi filosofici fondamentali, ma riuscì 2
realizzare il suo progetto soltanto per l'organo aristote-
lico. Però si occupò anche di alcune opere di Cicerone
e di Porfirio e di scienze matematiche, che considerava UN
presupposto necessario della ricerca filosofica. Riman-
gono i due manuali giovanili, De Institutione Arithme-
tica libri duo, elaborazione abbreviata di Nicomaco di
Gerasa, e De Institutione Musica libri quinque (1acu-
noso), in cui Boezio si vale di fonti greche, soprattutto
di Nicomaco, di Euclide e di Claudio Tolomeo. Restano
frammenti della sua geometria (versione di Euclide) :
quella in due libri che porta il suo nome è apoerifa.
Una antica testimonianza afferma che serisse di astr0-
nomia e di meccanica, ma queste opere si sono pert-
dute. Gli scritti, molto più numerosi, che riguardamo
la logica si dividono in traduzioni, commenti e opere
originali. DIA
Boezio tradusse l’Isagoge (Introduzione) di Porfirio
alle Categorie di Aristotele e diversi seritti logici di que-
sto : le Categorie, il De interpretatione, i due Analitici,
i Topici, probabilmente gli Elenchi sofistici (egli stesso
ricorda le versioni dei Primi Analitici e dei Topict).
Però studi recenti fanno ritenere che la versione delle
Categorie che porta il suo nome appartenga a uno s©0-
lastico dell'XI secolo e che quella originaria si deb®b®
riconoscere in una anonima nei manoscritti. Certamente
non gli appartengono le traduzioni dei due analita0,
dei Topici e degli Elenchi sofistici che gli sono attri-
BOEZIO 223
buite e che sono invece di Jacopo da Venezia (1128).
(Nel secolo XIII si ricordano altre versioni boeziane di
Aristotele [del De anima, della Fisica, della Metafi-
sica]; ma si ignora se fossero sue). Boezio compose due
commenti per l’Isagoge di Porfirio ; uno, in due libri,
più elementare, seritto (prima del 505) in forma dia-
logica è condotto sulla versione di Mario Vittorino ;
l’altro, più approfondito in cinque libri, in forma siste-
matica (composto prima del 510), inelude la traduzione
dell'autore. In questi due commenti Boezio si servì di
quelli di autori neo-platonici. Il commento alle Cate-
gorie in quattro libri fu seritto nell’anno del consolato
(510). Anche per il De interpretatione Boezio serisse due
commenti : il primo, in due libri, è destinato ai princi-
pianti, il secondo (composto dal 507 al 509) in sei, è
molto più esteso e costituisce l’opera logica più impor-
tante dell'autore, che si è servito principalmente di
Siriano e di Porfirio. Boezio compose anche un com-
mento ai Y'opiei di Cicerone, che però manca dell’ultima
parte. Scritti logici originali sono i seguenti : Introductio
ad categoricos syllogismos, De syllogismo categorico, De
syll. hypothetico, De divisione, De differentiis topicis. Boe-
zio lavorò di suo specialmente nel De sill. hyp., in due
libri, perchè le fonti precedenti gli davano ben poco
aiuto. Il De definitione che gli è attribuito spetta a Ma-
rio Vittorino. Il De unitate, che pure portava il suo nome,
è di Domenico Gundisalvi (secolo 12°). Alcuni seritti
che pare abbia composto si sono perduti (Sulla fisica.
Categorica institutio. De ordine peripateticae disciplinae.
Questioni sulle categorie. Un compendio del De inter-
pretatione). Oltre alle versioni perdute di seritti aristo-
telici già ricordate, sembra perduto anche un Com-
mento agli analitici. Si è molto contestata l’autenti-
cità di alcuni trattati teologici che portano il nome di
Boezio (De sancta Trinitate. De persona et duabus ‘na-
turis in Ohristo contra Eutychen et Nestorium. Utrum
Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate sub-
stantialiter praedicentur. Quomodo substantiae in se quod
sint bonae sint, cum non sint substantialia bona [o Liber
224 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
de Hebdomadibus]. De fide christiana); ma ormai per
i primi quattro sono cessati i dubbi. Generalmente
si ritiene apocrifo il De fide catholica, che però trova
difensori. Questi scritti si assegnano agli ultimi anni
di Boezio e la loro autenticità è prova del suo
eristianesimo.
Mentre negli scritti ricordati è usato uno stile tecnico,
carattere letterario ha quello dell’ultima opera boeziana,
il De consolatione philosophiae, in cinque libri, composta
da Boezio mentre era tenuto in custodia a Calvenzano.
In questo scritto, misto di prosa e di versi sul genere
delle Menippee, la filosofia appare a Boezio e, «dopo
averlo indotto a narrare la storia delle sue sventure,
cerca di confortarlo coi luoghi comuni dei protrettici ;
poi gli mostra che ogni cosa è governata dalla Provvi-
denza a fini buoni, sicchè l’uomo deve sperare in Dio
e rivolgergli preghiere, perchè conduce tutta la sua vita
sotto i suoi occhi. Sebbene il De consolatione non con-
tenga teorie effettivamente inconciliabili con la fede
cristiana, anzi si possa accordare completamente con
essa, non accenna all'insegnamento del Vangelo; ma
ciò non prova che Boezio non fosse sinceramente eri-
stiano, perchè in quello scritto voleva trattare le que-
stioni coi soli mezzi offerti dalla filosofia.
La Consolatione appartiene al genere consolatorio
iniziato da Aristotele col Protrettico e introdotto nella
letteratura romana da Cicerone con l’Ortensio. In parte
dipende dall'opera aristotelica e inoltre da Posidonio ;
questi influssi si ritengono mediati da qualche fonte più
recente, che' però non si dovrebbe ricercare, come si
era pensato, nello seritto di Cicerone.
Il pensiero di Boezio presenta due aspetti, filosofico
l’uno, teologico l’altro (per brevità si denomina teologia
quella che parte dalla rivelazione) ; per l’una appartiene
al mondo antico, per l’altra al cristiano, perciò è stato
chiamato sia l’ultimo dei filosofi romani, sia il precur-
sore degli scolastici. Occorre però non dimenticare che
le concezioni filosofiche di Boezio si debbono ricercare,
BOEZIO 225
oltrechè nella Consolazione, anche negli seritti teologici,
In ogni modo è certo che, precorrendo la Scolastica,
egli distingue recisamente le sfere della conoscenza na-
turale, cioè della filosofia, da quella della fede ossia dalla
teologia, pure assegnando alla prima l’ufficio di inter-
pretare il dogma (che essa deve accogliere dalla seconda)
e di mostrare che è in accordo con le esigenze della ra-
gione. Nella sfera propriamente filosofica, Boezio si
dichiara platonico, ma in realtà egli dipende da Aristo-
tele anche più che da Platone e accetta dottrine medio e
neo-platoniche e stoiche, sicchè espone una dottrina
aristotelico-platonica (del resto mirava a dimostrare
l'accordo sostanziale delle die filosofie) con carattere
eclettico. Occorre osservare che l’interpretazione ne è
resa difficile dal diverso significato che egli attribuisce
alle stesse parole anche se designano concetti fonda-
mentali. Nella divisione delle discipline filosofiche di
carattere teoretico (che distingue da quella pratica),
Boezio riprende l'insegnamento di Aristotele e lo tra-
smette alla Scolastica. La fisica ha per oggetto esseri
individuali risultanti di forma e di materia e in movi-
mento ; la matematica fa astrazione dalla materia di
talî esseri e ne considera soltanto le forme, che sono
immobili ; la teologia (modernamente la metafisica) ri-
guarda l’Essere Divino, pura forma separata da ogni
materia e immobile. Questa divisione include alcune
delle dottrine più importanti di Boezio, soprattutto le
concezioni aristoteliche di forma e di materia, che egli
accetta senza discussione; del resto, spesso procede
nello stesso modo anche perchè accoglie come nozioni
comuni (o assiomi) le proposizioni che, a suo parere,
sono ammesse e principalmente dai docti. L'interesse
di Boezio si concentra sulla metafisica, perchè il cuore
della sna dottrina è il concetto di Dio. Stando, come egli
afferma, alla concezione comune degli uomini (secondo
la quale nulla si può pensare che sia migliore di Dio),
Boezio identifica questo al Sommo Bene, o alla per-
fezione, o alla felicità. Tale identificazione era stata
fatta, prima che dal Neo-Platonismo, da Teofrasto, che
vo e
‘ afferma che ogni altro essere (essenza) proviene dalla
226 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
aveva inteso l’Idea del Bene come la Divinità, Il Sommo
Bene è poi identificato all’Uno. È così ripresa una teoria
dell'ultima filosofia di Platone e del Neo-Platonismo,
ima Boezio cerca di giustificarla a modo suo. In ogni
modo egli intende Dio non come il primo principio
impersonale del Neo-Platonismo, ma come una perso-
nalità attiva, che si avvicina al Demiurgo del “'imeo
(altre affinità si vedranno poi), dal quale però differisce
perchè ha le Idee non sopra di sè, ma nella propria mentè.
Platonica è pure l'affermazione che l'eternità propria
di Dio è un presente immutabile : in esso Dio contempla
con una visione semplice e indivisibile tutto ciò che
fu, è e sarà. Per provare l’esistenza di Dio, Boezio ado-
pera vari argomenti, che derivati da fonti più antiche,
dovevano essere ripresi anche in seguito, specialmente
dagli scolastici. Uno, derivato essenzialmente dallo seritto
giovanile Sulla filosofia di Aristotele afferma che se
esistono gradi di bontà nelle cose, deve esistere un bene
sommo, cioè Dio. Un altro, che pure si trova nello stesso
seritto aristotelico e che è stato spesso ripreso in seguito,
prova la esistenza di esso per mezzo dell’ordine unitario
dell'universo. Egli accenna anche all'argomento, di ori-
gine aristotelica, che stabilisce la necessità di porre la
prima sorgente di ogni mutazione e di ogni movimento
in un motore immobile. Sotto questo aspetto il Dio di
Boezio ha caratteri aristotelici, Dio è pura forma senza
materia, ossia è il puro essere in quanto essenza (infatti,
esse, salvo nel secondo Commento a Porfirio, in cui de-
signa l’esistenza, equivale all'essenza). te è l’unica
vera forma e non è un’immagine di essa. È chiaro che
così è ripresa la teoria platonica che vede nelle cose
soltanto le immagini delle Idee ; quindi quando Boezio
forma o essenza divina, vuol dire che nelle cose diverse
da Dio si trovano i riflessi di quelle essenze che si rac-
colgono in unità semplice e indivisibile nel loro prin-
cipio. Perciò egli può parlare del fluire di ogni altro essere
da Dio e della partecipazione di questo da parte di quello,
senza intendere tali espressioni nel senso di quel pan-
BOEZIO 227
teismo che esplicitamente condanna. Egli può infatti
sostenere che la Divinità non può espandersi nelle cose
esterne nè accogliere in sè alcuna di esse, perchè le
essenze 0 forme di queste sono soltanto immagini di
quelle che costituiseono la prima. Le (cosidette) forme
di cui parla Boezio sono gli universali (generi e specie)
di cui si occupa nei due Commenti a Porfirio. Nel se-
condo, che è molto più importante, non si pronuncia
tra Platone, che aveva ammesso l’esistenza di universali
(Idee) fuori delle cose e di Aristotele, che aveva inse-
gnato che essi esistono soltanto in queste, sebbene in
complesso mostri di preferire la soluzione aristotelica,
che espone anche nelle opere posteriori. Però negli es-
seri individuali egli ritiene esistere non le forme vere e
proprie (come Aristotele), bensì imitazioni di esse. Le
differenze degli esseri individuali diversi da Dio dipendono
dai loro accidenti, determinati dalla materia, che in
essi è sempre unita alla forma. Ma, come si è visto,
Boezio parla di tale unione per gli esseri corporei : inol-
tre egli afferma che quelli incorporei non hanno un fon-
damento nella materia. Non si vede quindi come possa
ammetterne altri oltre Dio, e ritenere che sono incor-
porei Dio e l’anima e, come si vedrà, altri esseri. L’azio-
ne creatrice di Dio, padre di tutte le cose, consiste dunque
nell’imprimere le immagini delle forme nella materia,
portando così all'esistenza gli esseri individuali. Siccome
Boezio non dice che abbia creato la materia dal nulla,
pare che la consideri inereata ; e con ciò si accorda il
fatto che sembra ammettere che il mondo non abbia
avuto un principio nel tempo, ossia che, pure non es-
sendo eterno, sia perpetuo. Quanto agli esseri spirituali
di cui Boezio parla (l’Anima Cosmica, la Natura, gli
spiriti motori delle stelle, gli angeli, i demoni, le anime
umane), presenta difficoltà l’esistenza di quelli che,
come gli angeli, probabilmente i demoni, certamente .
le anime degli uomini che sono immortali, nella vita
che precedeva questa e in quella che la seguirà, sono
pensati privi di corpo e quindi di materia. In ogni modo,
queste concezioni di Boezio si conformano alle opinioni
i dint
228 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
dominanti nell'età sua e ad esse e a quelle di Platone,
corrisponde il cenno che riguarda le pene dei malvagi
dopo la morte. Come il Demiurgo platonico, il Dio di
Boezio ha per la sua bontà creato il mondo e ha cercato
di renderlo bello come il modello che ne aveva in mente ;
egli governa con la bontà tutte le cose che volentieri gli
obbediscono e sono rivolte al bene, perchè, essendo
ereate da Lui, sono buone. Dio, sebbene onnipotente,
non può fare il male, che perciò è un nulla (nihil est
quod ille [Deus] non possit... malum igitur nihil est,
cum id facere ille non possit). Dio tutto governa con
una legge perpetua e immutabile che è, secondo il modo
in cui viene considerata, la Provvidenza o il fato. La
prima, che si identifica con la ragione divina, è l’ordina-
mento delle cose nella sua unità semplice ; il secondo è
l’esplicazione nel tempo di quell’ordinamento (in quan-
to inerente alle cose particolari in mutamento e in suc-
cessione) nella molteplicità delle sue determinazioni, Per-
ciò il fato non può mai venire in contrasto con la Provvi-
denza, da cui dipende ; e mentre tutto ciò che sottostà
al fato obbedisce alla Provvidenza, aleune cose che sono
rette da questa (quelle cioè che più si avvicinano alla
semplicità e alla immutabilità divina) superano il domi-
nio di quello, che però tutto governa nei cieli e in terra
e costringe nel nesso indissolubile delle cause anche le
azioni e le fortune degli uomini. Non esiste il caso, che
questi, nella loro ignoranza delle cose, ritengono gover-
nare il mondo. L’accentuazione della Provvidenza e del
fato rivela influssi stoici, la loro distinzione riporta
a teorie del Platonismo Medio (Pseudo-Plutarco, De
jato) e ai loro sviluppi neo-platonici. La Provvidenza
divina, che è prescienza del futuro, non esclude la li-
bertà del volere che appartiene necessariamente a ogni
natura razionale e che è tanto maggiore quanto più
l’anima s'immerge nella contemplazione di Dio, tanto
minore quanto più si lega al corpo e si annulla quando
sì abbandoni ai vizi. Per la sua debolezza, la nostra
mente non riesce a comprendere che quella di Dio, che
“ per la sua eternità immutabile contempla ogni cosa in
BOEZIO 229
un presente indivisibile, possa conoscere in modo neces-
sario (come è tutto ciò che avviene quando avviene)
anche ciò che è contingente e abbracciare con una sola
visione quanto per noi si svolge nel tempo sénza privare
della loro libertà le azioni umane, nello stesso modo che
un uomo, che vede altri agire, non rende così necessari
i suoi atti. Questa teoria, che riprende pensieri di Pro-
celo e che ha avuto lunghi sviluppi fra gli scolastici,
trascura il punto decisivo che per Boezio la Provvi-
denza è essenzialmente l’ordine necessario e immuta-
bile delle cose tutte, e quindi anche delle azioni umane,
Si pensa che la vita degli uomini sia governata dal
caso, perchè l’esperienza mostra che spesso i buoni
sono infelici e i malvagi felici e ciò non sarebbe possibile
se la Provvidenza governasse il mondo ; ma questa con-
vinzione proviene da una errata visione delle cose. Per
desiderio naturale tutti gli uomini aspirano alla felicità,
ossia al sommo bene, che include tutti gli altri, quel
bene oltre il quale nulla si può ricercare; ma come si
è visto, esso si identifica a Dio, in cui risiede la felicità,
perciò gli uomini la conseguono partecipando di Lui
e così assomigliandogli. Ora, conseguendo il bene che
desiderano, gli uomini diventano buoni, quindi sono
felici e la stessa bontà è il loro premio, siechè sono sempre
ricompensati, mentre i malvagi, che non conseguono
il bene cui aspirano, sono infelici e sono sempre puniti,
perchè la pravità costituisce la loro pena. Non sono
uomini, ma bestie e, avendo perduto la loro natura essen-
ziale, non sono affatto.
Riprendendo motivi del Gorgia platonico Boezio so0-
stiene che i malvagi non sono potenti, ma deboli, perchè
la capacità di fare il male è impotenza, che tanto più
sono infelici quanto più conseguono ciò che desiderano
e che infelicissimi sono coloro che rimangono impuniti
delle loro colpe. Occorre non odiarli, ma compiangerli,
perchè la loro mente è colpita dalla peggiore delle ma-
lattie, la malvagità. Per convincersi che i lamenti che
si fanno sull’immeritata sorte degli uomini, sono ingiu-
stificati, occorre anche ricordare ehe la fortuna è in-
MPI Cari
230 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
stabile per natura, sicchè bisogna diffidare di essa, com-
prendere che i suoi doni non rendono buoni gli uomini
e che le cose esterne non sono veri beni e non rendono
l’uomo felice (Boezio si diffonde molto su questa tesi,
resa popolare dallo Stoicismo). Si aggiunga che la for-
tuna avversa è utile all'uomo, perchè la rivela nella
sua natura instabile e gli fa distinguere i veri amici, che
per la debolezza della nostra mente male possiamo giu-
dicare chi sia buono, chi malvagio, che Dio sapiente-
mente assegna all’uno e all’altro ciò che più gli conviene,
che quelle che riteniamo ingiustizie del fato sono condi-
zioni necessarie del bene di ciascuno, che Dio può va-
lersi del male per il bene. In conclusione, ogni fortuna
è buona; tutto è bene per i buoni, è male per i mal-
vagi. L'uomo quindi deve confidare in Dio e rivolgersi
a Lui con preghiere, combattere i vizi ed esercitare le
virtù. In questa teodicea boeziana abbiamo ricordato
rapporti con Platone e con lo Stoicismo ; nell’insieme,
si avvicina fortemente a quello di Proclo.
L’influsso esercitato da Boezio sul pensiero medio-
evale fu vastissimo e profondissimo, tanto che si è po-
tuto dire che la sua autorità è stata pari a quella di Ari-
stotele e di Sant’ Agostino. A lui principalmente la Scola-
stica si rivolse per conoscere le scienze matematiche del-
l’antichità. Sino al secolo XII l'Occidente ha attinto
alle sue traduzioni e ai suoi commenti la conoscenza della
logica e agli altri suoi scritti quella di alcune tesi essen-
ziali dell’Aristotelismo, tesi che talvolta dovevano de-
terminare importanti sviluppi da parte dei maggiori
‘seolastici, non tutti interpreti fedeli del suo pensiero.
Inoltre egli ha fatto conoscere dottrine significative del
Neo-Platonismo e dello Stoicismo. Come traduttore e
come commentatore ha offerto agli scolastici modelli
che sono stati imitati; come scrittore, ha iniziato la
formazione della terminologia filosofica latina. Il suo
Commento di Porfirio ha dato lo spunto alle discussioni
sugli universali. Numerosi scolastici (e fra essi alcuni
dei maggiori, come Giovanni Friugena e S. Tommaso)
hanno commentato i suoi trattati teologici e, anche più
BOEZIO 231
numerosi commentatori ha avuto il De consolatione (per
es. Giovanni Eriugena, Guglielmo di Conches, Pietro
di Ailly...). Quest'opera fu tradotta nelle lingue di quasi
tutti i popoli civili. Il re Alfredo d'Inghilterra (m. 901)
ne scrisse una versione in anglosassone, Notker Labeone
di S. Gallo (m. 1022), in tedesco, Giovanni di Meung
(m. 1318), in francese, Massimo di Planudes (m. 1310)
in greco. Ne esiste anche una traduzione in ebraico. Un
ignoto pisano nell’inizio del secolo XIV e Alberto della
Piagentina, detto Alberto Fiorentino, nel 1332 la volsero
in italiano, seguiti poi da A. Tanzo (Milano 1520) e
da B. Varchi (Firenze 1550) e da altri. Il Leibniz la pa-
rafrasò brevemente in francese. L’opera boeziana trovò
nel Medio Evo numerosi imitatori’ (per es. Pietro da
Campostella, secolo XII, Arrigo da Settimello, circa
1198, Albertano da Brescia, see. XIII, Giovanni da
Tambach, 1288-1372, Matteo di Cracovia vescovo di
Worms, m. 1410, Giovanni Gerson, 1363-1429). Per se-
coli, molte anime afflitte si rivolsero per conforto allo
scritto boeziano : basterà ricordare il Convivio di Dante
(II, 12 [13], 2). In seguito però la produzione comples-
siva di Boezio perdette importanza e conservò soltanto
valore storico. Non occorreva più volgersi ai suoi scritti
per conoscere Aristotele ; e per non parlare delle opere
teologiche, dominate più da interessi dialettici che da
altro, la stessa Consolatione era troppo ricca di rettorica
e di luoghi comuni per attirare un interesse vivo. Ef-
fettivamente mancano a Boezio il senso intenso del
dolore e della miseria degli uomini e l’esigenza viva del-
l’amore universale che caratterizzano i maggiori stoici
dell’età imperiale ; soprattutto non è traccia in lui della
consapevolezza tragica del male e del peccato e della
rovente passione religiosa di Sant'Agostino, che nelle con-
dizioni in cui era Boezio quando scriveva la Consolatione -
non avrebbe nemmeno un istante pensato a cercare
conforto nelle fredde dottrine filosofiche dell’antichità.
La filosofia di Boezio, priva di esigenze critiche e di
pensieri originali, cerca di collegare motivi attinti a
fonti diverse in un insieme che possa accordarsi con la
fede cristiana; ma egli non riesce a fondere davvero
gli elementi che adopera e ad animarli di vita nuova.
È innegabile però che a differenza dei suoi predecessori
si è interessato soprattutto dei maggiori pensatori del
passato, Platone e Aristotele, e ha sentito il bisogno di
affrontare alcuni dei più importanti e ardui problemi
della filosofia che prima di lui non erano stati trattati
nel mondo latino.
CONCLUSIONE.
Chi, occupandosi della filosofia romana, si limiti,
come di solito avviene, a considerarne i rappresentanti
maggiori, è portato a giudicarla una semplice deriva-
zione della greca 0, al più, quasi un innesto di un ger-
me di questa sul tronco latino che vi ha impresso il
carattere proprio di una accentuata praticità. La men-
talità romana, si afferma, non possedeva vere attitudini
filosofiche ; perciò nell’Urbe e nel mondo latino la filoso-
fia rimase sempre una pianta esotica, un oggetto di lusso,
che poteva attirare la curiosità di alcuni individui e
anche di ristretti circoli intellettuali, ma non doveva
mai penetrare molto a fondo nella cultura e nella vita.
Però questo giudizio non appare più giustificato, quando
da una parte si osservano da vicino le condizioni storiche
dello svolgimento della filosofia romana e dall'altra tutti
i cultori delle ricerche filosofiche del mondo latino. Come
si è osservato, lo spirito romano da prima si è rivolto
alla speculazione greca perchè questa corrispondeva alle
sue intime esigenze e in seguito si è venuto svolgendo
parallelamente ad essa, perchè era dominato dalle stesse
preoccupazioni che si imponevano a questa. Se poi si
tiene conto di tutti coloro che nel mondo romano si sono
oceupati di filosofia : i veri e propri filosofi, maggiori
e minori, gli studiosi di discipline diverse che nelle loro
opere mostrano di aver subito l'influsso di essa, gli uo-
mini che, pur non avendo esplicato attività letteraria,
hanno provato interesse per tali ricerche, si deve rico-
noscere (se arbitrariamente non si nega carattere filo-
sofico a tutte le ricerche che oltrepassano i limiti della
gnoseologia e della metafisica) che a Roma e nel mondo
latino, la filosofia ha trovato cultori tanto numerosi da
infirmare la validità delle opinioni correnti. Si può dire
che in pochi periodi storici ha suscitato un interesse
così vasto e così vivo ; ora, ciò non sarebbe stato possi-
234 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA
bile se non avesse risposto a esigenze profonde e since-
ramente sentite. E questo non è tutto. Il mondo romano
presenta un fatto unico nella storia del pensiero occiden-
tale, cioè, che salvo rarissime eccezioni, i cultori della
filosofia sono stati uomini d’azione che hanno parteci.
pato come militari, statisti, amministratori (senatori,
questori, pretori, consoli, più tardi funzionari e consì-
glieri degli imperatori) alla vita dello stato, e a tale
fatto se ne collega un altro, che coloro che hanno com.
posto scritti filosofici, hanno quasi sempre coltivato
altre discipline, letterarie, scientifiche, tecniche. Da tutto
ciò risulta che la filosofia, da una parte ha permeato
di sè tutta la cultura romana, dall’altra che è penetrata
bene addentro nella vita, alla quale si è strettamente
congiunta. Queste osservazioni permettono di valutare
equamente l'ufficio compiuto dalla filosofia romana nella
storia dell'umanità.
Considerata sotto l’aspetto rigorosamente teoretico,
essa non presenta nè grandiosi sistemi concettuali, nè
pensieri nuovi e originali, ma le stesse cose debbono
ripetersi per quella greca, dall’inizio dell’età ellenistica
sino alla fine della civiltà antica, con due eccezioni, da
una parte la costruzione di Plotino (che del resto rimane
eclettica e deve il segreto del suo fascino soprattutto
all’intensa vita spirituale che la pervade), dall'altra, la
eritica gnoseologica dello Scetticismo. Ma sarebbe in-
giusto limitarsi a giudizi di tal genere e non considerare
che il pensiero romano possiede altri significati e ha
compiuto altre e importantissime funzioni e, prima di
tutto, una grandiosa funzione culturale. Esso infatti
fece penetrare nel mondo della cultura occidentale la
conoscenza della filosofia greca e poi della filosofia in
generale, e fece sì che tutti gli spiriti non volgari sentis-
sero forte e viva l’esigenza di non rimanere chiusi alla
sua voce: come si è accennato, si può dire che, più
o meno, tutte le persone colte si occupassero di studi
filosofici. Più tardi, nell’età medioevale il pensiero greco
fu per molto tempo conosciuto soltanto nelle esposizioni
e interpretazioni latine che per molte persone rimasero
CONCLUSIONE 235
la principale fonte anche quando i testi aristotelici fu-
rono noti in versioni dirette : basterà ricordare l’interesse
provato dagli uomini del Rinascimento, dal Petrarca
in poi, per Cicerone. Si può aggiungere che nell’età
moderna numerosi uomini colti, ma non dotti di profes-
sione, ebbero notizia della filosofia ellenica soltanto
attraverso gli scrittori di Roma. Inoltre, questi ci fanno
conoscere non poche dottrine greche di cui sono sparite
le esposizioni originali. E non si deve tacere che dalle
dottrine filosofiche che gli scrittori latini avevano at-
tinto allo Stoicismo, i giuristi romani derivarono la con-
cezione di un diritto naturale e razionale, ugualmente
valido per tutti gli uomini,
Ma anche più importante è un’altra funzione compiuta
dai filosofi romani: quella di avere elaborato due vi-
sioni della vita e dei suoi ideali che hanno esercitato
attraverso i secoli un’azione che ancora non è finita.
Per i romani la filosofia doveva essere soprattutto gui-
da e maestra di condotta ; ciò spiega perchè la determi-
nazione dell’ideale della vita dovesse interessarli tanto
fortemente. Cicerone costruisce l’ideale aristocratico del-
l’humanitas, intesa come libera e armonica formazione
di personalità superiori; ma di fronte agli sconvolgi-
menti e alle crisi dell'età successive, quell’ideale cede il
posto all’altro, dell'amore universale per tutti gli uo-
mini, tutti uguali per natura, tutti infelici e destinati a
un inevitabile dissolvimento ; e questa concezione incon-
sapevolmente si avvicina assai, sotto certi aspetti, al- al-
l'insegnamento dei Vangeli che poi rimase il solo ad imporsi agli uomini. Nel Rinascimento l’ideale dell’hu- manitas risorse e dominò di nuovo gli spiriti superiori, anche se essi affidavano alla religione l’ufficio di diffon- dere l'insegnamento dell'amore. Però, sul piano pura- mente umano, fra i due ideali doveva sorgere quel con- flitto che in un’età più recente ha ricevuto il nome di contrasto di individualismo e di universalismo, contrasto che potrà cessare soltanto quando si affermerà che l’amore per tutti gli uomini implica l’esigenza che a ciascuno di loro siano dati i mezzi per svolgersi -libera- er ii ic i a» mente come personalità autonoma. Una filosofia che ha ti - elaborato tali ideali di vita ha scritto nella storia del- l'umanità pagine che sarebbe leggerezza o peggio non apprezzare degnamente. NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE INTRODUZIONE. Per la cultura ellenistico-romana : J. KAERST, Ge- schichte des hellenistischen Zeitalters. IT. 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PLAS- BERG, 2% ed. 1932). — Molte opere retoriche e filosofiche, curate da diversi, sono state pubblicate (testo e tradu- zione) nella « Loeb Classical Library » ( Heinemann, Lon- don) e nella « Collection des Universités de France » (Les Belles Lettres, Paris). Nella prima: Brutus by G. L. HENDRICKSON ; Orator by H. M. HuBBELL, 1939 ; 242 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA Laws and Republic by C. W. Keves, 1928; De finibus by H. RackHam, 1914; Tusculan Disputations by J. E. KinG, 1927; De natura deorum. Academica by H. RacKHam, 1933; De senectute. De amicitia. De divina- tione by W. A. FALCONER, 1923 ; De officiis by W. Mrr- LER, 1914. Nella seconda: De l’Orateur, voll. I-II par E. CourBauD, 1922-1927; III par H. BORNECQUE et _E. CourBAUD, 1930 ; Brutus par J. MARTHA, 2 ed. 19831 ; L’Orateur par H. BorNECQUE, 1921; Divisions de Vart oratoire. Topiques par H. BORNECQUE, 1924 ; Des Termes Extrèmes des biens et des maux par J. MARTHA, 2 voll., 1928-1930; Tusculanes par G. FoHLEN et J. HUMBERT, 1931; Caton lVancien par P. WUILLEURMIER, 1940; Traité du Destin par A. Yon, 1933; L’Amitié par L. LaurAND, 1928. — Edizioni parziali : Rhetorica, rec. A. S. Wixkins, Oxonii, 2% ed. 1935. Scripta philosophica: Paradora Stoicorum. Academicorum reliquiae cum Lucullo. Timaeus. De natura deorum. De divinatione. De fato ed O. PrasBERG, Lipsiae, 1908-1911. — Edizioni di opere singole: De re publica di C. PAscAL, Augustae Taurinorum, 1916; di L. CAastIGLIONI, ivi, 1935 (trad. e commento di G. H. SABINE-S. B. Swan, Columbus, 1929) ; Somnium Scipionis, di K. ArzERT, con commento, Breslau, 1928; De legibus di J. VAHLEN, 2% ed. Berolini, 1883; Para- doxa, Stoicorum. De legibus di Tn. ScHioKe, Vindobonae- Lipsiae, 1913; Academica di J. S. Rem, London, 2% ed. 1885; De finibus di J. N. Mapvie, 3% ed. New York, 1882 ; di J. $. Retp, in 3 parti, Cambridge, 1885 (Il. 1-II, 1925); Tusculanae Disputationes di T. W. DouGAN e R. M. Henry, con introd. e commento, 2 voll., Cam- bridge, 1905-1934; di O. Hrine-M. POHLENZ, 2 voll., Lipsiae, 5% ed. 1912-1929; De natura deorum di: Jo. Bi Mayor, con introd. e commento, 3 voll., Cambridge, 1880-1885; Cato maior de senectute di K. SimBEcK, Lip- siae, 1912 (ed. critica fondamentale); di F. S. Moore, New York, 1904; De divinatione di A. St. PEASE, con commento, 2 voll., Urbana (Ill.), 1920-1923; Laelius de amicitia di St. G. Stock, con intr. e note, Oxford, 1893; di TH. ScHICHE, 2% ed., Lipsiae, 1894 (1920); di NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE 243 F. Ramorino, con commento, 3% ed., Torino, 1908; De ojficiis di H. A. HoLpEN, con intr. e commento, Cambridge, 8% ed. 1899; di R. SABBADINI, con com- mento, Torino, 2% ed. ristamp. 1929. Studi : T. PetERSSON, Cicero, a Biography, Berkeley, 1920. R. HeLwm, Cicero. Sein Werk im Rahmen seines Lebens, Rostock, 1922. O. PLASsBERG, Cicero in seinen Werken und Briefen, Leipzig, 1926. E. CIACERI, Cice- rone e i suoi tempi, 2 voll., Roma, 1926-1929. 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G. GENTILE, Studi sullo Stoicismo Romano del I secolo d. C., I, Trani, 1904. CornuTo : Edizione : C. theologiae graecae compen- dium, rec. C. LANG, Lipsiae, 1881. PERSIO : F. VILLENEUVE, Essai sur Perse, Paris, 1918. CH. BURNIER, Le réle des satires de Perse dans le dévelop- pement du meostoicisme, La Chaux-de Fonds, 1909. Lucano : Fr. OrTTL, Lucanus'® philosophische Wel- tanschauung, Brixen, 1888, Pr. ì GIOVENALE: R. ScuuETZzE, Iuvenalis ethicus, Gry- phiae, 1905. NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE 245 Tacito : F. ARNALDI, Le idee politiche, morali e re- Vigiose di Tacito, Roma, 1921. SeNECA : Edizione delle opere (salvo le tragedie) nella collezione teubneriana, curata da Z. HAASE (1852 sg.), ristampata più volte. Nella stessa collezione nuova edizione in corso curata da diversi. (Vol. I, 1: Dialo- gorum U. XII, ed. E. HERMES (1905), 1923; 2: De beneficiis. De clementia, iterum edidit €. Hosrus, 1915; II: Natur. Quaestionum U. VIII, ed. A. GERCKE, 1907 ; III : Epistulae morales, iterum ed. O. HENSE, 1914. Non è stato ancora pubblicato il v. IV: Fragmenta. Indices. Lo sostituisce il Supplementum edito da F. HAASE (1853, 1902). Nella « Loeb Classical Library » (con trad. inglese) : Moral Essays by J. W. BASORE, 3 voll., 1928- 1935; Epistolae by R. M. GuMmMERE, 3 voll., 1917-1925. Nella « Collection des Universités de France » (con trad. francese): Dialogues. I.: De la colère par A. BOURGERY, 1922 ; II: De la vie heureuse. De la brièveté de la vie par A. BourGERY, 1923 ; III : Consolations par R. Warz, 1923; IV: De la Providence. De la constance du sage. De la tramquillité de lame. De l’oisivèté par R. Warz, 1927. — De la clémence par F. Précmac, 1921; Des bienfaits, par F. PrécHAC, 2 voll., 1926-1927 ; Questions naturelles, par P. OLTREMARE, 2 voll., 1929; L’Apoco- loquintose par R. WALZ, 1934. — Edizioni di opere sin- gole : De otio par R. WaLZ, con commento, Paris, 1909 Dialogorum U. X-XII di J. D. Durr, Cambridge, 1915 ;* Dialog. 1. VI Ad Marciam de consolatione di CH. FAvEZ, con commento, Paris, 1928; Dialog. l. XII Ad Helviam de consolatione di CH. FAvEZ, con commento, Paris, 1918 ; De la clémence di P. FAIDER, con commento, Paris, 1928 ; Della tranquillità dell’anima. Della brevità della vita di L. CASTIGLIONI, con traduzione, Torino, 1930 ; Epistulae di A. BELTRAMI, 2 voll. (1916-1927), Roma, 1937; Apocolocyntosis di W. B. SEDGWICK, Oxonii, 1925 (unito a Petronio); di A. RostaGnI, con traduzione, Torino, 1944, Tragedie : di Fr. Leo, 2 voll., Berlin, 1878-1879; di 9*. 246 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA R. Priper e G. RicutER, Lipsiae, 2% ed. 1902 ; rist. 1937; di L. H. HERMANN, con trad., 2 voll., Paris, 1924-1926. — Epistulae Senecae ad Paulum et Pauli ad Senecam, ed. C. W. BARLOW, Romae, 1938. Studi: C. PascaL, Seneca, Catania, 1906. F. HoL- LAND, Seneca, London, 1920. F. Russo, Seneca, I, Ca- tania, 1921. A. BAILLY, La vie de Sénèque, Paris, 1929. Les pensées de Sénèque, ivi, 1929. C. MARCHESI, Seneca, Messina, 2% ed. 1934. — K. 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VALETTE, 2 voll., Paris, 1940. Studi: E. H. Hrricnt, Apuleius and his Influence, London, 1927. TH. Sinko, De Apulei et Albini doctrinae platonicae adumbratione, Diss. philol. classis Acad. litter. Cracov. 41 (1905), pp. 129-178. CapiroLo III, 4. CorneLIO LABEONE: Edizioni dei frammenti in G. KeETTNER, Cornelius Labeo, Pforta, 1877, Pr. e J. MuEL- LENSEIN, D. 0. L. fragmentis, studiis, adsectatoribus, Diss. Marburg (Leipzig), 1889. Studi ; Oltre i due citati ora : Fr. NiccetieT, Miin- ster Diss. 1908. PaAuLY-WIssowa, IV, ce. 1837-1355, art. Cornelius (168) Labeo, di G. Wissowa. CapiroLo IV. GIULIANO : Edizioni delle opere : di W . CAVE W RIGHT con trad., 3 voll., London, 1913-1923 ; di J. BrpEez con trad., Paris, in corso (I, 1: 1932; I, 2: 1924). Studi: P. ALLarD, Julien l Apostate, 3 voll., Paris, 3* ed. 1906-1910. G. NEGRI, L'imperatore Giuliano l’Apostata, Milano, 4% ed. 1928 (18 ed. 1901). A. Ro- STAGNI, Giuliano l’ Apostata, Torino, 1920. W. 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Dick, Lipsiae, 1925. FirMico MATERNO : Edizione : Matheseos Ul. VITI edd. W. KroLt, F. Skgursca, K. ZieGLER, 2 voll. Lipsiae, 1897-1913. Studio : C. H. Moore, Julius Firmicus, der Heide und der Christ, Diss. Minchen, Leipzig, 1897. SERVIO : Edizione : SERVII GRAMMATICI — qui fe- runtur — in Vergilii carmina commentarii, rec. G. THILO et H. Hacen, 3 voll., Lipsiae, 1878 sgg. (I-II, III, 1, rist. 1922-1927; III, 2, 1902, III, 3, manca). Studio: E. Owen Warrace, he Notes on-Philosophy in the Commentary of Servius on the Eclogues, the Georgics, and the Aeneis of Vergil, New York, 1938. CapiroLO VI. Borzio : Edizione delle opere : J.-P. MIGNE, Patro- logia Latina, voll. 63-64, Parisiis, 1860. — Edizioni di opere singole : In Isagogen Porphyrii commenta.... rec. S. BranpT, Vindobonae-Lipsiae, 1906 (« Corpus Scerip- torum Ecclesiasticorum Latinorum », vol. 48); Com- mentaria in Porph. Isag., I. MAREGA cur., Romae, 1934 ; Commentarius in Aristotelis mepì tpunvelàc rec. E. MrIsER, 2 voll., Lipsiae, 1877-1880, De institutione arithmetica Il. duo; De institutione musica Ul. quinque. Ae- cedit geometria de fertur Boetii ed. C. FRIEDLEIN, Lipsiae, 1867; B. Philosophiae consolationis Il. quinque. Acce- duni eiusdem atque incertorum opuscula sacra, rec. R. PerI- PER, Lipsiae, 1871; The theological Traciates with the Consolation of Philosophy, ed. by H. F. StEwaRT and E. K. Ranp, con trad. inglese, London, 1918 ; De consol. philosophiae, edd. A. A. FortI Scuro et G. D. SMITA, Londini, 1925; Phil. Consolationis U. quinque... rec. G. WeInBERGER, Vindobonae-Lipsiae, 1934 (« Corpus Script. Ecel. Lat. », vol. 67). Studi : L. Cooper, A Concordance of Boethius, Cam- = e 250 STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA bridge, Mass., 1928 (« The Mediaeval Academy of Ame- rica Publications » : N. I), — T. VENUTI DE DOMINICIS, Boezio, Vol. I, Grottaferrata, 1911. H. M. BARRETTE, Boethius. Some Aspects of his Times and Work, Cam- bridge, 1940. — K. BrupERr, Die philosophischen. 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Filosofi senza indirizzo de- terminato, L- CapitoLO IV. — Il Neo-Platonismo ...... 199 j CaritoLO V.— La filosofia in Occidente negli ultimi L secoli dell'impero . .. ...... °°. CapitoLo VI. — Boezio . CONCLUSIONE NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE
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